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Italian Pages 1954 Year 1995
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GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA OPERE Introduzione e premesse di Gioacchino Lanza Tomasi I racconti, Letteratura inglese, Letteratura francese
a cura di Nicoletta Polo
Arnoldo Mondadori Editore
ISBN 88-04-40076-5
Il Gattopardo © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 1958 prima edizione 1969 prima edizione conforme al manoscritto del 1957 I racconti © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 1961 prima edizione 1988 prima edizione riveduta e ampliata, conforme ai manoscritti originali
© 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano per l’opera in raccolta I edizione I Meridiani novembre 1995 II edizione I Meridiani aprile 1996
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SOMMARIO
Introduzione
Cronologia Il Gattopardo I racconti Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
Letteratura inglese Letteratura francese Nota bibliografica Indici
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di Gioacchino Lanza Tomasi
Palermo alla svolta del secolo
Quando Giuseppe Tomasi venne alla luce, il 23 dicembre 1896, Palermo era una città molto diversa dall'attuale. I
pachidermi conventuali che accompagnano la lubrica gita notturna del principe astronomo dalla villa ai Colli fin dentro la città erano già stati secolarizzati ma il taglio della città murata non si scostava ancora molto dal suo antico aspetto feudale: un centro storico di palazzi e fondazioni ecclesiastiche, con le antiche vie degli artigiani ancora fitte di vita, e al di fuori di questo l’espandersi cauto della nuova città borghese. Questa nuova Palermo aveva il suo fulcro nei Florio, negli armatori collegati all'ascesa della loro fortuna, come i Bordonaro e i De Pace, nei Whitaker, gli im-
prenditori inglesi del Marsala, e vi era poi l’ultima generazione dei baroni, coloro che avevano acquistato i feudi
ecclesiastici dopo la secolarizzazione del 1866 ed avevano spinto l'espansione edilizia lungo l’asse della via Libertà. Una diecina di famiglie riceveva ancora nei propri palazzi, regolarmente i Lanza di Trabia, rinati a fortuna economica dopo il matrimonio del principe Pietro con Giulia Florio, ed i Lanza di Mazzarino, forti dei capitali lasciati loro
dal conte Francesco Paolo, una rara figura di imprenditore nella nobiltà siciliana del primo Ottocento. Ma erano pure aperti ipalazzi dei Trigona di Sant'Elia, degli Ugo delle Favare, degli Alliata di Villafranca, dei Mantegna di Gangi, dei Valguarnera di Niscemi, dei Lanza Filangeri di Mirto,
dei Papè di Valdina, dei Ventimiglia di Belmonte; ultre famiglie si erano poi costruite delle residenze ai margini del
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Gioacchino Lanza Tomasi
al figlio il nome della sua futura moglie, cui seguirà la visita della fidanzata, Fanny Valdina, accolta da Giuseppe come un dono del cielo. Nulla del dominatore in questa figura dimessa di aristocratico che si tiene lontano dalle lusinghe del mondo. Il gattopardo veggente, riverito signore di beni sconfinati, osservatore illuminato di una transizio-
ne storica, scienziato di qualche qualità, è il sogno di gloria del suo discendente, la continuazione nella fantasia ro-
manzesca della casa în cui era nato e vissuto fino alla sua distruzione. E questa casa era stata difatti opera del solo Tomasi che fosse venuto alla ribalta nella società dell’assolutismo, il principe Ferdinando Maria, due volte pretore di Palermo sulla metà del Settecento, colui che aveva in-
trodotto i Tomasi nell’agone della vita politica e sociale della capitale ed aveva rappresentato il suo potere nello splendido rocaille di un palazzo palermitano. Gli altri infatti erano stati spesso inclini alla rinunzia, inclini per volontà o per forza alla fuga dal mondo che aveva caratterizzato la vicenda della fondazione di Palma e la storia dei suoi santi secenteschi. I Tasca di Cutò — L’area materna
Il ritorno alla ribalta della società era stata invece la meta del padre dello scrittore, Giulio, e della moglie Beatrice Tasca di Cutò. Ed essi avevano partecipato a cavallo del secolo alla grande stagione della Palermo dei Florio. Beatrice aveva recato al marito una buona dote sulla quale erano state inizialmente fondate queste ambizioni. Ma Beatrice era anche un prodotto atipico dell’aristocrazia palermitana, una caratteristica che trasmetterà intatta al figlio: quella consapevolezza della provincia che deriva da una istruzione aperta ad influssi esterni, avida di letture, che finisce col rendere l'individuo partecipe ed al tempo stesso eccentrico alla società in cui vive.
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Il principe Alessandro Filangeri di Cutò, bisnonno dello scrittore, era morto nel 1854 lasciando una unica figlia legittima, Giovanna, la sola nata dopo il matrimonio con la sua amante, l'attrice milanese Teresa Merli Clerici. Al-
la morte del padre Giovanna aveva quattro anni e si aprì un periodo di torbidi relativo alla successione. Il tutore della bambina ritenne opportuno allontanare Giovanna e la madre dalla Sicilia, in attesa di una definizione delle va-
rie pendenze. Giovanna crebbe e fu educata a Parigi, da dove tornò in Sicilia nel 1867 per sposare Lucio Tasca di Almerita, erede di una recente e consolidata fortuna. Nella memoria dei nipoti, Giuseppe Tomasi ed i tre fratelli Piccolo, Casimiro, Giovanna e Lucio, la nonna
Cutò era un personaggio di favola, anche se gli aneddoti che la riguardavano derivavano dai racconti delle loro madri e zie. La nonna era difatti morta prima della loro nascita. Ma il fascino della madre, ed una educazione
francese che contrastava di molto con quella bigotta della società palermitana del tempo, a metà Ottocento sovente ancora affidata agli ecclesiastici, aveva lasciato un’im-
pronta sulle cinque belle sorelle Cutò: Beatrice madre dello scrittore, Teresa sposata Piccolo, Nicoletta (Lina) spo-
sata Cianciafara, Giulia sposata Trigona di Sant'Elia, e Maria, rimasta nubile. Le sorelle erano belle, ricche, più
istruite del consueto, spregiudicate. Come osserverà lo scrittore, Beatrice fu la prima a morire di morte naturale, mentre la morte violenta si era manifestata in tutte le sue
forme sulle tre sorelle più giovani: Lina morì sotto le macerie della propria casa nel terremoto di Messina, Giulia fu pugnalata dal suo amante Vincenzo Paternò del Cugno, Maria si tolse la vita. Quasi il fatalismo palermitano si fosse vendicato su loro, confermando che l’eccentricità non rende felici.
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L'infanzia e i ricordi
Quando nel 1955 Giuseppe Tomasi si accinge a fissare sulla carta alcune memorie della sua infanzia si sovviene di un'epoca felice in cui tutti, anche coloro che gli furono successivamente ostili, erano con lui aux petits soins. Ricorda anche gli eventi traumatici che solcarono quei suoi primi anni: l'assassinio di Umberto I a Monza e il terremoto di Messina, accanto a qualche momento felice: la Fa-
vignana dei Florio e i viaggi a Parigi. Ma la felicità si racchiude soprattutto nei luoghi: il palazzo Lampedusa di Palermo ed il palazzo Cutò di Santa Margherita Belice, questi due erano gli Eden del fanciullo. A voce gli ho sentito ricordare ancora con affetto la villa Cutò di Bagheria, di cui però non aveva quelle memorie dettagliate delle cose che derivano dalla lunga convivenza con loro, ed ancora il palazzo Tomasi di Torretta, memoria d’orrore, infestata
da quei parenti Tomasi che il padre cercava di cancellare con atti di prepotenza. Questi Ricordi d’infanzia spiegano già l'orientamento libidico dello scrittore: un attaccamento disperato alla teatralità degli edifici di cui si sente parte integrante, rivissu-
ta col dolore del distacco a cui nella particolare condizione siciliana, per volontà o per caso, è seguita la perdita definitiva. «Sarà quindi molto doloroso per me rievocare la Scomparsa amata, come essa fu fino al 1929, nella sua integrità e nella sua bellezza, come essa continuò dopo tutto ad essere sino al 5 Aprile 1943 giorno in cui le bombe tra-
scinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero.» Le date segnano le tappe della scomparsa: nel 1929 un piano del palazzo Lampedusa fu affittato all'Azienda municipale del Gas, e il 5 aprile le superfortezze distrussero oltre un terzo del centro storico. Una violenza sugli edifici che è continuata anche oltre la morte dello scrittore: il palazzo di Santa Margherita e il casino di caccia alla Vena-
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ria, prima venduti ai nemici storici dei Filangeri, sono
scomparsi nel terremoto del Belice. Questi ricordi servirono allo scrittore da studi perle parti centrali del Gattopardo, e come spesso avviene si arrestano tutti all'insorgenza della ragione. L'autore racconta quel che pensava fino ai dodici anni, quando ogni nostra responsabilità soggettiva è condonata, il concetto di peccato ancora vago e non abbiamo di che vergognarci, poi sulla biografia di Giuseppe Tomasi scende il velo del riserbo, quella timidità del raccontare la propria vita che anche nei miei confronti fu soltanto occasionalmente infranta e soltanto per cenni, squarci che aprivano improvvisamente una finestra
sulla sua vita passata, su ferite ancora aperte, su quel che si sa ma che si preferisce non confidare. I biografi di Tomasi si sono così trovati davanti a un largo vuoto di informazioni, dal 1908 terremoto di Messina al 1953, quando Tomasi si
accosta ad un gruppo di giovani nella cui memoria la sua personalità ha lasciato una traccia indelebile, legata ad una quantità di aneddotieburle che dispensavano di sottecchi la sapienza di chi è riuscito ad apprendere la scienza del mondo. Questo vuoto è stato colmato successivamente dalle attente ricerche di Andrea Vitello, Caterina Cardona, David
Gilmour. Dobbiamo a loro se molte pagine bianche sono state riempite, anche se il personaggio ha cominciato a parlare soltanto tre anni prima della sua morte, e non saremo
mai sicuri di qual personaggio egli fosse stato precedentemente, non sappiamo attraverso quali processi un aristocra-
tico deluso abbia acquisito la scienza del mondo. Tutte le testimonianze concordano sul punto che Giuseppe Tomasi sia stato e sia rimasto da adulto entro l’orbita materna. L’attaccamento della madre verso il figlio era superiore alla norma e fu causa di non pochi conflitti al
tempo del suo matrimonio. I suoi interessi culturali furono sollecitati, coltivati dalla madre fin dai primi anni,
mentre per il mondo del padre, la sua attività di sportman e uomo di mondo, la sua prepotenza di capofamiglia che
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non può più contare sul maggiorasco, il bambino avvertì un rifiuto destinato nel tempo a segnarne il carattere. L’omicidio Trigona — Il servizio militare I giorni felici dei Ricordi d’infanzia durarono poco. ALla morte della zia Lina nel terremoto seguì tre anni dopo l'assassinio della zia Giulia. Il Paternò dopo il delitto si era sparato alla tempia, ma rimase vivo, ed il processo per omicidio si celebrò a Roma nel 1912. Questo processo coinvolse la famiglia dello scrittore, in quanto la difesa,
per sostenere la tesi del delitto passionale, sottolineò come meglio poté la spregiudicatezza delle sorelle Cutò. Ne fece le spese soprattutto Maria, ma anche Beatrice ne fu toccata, e fu data per certa sui giornali una sua relazione con
Ignazio Florio. Da allora, come mi disse Giuseppe, il palazzo di via Lampedusa rimase chiuso agli estranei, e, come si diceva in società, i suoi genitori si ritirarono a vita
privata. Gli atti processuali e vari resoconti giornalistici st trovano ancora fra le carte della biblioteca Lampedusa. Giuseppe aveva allora sedici anni e stava terminando gli studi medi presso il liceo Garibaldi di Palermo. Conseguî la maturità classica nel 1914 e nel 1915 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma. I genitori speravano, e forse anche lui lo sperava, che avrebbe seguito la
via dello zio Pietro Tomasi, entrato nella carriera diplomatica, e già ministro plenipotenziario presso il re di Baviera.
Ma a Rota sosterrà soltanto l'esame di diritto costituzionale e trasferitosi all’Università di Genova nel 1920 non darà alcun esame. Giuseppe fu richiamato nel novembre del 1915. Come tutti i richiamati di buona famiglia optò per il “volontaria to di un anno”, un corso di formazione militare abbreviato e selezionato, che dava accesso ai ranghi di ufficiale di complemento. Il corso si svolse a Messina, nel maggio fu
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nominato caporale e in autunno era ad Augusta, assegnato alla batteria comandata dal tenente Enrico Cardile, un letterato con il quale stringe amicizia. Nel 1917 frequenta a Torino il corso allievi ufficiali e in settembre parte per il fronte. Si avvicinavano i giorni di Caporetto. Tomasi era assegnato ad un osservatorio di artiglieria sull'altopiano di Asiago. Quando gli austriaci avanzarono l'osservatorio rimase tagliato fuori, e Tomasi fu fatto prigioniero da una compagnia di bosniaci.
Gli amici d'infanzia Poche testimonianze ci restano sui suoi amici d'infanzia e sul primo dopoguerra. Ma è certo che il suo amore per la lettura si è consolidato attorno a quei tempi. Lettori accaniti in contatto con Tomasi furono infatti e Fulco Santostefano della Verdura e Lucio Piccolo. Fulco, secondo quanto ri-
ferivano tanto Giuseppe che Lucio, aveva rivelato al loro gruppo ifrancesi da Mallarmé e Verlaine a Valéry. Quando e perché avvenne poi la conversione di Giuseppe alla letteratura inglese non è dato sapere. Forse i sentimenti antite-
deschi che accompagnarono la guerra, 0 la curiosità di cimentarsi come Lucio su lingue non praticate nell'infanzia,
spinsero Giuseppe verso la letteratura inglese. Varie edizioni economiche inglesi della biblioteca Lampedusa sono firmate Giuseppe Tomasi di Palma e datate fra il 1919 ed il 1922. Dovettero esser anni di letture accanite e in ambiti diversi, gli anni dell'incontro con Shakespeare, Coleridge, Trollope, Joyce. Fu in questo tempo che Lucio Piccolo forgia per il cugino il nomignolo di “mostro”, riferendosi alla mostruosità delle sue conoscenze letterarie. Da altre fonti sappiamo che lo scrittore soffriva allora di un grave esaurimento nervoso e nella società palermitana cominciarono a circolare allora le voci sulla sua impotenza sessuale. Fu anche il tempo in cui egli cerca di evadere da Palermo, viag-
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giando spesso in compagnia della madre, come attestano una serie di album fotografici che ritraggono Beatrice ed il figlio in giro per l’Italia. Risiedette sovente anche a Genova ed in Piemonte, presso alcuni amici che aveva conosciu-
to durante la guerra. Erano tre, ed ancora li ricordava negli
anni Cinquanta come i migliori corrispondenti della sua misteriosa vita. Bruno Revel era stato un compagno di prigionia. Valdese di Torre Pellice, ospitò sovente Tomasi nella Villa Miravalle vicino a Torre Pellice, o a Como pres-
so il padre, pastore della locale comunità valdese, o nella sua casa di Milano, dove insegnava letteratura francese alla
Bocconi. Altra amicizia del periodo bellico fu quella con Guido Lajolo, studente di ingegneria a Genova e Torino, città dove troveremo Tomasi nei primi anni Venti. Ed infine a Genova Tomasi risiedette in casa di Massimo Erede,
un altro amico che gli ho sentito ricordare, ma di questa amicizia non sopravvive alcun documento epistolare come
per iprimi due. La guerra — La prigionia
Sulla guerra e la prigionia, che durerà un anno, Giuseppe Tomasi, come sempre quando si trattava della propria vita, parlava poco. Era questo, a ripensarci a tanti anni
dalla sua scomparsa, un tratto singolare del suo carattere. Conversatore adorabile, ricco di una aneddotica tanto varia quanto accattivante nella descrizione del prossimo, si
faceva più schivo del giusto quando la narrazione si accostava alla propria vita. E nei rari momenti di comunicazione si aveva l'impressione che ogni gioia fosse chiata da un profondo disgusto, da uno investiva la sua stessa condizione umana. «Ci ogni giorno della merda, ma essa è con noi
stata soverschifo che scarichiamo e dentro di
noi.» Osservazione biologica ineccepibile, ma che non impedisce alla maggior parte dell'umanità di non percepire
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la spiacevolezza di tale contatto. Da questa situazione usava allora evadere con l'invenzione del mondo come avrebbe dovuto essere, nel romanzesco appunto, che sapeva a sue spese quanto fosse distinto dalla verità. Premetto questa osservazione prima di riportare i dati che ci ha lasciato per la sua biografia del tempo di guerra: un cappellano militare che, appreso come i bosniaci siano musulmani, afferra un fucile e si mette a sparare all'impazzata contro gli infedeli; o le memorie della bella guerra: un giro notturno di Vienna, compresa una visita all'Opera, vestito da ufficiale austriaco, preceduto dalla contrattazione con il vero uffi-
ciale austriaco che lo accompagnava: sè, il sottotenente Tomasi non avrebbe tentato di fuggire, ma non avrebbe su ciò impegnato la propria parola d'onore. Ed ancora la prima fuga dal campo Szombathely in Ungheria, nuovamente travestito da ufficiale austriaco, e la cattura al confine svizzero, la minacciata fucilazione come disertore, fino a quando lui ed il suo compagno di evasione non furono riconosciuti come prigionieri italiani. Di certo fuggì veramente quando sul finire del 1918 l'antico impero si dissolse. Rientrò in Italia a piedi con gli sbandati, raggiunse Trieste e di lì Palermo. Nel 1919 era di nuovo in servizio a Casale Monferrato, addetto all'ordine pubblico turbato dai conflitti sociali del dopoguerra, e verrà infine congedato col grado di tenente nel febbraio del 1920. Lo zio Pietro e Alice Barbi Abbiamo lasciato Pietro Tomasi della Torretta, zio dello scrittore, a Monaco di Baviera. Nel 1917 era tornato in
Russia, dove era già stato all’inizio della carriera, e a Pietroburgo aveva incontrato la baronessa Alice Wolff, nata Barbi. Alice Barbi, figlia di un musicista, aveva studiato violino ed aveva poi intrapreso una luminosa carriera di
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cantante da camera mitteleuropea. Nel 1893 aveva incontrato alla corte di Dresda il barone Boris Wolff Stomersee, gentiluomo al seguito di una granduchessa Romanov, sposata Wettin, la famiglia regnante di Sassonia. In dicembre la Barbi dava a Vienna il suo concerto di addio, accompa-
gnata al pianoforte da Brahms. Il compositore aveva incontrato la Barbi due anni prima e ne era rimasto affascinato. Con quel concerto del 20 dicembre 1893 la Barbi abbandonò la carriera artistica e sposò Wolff da cui ebbe due figlie, Alessandra nel 1894 e Olga nel 1896.
Tomasi della Torretta e la Barbi si erano conosciuti sin dal suo primo periodo di servizio a Pietroburgo (18991903); nel 1917 Boris Wolff moriva e nel 1920 il nostro diplomatico aveva sposato a Londra la vedova, di quindici anni più anziana di lui, fatto commentato dalla malizia Cutò con l'appellativo di “la giovane Alice”, con cui la marchesa della Torretta veniva designata dalla cognata Beatrice, e negli aneddoti che la riguardavano rammentati dai nipoti Piccolo e dallo stesso Giuseppe. Nel 1922, dopo esser stato ministro degli esteri del gabinetto Bonomi ed essere stato nominato senatore del Regno, Tomasi della
Torretta veniva inviato ambasciatore a Londra. Vi rimarrà fino al 1927, quando verrà messo anticipatamente a riposo per il suo disaccordo col regime. Il viaggiatore in Inghilterra
Il primo viaggio inglese di Giuseppe Tomasi risale al 1925. Questo ed i successivi furono viaggi con lungo sog-
giorno, come gli consentiva l'ospitalità dell'ambasciata, durante i quali si dedicò a far collimare la sua Inghilterra letteraria con la realtà in cui viveva. L'inglese di Giuseppe era difatti allora una sorta di lingua morta, cioè non era una lingua parlata. I Tomasi, come buona parte della aristocrazia palermitana, erano di area triplicista, e oltre al
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francese, lingua d'obbligo dell'educazione aristocratica,
avevano ingaggiato governanti tedesche per l'educazione linguistica dei figli. La lingua straniera che Giuseppe poteva parlare correntemente era il tedesco, il che rende verosimile i travestimenti da ufficiale austriaco e la gita da prigioniero per la Vienna imperiale, e buono era anche il francese, anche se gli mancavano le espressioni gergali. Mentre il suo inglese parlato, come risulta da testimonianze londinesi del tempo, era molto impacciato, e con qualche errore di fonetica anche negli anni Cinquanta.
Ma l’Inghilterra che girò in lungo e in largo — pare anche che si fosse fidanzato in Scozia — probabilmente proprio per questo singolare rapporto da studioso adulto con il paesaggio adorato, doveva rimanere il modello di vita civile che preferiva e che più tardi cercherà di esaltare agli occhi dei suoi giovani allievi ed amici. Un approccio particolare che consisteva nel vagare per Londra ricercandovi la città di Dickens, nel visitare i luoghi degli scrittori rinvenendovi l’opera loro, e persino nell'affermare che: «Non parlo neppure della Scozia, ma in Inghilterra stessa non vi consiglio di far la corte a una ragazza senza citarle
un verso di Burns: la purezza di questo poeta le inebria a tal punto da far perdere loro il senso della purezza personale». Una tecnica però, come mi ha assicurato David Gil-
moutr, il biografo scozzese di Lampedusa, del tutto errata e destinata all’insuccesso. L'Inghilterra di Tomasi è soprattutto quella della sua oligarchia, fatto d'altra parte compatibile con una società che pur nella protesta ammette la differenza di classe; ignota gli rimase la grande area del proletariato inglese, gli agglomerati operai della prima civiltà industriale, aspetti e problemi della civiltà insulare verso i quali ebbe poca simpatia, come si evince dal suo ritratto di Bernard Shaw nella Letteratura inglese.
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Gioacchino Lanza Tomasi
Dall’incontro con Alessandra Wolff al matrimonio
I lunghi soggiorni nell'isola risalgono al 1926 e 1927, altri avvennero nel 1931 e nel 1934, ma ormai non poteva
più contare sull’ospitalità dell'ambasciata e le sue fortune personali volgevano al peggio. A Londra nel 1925 incontra anche Alessandra Wolff, la figlia primogenita di Alice Barbi che sarebbe diventata sua moglie. L'incontro è stato descritto da Alessandra (Licy) al traduttore inglese di Lampedusa, Archibald Colquhouns, e rimanda all’impressione che Francesco Orlando ebbe dei coniugi quando afferma nel suo Ricordo di Lampedusa (Scheiwiller, Milano 1963): «Sembrava che nella loro infanzia avessero letto Shakespeare anziché Salgari...». Licy riferisce infatti che lasciati soli all'ambasciata dalla madre e dallo zio, che andavano a un ricevimento ufficiale, Giusep-
pe e lei si diressero verso Whitechapel parlando di Shakespeare. La comune attrazione letteraria fu certamente po-
tente, quasi l’incontro fra due solitudini che nella letteratura avevano trovato rifugio dalla loro scarsa adattabilità alla vita corrente. Quanto Orlando ipotizzava era poi nel caso di Licy sostanzialmente vero: uno dei giochi preferiti dell'infanzia di Licy assieme alla sorella Olga (Lolette) era la recitazione di Piramo e Tisbe da parte degli artigiani nell'atto finale del Segno di una notte di mezza estate. Licy ancora rammentava con spasso la gioia infantile della imitazione del muro e della luna, e soprattutto del leone, da parte sua e della sorella che a turno si scambiavano î ruoli.
Sin da allora si era certo manifestata una potenziale affinità. I documenti rimasti rivelano il maturare degli eventi in modo saltuario. Giuseppe si reca nel castello di Stomersee presso il confine fra Estonia, Lituania e Unione Sovietica nell'estate del 1927. Il castello e la tenuta feudale dei Wolff lo impressionano vivamente e li descrive alla “giovane Alice” che dal suo incontro con Torretta non vi aveva
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messo più piede. È un primo esempio di quella ricognizione
di luoghi in cui diverrà maestro, fatto questa volta ad uso della marchesa della Torretta, che prima del viaggio gli avrà descritto una topografia precedente il saccheggio contadino del 1905. Anche lei vi aveva lasciato una parte del cuore e della vita, così come una sterminata biblioteca di canto da
camera di cui mi parlava Giuseppe e che conteneva l’opera omnia dei liederisti, da Zelter e Loewe fino a Wolf Mi sono dimenticato di dire che Licy nel 1918 si era sposata con il barone André Pilar, un altro aristocratico baltico
dal quale, al tempo dell'incontro con Giuseppe, viveva già di fatto separata. Il matrimonio rientrava, seppur con ritar-
do sui tempi, nella prassi delle unioni aristocratiche: Pilar era un lontano cugino di Licy e le loro terre erano confinanti. Negli anni Venti Pilar risiedeva soprattutto fra Riga e la Germania, era uno det pochi ufficiali zaristi sopravvissuti alle cruciali battaglie dei laghi masuriani da cui i reggimenti imperiali uscirono decimati con la conseguenza di privare il regime dei suoi quadri più fedeli. Il matrimonio era stato infelice. Pilar aveva fama di omosessuale, ed ho sentito di un periodo burrascoso passato dalla coppia in Germania, all’inizio del loro matrimonio. Licy contrasse un esaurimento nervoso, curato con l’insulina, e da quel tempo data-
no i suoi primi contatti con la psicoanalisi, che doveva diventare la professione della sua vita. Al tempo stesso Pilar era uno squisito gentiluomo e rimase sempre amico della moglie, che non mancava divisitare ogni qual volta passava da Palermo per i suoi giri di rappresentante della Geigy. Aggiungerò infine che Pilar era il solo essere vivente a cui Licy riconoscesse un diritto di autorità su di lei. L’abbigliamento singolare di Licy, composto più che altro di larghi abiti neri, in cui non mancavano macchie ed occasionali
buchi nei copricapîa turbante, prodotti dalla brace delle sigarette, era il primo oggetto dei suoi commenti impietosi. Le osservazioni andavano dalle chaussures infames, a/
vieux sac misérable, alla necessità più generale di un ha-
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billement digne d’une dame, e verzivano accolti con imprevedibile docilità, che non mancava di sorprendere lo stesso Giuseppe. Se ne sarebbe potuto desumere che nel caso del primo marito vi era stata quella intimità di rapporto che conduce alla elisione della propria personalità, il che non si era verificato nel secondo matrimonio. Nel 1930 Giuseppe e Licy si incontrano nuovamente a
Roma nella casa di Tomasi della Torretta in via Brenta. Nel 1931 Giuseppe visita nuovamente Stomersee; l’anno
seguente Licy è da gennato in casa della madre a Roma e per la Pasqua del 1932 si reca ospite a Palermo. La decisione del matrimonio si forma in questo arco di tempo. Quando Licy rientra a Riga Giuseppe le spedisce quotidianamente in Lettonia una compita lettera d’amore. Sono lettere giocate sulla tecnica della reminiscenza-evocazione,
appresa sulla lettura di Proust. Sembra che soltanto l’amico Revel sta informato di quanto va maturando, anche se, fra Roma e Palermo, i Torretta e i Lampedusa nutrono qualche apprensione. Nel frattempo Licy ha ottenuto il divorzio da Pilar, e Giuseppe ha preparato le carte per il matrimonio. Si sposerà a Riga il 24 agosto 1932. Qualche giorno dopo incontra André Pilar al circolo dei nobili di Riga. Questi gli va incontro e gli dice: «Maintenant que nous sommes presque cousins, on peut bien se tutoyer». o Un matrimonio difficile
Il giorno stesso in cui si era recato con Licy nella chiesa ortodossa di Riga Giuseppe aveva scritto al padre ed alla madre annunziando loro la sua decisione di sposare Licy. Lettere tirate col forcipe, e penose, per il suo carattere schivo e restio alla battaglia. Sperava di ricevere un telegramma di conforto. Ma cinque giorni più tardi, conti-
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nuando il silenzio, scrisse alla madre una lettera da cui
trapela la disperazione. Licy per parte sua si mostra ben più emancipata nei confronti della propria madre. Anche i Torretta furono informati a cose fatte, e si congratularono
immediatamente con la coppia, ma le richieste di ulteriori ragguagli da parte di Alice alla figlia rimasero inevase. I Torretta e iLampedusa incontrarono gli sposi in otto-
bre a Bolzano, ove si scorsero già preannunci di futuri dissapori. Beatrice non intendeva separarsi dal figlio, si oppose a che gli sposi vivessero in un appartamento separato, e
Licy pretendeva la propria indipendenza. L'insediamento a Palermo, com'era prevedibile, non si rivelò felice. Ben presto Licy ripartì per il Baltico, dove Giuseppe la raggiunse in estate e si fermò fino a inverno inoltrato. Tornò a Palermo per Natale e cercò di convincere la moglie a raggiungerlo. Licy rispose con una lettera dura, in cui a Beatrice non veniva risparmiata l’ingiuria genealogica, la nonna attrice e
la fortuna dei Tasca in sospetto di mafia, segno che nei mest del soggiorno palermitano aveva potuto fruire della passtone per la maldicenza, principale delizia della indolente vita aristocratica del tempo. Una risposta di orgoglio dinastico in cui si mettevano i punti sulle “i” relativamente a ruoli e ranghi delle rispettive famiglie. Le argomentazioni, durissime per un aristocratico siciliano del Seicento, non avevano fortunatamente pari efficacia tre secoli dopo per un suo discendente. Giuseppe incassò l’ingiuria per quel che era, la considerò uno dei tanti tratti infantili della moglie e nulla più, e si avviò su quella china del bordeggiare fra le due donne in conflitto, entrambe possessive, entram-
be gelose del proprio diritto nei suoi confronti. Separati nelle proprie terre La situazione non mutò con la morte del padre dello scrittore nel 1934. Anzi Giuseppe fu costretto dagli affari,
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la interminabile ed indistricabile causa di successione apertasi alla morte del bisnonno astronomo, a restare più a lungo a Palermo. Il periodo del suo vagabondaggio per l'Europa del decennio precedente si era concluso. I coniugi restarono quindi ciascuno legato ai propri affetti, Licy a
Stomersee ed alla psicanalisi, Giuseppe al palazzo di Palermo ed alla madre. Si riunivano un pato di volte all'anno. D'estate a Stomersee, a Natale in Italia, a Roma, dove
Licy andava ospite della madre, e per periodi più brevi a Palermo. Per il resto si scrivevano. Lunghe lettere che schivano ogni argomento propizio all’attrito. Minute descrizioni gastronomiche, osservazioni e commenti sugli
adorati cani, impressioni di viaggio, e, da parte di lui, resoconti degli incontri con comuni ed approvate conoscenze da parte di entrambi. Poche anche queste invero. Esse si restringevano al barone Pietro Emanuele (Bebbuzzo) Sgadari di Lo Monaco, il primo uomo di società a ritenere opportuno sottomettersi ad un trattamento psicoanalitico
della principessa; il barone Corrado Fatta della Fratta, storico e filosofo, un erudito che aveva per Giuseppe una
vera e propria devozione, e in un tempo quando il suo mondo lo considerava tutt'al più un isolato se non uno sciocco; un Notarbartolo di Sciara, che finirà pot psicotico,
Stefano Lanza Filangeri di Mirto, che aveva favorevolmente colpito Licy per il tedesco compito, e per il quale lei adoperava il termine baltico salonfahig, con cui quella sopravvivenza sociale della Goethezeit settecentesca, l’aristocrazia rimasta ibernata nelle regioni baltiche, usava an-
cora designare l’uomo di mondo. Ma Giuseppe conobbe in questo tempo anche un gruppo di intellettuali borghesi, variegando con ciò la monotonia delle sue giornate. Dal circolo aristocratico, il Bellini,
passava al caffè Caflisch della via Ruggero Settimo, e qui incontrava professori e magistrati: Gaetano Falzone, Vir-
gilio Titone, Enrico Merlo di Santa Elisabetta. Quanto alle lettere di Licy le più interessanti parlano di
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due singolari trattamenti psicoanalitici, svolti nelle gelate stanze del castello di Stomersee in inverno, l'uno con la
governante della casa e l’altro con un funzionario del servizio segreto sovietico. Per il resto vi si parla soprattutto di penose e lunghe malattie, reali o psicosomatiche, che avranno in lei un andamento pressoché cronico.
Il mondo esterno — La politica Ci si potrà chiedere a questo punto quale fosse l’atteggiamento di Tomasi verso la vita che lo circondava. Negli anni Cinquanta l’uomo sembrava un osservatore finissi-
mo degli eventi esterni, politici e storici, e, come soleva dire, non mancava di impancarsi a maestro. L'area, con termine di oggi, era quella di un illuminato conservatore, critico verso il ruolo svolto in Italia dall’aristocrazia nel nostro secolo, con forti convinzioni democratiche, e un rifiuto più di schieramento che ideologico per il mondo co-
munista. Ma quale fosse stato il suo passato nessuno avrebbe potuto giurarlo. Quel momento di sconosciuta felicità che derivava in lui da una inaspettata e vitale vita di relazione con una generazione più giovane, cedeva il passo a una penosa memoria ogni qual volta ci si avvicinava al suo passato. «La vita si vive a fasi» era il suo commento,
volendo intendere che era stato diverso da come lo conoscevamo, e non volendo dir come.
Cosa avesse pensato al tempo della Prima guerra mondiale nessuno saprebbe dirlo. Soltanto quella svolta verso l'Inghilterra, che sappiamo già presente alla fine del conflitto, e il modesto interesse per la letteratura tedesca contemporanea, se si eccettuano ifratelli Mann, può indicarci
il suo accostarsi agli ideali di rappresentatività del cui valore sembrava convinto, salvo a considerare come la prassi indicasse una considerevole resistenza alla loro esportazione e alla loro applicabilità in società diverse da quella di
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Gioacchino Lanza Tomasi
origine. D'altra parte era nella sua natura l'assenza di interessi speculativi, pronto a deridere le generalizzazioni teoriche con battute e osservazioni derivate dalla vita quotidiana. Non amava le fedi, e tantomeno le laiche. Mentre
André Pilar e Corrado Fatta si deliziavano con Il tramonto dell'Occidente di Spengler, egli lo poneva sullo stesso piano de I grandi iniziati di Schuré. La sua opposizione al fascismo era stata dinastica ed empirica ad un tempo. Dinastica in quanto antifascista dichiarato era stato lo zio Alessandro Tasca di Cutò, deputato socialista, come anti-
fascista convinto era sempre stato lo zio Pietro, e fra le poche considerazioni favorevoli nei confronti del padre vi era quella di aver previsto i danni del fascismo fin dalle origini, sottintendendo forse che non così precoce era sta-
to il suo giudizio. A vero dire gli appunti erano più di gusto che di sostanza (rutilanza o aspetto macabro delle uniformi, insulsaggine delle adunate, le imposizioni linguistiche, dal “voi” al “pallacorda” prescritto quale parola italianissima al posto di tennis, il militarismo di cartape-
sta) mentre secondari nel suo biasimo erano lo stato di polizia e i delitti di cui era punteggiato. Ma era questa ap-
punto la sua forma mentis, dettata da esser definita una pigrizia garantita grandi mali gli apparivano spesso una necessità: come governare gli italiani
quel che potrebbe dall’empirismo. I conseguenza della o i russi senza un
Mussolini o uno Stalin? E, per ulteriore beffa, interveniva qui il gusto nietzschiano per la rifondazione, talché se cer-
tamente preferiva vivere sotto Mussolini che sotto Stalin,
ammirava più il secondo del primo e proprio per l'efficacia delle grandi purghe. Con Hitler gli era però impossibile ogni sintonia. Come Benedetto Croce pensava che la Germania fosse progressivamente impazzita dopo la grande stagione letteraria, dallo Starm und Drang all’idealismo, e il terzo Reich era privo ai suoi occhi di ogni fascino segreto: qui non era in atto una rifondazione, ma un regresso verso un primitivismo irrazionale e settario. Quanto a
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Franco lo considerava una sorta di braccio secolare della Chiesa, e vedeva una prova della sua millenaria saggezza nella tergiversazione ed infine nel suo rifiuto di entrare in guerra a fianco delle dittature europee.
La guerra — Fine delle case avite Il peggio doveva ancora venire. La distruzione di Palermo durante il secondo conflitto mondiale non ebbe tutto sommato quel carattere totale che cancellerà molti centri storici della Mitteleuropa, ma nel caso di Giuseppe pro-
dusse la perdita di quelle case che erano il rifugio della sua vita. Né gli affetti di Licy per i propri luoghi ebbero sorte migliore. Il castello di Stomersee sopravvisse alla bufera, ma divenne territorio sovietico e per lei irraggiungibile. I coniugi usciranno dal conflitto come tartarughe private della corazza. Nel dicembre del 1939 Giuseppe fu richiamato sotto le armi per un corso di aggiornamento di due mesi. Nel frattempo Licy fu costretta a lasciare Stomersee a seguito del patto Ribbentrop-Molotov. Secondo il trattato i baltici di origine tedesca avrebbero ricevuto la cittadinanza del Reich e sarebbero stati da questo indennizzati. Nel caos generale Licy combatté da Riga su più fronti, e per salvare le proprie cose, e ancor più per procurare un passaporto ad alcuni conoscenti ebrei di Riga ed alla sua amica Lila Iltascenko. Sul finire dell’anno è costretta a lasciare Riga e si rifugia a Roma in casa della madre. Il marito viene mobilitato ancor prima della dichiarazione di guerra ed assegnato a un Gruppo Obici di stanza presso Poggioreale. Qui Lioy, giunta a Palermo, si reca sovente a visitarlo. Giuseppe abita in un tugurio, come dirà più tardi cercando di convincere la moglie a venir da lui nella casa che ha affittato durante lo sfollamento nella contrada Vina di Capo d'Orlando: «non è un tugurio co-
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me quella di Poggioreale». Il servizio militare dura soltanto tre mesi, Giuseppe riesce a farsi mettere in congedo co-
me capo di azienda agricola. Nel 1941 Licy riparte per la Lettonia allora occupata dalle truppe tedesche. Vi rimane fino alla fine del 1942, quando si avvicina la controffensiva russa. Compie varie visite a Stomersee, dove dorme in una tenda. Il castello è
stato saccheggiato e durante l’anno di occupazione sovietica la popolazione contadina è stata deportata. La corrispondenza fra i coniugi riprende fra Palermo e Riga. Battagliera lei, rassegnato, deluso, lui. Si susseguono gli orrori della guerra. I bombardamenti su Palermo, che per ora sfiorano soltanto via Lampedusa. In Lettonia Licy si batte contro tutto e tutti, nazisti e comunisti. Giuseppe ri-
cade completamente nell'orbita materna, e si lega ancor più ai Piccolo. Evade continuamente a Capo d'Orlando (la sola casa dopo la distruzione del palazzo dove si troverà a suo agio). Verso la fine del 1942 Giuseppe e la madre si trasferirono a Capo d'Orlando dai cugini. Palermo è ormai deserta e la casa inabitabile. In novembre la controffensiva sovietica convince Licy sulla inutilità della sua resistenza. Lascia la Lettonia e torna a Roma dove Giuseppe la raggiunge per Natale, ma riparte poi subito per la Sicilia. Vuole trovare una casa nei pressi di quella dei Piccolo, per non approfittare ulteriormente dell'ospitalità dei cugini. Oltre tutto iforti ed eccentrici caratteri Cutò non son fatti ‘per la convivenza e le sorelle litigano. Nel 1943 affitta una casa in contrada Vina, nella piana sotto il colle su cui si leva la villa dei Piccolo, e vi si trasferisce con la madre. Si
reca da solo a Palermo, col cuore e la mente sempre volti alla sorte del palazzo di via Lampedusa, pian piano sempre più squassato ma ancora non direttamente colpito dai bombardamenti. Tenta anche di mettere in salvo gli oggetti di valore. Tre carichi partono per una casa del marchese De Spuches di Schisò nei dintorni di Carini, ma ve
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ne giungerà uno soltanto. Altre masserizie, i quadri più preziosi e vari libri partono per la casa della Piana. In febbraio tenta ancora di convincere la moglie a raggiungerlo. Le scrive una lettera diplomatica e piena di sotterfugi e blandizie. Giuseppe fa riferimento alla ineluttabilità della situazione e spera nella possibilità che «la flessibilità tanto italiana che slava saprà adattarsi alle circostanze e non vorranno crearmi un “secondo fronte”». Licy non si fa convincere. L’epistolario continua lungo il 1943 con gli orrori della guerra: i morti innocenti nella città bombardata. «Ma se si vede quel che è successo vien voglia di sputare sul proprio passaporto di uomo...», scriverà il 16 febbraio. Il 22 marzo, nel corso di un bombardamento, esplode una nave nel porto, ed iframmenti che cadono sul palazzo scoperchiano la libreria. Molti libri provenienti dal palazzo Lampedusa ne recano le tracce, sono intrisi di polvere e accartocciati dall'acqua piovana. Il 5 aprile il palazzo è colpito direttamente in più parti. Giuseppe si ferma davanti alle rovine e raggiunge a piedi la villa di Stefano Lanza di Mirto a Santa Flavia. Vi resterà tre giorni, senza riuscire a parlare, prima di rientrare a Capo d'Orlando. L’armistizio e l'emancipazione A metà luglio del 1943 la casa affittata da Giuseppe in contrada Vina fu centrata da una bomba. Giuseppe e la madre erano assenti. Era iniziato lo sbarco alleato in Sicilia e la costa si faceva insicura. Poco dopo, temendo la di-
visione dell’Italia e l'occupazione tedesca, Licy giunse a Capo d'Orlando, ed i tre costretti dagli eventi a un percorso di vita comune si trasferirono nell'interno di una casa di Ficarra. Qui vissero gli ultimi scontri della battaglia di Sicilia, appresero dell'armistizio dell’8 settembre (Ficarra era sta-
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Gioacchino Lanza Tomasi
ta “liberata” il 9 agosto). A metà ottobre le famiglie si separarono. E per la prima volta da quando aveva messo piede in Sicilia Licy vivrà con il marito in una casa diversa da quella della suocera. Giuseppe e Licy partirono soli per Palermo. Beatrice rimase a Ficarra e si trasferì poco dopo
in un albergo di Capo d'Orlando dove resterà circa due anni. Nel 1946 ricuserà di andare a vivere con il figlio e prenderà alloggio sola in un quartierino del semidistrutto palazzo Lampedusa; pochi mesi dopo morirà. Dalla fine del 1943 al 1945 Giuseppe e Licy vissero in piazza Castelnuovo in una camera affittata. Furono i tempi più bui. La città distrutta, i resti del palazzo Lampedusa esposti a quotidiani saccheggi. Licy poteva ancora evadere attraverso la psicoanalisi. Si reca frequentemente a Roma,
dove nel 1946 partecipa con gli altri analisti didatti alla organizzazione del Primo Congresso Nazionale di Psicoanalisi. Negli stessi anni comincia ad esercitare ed insegnare a Palermo, cura la formazione di alcuni allievi e
scende in battaglia contro il locale cattedratico di psichiatria. Giuseppe è alle prese con le antiche piaghe di famiglia: la divisione giudiziaria e quella successiva con gli zii. Nel novembre del 1945 si giunge finalmente ad una divisione consensuale. Il secondo piano di un palazzo in via Butera 42 tocca secondo sorteggio per metà a lui e per
metà alla cugina Carolina. Giuseppe si accorda con Carolina e vi si trasferisce. L'immobile è in condizioni terribili. I portoni divelti hanno trasformato il cortile interno in un “baglio” aperto dove alloggiano insieme uomini ed animali. Ma per i coeredi residenti a Palermo si tratta di scelte obbligate. Alcuni vivono allo stesso modo nella villa Lampedusa ai Colli ed altri nel palazzo di Torretta. Nel 1947 sono messi in vendita il primo ed il secondo piano del palazzo contiguo, con ingresso da via Butera 28. Un tempo l’intero palazzo era stato proprietà Lampedusa. Lo aveva comprato il bisnonno astronomo con il ricavato della vendita a Ferdinando II dell’isola di Lampedusa. Nel 1865
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una metà era stata venduta all’armatore De Pace, dai cui
discendenti adesso Giuseppe lo sta per riacquistare. Il palazzo De Pace ha anch'esso subito alcuni danni bellici e per circa un anno Giuseppe si dedica ai lavori di restauro indispensabili. Ha venduto la sua quota del feudo di San Nicola presso Torretta e contratto un mutuo per acquistare la proprietà De Pace. Altri denari gli entreranno dalla vendita delle rovine del palazzo Lampedusa nel 1951. Poi attenderà sempre di realizzare la sua quota dell’area edificabile della villa di San Lorenzo, ma l'accordo con i coere-
di sarà realizzato dalla vedova soltanto dopo la sua morte, e intanto le quote del mutuo cominciano a restare insolute. Saranno le pene del principe fino alla morte, pene che occorre tener nascoste alla moglie. Presidente della Croce Rossa
Accanto alle pene vi sono però anche soddisfazioni. L’emancipazione del 1943 aveva portato con sé anche una carica. Su segnalazione di Enrico Merlo, magistrato della Corte dei Conti ed amzico di Giuseppe, il Governo militare alleato include il nostro fra gli uomini rappresentativi, non compromessi con il regime, da mettere a capo delle varie amministrazioni pubbliche che venivano allora epurate. Così Giuseppe Tomasi venne nominato nel 1944 presidente provinciale e poi regionale della Croce Rossa. Resterà in carica fino alla metà del 1947. Svolse il suo compito con zelo, e cercò di combattere la mafia delle forniture, davanti
alla quale infine si arrese. Gli stimoli culturali non erano sopîiti. Quando, sul finire degli anni Quaranta, fu fondato il cineclub di Palermo, Giuseppe Tomasi sifarà socio. Il circolo era stato fondato ed era frequentato dagli intellettuali in erba del tempo, ed alcuni ancora ricordano il taciturno ed assiduo anziano spettatore. Le lettere del 1950, l’ultimo blocco di corrispondenza
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Gioacchino Lanza Tomasi
con la moglie, mostrano un equilibrio ritrovato, un rinnovato interesse per la letteratura, e, per chi abbia fede nell'interpretazione dei sogni, anche la conquista di una autonomia di cui fino ad allora Giuseppe non aveva goduto. È sempre lo stesso sogno: Giuseppe comprende di aver raggiunto la maggiore età, non dipenderà più né dalla madre né dalla moglie. La centralità di questo sogno è attestata tanto da una lettera in cui lo espone alla moglie, quanto dalla menzione che ne fa Orlando nel Ricordo di Lampedusa. Comze Tomasi dice nella Sirena, tutto «predisponeva al prodigio».
Il nostro maestro
e amico
Dal 1950 avevo preso assieme ad alcuni amici a frequentare regolarmente la casa di Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco in Corso Scinà. Sgadari, critico musicale del «Giornale di Sicilia», aveva una formidabile raccolta di
dischi, e gradiva stare in compagnia. I giovani musicofili erano invitati due o tre volte la settimana a delle sedute d'ascolto che si svolgevano dopo cena. Oltre che musicomane Sgadari era un generale cultore d’arte. Aveva tradotto Ronsard e Villon, scritto un dizio-
nario dei pittori siciliani, di cui possedeva una magnifica raccolta di disegni, aveva una grande ed ordinata biblioteca, collezionava maioliche. Era inoltre un uomo a modo suo affascinante, non per profonde qualità, ma per una impalpabile simpatia umana che si accompagnava ad introspezione e furbizia. La casa di Sgadari era il luogo di ritrovo degli intellettuali di passaggio a Palermo, e molti giovani fra cui io la frequentavamo lieti delle possibilità di incontro offerteci dal padrone di casa. Bebbuzzo giocava un po’ al confidente delle nostre passioni ed interessi, che in quel terreno di cultura si dipanavano sotto i suoî occhi. Fu qui che incontrai tanto
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Lucio Piccolo che Tomasi di Lampedusa. La timidezza fra noi si ruppe assai presto, e nel 1953 eravamo già amici.
In quell’anno Giuseppe ed io andammo per la prima volta assieme a Capo d'Orlando, di ritorno dalla mostra messinese dedicata ad Antonello; in quello stesso anno incontrammo Bernard Berenson, grande amico di André Pilar. Ricordo la conversazione di Berenson e le sue varie insofferenze. Era un vecchietto ancor più witty, birbante e malizioso, dello stesso Lampedusa. E in quell’anno Giuseppe Tomasi propose a Francesco Orlando, allora studente di giurisprudenza, di insegnargli la lingua e la letteratura inglese. Si cominciò con lezioni trisettimanali di lingua nel salone centrale al primo piano della Via Butera, accanto alla biblioteca dove Licy riceveva i pazienti. Ma ben presto si passò alla letteratura. Sull’inizio del corso Lampedusa si trovò attorniato da un piccolo gruppo di fedeli. Lo seguirono abbastanza assiduamente fino alla fine della trattazione su Shakespeare, si diradarono poi man mano, e ricomparvero come attratti da una grande occasione quando nell’estate del 1954 Tomasi parlò di Joyce e di Eliot, autori circondati da un'aura mitica, anche se sostanzialmente
sconosciuti ai ragazzi della nostra età. Oltre a me e a Francesco Orlando, i giovani amici del principe erano Francesco Agnello, Antonio Pasqualino e la sorella Bice, la mia fidanzata Mirella Radice, altri erano più saltuari, come Tito La Francesca, Ernesto Savagnone, Gabriella Saladino.
Fra l'autunno del 1953 ed il settembre del 1954, scherzando e rileggendo, inventando e compulsando, Lampedusa stese di getto un migliaio di pagine manoscritte. E la Letteratura inglese, che sarà pubblicata da Mondadori nel 1990-91.
Questa attività critica aveva nella sua vita avuto un solo antefatto negli anni 1926-27. Tomasi aveva allora pubblicato sulla rivista genovese «Le Opere e i Giorni» tre lunghi articoli: i primi due dedicati a Paul Morand e a
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Gioacchino Lanza Tomasi
W.B. Yeats e al rinascimento celtico, mentre il terzo e più lungo in senso proprio è un sunto-recensione del Caesar di Friedrich Gundolf. Per il nostro scrittore gli anni non erano passati invano. Basti raffrontare le poche pagine dedicate a Yeats nelle lezioni con le molte apparse su «Le Opere e i Giorni». Nel primo caso abbiamo un uomo che parla umoralmente ed in presa diretta, fra iperboliche lodi e stroncature, con quello stile smargiasso che conta fra i tratti più caratteristici del Lampedusa narratore, ma che lascia del pari senza fiato per icasticità e forza rappresentativa, nel secondo si scorge uno scholar diligente, il quale si prende la briga di illustrare prolissamente e in termini genericamente positivi l’opera di Yeats ed il suo mondo. Orlando ci ha lasciato uno stupendo saggio sull'uomo e sulla sua personalità, il già citato Ricordo di Lampedusa. Anche la vedova, per solito tenace fautrice di una visione
austera e cerimoniale del marito, affermò che leggendolo le era parso di riascoltare la sua conversazione. Ed era questa una girandola umorale di rimandi e salti di palo în frasca, dove l’erudizione veniva spicciata in soldoni, che è pot il modo più efficace per renderla fruibile. Così la Letteratura inglese raggiunse eccellenti risultati didattici, anche se l’erudizione vi si accoppia alle scopiazzature ed alle balle, le quali emergono ovunque la memoria di Giuseppe scorge l'occasione per una storia piccante. «Quanti amici si perdono per amor di una battuta», soleva dire, e
con ciò voleva farmi riflettere su un tratto affine dei nostri caratteri. Sul finire del 1954 il corso di inglese era terminato e Giuseppe si accinse a redigerne uno di francese.
All’origine di entrambi i corsi vi era stata la decisione di Francesco Orlando di rinunciare ad una carriera di avvocato nello studio legale del padre e di dedicarsi invece alla letteratura. Il corso di francese non è completo come quello inglese, ma son sempre 500 fogli nella consueta scrittura fitta e minuta. Orlando indica nel Ricordo di Lampe-
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dusa come il maestro sembrasse man mano perder gusto per il suo rapporto con l'allievo. Si occupava di altro e nell'inverno-primavera del 1955 si dedicava di già a Il Gattopardo. Una vocazione di poeta: Lucio Piccolo
L'incentivo era venuto questa volta da Capo d’Orlando. Nel 1953 era morta Teresa Tasca di Cutò, la madre
dei cugini Piccolo, ed era venuto il momento per l'emancipazione di Lucio. Fino a quella data l’attività artistica ufficiale (si fa per dire) di Lucio era stata la musica. Era un ottimo pianista come lo può essere un compositore, capace
cioè di riprodurre alla tastiera ogni pezzo di musica, e uno straordinario conoscitore di Wagner. Poteva suonare a memoria per ore brani del Ring e forse l’intero Parsifal, la sua partitura preferita, sui cui sensi esoterici era capace di arzigogolare vagando fra analisi armoniche, testi sacri dell’occultismo e riflessioni personali. Da trent'anni componeva un Magnificat, di cui esistevano una trentina di pagine («una biscroma al giorno» come malignava Giuseppe) e che era rimasto in questo stato da vari anni. D'altra parte il pianoforte verticale di Capo d'Orlando era insuonabile ed era stato infestato e roso da nidiate di topi. Lo stile del Magnificat era malipieriano, un autore di cui Lucio era un perfetto conoscitore e di cui possedeva
tutte le partiture scritte fino agli anni Trenta, anche quelle che Malipiero stesso aveva rifiutate in gioventà. Una volta al Festival di Venezia Bebbuzzo aveva informato il musicista sulla presenza di questo suo grande ammiratore siciliano, e Malipiero, sempre afflitto da mania di persecuzione, incaricò sarcasticamente Bebbuzzo di esprimere la
sua simpatia al suo solo ammiratore superstite. Il tema del teatro malipieriano, la presenza orfica della musica nel
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mondo, con le varie reincarnazioni nel mito di Orfeo, era specialmente caro a Lucio anche se la sua partitura prediletta era la Pentesilea. Ritengo che le date di composizione di queste opere possano valere quali punti di riferimento per la carriera musicale di Lucio, che di fatto venne a
estinguersi attorno all’inizio degli anni Trenta. Poi, nella quiete di Capo d'Orlando, sotto l’ala vigile di Teresa Cutò, ogni indipendenza era stata messa a tacere. Lucio,
come Giuseppe, divenne soltanto un fruitore onnivoro, in special modo di poesia. Una volta aveva scritto dei versi, correttamente rimati,
che erano rimasti inediti, adesso, morta la madre, è la fol-
gorazione. Scrisse alcune rievocazioni lirico-esoteriche di una Palermo della sua infanzia, e le pubblicò a sue spese a
Sant'Agata nel 1954 sotto il titolo di 9 liriche. I/ cugino Giuseppe, eletto consulente editoriale per il suo maggiore uso di mondo, fu pregato di scrivere una lettera di accompagnamento all’opuscolo per una spedizione all’ammiratissimo Eugenio Montale. Lucio sbagliò l’affrancatura del plico, e Montale, quando presenterà i Canti barocchi ed altre liriche regli Ossi di seppia della Mondadori, affermerà di averlo letto soprattutto a motivo delle 180 lire spese per riceverlo. Questa lettura valse l'invito di Lucio agli “Incontri di San Pellegrino”. Gli incontri miravano a uno scambio di esperienze fra diverse generazioni letterarie: nove scrittori
affermati vi avrebbero presentato altrettanti autori sconosciuti. Montale vi presentò Piccolo. E questi giunse a San Pellegrino, accompagnato da Giuseppe e da un autista che st sentiva investito del ruolo di guardia del corpo. Una vocazione di scrittore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa Per Giuseppe fu la sola immersione nel mondo delle lettere, vissuta a un tempo con timidezza ed orgoglio. Poté
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constatare che il suo sapere di lettore era pari, a tratti su-
periore, a quello dei letterati di professione. Osservò anche con stupore di palermitano il successo di Lucio. Egli amava e stimava Lucio, ma nessun palermitano concede a un uomo del proprio ambiente la capacità dell’eccezione. Il successo di un uomo eccentrico, asociale come Lucio, lo
sorprendeva sinceramente, come quattro anni dopo tutti i palermitani che lo avevano conosciuto furono sorpresi dal successo del Gattopardo. Giuseppe affermava che l’idea di scrivere un romanzo sulle reazioni di suo bisnonno il giorno dello sbarco di Marsala covava in lui da lungo tempo, anche se era rimasta sempre latente. Il piano originale del romanzo prevedeva il suo esaurirsi in quest'ambito temporale di ventiquattr’ore, un'idea che lo stesso autore riconosceva come
derivata dall’Ulysses di Joyce. Ambito e tecnica a cui si attiene appunto la prima parte del romanzo. Nel giugno del 1955 questa parte era già stata scritta e riscritta quando
Giuseppe mette da parte il suo principone e redige un’accorata ricognizione delle case che ha perduto: Ricordi d’infanzia. La stesura si interseca con il proseguire del Gattopardo oltre la sua prima parte, ed oltre l’Ulysses. Un altro evento determinante che sospingerà il romanzo verso quel suo carattere di grande epopea privata e al tempo stesso pubblica, di apologo dell'antica classe dominante, è costituito da due gite a Palma, l'antico feudo dei Tomasi, svoltesi nell'estate ed autunno del 1955. Giuseppe era allora ospite a Siculiana di Francesco Agnello, nel
palazzetto baronale del paese, che Francesco aveva da poco indotto i genitori a restaurare. Francesco si adoperò per
vincere la resistenza del suo vecchio amico e lo indusse a visitare Palma. Le strade della zona erano allora famose per la loro tortuosità. La distanza totale era di circa settan-
ta chilometri. Si impiegava quasi un'ora da Siculiana ad Agrigento, e altrettanto da Agrigento a Palma, pure essendo la distanza minore.
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Gioacchino Lanza Tomasi
Terra di santi
Vecchi mostri paterni si addensavano attorno a Palma ed ai suoi santi. Giuseppe aveva senza dubbio conoscenza sin dall'infanzia della loro storia. Mi disse anche come il nonno celebrasse la festa del beato Giuseppe Tomasi, oggi santo, il 5 gennaio con una messa privata, durante la quale venivano esposte le reliquie rimaste in famiglia: il cappello cardinalizio e le babbucce. E fra gli oggetti che si era preso la briga di salvare dalle macerie del palazzo Lampedusa vi è anche il cappello del Santo. Ma il ricordo era circonfuso dall’aura di rifiuto verso il mondo paterno. L’ultima commemorazione del Beato cui poteva aver assistito era quella del gennaio 1907. Dopo la morte del principe Giuseppe, Giulio e Beatrice Tomasi avevano rinunciato al
ruolo di promotori della ricorrenza. Il ricordo di quelle cerimonie si allineava fra gli spiacevoli nella memoria di Giuseppe. Vi prendevano parte i vari discendenti del Gattopardo residenti a Palermo, con in testa le signorine Lampedusa ed i parenti Crescimanno, tutte persone con cui suo padre avrebbe litigato o era già in lite, liti che alla sua morte sarebbero rimaste di pertinenza del figlio. Non va dimenticato che alla morte dell’astronomo senza testamento ifigli maschi sospettarono la madre di averlo distrutto per favorire le loro sorelle. E în una società dove l’unica fonte di sussistenza è il perdere od acquisire capitali, la “roba” dell'antica società meridionale, questi rancori si protraggono per generazioni e
vengono ricordati dai discendenti come la causa delle proprie sventure.
L’aura di questi austeri Tomasi secenteschi, i fondatori di Palma, la città che avevano trasformata in terra di santi
e di conventi, aleggiava anche all’interno del palazzo di via Lampedusa. Nel grande salone sul mare di via Butera 28 Giuseppe aveva ammassato quanto poteva delle boise-
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XLI RS,
ries settecentesche strappate al suo palazzo distrutto. Fra questi brandelli di decorazioni vi erano una serie di sovrapporte con tetri santi barocchi ed anche due ante di una alcova recanti, al centro di una stupenda decorazione rocaille, un ritratto del Beato ed uno della Venerabile. I
santi vegliavano anche sugli amori e i sonni dei Tomasi laici, ed invano Beatrice e Giulio avevano tentato di ricac-
ciarli. Palma era stata fondata dai gemelli Carlo e Giulio Tomasi il 3 maggio 1637. In quello stesso anno Carlo, barone di Montechiaro, aveva acquistato dalla corona la licentia populandi, e a un anno dalla fondazione fu investito del titolo ducale sulla nuova terra. Tre anni dopo rinunciava al mondo, si faceva teatino ed ilfeudo passava al gemello Giulio. Lo zelo religioso di Giulio non era da meno. Nel 1659 assegnava il suo palazzo al Monastero del SS. Rosario, in cui si rinchiudevano quattro sue figlie, e
dove prenderà successivamente il velo anche la moglie Rosalia Traina. Anche ilfiglio primogenito, Giuseppe, seguiva come lo zio Carlo la via della rinuncia al mondo ed entrava nell'ordine teatino. Studioso di filologia biblica, riuscì a convertire il suo professore di ebraico, il rabbino
Mosè da Cave, ed avviò la prima edizione filologica della sacra scrittura. Cardinale, morto in odore di santità, è sta-
to proclamato santo dal pontefice Giovanni Paolo II Nel monastero del Rosario viveva la sorella Isabella, che all'atto di prendere il velo aveva scelto il nome di Maria Crocifissa. Essa conta fra le grandi figure mistiche del Seicento, sulla scia di un esercizio dell’ascesi che ha il suo modello in santa Teresa di Avila. I portenti della sua vita claustrale, visioni, stimmate, lettera scritta sotto dettatura
del diavolo, penitenze e cilici, diedero una particolare aureola al nome dei Tomasi e alla “terra” di Palma. Di questi lontani antenati, del convento sul Monte Calvario dove si ritirò a vita claustrale il duca Giulio, del monastero, della chiesa Matrice, della terra di santi in gene-
rale, Giuseppe Tomasi aveva ricordi familiari abbastanza
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Gioacchino Lanza Tomasi
imprecisi. Anche il padre aveva rotto i ponti col mondo bigotto dei Tomasi, e di quel mondo paterno erano presenti al loro ultimo discendente diretto soprattutto le beghe ereditarie e la decadenza che aveva afflitto zii e cugini respingendoli ai margini della società. Perseguitati dall’inedia alcuni parenti avevano tentato di insediarsi nei beni gestiti dall’amministrazione giudiziaria Tomasi a Palma, due cugini tisici avevano accelerato negli anni Trenta la loro fine lavorando nell’'amministrazione delle miniere di Montegrande. E Francesco, un fratello del padre, aveva
tentato di vivere assieme alla moglie ed al figlio bambino nei ruderi del castello di Montechiaro. I santi che emergono a ghirlanda, vecchie badesse arcigne e giovani monache estatiche, in un piccolo quadro di Domenico Provenzani che Giuseppe aveva salvato dalle rovine di via Lampedusa, erano Offuscati dalla grande e penosa saga della divisione giudiziaria, col suo strascico di risentimenti e rancori.
Il duca e il suo feudo
Nondimeno Giuseppe cedette. IÎ 4 settembre 1955 fece con Francesco Agnello la sua prima visita a Palma. Ne ritornò entusiasta. A Palma non aveva beni immobili significativi, non era il grande proprietario terriero del paese, ed i Tomasi non lo erano più da quasi due secoli, ma era il discendente dei santi, un pezzo di quella terra che dalla temperie mistica della sua famiglia era stata resa differente da ogni altra fondazione feudale siciliana. Con queste premesse l’incontro fu felice. Osservò con delizia la sagrestia della Matrice e l'interno della chiesa, ed in particolare lo com-
mosse l'accoglienza della comunità benedettina del SS. Rosario. Posso anche dire, avendovi accompagnato altri visita-
tori non certo inclini alla vita religiosa, che questa sensazione si è regolarmente ripetuta, nella cella della Venerabile, nelle cappelle interne, nel coro, nel chiostro.
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Quando tornò a Palermo Giuseppe comunicò a me ed alla moglie il suo entusiasmo, e fu progettato un viaggio generale a Siculiana per l’inizio di ottobre. Giuseppe venne con Licy, ed io con la mia fidanzata, Mirella. L’incantesimo si ripeté tanto alla Matrice che nella visita al convento. Questa comunicazione fra diversi, fra noi e la terra di santi, risultò però impossibile nel caso di Licy. Sia perché feudalità per lei significava comando, sia per la sua formazione politica all'interno della leggenda nera antispagnola, per cui inquisizione, roghi, mistici e santi erano tutti figli dell’oscurantismo. Strano a dirsi, ma era quel che veniva insegnato nel liceo imperiale zarista. Licy così si pacificò soltanto davanti ai ruderi del castello di Montechiaro, ed ipotizzò un suo attendamento con Giuseppe nella piccola corte interna per la prossima estate. E faceva sul serio. Tanto che Giuseppe pensò bene di correre ai ripari. Qualche mese dopo giunse in via Butera una missiva apocrifa dei carabinieri di Palma, in cui questi, avendo appreso con grande deferenza del desiderio degli illustrissimi principi di passare alcuni giorni al castello, facevano purtuttavia presente di non poter loro garantire la dovuta si-
CUVEZZA. Lo scrittore al lavoro
Dopo le gite a Palma la stesura del Gattopardo riprese vigore. E la “visita al monastero” fa parte dei primi doveri del principe di Salina appena giunto a Donnafugata. Ma la figura dei santi e dei loro cilici apparirà anche accostata alla terra, al possesso, all'amore ed alla morte, nella terza delle parti dedicate a Donnafugata, scritta nell'estate dell’anno seguente. Il 31 marzo del 1956 Giuseppe sente la necessità di comunicare
a Guido Lajolo, da anni emigrato in Brasile, i
due nuovi eventi che stanno cambiando la sua vita: «sono
XLVI
Gioacchino Lanza Tomasi
accaduti (0 per meglio dire sono sul punto di accadere) due fatti importantissimi: 1) ho scritto un romanzo, 2) stiamo per adottare un figlio». La lettera è un esempio caratteristico della attitudine alla metamorfosi romanzesca dello scrittore, cioè a modificare a capriccio la realtà per renderla più adatta al quadro di un racconto, e al tempo stesso corrispondente ai propri sogni di desiderio. Pertanto ogni notizia subisce un pro-
cesso di amplificazione, ché altrimenti non farebbe notizia. Ecco allora i cugini Cianciafara e Piccolo tutti e tre dediti a fortunate attività artistiche. Lucio lo sappiamo già poeta, ma anche la pittura di Casimiro e le incisioni di Filippo Cianciafara stanno facendo il giro del mondo. E la stessa amplificazione romanzesca attraversa il quadro familiare che mi circonda: genitori ricchissimi ed alteri, una
fidanzata bellissima ma di pessima famiglia, e lui e la moglie dediti ad un intenso corso di istruzione che renderà la ragazza degna del suo principe azzurro. Quanto al Gattopardo lo stato del progetto glielo fa descrivere comè «un romanzo: per meglio dire tre lunghe novelle collegate tra loro...». Se la memoria non m’inganna queste tre novelle vanno identificate con la prima parte (villa Salina), con la seconda e la terza (il viaggio e il soggiorno a Donnafugata, comprendente i principali episodi storico-politici, fidanzamento di Tancredi, plebiscito, offerta del laticlavio), e con l’ultima (le reliquie). Il quarto argomento della prima stesura (la morte del principe) venne scritto per ultimo, ed è con la sua redazione che Giuseppe pensava diaver collegato i diversi momenti in un romanzo. Alla ricerca di un editore
Invaso da una vera gioia infantile della creazione l’autore pensava immediatamente alla pubblicazione della propria opera. Orlando si offrì di battere a macchina sotto
Introduzione
XLVII
dettatura le quattro parti, ed il 24 maggio del ’56 esse venivano spedite da Lucio Piccolo al conte Federici, un funzionario della Mondadori, con cui questi era rimasto in
contatto. Il 7 giugno Giuseppe poteva precisare a Lajolo che il romanzo «è composto da cinque lunghi racconti: tre episodi si svolgono nel 1860 anno della spedizione dei Mille in Sicilia, il quarto nel 1883, l’ultimo, l'epilogo, nel 1910, cinquantenario dei Mille». Il romanzo come si vede cresceva giorno per giorno. Durante l’estate le parti di Donnafugata divennero tre. Le due rielaborate (parte terza e quarta) furono anch'esse battute a macchina da Orlando e spedite a Federici il 10 ottobre, precisando la posizione dell'aggiunta in relazione al primo invio. Il dattiloscritto fu infine rifiutato con una lettera di Federici del 10 dicembre. Giuseppe se ne addolorò, ma ormai la sua principale occupazione era la scrittura, e il rifiuto non lo fece desistere. Nei pochi mesi di vita che gli rimasero, dall'autunno del 1956 alla primavera del 1957, Giuseppe scrisse ancora due parti del Gattopardo, l’intermezzo di padre Pirrone a San Cono ed il ballo al palazzo Ponteleone. Nel gennaiofebbraio del’57 ricopiò nuovamente il libro in un quadernone formato protocollo. Il romanzo vi appare in otto parti, ciascuna preceduta da una silloge del contenuto. Scrisse ancora due racconti, uno breve, La gioia e la legge, sul frnire del ’56, l’altro ampio ed a cui teneva molto, La sire-
na, nell'inverno del 57. In quello stesso inverno iniziò un nuovo romanzo, I gattini ciechi, di cui ci è rimasto il primo capitolo. Nel dicembre del 1956 la Corte d'Appello accolse la domanda di adozione. Giuseppe aveva fatto la proposta di adottarmi a me ed ai miei genitori nel marzo di quell'anno. Si festeggiò in via Butera e al palazzo Mazzarino. Nella vita privata, salvo il problema delle strettezze economi
che che stavano battendo alle porte della mia famiglia, tutto sembrava appianato e andava per il meglio. Nel feb-
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Gioacchino Lanza Tomasi
braio 1957, tramite il libraio editore Fausto Flaccovio, il
dattiloscritto del Gattopardo tn set parti fu inviato a Vittorini, direttore dei “Gettoni” della Einaudi. Da un paio di mesi poi era stato attivato anche un altro canale attra-
verso l'ingegner Giorgio Giargia. Questi, allora un paziente della principessa, si era offerto di segnalare il manoscritto a Elena Croce. Il canale si rivelò lento, ma sarà
quello che condurrà alla pubblicazione del Gattopardo nel novembre del 1958. Desolazione e fine
Negli anni Cinquanta Giuseppe aveva l’aria di un uomo più vecchio della sua età. Soffriva di alcune malattie croniche, in particolare accusava un ostinato catarro da fumatore, e saltuariamente i dolori reumatici lo rendevano
leggermente zoppo. Ma il comportamento spartano della coppia Lampedusa, una vita senza agi e condotta a un livello di spesa umile, non lasciava trapelare l’entità dei mali. Si può esser sicuri che Giuseppe restava tappato in
casa soltanto se non ce la faceva proprio più. Uscire era per lui essenziale. Questa esigenza si collegava certo anche alla liturgia singolare di una convivenza che, e per le vicende descritte e per i caratteri coinvolti, si era potuta instaurare soltanto dal 1944. Gli orari, i cibi, i pasti della coppia erano in tutto discordanti. Mattiniero lui, poco dopo le otto era già per strada con la sua sporta piena di libri, diretto ai tre caffè
del centro che amava frequentare: la pasticceria del Massimo dalle nove alle dieci, poi, finché non gli venne in uggia la compagnia del luogo, il Caflisch di via Ruggero Settimo, infine da mezzogiorno alle due Mazzara. Alla pasticceria del Massimo e da Mazzara leggeva e scriveva, da Caflisch incontrava gli amici e conoscenti borghesi, secondo un'abitudine contratta ancor prima della guerra. Si dirige-
Introduzione
XIX
va verso casa attorno alle tre, qualche volta più tardi, quando si concedeva un buon pasto al ristorante, da Renato 0 al Pappagallo. Licy invece non si alzava prima delle undici, e cominciava a fine mattinata a ricevere i pazienti, che si avvicen-
davano fino a sera (le sei o le sette). A questo punto orari ed occupazioni dei coniugi finalmente collimavano. Era il tempo delle loro tre, quattro ore di chiacchiere, infram-
mezzate da un pasto che presumo terribile. Licy si cimentava in vari piatti baltico-scandinavi, e, in quanto a Palermo vari ingredienti base erano introvabili, li rimpiazzava con surrogati di sua invenzione. Esempio temibile di questo attaccamento gastronomico alle terre del nord era la sua versione dell’aringa marinata. A Palermo, com'è evi-
dente, era impossibile procurarsi l’aringa fresca, ed allora Giuseppe era incaricato di acquistare delle aringhe affumicate, «ma femmine», raccomandava sempre lei nel dargli la commissione. Queste venivano lungamente risciacqua-
te, ed infine messe a marinare insieme a della ricotta, sur-
rogato della panna acida. E la ricotta a contatto dell’orrido pesce puzzolento si inacidiva per davvero, non ultima causa delle frequenti diarree di cui Licy soffriva. Soltanto i caldi estivi palermitani, quando la ricotta fermenta sola, senza bisogno di aringa, la inducevano a rinunziare a questo piatto di cui era ghiottissima. Verso le undici Giuseppe andava a dormire e Licy si ritirava nuovamente nella biblioteca-studio, dove attendeva fino all'alba ai protocolli dei pazienti, 0 leggeva ed ascolta va i notiziari notturni in lingua straniera, compresi quelli delle emittenti comuniste, per cui le sue informazioni sui
fatti del giorno erano sovente diverse da quelle del lettore di quotidiani. Spesso pot la coppia si recava la sera al cinema, un'arte di cui erano entrambi esperti ed appassionati, ed i loro giudizi erano qui più concordi che altrove. Il biografo di Tomasi può seguire gli spostamenti, ed a volte le occupazioni di questi anni, attraverso un laconico
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Gioacchino Lanza Tomasi
diario delle sue giornate, e altro materiale sul pensiero di
questo straordinario solitario si può reperire in foglietti sparsi, il cui contenuto è per solito qualche riflessione deprimente, quelle che pratica don Fabrizio quando dalla osservazione passa ad una universalizzazione astratta. Altro materiale si può reperire in un quaderno dove vengono ri-
copiati a mo’ di citazione alcuni passi che lo scrittore considera degni di ulteriore riflessione. Non sorprenderà quindi come nessun segno particolare di decadenza fisica si potesse scorgere in Giuseppe prima che il solito colpo di tosse rivelasse uno sputo sanguigno. Eravamo a Capo d’Orlando sul finire di aprile; rientrati a Palermo fu disposta un'indagine stratigrafica che rivelò un tumore al polmone destro. Per indurlo a tentare un intervento chirurgico a Roma dovette essere informato del suo male. Si sentì subito molto fiacco, capì di esser malato da tempo e di aver sopperito con la volontà. Arrivò a Roma a fine maggio. Il decorso della malattia fu rapido. L'operazione venne sconsigliata, atteso lo stato generale dei polmoni e la posizione del tumore. Si ricorse ad una cobaltoterapia. Quando giunsi a Roma, il 20 luglio, non si reggeva in piedi. Il 23 spirò nella casa della cognata in Via San Martino della Battaglia, angolo piazza Indipendenza. Le tante lettere da Roma che indirizzò a me, a Mirella, ai Piccolo descrivono le sue sensazioni davanti alle cure. L'apparecchiatura della cobaltoterapia è raffigu-
rata nel suo rapporto con l’uomo con la stessa diffidenza con cui Chaplin raffigura le macchine in Tempi moderni. I suo desiderio di tornare a casa trapela struggente e disperato. Più saggio di molti siciliani aveva fatto testamen-
to nel 1956, quando aveva inoltrato la domanda di adozione al tribunale.E durante la malattia redasse due lettere per me e per la moglie. Sulle sue volontà e sui suoi affetti non dovevano esservi equivoci. Fra l’altro vi parlava del Gattopardo. Pregava gli eredi di adoperarsi per la
Introduzione
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sua pubblicazione, ma non desiderava la mortificazione
che lo facessero a proprie spese. Il 2 luglio Elio Vittorini aveva risposto direttamente al signor Giuseppe Tomasi, in qualità di consulente della Einaudi. Era il resoconto di una lettura attenta da parte di un intellettuale che, per sua collocazione, era il meno
adatto a recepirlo. La lettera pervenne all'autore verso la metà di luglio. Se ne compiacque e se ne rattristò a un tempo. Era il primo segnale di attenzione che gli giungeva da un uomo al di fuori della propria cerchia, ma era anche un rifiuto. Gioacchino Lanza Tomasi
(Prima redazione in I grandi siciliani, supplemento «L'Ora», Palermo 1990.)
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1896
23 dicembre: Giuseppe Maria Fabrizio Salvatore Stefano Vittorio Tomasi nasce a Palermo da Giulio Maria Tomasi, duca di Palma, e
Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò. 1908
Giulio Tomasi diviene principe di Lampedusa alla morte del padre. 1914
Giuseppe consegue la maturità classica. 1915
26 aprile: si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Novembre: viene chiamato alle armi. «Volontariato di un anno» a Messina.
1916
25 maggio: viene nominato caporale. Autunno: è trasferito ad Augusta. 1917
5 maggio: è a Torino per frequentare il corso allievi ufficiali. 26 agosto: è nominato aspirante sottotenente di complemento. Settembre: è inviato al fronte sull’altopiano di Asiago. 11 novembre: viene fatto prigioniero. 1918
Primo tentativo di fuga dal campo di prigionia Szombathely, in Ungheria. Novembre: fugge nuovamente dal campo di prigionia, raggiunge Trieste e da lì Palermo. 1919
14 gennaio: rientra in servizio a Casale Monferrato.
LVII
Cronologia
1943
7 gennaio: le finestre del palazzo Lampedusa sono frantumate dal bombardamento aereo. Fine gennaio: Giuseppe e la madre affittano una casa in contrada Vina nella pianura sottostante la casa dei Piccolo. 22 marzo: una nave esplode nel porto di Palermo e frammenti caduti sul palazzo Lampedusa ne scoperchiano la biblioteca. 5 aprile: una bomba colpisce direttamente il palazzo Lampedusa che è gravemente danneggiato; cade la scala principale ed è divelto il portone. 9 e 10 maggio: bombardamento a tappeto di Palermo. Il palazzo Lampedusa è nuovamente colpito. Metà luglio: una bomba colpisce la casa di contrada Vina. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, Licy raggiunge Giuseppe e la madre a Capo d’Orlando; i tre si trasferiscono a Ficarra. Metà ottobre: Giuseppe e Licy tornano a Palermo, dove prendono in affitto un appartamento ammobiliato in piazza Castelnuovo. La coppia vive per la prima volta in Sicilia senza la madre, rimasta a Capo d'Orlando. 1944
11 dicembre: Giuseppe viene nominato presidente provinciale, e in seguito regionale, della Croce Rossa Italiana. 1945
Novembre: Giuseppe e Licy si trasferiscono in via Butera 42. 1946 In primavera Beatrice Tomasi torna ad abitare nel semidistrutto palazzo Lampedusa, dove morirà il 17 ottobre. 1947 Giuseppe acquista due piani del palazzo di via Butera al n° 28 e ne inizia il restauro. 1953
Si lega d’amicizia con i giovani frequentatori della casa del barone Sgadari di Lo Monaco: Francesco Agnello, Francesco Orlando, Antonio Pasqualino, e soprattutto Gioacchino Lanza. Novembre: inizia ad impartire lezioni di lingua e letteratura inglese a Francesco Orlando.
Cronologia
LIX
1954
16-19 luglio: Giuseppe accompagna Lucio Piccolo agli Incontri di San Pellegrino, dove conosce Montale e Cecchi. Fine anno: inizia la stesura del Gattopardo. 1955
Gennaio: si conclude il corso di Letteratura inglese; il 25 inizia la redazione del corso di Letteratura francese. Giugno: interrompe la stesura del Gaztopardo e scrive i Ricordi d'infanzia. 4 settembre: prima gita a Palma e al castello di Montechiaro con Francesco Agnello. 9 ottobre: visita al castello di Montechiaro con Licy, Francesco Agnello, Gioacchino Lanza, Mirella Radice.
10 ottobre: visita con gli stessi al monastero delle Benedettine e alla chiesa Matrice di Palma. Autunno: continua la stesura del Gattopardo. 1956
Primavera: Francesco Orlando batte a macchina sotto dettatura
quattro parti del Gattopardo. 24 maggio: Lucio Piccolo invia al conte Federici, funzionario della Mondadori, una versione in quattro parti del Gattopardo. Estate: Francesco Orlando batte altre due parti del Gattopardo ambientate a Donnafugata. 10 ottobre: Piccolo le invia a Federici. Giuseppe scrive altre due parti del Gattopardo. Dicembre: scrive La gzoza e la legge. 10 dicembre: lettera della Mondadori con cui si restituisce a Piccolo il dattiloscritto. 22 dicembre: consenso delle parti reso alla Corte d'Appello per l'adozione di Gioacchino Lanza. 23 dicembre: scrive il proprio testamento e due lettere di accompagnamento per la moglie e il figlio adottivo. Scrive altri due capitoli del Gattopardo e La gioia e la legge. 1957 Inverno: scrive La sireza. Inizia la ricopiatura manoscritta e inte-
grale del Gaztopardo. Scrive il primo capitolo di un nuovo romanzo, I gattini ciechi. Febbraio: tramite il libraio editore Fausto Flaccovio I/ Gattopardo è inviato a Vittorini, direttore della collana «I Gettoni» della Ei-
naudi.
Tix
Cronologia
Un paziente di Licy, l'ingegner Giorgio Giargia, si offre di rimettere una copia del Gattopardo a Elena Croce. Fine aprile: a Capo d'Orlando Giuseppe si avvede di tracce di sangue nell’ espettorato. Di ritorno a Palermo il professor Turchetti gli diagnostica un carcinoma polmonare destro. 29 maggio: parte per Roma accompagnato dalla moglie. È ricoverato prima alla clinica Sanatrix, poi per la cobaltoterapia alla clinica Villa Angela. 1 luglio: si trasferisce dalla cognata Olga Wolff Biancheri in via San Martino della Battaglia 2. 2 luglio: lettera di rifiuto di Vittorini. 23 luglio: Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore nelle prime ore del mattino. 25 luglio: funerale a Roma nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù. 28 luglio: la salma viene inumata a Palermo nella tomba di famiglia al cimitero dei Cappuccini . 1958
Maggio: Giorgio Bassani, che ha ricevuto il dattiloscritto del Ga? topardo da Elena Croce, giunge a Palermo per ricostruire le fonti del romanzo. Gioacchino Lanza Tomasi gli affida il manoscritto del 1957 e Licy un blocco della Letteratura francese, fra cui il saggio su Stendhal. 11 novembre: I/ Gattopardo esce presso Feltrinelli a cura di Giorgio Bassani. 1959
7 luglio: I/ Gattopardo vince il Premio Strega.
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PREMESSA
È noto che Giuseppe Tomasi di Lampedusa non poté licenziare per le stampe le proprie opere. Critico saltuario di letteratura francese e storia negli anni attorno al 1926-27 sul mensile genovese «Le Opere e i Giorni», le circostanze della vita avevano poi interrotto questo primo approccio
professionale alle lettere. Rimase il conforto della lettura, la curiosità ed il piacere di smontare pezzo a pezzo, quasi un giocattolo meraviglioso, gli scritti altrui; soprattutto la ricerca, autore per autore ed opera per opera, di una precisa collocazione biografica ed ambientale. Per Lampedusa la letteratura era una sorta di diaristica cifrata, e la diari-
stica la sola gnoseologia; l’opera d’arte il mezzo attraverso cui una contingente esperienza umana, da individuale ed egoistica, poteva cristallizzarsi in esperienza durevole, valida oltre l’occasionalità delle circostanze. II letargo dello scrittore durò fino al convegno svoltosi a San Pellegrino Terme nell'estate del 1954, dove aveva ac-
compagnato il cugino Lucio Piccolo, che, presentato da Eugenio Montale, veniva ammesso nel salone del Kursaal alla
repubblica delle lettere. A distanza ravvicinata quella repubblica non gli apparve composta da semidei. Fare il letterato può equivalere ad essere letterato, e non tutti gli ingegni raccolti a San Pellegrino avevano fatto gran che. L'attività poetica e la fortuna di Lucio Piccolo, un paio di giorni aSan Pellegrino fuori dalla sua solitudine, le lezioni
pomeridiane che impartiva a Francesco Orlando, anch'egli a quei tempi poeta e narratore, si tradussero in incentivi
all’azione. Scriveva di già sul finire del 1954, e, nei trenta mesi che gli restarono da vivere, Lampedusa scrisse quasi ogni giorno, indipendentemente dal successo, quello che la sorte in vita gli negò. Quando morì nel luglio del 1957 ave-
6
Il Gattopardo
va in cantiere un secondo romanzo, I gattini ciechi; forse avrebbe aggiunto uno o più capitolialsuo Gattopardo. Il romanzo apparve nell'autunno del 1958 a cura di Giorgio Bassani, e la correttezza dell'edizione non venne messa in dubbio fino al 1968, quando Carlo Muscetta an-
nunziò di aver riscontrato centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. Si pose allora un problema concernente tanto la autenticità dell’edizione Bassani, quanto l'autorità delle diverse fonti. La que-
stione era già stata sollevata da Francesco Orlando nel suo Ricordo di Lampedusa (cit., p. 82). Come rammenta Orlando, esistono tre stesure del Gattopardo: una prima stesura a mano raccolta in più quaderni (1955-1956), una stesura în sei parti battuta a macchina da Orlando e corretta dall'autore (1956), una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: Il Gattopardo (completo). Adotto la dizione parti, anziché capitoli, perché così con proprietà si espresse l’autore nell'indice analitico posto acompimento del manoscritto “completo”; ogni sezione del Gattopardo è infatti propriamente una parte, cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiu-
ta, della condizione siciliana. Fra le tre stesure la prima va senz'altro scartata quale testo definitivo. Essa è superata dalla trasposizione dattiloscritta con cui l’autore cercò di ottenere la pubblicazione del romanzo fin dal maggio 1956. Prima cinque e poi sei parti dattiloscritte furono inoltrate al conte Federici della Mondadori con una lettera di accompagnamento di Lucio Piccolo. Il dattiloscritto, anche se provvisoriamente, riscos-
se quindi il “placet” dell'autore. È corretto accuratamente e presenta alcune aggiunte autografe: numerazione delle pagine e delle parti; apposizione dell’ambientazione temporale con l'indicazione del mese e dell’anno premessa ad ogni parte; non manca la sostituzione di qualche vocabolo. Faccio queste osservazioni sulla copia in mio possesso. Essa mi
venne restituita dal barone Enrico Merlo, dopo la morte di
Premessa
7
Lampedusa, unitamente ad una lettera in cui l’autore dava la chiave di alcuni riferimenti precisi (0 da lui ritenuti tali) infiltratisi nella trama del romanzo. Merlo, alto funziona rio della Corte dei Conti, aveva una visione storica
dell'“annessione” non dissimile da quella espressa nel romanzo, e lo troviamo ricordato accanto all'autore del Gattopardo nella dedica premessa da Virgilio Titone al suo
Storia mafia e costume in Sicilia. Lo storico ha inteso così riconoscere, «agli amici scomparsi del Caffè Mazzara, agli amici che avrebbero compreso», l'assistenza ricevuta da questi due siciliani consapevoli, pronti a confortare con la propria esperienza personale i risultati delle sue ricerche. L'esame del dattiloscritto conferma i miei ricordi circa l’ordine di stesura. Quando aveva cominciato, Lampedusa mi disse: «saranno 24 ore della vita di mio bisnonno il giorno dello sbarco di Garibaldi»; e, dopo qualche tempo, «non so fare l’Ulysses». Avrebbe voluto allora ripiegare sullo schema di tre tappe di 25 anni: 1860 sbarco di Marsala; 1885 morte del Principe (la vera data di morte del bisnonno, non so perché pot anticipata al 1883); 1910 fine di tutto. Il dattiloscritto rivela che «La morte del Principe» era originariamente la parte II, e la «Fine di tutto» la IV e conclusiva. La numerazione dei fogli passa infatti da un 63 a chiusura della seconda parte ad un 64, cancellato ma leg-
gibile, in apertura de «La morte del Principe»; e ricordo d'altronde distintamente la lettura di questa anteriormente alle altre due parti ambientate a Donnafugata. Son sicuro anche che i Ricordi d’infanzia furono iniziati dopo Il Gattopardo, e probabilmente la ricchezza di memorie suscitate dalla ricostruzione mentale di Santa Margherita, l'urgenza di narrare, avranno fatto dilagare la materia oltre gli argini di uno schema precostituito. La correzione della numerazione, tanto delle parti che delle pagine, da «La morte del Principe» in poi, indica l'aggiunta prima della parte III e poi il suo sdoppiamento in parte III e parte IV (quest’ultima è quella che venne spedita a Federici in un se-
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Il Gattopardo
condo tempo), cosicché l'intestazione de «La morte del Principe» passa da un III battuto a macchina ad un IV a penna, corretto infine (sempre a penna) in V. Ed altrettanto dicasi per l’ultima parte, passata da IV a V, e poia VI.
Man mano che procedeva nella scrittura l’autore era assalito dall'ansia della comunicazione. Dalla sua agenda tascabile per il 1956 trascrivo le giornate in cui si fa menzione della «Histoire sans nom», come il libro viene indicato
prima di chiamarsi Il Gattopardo. Sono annotazioni private che rivelano il dispiegarsi degli affanni e degli affetti. 22 febbraio — «Tempo soleggiato in mattinata. Sereno e freddo la sera. Alle 18,30 “the boys”. Gioitto mi regala il “Lope de Vega”. E con lui leggo La moza de cantaro. Scrittura del romanzo». 28 febbraio - «Tempo migliore e quasi bello. Al Massimo [primo bar del giro mattutino era la pasticceria del Massimo] Aridon [l'amministratore delle traversie ereditarie Lampedusa sue e della cugina Carolina Lo Piccolo Tomasi] cui leggo lettera zio Pietro. Improvvisa apparizione di Lucio. Si hanno più rassicuranti notizie per via Butera. Da M. [M. sta per Mazzara, il caffè dove lo scrittore giungeva verso le 10] prima Fatta dopo ritorno di Lucio, poi Agnello e infine il preavvisato Gioitto. Con lui e Lucio colazione da Renato, che si svolge bene ed allegra. A casa alle 16. Manca Orlando. Alle 18,30 viene Giò per l’analisi, du-
rante la quale io mi travaglio per il Principone». 29 febbraio - «Tempo medio verso il buono. uscire telefonata a Corrao. Dopo il Massimo vo Mazzarino (per secondo incontro Lucio ancora mo). Con Giò partenza in treno alle 10,40.
Prima di a palazzo a PalerArrivo a
Sant'Agata e alle 13,15 a Capo d'Orlando. Casa deserta,
abitata soltanto da un nuovo telescopio e da un globo terraqueo. Poco dopo giunge Lucio. Dopo colazione lungo sonno di Gioitto e dopo il latte pomeridiano lettura della mia “Histoire sans nom” che viene completata dopo il pranzo. Il successo è decente senza alcun entusiasmo».
Premessa
5)
1 marzo — «Tempo bello. Capo d'Orlando. Alle 18 viene Daneu che resta a pranzo e va via alle 21,15. In serata,
ri-lettura al grosso pubblico». 7 marzo — «Da M. Aridon. Dopo, lunga scrittura della “Histoire sans nom”. Alle 18,30 Giò e Mirella. Tanto lui che lei mi parlano di Agnello. Pranzo con i “boys” alla Pizzeria. Pare che Mirella si sia aspramente doluta di Giò a Licy fino a minacciare di piantarlo». 8 marzo—«Tempo bello in mattinata; a sera pioggerelle e tuoni. Da M. Aridon. Dopo termino lè la “Histoire sans nom”. Alle 18,50 Orlando cui leggo ciò che ho scritto oggi».
17 marzo— «Tempo velatino ma bello e caldo. Al Massimo Aridon. Da M. Corrado Fatta. Alle 16 Orlando al quale leggo molto Tomasi e poco Werther. Alle 19 (in ritardo) “the boys” che mi recano lei le tragedie di Della Valle, lui una cravatta. Mirella ha lezione di Rinascimento; Gioitto vorrebbe leggere Gongora con me, invece subisce lettura delTomasi. Ambedue straordinariamente affettuosi». Le seguenti annotazioni si riferiscono invece alla reda-
zione dattiloscritta. 16 giugno — «Da M. Giò con cattive notizie circa salute
della madre di Mirella. Alle 15,50 partenza di Licy per Roma. All'ultimo momento arriva a salutare Giò. Con lui da Orlando dove copio manoscritto. Alle 18,30 Giò viene
a casa (Las famosas asturianas). In serata lettura del 1° cap. del Gattopardo alla signora Iliascenko che non ne capisce niente».
26 luglio — «Alle 15 da Orlando per copia del Gattopardo. Alle 17,30 alla clinica Noto per seconda medicazione al naso. Alle 21 vengono “the boys” e andiamo a pranzo da
Spanò, mentre Licy va a Villa Igiea a pranzare invitata dal Rotary insieme alle Soroptimist. Dopo pranzo andiamo anche noi aVilla Igica a prendere Licy e dopo da Lo Monaco». 23 agosto «Alle 11,15 vo da Orlando per copiare ultima parte del Gattopardo. Alle 13,30 con Orlando colazione al Castelnuovo; dopo riprendiamo e completiamo lavoro sino alle 17,50. Viene Giò che mi riporta a casa in macchina».
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Il Gattopardo
Il dattiloscritto in quei mesi fu anche letto in casa di Bebbuzzo Sgadari e dato in prestito ad alcuni amici, fra cui Corrado Fatta e mia madre. Nessuno vi vide un gran romanzo, piuttosto ne veniva sottolineata la rispondenza a fatti reali della Palermo di altri tempi, con un misto di divertimento e di repulsione. Soltanto i passi estreanei alla palermitanità fecero colpo: l’incontro con Chevalley e la morte del Principe. Dal canto suo Licy, immune dagli affetti locali, credette sin dall'inizio al valore del romanzo.
Le traversie della pubblicazione hanno fornito nuova esca al mito romantico del genio incompreso. Per la verità i lettori della Mondadori e lo stesso Elio Vittorini, che scorse il dattiloscritto prima per la Mondadori e pot lo lesse attentamente per la Einaudi, commisero un madornale errore commerciale piuttosto che critico: essi, infatti, riconobbero
nel Gattopardo :/ talento di uno scrittore. La risposta personale di Vittorini raggiunse Giuseppe Tomasi a Roma: «come recensione non c'è male, ma pubblicazione niente»,
mi disse il giorno prima della sua morte. Se Vittorini era un letterato in grado di riconoscere un avversario degno di considerazione, sosteneva anche di non essere l’uomo fatto per
proteggerlo. Eppure non osteggiò radicalmente Il Gattopardo. Segnalò alla Mondadori di tenerlo d'occhio, ma, come mi ba riferito Vittorio Sereni, sfortuna volle che il burocrate di turno, invece di rispondere all'autore con una lettera interlocutoria, restituisse il dattiloscritto al mittente
con le generiche frasi d'uso. I diciotto mesi intercorsi fra l'invio del dattiloscritto ad Elena Croce e la sua pubblicazione nei “Contemporanei” della Feltrinelli non sarebbero poi stati troppisela morte non fosse stata più lesta. La trage-
dia è affatto umana, non letteraria.
Quando nel maggio del 1958 Giorgio Bassani venne a Palermo sulle orme del Gattopardo #/ dattiloscritto era già stato composto, e così pure l'episodio del ballo, trasmessogli in una copia dattiloscritta fatta redigere dalla principessa vedova. Bassani aveva il sospetto di avere un testo incom-
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piuto, forse scorretto, e scopo precipuo della visita siciliana era quello di risalire alle fonti. Gli affidai allora il manoscritto del 57. Egli se ne servì per ritoccare le bozze delle sette parti già composte, e quale fonte esclusiva per la parte V, «Le vacanze di padre Pirrone». La principessa non gli aveva affidato questo intermezzo contadino; in quanto, basandosi su un ripensamento verbale dell'autore, riteneva che dovesse essere espunto dal romanzo. Effettivamente Giuseppe Tomasi non era interamente soddisfatto dell’apologia di un aristocratico fatta da padre Pirrone all’erbuario appisolato: essa introduceva, a suo avviso, una glossa al comportamento di don Fabrizio invece di giustificarlo sermplicemente nei fatti, un momentaneo passaggio all’“esplicito”, su cui l’autore era perplesso, in quanto egli era ilprimo ad ammettere, secondo la propria estetica e la preferenza per l’implicito, la debolezza del passo. Il Gattopardo della prima edizione Feltrinelli (1958) è pertanto condotto sui dattiloscritti, ad eccezione delle vacanze di padre Pirrone; controllato sul manoscritto del 57 per le varianti (nel passare dal dattiloscritto all'ultimo manoscritto l’autore ha apportato migliaia di correzioni ed aggiunte che Bassani ha quasi sempre riportato nella sua edizione); integrato premettendo i sommari dell'indice analitico alle singole parti; rivisto radicalmente dal curatore nella punteggiatura. Sorge a questo punto il problema di sapere che cosa i primi lettori del romanzo hanno letto e quanto genuino esso sia. Ebbene, a conferma di quanto avevo già scritto su «La Fiera Letteraria» nel 1968, nel vivo della polemica
sulla autenticità del testo, posso dire che i lettori hanno avuto un testo autentico, rivisto con competenza, privo di
sostanziali alterazioni. Le divergenze fra il manoscritto del ’57 e l'edizione a stampa sono sì migliaia, ma, salvo una trentina, irrilevanti, e, salvo due casi, di limitata importanza. D'altra parte le divergenze esistono, e giova qui
fornire una guida alla loro interpretazione.
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Il Gattopardo
Le centinaia di sostituzioni di «Don Fabrizio» a «il Principe», la inversione nell'ordine delle parole, si giustificano sul piano dell'eufonia. Varianti anche più ampie, quali la soppressione od inserzione di un inciso, appartengono so-
vente alla sovrastruttura narrativa senza pertanto alterare il messaggio, la poetica o la poesia del testo. Ad esempio, la frase di Màlvica: «un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è», è
completata nel manoscritto da un: «essa è svincolata dalle persone», spiegazione ovvia di quanto già detto, introdotta pleonasticamente per render più naturale, o, forse, trattandosi di Màlvica, più banale il discorso diretto. Non sempre poi queste varianti sono, anche nei limiti di cui s'è detto, letterariamente valide. «La peccatrice è lei!» impreca don Fabrizio nel dattiloscritto, rivolto al portico della Catena; cor-
retto in «La vera peccatrice è lei!». Correzione che riduce l’incisività di una scansione in anacrusi sul «léi», convalida-
ta dall’ammicco ad una costruzione dialettale corrente nell’invettiva di ritorsione («u fissa st’ ttu!»), in una impre-
cazione meno spontanea e più letteraria. Forse l’autore ebbe per un momento timore del vernacolo e delle frasi fatte, fu sopraffatto dall'odio per il color locale. Le stesse motivazioni adduco per la sostituzione di «lo avevo detto» con «la colpa è tua!» nella scenata notturna di Maria Stella. Quante volte abbiamo riso assieme su questa frase ricorrente delle tante Cassandre che hanno “allietato” le nostre famiglie; ed inoltre la sostituzione è psicologicamente infelice: le nostre donne martiri non accusano direttamente il maschio despota; non mettono în dubbio la legittimità dell'autorità, si la-
gnano soltanto di non averla potuta guidare. Sconfino così nell'interpretazione psicologica delle varianti, e, in effetti, vista la mia incapacità a trovare una rea-
le differenza letteraria fra i due testi, colgo nel loro raffronto l'occasione perun ultimo dialogo con Lampedusa, perfar rivivere l’uomo attraverso le varianti. Spesso la sola grafia lo tradisce. Anche se la grafia maiuscola o minuscola dei titoli personali non è rigorosamente unificata, e la presente edi-
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zione rispetta le incongruenze del manoscritto, la preferenza per l’una o per l’altra forma rispecchia, potrei dire, se non altro affettivamente, le gerarchie-sociali. Abbiamo: «Don Fabrizio», ma «don Calogero» e «don Ciccio»; a San Cono il Gesuita è «Padre Pirrone», ma altrove «padre Pirrone», e così pure, minuscolo, in bocca a «Don Fabrizio» nella chiu-
sa delle vacanze. I commenti son superflui. Altrove le varianti precisano l'ansia di realtà, di esporre un messaggio vero, “magro”, senza passioni di parte. Alcune correzioni ridimensionano infatti numerali e superlativi. Le ceste di limont occultate da Russo sono 150 anziché 300; i venti sac-
chetti portati in dote da Angelica contengono 1.000 onze ciascuno anziché 10.000. Soprattutto il romanzo dev'essere verosimile: ilprincipe non ricorda più nelle prime righe del libro i Misteri Gloriosi e Dolorosi, wa, correttamente, soltanto i secondi; Tancredi ha vent'anni invece di ventuno (altrimenti che ci starebbe a fare un tutore); Palermo è «vi-
cina» e non «vicinissima», quando il «coupé» si avvia lungo la discesa che costeggia “La Favorita”; padre Pirrone assolve con una «formula» invece che con una «benedizione». Lampedusa non nomina il nome di Dio invano, ed ancora una volta nel correggere si sovviene «che tutto finisce quaggiù». Scelgo a caso nella prima parte. Anche la lingua dev'essere per quanto possibile scarna, corrente, essenziale: limare il testo alla ricerca dell'“implicito”, del distacco emotivo. Rettifica: «... continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più sublimati» in «nei suoi momenti più astratti». Sublimato appartiene al gergo psicoanalitico, e Lampedusa ha in orrore l'appropriazione giornalistica di una terminologia scientifica. Inoltre questo romanzo costruito sulle descrizioni deve convalidare
la loro verità nell'esperienza dell’autore. A questo erano serviti iRicordi d'infanzia, prima di affrontare le scorribande per Donnafugata ed il ballo dai Ponteleone. Le rettifiche servono a definire ancor meglio le “cose”, realtà imperturbabili, statiche, che condizionano l’uomo all’immobilità. La Sicilia, l'aristocrazia, i contadini, le zitelle banno ciascu-
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no le proprie “cose” e son definiti attraverso di esse. Gli uomini non si differenziano dalle cose e come esse «vanno alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano». Lampedusa è ancor più drastico di Verga. Se in quest’ultimo la vittoria finale della “roba” è scontata, pur tuttavia i vinti hanno per un momento creduto di poterla possedere. Per entrambi la “roba” e le “cose” son la totalità del reale. Ma in Verga abbiamo l’inanità di una soluzione mercantile, borghese; in Lampedusa l'annientamento dinastico dell'individuo,
l’idolatria del fidecommesso. Le “cose” di Lampedusa non possono esser “maneggiate” meglio di come lo son sempre
state, anzi saranno esse a trasformare «nel corso di tre generazioni efficienti cafoni in gentiluomini indifesi», 0 a trascinare il “continentale”, anche un «sant'uomo» come il cardinale di Palermo, «nella palude della disaffezione». Anche le due sole essenziali discordanze fra dattiloscritto e manoscritto sono meticolose descrizioni di oggetti. Soppressa la catalogazione, quasi una didascalia, dello stanzino da bagno a Donnafugata (p. 71 nota); sostanzialmente ampliata l’elencazione dell’attrezzeria specifica nell’appartamento dei sadici (p. 154). Nell’un caso ebbe forse ancora una volta timore che il quotidiano, la cronaca di Santa Margherita,
potesse invadere lo spazio narrativo; nell'altro volle invece precisare quell’agognata perennità del fidecommesso, e si servì della sua tecnica preferita, quella della contaminazione, sommando ricordi amatissimi e letterari ad oggetti altrettanto amati e perduti: i rotolini di corda di seta, le scato-
lucce, le bottigliette emergono con la patina preziosa dei pezzi d'antiquariato, ed al tempo stesso ripercorrono l’emozione del fanciullo a caccia di tesori nelle soffitte. E chiaro,
ma ben poco importante per il lettore, che Lampedusa non praticava l'invenzione pura, ma, come ho detto, cercava negli scritti di cristallizzare la propria esperienza umana. Tutto ciò è soltanto approssimativamente autobiografia. Per
esperienza s'intende il particolare rapporto dell'individuo con la realtà circostante, il significato che egli attribuisce al mondo esterno, la sua presa di coscienza, piuttosto che la
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cronaca di com’egli vi abbia vissuto dentro. Compito del narratore Lampedusa è di riferire sulle cose più che su di se stesso, sua tecnica la contaminazione e sovrapposizione di
tempo e di luogo. Non vi è dubbio per me che ogni oggetto del romanzo emerga da associazioni di ricordi strettamente personali, che la loro qualità artistica dipenda da come Lampedusa riesce a giustificare il loro «estremo patire in una necessità generale». Non che to possa spiegarli tutti; ma. mi basta a volte ricordare l’inflessione emotiva della sua voce nel descrivere un oggetto per ritrovarlo poi nel romanzo.
Adesempio, l'aggiunta del 57, «le scatolucce di argento impudicamente ornate», rinvenute nell'armadio dei sadici,
giurerei che rammentano le scene mitologiche scolpite sulle placche di una cornice di ambra, tanto impudiche, secondo
le sue parole, lascive e discrete ad un tempo; esemplari amati, edun giorno posseduti, di una antica cultura aristocratica
dell’implicito, tanto riservata che poteva burlarsi della insensibilità di un suo antenato, il quale se ne era servito per incorniciarvi una madonna. Direi anzi che la garanzia del risultato artistico consiste nell’autenticità del ricordo originale. Quanto vi è di “oleografico” nel romanzo, secondo la definizione più negativa contenuta nella risposta personale di Vittorini, dipende proprio da una ambientazione storica di seconda mano. La individuerei principalmente in certi discorsi in prima persona di Tancredi. Nel personaggio confluiscono esperienze dirette, alcuni tratti del mio gestire fisico e il legame affettivo strettosi fra noi negli ultimi anni della sua vita, ma la traccia storica è fornita da alcuni precisi riferimenti genealogici e topografici e da una esauriente conoscenza della diaristica contemporanea; ed in particolare l’esteriorità del comportamento di Tancredi, il suo modo brioso di far la rivoluzione, si rinvengono nei Tre mesi nella Vicaria di Palermo nel 1860 di Francesco Brancaccio di Carpino. È questo uno frai
testi meno eroici della diaristica garibaldina. Brancaccio ed i suoi amici affrontano la rivoluzione del 60 come giovanotti di buona famiglia si sentono oggi stuzzicati dalle mo-
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tociclette da un litro: qualche avventura, poche battaglie, niente disciplina; e, nel caso di Brancaccio, il libro è l’occasione per poter nominare fra i suoi fraterni amici gran parte dei titolati dell’isola, che non sono davvero pochi. Ma inevi-
tabilmente la realtà di Brancaccio è artefatta, quanto quella di Lampedusa è empirica. Frasi come «Ritornerò col tricolore» sono del Tancredi secondo Brancaccio, tanto che l’au-
tore sente a più riprese il bisogno di denunziarne l'enfasi, e la giustifica con l’opportunismo. Tancredi e Angelica, quando agiscono politicamente in prima persona, sono î so-
li personaggi parzialmente costruiti fuori della cronaca e della memoria, ma in un tenace pragmatista come Lampedusa l’esperienza è insostituibile. Lampedusa era capace di sceneggiare perfettamente gli sciapi, ma veri, appunti di
diario di suo nonno, Giuseppe Tomasi (vi si ritrova la giornata incorniciata da rosari e pratiche di devozione, la passione dei cavalli, e, diciamo pure, il grigiore del primogenito Paolo): questi erano esperienza che poteva far vera, la bal danza spadaccina diBrancaccio, no. Quando essa permea il comportamento di Tancredi, la fa seguire da una didascalia. Agli orecchi di questo grande realista il suono è ciaccato ed occorre porvi rimedio. Soccorre a questo proposito il raf-
fronto proposto da Moravia fra Il Gattopardo e Le confessioni di un italiano; entrambi i testi descrivono affettivamente una civiltà al tramonto, ma Lampedusa fa suonare il
campanello di allarme non appena la volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di sembrare, mentre Nievo può abbandonarsi alla retorica della patria e dell'amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande cittadino veneto e un cattivo italiano. Lampedusa, il cui romanzo ha corroso il culto dell'Unità quanto Le mie prigioni corrosero i meriti oggi rimpianti dell’ammiinistrazione austriaca, stava all'erta. La retorica del Risorgimento gli è certo più invisa della ideologia del Risorgimento che dopotutto condivideva (da stendhaliano genuino non sapeva resistere all’'ammirazione per le ideologie rivelatesi efficaci, ed era pertanto un segreto ammiratore di tutte le rivoluzioni, compresa quella
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d'Ottobre); pertanto, favorito dalla circostanza di descrive-
re l'emergere della nazione italiana da una prospettiva temporale in cui la spinta ideologica si era ormai esaurita in tanti esiti indesiderabili, Lampedusa cercherà letterariamente
di correggere le cadute di gusto che ogni ideologia inevitabilmente reca con sé. A volte ancora Brancaccio fornisce una quinta ambientale, ad esempio La bella Gigugì cantata in Brancaccio dai garibaldini alla presa di Milazzo torna nel Gattopardo intonata dai galoppini continentali durante la campagna per il plebiscito; ma le commozioni ottocentesche possono en-
trare nel Gattopardo soltanto a patto di esser derise: la canzone descritta da Brancaccio come inno di concordia nazionale è a Donnafugata un altro emblema dell’inconciliabilità fra siciliani ed invasori. Ridotte a schemi le emozioni positive permangono soltanto nelle strutture della forma romanzo, ed interferiscono assai di rado con la descrizione minuziosa di quel regno minerale, fatto di fossili animati ed inanimati, in cui Lampedusa identifica la condizione siciliana. La scoperta di Bassani e il diniego di Vittorini non sono bizze di letterati. Bassani è anche egli un notomista dei vinti; mentre il rifiuto della trascendenza,
anche a livello di ideologia, è attivamente sgradevole a chi pensi di poter contribuire al progresso del mondo. Ho accennato di sfuggita alla difficoltà di accordare una preferenza al testo dattiloscritto o alla ricopiatura manoscritta. Da un lato si può tendere a considerare le stesure successive munite della clausola «annullans, irritans, omne aliud testamentum» (mi permetto, a dispetto dell'autore, di
farmi forte sul melodramma, e per di più sul Gianni Schicchi), dall'altro l’opera di Lampedusa mancherà sempre della rifinitura ultima, quella che soltanto lui avrebbe potuto darle. Non che si possa parlare di fonti che banno bisogno di integrazioni. Esse sono entrambe assai prossime ad un testo
definitivo, entrambe leggibili, con un numero esiguo di sviste. Entro questi limiti angusti non misentirei di affermare
che il manoscritto sia preferibile al dattiloscritto; lo è nella
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maggior parte dei casi, non sempre. Ciò premesso sarebbe stato fuori luogo correggere il manoscritto anche limitandosi alle sole consuetudini editoriali. Ho aggiunto soltanto la parola «cane» a p. 49, riga 32, saltata nella fretta della ricopiatura e integrato qualche parola rimasta tronca. Per il resto ho rispettato integralmente la grafia e la punteggiatura, anche lì dove essa è tanto anomala da apparire scorretta. Così a p. 129, riga 34, si troverà «qualunqui» (ma questo plurale è confermato dal dattiloscritto ed è stato corretto da Bassani); «qualche d’uno» invece di “qualcheduno”; «sé stesso» invece di “se stesso”; la grafia italiana «frack» invece di “frac”. Così pure è stata rispettata la punteggiatura dell'originale, più scarna di quella del dattiloscritto, e già questa era stata estesamente rivista da Bassani. Essa presenta alcune caratteristiche tipiche ed în un certo senso moderne. Lampedusa adopera il punto soltanto quando ha esaurito per intero un tema. Altrimenti preferisce separare i periodi col punto e virgola. Il suo uso della virgola è poi musicale piuttosto che grammaticale; la virgola indica la ripre-
sa di fiato, e non sempre coincide con l’inizio di una coordinata o incidentale, anzi queste ultime sono sovente ignorate dalla punteggiatura. L’edizione secondo il manoscritto del 1957 appare quindi con quel minimo di incompiutezza in cui l’autore
ha lasciato l’opera sua. Da essa, come ho accennato, si posson trarre varie considerazioni psicologiche sul procedere
creativo. Rettificarla avrebbe significato compromettere l'originalità della ricopiatura del 1957, la quale si distingue dalla precedente edizione a stampa più per la fragranza dell'appena incompiuto, che per sostanziali apporti alla qualità e alla definizione dell’opera. Possa questa edizione restituire al lettore l’uomo Lampedusa un po’ più vivo, ed un’opera letteraria meno levigata, senza l’ultima patina editoriale, quella che Bassani le aveva concesso. (Prima redazione per l’edizione del Gattopardo conforme al manoscritto del 1957, Feltrinelli, Milano 1969.)
PARTE PRIMA
Maggio 1860
«Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.»
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un’Andromeda cui la tonaca di Padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì per un bel po’ di rivedere l’argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio. Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso
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una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés. AI di sotto di quell’Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da più di un mese, dal giorno dei “moti” del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l’intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il duca
Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: “Guiscardo”, il sauro irlandese, gli era
sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il
Redentore? La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jaîs mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso. Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effi-
Parte prima
Zi
mera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva posato il ginocchio, e un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto. Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni
mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un
frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva
spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d’altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e “cercatori di comete” che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio
privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per quell’aristocratico siciliano nell’anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa,
perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e
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amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano. Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconosci menti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l’illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come di fatto sembravano fare) e che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimen-
ticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati più una profezia che un’adulazione. Sollecitato da una parte dall’orgoglio e dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità e faciloneria
del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a con-
templare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor
voglia di porvi riparo. Quella mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei
momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne i preci stava ore prima la pur dubbia calma. Preceduto da un Bendicò eccitatissimo discese la breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso com'era questo fra tre mura e un lato della villa, la reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai montic-
ciuoli paralleli delimitanti i canaletti d’irrigazione e che sembravano tumuli di smilzi giganti. Sul terreno rossiccio le piante crescevano in fitto disordine, i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte per impedire più che per dirigere i passi. Nel
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fondo una flora chiazzata di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; ai lati due panche sostenevano cuscini ravvoltolati e trapunti, anch'essi di marmo grigio, e in un angolo l’oro di un albero di gaggìa intrometteva la propria allegria intempestiva. Da
ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia. Ma il giardino, costretto e macerato fra le sue barriere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello protocollare delle rose ed a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche il profumo della menta misto a quello infantile della gaggìa ed a quello confetturiero della mortella, e da oltre il muro l’agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zAgare. Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa ma l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Pau! Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi turpe che
nessun allevatore francese avrebbe osato sperare. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell'Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte. Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni d’idee. “Adesso qui c’è buon odore, ma un mese fa...” Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la
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causa: il cadavere di un giovane soldato del 5° Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le un-
ghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le
viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando continuamente per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. Il tutto con preoccupante perizia. «Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte» diceva. Era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta. Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sì, lo avevano
trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo) un De Profundis per l’anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle
donne di casa essendosi dichiarata soddisfatta. Don Fabrizio andò a grattar via un po’ di lichene dai piedi della Flora e si mise a passeggiare su e giù. Il sole basso proiettava immane l'ombra sua sulle aiuole funeree. Del morto non si era parlato più, infatti; ed, alla fin
dei conti, i soldati sono soldati appunto per morire in difesa del Re. L'immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o
Parte prima
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per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia. «Ma è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro» gli avrebbe risposto suo cognato Màlvica se Don Fabrizio lo avesse interrogato, quel Màlvica scelto sempre come portavoce della folla degli amici. «Per il Re, che rappresenta l'ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l'onore; per il
Re che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della proprietà, mèta ultima della “setta”.» Parole bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle radici del cuore. Qualcosa però strideva ancora. Il Re, va bene. Lo conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l’attuale non era che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. «Ma questo non è ragionare, Fabrizio», ribatteva Màlvica «un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone.» «Vero anche questo; ma i Re che incarnano un’idea non possono,
non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l’idea patisce.»
Seduto su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano. «Buono Bendicò, vieni
qui.» E la bestia accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione del bel lavoro compiuto gli veniva perdonata. Le udienze, le molte udienze che Re Ferdinando gli aveva concesse, a Caserta, a Napoli, a Capodimonte, a Portici, a casa del diavolo...
A fianco del ciambellano di servizio che lo guidava chiacchierando, con la feluca sotto il braccio e le più fre-
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Il Gattopardo
sche volgarità napoletane sulle labbra, si percorrevano interminabili sale di architettura magnifica e di mobilio stomachevole (proprio come la monarchia borbonica), ci s’infilava in anditi sudicetti e scalette mal tenute e si sbucava in un’anticamera dove parecchia gente aspettava: facce chiuse di sbirri, facce avide di questuanti raccomandati. Il ciambellano si scusava, faceva superare l'ostacolo della gentaglia, e lo pilotava verso un’altra anticamera, quella riservata alla gente di Corte: un ambientino azzurro e argento; e dopo una breve attesa un servo grattava alla porta e si era ammessi alla Presenza Augusta. Lo studio privato era piccolo e artificiosamente sem-
plice: sulle pareti imbiancate un ritratto del Re Francesco I e uno dell’attuale Regina, dall’aspetto inacidito; al di sopra del caminetto una Madonna di Andrea del Sarto sembrava stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di terz’ordine e santuari napoletani; su di una mensola un Bambino Gesù in cera col lumino acceso davanti; e sulla immensa scrivania carte bianche, carte gialle, carte azzurre: tutta l’ammini-
strazione del Regno giunta alla sua fase finale, quella della firma di Sua Maestà (D.G.). Dietro questo sbarramento di scartoffie, il Re. Già in piedi per non essere costretto a mostrare che si alzava; il Re col faccione smorto fra le fedine biondiccie, con quella giubba militare di ruvido panno da sotto la quale scaturiva la cateratta violacea dei pantaloni cascanti. Faceva un passo avanti con la destra già inclinata per il baciamano che avrebbe poi rifiutato. «Ne’, Salina, beate
quest'uocchie che te vedono.» L’accento napoletano sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano. «Prego la Vostra Real Maestà di voler scusarmi se non indosso la divisa di Corte; sono soltanto di passag-
gio a Napoli e non volevo tralasciare di venire a riverire la Vostra Persona.» «Salina, tu vo’ pazziare; lo sai che a
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Caserta sei come a casa tua. A casa tua, sicuro» ripeteva sedendo dietro la scrivania e siii un attimo a far sedere l’ospite. «E e ’ppeccerelle che fanno?» IlPrincipe capiva che a questo punto occorreva piazzare l’equivoco salace e bigotto insieme. «Le peccerelle, Maestà? alla mia età e sot-
to il sacro vincolo del matrimonio?» La bocca del Re rideva mentre le mani riordinavano stizzosamente le carte. «Non mi sarei mai permesso, Salina. Io domandavo d’e ’ppeccerelle toie, d’e Principessine. Concetta, la cara figlioccia nostra, dev'essere granne ora, ’na signorina.» Dalla famiglia si passò alla scienza. «Tu, Salina, fai onore non solo a te stesso, ma a tutto il Regno! Gran bella cosa la scienza quando non le passa p’a capa di attacca-
re la religione!» Dopo, però la maschera dell’amico veniva posta da parte e si assumeva quella del Sovrano Severo. «E dimmi, Salina, che si dice in Sicilia di Castelcicala?» Don Fabrizio si schermiva: ne aveva inteso dir corna tanto da parte regia come da parte liberale, ma non voleva tradire l’amico, si manteneva sulle generalità. «Gran signore, gloriosa ferita, forse un po’ anziano per le fatiche della Luogotenenza.» Il Re si rabbuiava: Salina non voleva far la spia, Salina quindi non valeva niente per lui. Appoggiate le mani alla scrivania, si preparava a dar congedo. «Aggio tanto lavoro; tutto il Regno riposa su queste spalle.» Era tempo di dare lo zuccherino; la maschera amichevole rispuntò fuori dal cassetto: «Quanno ripassi da Napoli, Salina, vieni a far vedere Concetta alla Regina. Lo saccio è troppo giovane pe’ esse presentata a Corte,
ma un pranzetto privato non ce l’impedisce nisciuno. Maccarrune e belle guaglione, come si dice. Salutamo, Salina, statte bbuono.»
Una volta però il congedo era stato cattivo. Don Fabrizio aveva già fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò: «Salina, stamme a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive frequentazioni. Quel
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Il Gattopardo
tuo nipote Falconeri... perché non gli rimetti la testa a posto?» «Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte.» Il Re perse la pazienza. «Salina, Salina, tu pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse o cuollo. Salutamo.» Ripercorrendo l’itinerario fastosamente mediocre per andare a firmare sul registro della Regina, lo scoramento l’invadeva. La cordialità plebea lo aveva depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza regale. Lui non poteva. E mentre palleggiava pettegolezzi con l’impeccabile ciambellano andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il Piemontese,
il cosidetto Galantuomo
che faceva tanto
chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano; e basta. Si era giunti al registro. Firmava: Fabrizio Corbera, Principe di Salina. Oppure la Repubblica di don Peppino Mazzini? “Grazie. Diventerei il signor Corbera.” E la lunga tappa del ritorno non lo calmò. Non poté consolarlo neppure l'appuntamento già preso con Cora Danòlo. Stando così le cose, che restava da fare? Aggrapparsi a quel che c’è senza far salti nel buio? Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, così come erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo; ma le scariche anch'esse a cosa servivano? «Non si conchiude niente con i “pum! pum!” È vero, Bendicò?» “Ding, ding, ding!” faceva invece la campana che annunziava la cena, Bendicò correva con l’acquolina in bocca per il pasto pregustato. “Un Piemontese tale e quale!” pensava Salina risalendo la scala.
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La cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie. Il nu- © mero dei commensali (quattordici erano fra padroni di casa, figli, governanti e precettori) bastava da solo a conferire imponenza alla tavola. Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa splendeva sotto la luce di una potente “carsella” precariamente appesa sotto la “ninfa”, sotto il lampadario di Murano. Dalle finestre entrava ancora luce ma le figure bianche sul fondo scuro delle sovrapporte, simulanti dei bassorilievi, si perdevano già nell'ombra. Massiccia l’argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i bugnati di Boemia le cifre F.D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre, non erano che dei superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri e provenivano da servizi disparati. Quelli di formato più grande, Capodimonte vaghissimi con la larga bordura verde-mandorla segnata da ancorette dorate, erano riservati al Principe cui piaceva avere intorno a sé ogni cosa in scala, eccetto la moglie. Quando entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro alle loro sedie. Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo . danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, | fatica grata simbolo delle mansioni altrici del pater fanzi| lias. Quella sera però, come non era avvenuto da tempo,
: si udì minaccioso il tinnire del mescolo contro la parete | della zuppiera: segno di collera grande ancor contenuta, i uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come i diceva ancora quarant'anni dopo un figlio sopravvissui to: il Principe si era accorto che il sedicenne Francesco | Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo entrò subito | («scusatemi, papà») e sedette. Non subì rimprovero ma
i padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane
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Il Gattopardo
da mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era esplosa ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la tavola e la cena era rovinata lo stesso. Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di timore. Invece! “Bella famiglia” pensava. Le femmine grassoccie, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e,
fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le posate con sorvegliata violenza. Uno di essi mancava da due anni, quel Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso. Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria salute e si affermava, stranamente,
di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni anziché l’esistenza “troppo curata” (leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l’ansietà per il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S’incupì ancora di più. S'incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tovaglia. Gesto improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser compianto, sensualità risvegliata ma non più diretta verso
chi l'aveva ridestata. In un lampo al Principe apparì l’immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: «Domenico» disse a un servitore «vai a dire a don Antonino di attaccare i bai al coupé; scendo, a Palermo subito dopo cena». Guardando gli occhi della moglie che si erano fatti vitrei si pentì di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette,
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unendo anzi la beffa alla crudeltà: «Padre Pirrone, venga con me, saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a Casa Professa con i suoi amici». Andare a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza scopo, se si eccettuasse quello di un’avventura galante di basso rango: il prendere poi come compagno l’ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza. Almeno padre Pirrone lo sentì così, e se ne offese; ma, naturalmente, cedette. L’ultima nespola era stata appena ingoiata che già si udiva il rotolare della vettura sotto l’androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a don Fabrizio e il tricorno al Gesuita, la Principessa ormai con le lagrime agli occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: «Ma,
Fabrizio, di questi tempi... con le strade piene di soldati, piene di malandrini... può succedere un guaio». Lui ridacchiò. «Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne
sono pochi a Palermo. Addio.» E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al livello del suo mento. Però, sia che l’odore della pelle della Principessa avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro di lui il passo penitenziale di padre Pirrone avesse destato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre apriva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo «Fabrizio, Fabrizio mio!» giunse dalla finestra di sopra, seguito da strida acutissime. La Principessa aveva una delle sue crisi isteriche. «Avanti!» disse al cocchiere, che se ne stava a cassetta con la frusta in diagonale sul ventre. «Avanti, andiamo a Palermo a lasciare il Reverendo a Casa Professa.» E sbatté lo sportello prima che il cameriere potesse chiuderlo. Non era ancora notte chiusa e incassata fra le alte mu-
ra la strada si dilungava bianchissima. Appena usciti dal-
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Il Gattopardo
la proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell’orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto carissimo all’irritabile Principe che scorgeva in lui un’allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da
improvvise crisi di serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent'anni Tancredi si dava bel tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. “Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinando per ora” pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l’enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell’oscurità un aspetto abusivo di fasto. “Chissà cosa sta combinando.” Perché Re Ferdinando, quando aveva parlato delle cattive frequentazioni del giovanotto, aveva fatto male a dirlo ma aveva avuto, nei fatti, ragione. Preso in una rete di amici giocatori, di amiche, come si diceva, “scondottate” che la sua esile at-
trattiva dominava, Tancredi era giunto al punto di aver simpatie per le “sette”, relazioni col Comitato Nazionale segreto; forse prendeva anche dei quattrini da lì, come ne prendeva, d’altronde, dalla Cassetta Reale. E c’era voluto del bello e del buono, c'erano volute visite a Castelcicala scettico ed a Maniscalco troppo cortese per evitare al ragazzo un brutto guaio dopo il Quattro Apri-
le. Non era bello tutto ciò; d’altra parte Tancredi non poteva mai aver torto per lo zio, la colpa vera quindi era dei tempi, di questi tempi sconclusionati durante i quali
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un giovanotto di buona famiglia non era libero di fare una partita a “faraone” senza inciampare in amicizie compromettenti. Brutti tempi. «Brutti tempi, Eccellenza.» La voce di padre Pirrone risuonò come un’eco dei suoi pensieri. Compresso in un cantuccio del coupé, premuto dalla massa del Principe, piegato dalla prepotenza del Principe, il Gesuita soffriva nel corpo e nella coscienza e, uomo non mediocre qual’era, trasferiva subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia. «Guardi, Eccellenza» e additava i monti scoscesi della Conca d’Oro ancor chiari in quell’ultimo crepuscolo. Ai loro fianchi e sulle cime ardevano diecine di fuochi, i falò che le “squadre” ribelli accendevano ogni notte, silenziosa minaccia alla
città regia e conventuale. Sembravano quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le estreme nottate. «Vedo, Padre, vedo» e pensava che forse Tancredi
era attorno a uno di quei fuochi malvagi ad attizzare con le mani aristocratiche la brace che ardeva appunto per svalutare le mani di quella sorta. “Veramente son un bel tutore, col pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa.” La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso as-
sociati in gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi e conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini,
di Francescani, di Cappuccini, di Carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani... Smunte cupole dalle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme il
senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana
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riusciva mai a disperdere. A quell’ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che in realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com'è l’uso, di ozio.
Questo pensava il Principe, mentre i bai procedevano al passo nella discesa; pensieri in contrasto con la sua essenza vera, partoriti dall’ansia sulla sorte di Tancredi e dallo stimolo sensuale che lo induceva a rivoltarsi contro le costrizioni che i conventi incarnavano. Adesso infatti la strada attraversava gli aranceti in fiore e l'aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio: l'odore dei cavalli sudati, l’odore di cuoio delle imbottiture, l’odor di Prin-
cipe e l’odor di Gesuita, tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba. Padre Pirrone ne fu commosso anche lui. «Che bel paese sarebbe questo, Eccellenza, se...» “Se non vi fosse-
ro tanti Gesuiti” pensò il Principe che dalla voce del prete aveva avuto interrotti presagi dolcissimi. E subito si pentì della villanìa non consumata e con la grossa mano batté sul tricorno del vecchio amico. All'ingresso dei sobborghi della città, a villa Airoldi, una pattuglia fermò la vettura. Voci pugliesi, voci napoletane intimarono l’“alt”, smisurate baionette balenarono sotto l’oscillante luce di una lanterna; ma un sottuffi-
ciale riconobbe presto don Fabrizio che se ne stava con la tuba sulle ginocchia. «Scusate, Eccellenza, passate.» E anzi fece salire a cassetta un soldato perché non venisse disturbato dagli altri posti di blocco. Il coupé appesantito andò più lento, contornò villa Ranchibile, oltrepassò Terrerosse e gli orti di Villafranca, entrò in città per
Porta Maqueda. Al caffè Romeres ai Quattro Canti di Campagna gli ufficiali dei reparti di guardia scherzava-
no e sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vi-
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ta della città: le strade erano deserte, risonanti solo del
passo cadenzato delle ronde che andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come
la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla. «Fra due ore ripasserò a prendervi, Padre. Buone orazioni.» Ed il povero Pirrone bussò confuso alla porta del convento, mentre il coupé si allontanava per i vicoli.
Lasciata la vettura al palazzo il Principe si diresse a | piedi là dove era deciso ad andare. La strada era breve, ma il quartiere malfamato. Soldati in completo equipagi giamento, cosicché si capiva subito che si erano allonta‘mati furtivamente dai reparti bivaccanti nelle piazze, ‘uscivano con gli occhi smerigliati dalle casette basse sui cui gracili balconi una pianta di basilico spiegava la facilità con la quale erano entrati. Giovinastri sinistri dai larghi calzoni litigavano nelle tonalità basse dei siciliani arrabbiati. Da lontano giungeva il rumore di schioppet‘tate sfuggite a sentinelle nervose. Superata questa con‘trada la strada costeggiò la Cala: nel vecchio porto pe:schereccio le barche semiputride dondolavano, con l’aspetto desolato dei cani rognosi. “Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, idinanzi alla legge divina e dinanzi all’affetto umano di Stella. Non vi è dubbio e domani mi confesserò a padre ‘Pirrone.” Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebibe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita idei suoi trascorsi di oggi; poi lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento: “Pecco, è vero, ma pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per inon esser trascinato in guai maggiori. Questo il Signore
lo sa.” Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. “Sono un pover’uomo
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debole”, pensava mentre il passo poderoso comprimeva l’acciottolato sudicio “sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent'anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche.” Il senso di debolezza gli era passato. “Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa
il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: ‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e
non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?” Gri dava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. “E giusto? Lo chiedo a voi tutti!” E si rivolgeva al portico della Catena. “La vera peccatrice è lei!” La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.
Due ore dopo era già in coupé sulla via del ritorno insieme con padre Pirrone. Questi era emozionato: i suoi confratelli lo avevano messo a giorno della situazione politica che era molto più tesa di quanto non apparisse nella
calma distaccata di villa Salina. Si temeva uno sbarco dei Piemontesi nel sud dell’isola, dalle parti di Sciacca; e le
autorità avevano notato nel popolo un muto fermento: la teppa cittadina aspettava il primo segno di affievolimento del potere, voleva buttarsi al saccheggio e allo stupro. I Padri erano allarmati e tre di essi, i più vecchi, erano stati
fatti partire per Napoli, col “pacchetto” del pomeriggio, recando con sé le carte della Casa. «Il Signore ci protegga e risparmi questo Regno santissimo.» Don Fabrizio lo ascoltava appena, immerso com'era in una serenità sazia maculata di ripugnanza. Marianni-
na lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servi-
zievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta. In
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un istante di particolare deliquescenza le era anche occorso di esclamare: «Principone!» Lui ne sorrideva ancora, soddisfatto. Meglio questo, certo, che i “7207 chat” od i “720n singe blond” che rivelavano i momenti omologhi di Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa quando per il Congresso d’Astronomia gli avevano consegnato in Sorbona una medaglia d’argento. Meglio di “7207 singe blond” senza dubbio; molto meglio poi di “Gesummaria”; niente sacrilegio, almeno. Era una buona figliuola Mariannina: le avrebbe portato tre canne di seta ponzò, la prossima volta. Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva i versi che stavano lì a conchiudere una poesia strampalata: Seigneur, donnez-moi la force et le courage de regarder mon coeur et mon corps sans dégoùt!
E mentre padre Pirrone continuava a occuparsi di un certo La Farina e di un certo Crispi, il “Principone” si addormentò, in una sorta di disperata euforia, cullato dal trotto dei bai sulle cui natiche grasse i lampioncini della vettura facevano oscillare la luce. Si risvegliò alla svolta dinanzi alla villa Falconeri. «Quello lì pure, che alimenta i tizzoni che lo divoreranno!» Quando si trovò nella camera matrimoniale, il vedere
la povera Stella con i capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo, altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. “Sette figli mi ha dato, | ed è stata mia soltanto.” Un odore di valeriana vagava per la camera, ultima vestigie della crisi isterica. “Povera
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Stelluccia mia” si rammaricava scalando il letto. Le ore passarono e non poteva dormire: Dio, con la mano possente mescolava nei suoi pensieri tre fuochi: quello delle carezze di Mariannina, quello dei versi dell'ignoto, quello iracondo dei roghi sui monti. Verso l’alba però, la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della croce. La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro,
distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. «Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?» «Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una
notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.» Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. «E chi erano queste conoscenze, si può sapere?» «Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al
posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!» Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano
ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo
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di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. «Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?» Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. «Parto,
zione, parto fra mezz'ora. Sono venuto a salutarti.» Il povero Salina si sentì stringere il cuore. «Un duello?» «Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a
nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove,
del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.» Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. «Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per il Re.» Gli occhi ripresero a sorridere. «Per il Re, certo, ma per quale Re?» Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. «Se non ci siamo anche noi, quelli
ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiega-
to?» Abbracciò lo zio un po’ commosso. «Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore.» La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l'enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Gui-
: scardo!” Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si : alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in |
un cassetto. «Tancredi, Tancredi, aspetta», corse dietro
:‘ al nipote, gli mise in tasca un rotolino di “onze” d’oro, ; gli premette la spalla. Quello rideva: «Sussidi la rivoluî Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracè: zione, adesso! ( ci alla zia.» E si precipitò giù per le scale.
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Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico riempiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare
il Principe. “Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta in confronto alla nostra
bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest’accozzaglia di colori stridenti?” Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. «Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?» Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto. Le chiavi, l'orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora un bell’uomo. “‘Rudere libertino!” Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come è lui.” Il passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa era serena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. “Se vogliamo che tutto rimanga com'è...” Tancredi era un grand’uomo: lo aveva sempre pensato. Le stanze dell’Amministrazione erano ancora deserte silenziosamente illuminate dal sole attraverso le persiane chiuse. Benché fosse quello il posto della villa nel quale si compivano le maggiori frivolità, il suo aspetto era di austerità severa. Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti
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i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci dentro le cornici nere e oro si vedeva Salina, l’isola dalle monta-
gne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querceta con le sue case basse attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi; Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi verdini, di cocchi do-
rati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo ter-
so e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno desideroso di esaltare l’illuminato imperio tanto “misto” che “mero” di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose che infatti rimanevano ignote. La ricchezza, nei molti secoli di esistenza si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l’abolizione dei
diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l’ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l’annullare sé stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era composta solo di oli essenziali e come gli oli essenziali evaporava in fretta. Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il volo e permanevano soltanto nelle tele variopinte e nei nomi. Altri sembravano quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti sugli alberi, pronte a partire. Ma ve ne erano tanti; sembrava non potessero
mai finire. Malgrado quest’ultima considerazione, la sensazione provata dal Principe entrando nel proprio studio fu, co-
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me sempre, sgradevole. Nel centro della stanza torreggiava una scrivania con decine di cassetti, nicchie, inca-
vi, ripostigli e piani inclinati. La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico, pie-
na di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che nessuno sapeva più far funzionare all’infuori dei ladri. Era coperta di carte e benché la previdenza del Principe avesse avuto cura che buona parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall’astronomia, quel che avanzava era sufficiente a riempire di disagio il cuore suo. Gli tornò in mente ad un tratto la scrivania di Re Ferdinando a Caserta, anch'essa ingombra di pratiche e di decisioni da prendere con le quali ci si potesse illudere d’influire sul torrente delle sorti che invece irrompeva per conto suo, in un’altra vallata. Don Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d'America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana. Per il povero Re l’amministrazione fantomatica teneva luogo di morfina; lui, Salina, ne aveva una di più eletta composizione: l’astronomia. Cacciando le immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante si tuffò nella lettura del più recente numero del Journal des savants. “Les dernières observations de l’Observatoire de Greenwich présentent un intérét tout particulier...” Dovette però esiliarsi presto da quei sereni regni stellari. Entrò don Ciccio Ferrara, il contabile. Era un
ometto asciutto che nascondeva l’anima illusa e rapace di un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati. Quella mattina era più arzillo del consueto: appariva chiaro che quelle stesse notizie che avevano depresso padre Pirrone avevano agito su di lui come un cordiale. «Tristi tempi, Eccellenza» disse dopo gli osse-
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qui rituali «stanno per succedere grossi guai, ma dopo un po’ di trambusto e di sparatorie tutto andrà per il meglio, e nuovi tempi gloriosi verranno per la nostra Sicilia; non fosse che tanti figli di mamma ci rimetteranno la pelle, non potremmo che essere contenti.» Il Principe borbottava senza esprimere un’opinione. «Don Ciccio» disse poi «bisogna mettere dell’ordine nella esazione dei canoni di Querceta; sono due anni che da lì non si vede
un quattrino.» «La contabilità è a posto, Eccellenza.» Era la frase magica. «Occorre soltanto scrivere a don Angelo Mazza di eseguire le procedure; sottoporrò oggi stesso la lettera alla vostra firma» e se ne andò a rimestare fra gli enormi registri nei quali, con due anni di ritardo, erano minutamente calligrafati tutti i conti di casa Salina, meno quelli davvero importanti.
Rimasto solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle classi che sarebbero divenute dirigenti. “Quel che dice il buon uomo è proprio l’opposto della verità. Compiange i molti figli di mamma che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che è poi la stessa cosa. Crede invece ai ‘tempi gloriosi per la nostra Sicilia” come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E, del resto, perché avrebbe dovuto succedere? E allora
che cosa avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato.” Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la rivista.
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Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria. Poco dopo venne Russo il soprastante, l’uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella “bunaca” di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto e quasi sinceramente devo-
to poiché compiva le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. «Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non durerà molto, ne sono sicuro, e tutto
andrà a finire bene.» Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono d’ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a dieci minuti di strada, in quest'isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito.
Fece cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi: «Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei
immischiato in queste faccende?» Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. «Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre.» (Intanto, tre mesi fa, aveva nascosto nel suo
magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva.) «Ma debbo dire che il mio cuore è con loro, con i ragazzi arditi.» Si alzò per lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto amichevole. Si risiedé. «Vostra Eccellenza lo sa; non se ne può più: perquisizioni, interrogatori,
scartoffie per ogni cosa, uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti propri. Dopo, invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio: i preti so-
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li ci perderanno. Il Signore protegge i poveretti come me, non loro.» Don Fabrizio sorrideva: sapeva che era proprio lui, Russo, che attraverso interposta persona desiderava comprare Argivocale. «Ci saranno giorni di schioppettate e di trambusti, ma villa Salina sarà sicura come una rocca; Vostra Eccellenza è il nostro padre, ed
io ho tanti amici cappello in mano lo zio e il tutore umiliato: adesso
qui. I Piemontesi entreranno solo col per riverire le Eccellenze Vostre. E poi di don Tancredi!» Il Principe si sentì si vedeva disceso al rango di protetto
degli amici di Russo; il suo solo merito, a quanto sem-
brava, era di esser zio di quel moccioso di Tancredi. “Fra una settimana andrà a finire che avrò la vita salva perché tengo in casa Bendicò.” Stropicciava un orecchio del cane fra le dita con tanta forza che la povera bestia guaiolava, onorata, senza dubbio, ma sofferente.
Poco dopo alcune parole di Russo gli diedero sollievo. «Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini
onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima.» Questa gente, questi liberalucoli di campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente. Punto e basta. Le rondini avrebbero preso il volo più presto, ecco tutto. Del resto, ce n’erano ancora tante
nel nido. “Forse hai ragione tu. Chi lo sa?” Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelatrici di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica com-
media con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo era il paese degli accomodamenti, non c’era la furia francese; anche in Francia d’altronde, se si
eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era ‘ successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: «Ho capito benissimo:
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voi non volete distruggere noi, i vostri “padri”; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. È così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come
proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi... “Perché tutto resti com'è.” Come è, nel fondo: soltanto
una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina rimarranno i Salina;
e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli questi, ciondoli quelli.» Si alzò: «Pietro, parla con i tuoi amici. Qui ci sono tan-
te ragazze, bisogna che non si spaventino». «Ero sicuro, Eccellenza; ho di già parlato: villa Salina sarà tranquilla come una badia.» E sorrise affettuosamente ironico. Don Fabrizio uscì seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre Pirrone ma lo sguardo implorante del cane lo costrinse invece ad andare in giardino: Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bel lavoro della sera prima e voleva compirlo a regola d’arte. Il giardino era ancor più odoroso di ieri, e sotto il sole mattutino l’oro della gaggia stonava meno. “Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità dove va a finire?” Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva eludere; per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri re. Ma le forze di difesa della calma interiore, tanto vigilanti nel Principe,
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accorrevano già in aiuto, con la moschetteria del giure,
con l’artiglieria della storia. “E la Francia? Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i Francesi sotto questo Imperatore illuminato che li condurrà certo ai più alti destini? Del resto intendiamoci bene. Carlo III lui era forse perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella battaglia di Corleone, o di Bisacquino o di che so io nella quale i Piemontesi prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute affinché tutto rimanga come è. Del resto neppure Giove era il legittimo re dell'Olimpo.” Era ovvio che il colpo di stato di Giove contro Saturno dovesse richiamare le stelle alla sua memoria.
Lasciò Bendicò affannato dal proprio dinamismo, risalì la scala, traversò i saloni nei quali le figlie parlavano delle amiche del Salvatore (al suo passaggio la seta delle loro sottane frusciò mentre esse si alzavano), salì una lunga scaletta e sboccò nella grande luce azzurra dell’Osservatorio. Padre Pirrone, con l'aspetto sereno del sacerdote che ha detto la messa e preso il caffè forte con i biscotti : di Monreale, sedeva ingolfato nelle sue formule algebri: che. I due telescopi e i tre cannocchiali, accecati dal sole, ‘ stavano accucciati buoni buoni, col tappo nero sull’ocu] lare, bestie bene avvezze che sapevano come il loro pasto | venisse dato solo la sera. La vista del Principe sottrasse il Padre ai suoi calcoli e £ gli riportò alla mente la brutta figura della sera prima. Si : alzò, salutò ossequioso ma non poté fare a meno di dire: c«Vostra Eccellenza viene a confessarsi?» Don Fabrizio, c cui il sonno e le conversazioni della mattinata avevano ! fatto dimenticare l'episodio notturno, si stupì. «Confes$ sarmi? Ma non è Sabato, oggi.» Dopo ricordò e sorrise: ««Veramente, Padre, non ce ne sarebbe neppur bisogno. i Sapete già tutto». Questo insistere nell’imposta compli-
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cità irritò il Gesuita. «Eccellenza, l'efficacia della Confessione non consiste solo nel raccontare le colpe ma nel pentirsi di quanto si è commesso di male; e finché non lo farete e non lo avrete dimostrato a me resterete in peccato mortale, che io conosca le vostre azioni, o no.»
Meticoloso soffiò via un peluzzo dalla propria manica e si rituffò nelle astrazioni. La quiete che le scoperte politiche della mattinata avevano instaurata nell’anima del Principe era tale che egli non fece se non sorridere di ciò che in altro momento gli sarebbe sembrato insolenza. Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia
di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata intorno ai Conventi come un gregge
ai piedi dei pastori. Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma stupefatta. Il sole, che tuttavia era ben lontano in quel mattino del 13
Maggio dalla massima sua foga, si rivelava come l’autentico sole le e lata
sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il narcotizzante anche, che annullava le volontà singomanteneva ogni cosa in una immobilità servile, cul-
in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni. “Ce ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata!” Padre Pirrone si era alzato, aveva raggiustato la propria cintura, e si era diretto verso il Principe con la ma-
no tesa: «Eccellenza, sono stato troppo brusco; conservatemi la vostra benevolenza
ma, date retta a me,
confessatevi». Il ghiaccio era rotto e il Principe poté informare pa-
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dre Pirrone delle proprie intuizioni politiche. Il Gesuita però fu ben lontano dal condividere il sollievo di lui, anzi ridiventò pungente. «In poche parole voi signori vi mettete d’accordo coi liberali, che dico con i liberali! con i massoni addirittura, a nostre spese, a spese della
Chiesa. Perché è chiaro che i nostri beni, quei beni che sono il patrimonio dei poveri, saranno arraffati e malamente divisi fra i caporioni più impudenti; e chi, dopo, sfamerà le moltitudini d’infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e guida?» Il Principe taceva. «Come si farà allora per placare quelle turbe disperate? Ve lo dirò subito, Eccellenza. Si getterà loro in pasto prima una parte, poi una seconda ed alla fine la totalità delle vostre terre. E così Dio avrà compiuto la Sua Giustizia, sia pure per tramite dei massoni. Il Signore guariva i ciechi del corpo; ma i ciechi di spirito dove finiranno?» L’infelice Padre aveva il fiato grosso: un sincero dolore per il previsto sperpero del patrimonio della Chiesa si univa in lui al rimorso per essersi di nuovo lasciato trascinare, al timore di offendere il Principe cui voleva bene e del quale aveva sperimentato la collera rumorosa ma anche l’indifferente bontà. Sedeva quindi guardingo e sogguardava Don Fabrizio che con uno spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella meticolosa sua attività; dopo un po’ si alzò, si pulì a lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione, i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina di grasso rifu| giatasi alla radice delle unghia. Giù, intorno alla villa il silenzio luminoso era profondo, signorile all’estremo;
‘| sottolineato più che disturbato da un lontanissimo abbaiare di Bendicò che insolentiva il cane del giardiniere in fondo all’agrumeto, e dal battere ritmico, sordo del
i coltellaccio di un cuoco che sul tagliere laggiù in cucina triturava della carne per il pranzo non lontano. Il gran sole aveva assorbito la turbolenza degli uomini quanto
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l’asprezza della terra. Don Fabrizio poi si avvicinò al tavolo del Padre, sedette e si mise a disegnare puntuti gigli borbonici con la matita ben tagliata che il Gesuita nella sua collera aveva abbandonata. Aveva l’aria seria ma tanto serena che in padre Pirrone svanirono subito i crucci. «Non siamo ni. Viviamo in adattarci come re. Alla Santa
ciechi, caro Padre, siamo soltanto uomiuna realtà mobile alla quale cerchiamo di le alghe si piegano sotto la spinta del maChiesa è stata esplicitamente promessa
l'immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no. Per noi
un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità. Potremo magari preoccuparci per i nostri figli, forse per i nipotini; ma al di là di quanto possiamo sperare di accarezzare con queste mani non abbiamo obblighi; ed io non posso preoccuparmi di ciò che saranno i miei eventuali discendenti nell’anno 1960. La Chiesa sì, se ne deve curare, perché è destinata a non
morire. Nella sua disperazione è implicito il conforto. È credete voi che se potesse adesso o se potrà in futuro salvare sé stessa con il nostro sacrificio non lo farebbe? Certo che lo farebbe, e farebbe bene.»
Padre Pirrone era talmente contento di non avere offeso il Principe che non si offese neppure lui. Quella espressione “disperazione” in relazione alla Chiesa era inammissibile, ma la lunga abitudine del confessionale lo rendeva capace di apprezzare l’umore disilluso di Don Fabrizio. Non bisognava però lasciar trionfare l’interlocutore. «Avrete due peccati da confessarmi Sabato, Eccellenza: uno della carne di ieri, uno dello spirito, di oggi. Ricordatevene.»
Ambedue placati, discussero di una relazione che occorreva inviare presto a un osservatorio estero, quello di Arcetri. Sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisi-
bili in quelle ore ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le
comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al
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minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non
erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli. “Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest'osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà
dell’altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero, l’unico, è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più si-
mili alla morte.” Così ragionava il Principe, dimenticando le proprie ubbie di sempre, i propri capricci carnali di ieri. E per quei momenti di astrazione egli venne, forse, più intimamente assolto, cioè ricollegato con l'universo, di quanto avrebbe potuto fare la formula di Padre Pirrone. Per mezz'ora quella mattina gli dei del soffitto e le bertucce del parato furono di nuovo posti al silenzio. Ma nel salone non se ne accorse nessuno.
Quando la campanella del pranzo li richiamò giù, tutti e due erano rasserenati, tanto dalla comprensione delle congiunture politiche come dal superamento di questa comprensione stessa e un'atmosfera di distensione inconsueta si diffuse nella villa. Il pasto di mezzogiorno era quello principale e andò, grazie a Dio, del tutto li-
‘scio. Figurarsi che a Carolina, la figlia ventenne, accadde che uno dei boccoli che le incorniciavano il volto, sorretto da una forcina a quanto pare malsicura, scivo-
| lasse e andasse a finire sul piatto. L'incidente che un al‘tro giorno avrebbe potuto essere increscioso questa vol‘ta aumentò soltanto l’allegria; quando il fratello che era seduto vicino alla ragazza prese il ricciolo e se lo ap‘puntò al collo, sicché pendeva lì come uno scapolare, perfino Don Fabrizio acconsentì a sorridere. La parten-
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za, la destinazione, gli scopi di Tancredi erano ormai no-
ti a tutti e ognuno ne parlava tranne Paolo che mangiava in silenzio. Nessuno del resto era preoccupato, meno il Principe che nascondeva l’ansia non grave nella profondità del cuore, e Concetta che era la sola a conservare
un'ombra sulla bella fronte. “La ragazza deve avere un sentimentuccio per quel briccone. Sarebbe una bella coppia, ma temo che Tancredi debba mirare più in alto, intendo dire più in basso.” Oggi, poiché il rasserenamento politico aveva fugato le nebbie che in generale la oscuravano, la fondamentale bonomia di Don Fabrizio riappariva alla superficie. Per rassicurare la figlia si mise a spiegare la scarsa efficacia dei fucili dell’esercito regio: parlò della mancanza di rigatura delle canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione fossero dotati i proiettili che da essi uscivano; spiegazioni tecniche in mala fede per giunta, che pochi capirono e dalle quali nessuno fu convinto ma che consolarono tutti perché erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è. Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum. Questo era il dolce preferito di don Fabrizio e la Principessa, riconoscente delle consolazioni ricevute, aveva avuto cura di ordinarlo la mattina di buon’ora. Si presentava minacciosa, con quella sua forma di torrione
appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaio vi si affondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo, il ragazzo sedicenne ultimo servito essa non consisteva più che di spalti cannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall’aroma del liquore e dal gusto delicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo smantellamen-
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to della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti. Uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di Marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta e «alla salute del nostro caro Tancredi» disse. Bevve il vino in un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più.
In Amministrazione dove Don Fabrizio discese di nuovo dopo il pranzo la luce entrava adesso di traverso e dai quadri dei feudi, ora in ombra, non ebbe a subire rimproveri. «Voscenza benedica» mormorarono Pastorello e Lo Nigro i due affittuari che avevano portato i “carnaggi”, quella parte del canone che si pagava in natura. Se ne stavano ben ritti, con gli occhi stupiti nei volti perfettamente rasati e stracotti dal sole. Diffondevano odor di mandria. Il Principe parlò loro con cordialità, nel suo dialetto stilizzatissimo, s'informò delle loro fami-
glie, dello stato del bestiame, delle previsioni per il raccolto. Poi chiese: «Avete portato qualche cosa?» e mentre i due dicevano che sì, che la roba era nella stanza
vicina, il Principe si vergognò un poco perché si era accorto che il colloquio era stato una ripetizione delle udienze di Re Ferdinando. «Aspettate cinque minuti e Ferrara vi darà le ricevute.» Pose loro in mano un paio di ducati ciascuno, il che era più forse del valore di ciò che avevano portato. «Bevete un bicchiere alla nostra salute.» E andò a guardare i “carnaggi”: vi erano per terra quattro caci “primosale” di dodici rotoli, dieci chili ciascuno; li osservò con indifferenza: detestava questo formaggio; vi erano sei agnellini, gli ultimi dell’annata, | con le teste pateticamente abbandonate al disopra della | larga piaga dalla quale la loro vita era uscita poche ore prima; anche i loro ventri erano stati squartati e gli inte‘ stini iridati pendevano fuori. “Il Signore abbia l’anima
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sua” pensò, ricordando lo sbudellato di un mese fa.
Quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. “Anche questo un esempio d’inutile timore” pensava “il cane non rappresenta pet loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia.” Lo spettacolo di sangue e di terrore, però, lo disgustò. «Tu, Pastorello, porta le galline al pollaio, per ora non ce n’è bisogno in dispensa, e un’altra volta gli agnelli portali direttamente in cucina; qui sporcano. E tu, Lo
Nigro, vai a dire a Salvatore che venga a far pulizia ed a portar via i formaggi. E apri la finestra per fare uscire l'odore.» Poi entrò Ferrara con le ricevute. Quando risalì Don Fabrizio trovò Paolo, il primogenito, il duca di Querceta che lo aspettava nello studio sul cui divano rosso egli soleva far la siesta. Il giovane aveva raccolto tutto il proprio coraggio e desiderava parlargli. Basso, esile, olivastro, sembrava più anziano di lui. «Volevo chiederti, papà, come dovremo comportarci con Tancredi quando lo rivedremo.» Il padre capì subito e cominciò ad irritarsi. «Che intendi dire? cosa c’è di cambiato?» «Ma, papà, certo tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio; queste sono cose che non si fanno.» La gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato, del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica.
Don Fabrizio ne fu tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio: «Meglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la cacca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non sono sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con “Duca di Querceta” sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui. Vai via, non ti
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permetto più di parlarmene! qui comando io solo.» Poi si rabbonì e sostituì l’ironia all’ira. «Vai, figlio mio, vo-
glio dormire. Vai a parlare di politica con “Guiscardo”, v'intenderete bene.» E mentre Paolo raggelato richiudeva la porta, Don Fabrizio si tolse la redirgote e gli stivaletti, fece gemere il divano sotto il proprio peso e si addormentò tranquillo. Quando si risvegliò il suo cameriere gli recò su un vassoio un giornale e un biglietto. Erano stati inviati da Palermo da suo cognato Màlvica con un servo a cavallo. Ancora un po’ stordito il Principe aprì la lettera: “Caro Fabrizio, mentre scrivo sono in uno stato di prostrazio-
ne estrema. Leggi le terribili notizie che sono sul giornale. I Piemontesi sono sbarcati. Siamo tutti perduti. Questa sera stessa io con tutta la famiglia ci rifugieremo sui legni inglesi. Certo vorrai fare lo stesso; se lo credi ti farò
riservare qualche posto. Il Signore salvi ancora il nostro amato Re. Un abbraccio. Tuo Ciccio”. Ripiegò il biglietto, se lo pose in tasca e si mise a ridere forte. Quel Màlvica! Era stato sempre un coniglio. Non aveva compreso niente, e adesso tremava. E lasciava il palazzo in balìa dei servi: questa volta sì che lo avrebbe ritrovato vuoto! “A proposito bisogna che Paolo vada a stare a Palermo; case abbandonate, in questi
momenti, sono case perdute. Gliene parlerò a cena.” Aprì il giornale. “Un atto di pirateria flagrante veniva consumato l’11 Maggio mercé lo sbarco di gente armata alla marina di Marsala. Posteriori rapporti hanno chiarito esser la banda disbarcata di circa ottocento, e coman-
| data da Garibaldi. Appena quei filibustieri ebbero preso i terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe : reali, dirigendosi per quanto ci viene riferito a Castelve| trano, minacciando i pacifici cittadini e non risparmian‘ do rapine e devastazioni... etc. etc...”
Il nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell’avven-
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turiero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinato dei guai. “Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuol dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno.” Si rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote. Cacciò il giornale in un cassetto. Era quasi l’ora del Rosario, ma il salone era ancora vuoto. Sedette
su un divano e mentre aspettava notò come il Vulcano del soffitto rassomigliasse un po’ alle litografie di Garibaldi che aveva visto a Torino. Sorrise. “Un cornuto.” La famiglia si andava riunendo. La seta delle gonne frusciava. I più giovani scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l’uscio la consueta eco della controversia fra i servi e Bendicò che voleva ad ogni costo prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le bertucce maligne. S'inginocchiò: «Salve, Regina, Mater misericordiae...»
PARTE SECONDA
Agosto 1860
«Gli alberi! ci sono gli alberi!» Il grido partito dalla prima delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro pressoché invisibili nella nuvola di polvere bianca, e ad ognuno degli sportelli volti sudati espressero una soddisfazione stanca. Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli
“eucaliptus” i più sbilenchi figli di Madre Natura; ma erano anche i primi che si avvistassero da quando alle sei del mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente nelle discese; passo e trotto, del resto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non si percepiva più se non come manifestazione sonora dell’ambiente arroventato. Si era‘| no attraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati;
‘ su ponti di bizzarra magnificenza si erano valicate fiui mare integralmente asciutte; si erano costeggiati dispei rati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a con‘ solare. Mai un albero, mai una goccia d’acqua: sole e i polverone. All’interno delle vetture, chiuse appunto per : quel sole e quel polverone, la temperatura aveva certai mente raggiunto i cinquanta gradi. Quegli alberi assetati i che si sbracciavano sul cielo sbiancato annunziavano pa' recchie cose: che si era giunti a meno di due ore dal ter-
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Il Gattopardo
mine del viaggio; che si entrava nelle terre di casa Salina; che si poteva far colazione e forse anche lavarsi la faccia con l’acqua verminosa di un pozzo. Dieci minuti dopo si era giunti alla fattoria di Rampinzèri: un enorme fabbricato, abitato soltanto durante un mese dell’anno da braccianti, muli ed altro bestiame
che vi si radunava per il raccolto. Sulla porta solidissima ma sfondata un Gattopardo di pietra danzava benché una sassata gli avesse stroncato proprio le gambe; accanto al fabbricato un pozzo profondo, vigilato da quei tali eucaliptus, offriva muto i vari servizi dei quali era capace: sapeva far da piscina, da abbeveratoio, da carcere, da cimitero. Dissetava, propagava il tifo, custodiva cristiani sequestrati, occultava carogne di bestie e di uomini sinché si riducessero a levigati scheletri anonimi. Tutta la famiglia Salina discese dalle vetture. Il Principe, rallegrato dalla prospettiva di giungere presto alla sua Donnafugata prediletta, la Principessa irritata ad un tempo ed inerte cui la serenità del marito, però, dava ri-
storo; le ragazze stanche; i ragazzini eccitati dalla novità e che il caldo non aveva potuto domare; mademoiselle Dombreuil, la governante francese, completamente disfatta e che memore degli anni passati in Algeria presso la famiglia del maresciallo Bugeaud andava gemendo: «Mon Dieu, mon Dieu, c'est pire qu'en Afrique!» mentre si rasciugava il nasino all’insù; Padre Pirrone cui l’iniziata lettura del Breviario aveva conciliato un sonno che gli aveva fatto sembrare breve il tragitto, e che era il più arzillo di tutti; una cameriera e due servitori, gente di città
irritata dagli aspetti inconsueti della campagna; e Bendicò che, precipitatosi fuori dall’ultima vettura, inveiva
contro i suggerimenti funerei delle cornacchie che roteavano basse nella luce. Tutti erano bianchi di polvere fin sulle ciglia, le labbra o le code; nuvolette biancastre si alzavano attorno alle
persone che giunte alla tappa si spolveravano l’un l’altra.
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Tanto più brillava fra il sudiciume la correttezza elegante di Tancredi. Aveva viaggiato a cavallo e, giunto alla fattoria mezz'ora prima della carovana, aveva avuto il tempo di spolverarsi, ripulirsi e cambiare la cravatta bianca. Quando aveva tirato fuori l’acqua dal pozzo a molti usi si era guardato un momento nello specchio del secchio e si era trovato a posto, con quella benda nera sull'occhio destro che ormai serviva a ricordare più che a curare la ferita al sopracciglio buscata tre mesi fa ai combattimenti di Palermo; con quell’altro occhio azzurro che sembrava aver assunto l’incarico di esprimere la malizia anche di quello temporaneamente eclissato; col filetto scarlatto al di sopra della cravatta che discretamente alludeva alla camicia rossa che aveva portato. Aiutò la Principessa a scendere dalla vettura, spolverò con la manica la tuba dello zio, distribuì caramelle alle cugine e frizzi ai cuginetti, si genuflesse quasi dinanzi al
Gesuita, ricambiò gli impeti passionali di Bendicò, consolò mademoiselle Dombreuil, prese in giro tutti, incantò tutti. I cocchieri facevano lentamente passeggiare in giro i cavalli per rinfrescarli prima dell’abbeverata, i camerieri stendevano le tovaglie sulla paglia avanzata dalla trebbiatura, nel rettangolino d’ombra proiettato dalla fattoria. Vicino al pozzo premuroso incominciò la colazione. Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stop| pie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale
i riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia arsa che : alla fine di Agosto aspetta invano la pioggia.
Un'ora dopo tutti furono di nuovo in cammino rini francati. Benché i cavalli, stanchi, andassero più adagio ; ancora, l’ultimo tratto del percorso appariva breve; il i paesaggio, non più sconosciuto, aveva attenuato i propri
: aspetti sinistri. Si andavano riconoscendo luoghi noti, i mete aride di passeggiate passate e di spuntini durante
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Il Gattopardo
gli anni scorsi; la forra della Dragonara, il bivio di Misilbesi; fra non molto si sarebbe giunti alla Madonna delle Grazie che, da Donnafugata, era il termine delle più lunghe passeggiate a piedi. La Principessa si era addormentata, Don Fabrizio, solo con lei nell'ampia carrozza, era
beato. Mai era stato tanto contento di andare a passare tre mesi a Donnafugata quanto lo era adesso in questa fine di Agosto 1860. Non soltanto perché di Donnafugata amasse la casa, la gente, il senso di possesso feudale che in essa era sopravvissuto, ma anche perché, a differenza di altre volte, non aveva alcun rimpianto per le pacifiche serate in osservatorio, per le occasionali visite a
Mariannina. Per esser sinceri, lo spettacolo che aveva offerto Palermo negli ultimi tre mesi lo aveva un po’ nauseato. Avrebbe voluto aver l'orgoglio di esser stato il solo ad aver compreso la situazione e ad aver fatto buon viso al “bau-bau” in camicia rossa; ma si era dovuto ren-
der conto che la chiaroveggenza non era monopolio di casa Salina. Tutti i palermitani sembravano felici: tutti, tranne un pugno di minchioni: Màlvica, suo cognato, che si era fatto beccare dalla polizia del Dittatore e che era rimasto dieci giorni in gattabuia; suo figlio Paolo altrettanto malcontento ma più prudente e che aveva lasciato a Palermo impigliato in chissà quali puerili complotti. Tutti gli altri ostentavano la loro gioia, portavano in giro baveri adorni di coccarde tricolori, facevano cortei da mattina a sera e, soprattutto, parlavano, concionavano, declamavano; e se magari nei primissimi giorni dell'occupazione tutto questo baccano aveva ricevuto un certo senso di finalità dalle acclamazioni che salutavano i rari feriti che passavano per le vie principali, e dai lamenti dei “sorci”, degli agenti della polizia sconfitta che venivano torturati nei vicoli, adesso che i feriti erano guariti e i “sorci” superstiti si erano arruolati nella nuova polizia, queste carnevalate, delle quali pur riconosceva la necessità inevitabile, gli apparivano sciocche e scia-
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pe. Doveva, però, convenire che tutto ciò era manifestazione superficiale di cattiva educazione; il fondo delle cose, il trattamento economico e sociale era soddisfa-
cente, tal e quale l’aveva previsto. Don Pietro Russo aveva mantenuto le sue promesse e vicino alla villa Salina non si era udita neppure una schioppettata; e se nel palazzo di Palermo era stato rubato un grande servizio di porcellana cinese, ciò si doveva soltanto alla balordaggine di Paolo che lo aveva fatto imballare in due ceste che aveva poi lasciate in cortile durante il bombardamento, vero e proprio invito affinché gli imballatori stessi venissero a farlo sparire. I Piemontesi (così continuava a chiamarli il Principe per rassicurarsi, allo stesso modo che altri li chiamavano Garibaldini per esaltarli o Garibaldeschi per vituperarli) i Piemontesi si erano presentati a lui se non addirittura col cappello in mano, come era stato predetto, per lo meno con la mano alla visiera di quei loro berrettucci rossi stazzonati e gualciti quanto quelli degli ufficiali borbonici. Preannunziato ventiquattr'ore prima da Tancredi, verso il venti Giugno si era presentato a villa Salina un generale in giacchettino rosso con alamari neri. Seguito dal suo ufficiale di ordinanza aveva urbanamente chiesto di essere ammesso ad ammirare gli affreschi dei soffitti. Venne accontentato senz'altro perché il preavviso era stato sufficiente per allontanare da un salotto un ritratto di re Ferdinando II in pompa magna ed a farlo so-
stituire con una neutrale “Probatica Piscina”, operazio-
ne che univa i vantaggi estetici a quelli politici. Il generale era uno sveltissimo toscano sui trent'anni, chiacchierone ed alquanto fanfaronesco; beneducato
peraltro e simpatico, si era comportato con il dovuto ossequio dando financo dell’“Eccellenza” a Don Fabrizio, in netta contradizione con uno dei primi decreti del Ditratore; l’ufficiale di ordinanza, un pivellino di dicianno-
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ve anni, era un conte milanese che affascinò le ragazze con gli stivali lucidi e con la “erre” moscia. Erano venuti accompagnati da Tancredi che era stato
promosso anzi creato, capitano sul campo; un po’ patito per le sofferenze causate dalla sua ferita e che se ne stava lì, rosso-vestito ed irresistibile a mostrare la propria intimità coi vincitori; intimità a base di “tu” e di “mio prode amico” reciproci che i “continentali” prodigavano con fanciullesco fervore e che erano ricambiati da Tancredi, nasalizzati però e resi, per Don Fabrizio, pieni di sottaciuta ironia. Il Principe li aveva accolti dall’alto della propria inespugnabile cortesia, ma da loro era stato davvero divertito e pienamente rassicurato, tanto che tre giorni dopo i due “Piemontesi” erano stati invitati a cena; ed era stato un bel vedere quello di Carolina seduta al pianoforte che accompagnava il canto del generale che, in omaggio alla Sicilia, si era arrischiato al “Vi ravviso o luoghi ameni” mentre Tancredi, compunto, voltava le pagine della partitura come se le stecche non esistessero in questo mondo. Il contino milanese intanto, curvo su di un sofà, parlava di zAgare a Concetta e le rivelava l’esistenza di Aleardo Aleardi; essa faceva finta di ascoltare e si rattristava invece per la brutta cera del cugino che le candele del pianoforte facevano eli più languida di quel che fosse in realtà. La serata era stata compiutamente idillica e venne seguita da altre egualmente cordiali; durante una di esse il generale venne pregato di interessarsi affinché l'ordine di espulsione per i Gesuiti non venisse applicato a Padre Pirrone che venne dipinto come sovraccarico di anni e
malanni; il generale che aveva preso in simpatia l’eccellente prete, finse di credere al suo stato miserando,
brigò, parlò con amici politici e Padre Pirrone rimase. Il che confermò sempre più Don Fabrizio nella esattezza delle proprie previsioni. Il generale fu molto utile anche per la quistione dei la-
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sciapassare necessari in quei giorni agitati per chi voles-
se spostarsi; si dovette in gran parte a lui se anche in quell’anno di rivoluzione la famiglia Salina poté godere della propria villeggiatura. Anche il giovane capitano ottenne una licenza di un mese e poté partire insieme agli zii. Anche a parte il lasciapassare, i preparativi per la partenza erano stati lunghi e complicati. Si erano dovuti condurre, infatti, ellittici negoziati in amministrazione
con fiduciari di “persone influenti” di Girgenti, negoziati che, presieduti da Pietro Russo, si conchiusero con sorrisi, strette di mano e tintinnii di monete. Si era otte-
nuto un secondo e più valido lasciapassare; ma questo non era una novità. Bisognò radunare montagne di bagagli e provviste e spedire innanzi tre giorni prima una parte dei cuochi e dei servi; bisognò imballare un telescopietto e permettere a Paolo di restare a Palermo; do| po di che si era potuto partire. Il generale e il sottote‘ nentino erano venuti a portare auguri di buon viaggio e : fiori; e quando le vetture mossero da villa Salina due | braccia rosse si agitarono lungamente, la tuba nera del i Principe si sporse dallo sportello, ma la manina con i guanto di merletto che il contino aveva sperato vedere i rimase in grembo a Concetta. Il viaggio era durato tre giorni ed era stato orrendo. | Le strade, le famose strade siciliane per causa delle quali i ilprincipe di Satriano aveva perduto la Luogotenenza «erano delle vaghe tracce irte di buche e zeppe di polver re. La prima notte a Marineo in casa di un notaio amico ‘era stata ancora sopportabile; ma la seconda in una lo‘candaccia di Prizzi era stata penosa da passare, distesi in tre su ciascun letto, insidiati da faune repellenti. La terza, a Bisacquino. Non vi erano cimici ma in compenso
[Don Fabrizio aveva trovato tredici mosche dentro il bic*chiere della granita; un greve odore di feci esalava tanto jdalle strade che dalla “stanza dei cantari” attigua e ciò \aveva suscitato nel Principe sogni penosi; risvegliatosi ai
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primissimi albori, immerso nel sudore e nel fetore non aveva potuto fare a meno di paragonare questo viaggio schifoso alla propria vita, che si era svolta dapprima per pianure ridenti, si era inerpicata poi per scoscese montagne, aveva sgusciato attraverso gole minacciose per sfo-
ciare poi in interminabili ondulazioni di un solo colore, deserte come la disperazione. Queste fantasie del primo mattino erano quanto di peggio potesse capitare a un
uomo di mezza età; e benché don Fabrizio sapesse che erano destinate a svanire con l’attività del giorno ne soffriva acutamente perché era ormai abbastanza esperto per sapere che esse lasciavano in fondo all’anima un sedimento di lutto che, accumulandosi ogni giorno avrebbe finito con l’essere la vera causa della morte. Questi mostri, col sorgere del sole, si erano rintanati in zone non coscienti; Donnafugata era vicina ormai con
il suo palazzo, con le sue acque zampillanti, con i ricordi dei suoi antenati santi, con l'impressione che essa dava di perennità dell’infanzia, anche la gente là era simpatica, devota e semplice. Ma a questo punto un pensiero lo insidiò: chissà se dopo i recenti fatti la gente sarebbe stata devota come prima. “Si vedrà.” Adesso si era davvero quasi arrivati. Il volto arguto di Tancredi apparì da dietro il finestrino. «Zii, preparatevi, fra cinque minuti ci siamo.» Tancredi aveva troppo tatto per precedere il Principe in paese; mise il suo cavallo al passo e procedette, riservatissimo, a fianco della prima vettura.
AI di là del breve ponte le autorità stavano ad attendere, circondate da qualche diecina di contadini. Appena le carrozze entrarono sul ponte la banda municipale attaccò con foga frenetica “Noi siamo zingarelle” primo strambo e caro saluto che da qualche anno Donnafugata porgeva al suo Principe; e subito dopo le campane della Chiesa Madre e del convento di Santo Spirito, avvertite
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da qualche monello in vedetta, riempirono l’aria di baccano festoso. “Grazie a Dio, mi sembra che tutto sia co-
me al solito” pensò il Principe scendendo dalla carrozza. Vi erano lì Don Calogero Sedàra, il sindaco, con i fian-
chi stretti da una fascia tricolore nuova fiammante come la sua carica; monsignor Trottolino, l’arciprete, con il suo faccione arsiccio; don Ciccio Ginestra, il notaio, che era venuto, carico di gale e pennacchi, in qualità di capitano della Guardia Nazionale; vi era don Totò Giambono, il medico, e vi era la piccola Nunzia Giarritta che porse alla Principessa uno scomposto mazzo di fiori colti, del resto, mezz'ora prima nel giardino del palazzo. Vi era Ciccio Tumeo, l’organista del Duomo, il quale a rigor di termini non avrebbe avuto rango sufficiente per schierarsi con le autorità, ma che era venuto lo stesso
quale amico e compagno di caccia, e che aveva avuto la buona idea di portare con sé, per far piacere al Principe, | Teresina, la cagna bracca focata con i due segnetti color nocciola al di sopra degli occhi, e che del suo ardire fu ricompensato da un sorriso tutto particolare di Don Fa| brizio. Questi era di ottimo umore e sinceramente blani do; era disceso dalla carrozza insieme alla moglie per | ringraziare e sotto l’imperversare della musica di Verdi e i del frastuono delle campane abbracciò il Sindaco e | strinse la mano a tutti gli altri. La folla dei contadini era ‘muta ma dagli occhi immobili traspariva una curiosità non ostile, perché i villici di Donnafugata non avevano nulla contro il loro tollerante signore che così spesso di‘menticava di esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, av‘vezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima alle ‘fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano cu‘rosi di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantalo‘ni di piqgué distribuire a tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese. “Non c’è da dire tutto è ‘come prima, meglio di prima, anzi.” Anche Tancredi era
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Il Gattopardo
oggetto di grande curiosità: tutti lo conoscevano da tempo ma adesso egli appariva come trasfigurato: non si vedeva più in lui il giovanotto spregiudicato ma l’aristocratico liberale, il compagno di Rosolino Pilo, il glorioso ferito dei combattimenti di Palermo. Lui in quella ammirazione rumorosa nuotava come un pesce in acqua; quei rustici ammiratori erano davvero uno spasso; parla-
va loro in dialetto, scherzava, prendeva in giro sé stesso e la propria ferita. Ma quando diceva “il generale Garibaldi” calava la voce di un tono e prendeva l’aria assorta di un chierichetto davanti all’ostensorio; e a don Calogero Sedàra, del quale aveva vagamente inteso che si era dato molto da fare nei giorni della liberazione, disse con voce sonora: «Di voi, don Calogero, Crispi mi ha detto
gran bene». Dopo di che diede il braccio alla cugina Concetta e se ne andò lasciando tutti in visibilio. Le carrozze con i servi, ibambini e Bendicò andarono direttamente al palazzo, ma, come voleva un antichissi-
mo uso, gli altri prima di mettere il piede in casa dovevano assistere a un Te Deum alla Chiesa Madre. Questa era, del resto, a due passi e ci si diresse lì in corteo, polverosi ma imponenti i nuovi arrivati, luccicanti ma umili
le autorità. Precedeva don Ciccio Ginestra che con il prestigio della divisa faceva far largo ai passanti; seguiva il Principe a braccio della moglie e sembrava un leone sazio e mansueto; dietro, Tancredi con alla sua destra
Concetta cui quel procedere verso una chiesa a fianco del cugino produceva un gran turbamento e una dolcissima voglia di piangere; stato d’animo che non era punto alleviato da una forte pressione che il premuroso giovanotto esercitava sul braccio di lei, al solo scopo, ohibò, di farle scansare le buche e le buccie che costella-
vano la via. Dietro ancora, in disordine, gli altri. L’organista era scappato via in fretta per avere il tempo di depositare Teresina a casa e di trovarsi al proprio tonante
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posto al momento dell’ingresso in chiesa. Le campane imperversavano sempre, e sulle pareti delle case le iscrizioni di “Viva Garibbaldi” “Viva Re Vittorio” e “Morte al re Borbone” che un pennello inesperto aveva tracciato due mesi prima, sbiadivano e sembravano voler rientrare nel muro. I mortaretti sparavano mentre si saliva la scalinata e quando il piccolo corteo entrò in Chiesa, don Ciccio Tumeo, giunto col fiato grosso ma in tempo, ati tfaccò con passione “Amami, Alfredo”. Il duomo era stipato di gente curiosa fra le sue tozze colonne di marmo rosso; la famiglia Salina sedette nel coro e durante la breve cerimonia Don Fabrizio si esibì ‘alla folla, stupendo; la Principessa era sul punto di venir ‘meno per il caldo e la stanchezza, e Tancredi col pretesto di cacciar via le mosche sfiorò più d’una volta il capo ‘biondo di Concetta. Tutto era in ordine e dopo il fervo‘rino di monsignor Trottolino tutti s’inchinarono dinanzi all’altare, si avviarono verso la porta e uscirono nella ‘piazza abbrutita dal sole. Al basso della scalinata le autorità si congedarono e la ‘Principessa che aveva avuto bisbigliate le disposizioni idurante la cerimonia, invitò a pranzo per quella stessa isera il Sindaco, l’Arciprete e il Notaio. L’Arciprete era iscapolo per professione ed il Notaio per vocazione e coisì la questione delle consorti per essi non poteva porsi;
llanguidamente l’invito al sindaco venne esteso alla di lui imoglie: era questa una specie di contadina, bellissima, ima giudicata dal marito stesso, per più d’un verso, impresentabile; nessuno quindi si sorprese quando egli idisse che era indisposta; ma grande fu la meraviglia quando aggiunse: «Se le Loro Eccellenze lo permettono verrò con mia figlia, con Angelica, che da un mese non
fa che parlare del piacere che avrebbe a esser da loro conosciuta, da grande». Il consenso, naturalmente venne
dato; e don Fabrizio che aveva visto Tumeo sogguardare da dietro le spalle degli altri, gli gridò: «E anche voi, si
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Il Gattopardo
capisce, don Ciccio, e venite con Teresina». E rivolto
agli altri aggiunse: «E dopo pranzo, alle nove e mezza, saremo felici di vedere tutti gli amici». Donnafugata commentò a lungo queste ultime parole. Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato
molto mutato lui che mai prima avrebbe adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, co-
minciò il declino del suo prestigio. Il palazzo Salina era attiguo alla Chiesa Madre. La sua breve facciata con sette balconi sulla piazza non lasciava supporre la sua smisuratezza che si estendeva indietro per duecento metri: erano dei fabbricati di stili differenti, armoniosamente uniti però intorno a tre vasti cortili e terminanti in un ampio giardino tutto cintato. All’ingresso principale sulla piazza i viaggiatori furono
sottoposti a nuove manifestazioni di benvenuto. Don Onofrio Rotolo, l'amministratore locale, non aveva par-
tecipato, non partecipava mai, alle accoglienze ufficiali all'ingresso del paese. Educato alla rigidissima scuola della principessa Carolina, egli considerava il vu/gzus come non esistente ed il Principe come residente all’estero sinché non avesse varcato la soglia del proprio palazzo; e perciò stava lì, a due passi fuori dal portone, piccolissimo, vecchissimo, barbutissimo, fiancheggiato dalla moglie assai più giovane di lui e poderosa, spalleggiato dai servi e dagli otto “campieri” col Gattopardo d’oro sul berretto e nelle mani otto schioppi di non costante innocuità. «Sono felice di dare alle Loro Eccel. lenze il benvenuto nella Loro casa. Riconsegno il palaz: zo nello stato preciso in cui è stato lasciato.»
Don Onofrio'era una delle rare persone stimate dal Principe e forse la sola che non lo avesse mai derubato L’onestà sua confinava con la mania e di essa si narrava. no episodi spettacolosi come quello del bicchierino d rosolio lasciato semipieno dalla principessa al momente
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di una partenza e ritrovato un anno dopo nell’identico posto col contenuto evaporato e ridotto allo stato di gromma zuccherina, ma non toccato. «Perché questa è
una parte infinitesimale del patrimonio del Principe e non si deve disperdere.» Finiti i convenevoli con don Onofrio e donna Maria,
la Principessa che si reggeva ormai soltanto sui nervi, andò di filato a letto, le ragazze e Tancredi corsero verso le calde ombre del giardino, Don Fabrizio e l’amministratore fecero il giro del grande appartamento. Tutto ‘era in perfetto ordine: i quadri nelle loro cornici pesanti ‘erano spolverati, le dorature delle rilegature antiche ‘emettevano il loro fuoco discreto, l’alto sole faceva brillare i marmi grigi attorno ad ogni porta. Ogni cosa era
inello stato in cui si trovava da cinquant'anni. Uscito dal ‘turbine rumoroso dei dissidi civili, don Fabrizio si sentì ‘rinfrancato, pieno di serena sicurezza e guardò quasi teÎneramente don Onofrio che gli trotterellava al fianco. ««Don ’Nofrio, voi siete veramente uno di quei gnomi
che custodiscono i tesori; la riconoscenza che vi dobbia-
xmo è grande.» In un altro anno il sentimento sarebbe istato eguale ma le parole non gli erano salite alle labbra; ldon ’Nofrio lo guardò grato e sorpreso. «Dovere, Ecceldenza, dovere»; e per nascondere la propria emozione si :grattava un orecchio con il lunghissimo unghio del mi-
nolo sinistro. | Dopo, l'Amministratore venne sottoposto alla tortura
del tè. Don Fabrizio se ne fece portare due tazze e con la morte nel cuore don ’Nofrio dovette inghiottirne una; voi si mise a raccontare le cronache di Donnafugata: ilue settimane fa aveva rinnovato l’affitto del feudo \\quila a condizioni un po’ peggiori di prima; aveva dovuto affrontare delle spese per la riparazione dei solai delle foresterie; ma vi erano in cassa, a disposizione di ivua Eccellenza, 3275 onze al netto di ogni spesa, tassa e del proprio stipendio.
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Il Gattopardo
Poi vennero le notizie private che si adunavano attorno al grande fatto dell’annata: la continua rapida ascesa della fortuna di don Calogero Sedàra: sei mesi fa era scaduto il mutuo concesso al barone Tumino ed egli si era incamerata la terra: mercé mille onze prestate possedeva adesso una nuova proprietà che ne rendeva cinquecento all’anno; in Aprile aveva potuto acquistare due “salme” di terreno per un pezzo di pane, ed in quella piccola proprietà vi era una cava di pietra ricercatissima che egli si proponeva di sfruttare; aveva concluso vendite di frumento quanto mai profittevoli nei momenti di disorientamento e di carestia che avevano seguito lo sbarco. La voce di don ’Nofrio si riempì di rancore: «Ho fatto un conto sulla punta delle dita: le rendite di don Calogero eguaglieranno fra poco quelle di Vostra Eccellenza qui a Donnafugata; e questa in paese è la minore delle sue proprietà».
Insieme alla ricchezza cresceva anche la sua influenza politica; era divenuto il capo dei liberali a Donnafugata ed anche nei borghi vicini; quando ci sarebbero state le elezioni era sicuro di essere inviato deputato a Torino. «E che aria si danno! non lui che è troppo intelligente per farlo, ma sua figlia, per esempio, che è ritornata dal collegio di Firenze e che va in giro per il paese con la sottana rigonfia e i nastri di velluto che le pendono giù dal cappellino.» Il Principe taceva: la figlia, sì, quell’Angelica che sarebbe venuta a pranzo stasera; era curioso di rivedere quella pastorella agghindata; non era vero che nulla era mutato; don Calogero ricco quanto lui! Ma queste cose, in fondo, erano previste, erano il prezzo da pagare. Il silenzio del Principe turbò don ’Nofrio; immaginava di averlo scontentato narrandogli i pettegolezzi paesani. «Eccellenza, ho pensato a far preparare un bagno; dev'essere pronto adesso.» Don Fabrizio si accorse improvvisamente di essere stanco: erano quasi le tre ed
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Th.
erano nove ore che si trovava in giro sotto il sole torrido e dopo quella nottata; sentiva il suo corpo pieno di polvere fin nelle più remote pieghe. «Grazie, don ’Nofrio, di averci pensato; e di tutto il resto. Ci rivedremo questa sera a pranzo.»
Salì la scala interna; passò per il salone degli arazzi, per quello azzurro, per quello giallo; le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la pendola di Boulle batteva sommessa. “Che pace, mio Dio, che pace!” | Entrò nello stanzino del bagno: piccolo, imbiancato a | calce, col suo pavimento di ruvidi mattoni nel cui centro i vi era l’orifizio per lo scolo dell’acqua. La vasca era una : sorta di truogolo ovale, immenso, in lamierino verniciai to giallo fuori e bianco dentro, issato su quattro robusti i piedi di legno. Dalla finestra senza riparo il sole entrava i brutalmente.! Don Fabrizio chiamò: entrarono due servitori recanti ( ciascuno una coppia di secchi sciabordanti, l’uno di ac‘ qua fredda, l’altro di acqua bollente; fecero il via vai di‘verse volte, il truogolo si riempì; lui ne provò la tempe-
e ratura con la mano: andava bene. Fece uscire i servi, si
i svestì, s'immerse. Sotto la mole spropositata l’acqua fu sul punto di traboccare. S’insaponò, si strigliò: il tepore agli faceva bene, lo rilassava. Stava quasi per addormenitarsi quando si bussò alla porta: Domenico, il cameriere,
entrò timoroso. «Padre Pirrone chiede di vedere subito \Vostra Eccellenza. Aspetta qui accanto che Vostra Ecicellenza esca dal bagno.» Il Principe fu sorpreso; se era !! Appeso a un chiodo del muro un accappatoio; su una delle sedie lidi corda la biancheria di ricambio; su un’altra un vestito che recava
rancora le pieghe prese nel baule. Accanto al bagno un grosso pez«zo di sapone rosa, uno spazzolone, un fazzoletto annodato contenente della crusca che bagnata avrebbe emesso un latte odoroso, una enorme spugna, una di quelle che gli inviava l'amministratore idi Salina.
T2)
Il Gattopardo
successo un guaio era meglio conoscerlo subito. «Niente affatto; fatelo entrare adesso.» Don Fabrizio si era allarmato della fretta del Gesuita;
e un po’ per questo e un po’ per rispetto dell’abito sacerdotale si affrettò a uscire dal bagno: contava di poter mettersi l’accappatoio prima che padre Pirrone entrasse; ma ciò non gli riuscì, e il prete entrò proprio
nell’istante in cui egli non più velato dall'acqua saponacea, non ancora rivestito dall’effimero sudario, si ergeva interamente nudo, come l’Ercole Farnese, e per di più fumante, mentre giù dal collo, dalle braccia, dallo sto-
maco, dalle coscie l’acqua gli scorreva a rivoli, come il Rodano, il Reno e il Danubio traversano e bagnano i
gioghi alpini. Il panorama del Principone allo stato adamitico era inedito per Padre Pirrone. Allenato dal sacramento della Penitenza alle nudità degli animi, lo era
assai meno a quella dei corpi; ed egli che non avrebbe battuto ciglio ascoltando la confessione, poniamo, di una tresca incestuosa, si turbò alla vista di quella innocente nudità titanica. Balbettò una scusa e accennò a ritornare indietro; ma Don Fabrizio, irritato per non aver
fatto in tempo a coprirsi rivolse naturalmente contro di lui la propria stizza: «Padre, non fate lo sciocco; piuttosto datemi l’accappatoio e, se non vi dispiace, aiutatemi ad asciugarmi.» Subito dopo un battibecco passato gli tornò in mente. «E date retta a me, Padre, prendete un
bagno anche voi.» Sodisfatto di aver potuto dare un ammonimento igienico a chi gliene impartiva tanti morali, si rasserenò. Col lembo superiore del panno finalmente ottenuto si asciugava i capelli, le basette ed il collo, mentre col lembo inferiore l’umiliato Padre Pirrone gli strofinava i piedi. Quando la vetta e le falde del monte furono asciutte: «Adesso sedetevi, Padre, e dite-
mi perché volevate parlarmi così di furia». Mentre il Gesuita sedeva egli incominciò per proprio conto alcuni prosciugamenti più intimi. «Ecco, Eccellenza: sono
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stato incaricato di una missione delicata. Una persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi l’incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la stima della quale sono onorato...» Le esitazioni di Padre Pirrone si stem-
peravano in frasi interminabili. Don Fabrizio perdette la pazienza: «Insomma, Padre, di chi si tratta? Della
Principessa?» E col braccio alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un’ascella. «La Principessa è stanca; dorme e non la ho vista. Si tratta della signorina Concetta.» Pausa. «Essa è innamorata.» Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si sentì invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia. «E quella stupida perché è andata a raccontare queste “« cose a voi? Perché non è venuta da me?» Non chiese 1 neppure di chi fosse innamorata Concetta: era super| fluo. «Vostra Eccellenza cela troppo bene il cuore pateri no sotto l’autorità del padrone; è naturale allora che
c quella povera figliola si intimorisca e ricorra al devoto ecclesiastico di casa.» Don Fabrizio s’infilava i lunghi mutandoni e sbuffaiva: prevedeva lunghi colloqui, lagrime, seccature senza | limiti; quella smorfiosa gli guastava il primo giorno a Donnafugata. «Capisco, Padre, capisco. A casa mia non mi comprende nessuno. È la mia disgrazia.» Rimaneva seduto isu uno sgabello col vello biondo del petto imperlato di goccioline. Rivoletti d’acqua serpeggiavano sui mattoni, ela stanza era carica di odor latteo di crusca, di odor di
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Il Gattopardo
mandorla del sapone. «E che cosa dovrei dire, io, secondo voi?» Il Gesuita sudava nel calore da stufa e, adesso che la confidenza era stata trasmessa, avrebbe voluto an-
dar via; ma il sentimento della propria responsabilità lo trattenne. «Il desiderio di fondare una famiglia cristiana appare graditissimo agli occhi della Chiesa. La presenza del Signore alle nozze di Cana...» «Non divaghiamo. Io intendo parlare di questo matrimonio, non del matrimonio in generale. Tancredi ha fatto delle proposte precise? e quando?» Durante cinque anni Padre Pirrone aveva tentato
d’insegnare il latino al ragazzo; durante sette anni ne aveva subito le bizze e gli scherzi; come tutti ne aveva sentito il fascino; ma i recenti atteggiamenti politici di Tancredi lo avevano offeso; il vecchio affetto lottava in
lui col nuovo rancore. Adesso non sapeva cosa dire. «Proposte vere e proprie, no. Ma la signorina Concetta non ha dubbi: le attenzioni, gli sguardi, le mezze-parole di lui, tutte cose che divengono sempre più frequenti, hanno convinto quell’anima santa; essa è sicura di essere amata; ma, figlia rispettosa e ubbidiente, voleva chiedervi, per mio mezzo, che cosa dovrà rispondere quando queste proposte verranno. Essa sente che sono imminenti.»
Don Fabrizio fu un poco rassicurato: da dove mai quella ragazzina avrebbe dovuto attingere una esperienza che le permettesse di veder chiaro nelle intenzioni di un giovanotto? e di un giovanotto come Tancredi, per di più! Si trattava probabilmente di semplici fantasie, di uno di quei “sogni d’oro” che sconvolgono i guanciali degli educandati. Il pericolo non era vicino. Pericolo. La parola gli risonò in mente con tanta nettezza che se ne sorprese. Pericolo. Ma pericolo per chi? Egli amava molto Concetta: di lei gli piaceva la perpetua sottomissione, la placidità con la quale si piegava ad ogni esosa manifestazione della volontà paterna; sotto-
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missione e placidità, del resto, da lui sopravalutata. La naturale tendenza che egli possedeva a rimuovere ogni minaccia alla propria calma gli aveva fatto trascurare di osservare il bagliore ferrigno che traversava gli occhi della ragazza quando le bizzarrie alle quali ubbidiva erano davvero troppo vessatorie. Il Principe amava molto questa sua figlia; ma amava ancor più Tancredi. Conquistato da sempre dall’affettuosità beffarda del ragazzo, da pochi mesi aveva cominciato ad ammirare anche l’intelligenza di lui: quella rapida adattabilità, quella penetrazione mondana, quell’arte innata delle sfumature che gli : dava il modo di parlare il linguaggio demagogico di mo: da pur lasciando capire agli iniziati che ciò non era che i un passatempo al quale lui, il Principe di Falconeri, si : abbandonava per un momento, tutte queste cose lo ave\ vano divertito; e per le persone del carattere e della clas‘ se di Don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i iquattro quinti dell’affetto. Tancredi, secondo lui, aveva c dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto es-
s sere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mu-
tate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per far» si avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per compe*rare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un
itreno di casa che abbagliasse. Treno di casa... e Concetta icon tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdruccio‘levoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritro«sa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda ilche era adesso, cioè una palla di piombo al piede del
marito. i.
«La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vien-
‘aaa Pietroburgo?» La testa di Padre Pirrone fu frastorinata da questa domanda. «Ma che c’entra questo? Non
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Il Gattopardo
capisco.» Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri. Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tan-
credi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche. L'amore. Certo, l’amore. Fuoco e
fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos'era l’amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte... Ad un tratto ebbe freddo. L'acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano. E che quantità di penose conversazioni in vista. Bisognava evitare... «Adesso debbo andare a vestirmi, Padre. Dite a Concetta, vi prego, che
non sono affatto seccato ma che di tutto questo riparleremo quando saremo sicuri che non si tratta soltanto di fantasie di una ragazza romantica. A presto, Padre.»
Si alzò e passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio.” Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell'estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare
la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera iden-
tificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. “Ce sont leurs affaires, après tout.” pensò in francese come faceva quando le sue cogitazioni si sforzavano di essere sbarazzine. Sedette su una poltrona e si appisolò.
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Dopo un’ora si svegliò rinfrescato e discese in giardino. Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti
lecci che facevano la gloria del posto. Il viale principale scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso; e da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite. Vi si diresse, svelto, avido di rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi, dalle narici dei mostri marini, le acque
erompevano in filamenti sottili, picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino, suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi
ridenti; dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore. Su di un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno scalpello inesperto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava un’Anfitrite vogliosa: l'ombelico di lei inumidito dagli spruzzi, brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombria subacquea. Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo.
«Zione, vieni a guardare le pesche forestiere. Sono venute benissimo; e lascia stare queste indecenze che non sono fatte per uomini della tua età.» L’affettuosa malizia della voce di Tancredi lo distolse | dall’intorpidimento voluttuoso. Non lo aveva inteso ve‘ nire, era come un gatto. Per la prima volta gli sembrò che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragaz: zo; quel bellimbusto con il vitino smilzo sotto l’abito | bleu scuro era stata la causa che lui avesse tanto acerbaî mente pensato alla morte due ore fa. Poi si rese conto ( che rancore non era, soltanto un travestimento del timot re: aveva paura che gli parlasse di Concetta. Ma l’abbor< do, il tono del nipote non era quello di chi si prepari a
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far confidenze amorose a un uomo come lui. Si calmò: l’occhio del nipote lo guardava con l’affetto ironico che la gioventù concede alle persone anziane. “Possono permettersi di fare un po’ i gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali saranno liberi.” Andarono a guardare le “pesche forestiere”. L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti; giallognole con due sfumature rosee sulle guancie sembravano testoline di cinesine pudiche. Il Principe le palpò con la delicatezza famosa dei polpastrelli. «Mi sembra che siano proprio a punto. Peccato che siano troppo poche per servirle stasera. Domani le faremo cogliere e vedremo come sono.» «Vedi! così mi piaci, zio;
così, nella parte dell’agricola pius che apprezza e pregusta i frutti del proprio lavoro; e non come ti ho trovato poc'anzi mentre contemplavi nudità scandalose.» «Eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.» «Certo, ma da amori legali, promossi da te, padrone e dal giardiniere, notaio; da
amori meditati, fruttuosi. In quanto a quelli lì» disse e accennava alla fontana della quale si percepiva il fremito al di là di un sipario di lecci «credi davvero che siano passati dinanzi al parroco?» L’abbrivio della conversazione diventava pericoloso e Don Fabrizio si affrettò a cambiar rotta. Risalendo verso casa, Tancredi narrò quanto aveva appreso della cronaca galante di Donnafugata: Menica la figlia di campiere Saverio, si era lasciata ingravidare dal fidanzato; il matrimonio adesso si doveva compiere in fretta. Colicchio, poi, era sfuggito per un pelo alla fucilata di un marito scontento. «Ma come fai a sapere queste cose?» «Le so, zione, le so. A me raccontano tutto; sanno che io compatisco.»
Giunti in cima alla scala che con svolte lente e lunghe
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soste di pianerottoli saliva dal giardino al palazzo, videro l’orizzonte serale al di là degli ‘alberi: dalla parte del mare immani nuvoloni color d’inchiostro scalavano il cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledi-
zione annuale della Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo erano guardati da migliaia di altri occhi, avvertiti da miliardi di semi nel grembo della terra. «Speriamo che l’estate sia finita, che venga finalmente la pioggia» disse Don Fa| brizio; e con queste parole l’altero nobiluomo cui, per: sonalmente, le piogge avrebbero soltanto recato fasti-
| dio, si rivelava fratello dei suoi rozzi villani.
Il Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo : a Donnafugata avesse un carattere solenne: i figlioli soti to i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano : serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima i dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di Lun solo particolare transigeva: non si metteva in abito da î sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente,
rnon ne possedevano. Quella sera, nel salone detto “di
ILeopoldo” la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. | Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandeyvano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti sequestri dei Salina trapassati non erano che delle immaigini imponenti e vaghe come il loro ricordo. Don Onoifcioera già arrivato con la moglie e così pure l’Arciprete ‘che, con la mantellina pieghettata giù dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l’organitsta (Teresina era di già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava insieme al Principe favolosi tiiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto era placido ‘è consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliodio, fece nel salotto una irruzione scandalosa: «Papà, don
‘Calogero sta salendo le scale. E in frack!».
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Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un
effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma
anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.
Il suo sconforto fu grande e durava ancora mentre meccanicamente si avanzava verso la porta per ricevere
l'ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate. Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteva però affermare che, come riuscita sartoriale, il frack di don Calogero era una cata-
strofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il
taglio era semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgen-
tano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il cielo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto doloroso è necessario dirlo, i piedi del sindaco erano
calzati da stivaletti abbottonati. Don Calogero si avanzava con la mano tesa e inguantata verso la Principessa: «Mia figlia chiede scusa; non era ancora del tutto pronta. Vostra Eccellenza sa come sono le femmine in queste occasioni» aggiunse espri-
mendo in termini quasi vernacoli un pensiero di levità parigina. «Ma sarà qui fra un attimo; da casa nostra sone
due passi, come sapete.»
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L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si aprì ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola; Tancredi sentì addirittura come gli pulsassero le vene delle tempie. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti
che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci | mai. Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la i carnagione sua doveva possedere il sapore della crema | fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello | delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte : avvolti in soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavai no, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ : crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé
| l'ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatez; za, l’invincibilità della donna di sicura bellezza. Molti i mesi dopo soltanto si seppe che al momento di quel suo ‘ ingresso trionfale essa era stata sul punto di svenire per | D’ansia. Non si curò di Don Fabrizio che accorreva verso di ilei, oltrepassò Tancredi che sorrideva trasognato; diinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda disegnò un lieve inchino e questa forma di omaggio inconsueta in Sicilia le conferì un istante il fascino
\dell’esotismo in aggiunta a quello della bellezza paesaina. «Angelica mia, da quanto tempo non ti avevo vista. Sei molto cambiata; e non in peggio.» La Principessa \non credeva ai propri occhi: ricordava la tredicenne )poco curata e bruttina di quattro anni prima e non riusciva a farne combaciare l’immagine con quella idell’adolescente voluttuosa che le stava davanti. Il Prin-
icipe non aveva ricordi da riordinare; aveva soltanto pre-
ivisioni da capovolgere; il colpo inferto al suo orgoglio ‘dal frack del padre si ripeteva adesso nell’aspetto della figlia; ma questa volta non si trattava di panno nero ma
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di matta pelle lattea; e tagliata bene, come bene! Vecchio cavallo da battaglia com'era, lo squillo della grazia femminile lo trovò pronto ed egli si rivolse alla ragazza con tutto il grazioso ossequio che avrebbe adoperato parlando alla duchessa di Bovino o alla principessa di Lampedusa. «È una fortuna per noi, signorina Angelica, di avere accolto un fiore tanto bello nella nostra
casa; e spero che avremo il piacere di rivedervelo spesso.» «Grazie, principe; vedo che la Sua bontà per me è uguale a quella che ha sempre dimostrato al mio caro papà.» La voce era bella, bassa di tono, un po’ troppo sorvegliata forse; il collegio fiorentino aveva cancellato lo strascichìo dell’accento girgentano; di siciliano, nelle parole, rimaneva soltanto l’asprezza delle consonanti che del resto si armonizzava benissimo con la sua venustà chiara ma greve. A Firenze anche le avevano appreso ad omettere l’“Eccellenza”. Rincresce di poter dir poco di Tancredi: dopo che si fu fatto presentare da don Calogero, dopo aver a stento resistito al desiderio di baciare la mano di Angelica, do-
po aver manovrato il faro del suo occhio azzurro, era rimasto a chiacchierare con la signora Rotolo, e non capiva nulla di quanto udiva. Padre Pirrone in un angolo buio se ne stava a meditare e pensava alla Sacra Scrittura che quella sera gli si presentava soltanto come una successione di Dalile, Giuditte ed Ester. La porta centrale del salotto si aprì e «Prann’ pronn’» declamò il maestro di casa; suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.
Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facil-
mente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica
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usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti
di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose. Buone creanze a parte, però, l'aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne : erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scor| gevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfiletta| ture di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella 1 massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui
| Pestratto di carne conferiva un prezioso color camoscio. L’inizio del pasto fu, come sempre avviene in provin< cia, raccolto. L’Arciprete si fece il segno della croce e si | lanciò a capofitto senza dir parola; l’organista assorbiva | la succolenza del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creat tore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce :gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col so-
Ìlo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbetro campato un mese; Angelica, la bella Angelica, dimen-
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ticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva. Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che l'esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; Don Fabrizio, benché rapito nella
contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola che la derzi-glace era troppo carica e si ripromise di dirlo al cuoco l'indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un’aura sensuale era penetrata nella casa. Tutti erano tranquilli e contenti. Tutti, tranne Concetta. Essa aveva sì abbracciato e baciato Angelica, ave-
va anche respinto il “lei” che quella le dava e preteso il “tu” della loro infanzia ma lì, sotto il corpetto azzurro
pallido, il cuore le veniva attanagliato; in lei si ridestava il violento sangue Salina e sotto la fronte liscia si ordivano fantasie di venefici. Tancredi sedeva fra lei ed Angelica e con la compitezza puntigliosa di chi si sente in colpa divideva equamente sguardi, complimenti e facezie fra le sue due vicine; ma Concetta sentiva, animalescamente sentiva, la corrente di desiderio che scorreva dal cugino verso l’intrusa, e il cipiglietto di lei fra la fronte e il naso s'inaspriva; desiderava uccidere quanto desiderava morire. Poiché era donna si aggrappava ai particolari: notava la grazia volgare del mignolo destro di Angelica levato in alto mentre la mano teneva il bicchiere; notava un neo rossastro Sulla pelle del collo, notava il tentativo represso a metà di togliere con la mano un pezzetto di cibo rimasto fra i denti bianchissimi; notava ancor più vivacemente una certa durezza di spirito; ed a questi
particolari che in realtà erano insignificanti perché bru-
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ciati dal fascino sensuale si aggrappava fiduciosa e disperata come un muratore precipitato si aggrappa a una
grondaia di piombo; sperava che Tancredi li notasse anch'egli e si disgustasse dinanzi a queste tracce palesi della differenza di educazione. Ma Tancredi li aveva di già notati e ahimè! senza alcun risultato. Si lasciava trascinare dallo stimolo fisico che la femmina bellissima procurava alla sua gioventù focosa ed anche dalla eccitazione diciamo così contabile che la ragazza ricca suscitava nel suo cervello di uomo ambizioso e povero. Alla fine del pranzo la conversazione era generale: ‘don Calogero raccontava in pessima lingua ma con intuito sagace alcuni retroscena della conquista garibaldi‘na della provincia; il notaio parlava alla Principessa del ‘villino “fuori città” (cioè a cento metri da Donnafugata)
‘che si faceva costruire; Angelica eccitata dalle luci, dal icibo, dallo chablis, dall’evidente consenso che essa tro'vava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a
‘Tancredi di narrarle alcuni episodi dei “gloriosi fatti id’arme” di Palermo; aveva posato un gomito sulla tovaiglia e poggiato la guancia sulla mano; il sangue le affluiva alle gote ed essa era pericolosamente gradevole da iguardare; l’arabesco disegnato dall’avambraccio, dal goimito, dalle dita, dal guanto bianco pendente venne trovato squisito da Tancredi e disgustoso da Concetta. Il giovane, pur continuando ad ammirare, narrava la guerra facendo apparire tutto lieve e senza importanza: la ‘marcia notturna su Gibilrossa, la scenata fra Bixio e La
Masa, l'assalto a porta di Termini. «Io non avevo ancora questo impiastro sull’occhio e mi son divertito un mondo, signorina, mi creda. Le più grandi risate le abbiamo tatte la sera del 28 Maggio, pochi minuti prima che io rossi ferito. Il Generale aveva bisogno di avere un posto ili vedetta in cima al Monastero dell’Origlione: picchia, bicchia, impreca, nessuno apre; era un convento di clau-
sura. Tassoni, Aldrighetti, io e qualche altro tentiamo di
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sfondare la porta con il calcio dei nostri moschetti. Niente. Allora corriamo a prendere una trave di una casa bombardata vicina e finalmente, con un baccano d’in-
ferno la porta viene giù. Entriamo: tutto deserto; ma da un angolo del corridoio si odono strilli disperati: un gruppo di suore si era rifugiato nella cappella ed esse stavano lì ammucchiate vicino all’altare; chissà cosa te-
mes-se-ro da quella diecina di giovani esasperati. Era buffo vederle, brutte e vecchie come erano, nelle loro tonache nere, con gli occhi sbarrati, pronte e disposte al... martirio. Guaivano come cagne. Tassoni, quel bel tipo, gridò: “Niente da fare, sorelle, abbiamo da badare ad altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!”. E noi tutti a ridere che si voleva mettere la pancia in terra. E le lasciammo lì con la bocca asciutta per andare a far fuoco contro i regi dai terrazzini di sopra.» Angelica, ancora appoggiata, rideva, mostrando tutti i suoi denti di lupatta. Lo scherzo le sembrava delizioso; quella possibilità di stupro la turbava, la bella gola palpitava. «Che bei tipi dovevate essere! Come avrei voluto trovarmi con voi!» Tancredi sembrava trasformato: la foga del racconto, la forza del ricordo, entrambe innestate sulla eccitazione che produceva in lui l’aura sensuale della ragazza, lo mutarono un istante da quel giovanotto ammodo che in realtà era in un soldataccio brutale. «Se ci fosse stata lei, signorina, non avremmo avuto
bisogno di aspettare le novizie.» A casa sua, Angelica, aveva udito molte parole grosse; questa era però la prima volta (e non l’ultima) che si trovava ad esser l'oggetto di un doppio senso lascivo; la novità le piacque, la sua risata salì di tono: si fece stridula. In quel momento tutti si alzavano da tavola; Tancredi si chinò per raccattare il ventaglio di piume che Angelica aveva lasciato cadere; rialzandosi vide Concetta col
volto di brace, con due piccole lagrime sull’orlo delle ci-
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glia: «Tancredi, queste brutte cose si dicono al confessore, non si raccontano alle signorine, a tavola; per lo me-
no quando ci sono anch'io». E gli volse le spalle.
Prima di andare a letto Don Fabrizio si fermò un momento sul balconcino dello spogliatoio. Il giardino dormiva sprofondato nell’ombra, sotto; nell’aria inerte gli alberi sembravano di piombo fuso; dal campanile incombente giungeva il sibilo fiabesco dei gufi. Il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano salutato a sera se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno colpevoli nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore. Le stelle apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di afa. L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, ver-
so le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre. “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene” pensò con le sue formule mondane. “Chi pensa a preoccuparsi della dote delle Pleiadi, della carriera politica di Sirio, delle attitudini
all’alcova di Vega?” La giornata era stata cattiva; lo av: vertiva adesso non soltanto dalla pressione alla bocca | dello stomaco, glielo dicevano anche le stelle: invece di : vederle atteggiarsi nei loro usati disegni, ogni volta che : alzava gli occhi scorgeva lassù un unico diagramma: due ‘ stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo : schema beffardo di un volto triangolare che la sua anima | proiettava nelle costellazioni quando era sconvolta. Il i frack di don Calogero, gli amori di Concetta, l’infatua: zione evidente di Tancredi, la propria pusillanimità, fi: nanco la minacciosa bellezza di quell’ Angelica. Brutte ( cose, pietruzze in corsa che precedono la frana. E quel
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Il Gattopardo
Tancredi! aveva ragione, d'accordo, e lo avrebbe anche
aiutato; ma non si poteva negare che fosse un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi. “Basta, dor-
miamoci su.” Bendicò nell’ombra gli strisciava il testone sul ginocchio. “Vedi, tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia.” Sollevò la testa del cane quasi invisibile nella notte. “E poi con quei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con la tua assenza di mento è impossibile
che la tua testa evochi nel cielo spettri maligni.” Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente all’arrivo la famiglia Salina andasse al Monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbèra, antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi era vissuta e santamente vi
era morta. Il monastero era soggetto ad una rigida regola di clausura e l'ingresso ne era sbarrato agli uomini. Appunto per questo Don Fabrizio era particolarmente lieto di visitarlo, perché per lui, discendente diretto della fondatrice, la esclusione non vigeva e di questo suo privilegio che divideva soltanto col Re di Napoli, era gloso e ini fantilmente fiero. Questa facoltà di canonica prepotenza era la causa principale ma non l’unica della sua predilezione per Santo Spirito. In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall’umiltà del parlatorio rozzo con la sua volta a botte centrata dal Gattopardo, con le duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per fare entrare e uscire i' messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, soli maschi nel mondo, potevano lecita-
mente varcare. Gli piaceva l’aspetto delle suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute spiccante sulla rude tonaca nera; si edificava nel sentir
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raccontare per la ventesima volta dalla Badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedete com’essa gli additasse l'angolo del giardino malinconico dove la santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva sca-
gliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili, quella che la Beata Corbèra aveva scritto al Diavolo per esortarlo al bene e la risposta di lui che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, così
come voleva l’atto di fondazione. Quella mattina quindi non vi era che gente contenta nelle due vetture che si dirigevano verso il monastero,
appena fuori del paese. Nella prima stavano il Principe con la Principessa e le figlie Carolina e Concetta; nella seconda Tancredi, la figlia Caterina e Padre Pirrone i quali, beninteso, si sarebbero fermati extra muros ed
avrebbero atteso nel parlatorio durante la visita, confortati dai mandorlati che sarebbero apparsi attraverso la ruota. Concetta appariva un po’ distratta ma serena, e il Principe volle sperare che le fanfaluche di ieri fossero | passate. L’ingresso in un convento di clausura non è cosa breve, anche per chi possegga il più sacro dei diritti. Le reli1| giose tengono a far mostra di una certa riluttanza, forJ male sì ma prolungata, che del resto conferisce maggiore ‘ sapore alla già scontata ammissione; benché la visita fos‘ se attesa si dovette quindi aspettare un bel po’ nel parlai torio. Fu verso la fine di quest’attesa che Tancredi imi provvisamente disse al Principe: «Zio, non potresti fare ‘entrare anche me? Dopo tutto sono per metà Salina, e qui non ci sono stato mai». Il Principe fu in fondo lieto
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Il Gattopardo
della richiesta, ma scosse risolutamente il capo. «Ma, figlio mio, lo sai: io solo posso entrare qui; per gli altri è impossibile.» Non era però facile smontare Tancredi: «Scusa, zione; ho riletto stamane l’atto di fondazione in
biblioteca: “potrà entrare il Principe di Salina e insieme a lui due gentiluomini del suo seguito se la Badessa lo permetterà”. Farò il gentiluomo al tuo seguito, farò il tuo scudiere, farò quel che vorrai. Chiedilo alla Badessa,
te ne prego». Parlava con inconsueto calore; voleva forse far dimenticare a qualcuno gl’inconsiderati discorsi della sera prima. Don Fabrizio era lusingato: «Se ci tieni tanto, caro, vedrò...» Ma Concetta col suo sorriso più
dolce si rivolse al cugino: «Tancredi, passando abbiamo visto una trave per terra, davanti la casa di Ginestra. Vai a prenderla, farai più presto a entrare». L'occhio azzurro di Tancredi s’incupì ed il volto gli divenne rosso come un papavero, non si sa se per vergogna o ira; voleva dire qualcosa a Don Fabrizio sorpreso, ma Concetta intervenne di nuovo, con voce cattiva adesso, e senza sor-
riso. «Lascia stare, papà, lui scherza; in un convento almeno c’è stato, e gli deve bastare; in questo nostro non è giusto che entri.» Con fragore di chiavistelli tirati la porta si apriva. Entrò nel parlatorio afoso la frescura del chiostro insieme al parlottare delle monache schierate. Era troppo tardi per trattare, e Tancredi rimase a passeggiare davanti al convento, sotto il cielo infuocato.
La visita riuscì a perfezione. Don Fabrizio, per amor di quiete, aveva fatto a meno di chiedere a Concetta il significato delle sue parole; doveva trattarsi senza dubbio di una delle solite ragazzate fra cugini; ad ogni modo il bisticcio fra i due giovani allontanava seccature, conversazioni, decisioni da prendere, quindi era stato il benvenuto. Su queste premesse la tomba della Beata Corbèra fu da tutti venerata con compunzione, il caffè leggero delle monache bevuto con tolleranza e i mandorlati rosa
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e verdognoli sgranocchiati con sodisfazione; la Principessa ispezionò il guardaroba, Concetta parlò alle monache con la consueta ritegnosa bontà, lui, il Principe,
lasciò sul tavolo del refettorio le venti “onze” che offriva ogni volta. E vero che all’uscita Padre Pirrone venne trovato solo; ma poiché disse che Tancredi era andato via a piedi essendosi ricordato di una lettera urgente da scrivere, nessuno vi fece caso.
Ritornato a palazzo il Principe salì nella libreria che era proprio al centro della facciata sotto all’orologio e al parafulmine. Dal grande balcone chiuso contro l’afa si ‘vedeva la piazza di Donnafugata: vasta, ombreggiata dai ‘platani polverosi. Le case di fronte ostentavano alcune facciate disegnate con brio da un architetto paesano; ru‘stici mostri in pietra tenera, levigati dagli anni, reggevano contorcendosi i balconcini troppo piccoli; altre case, fra cui quella di Don Calogero, si ammantavano dietro ‘pudiche facciatine Impero. Don Fabrizio passeggiava su e giù per l'immensa ‘stanza; ogni tanto, al passaggio, gettava un’occhiata sulla ‘piazza: su una delle panchine da lui stesso donate al comune tre vecchietti si arrostivano al sole; una diecina di
monelli s’inseguivano brandendo spadoni di legno; quattro muli erano attaccati a un albero. Sotto l’infuriare del solleone lo spettacolo non poteva essere più paesano. A uno dei suoi passaggi davanti alla finestra, però, il suo sguardo fu attratto da una figura nettamente citta-
dina: eretta, smilza, ben vestita. Aguzzò gli occhi: era Tancredi; lo riconobbe, benché fosse un po’ lontano,
dalle spalle cascanti, dal vitino ben racchiuso nella redingote. Aveva cambiato abito: non era più in marrone come a Santo Spirito ma in blù di Prussia il “colore della mia seduzione” come diceva lui stesso. Teneva in mano una canna dal pomo smaltato (doveva essere quella con il Liocorno dei Falconeri ed il motto Serzper purus)
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Il Gattopardo
e camminava leggero come un gatto, come qualcuno che tema d’impolverarsi le scarpe. A dieci passi indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infiocchettata contenente una diecina di pesche gialline con le guancette rosse. Scansò un monello, evitò con cura una pisciata di mu-
lo. Raggiunse la porta di casa Sedàra.
PAREE:FERZA
Ottobre 1860
La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il
calore ristorava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravvivere i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze. Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a
don Ciccio Tumeo, seguace, passava lunghe ore a caccia, dall’alba al pomeriggio. La fatica era fuori d’ogni proporzione con i risultati, perché anche ai più esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c’è quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva far portare in cucina un paio di pernici così come don Ciccio si reputava fortunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi. Un’abbondanza di bottino sarebbe stata d’altronde per il Principe un piacere secondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodi minuti. | Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia, al lume di una candela che rendeva enfatici i gesti sul soffit-
| to dalle architetture dipinte; si acuiva nel traversare i sai Joni addormentati, nello scansare alla luce traballante i i tavoli con le carte da gioco in disordine fra gettoni e bici chierini vuoti, e nello scorgere fra esse il cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giar-
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Il Gattopardo
dino immoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per far saltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impedita dall’edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentissima ancora ai primi albori, ritrovava don Ciccio
sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentava affettuoso contro i cani; a questi, nell’attesa, fremevano i mu-
scoli sotto il velluto del pelo. Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido, e di già sembrava
di udire il rombo del carro solare che saliva l’erta sotto l'orizzonte; presto s’incontravano le prime greggi che
avanzavano torpide come maree, guidate a sassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e i bracchi puntigliosi, e dopo quest’intermezzo assordante si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell’immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor
più nel tempo. Donnafugata con il suo palazzo e i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordo come quei paesaggi che talvolta s’intravedono allo sbocco lontano di una galleria ferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor più insignificanti che se fossero appartenuti al passato, perché rispetto all’immutabilità di queste contrade fuori di mano sembravano far parte del futuro, esser ricavati non dalla pietra e dalla carne ma dalla stoffa di un sognato avvenire, estratte da una Utopia vagheggiata da un Platone rustico e che per un qualsiasi minimo accidente avrebbe anche potuto conformarsi in foggie del tutto diverse o addirittura non essere; sprovviste così anche di quel tanto di carica energetica che ogni cosa passata continua a possede-
re, non potevano più recar fastidio.
Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidî in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti co-
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Parte terza
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me formiche all’arrembaggio di una lucertola morta. Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo designava come passioni); e questi fastidî se li passava in rivista ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o spiegarsi in fila sulla piazza d’armi della propria coscienza sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo il soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le anfrattuosità delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a mangiare pane e for-
maggio, che si dimenticava la bellicosità delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi inoffensivi. Quest'anno invece, come truppe ammutinate che vociassero brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a
casa sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia detto: «Fate rompere le righe!» e che dopo vede il reggimento più serrato e minaccioso che mai. Bande, mortaretti, campane, “zingarelle” e Te Deum \all’arrivo, va bene; ma dopo la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di don Calogero, la bellezza
di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, Tancredi che precipitava i tempi dell’evoluzione prevista e cui anzi l’infatuazione sensuale dava modo d’infiorarne i motivi realistici; gli scrupoli
e gli equivoci del Plebiscito; le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa. Tancredi era partito già da più di un mese e adesso se
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ne stava a Caserta accampato negli appartamenti del suo Re; da lì inviava ogni tanto a Don Fabrizio lettere che questi leggeva con sorrisi e ringhi alternati e che poi riponeva nel più remoto cassetto della scrivania. A Concetta non aveva scritto mai ma non dimenticava di farla salutare con la consueta affettuosa malizia; una volta an-
zi aveva scritto: “Bacio le mani di tutte le Gattopardine, e soprattutto quelle di Concetta” frase che venne censurata dalla prudenza paterna quando la lettera venne letta alla famiglia. Angelica veniva a far visita quasi ogni giorno, più seducente che mai accompagnata dal padre o da una cameriera iettatoria: ufficialmente le visite erano fatte alle amichette, alle ragazze, ma di fatto si avvertiva
che il loro acme era raggiunto al momento in cui essa chiedeva con indifferenza: «E sono arrivate notizie del Principe?» “Il Principe” nella bella bocca di Angelica non era ahimè! il vocabolo per designare lui, Don Fabrizio, ma quello usato per evocare il capitanuccio garibaldino; e ciò provocava in Salina un sentimento buffo tessuto nel cotone dell’invidia sensuale e nella seta del compiacimento per il successo del caro Tancredi; sentimento, a conti fatti, sgradevole. Alla domanda rispondeva sempre lui stesso: in forma meditatissima riferiva quanto sapeva, avendo cura però di presentare una pianticella di notizie ben rimondata alla quale le sue caute cesoie avevano asportato tanto le spine (narrazioni di frequenti gite a Napoli, allusioni chiarissime alla bellezza delle gambe di Aurora Schwarzwald, ballerinetta
del San Carlo) quanto i bòccioli prematuri (“dammi notizie della signorina Angelica” — “nello studio di Ferdinando II ho visto una Madonna di Andrea del Sarto che mi ha ricordato la signorina Sedàra”). Plasmava così una immagine insipida di Tancredi, assai poco veritiera, ma così, anche, non si poteva dire che egli recitasse la parte del guastafeste o quella del paraninfo. Queste precauzioni verbali corrispondevano assai bene ai propri senti-
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menti nei riguardi della ragionata passione di Tancredi ma lo irritavano in quanto lo stancavano; esse erano del resto soltanto un esemplare dei cento raggiri di linguaggio e di contegno che da qualche tempo era costretto a escogitare; ripensava con rimpianto alla situazione di un anno prima quando diceva tutto quanto gli passasse per
il capo, sicuro che ogni sciocchezza sarebbe stata accettata come parola di Vangelo, e qualsiasi improntitudine come noncuranza principesca. Postosi sulla via del rim| pianto del passato, nei momenti di peggior malumore si : spingeva assai lontano giù per questa china pericolosa: ‘ una volta, mentre inzuccherava la tazza di tè tesagli da . Angelica, si accorse che stava invidiando le possibilità di | quei tali Fabrizi Corbèra e Tancredi Falconeri di tre se« coli prima che si sarebbero cavati la voglia di andare a | letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passa1 re davanti al parroco, noncuranti delle doti delle villane { (che del resto non esistevano) e scaricati della necessità c di costringere i loro rispettabili zii a danzar fra le uova | per dire o tacere le cose appropriate. L’impulso di lussut ria atavica (che poi non era del tutto lussuria ma anche ‘ atteggiamento sensuale della pigrizia) fu brutale al punt to da fare arrossire il civilizzatissimo gentiluomo cin{ quantenne, e l’animo di lui che, pur attraverso numerosi f filtri, aveva finito con tingersi di rousseauiani scrupoli, si \ vergognò profondamente; dal che venne dedotto un an-
c cor più acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale nella
‘quale era incappato. La sensazione di trovarsi prigioniero di una situazione che evolvesse più rapidamente di quanto fosse previìsto era particolarmente acuta quella mattina. La sera :prima infatti, la corriera che dentro la cassa giallina poritava irregolarmente la scarsa posta di Donnafugata gli aveva recato una lettera di Tancredi. Prima ancora di esser letta essa aveva proclamato la
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propria importanza scritta com'era su sontuosi foglietti di carta lucida e con calligrafia chiara e armoniosa. Si ri-
velava subito come la “bella copia” di chissà quante bozze disordinate. Il Principe in essa non veniva chiamato “zione”, appellativo che gli era divenuto caro, ma “carissimo zio Fabrizio”, formula che possedeva molteplici meriti: quello di allontanare fin dall’inizio qualsiasi sospetto di celia, quello di far presentire l’importanza di ciò che sarebbe stato scritto in seguito, quello di permettere, all’occorrenza, di mostrare la lettera a chiunque ed anche quello di riallacciarsi ad antichissime tradizioni religiose che attribuivano un potere vincolatorio alla precisione del nome invocato. Il “carissimo zio Fabrizio”, dunque, era informato che il suo “affezionatissimo e devotissimo nipote” era da tre mesi preda del più violento amore e che né “i rischi della guerra” (leggi: passeggiate nel parco di Caserta) né “le molte attrattive di una grande città” (leggi: i vezzi della ballerina Schwarzwald) avevano sia pure un mo-
mento potuto allontanare dalla sua mente e dal suo cuore l’immagine della signorina Angelica Sedàra (qui una lunga processione di aggettivi volti ad esaltare la bellezza, la grazia, la virtù, l’intelletto dell’oggetto amato); attraverso nitidi ghirigori d’inchiostro e di sentimenti si diceva poi come il Tancredi stesso, cosciente della propria indegnità, avesse cercato di soffocare il proprio ardore (“lunghe ma vane sono state le ore durante le quali o fra il chiasso di Napoli o fra l’austerità dei miei compagni d’arme ho cercato di reprimere i miei sentimenti”). Adesso però l’amore aveva superato il ritegno, ed egli veniva a pregare l’amatissimo zio di volere a suo nome richiedere la ‘mano della signorina Angelica al “suo stimabilissimo padre”. “Tu sai, zio, che io non posso offrire alla fanciulla amata null’altro all’infuori del mio amore, del mio nome e della mia spada.” Dopo questa frase a proposito della quale occorre non dimenticare
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che allora ci si trovava in pieno meriggio romantico, Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità, anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàra (una volta si spingeva fino a scrivere arditamente “casa Sedàra”) venissero incoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e per l’azione di livellamento dei ceti che era uno degli scopi dell’attuale movimento politico in Italia. Questa fu la sola parte della lettera che don Fabrizio leggesse con piacere, non soltanto perché essa confermava le sue previsioni e gli conferiva l’alloro di profeta, ma anche perché lo stile, riboccante di sottintesa ironia, gli evocava magicamente la figura del nipote, la nasalità beffarda della voce, gli occhi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi. Quando poi Don Fabrizio si avvide che questo squarcio giacobino era esattamente racchiuso in un foglio cosicché, volendo, si poteva far leggere la lettera pur sottraendone il capitoletto rivoluzionario, la sua ammira-
zione per il tatto di Tancredi raggiunse lo zenith. Dopo ‘aver narrato brevemente le più recenti vicende guerresche ed espresso la convinzione che entro un anno si sarebbe raggiunta Roma “predestinata capitale augusta | dell’Italia nuova”, si ringraziava per le cure e l’affetto rii cevuti in passato e si conchiudeva scusandosi per l’ardiire avuto nell’affidare a lui l’incarico “dal quale dipende |la mia felicità futura”. Poi si salutava (lui solo). La prima lettura di questo straordinario brano di pro‘sa diede un po’ di capogiro a Don Fabrizio. Egli notò di nuovo la stupefacente accelerazione della storia; per ‘esprimersi in termini moderni diremo che egli venne a ‘trovarsi nello stato d’animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei pa‘ciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso in un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta prima di
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aver avuto il tempo di farsi il segno della croce. Un secondo strato, quello affettuoso, della sua personalità si fece strada ed egli si rallegrò della decisione di Tancredi che veniva ad assicurare la sua sodisfazione carnale, effimera, e la sua tranquillità economica, perenne. Dopo ancora però notò l’incredibile sicumera del giovanotto che postulava il proprio desiderio come già accettato da Angelica; ma alla fine tutti questi pensieri furono travolti da un grande senso di umiliazione per trovarsi costretto a trattare con Don Calogero di argomenti tanto intimi
e anche da un fastidio per dovere l'indomani intavolare trattative delicate con l’uso di quelle precauzioni di accorgimenti che ripugnavano alla sua natura presunta leonina. Il contenuto della lettera venne comunicato da Don Fabrizio soltanto alla moglie, quando già erano a letto sotto il chiarore azzurrino del lumino a olio incappucciato nello schermo di vetro. Maria-Stella dapprima non disse parola ma si faceva una caterva di segni di croce; poi affermò che non con la destra ma con la sinistra avrebbe dovuto segnarsi; dopo questa espressione di somma sorpresa, si scatenarono i fulmini della sua eloquenza. Seduta nel letto, le dita di lei gualcivano il lenzuolo, mentre le parole rigavano l’atmosfera lunare della camera chiusa, rosse come torce iraconde. «Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta! Un traditore è, co-
me tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue
parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro sangue!» Qui lasciò irrompere la carica di corazzieri delle scenate familiari: «Io lo avevo sempre detto! ma nessuno mi ascolta. Non ho mai potuto soffrirlo quel bellimbusto. Tu solo avevi perduto la testa per lui!» In realtà anche lei era stata soggiogata dalle moine di Tancredi; anch’essa lo amava ancora; ma
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la voluttà di gridare “la colpa è tua!” essendo la più forte che creatura umana possa godere, tutte le verità e tutti i sentimenti venivano travolti. «E adesso ha anche la faccia tosta di incaricare te, suo zio, Principe di Salina e
padrone suo cento volte, padre della creatura che ha ingannato di fare le sue indegne richieste a quel farabutto, padre di quella sgualdrina! Ma tu non lo devi fare, Fabrizio, non lo devi fare, non lo farai, non lo devi fare!»
La voce diventava acuta, il corpo cominciava a irrigidirsi. Don Fabrizio ancora coricato sul dorso sogguardò di lato per assicurarsi che la valeriana fosse sul cassettone. La bottiglia era lì ed anche il cucchiaio d’argento posato di traverso sul turacciolo; nella semioscurità glauca della camera brillavano come un faro rassicurante eretto contro le tempeste isteriche. Un momento volle alzarsi e prenderli; però si accontentò di mettersi a sedere anche lui; così riacquistò una parte di prestigio. «Stelluccia, non dire troppe sciocchezze; non sai quel che dici. Angelica non è una sgualdrina; lo diventerà forse, ma per ora è una ragazza come tutte, più bella delle altre e forse anche un tantino innamorata di Tancredi, come tutti. Soldi, intanto, ne avrà; soldi nostri in gran parte ma am-
ministrati sin troppo bene da don Calogero; e Tancredi di questo ha gran bisogno: è un signore, è ambizioso, ha le mani bucate.
A Concetta non aveva mai detto nulla,
: anzi è lei che da quando siamo arrivati qui lo trattava coi me un cane. E poi non è un traditore: segue i tempi, ec{ co tutto, in politica come nella vita privata, del resto è il | più caro giovane che io conosca; e tu lo sai quanto me,
‘ Stelluccia mia.» Cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola ‘cranica di lei. Essa singhiozzava adesso; aveva avuto il
! buon senso di bere un sorso d’acqua e il fuoco dell’ira si éera mutato in accoramento. Don Fabrizio cominciò a ssperare che non sarebbe stato necessario di uscire dal I letto tiepido, di affrontare a piedi nudi una traversata
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della stanza già freschetta. Per esser sicuro della calma futura si rivestì di falsa furia: «E poi non voglio grida in casa mia, nella mia camera, nel mio letto! Niente di questi “farai” e “non farai!” Decido io; ho già deciso da
quando tu non te lo sognavi neppure. E basta!» L’odiatore delle grida urlava lui stesso con quanto fiato capiva nel torace smisurato. Credendo avere un tavolo dinanzi a sé menò un gran pugno sul proprio ginocchio, si fece male e si calmò anche lui.
La moglie era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato. «Dormiamo ora. Domani vado a caccia e dovrò alzarmi presto. Basta! Quel che è deciso è deciso. Buona notte, Stelluccia.» Baciò la moglie, in fronte prima, segno di riconciliazione, in bocca poi, segno di amore. Si ridistese, si voltò dalla parte del muro. Sulla seta
della parete l’ombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo. Stelluccia anch’essa si rimise a posto, e mentre la sua gamba destra sfiorava quella sinistra del Principe, essa si sentì tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi... ed anche Concetta...
Queste marce sul filo del rasoio erano sospese del tutto per il momento, insieme agli altri pensieri, nell’arcaicità odorosa della campagna, se così potevano chiamarsi i luoghi nei quali si trovava così spesso a cacciare. Nel termine “campagna” è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’ America dell’antichità. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tal’e quale come un Archedamo o un Filostrato qualunqui erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima;
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vedevano le stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, span-
deva l’odore del timo. Le improvvise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s'invocava Artemide. Ridotta a questi elementi essenziali, col
volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile. Poco prima di giungere in cima al colle, quella mattii na, Arguto e Teresina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno presentito la selvaggina: strisciamenti, iri rigidimenti, caute alzate di zampe, latrati repressi: dopo | pochi minuti un culetto di peli bigi guizzò fra le erbe, ( due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa "1: attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola : agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacCc
(
ca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi
: squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fa: brizio si vide fissato da due grandi occhi neri che, invasi
r rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza r rimprovero ma che erano carichi di un dolore attonito : rivolto contro tutto l'ordinamento delle cose; le orecchie
‘vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile
ifuga; l’animale moriva torturato da un’ansiosa speranza idi salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela jquando di già era ghermito, proprio come tanti uomini;
mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito, e morì; ma
Don Fabrizio e Tumeo avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di
ruecidere, anche quello rassicurante di compatire. Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i
itamerici e i sugheri radi apparve l’aspetto vero della Si-
‘icilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti
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non sono che fronzoli trascurabili. L'aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascon-
deva in una piega anonima del terreno, e non si vedeva un’anima: sparuti filari di viti denunziavano soli un qualche passaggio di uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del mare, ancor più duro e infecondo della terra. Il vento lieve passava su tutto, universalizzava odori di sterco, di carogne e di salvie, can-
cellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante; prosciugava le goccioline di sangue che erano l’unico lascito del coniglio, molto più in là andava ad agitare la capelliera di Garibaldi e dopo ancora cacciava il pulviscolo negli occhi dei soldati napoletani che rafforzavano in fretta i bastioni di Gaeta, illusi da una speranza che era vana quanto lo era stata la fuga stramazzata della selvaggina. Nella circoscritta ombra dei sugheri il Principe e l’organista si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno, accompagnavano un pollo arrosto venuto fuori dal carniere di Don Fabrizio con i soavissimi “muffoletti” cosparsi di farina cruda che don Ciccio aveva portato con sé; degustavano la dolce “insòlia” quell’uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare; saziarono con larghe fette di pane la fame dei bracchi che stavano di fronte a loro impassibili come uscieri concentrati nella riscossione dei propri crediti. Sotto il sole costituzionale Don Fabrizio e don Ciccio furono poi sul punto di addormentarsi. Ma se una fucilata aveva ucciso il coniglio, se i cannoni rigati di Cialdini scoraggiavano già i soldati napoletani, se il calore meridiano addormentava gli uomini,
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niente invece poteva fermare le formiche. Richiamate da alcuni chicchi di uva stantia che don Ciccio aveva risputato via, le loro fitte schiere accorrevano, esaltate dal de-
siderio di annettersi quel po’ di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti colme di baldanza, in
disordine ma risolute: gruppetti di tre o quattro sostavano un po’ a parlottare e, certo, esaltavano la gloria secolare e la prosperità futura del formicaio n. 2 sotto il sughero n. 4 della cima di monte Morco; poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il sicuro avvenire; i dorsi lucidi di quegli insetti vibravano di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno. Come conseguenza di alcune associazioni d’idee che non sarebbe opportuno precisare, l’affaccendarsi delle formiche impedì il sonno a Don Fabrizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito quali egli li aveva vissuti poco tempo prima a Donnafugata stessa; oltre ad un senso di sorpresa quelle giornate gli avevano lasciato parecchi enigmi da sciogliere; adesso al cospetto di questa natura che, tranne le formiche, se ne infischiava evidentemente, era forse possibile cercare la soluzione di uno di essi. I cani dormivano distesi e appiattiti come figurine ritagliate, il coniglietto appeso con la testa in giù ad un ramo pendeva in diagonale sotto la spinta continua del » vento, ma Tumeo, aiutato in questo dalla sua pipa, riu{ sciva ancora a tenere gli occhi aperti. «E voi, don Ciccio, come avete votato il giorno Ven| tuno?» Il pover’uomo sussultò. Preso alla sprovvista, in un
t momento nel quale si trovava fuori del recinto di siepi iprecauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni s suo compaesano, esitava, non sapendo come rispondere. Il Principe scambiò per timore quel che era soltanto
s sorpresa e si irritò. «Insomma, di chi avete paura? Qui t non ci siamo che noi, il vento e i cani.»
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La lista dei testimoni rassicuranti non era, a dir vero,
felice; il vento è chiacchierone per definizione, il Principe era per metà siciliano. Di assoluta fiducia non c'erano che i cani e soltanto in quanto sprovvisti di linguaggio articolato. Don Ciccio però si era ripreso e la astuzia paesana gli aveva suggerito la risposta giusta, cioè nulla. «Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il “sì”.» Questo Don Fabrizio lo sapeva, infatti; e appunto per ciò la risposta non fece che trasformare un enigma piccolino in un enigma storico. Prima della votazione molte persone erano venute da lui a chiedere consiglio; tutte sinceramente erano state esortate a votare in modo affermativo. Don Fabrizio infatti non concepiva neppure come si potesse fare altrimenti, sia di fronte al fatto compiuto come rispetto alla teatrale banalità dell’atto, così di fronte alla necessità storica come anche in considerazione dei guai nei quali quelle umili persone sarebbero forse capitate quando il loro atteggiamento negativo fosse stato scoperto. Si era accorto però che molti non erano stati convinti dalle sue parole. Era entrato in gioco il machiavellismo incolto dei Siciliani che tanto spesso induceva, in quei tempi, questa gente, generosa
per definizione, ad erigere impalcature complesse fondate su fragilissime basi. Come dei clinici abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri, i Siciliani (di allora) finivano con l’uccidere l’ammalato, cioè loro stessi, proprio in seguito alla raffinatissima astuzia che non era quasi mai appoggiata a una reale conoscenza dei problemi o, per lo meno, degli interlocutori. Alcuni fra questi che avevano compiuto il viaggio ad lizina Gattopardorum stimavano cosa impossibile che un Principe di Salina potesse votare in favore della Rivoluzione (così in quel remoto paese venivano ancora designati i recenti mutamenti) e inter-
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pretavano i ragionamenti di lui come uscite ironiche volte a ottenere un risultato pratico opposto a quello sugge-
rito a parole; questi pellegrini (ed erano i migliori) erano usciti dal suo studio ammiccando per quanto il rispetto lo permettesse loro, orgogliosi di aver penetrato il senso delle parole principesche e fregandosi le mani per congratularsi della propria perspicacia proprio nell’istante in cui questa si era ecclissata. Altri invece dopo averlo ascoltato si allontanavano contristati, convinti che lui
fosse un transfuga o un mentecatto e più che mai decisi a non dargli retta e ad obbedire invece al proverbio millenario che esorta a preferire un male già noto a un bene non sperimentato; questi erano riluttanti a ratificare la nuova realtà nazionale anche per ragioni personali, sia per fede religiosa, sia per aver ricevuto favori dal passato regime e non aver poi saputo inserirsi nel nuovo con suf-
ficiente sveltezza; sia infine perché durante il trambusto della liberazione erano loro scomparsi qualche paio di capponi e alcune misure di fave ed erano invece spuntate qualche paia di corna, o liberamente volontarie come le truppe garibaldine o di leva forzosa come i reggimenti borbonici. Per una diecina almeno di persone egli aveva avuta l'impressione penosa ma netta che avrebbero votato “no”, una minoranza esigua certamente ma non trascurabile nel piccolo elettorato donnafugasco. Ove poi si voglia considerare che le persone venute da lui rappresentavano soltanto il fior fiore del paese e che qual‘che non convinto dovesse pur esserci fra quelle centinaia di elettori che non si erano neppur sognati di farsi vedere a palazzo, il Principe aveva calcolato che la com-
pattezza affermativa di Donnafugata sarebbe stata variegata da una trentina di voti negativi. Il giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e
perle strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di “sì” infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti
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sollevati dai turbini di vento, cantavano alcune strofe della “Bella Gigougin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre “facce forestiere” (cioè di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico dove decantavano le “magnifiche sorti e progressive” di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia; alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com'erano, in
parti eguali, da un immoderato impiego dello “zappone” e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso ma tacevano; tanto tacevano che dovette essere allora (come disse poi Don Fabrizio) che le “facce forestiere” decisero di anteporre, fra le arti del
Quadrivio, la Matematica alla Rettorica. Verso le quattro del pomeriggio il Principe si era recato a votare fiancheggiato a destra da Padre Pirrone, a sinistra da don Onofrio Rotolo; accigliato e pelli-chiaro procedeva cauto verso il Municipio e spesso con le mani si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a Padre Pirrone che senza vento l’aria sarebbe stata come uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie. Portava la stessa redingote nera con la quale tre anni fa, si era recato a Ca-
serta per ossequiare quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non esser presente in questa giornata flagellata da un vento impuro durante la quale si poneva il suggello alla sua insipienza. Ma era poi stata insipienza davvero? Allora tanto vale dire che chi soccombe al tifo muore per insipienza. Ricordò quel Re affaccendato a dare corso a fiumi di cartacce inutili ed ad un tratto si avvide quanto inconscio appello alla misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico. Questi pensieri erano sgradevoli come tut-
ti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi e
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l'aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile. Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall’urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; è superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello ma agli occhi di chi lo conoscesse un “sì” e un “no” alternati s'inseguivano sulla lucentezza del feltro. Giunto in un locale del Municipio dove era il luogo di votazione fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzarono quando la sua statura riempì intera l'altezza della porta; vennero messi da parte alcuni contadini arrivati prima e che volevano votare e così, senza
dover aspettare, Don Fabrizio consegnò il proprio “sì” nelle patriottiche mani del sindaco Sedàra. Padre Pirrone invece non votò affatto perché era stato attento a non farsi iscrivere come residente nel paese. Don ’Nofrio, lui, obbedendo agli ordini del Principe, manifestò la propria monosillabica opinione sulla complicata quistione italiana, capolavoro di concisione che venne compiu‘ to con la medesima buona grazia con la quale un bambi: no beve l'olio di ricino. Dopo di che tutti furono invitati a “prendere un bici chierino” su, nello studio del sindaco; ma Padre Pirrone : e don ’Nofrio misero avanti buone ragioni di astinenza | l'uno, di mal di pancia l’altro e rimasero abbasso. Don | Fabrizio dovette affrontare il rinfresco da solo. Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una : oleografia di Garibaldi e (di già) una di Vittorio Ema‘inuele, fortunatamente collocata a destra; bell’uomo il i primo, bruttissimo il secondo affratellati però dal prodi: gioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. ‘Su un tavolinetto vi era un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici
‘bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro iverdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbo-
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lizzazione della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli. Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute. Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la conces-
sione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse.
Prima del tramonto le tre o quattro bagascette di Donnafugata (ve ne erano anche lì non raggruppate ma operose nelle loro aziende private) comparvero in piazza col crine adorno di nastrini tricolori per protestare contro l’esclusione delle donne dal voto; le poverine vennero beffeggiate via anche dai più accesi liberali e furono costrette a rintanarsi. Questo non impedì che il “Giornale di Trinacria” quattro giorni dopo facesse sapereai Palermitani che a Donnafugata “alcune gentili rappresentanti del bel sesso hanno voluto manifestare la propria fede inconcussa nei nuovi fulgidi destini della Patria amatissima, ed hanno sfilato nella piazza fra il generale consenso di quella patriottica popolazione.” Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera eda notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:
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Iscritti 515; votanti 512; “sì” 512; “no” zero.
Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di
consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase
che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre. Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido
sotto la gran luce; la cupezza di quella notte però ristagnava ancora in fondo all’anima di Don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più penose in quanto più incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl'interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; date le circostanze non era lecito chiedere di. più; il disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d’ignoranza di noi stessi. L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato quanto nell’ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D'accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciut-
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ta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio
solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare. Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione. «Io, Eccellenza, avevo votato “no”. “No”, cento volte
“no”. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l’inutilità, l’unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma
io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la
cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco
Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella... (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!» A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi,
nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuta curare, il cui irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili. Il voto negativo di
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don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila “no” in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime. Sei mesi fa si udiva la voce dispotica che diceva: «fai come dico io, o
saranno botte». Adesso si aveva di già l’impressione che la minaccia venisse sostituita dalle parole molli dell’usuraio: «Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda la
cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra». Don Ciccio tuonava ancora: «Per voi signori è un’altra cosa. Si può essere ingrati per un feudo in più; per un pezzo di pane la riconoscenza è un obbligo. Un altro paio di maniche ancora è per i trafficanti come Sedàra per i quali approfittare è legge di natura. Per noi piccola gente le cose sono come sono. Voi lo sapete, Eccellenza, la buon’anima di mio padre era guardacaccia nel Casino reale di S. Onofrio, già al tempo di Ferdinando IV quando c'erano qui gl’Inglesi. Si faceva vita dura ma l’abito verde reale e la placca d’argento conferivano autorità. Fu la regina Isabella, la spagnuola, che
era duchessa di Calabria allora, a farmi studiare a permettermi di essere quello che sono, Organista della Madre Chiesa, onorato della benevolenza di Vostra Ec-
cellenza; e negli anni di maggior bisogno quando mia madre mandava una supplica a corte, le cinque “onze” di soccorso arrivavano sicure come la morte, perché là a
Napoli ci volevano bene, sapevano che eravamo buona gente e sudditi fedeli. Quando il Re veniva erano manacciate sulla spalla di mio padre e: “Don Lionà, ne ‘vurria tante come a vuie, fedeli sostegni del Trono e
della Persona mia”. L’aiutante di campo, poi, distribui‘va le monete d’oro. Elemosine le chiamano ora, queste generosità di veri Re; lo dicono per non dover darle loro, ma erano giuste ricompense alla devozione! E oggi se questi santi Re e belle Regine guardano dal Cielo che
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dovrebbero dire? “Il figlio di don Leonardo Tumeo ci ha tradito!” Meno male che in Paradiso si conosce la verità. Lo so, Eccellenza, le persone come voi me lo
hanno detto, queste cose da parte dei Reali non significano niente, fanno parte del loro mestiere! Sarà vero, è vero, anzi. Ma le cinque onze d’oro c'erano, è un fatto, e con esse ci si aiutava a campare l’inverno. E ora che
potevo riparare il debito, niente. “Tu non ci sei.” Il mio “no” diventa un “sì”. Ero un “fedele suddito”, sono diventato un “borbonico schifoso”. Ora tutti Savoiardi sono! ma io i Savoiardi me li mangio col caffè, io!» È tenendo fra il pollice e l’indice un biscotto fittizio lo inzuppava in una immaginaria tazza. Don Fabrizio aveva sempre voluto bene a don Ciccio,
ma era stato un sentimento nato dalla compassione per ogni persona che da giovane si era creduta destinata all’arte e che da vecchio, accortosi di non possedere talento, continua ad esercitare quella stessa attività su sca-
lini più bassi, con in tasca i propri poveri sogni; e compativa anche la sua contegnosa miseria. Ma adesso provava anche una specie di ammirazione per lui e nel fondo, proprio nel fondo, della sua altera coscienza una
voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del Principe di Salina; e i Sedàra, tutti questi Sedàra da quello minuscolo che violentava l’aritmetica a Donnafugata a quelli maggiori a Palermo, a Torino, non avevano forse commesso un de-
litto strozzando queste coscienze? Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata. Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara personificazione del “galantuomo austero” suben-
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trava l’altra, assai più frequente e non meno genuina dello “snob”. Perché Tumeo apparteneva alla specie zoologica degli “snob passivi”, specie adesso ingiustamente vilipesa. Beninteso la parola “snob” era ignota nel 1860 in Sicilia, ma così come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in quella remotissima età esisteva la gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non far della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alla propria, è legge suprema di vita: lo “snob” essendo infatti il contrario dell’invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato “devoto”, “affezionato”, “fedele”; e trascorreva vita felice perché il più
fuggevole sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata; e, poiché si profilava accompagnato da quegli appellativi affettuosi, le grazie ristoratrici erano più frequenti di quel che siano adesso. La cordiale natura snobistica di don Ciccio, dunque, temette di aver recato fastidio a Don Fabrizio e la di lui sollecitudine si affrettava a cercare i mezzi per fugare le ombre accumulatesi per sua colpa, credeva, sul ciglio olimpico del Principe; il mezzo più immediatamente idoneo era quello di proporre di riprendere la ‘caccia; e così fu fatto. Sorprese durante la loro siesta meridiana alcune sven‘ turate beccaccie e un altro coniglio caddero sotto i colpi dei cacciatori, colpi, quel giorno, particolarmente spietati perché tanto Salina quanto Tumeo si compiacevano ‘nell’identificare con don Calogero Sedàra quegli inno‘centi animali. Gli sparacchiamenti, però, i batuffoli di ‘pelo o di penne che gli spari facevano un istante brillare al sole, non bastavano però quel giorno a rasserenare il ‘Principe; via via che le ore passavano e che il ritorno a Donnafugata si avvicinava, la preoccupazione, il dispetito, l'umiliazione per la imminente conversazione con il ‘plebeo sindaco lo opprimevano, e l’aver chiamato in ‘cuor suo “don Calogero” due beccacce e un coniglio
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non era servito dopo tutto a nulla; benché fosse già deciso a inghiottire lo schifosissimo rospo, sentì il bisogno di possedere più ampie informazioni sull’avversario o, per meglio dire, di sondare l’opinione della gente riguardo al passo che stava per compiere. Fu così che per la seconda volta in quel giorno don Ciccio venne sorpreso da una domanda a bruciapelo. «Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante
persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?» A Tumeo, in verità, sembrava di aver già espresso con
sufficiente chiarezza la propria opinione sul sindaco, e così stava per rispondere quando gli balenarono in mente le vaghe voci che aveva inteso sussurrare circa la dolcezza degli occhi con i quali Don Tancredi contemplava Angelica; ed allora venne assalito dal dispiacere di essersi lasciato trascinare a manifestazioni tribunizie che forse puzzavano alle narici del Principe se quel che si assumeva era vero; e ciò mentre in un altro compartimento
della sua mente egli si rallegrava di non aver detto nulla di positivo contro Angelica; anzi il lieve dolore che ancora sentiva al suo indice destro gli fece l’effetto di un balsamo. «Dopo tutto, Eccellenza, don Calogero Sedàra non è peggiore di tanta altra gente venuta su in questi ultimi mesi.» L’elogio era modesto ma fu sufficiente a permettere a Don Fabrizio d’insistere «Perché, vedete, don Ciccio, a me interessa molto di conoscere la verità su
don Calogero e la sua famiglia.» «La verità, Eccellenza, è che don Calogero è molto ricco, e molto influente anche; che è avaro (quando la fi-
glia era in collegio lui e la moglie mangiavano in due un uovo fritto) ma che quando occorre sa spendere; e poiché ogni “tarì” speso nel mondo finisce in tasca a qualcheduno è successo che molta gente ora dipende da lui; e poi quando è amico, è amico, bisogna dirlo; la sua ter-
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ra la dà a quattro terraggi e i contadini debbono crepare per pagarlo, ma un mese fa ha préstato cinquanta onze a Pasquale Tripi che lo aveva aiutato nel periodo dello sbarco; e senza interessi, il che è il più grande miracolo che si sia visto da quando Santa Rosalia fece cessare la peste a Palermo. Intelligente come un diavolo, del resto: Vostra Eccellenza avrebbe dovuto vederlo nella primavera scorsa: andava avanti e indietro in tutto il territorio come un pipistrello, in carrozzino, sul mulo, a piedi,
pioggia o sereno che fosse; e dove era passato si formavano circoli segreti, si preparava la strada per quelli che dovevano venire. Un castigo di Dio, Eccellenza, un ca-
stigo di Dio! E ancora non vediamo che il principio della sua carriera! fra qualche mese sarà deputato a Torino, e fra qualche anno, quando saranno posti in vendita i beni ecclesiastici, pagando quattro soldi, si prenderà i feudi di Marca e di Masciddàro, e diventerà il più gran proprietario della provincia. Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev'essere; è peccato
; però che debba essere così.» Don Fabrizio ricordò la conversazione di qualche me: se prima con Padre Pirrone nell’osservatorio sommerso
i nel sole; quel che aveva predetto il Gesuita si avverava; i ma non era forse una buona tattica quella d’inserirsi nel 1 movimento nuovo e farlo volgere, almeno in parte, a fa\ vore di alcuni individui della sua classe? Il fastidio della ( conversazione vicina con don Calogero diminuì. «Ma gli altri di casa, don Ciccio, gli altri, come sono i veramente?»
«Eccellenza, la moglie di Don Calogero non l’ha vista
inessuno da anni, meno di me. Esce soltanto per andare Nimessa, alla prima messa, quella delle cinque, quando Ninon c'è nessuno. A quell'ora servizio di organo non ce n'è; ma io una volta ho fatto una levataccia apposta per »vederla. Donna Bastiana entrò accompagnata dalla camimeriera, ed io impedito dal confessionale dietro il quale
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mi ero nascosto, non riuscivo a vedere molto; ma alla fi-
ne del servizio il caldo fu più forte della povera donna ed essa scartò il velo nero. Parola d’onore, Eccellenza, essa è bella come il sole! e non si può dar torto a don
Calogero se, scarafaggio come è lui, se la vuol tenere lontana dagli altri. Però anche dalle case meglio custodite le notizie finiscono col gocciolare; le serve parlano; e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta.» Don Ciccio che, pupillo di regine e seguace di principi, teneva molto alle proprie semplici maniere che stimava perfette, sorrideva compiaciuto: aveva scoperto il modo di prendersi un po’ di rivincita sull’annientatore della propria personalità. «Del resto» continuava «non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?» Voltatosi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. «E figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio e torvo era che tutti lo chiamavano “Peppe Mmerda”. Scusate la parola, Eccellenza.» E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito
un orecchio di Teresina. «Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici “lupare” nella
schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello. stava diventando importuno e prepotente.» Molte di queste cose erano già note a Don Fabrizio ed erano state passate in bilancio; ma il soprannome del nonno di Angelica non lo conosceva; esso apriva una prospettiva storica profonda, svelava abissi in paragone dei quali don Calogero sembrava un’aiuola da giardino.
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Sentì veramente il terreno mancargli sotto i piedi; come avrebbe fatto Tancredi a mandar giù anche questo? e lui stesso? La sua testa si mise a calcolare quale legame di parentela avrebbe potuto unire il Principe di Salina, zio dello sposo, al nonno della sposa; non ne trovò, non ve n'erano. Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. «Nor olet» ripeteva «on olet» anzi «optime foeminam ac contubernium olet.»
«Di tutto mi avete parlato, don Ciccio, di madri sel-
vagge e di nonni fecali, ma non di ciò che mi interessa di più, della signorina Angelica.» Il segreto sulle intenzioni matrimoniali di Tancredi, benché ancora embrionali sino a poche ore prima, sa-
rebbe stato certamente divulgato se, per caso, non aves: se avuto la fortuna di mimetizzarsi. Senza dubbio erano : state notate le frequenti visite del giovane alla casa di : don Calogero come pure i suoi sorrisi rapiti; le mille pici cole premure, abituali e insignificanti in città, diveniva-
i no sintomi di violente brame agli occhi del puritanesimo ‘ donnafugasco. Lo scandalo maggiore era stato il primo: i i vecchietti che si rosolavano al sole e i ragazzini che ‘ duellavano avevano visto tutto, compreso tutto e ripetu-
: to tutto; sui significati ruffianeschi e afrodisiaci di quella ‘dozzina di pesche erano state consultate megere esperti tissime e libri disvelatori di arcani fra i quali in primo luogo il Rutilio Benincasa, l’Aristotile delle plebi conta‘dine. Per fortuna si era prodotto un fenomeno relativamente frequente da noi: il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di run Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. Il «semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un *Principe di Falconeri e una nipote di Peppe Mmerda ìinon traversò neppure l'immaginazione di quei villici che «rendevano così alle case feudali un omaggio equivalente
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a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncò poi queste fantasie e non se ne parlò più. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alla pari con gli altri e perciò accolse la domanda del Principe con l’aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto. «Della signorina, Eccellenza, non c’è niente da dire: essa parla da sé: i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti. Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c’è tutta la bellezza della madre senza l’odor di beccume del nonno. È intelligente poi! Avete visto come questi pochi anni a
Firenze sono bastati a trasformarla? È diventata una vera signora» continuava don Ciccio che era insensibile alle sfumature «una signora completa. Quando è ritornata dal collegio mi ha fatto venire a casa sua e mi ha suonato la mia vecchia mazurka: suonava male ma vederla era una delizia, con quelle trecce nere, quegli occhi, quelle gambe, quel petto... Uuh! altro che odore di beccume! le sue lenzuola devono avere il profumo del paradiso!» Il Principe si seccò: tanto geloso è l'orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna, che quelle lodi orgiastiche alla procacia della futura nipote lo offesero; come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della futura Principessa di Falconeri? Era vero però che il pover’uomo non ne sapeva niente; bisognava raccontargli tutto; del resto fra qualche ora la notizia sarebbe stata pubblica. Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: «Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi; a casa ho una lettera di mio ni-
pote che mi incarica di fare una domanda di matrimonio perla signorina Angelica; da ora in poi ne parlerete col vostro consueto ossequio. Siete il primo a conoscere la notizia, ma per questo vantaggio dovrete pagare: ritornato a
palazzo sarete rinchiuso a chiave insieme a Teresina nella
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stanza dei fucili; avrete il tempo di ripulirne e oliarne parecchi e sarete posto in libertà soltanto dopo la visita di don Calogero; non voglio che niente trapeli prima». Sorpresi così alla sprovvista, le cento precauzioni, i cento snobismi di don Ciccio crollarono di botto come un gruppo di birilli centrati in pieno. Sopravvisse solo un sentimento antichissimo. «Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!»
Detto questo chinò il capo e desiderò, angosciato, che la terra si aprisse sotto i suoi piedi. Il Principe era diven| tato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli i occhi sembravano sangue. Strinse i magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di ‘ scienza, abituato dopo tutto a vedere il pro e contro del| le cose; inoltre sotto l’aspetto leonino era uno scettico. | Aveva di già subìto tanto oggi: il risultato del Plebiscito, il soprannome del nonno di Angelica, le “lupare”! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la ‘ fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di i secolari consuetudini. I pugni si riaprirono, i segni delle unghie rimasero im‘pressi nei palmi. «Andiamo a casa, don Ciccio; voi certe :cose non le potete capire. D'accordo come prima, siamo lintesi?»
E mentre discendevano verso la strada sarebbe stato Idifficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale
\Sancio.
Quando alle quattro e mezza precise gli venne annun-
iziata la venuta puntualissima di don Calogero, il Princi-
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pe non aveva ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e, continuò, placido a farsi bello. Si unse i capelli con il lerzo-liscio, il Lime-Juice di Atkinson, densa lozio-
ne biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni; rifiutò la redingote nera e la fece sostituire
con una di tenuissima tinta lilla che gli sembrava più adatta all’occasione presunta festosa, indugiò ancora un poco per strapparsi dal mento, con una pinzetta, uno
sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca la mattina nell’affrettata rasatura; fece chiamare Padre Pirrone; prima di uscire prese su un tavolo un estratto
delle Blatter der Himmelsforschung e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso più frequente di quanto s'immagini. Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in
cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gatto-
pardo irritato a entrare nello studio. Don Calogero se ne stava lì all’impiedi, piccolissimo, minuto e imperfettamente rasato; sarebbe davvero sembrato uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti sprizzanti intelligenza; ma poiché questo ingegno aveva
uno scopo materiale opposto a quello astratto cui credeva tendere quello del Principe, esso venne considerato
PA
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come segno di malignità. Sprovvisto del senso di adattamento dell’abito alle circostanze che nel Principe era innato, il sindaco aveva creduto far bene vestendosi quasi in gramaglie; egli era nero quasi quanto Padre Pirrone; ma, mentre questi si sedette in un cantuccio assumendo l’aria marmoreamente astratta dei sacerdoti che non vogliono pesare sulle decisioni altrui, il volto di lui esprimeva un sentimento di avida attesa quasi penoso da guardare. S'iniziarono subito le scaramuccie di parole insignificanti che precedono le grandi battaglie verbali. Ma fu don Calogero a disegnare il grande attacco: «Eccellenza» chiese «ha ricevuto buone notizie da Don Tancredi?» Nei piccoli paesi allora il sindaco aveva
modo di controllare, inofficiosamente, la posta, e l’inconsueta eleganza della lettera di Tancredi lo aveva forse posto in guardia. Il Principe quando questa idea gli | passò per la testa, cominciò ad irritarsi. «No, don Calogero, no. Mio nipote è diventato paz-
ZO...»
Ma esiste una Dea protettrice dei principi. Essa si i chiama Buone Creanze, e spesso interviene a salvare i
: Gattopardi dai mali passi. Però gli si deve pagare un forte tributo. Come Pallade Athena interviene a frenare le intemperanze di Odisseo così Buone Creanze si manife-
stò a Don Fabrizio per fermarlo sull'orlo dell’abisso; ma
‘egli dovette pagare la salvezza divenendo esplicito una
‘volta tanto in vita sua. Con perfetta naturalezza, senza
‘un attimo di sosta conchiuse la frase: «pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e melo :ha scritto ieri.» Il sindaco conservò una sorprendente »+equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del pro:prio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al sofifitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne
ila solidità. Don Fabrizio rimase male: quelle taciturnità ‘congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione
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di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare. «Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25 Settembre, la vigilia della partenza di Don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontana.
Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo già di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui.» Vespe numerose e pungenti assalirono Don Fabrizio. Anzi tutto, come si conviene ad ogni uomo non ancora
decrepito, quella della gelosia carnale: Tancredi aveva assaporato quel gusto di fragole che a lui sarebbe rimasto sempre ignoto. Dopo, un senso di umiliazione sociale, quello di ritrovarsi ad essere l’accusato invece che il messaggero di buone nuove. Terzo un dispetto personale, quello di chi si sia illuso di controllare tutti e che invece trova che molte cose si svolgono senza che lui lo sappia. «Don Calogero, non cambiamo le carte in tavola. Ricordatevi che sono stato io a pregarvi di venire qui. Volevo comunicarvi una lettera di mio nipote che è arrivata ieri. In essa si dichiara la passione sua per la signorina vostra figlia, passione che io...» (qui il Principe titubò un poco perché le bugie sono talvolta difficili da dire davanti a degli occhi a succhiello come quelli del sindaco) «della quale io ignoravo tutta l’intensità; ed a conclusione di essa egli mi ha incaricato di chiedere a voi la mano della signorina Angelica.» Don Calogero continuava a rimanere impassibile; Padre Pirrone da perito edile si era trasformato in santone mussulmano e, incrociate quattro dita della sua destra con quattro della sinistra, faceva roteare i pollici l’uno attorno all’altro, invertendone e mutandone la direzione
con sfoggio di fantasia coreografica. Il silenzio durò a lungo, il Principe si spazientì: «Adesso, don Calogero, sono io che aspetto che mi dichiariate le vostre intenzioni.»
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Il sindaco che aveva tenuto gli occhi rivolti verso la frangia arancione della poltrona del Principe, se li coprì un istante con la destra, poi li rialzò; adesso apparivano candidi, colmi di stupefatta sorpresa, come se davvero se li fosse cambiati in quell’atto. «Scusatemi, Principe.» (Alla fulminea omissione dell’“Eccellenza” don Fabrizio capì che tutto era felicemente consumato.) «Ma la bella sorpresa mi aveva tolto la parola. Io però sono un padre moderno e non potrò darvi una risposta definitiva se non dopo aver interrogato quell’angelo che è la consolazione della nostra casa. I diritti sacri di un padre, però, so anche esercitarli; io conosco tutto ciò che avviene nel cuore e nella mente di Angelica, e credo poter dire che l’affetto di Don Tancredi, che tanto ci onora tutti, è sinceramente ricambiato.»
Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: il rospo era stato ingoiato, la testa e gl’intestini maciullati scendevano giù per la sua gola: restavano ancora da masticare le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il più era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciò in lui a farsi strada l’affetto per Tancredi; si raffigurò gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginò, ricordò per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese. Ancor più in là intravide la vita sicura, la possibilità di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali. Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Caloge‘o attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al pet10; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse da un enorme iris violaceo.
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Quando proprio Fabrizio Padre
don Calogero ritoccò il pavimento: “Debbo regalargli un paio di rasoi inglesi” pensò Don “così non può andare avanti.” Pirrone bloccò il turbinare dei propri pollici, si alzò, strinse la mano al Principe. «Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia è divenuta la mia.» A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista. Si risiedette, aprì il breviario. «Don Calogero» diceva il Principe «l’amore di questi due giovani è la base di tutto, l’unico fondamento sul quale può sorgere la loro felicità futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a
preoccuparci di altre cose. È inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d'Angiò, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi è permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia continentale. (Dio guardi).» (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); «furono Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non
hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i diplomi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno
fino ad oggi.» (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, ché don Calogero ignorava nel modo più completo gli statuti del Sovrano Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.) «Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornerà ancor di più il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtù saprà emulare quella delle sante Principesse, l’ultima delle quali, mia sorella buon’anima, certo benedirà dal cielo gli sposi.» E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrificio dinanzi alle stra-
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vaganze frenetiche del padre di Tancredi. «In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontà ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non è vero, padre Pirrone?» L’ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva più di uno: nessuno veramente grave,
s'intende, però tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alla massiccia bontà della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltà coniugale. Questo, va da sé, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondane; d’altra parte egli voleva bene al ragazzo e benché disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovò rifugio nella Prudenza fra le virtù cardinali la più duttile e quella di più agevole maneggio. «Il fondo di bontà del nostro caro Tancredi è grande, don Caloge‘ro, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtù terre‘ne della signorina Angelica, potrà diventare un giorno ‘un buon sposo cristiano.» La profezia arrischiata ma ‘prudentemente condizionata passò liscia. «Ma, don Calogero», proseguiva il Principe masticanido le ultime cartilagini del rospo «se è inutile parlarvi idell’antichità di casa Falconeri, è anche, disgraziatamenite, inutile, perché lo sapete di già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alla grandezza del suo nome; il padre di Tancredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le
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piantagioni di gelsi a Oliveri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero.» Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltà siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedàra. «Durante il periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alla mia, me-
diante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in me-
moria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo. È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenario; ma,
per ora, l’ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre.» Gli ultimi ossicini del rospo erano stati più disgustosi del previsto; ma, insomma, erano andati giù anch'essi.
Adesso bisognava sciacquarsi la bocca con qualche frase piacevole, del resto sincera. «Ma, don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di tutti questi crepacuori, è stato Tancredi; noialtri queste cose le sappiamo: è forse impossibile ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimoni; almeno in Sicilia è così; una specie di legge di natura, come quelle che regolano i terremoti e le siccità.» Tacque perché entrava un cameriere che recava su di un vassoio due lumi accesi; mentre essi venivano colloca-
ti al loro posto Don Fabrizio lasciò regnare nello studio un silenzio carico di compiaciuto accoramento. Dopo: «Tancredi non è un giovane qualsiasi, don Calogero»; proseguì, «egli non è soltanto signorile ed elegante; ha appreso poco, ma conosce tutto quello che si deve conoscere nel suo ambiente: gli uomini, le donne, le circostan-
ze, il colore del tempo; è ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrà lontano; e la vostra Angelica, don Calogero,
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sarà fortunata se vorrà salire la strada insieme a lui. E poi quando si è con Tancredi ci si può forse irritare qualche volta, ma non ci si annoia mai; e questo è molto». Sarebbe esagerato dire che il sindaco apprezzasse le sfumature mondane di questa parte della conversazione del Principe; essa all'ingrosso non fece che confermarlo nella propria sommaria convinzione dell’astuzia e dell’opportunismo di Tancredi, e di un uomo astuto e tempista egli aveva bisogno a casa, e di null’altro. Si sentiva, si credeva uguale a chiunque; gli rincresceva financo di notare nella figlia un certo sentimento amoroso per il giovanotto. «Principe, queste cose le sapevo, ed altre ancora; e non me ne importa niente.» Si rivestì di sentimentalità. «L'amore, Principe, l’amore è tutto, ed io lo posso sapere.» E forse era sincero il pover’uomo se si ammetteva la probabile sua definizione dell'amore. «Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch'io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa è il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non
ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che è mio è suo. Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioè ettari 1680, come vogliono chiamarli 0ggi, tutto a frumento; terre di prima qualità ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille “onze” ognuno. Io resto con una canna nelle mani» aggiunse, convinto e lieto di non essere creduto «ma una figlia è una figlia. E con questo si possono rifare tutte le scale di Marruggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev'essere alloggiata bene.» La volgarità ignorante gli sprizzava da ogni poro; malgrado ciò i suoi due ascoltatori furono sbalorditi: Don
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Fabrizio ebbe necessità di tutto il suo potere di control. larsi per nascondere la sorpresa. Il colpo di Tancredi era più sbardellato di quanto potesse supporsi. Una sensazione di disgusto stava per assalirlo, ma la bellezza di Angelica, la cinicità dello sposo riuscivano ancora a velare di poesia la brutalità del contratto. Padre Pirrone, lui, fece schioccare la lingua sul palato; poi, infastidito per aver rivelato il proprio stupore, si provò a trovare
una rima all’improvvido suono facendo scricchiolare la sedia e le scarpe, sfogliando con fragore il breviario; non riuscì a nulla e l'impressione rimase. Per fortuna una improntitudine di don Calogero, la sola della conversazione, tirò tutti dall’imbarazzo: «Principe» disse «so che quello che sto per dire non farà effetto su di voi che discendete da Titone imperatore e Berenice regina, ma anche i Sedàra sono nobili; fino a me essi sono stati una razza sfortunata seppellita in provincia e senza lustro, ma io ci ho le carte in regola nel cassetto, e
un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedàra del Biscotto; titolo concesso da Sua Maestà Ferdinando IV sulle secrezie del porto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco». Quella degli “attacchi” mancanti, delle secrezie, delle quasi omonimie era, cento anni fa, un elemento importante della vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone, buone o meno che fossero; ma questo è argomento troppo importante per essere trattato di sfuggita e qui ci contenteremo di dire che l'uscita araldica di don Calogero recò al Principe l’impareggiabile godimento artistico di vedere un tipo realizzarsi in tutti i suoi particolari e che il proprio riso represso gli addolcì la bocca, fino alla nausea. La conversazione in seguito si disperse in mille rivoli inutili: Don Fabrizio si ricordò di Tumeo rinchiuso all’oscuro nella stanza dei fucili, e per l'ennesima volta in vita deplorò la durata delle visite paesane e finì col
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rinchiudersi in un silenzio risentito; don Calogero capì, promise di ritornare l’indomani mattina per recare il non dubbio consenso di Angelica e si congedò. Fu accompagnato per due salotti, fu riabbracciato e scese le scale mentre il Principe torreggiando dall’alto, guardava rimpicciolirsi quel mucchietto di astuzia, di abiti mal tagliati, di oro e d’ignoranza che adesso entrava quasi a far parte della famiglia.
Tenendo in mano una candela andò poi a liberare Tumeo che se ne stava rassegnato al buio fumando la
propria pipa. «Mi dispiace don Ciccio, ma, capirete, lo dovevo fare.» «Capisco, Eccellenza, capisco. Tutto è andato bene,
almeno?» «Benissimo, non si poteva meglio.» Tumeo diascicò delle congratulazioni, rimise il laccio al collare
di Teresina che dormiva stremata dalla caccia, raccattò il carniere. «Prendete anche le mie beccacce, ve le siete meritate. Arrivederci, caro don Ciccio, fatevi vedere >resto. E scusatemi per ogni cosa.» Una potente manac-
ciata sulle spalle servì da segno di riconciliazione e da richiamo di potenza; l’ultimo fedele di casa Salina se ne indò alle sue povere stanze. Quando il Principe ritornò nel suo studio trovò che %adre Pirrone era sgattaiolato via per evitare discussioni; e si diresse verso la camera della moglie per racconarle i fatti. Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo vreannunciava a dieci metri di distanza. Traversò la tanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina rrotolavano un gomitolo di lana ed al suo passaggio si lzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in retta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Conetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poihé non udì passare il padre, non si volse neppure.
PARTE QUARTA
Novembre 1860
Dai più frequenti contatti derivati dall'accordo nuziale cominciò a nascere in Don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedàra. La consuetudine finì con l’abituarlo alle guance mal rasate, all’accento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore, ed egli fu libero di avvedersi della rara intelligenza dell’uomo; molti problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto da don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che l'onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini, egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti. Allevato, invece, in vallette amene percorse dagli zeffiri cortesi dei “Per piacere” “ti sarei grato” “mi faresti un favore” “sei stato molto gentile”, il Principe adesso, quando chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata da venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti, non poteva non ammirare la foga di queste correnti d’aria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi prima. Pian piano, quasi senza avvedersene, Don Fabrizic esponeva a don Calogero i propri affari che erano nu: merosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; queste non già per difetto di penetrazione ma per una sorta d
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sprezzante indifferenza al riguardo di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo dalla indolenza
e dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche ventina fra le migliaia dei propri ettari. Gli atti che don Calogero consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da sé il racconto, erano
quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato finale dei consigli concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario Don Fabrizio con timorata mollezza, fu che con l’andar degli anni casa Salina si acquistò fama di esosità verso i propri dipendenti, fama in realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il prestigio di essa a Donnafugata ed a Querceta, senza che peraltro il franare del patrimonio venisse in alcun modo arginato.
Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche : su Sedàra. Sino a quel momento egli aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di i compravendite) o in seguito ad eccezionalissimi e luni ghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eveni tualità durante le quali questi singolari esemplari sociali inon mostrano il proprio aspetto migliore. In occasione
i di questi incontri egli si era formato la convinzione che |l’aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore,
‘che esistevano soltanto per abbandonare la lana dei loro ‘beni alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da ‘un inspiegabile prestigio, a sua figlia. Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell’epoca ‘postgaribaldina si era trovato di fronte ad un campione linatteso di giovane nobile, arido quanto lui, capace di
barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri
con avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo rivestire queste azioni “sedaresche” di una grazia e di un fascino ‘che egli sentiva di non possedere, che subiva senza ren-
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dersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando, poi, ebbe imparato a conoscere me-
glio Don Fabrizio ritrovò sì in lui la mollezza e l’incapacità a difendersi che erano le caratteristiche del suo preformato nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione differente in tono ma uguale in intensità a quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendente verso l’astrazione, una disposizione a cercare la forma
di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole come qui si è tentato di fare; si avvide però che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l'efficacia dell’aggettivo gli fece tollerare l’inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d’unto; che una conversazione può benissimo non rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di
più se gli si dice “non mi sono spiegato bene” anziché “non hai capito un corno”, e che adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori ven-
gono a guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene. Sarebbe arditò affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto aveva appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po’ meglio e spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato, e null’altro; ma fu da quel momento che si iniziò, per lui ed i suoi,
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quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.
La prima visita di Angelica alla famiglia Salina da fidanzata si era svolta regolata da una regìa impeccabile. Il contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che sembrava suggerito gesto per gesto, parola per parola, da Tancredi; ma le comunicazioni lente del tempo
rendevano insostenibile questa eventualità e si fu costretti a ricorrere a una ipotesi, a quella di suggerimenti anteriori allo stesso fidanzamento ufficiale; ipotesi arri.schiata anche per chi meglio credesse di conoscere la preveggenza del Principino, ma non del tutto assurda. ‘Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere ombreggiate da una grande paglia ancora ‘estiva sulla quale grappoli di uva artificiale e spighe doirate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i granai idi Settesoli. In sala d’ingresso piantò lì il padre; nello isventolio dell’ampia gonna salì leggera i non pochi scaliini della scala interna e si gettò nelle braccia di Don Faibrizio; gli diede, sulle basette, due bei bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il Principe si attardò un attimo forse più del necessario a fiutare l'aroma di :gardenia delle guance adolescenti. Dopo di che Angeliica arrossì, retrocedette di mezzo passo: «Sono tanto, tanto felice...» Si avvicinò di nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine gli sospirò all'orecchio: «Zione!» Felicisisimo g4g, di regìa paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein, e che, esplicito » segreto com'era, mandò in visibilio il cuore semplice del Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella fiIzliola. Don Calogero intanto saliva le scale e diceva quanto dolente fosse sua moglie di non poter essere lì, ìma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta ina distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. «Ha il
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collo del piede come una melanzana, Principe.» Don Fabrizio, esilarato dalla carezza verbale e che, d’altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla innocuità della propria cortesia, si procurò il piacere di
proporre di andare lui stesso subito dalla signora Sedàra, proposta che sbigottì don Calogero che venne costretto per respingerla ad appioppare un secondo malanno alla consorte, una emicrania questa volta, che costringeva la poveretta a stare nell’oscurità. Intanto il Principe dava il braccio ad Angelica; si traversarono parecchi saloni quasi all'oscuro, vagamente ri-
schiarati da lumini a olio che permettevano a malapena di trovare la strada; in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il “salone di Leopoldo”, dove stava il resto della famiglia e questo procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro dell’intimità aveva il ritmo di una iniziazione massonica. La famiglia si affollava sulla porta. La Principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all'ira maritale che le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirit-
tura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa grande; Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l’opportunità eccezionale di baciare anch’egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era così intensa da farle salire le lagrime agli occhi; le altre sorelle si stringevano attorno a lei rumorosamente liete appun-
to perché non commosse; Padre Pirrone, poi, che santamente non era insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di ravvisare una prova irrefutabile della Bontà Divina, sentì fondere tutte le proprie obiezioni dinanzi al tepore della grazia (col g minuscolo). E le mor-
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morò: «Veri, sponsa de Libano»; dovette poi un po’ contrastare per non fare risalire alla propria memoria altri più calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si
conviene alle governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle fiorenti della fanciulla dicendo: «Angelicà, Angelicà, pensons è la joie de Tancrède.» Bendicò soltanto, in contrasto con la consueta
sua socievolezza, ringhiava nel fondo della propria gola, finché venne energicamente messo a posto da un Francesco Paolo indignato cui le labbra fremevano ancora. Su ventiquattro dei quarantotto bracci del lampadario era stata accesa una candela e ognuno di questi ceri candido e acceso insieme, poteva sembrare una vergine ‘che si struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro guardavano in giù, ammiravano colei che entrava e le rivolgevano un sorriso cangiante e fragile. Il grande caminetto era acceso più in segno di giubilo che per riscaldare l’ambiente ancora tiepido e la iluce delle fiamme palpitava sul pavimento, sprigionava intermittenti bagliori dalle dorature svanite del mobilio; ‘esso rappresentava davvero il focolare domestico, il simbolo della casa, e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di idesideri, la brace a contenuti ardori. Dalla Principessa, che possedeva in grado eminente la falcoltà di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, vennero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e tanto essa insistette su questi che
davvero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse
iriputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era itato tanto ragionevole da sottomettersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da \aver osato rubare una manata di ciliegie; mentre questo =pisodio di banditismo temerario veniva ricordato, Con‘etta si mise a ridere: «Questo è un vizio che Tancredi
non si è ancora potuto togliere» disse «ricordi, papà, iuando due mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle
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quali tenevi tanto?»; poi si rabbuiò ad un tratto come se fosse stata presidente di una società di frutticoltura danneggiata.
Presto la voce di Don Fabrizio pose in ombra queste inezie; parlò del Tancredi di adesso, del giovanotto sveglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che rapivano chi gli voleva bene ed esasperavano gli altri; raccontò come durante un soggiorno a Napoli, presentato alla duchessa di Sanqualchecosa questa si fosse presa di una passione per lui e voleva vederlo a casa mattina, pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in
salotto o a letto, perché, diceva, nessuno sapeva raccontare les petits riens come lui; e benché Don Fabrizio si affrettasse a precisare come allora Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di là della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intuizioni sul conto delle duchesse napoletane. Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza ii quale non c'è amore; inoltre la propria limitata esperienza giovanile e sociale non le permetteva ancora di apprezzare le reali qualità di lui, composte tutte di sfumature sottili; però, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che è assai differente; gli occhi azzurri, l’affettuosità scherzosa, certi toni improvvisamente gravi della sua voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento preciso, e in quei giorni
non desiderava altro che di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti avvenne, ma per il momento ad esser
ghermita da lui essa teneva assai. Quindi la rivelazione di quella possibile relazione galante (che era, del resto,
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inesistente) le causò un attacco del più assurdo fra i flagelli, quello della gelosia retrospettiva; attacco presto dissipato, però, da un freddo esame dei vantaggi erotici ed extra-erotici che le sue nozze con Tancredi recavano. Don Fabrizio continuava ad esaltare Tancredi; trasci-
nato dall’affetto parlava di lui come di un Mirabeau: «Ha cominciato presto ed ha cominciato bene; la strada che farà è molta.» La fronte liscia di Angelica si chinava nell’assenso; in realtà all’avvenire politico di Tancredi
non badava. Era una delle molte ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato e non immaginava neppure che un di-
scorso di Cavour potesse con l’andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla. Pensava in siciliano: “Noi avremo il ‘furmento’ e questo ci basta; che strada e strada!” Ingenuità giovanili queste, che essa doveva in seguito rinnegare quando, nel corso degli anni, divenne una delle più viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta. «E poi, Angelica, voi non sapete ancora quanto è divertente Tancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto. Quando si è con lui, quando è in vena, il mondo appare più buffo di come appaia sempre, talvolta anche più serio.» Che Tancredi fosse divertente An| gelica lo sapeva; che fosse capace di rivelare mondi nuo! vi essa non soltanto lo sperava ma aveva ragione di { sospettarlo fin dalla fine del mese scorso, nei giorni del | famoso ma non unico bacio ufficialmente constatato che ‘ era stato infatti qualcosa di molto più sottile e sapido di ‘ quel che fosse stato il solo altro suo esemplare, quello t regalatole dal ragazzotto giardiniere a Poggio a Caiano, } più di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei t tratti di spirito, della intelligenza anche, del fidanzato, a assai meno ad ogni modo di quanto queste cose impor-
itassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero,
rma anche tanto “intellettuale.” In Tancredi essa vedeva
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la possibilità di avere un posto eminente nel mondo nobile della Sicilia, mondo che essa considerava pieno di meraviglie assai differenti da quelle che esso in realtà conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di più era anche intellettualmente superiore, tanto meglio; ma lei, per conto suo, non ci teneva. Divertirsi si poteva sempre. Per il
momento, spiritoso 0 sciocco che fosse avrebbe voluto averlo qui, che le stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come soleva fare, fra l’altro. «Dio, Dio, come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!» Esclamazione che commosse tutti, sia per la evidente sincerità, come per l’ignoranza in cui restava la sua cagio-
ne e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con l’oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa l’ingresso della quale era stato vietato a Peppe °Mmerda dalle “lupare” che gli strafotterono i reni.
Un’abitudine nella quale si era riannidato Don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle letture serali. In autunno, dopo il Rosario, poiché faceva troppo buio per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l’ora di pranzo, ed il Principe leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori. Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavano formando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee; la Sicilia però, in parte per la sua tradizionale impermeabilità al nuovo, in parte per la diffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in parte anche, occorre dirlo, per la vessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignorava l’esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di
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Flaubert, financo quella di Dumas. Un paio di volumi di Balzac, è vero, era giunto attraverso sotterfugi fino alle
mani di Don Fabrizio che si era attribuito la carica di censore familiare; li aveva letti e prestati via, disgustato, ad un amico cui voleva del male, dicendo che essi erano il frutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma stravagante e “fissato” (oggi avrebbe detto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo per altro di una certa acutezza. Il livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionato com'era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupoli re-
ligiosi della Principessa e dallo stesso senso di dignità del Principe che si sarebbe rifiutato a far udire delle “porcherie” ai suoi familiari riuniti. Si era verso il dieci di Novembre ed anche alla fine del soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto, imperversa‘va un maestrale che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia ‘sulle finestre; lontano si udiva un rotolio di tuoni; ogni
‘tanto alcune gocce, avendo trovato la strada per pene‘trare negli ingenui fumaioli siciliani, friggevano un atti‘mo sul fuoco e picchiettavano di nero gli ardenti tizzoni ‘di ulivo. Si leggeva “Angiola Maria” e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la descrizione dello sgomento ‘viaggio della giovinetta attraverso la diaccia Lombardia
‘invernale intirizziva il cuore siciliano delle signorine,
‘pur nelle loro tiepide poltrone. Ad un tratto si udì un
igran tramestio nella stanza vicina e Mimì il cameriere
‘entrò col fiato grosso: «Eccellenze» gridò dimenticando itutta la propria stilizzazione «Eccellenze! è arrivato il si‘gnorino Tancredi! È in cortile che fa scaricare i bagagli
idal carrozzino. Bella Madre, Madonna mia, con questo
itempo!» E fuggì via. La sorpresa rapì Concetta in un tempo che non corrispondeva più a quello reale, ed essa esclamò: «Caro!»
ma il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente e, com'è facile vedere, questi bru-
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schi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad un’altra palese ma gelida le fecero molto male; per fortuna l’esclamazione, sommersa nell’emozione generale, non venne udita. Preceduti dai lunghi passi di Don Fabrizio tutti si precipitarono verso la scala; si traversarono in fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone esterno e giù sul cortile; il vento irrompeva, faceva fremere le tele dei ritratti, spingendo innanzi a sé umidità e odor di terra; sullo sfondo del cielo lampeggiante gli alberi del giardino si dibattevano, e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava per infilare la porta quando sull’ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi avvolto nell’enorme mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente inzuppata d’acqua da pesare cinquanta chili e da apparire nera. «Stai attento, zione: non mi toccare, sono
una spugna!» La luce della lanterna della sala fece intravedere il suo volto. Entrò, sganciò la catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciò cadere l’indumento che
si afflosciò a terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per Don Fabrizio che lo abbracciava, il ragazzo
più amato che non i propri figli, per Maria Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per Padre Pirrone la pecorella sempre smarrita e sempre ritrovata, per Con-
cetta un caro fantasma rassomigliante al suo amore perduto; anche mademoiselle Dombreuil lo baciò con la bocca disavvezza alle carezze e gridava, la poveretta: «Tancrède, Tancrède, pensons è la joie d’Angelicà», tante poche corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli altri. Bendicò pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma, caninamente, dimostrava la propria estasi galop-
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pando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell’amato. Fu un momento davvero commovente quello del raggrupparsi della famiglia attorno al giovane che ritornava, tanto più caro in quanto non proprio della famiglia, tanto più lieto in quanto veniva a cogliere l’amore insieme ad un senso di perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti furono trascorsi, Don Fabrizio si accorse che sul limitare della
porta stavano due altre figure, gocciolanti anch'esse ed
anch'esse sorridenti. Tancredi se ne accorse pure e rise. «Scusatemi tutti, ma l'emozione mi aveva fatto perdere la testa. Zia» disse rivolto alla Principessa «mi sono permesso di portare qui un mio caro amico il conte Carlo Cavriaghi; del resto lo conoscete, è venuto tante volte alla villa quando era in servizio presso il generale. E quell’altro è il lanciere Moroni, il mio attendente.» Il : soldato sorrideva nella sua faccia ottusamente onesta, se i ne stava sull’attenti mentre dal grosso panno del pastrai no l’acqua gli sgocciolava sul pavimento. Ma il contino | non stava sull’attenti: toltosi il berrettino fradicio e sfori mato baciava la mano alla Principessa, sorrideva e abbai gliava le ragazze con i baffetti biondi e l’insopprimibile : erre moscia. «E pensare che a me avevano detto che | quaggiù da voi non pioveva mai! Mamma mia, sono due i giorni che siamo stati come dentro un fiume!» Dopo si 'fece serio: «Ma insomma, Falconeri, dov'è la signorina ! Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmeila vedere. Vedo molte belle, ma lei no.» Si rivolse a Don iFabrizio: «Sa, principe, a sentire lui è la regina di Saba! ‘Andiamo subito a riverire la formzosissima et nigerrima. \Muoviti, testone!» Parlava così e trasportava il linguaggio delle mense iufficiali nell’arcigno salone con la sua doppia fila di an‘tenati corazzati e infiocchettati; e tutti si divertivano. Ma ‘Don Fabrizio e Tancredi la sapevano più lunga: cono-
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scevano Don Calogero, conoscevano la “Bella Bestia” di sua moglie, l'incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che la candida Lombardia ignora. Don Fabrizio intervenne: «Senta, conte; Lei credeva
che in Sicilia non piovesse mai e può vedere invece come diluvia. Non vorrei che credesse che da noi non ci sono le polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. Mimì» disse al suo cameriere «fai accendere i caminetti nella stanza del signorino Tancredi e in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene e a cambiar abito. Le farò portare un ponce e dei biscotti; e il pranzo è alle otto, fra due ore.» Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio militare per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutò e seguì mogio mogio, il cameriere. Moroni si trascinò dietro le cassette degli ufficiali e le sciabole nelle loro fodere di flanella verde. Intanto Tancredi scriveva: “Carissima Angelica, sono arrivato, e arrivato per te. Sono innamorato come un
gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudicio come un cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarò ripulito e mi stimerò degno di mostrarmi alla bella fra le belle mi precipiterò da te; fra due ore. I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te... niente, per ora”. Il testo fu sottoposto all’approvazione del Principe; questi che era sempre stato un ammiratore dello stile epistolare di Tancredi lo approvò sorridendo; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto.
Tale era la foga della letizia generale che un quarto d’ora bastò perché i due giovani si asciugassero, si ripulissero, cambiassero divise e si ritrovassero nel “Leopoldo” attorno al caminetto: bevevano tè e cognac e si lasciavano ammirare. In quei tempi non vi era nulla di meno militare delle famiglie aristocratiche siciliane: gli ufficiali borbonici non si erano mai visti nei salotti paler-
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mitani ed i pochi garibaldini che vi erano penetrati vi avevano fatto più l’effetto di spaventapasseri pittoreschi che di militari veri e propri. Perciò quei due giovani ufficiali erano in verità i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due in “doppio petto”, Tancredi con i bottoni d’argento dei lancieri, Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l’alto colletto di velluto nero bordato d’arancione il primo; cremisi l’altro, allungavano verso la brace le gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i “fiori” d’argento o d’oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese senza fine: un incanto per quelle figliole avvezze alle redingotes severe ed ai “fracks” funerei. Il romanzo edificante giaceva rovesciato dietro una poltrona. Don Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e trasandati. «Ma insomma, voialtri garibaldini non portate più la camicia rossa?» I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera. «Ma che
garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell’esercito regolare di Sua Maestà il re di Sardegna per qualche mese ancora, d’Italia fra poco. Quando l’esercito di Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nell’esercito del Re. Lui ed io come tutte le persone per i bene siamo entrati nell’esercito “vero”. Con quelli lì non | si poteva restare, non è così, Cavriaghi?» «Mamma mia
| che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni a sparac| chiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve,
siamo ufficiali sul serio, insomma» e sollevava i baffetti i in una smorfia di adolescente disgusto. «Ci hanno tolto un grado, sai, zione; tanta poca stima
‘avevano della serietà della nostra esperienza militare; io : da capitano son ridiventato tenente, vedi» e mostrava gli intrichi dei “fiori” «lui da tenente è sottotenente. Ma ‘siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo ri\spettati in tutt'altro modo adesso con le nostre divise.»
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«Sfido io» interruppe Cavriaghi «la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora.» «Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava dire: “ordini urgenti per il servizio di Sua Maestà”, ed i cavalli comparivano come per incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell’albergo di Napoli bene avvolti e sigillati.»
Esaurita la conversazione sui mutamenti militari si passò a più vaghi argomenti. Concetta e Cavriaghi si erano seduti insieme un po’ discosti ed il contino mostrava a lei il regalo che aveva portato da Napoli: i “Canti” di Aleardo Aleardi che aveva fatto splendidamente rilegare. Sull’azzurro cupo della pelle una corona principesca
era profondamente incisa e, sotto, le cifre di lei: “C.C.S.” Più sotto ancora caratteri grandi e vagamente gotici dicevano: “Sempre sorda.” Concetta, divertita, rideva. «Ma perché sorda, conte? C.C.S. ci sente benissimo.» Il
volto del contino s’infiammò di fanciullesca passione. «Sorda, sì, sorda, signorina, sorda ai miei sospiri, sorda
ai miei gemiti, e cieca anche, cieca alle suppliche che i miei occhi le rivolgono. Sapesse quanto ho patito a Palermo, quando loro sono partiti per qui: nemmeno un saluto, nemmeno uri cenno, mentre le vetture scomparivano nel viale! E vuole che non la chiami sorda? “Crudele” avrei dovuto far scrivere.» La concitazione letteraria di lui fu congelata dal riserbo della ragazza. «Lei è ancora stanco per il lungo viaggio, i suoi nervi non sono a posto. Si calmi: mi faccia piuttosto sentire qualche bella poesia.» Mentre il bersagliere leggeva i molli versi con una voce accorata e pause piene di sconforto, davanti al cami-
netto Tancredi estraeva di tasca un astuccetto di raso celeste. «Ecco
l'anello, zione,
l’anello
che dono
ad
Angelica; o piuttosto quello che tu per mia mano le regali.» Fece scattare la molletta ed apparve uno zaffiro
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scurissimo, tagliato in ottagono schiacciato, serrato tutt'intorno stretto stretto da una moltitudine di piccoli purissimi diamantini. Un gioiello un po’ tetro ma altamente consono al gusto cimiteriale del tempo, e che valeva chiaramente le trecento onze spedite da Don Fabrizio. In fealtà era costato assai meno: in quei mesi di semi-saccheggio e di fughe a Napoli si trovavano bellissimi gioielli d'occasione; dalla differenza di prezzo era saltata fuori una spilla, un ricordo per la Schwarzwald.
Anche Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo ma non si mossero perché il contino l’aveva già visto e Concetta rimandò quel piacere a più tardi. L'anello girò di mano in mano, fu ammirato, lodato; e venne esal-
tato il prevedibile buon gusto di Tancredi. Don Fabrizio chiese «Ma per la misura come si farà? bisognerà man| dare l’anello a Girgenti per farla fare giusta». Gli occhi i di Tancredi sprizzarono malizia: «Non ci sarà bisogno, : zio; la misura è esatta; la avevo presa prima». E Don Fa| brizio tacque: aveva riconosciuto un maestro. L’astuccetto aveva compiuto tutto il giro attorno al | caminetto ed era ritornato nelle mani di Tancredi, quan: do da dietro la porta si udì un sommesso «Si può?» Era
i Angelica. Nella fretta e nell’emozione non aveva trovato i di meglio per ripararsi dalla pioggia dirotta che mettersi ‘uno “scappolare”, uno di quegli immensi tabarri da ‘contadino di ruvidissimo panno: avviluppato nelle rigi‘de pieghe bleu-scure, il corpo di lei appariva snellissiimo; di sotto al cappuccio bagnato gli occhi verdi erano \ansiosi e smarriti; parlavano di voluttà. Da quella vista, da quel contrasto anche fra la bellez;za della persona e la rusticità del mantello, Tancredi ri-
»cevette come una frustata: si alzò, corse verso di lei sen‘za parlare e la baciò sulla bocca. L’astuccio che teneva inella destra solleticava la nuca recline. Poi fece scattare
‘la molla, prese l’anello lo passò all’anulare di lei; l’astuc‘cio cadde per terra. «Tieni, bella, è per te, dal tuo Tan-
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credi.» L’ironia si ridestò: «E ringrazia anche zione per esso». Poi la riabbracciò: l’ansia sensuale li faceva tremare entrambi: il salone, gli astanti per essi sembravano molto lontani; ed a lui parve davvero che in quei baci riprendesse possesso della Sicilia, della terra bella e infida sulla quale i Falconeri avevano per secoli spadroneggiato e che adesso, dopo una vana rivolta si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da sempre, fatta di delizie carnali e di raccolti dorati. In seguito all’arrivo degli ospiti benvenuti il ritorno a Palermo fu rinviato; e seguirono due settimane d’incan-
ti. L’uragano che aveva accompagnato il viaggio dei due ufficiali, era stato l’ultimo di una serie e dopo di esso ri-
splendette l'estate di San Martino che è la vera stagione di voluttà in Sicilia: temperie luminosa e azzurra, oasi di
mitezza nell’andamento aspro delle stagioni, che con la mollezza persuade e travia i sensi mentre con il tepore invita alle nudità segrete. Di nudità erotiche nel palazzo di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta. Il palazzo dei Salina era stato ottant'anni prima un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza
severa della principessa Carolina, la neoreligiosità della Restaurazione, il carattere soltanto bonariamente carna-
le dell’attuale Don Fabrizio avevano perfino fatto dimenticare i suoi bizzarri trascorsi; i diavoletti incipriati erano stati posti in fuga; esistevano ancora, certamente,
ma allo stato larvale ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissà quale soffitta dello smisurato edificio. La venuta a palazzo’ della bella Angelica aveva fatto un po’ rinvenire quelle larve, come forse si ricorderà; ma fu
l’arrivo dei giovanotti innamorati che ridestò davvero gli istinti rimpiattati nella casa; essi adesso si mostravano
dappertutto, come formiche destate dal sole, disintossi-
e
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cati forse ma oltremodo vivaci. L'architettura, la decorazione stessa rococò con le loro curve impreviste evocavano anche distese e seni eretti; l’aprirsi di ogni portale
frusciava come una cortina d’alcova. Cavriaghi era innamorato di Concetta; ma, fanciullo
com’egli era e non soltanto nell’aspetto come Tancredi ma nel proprio intimo, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a contemplare il logico seguito e che del resto la sordità di Concetta schiacciava in embrione. Non si sa se nella reclusione della sua camera verde egli non si abbandonasse a un più concreto vagheggiare; certo è che alla scenografia galante di | quell’autunno donnafugasco egli contribuiva solo come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti e non i come ideatore di masse architettoniche. Le due altre rai gazze invece Carolina e Caterina, tenevano assai bene la loro parte nella sinfonia di desideri che in quel Novem‘bre risuonava per tutto il palazzo mescolandosi al mor-
imorio delle fontane, allo scalciare dei cavalli in amore
‘nelle scuderie ed al tenace scavo di nidi nuziali dei tarli ‘nei vecchi mobili. Erano giovanissime ed avvenenti e ‘benché prive d’innamorati particolari si ritrovavano imimerse nella corrente di stimoli che s’incrociavano fra gli altri; e spesso il bacio che Concetta negava a Cavriaghi, ila stretta di Angelica che non aveva saziato Tancredi si ‘riverberavano sulle loro persone, sfiorava i loro corpi initatti e per esse si sognava, esse stesse sognavano ciocche imadide di speciosi sudori, gemiti brevi. Financo l’infeli‘ce mademoiselle Dombreuil a forza di dover funzionare ida parafulmine, come gli psichiatri si infettano e socicombono alle frenesie dei loro ammalati, fu attratta in iquel vortice torbido e ridente; quando dopo una giornata d’inseguimenti e agguati moralistici essa si stendeva sul suo letto solingo palpava i propri seni appassiti e
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mormorava indiscriminate invocazioni a Tancredi, a Carlo, a Fabrizio...
Centro e motore di questa esaltazione sensuale era naturalmente la coppia Tancredi-Angelica. Le nozze sicure benché non vicine stendevano in anticipo le loro ombre rassicuranti sul terriccio arso dei loro mutui desideri; la differenza di ceti faceva credere a don Calogero normali nella nobiltà i lunghi colloqui appartati, ed alla principessa Maria Stella abituali nel rango dei Sedàra la frequenza delle visite di Angelica ed una certa libertà di contegno che essa, certamente, non avrebbe trovata lecita nelle proprie figlie; e così le visite di Angelica al palazzo divennero sempre più frequenti sino ad essere quasi perpetue ed essa finì con l'essere solo formalmente accompagnata dal padre che si recava subito in Amministrazione per scoprire (o per tessere) nascoste trame 0 dalla cameriera che scompariva nel riposto per bere il caffè ed incupire i domestici sventurati. Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che
formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che vi trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale, ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era dav-
vero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero
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tutte le stanze non era degno di essere abitato. I due innamorati s'imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eteroge-
neo. Partivano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da Cavriaghi (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due; la decenza esteriore era salva. Ma nel palazzo non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine grigliate che non si potevano percor‘i rere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una
scaletta complice, e i due ragazzi erano lontano, invisibi-
|li, soli come su un'isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l’inespei rienza del pittore aveva creato senza sguardo o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi, del resto, si stancava presto ed appena trova‘va sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per ‘far piacere all'amico che per andare a sospirare guar‘dando le gelide mani di Concetta. La governante resisteiva più a lungo, ma non per sempre; per qualche tempo isi udivano sempre, più lontani, i suoi appelli, mai corri;sposti: «Tancrède, Angelicà, où étes-vous?» Poi tutto si irichiudeva nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi val di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera cenwtenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rasbicurante delle membra. E l’Eros era sempre con loro, Mirco e tenace, il gioco in cui trascinava i due fidangati era pieno di azzardi e di malia. Tutti e due vicinissiLE ancora all'infanzia prendevano piacere al gioco in sé, godevano nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma iquando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendeva‘no il sopravvento e le cinque dita di lui che s’incastrava-
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Il Gattopardo
no nelle dita di lei, col gesto caro ai sensuali indecisi, il
soffregamento soave dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso, turbava tutto il loro essere, preludeva a più insinuate carezze.
Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po’ “Arturo Corbera all’assedio di Antiochia” protesse l’ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a dire «No, Tancredi, no»,
diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei l'azzurro dei propri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia. Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome; e come gli scopri-
tori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati col nome di ciò che in essi era accaduto a loro: una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo, fu ricordata poi come la “camera delle pene”; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi “la scala dello scivolone felice.” Più d’una volta non seppero più dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d’inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l’orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall’aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso perché la finestra guardava non su uno dei grandi cortili ma su di un cortiletto interno, anonimo anch’esso e mai intravi-
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sto, contrassegnato soltanto dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un’altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata. Un pomeriggio rinvennero dentro un cassettone con tre gambe quattro cari/lons, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l’artificiosa ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle ragnatele, rimasero mute; ma la quarta, più recente, meglio chiusa nello scrignetto di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte e le linguette di acciaio sollevate fecero a un tratto udire una musichetta gracile, tutta in acuti argentini: il famoso “Carnevale di Venezia”; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di giocondità disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell’accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e ‘che le loro carezze non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica. Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una istanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta
imascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell’intrecciarsi e sof-
fregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo
rosa. In cima un’altra porta, aperta, e con spesse imbot-
titure disfatte, e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con vavimenti di bianchissimo marmo, un po’ in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi bizzarri stucchi colorati che l’umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi
nttoniti, appesi troppo in giù, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi-candela del Settecento; le finestre davano su un cortiletto
segregato, una specie di pozzo cieco e sordo che lascia-
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Il Gattopardo
va entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun’altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto ampi, troppo ampi, divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli nel marmo, nudi parossistici, martoriati, però, mutilati da martellate
rabbiose. L'umidità aveva macchiato le pareti in alto e, sembrava almeno, in basso ad altezza d'uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, tinte cupe, in-
consueti rilievi. Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse
lui stesso. Era profondissimo e conteneva bizzarre cose: rotolini di corda di seta, sottile; scatolucce di argento
impudicamente ornate con sul fondo esterno etichettine minuscole recanti in eleganti grafie indicazioni oscure, come le sigle che si leggevano sui vasi delle farmacie: “Estr. catch.” “Tirch-stram.” “Part-opp.”; bottigliette dal contenuto evaporato; un rotolo di stoffa sudicia,
ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in ar-
gento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre; attrezzini metal-
lici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro d’irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo. «Andiamo via, cara, qui non c’è niente d’interessante.» Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala,
rimisero a posto l'armadio; tutto il giorno poi i baci di Tancredi furono lievi, come dati in sogno ed in espiazione. Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava
essere l'oggetto più frequente a Donnafugata. L’indomani della loro scoperta dell’appartamentino enigmatico i due innamorati s’imbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverso. Questo, in verità, non era negli
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appartamenti ignorati ma anzi in quello venerato detto
del Duca-Santo, il più remoto del palazzo. Lì, a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l’ammattonato di umile creta, con le pareti
candide a calce, simili a quelle dei contadini più derelitti. L'ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti im-
mersi in una triste luce. Su di una parete un enorme Crocifisso più grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si di|partivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti ‘in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la “disciplina” del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del ‘proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli ‘che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva isembrargli che solo mediante questo battesimo espiato-
‘rio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle
verano sfuggite e molte di quelle che da lassù si vedevano ;appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. IL’evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo ‘all’altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. «Vedi, tu sei come quell’arnese lì, servi agli stessi scopi.» E mostrava la disciplina; e poiché \Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e così genuflessa com'era le diede un
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aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato. I due passavano così quelle giornate in vagabondaggi trasognati; scoprirono inferni che l’amore poi redimeva, rinvenivano paradisi trascurati che quello stesso amore
dopo profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano più, ma se ne andavano as-
sorti nelle stanze più isolate, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lì tutti e due stretti ed innocenti, a com-
patirsi l’un l’altro. Le più pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano avrebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: «Sono la tua novizia», richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e già la
donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripresero; e l'indomani Tancredi doveva partire. Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: era-
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no stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione però che si atteggiò in un insieme a sé stante, squisito e breve: come quelle sinfonie
che sopravvivono alle opere dimenticate e che contengono, accennati e con la loro giocosità velata di pudore, tutte quelle arie che poi nell’opera dovevano essere sviluppate senza destrezza, e fallire. Quando Angelica e Tancredi ritornavano nel mondo dei viventi dal loro esilio nell’universo dei vizi estinti,
delle virtù dimenticate e, sopratutto, del desiderio perenne, venivano accolti con bonaria ironia. «Siete proorio scemi, ragazzi, ad andare a impolverarvi così. Ma
guarda un po’ come sei ridotto, Tancredi» sorrideva Don Fabrizio; e il nipote andava a farsi spazzolare. Cayriaghi a cavalcioni di una sedia fumava compunto un “virginia” e guardava l’amico che si lavava la faccia e il collo e che sbuffava per il dispetto di veder l’acqua diventare nera come il carbone. «Io non dico di no, Falconeri: la signorina Angelica è la più bella “tosa” che abbia mai visto; ma questo non ti giustifica: Santo Dio, un po’
li freni ci vogliono! oggi siete stati soli tre ore; se siete santo innamorati sposatevi subito e non fate ridere la sente. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il paIre oggi quando, uscito dall’amministrazione ha visto ‘he voi stavate ancora navigando in quell’oceano di tanze! Freni, caro amico, freni ci vogliono, e voi Sicilia-
i ne avete pochini!» Pontificava, lieto d’infliggere la propria saggezza al ;amerata più anziano, al cugino della “sorda” Concetta. Vla Tancredi mentre si asciugava i capelli era furibondo:
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essere accusato di mancare di freni, lui, che ne aveva tanti da poter fermare un treno! D'altra parte l’insolente
bersagliere non aveva poi tutti i torti: anche alle apparenze bisognava pensare; però era divenuto tanto mora-
lista per invidia, perché ormai era chiaro che la sua corte a Concetta non approdava a nulla. E poi quell’Angelica: quel gusto soavissimo di sangue oggi, quando le aveva morso l’interno del labbro! e quel suo piegarsi soffice sotto l'abbraccio! Ma era vero, non aveva senso comu-
ne. “Domani andremo a visitare la chiesa con tanto di Padre Pirrone e Monsignor Trottolino di scorta.” Intanto Angelica era andata a mutar d’abito nella stanza delle ragazze. «Mats, Angelicà, est-ce Dieu possible de se mettre en un tel état?» s’indignava la Dombreuil mentre la bella in corpetto e sottanina si lavava le braccia. L’acqua fredda le faceva sbollire l’eccitazione e doveva convenire fra sé che la governante aveva ragione: valeva la pena di stancarsi tanto, d’impolverarsi a quel modo, di far sorridere la gente e per che cosa, poi? per farsi guardare negli occhi, per lasciarsi percorrere da quelle dita sottili, per poco di più... E il labbro le doleva ancora. “Adesso basta. Domani resteremo in salotto con gli altri.” Ma l’indomani quegli stessi occhi, quelle stesse dita avrebbero riacquistato il loro sortilegio e di nuovo i due avrebbero ripreso il loro pazzesco gioco a.nascondersi, a mostrarsi. Il risultato paradossale di questi propositi, separati ma convergenti, era che la sera a pranzo i due più innamorati erano i due più sereni, poggiati sulle illusorie buone intenzioni per l'indomani, e si divertivano a ironizzare sulle manifestazioni amorose degli altri, pur tanto minori. Concetta aveva deluso Tancredi: a Napoli aveva patito per un certo rimorso nei riguardi di lei e per questo si era tirato dietro Cavriaghi col quale sperava di rimpiazzare sé stesso nei riguardi della cugina; anche la compassione faceva parte della sua preveggenza.
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Sottilmente ma anche bonariamente astuto com'era, ar-
rivando, aveva avuto l’aria di condolersi quasi con lei per il suo proprio abbandono; e spingeva avanti l’amico. Niente. Concetta dipanava il proprio chiacchiericcio da collegiale, guardava il sentimentale contino con occhi gelidi dentro i quali si poteva financo notare un po’ di disprezzo. Quella ragazza era una sciocca, non se ne poteva tirar fuori niente di buono. Alla fine, cosa voleva?
Cavriaghi era un bel ragazzo, una buona pasta d'uomo, aveva un buon nome, grasse cascine in Brianza; era in-
somma quel che con termine refrigerante si chiama un “ottimo partito”. Già: Concetta voleva lui, non era così? Anche lui la aveva voluta un tempo: era meno bella, as-
sai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualche cosa che la donnafugasca non avrebbe posseduto mai. Ma la vita è una cosa seria, che diamine! Concetta avrebbe do-
vuto capirlo; e poi perché aveva cominciato a trattarlo tanto male? Quella partaccia a Santo Spirito, tante altre dopo. Il Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovreb|bero esistere dei limiti anche per quella bestiaccia super|ba. “Freni ci vogliono, cara cugina, freni! E voi Siciliane i ne avete pochini.” In cuor suo Angelica dava invece ragione a Concetta: : Cavriaghi mancava troppo di pepe; dopo esser stata ininamorata di Tancredi sposare lui sarebbe stato come ‘bere dell’acqua dopo aver gustato questo Marsala che le
‘stava davanti. Concetta, va bene, la capiva a causa dei i precedenti. Ma le altre due stupide, Carolina e Caterina,
‘guardavano Cavriaghi con occhi di pesce morto e “fric‘chicchiavano”, si sdilinquivano tutte quando lui le avvi‘cinava. E allora! Con la mancanza di scrupoli paterna ‘essa non capiva perché una delle due non cercasse di diistogliere il contino da Concetta a proprio profitto. “A :quell’età i giovanotti sono come cagnolini: basta fischietitare e si avanzano subito. Sono delle stupide: a forza di ‘riguardi, divieti, superbie, finiranno si sa già come.”
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Nel salotto dove dopo la cena gli uomini si ritiravano per fumare, anche le conversazioni fra Tancredi e Cavriaghi, i soli due fumatori della casa e quindi i due soli esiliati, assumevano un tono particolare. Il contino finì col confessare all’amico il fallimento delle proprie speranze amorose: «È troppo bella, troppo pura per me; non mi ama; sono stato temerario a sperarlo; me ne andrò da qui col pugnale del rimpianto infitto nel cuore. Non ho osato farle una proposta precisa. Sento che per lei sono come un verme della terra, ed è giusto che sia così; debbo trovare una vermessa che si accontenti di
me». E i suoi diciannove anni lo facevano ridere della propria sventura.
Tancredi, dall’alto della propria felicità assicurata, si provava a consolarlo: «Sai conosco Concetta dalla nascita; è la più cara creatura che esista, uno specchio d’ogni
virtù; ma è un po’ chiusa, ha troppo ritegno, temo che stimi troppo sé stessa; e poi è siciliana sino al midollo delle ossa; non è mai uscita da qui; chi sa se si sarebbe
mai trovata bene a Milano, un paesaccio dove per mangiare un piatto di maccheroni bisogna pensarci una settimana prima!» L’uscita di Tancredi, una delle prime manifestazioni dell’unità nazionale, riuscì a far di nuovo sorridere Ca-
vriaghi; su di lui pene e dolori non riuscivano a fermarsi. «Ma gliene avrei procurato delle casse dei vostri maccheroni, io! Ad ogni modo quel che è fatto è fatto; spero solo che i tuoi zii che sono stati tanto carini con me non mi odieranno poi per essermi venuto a cacciare fra voi senza costrutto.» Fu rassicurato, e sinceramente perché
Cavriaghi era piaciuto a tutti, tranne che a Concetta (e del resto forse anche a Concetta) per il rumoroso buon umore che in lui si univa al sentimentalismo più flebile; e si parlò d’altro, cioè si parlò di Angelica. «Vedi, tu Falconeri, tu sì che sei fortunato! Andare a scovare un gioiello come la signorina Angelica in questo
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porcile (scusa sai, caro). Che bella, Dio Signore, che bella! Bricconaccio tu che te la portia spasso per delle ore negli angoli più remoti di questa casa che è grande quanto il nostro Duomo! E poi non solo bella ma intelligente anche e colta; e poi buona: le si vede negli occhi la sua bontà, la sua cara ingenuità innocente.»
Cavriaghi continuava ad estasiarsi per la bontà di Angelica, sotto lo sguardo divertito di Tancredi. «In tutto questo il veramente buono sei tu, Cavriaghi.» La frase scivolò inavvertita dall’ottimismo ambrosiano. Poi: «Senti» disse il contino «fra pochi giorni partiremo: non ti sembra che sarebbe ora che fossi presentato alla madre della baronessina?» Era la prima volta che così, da una voce lombarda, Tancredi udiva chiamare con un titolo la sua bella. Per ‘un attimo non capì di chi si parlava. Poi il principe in lui si ribellò: «Ma che baronessina, Cavriaghi! È una bella e ‘cara figliola cui voglio bene, e basta!» Che fosse proprio “basta” non era vero; però Tancredi parlava sincero; con l’abitudine atavica ai larghi pos-
sessi gli sembrava davvero che Gibildolce, Settesoli e i
sacchetti di tela fossero stati suoi dai tempi di Carlo d’Angiò, da sempre. «Mi dispiace, ma credo che la madre di Angelica non potrai vederla; parte domani per Sciacca a far la cura delle stufe; è molto ammalata, poverina.» Schiacciò nel buttacenere quel che avanzava del Virginia. «Andiamo in salotto, abbiamo fatto gli orsi abbastanza.»
Uno di quei giorni Don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti, redatta in stile di estreima cortesia, che gli annunziava l’arrivo a Donnafugata Hel cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segresario della prefettura che avrebbe dovuto intrattenerlo Hi un argomento che stava molto a cuore al Governo.
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Don Fabrizio, sorpreso, spedì l’indomani il figlio Francesco Paolo alla stazione di posta per ricevere il 77ssus dominicus e invitarlo a venire ad alloggiare a palazzo, atto di vera misericordia quanto di ospitalità consistente nel non abbandonare il corpo del nobiluomo piemontese alle mille belvette che lo avrebbero straziato nella locanda-spelonca di Zzu Menico. La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile subito dall’aspetto esterrefatto e dal sorrisetto guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più strenuamente indigena dell’isola per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati e da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere. Adesso se ne stava lì, nel crepuscolo, con la sua valigetta di tela bigia e guatava l’aspetto privo di qualsiasi civetteria della strada in mezzo alla quale era stato scaricato; l’iscrizione “Corso Vittorio
Emanuele” che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava rivolgersi ad alcuno dei contadini addossati alle case come cariatidi, sicuro di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue che gli erano care benché sconvolte. Quando Francesco Paolo gli si avvicinò presentandosi strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato ma
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l’aspetto composto e onesto del ragazzone biondo lo rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a palazzo Salina, fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella siciliana (le due più puntigliose d’Italia) a proposito della valigia che finì con l’essere portata, benché leggerissima, da ambedue i cavallereschi contendenti. Giunto a palazzo, i volti barbuti dei “campieri” che stazionavano armati nel primo cortile turbarono di nuovo l’anima di Chevalley di Monterzuolo, mentre poi la bonarietà distante dell’accoglienza del Principe insieme all’evidente fasto degli ambienti intravisti lo precipitaro10 in opposte cogitazioni. Rampollo di una di quelle faniglie della piccola nobiltà piemontese che viveva in di3nitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si trovava ospite di una grande casa e questo radJoppiava la sua timidità; mentre gli aneddoti sanguinosi iditi raccontare a Girgenti, l’aspetto oltremodo protervo del paese nel quale era giunto, e gli “sgherri” (come vensava lui) accampati nel cortile gli incutevano spaven‘0; in modo che scese a pranzo martoriato dai contra-
‘tanti timori di chi è capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelli dell’innocente caduto n un agguato brigantesco. A cena mangiò bene per la prima volta da quando ‘veva toccato le sponde sicule, e l’avvenenza delle ragaz‘e, l’austerità di Padre Pirrone e le grandi maniere di Don Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafurata non era l’antro del bandito Capraro e che da esso arebbe probabilmente uscito vivo; ciò che più lo convolò fu la presenza di Cavriaghi che, come apprese, abiava lì da dieci giorni ed aveva l’aria di star benissimo ed inche di essere un grande amico di quel giovanottino ialconeri, amicizia questa fra un siciliano ed un lombario che gli apparve miracolosa. Alla fine del pranzo si av-
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vicinò a Don Fabrizio e lo pregò di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l'indomani mattina; ma il Principe gli spiaccicò una spalla con una manata e col più gattopardesco sorriso: «Niente affatto, caro cavaliere» gli disse «adesso Lei è a casa mia e la terrò in ostaggio sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr’occhi sino al pomeriggio». Questa frase che avrebbe terrorizzato l’ottimo cavaliere tre ore prima lo rallegrò invece adesso; Angelica quella sera non c’era e quindi si giocò a wzst; in un tavolo insieme a Don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone vinse due rubbers e guadagnò tre lire e trentacinque centesimi, dopo di che
si ritirò in camera sua, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno fiducioso del giusto.
La mattina dopo Tancredi e Cavriaghi lo condussero in giro per il giardino, gli fecero ammirare la quadreria e la collezione di arazzi; gli fecero anche fare un giretto in paese; sotto il sole color di miele di Novembre esso appariva meno sinistro della sera prima; si vide financo in giro qualche sorriso, e Chevalley di Monterzuolo cominciava a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica. Questo fu notato da Tancredi che venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempre au-
tentiche. Si passava davanti a un divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati. «Questa, caro
Chevalley, è la casa del barone Mùtolo; adesso è vuota e chiusa perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio del barone, dieci anni fa, è stato sequestrato dai briganti.» Il piemontese cominciava a fremere. «Poverino!
chissà quanto ha dovuto pagare per liberarlo!» «No, non ha pagato nulla; si trovavano già in difficoltà finanziarie, privi di denaro contante come tutti qui. Ma il ragazzo è stato restituito lo stesso; a rate, però.» «Come,
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principe, cosa intende dire?» «A rate, dico bene, a rate;
pezzo per pezzo. Prima è arrivato l’indice della mano destra. Dopo una settimana il piede sinistro ed infine in un bel paniere, sotto uno strato di fichi (si era in Agosto) la testa; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso all'angolo delle labbra. Io non l’ho visto, ero un bambino allora; ma mi hanno detto che lo spettacolo non era bello. Il paniere era stato lasciato su quel gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno.» Gli occhi di Chevalley si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bel sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: «Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserà». «Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio.»
Si passò poi davanti al Circolo dei Civili che all’ombra dei platani della piazza faceva la propria mostra | quotidiana di sedie in ferro e di uomini in lutto. Ossequi, sorrisi. «Li guardi bene, Chevalley, s'imprima la
:scena nella memoria: un paio di volte all'anno uno di questi signori vien lasciato stecchito sulla sua poltronciina: una fucilata sparata nella luce incerta del tramonto; e inessuno capisce mai chi sia stato a sparare.» Chevalley provò il bisogno di appoggiarsi al braccio di Cavriaghi
|per sentire vicino a sé un po’ di sangue continentale. Poco dopo, in cima a una stradetta ripida, attraverso i festoni multicolori delle mutande sciorinate, s’intravide runa chiesuola ingenuamente barocca. «Quella è Santa Ninfa. Il parroco cinque anni fa è stato ucciso lì dentro
rmentre celebrava la messa.» «Che orrore! una fucilata in chiesa!» «Ma che fucilata, Chevalley! siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno ‘messo semplicemente del veleno nel vino della Comuinione; è più discreto, più liturgico vorrei dire. Non si è
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mai saputo chi lo abbia fatto: il parroco era un’ottima persona e non aveva nemici.»
Come un uomo che svegliatosi la notte vede uno spettro seduto ai piedi del letto sui propri calzini, si salva dal terrore sforzandosi di credere ad una burla degli amici buontemponi, così Chevalley si rifugiò nella credenza di esser preso in giro: «Molto divertente, principe, davvero spassoso! Lei dovrebbe scrivere dei romanzi, racconta
così bene queste frottole!» Ma la voce gli tremava; Tancredi ne ebbe compassione e benché prima di rincasare passassero davanti a tre o quattro luoghi per lo meno altrettanto evocatori, si astenne dal fare il cronista e parlò di Bellini e di Verdi, le sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali. Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una
libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e
sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la
principessa di Falconeri seduta su una panca in un giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo, il pri-
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mogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di sali-
re su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi
sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Cori po del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato
| dalle basette biondissime di primo pelo. Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: «Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di pro‘ cedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di re‘digere una lista di personalità da proporre all’esame del
governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina re-
»gia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo inome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifiìci, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti». Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte \note a matita sul calepino che adesso riposava nella taeca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio ioerò non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciaano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zamJoaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cuvola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo. Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani iguando si propone loro qualcosa, Chevalley non si laciò smontare: «Prima di far pervenire la lista a Torino i ìmiei superiori hanno creduto dover informare lei stesso,
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e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca». Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati a esserlo. “Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore” pensava “a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.” Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore
questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insisten-
te di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: «Senatores boni viri, senatus autem mala bestia». Adesso vi era
anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi eta stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: «Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa
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della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?» Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s'inalberò: «Ma, Principe, il Senato è la Camera
Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi
che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da i sanare, con tanti giusti desideri da esaudire». Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla “saggezza del Sovrano” di essere ammesso; Don Fa‘brizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tan‘ta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo en‘trare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di
Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon ‘uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì. «Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un
isegno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla ‘carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo
‘che in questo momento decisivo per il futuro dello stato titaliano è dovere di ognuno dare la propria adesione, \evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteiri che ci guardano con un timore o con una speranza che isi riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.» «Ma allora, principe, perché non accettare?»
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«Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto “adesione” non “partecipazione”. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è
stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque
secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “la”; noi siamo dei bian-
chi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.» Adesso Chevalley era turbato. «Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato.» «L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del re-
sto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carroz-
zella alla Esposizione Universale di Londra, che non
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comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che
agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto.» Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed
essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro
aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da
ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono : soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno del| la formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che
: sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che i non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un
| passato che ci attrae appunto perché è morto.»
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; so| prattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i ccarretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e
«denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini
eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: «Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei
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Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni.» Il Principe si seccò: «Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non
io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto
pet la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di mi-
sura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco,
come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato,
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magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere no-
stro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo». L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo. «Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti
che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la strambe-
ria fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per I Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente
compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. \ppartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra \ vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti » due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno li accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne fa«ebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui
nanca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito ‘ssenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della no-
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stra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al “come” più che al “perché” e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso in-
teresse particolare con le vaghe idealità politiche.» Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: «Posso dare a
Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?» «Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni
considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.» «C'è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti-di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con
esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Mag-
gio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati.» Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spiri-
to che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma deva conto delle cose con lenta solidità, e poi non la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. prese l'amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio,
si renaveva Comrivide
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in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di ne-
ra indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto
del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elen-
chi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo. Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l'emozione con-
feriva pathos alla sua voce: «Principe, ma è proprio sul ‘serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per | tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di | cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi goi verni si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli i uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla i gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tut-
‘to sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la ‘ sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.» Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo ‘fece sedere vicino a lui sul divano: «Lei è un gentiluo:mo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto;
Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha ‘detto: “i Siciliani vorranno migliorare”. Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Ga‘ribaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni rufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che ‘stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. {Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una ‘casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una ter-
‘razza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno lalla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guar-
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dare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama,
della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani.
“They are coming to teach us good manners” risposi “but won't succeed, because we are gods.” “Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.” Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro
Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è
perfetta, in una parola?
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«Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon eun ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia
cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squzres inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà
è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male. «E tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile.»
L'indomani mattina presto Chevalley ripartì e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di Don Fabrizio, e dentro
di sé la bile delle proprie virtù conculcate. Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi
li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s'incespica agli svolti delle “trazzere”.
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Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio ato-
no o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee. Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cam-
bierà tutto”. Il Principe era depresso: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...;
e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il
lungo viaggio. Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.
PARTE QUINTA
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I natali di Padre Pirrone erano rustici: era nato infatti a S. Cono, un paese piccino piccino che adesso, in grazia degli autobus, è quasi una delle stie-satelliti di Palermo ma che un secolo fa apparteneva, per così dire, a un sistema planetario a sé stante, lontano com'era quattro o cinque ore-carretto dal sole palermitano. Il padre del nostro Gesuita era stato “soprastante” di due feudi che l'Abbazia di S. Eleuterio si lusingava di ‘possedere nel territorio di S. Cono. Mestiere questo di “soprastante” assai pericoloso, allora, per la salute dell’anima e per quella del corpo perché costringeva a frequentazioni strane ed alla cognizione di vari aneddoti til cui accumularsi cagionava una infermità che “di botito” (è la parola esatta) faceva cadere l’infermo stecchito ai piedi di qualche muricciuolo, con tutte le sue storielle sigillate nella pancia, irrecuperabili ormai alla curiosità degli sfaccendati. Però, don Gaetano, il genitore di Padre Pirrone, era riuscito a sfuggire a questa malattia professionale mercé una rigorosa igiene basata sulla discrezione e su un avveduto impiego di rimedi preventivi; ed era morto pacificamente di polmonite una soleggiata Domenica di febbraio sonora di venti che sfogliavano i ‘iori dei mandorli. Egli lasciava la vedova e i tre figli ‘due ragazze e il sacerdote) in condizioni economiche relativamente buone; da quel sagace uomo che era stato uveva saputo fare delle economie sullo stipendio increlibilmente esiguo pagatogli dall’ Abbazia, e, al momento
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del proprio transito possedeva alcune piante di mandorlo in fondo valle, qualche cespo di vite sui pendii e un po’ di pietroso pascolo più in alto; roba da poveretti, si sa; sufficiente però a conferire un certo peso nella depressa economia sanconetana; era anche proprietario di una casetta rigorosamente cubica, azzurra fuori e bianca dentro, quattro stanze sotto e quattro sopra, proprio all’ingresso del paese dalla parte di Palermo. Padre Pirrone si era allontanato da quella casa a sedici anni quando i suoi successi alla scuola parrocchiale e la benevolenza dell’ Abbate Mitrato di S. Eleuterio lo avevano incamminato verso il seminario arcivescovile, ma, a di-
stanza di anni, vi era ritornato più volte o per benedire le nozze delle sorelle o per dare una (mondanamente, s’intende) superflua assoluzione a don Gaetano morente e vi ritornava adesso, sul finire del Febbraio 1861, per il quindicesimo anniversario della morte del padre; ed era una giornata ventosa e limpida, proprio come era stata quella. Erano state cinque ore di scossoni, con i piedi penzoloni dietro la coda del cavallo; ma, una volta sormontata
la nausea causata dalle pitture patriottiche dipinte di fresco sui pannelli del carretto e che culminavano nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare, erano state
cinque ore piacevoli. La vallata che sale da Palermo a S. Cono riunisce in sé il paesaggio fastoso della zona costiera e quello inesorabile dell’interno, ed è percorsa da
folate di vento improvvise che ne rendono salubre l’aria e che erano famose per esser capaci di sviare la traiettoria delle pallottole meglio premeditate, sicché i tiratori posti di fronte a problemi balistici ardui preferivano esercitarsi altrove. Il carrettiere, poi, aveva conosciuto
molto bene il defunto e si era dilungato in ampie ricordanze dei meriti di lui, ricordanze che, benché non sem-
pre adatte ad orecchie filiali ed ecclesiastiche, avevano lusingato l’ascoltatore assuefatto.
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All’arrivo fu accolto con lacrimosa allegria. Abbracciò e benedisse la madre che osteritava i capelli candidi e la cera rosea delle vedove di fra le lane di un lutto imprescrittibile, salutò le sorelle e i nipoti ma, fra quest’ultimi guardò di traverso Carmelo che aveva avuto il pessimo gusto d’inalberare sulla berretta, in segno di festa, una coccarda tricolore. Appena entrato in casa fu assalito, come sempre, dalla dolcissima furia dei ricordi giovanili: tutto era immutato, il pavimento di coccio rosso come il parco mobilio; l’identica luce entrava dai finestrozzi esigui; il cane Romeo che latrava breve in un cantone era il trisnipote rassomigliantissimo di un altro cernieco compagno suo nei violenti giochi; e dalla cucina esalava il secolare aroma del “ragù” che sobbolliva, ' estratto di pomodoro, cipolle e carne di castrato, per gli “anelletti” dei giorni segnalati; ogni cosa esprimeva la \ ‘ serenità raggiunta mediante i travagli della Buon’Anima. Presto si diressero alla chiesa per ascoltare la messa i commemorativa. S. Cono, quel giorno, mostrava il pro| prio aspetto migliore e scialava in una quasi orgogliosa ‘ esibizione di feci diverse; caprette argute dai neri uberi i penzolanti e molti di quei maialetti siciliani scuri e slancciati come puledri minuscoli, si rincorrevano fra la gent te, su per le strade ripide; e poiché Padre Pirrone era di‘venuto una specie di gloria locale molte erano le donne, i bambini ed anche i giovanotti che gli si affollavano initorno per chiedergli una benedizione o per ricordare i ‘tempi passati. In sacrestia si fece una rimpatriata col parroco e,
rascoltata la Messa ci si recò sulla lapide sepolcrale, in muna cappella di fianco: le donne baciarono il marmo la»erimando, il figlio pregò ad alta voce nel suo arcano latiino; e quando si ritornò a casa gli “anelletti” erano proniti e piacquero molto a Padre Pirrone cui le raffinatezze ‘culinarie di villa Salina non avevano guastato la bocca. Verso sera poi gli amici vennero a salutarlo e si riuni-
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rono in camera sua: una lucerna di rame a tre braccia pendeva dal soffitto e spandeva la luce dimessa dei suoi moccoli a olio; in un angolo il letto ostentava le materassa variopinte e la soffocante trapunta rossa e gialla; un altro angolo della stanza era recinto da una alta e rigida stuoia, lo “zimmile” che custodiva il frumento color di
miele che ogni settimana si recava al mulino per i bisogni della famiglia; alle pareti, da incisioni butterate, Sant'Antonio mostrava il Divino Infante, Santa Lucia i
propri occhi divelti e S. Francesco Saverio arringava turbe di Indiani piumati e discinti; fuori, nel crepuscolo stellato, il vento zufolava e, a modo suo, era il solo a commemorare. Al centro della stanza, sotto la lucerna,
si appiattiva al suolo il grande braciere racchiuso in una fascia di legno lucido sulla quale si posavano i piedi; tutt'intorno sedie di corda con gli ospiti. Vi era il parroco, i due fratelli Schirò, proprietari del luogo e don Pietrino, il vecchissimo erbuario: cupi erano venuti, cupi rimanevano
perché, mentre
le donne
sfaccendavano
abbasso, essi parlavano di politica e speravano di aver notizie consolanti da Padre Pirrone che arrivava da Palermo e che doveva saper molto dato che viveva fra i “signori”. Il desiderio di notizie era stato appagato, quello di conforto però fu deluso perché il loro amico gesuita un po’ per sincerità, un po’ anche per tattica mostrava
loro nerissimo l’avvenire: su Gaeta sventolava ancora il tricolore borbonico ma il blocco era ferreo e le polveriere della piazzaforte saltavano in aria una per una, e lì ormai non si salvava più nulla all’infuori dell'onore, cioè non molto; la Russia era amica ma lontana, Napoleone III infido e vicino, e degli insorti di Basilicata e Terra di
Lavoro il Gesuità parlava poco perché sotto sotto se ne vergognava. Era necessario, diceva, subire la realtà di questo stato italiano che si formava, ateo e rapace, di queste leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colèra. «Ve-
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drete» fu la sua non originale conclusione «vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piangere.» A queste parole venne mescolato il coro tradizionale delle lagnanze rustiche. I fratelli Schirò e l’erbuario già sentivano il morso della fiscalità; per i primi vi erano stati contributi straordinari e centesimi addizionali; per l’altro una sconvolgente sorpresa: era stato chiamato in Municipio dove gli avevano detto che, se non avesse pagato venti lire ogni anno, non gli sarebbe più stato con‘sentito di vendere i suoi semplici. «Ma io questa senna, questo stramonio, queste erbe sante fatte dal Signore me
le vado a raccogliere con le mie mani sulle montagne, ‘pioggia o sereno, nei giorni e nelle notti prescritte! me le
‘essicco al sole che è di tutti e le metto in polvere da me ‘col mortaio che era di mio nonno! Che c’entrate voi del ‘Municipio? perché dovrei pagarvi venti lire? così per la ‘vostra bella faccia?» Le parole gli uscirono smozzicate dalla bocca senza identi, ma gli occhi gli s'incupirono di autentico furore. «Ho torto o ragione, Padre? Dimmelo tu!» Il Gesuita gli voleva bene: se lo ricordava uomo già fatto, anzi già curvo per il continuo girovagare e raccattare quando lui stesso era un ragazzo che tirava sassate fi passeri; e gli era anche grato perché sapeva che quando vendeva un suo decotto alle donnette diceva sempre the senza tante o tanti “Ave Maria” o “Gloriapatri” esso sarebbe rimasto inoperoso; il suo prudente cervello, poi, voleva ignorare che cosa ci fosse veramente negli intrulxli e per quali speranze venissero richiesti. «Avete ragione, don Pietrino, cento volte ragione. E ‘ome no? Ma se non prendono i soldi a voi e agli altri voveretti come voi dove li trovano per fare la guerra al ‘Papa e rubargli ciò che gli appartiene?» | La conversazione si dilungava sotto la mite luce vacilante per il vento che riusciva a sorpassare le imposte inassicce. Padre Pirrone spaziava nelle future inevitabili
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confische dei beni ecclesiastici: addio allora il mite dominio dell'Abbazia qui intorno; addio le zuppe distribuite durante gli inverni duri; e quando il più giovane degli Schirò ebbe l’imprudenza di dire che forse così alcuni contadini poveri avrebbero avuto un loro fondicello, la sua voce s’inaridì nel più deciso disprezzo. «Lo vedrete, don Antonino, lo vedrete. Il Sindaco comprerà
tutto, pagherà le prime rate, e chi si è visto si è visto. Così di già è avvenuto in Piemonte.» Finirono con l’andarsene, assai più accigliati di quando erano venuti e provvisti di mormorazioni per due mesi; rimase soltanto l’erbuario che quella notte non sarebbe andato a letto perché era luna nuova e doveva andare a raccogliere il rosa-marino sulle rocce dei Pietrazzi; aveva portato con sé il lanternino e si sarebbe incamminato appena uscito. «Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla “nobbiltà”, che
cosa ne dicono i “signori” di tutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso e orgoglioso come è?» Già più d’una volta Padre Pirrone aveva posto a sé stesso questa domanda e rispondervi non era stato facile sopratutto perché aveva trascurato o interpretato come esagerazioni quanto Don Fabrizio gli aveva detto una mattina in osservatorio quasi un anno fa. Adesso lo sapeva ma non trovava il modo di tradurlo in forma comprensibile a don Pietrino che era lungi dall’essere uno sciocco ma che s'intendeva meglio delle proprietà anticatarrali, carminative e magari afrodisiache delle sue erbe che di simili astrazioni. «Vedete, don Pietrino, i “signori” come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allie-
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tano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bel nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe. La Divina Provvidenza ha voluto
che io divenissi umile particella dell'Ordine più glorioso di una Chiesa sempiterna alla quale è stata assicurata la vittoria definitiva; voi siete all’altro limite della scala, e
non dico il più basso ma solo il più differente. Voi quando scoprite un cespo vigoroso di origano o un nido ben fornito di cantaridi (anche quelle cercate, don Pietrino,
lo so) siete in comunicazione diretta con la natura che il Signore ha creato con possibilità indifferenziate di male e di bene affinché l’uomo possa esercitarvi la sua libera scelta; e quando siete consultato dalle vecchiette maligne o dalle ragazzine vogliose voi scendete nell’abisso dei secoli sino alle epoche oscure che hanno preceduto la luce del Golgota.» Il vecchio guardava stupito: lui voleva sapere se il principe di Salina era sodisfatto o no del nuovo stato di cose, e l’altro gli parlava di cantaridi e di luci del Golgota. “A forza di leggere è diventato pazzo, meschinello.” «I “signori” no, non sono così; essi vivono di cose già
manipolate. Noi ecclesiastici serviamo loro per rassicurarli sulla vita eterna, come voi erbuari per procurar loro emollienti o eccitanti. E con questo non voglio dire che sono cattivi: tutt'altro. Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascu-
ra i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo
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serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato; e so di certo che il principe di Làscari dal furore non ha dormito tutta una notte perché ad un pranzo alla Luogotenenza gli avevano dato un posto sbagliato. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?» Don Pietrino non capiva più niente: le stramberie si
moltiplicavano, adesso saltavano fuori i colletti delle camicie e i coccodrilli. Ma un fondo di buon senso rustico lo sosteneva ancora. «Ma se è così, Padre, andranno tut-
ti all'inferno!» «E perché? Alcuni saranno perduti, altri salvi, a secondo di come avranno vissuto dentro questo
loro mondo condizionato. Ad occhio e.croce Salina, per esempio, dovrebbe cavarsela; il giuoco suo lo gioca bene, segue le regole, non bara; il Signore Iddio punisce chi contravviene volontariamente alle leggi divine che conosce, chi imbocca volontariamente la cattiva strada;
ma chi segue la propria via, purché su di essa non commetta sconcezze, è sempre a posto. Se voi, don Pietrino,
vendeste cicuta invece di mentuccia, sapendolo, sareste
fritto; ma se avrete creduto di essere nel vero, la gnà Tana farà la morte nobilissima di Socrate e voi andrete dritto dritto in cielo con tonaca e alucce, tutto bianco.» La morte di Socrate era stata troppo, per l’erbuario; si era arreso e dormiva. Padre Pirrone lo notò e ne fu contento perché adesso avrebbe potuto parlare libero senza timore di essere frainteso; e parlare voleva, fissare nelle
volute concrete delle frasi le idee che oscuramente gli si agitavano dentro. «E fanno molto bene anche. Se sapeste, per dirne
una, a quante famiglie che sarebbero sul lastrico danno ricetto quei loro palazzi! E non richiedono nulla per questo, neppure un’astensione dai furtarelli. Ciò non viene fatto per ostentazione ma per una sorta di oscuro
istinto atavico che li spinge a non poter fare altrimenti.
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Benché possa non sembrare, sono meno egoisti di tanti altri: lo splendore delle loro case, la pompa delle loro feste contengono in sé un che d’impersonale, un po’ come la magnificenza delle chiese e della liturgia, un che di fatto ad matorem gentis gloriam, che li redime non poco; per ogni bicchiere di sciampagna che bevono ne offrono cinquanta agli altri, e quando trattano male qualcheduno, come avviene, non è tanto la loro personalità che pecca quanto il loro ceto che si afferma. Fata crescunt. Don Fabrizio ha protetto e educato il nipote Tancredi, per esempio, ha insomma salvato un povero orfano che altrimenti si sarebbe perduto. Ma voi direte che lo ha fatto perché il giovane era anche lui un signore, che non avrebbe messo un dito all’acqua fredda per un altro. È vero, ma perché avrebbe dovuto farlo se sinceramente, in tutte le radici del suo cuore gli “altri” gli sembrano tutti esemplari mal riusciti, maiolichette venute fuori sformate dalle mani del figurinaio e che non val la pena di esporre alla prova del fuoco? «Voi, don Pietrino, se in questo momento non dormi-
ste, saltereste su a dirmi che i signori fanno male ad avere questo disprezzo per gli altri e che tutti noi, egualmente soggetti alla doppia servitù dell'amore e della morte, siamo eguali dinanzi al Creatore; ed io non potrei che darvi ragione. Però aggiungerei che non è giusto incolpare di disprezzo soltanto i “signori”, dato che questo è vizio universale. Chi insegna all’Università disprezza il maestrucolo delle scuole parrocchiali, anche se non lo dimostra, e poiché dormite posso dirvi senza reticenze che noi ecclesiastici ci stimiamo superiori ai laici, noi Gesuiti superiori al resto del clero, come voi erbuari spregiate i cavadenti che a loro volta v’irridono; i medici
per conto loro prendono in giro cavadenti ed erbuari e vengono loro stessi trattati da asini dagli ammalati che pretendono di continuare a vivere con il cuore o il fegato in poltiglia. Per i magistrati gli avvocati non sono che
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dei seccatori che cercano di dilazionare il funzionamento delle leggi, e d’altra parte la letteratura ribocca di satire contro la pomposità, l’ignavia e talvolta peggio di quegli stessi giudici. Non ci sono che gli zappatori a esser disprezzati anche da loro stessi; quando avranno appreso a irridere gli altri il ciclo sarà chiuso e bisognerà incominciare da capo. «Avete mai pensato, don Pietrino, a quanti nomi di mestiere sono diventati delle ingiurie? da quelli di facchino, ciabattino e pasticciere a quelli di reztre e di porpier in francese? La gente non pensa ai meriti dei facchini e dei pompieri; guarda solo i loro difetti marginali e li chiama tutti villani e vanagloriosi; e poiché non potete sentirmi posso dirvi che conosco benissimo il significato corrente della parola “gesuita”. «Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi
l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrino, lo so, se siete costretto a bere uno dei vo-
stri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L’ira e la beffa sono signorili; l’elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un “signore” lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco.
«Un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa mo-
rire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine. Guardate la Francia: si son fatti massacrare con eleganza e adesso son lì come prima, dico come prima perché non sono i latifondi e i diritti feudali a fare il nobile, ma le differenze. Adesso mi dicono che a Parigi vi sono dei
conti polacchi che le insurrezioni e il despotismo hanno costretto all’esilio e alla miseria; fanno i fiaccherai ma guardano i loro clienti borghesi con tale cipiglio che i
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poveretti salgono in vettura, senza saper perché, con
l’aria umile di cani in chiesa. «E vi dirò pure, don Pietrino, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costi-
tuirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io... sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro.» A questo punto si sentirono i passi della madre sulla scaletta di legno; essa entrò ridendo. «Ecucchì stavi parlando, figlietto mio? Non lo vedi che il tuo amico dorme?» Padre Pirrone si vergognò un poco; non rispose ma
disse: «Adesso lo accompagno fuori. Poveretto, dovrà stare al freddo tutta la notte.» Estrasse il lucignolo della lanterna, lo accese a una fiammella del lampadario rizzandosi sulla punta dei piedi e imbrattando di olio la propria tunica; lo rimise a posto, chiuse lo sportellino. Don Pietrino veleggiava nei sogni; un filo di bava gli scorreva giù da un labbro e andava a spandersi sul bavero. Ci volle del tempo per svegliarlo. «Scusami, Padre, ma dicevi cose tanto strane e imbrogliate.» Sorrisero, scesero, uscirono. La notte sommergeva la casetta, il paese, la vallata; si scorgevano appena i monti che erano vicini e, come sempre, imbronciati. Il vento si era calma-
to ma faceva un gran freddo; le stelle brillavano con furia, producevano migliaia di gradi di calore ma non riuscivano a riscaldare un povero vecchio. «Povero don Pietrino! Volete che vada a prendervi un altro mantello?» «Grazie, ci sono abituato. Ci vedremo domani e al-
lora mi dirai come il principe di Salina ha sopportato la rivoluzione.» «Ve lo dico subito in quattro parole: dice che non c’è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima.» «Evviva il fesso! E a te non pare una rivoluzione che il
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Sindaco mi vuol far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?» La luce della lanterna si allontanava a scatti, finì con
lo scomparire nelle tenebre fitte come un feltro. Padre Pirrone pensava che il mondo doveva sembrare un gran rompicapo a chi non conoscesse matematiche
né teologia. “Signor mio, soltanto la Tua Omniscienza poteva escogitare tante complicazioni.”
Un altro campione di queste complicazioni gli capitò fra le mani l'indomani mattina. Quando scese giù pronto per andare a dir messa in Parrocchia trovò Sarina sua sorella che tagliava cipolle in cucina. Le lagrime che essa aveva negli occhi gli sembrarono maggiori di quanto quell’attività comportasse. «Cosa c’è, Sarina? Qualche guaio? Non ti avvilire: il Signore affligge e consola.» La voce affettuosa dissipò quel tanto di riserbo che la povera donna possedeva ancora: si mise a piangere clamorosamente, con la faccia appoggiata all’untume della tavola. Fra i singhiozzi si sentivano sempre le stesse parole: «Angelina, Angelina... Se Vicenzino lo sa li ammazza a tutti e due... Angelina... Quello li ammazza!» Le mani cacciate nella larga cintura nera, con i soli pollici fuori, padre Pirrone all’impiedi la guardava. Non era difficile capire: Angelina era la figlia nubile di Sarina, il Vicenzino del quale si temevano le furie, il padre,
suo cognato. L’unica incognita dell’equazione era il nome dell’altro, dell'eventuale amante di Angelina. Questa il Gesuita la aveva rivista ieri, ragazza, dopo
averla lasciata piagnucolosa bambina sette anni fa. Do: veva avere diciotto anni ed era bruttina assai, con la bocca sporgente di tante contadine del luogo, con gli occh spauriti di cane senza padrone. La aveva notata arrivan: do ed anzi in cuor suo aveva fatto poco caritatevoli para goni fra essa, meschina come il plebeo diminutivo de
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proprio nome e quell’Angelica, sontuosa come il suo nome ariostesco, che di recente aveva turbato la pace di ca-
sa Salina. Il guaio dunque era grosso e lui vi era incappato in pieno; si ricordò di ciò che diceva Don Fabrizio: ogni volta che s’incontra un parente s'incontra una spina; e poi si pentì di essersene ricordato. Estrasse la sola destra dalla cintura, si tolse il cappello e batté sulla spalla sussultante della sorella. «Andiamo, Sarina, non fare così! Ci sono qua io, per fortuna, e piangere non serve a niente. Vicenzino dov'è?» Vicenzino era già uscito per andare a Rima-
to a trovare il campiere degli Schirò. Meno male, si poteva parlare senza timore di sorprese. Fra singhiozzi, risucchi di lagrime e soffiate di naso tutta la squallida storia venne fuori: Angelina (anzi °Ncilina) si era lasciata sedurre; il grosso patatrac era successo durante l’estate di S. Martino; andava a trovare l’innamorato nel pagliaio di donna Nunziata; adesso era incinta di tre mesi; pazza di
terrore si era confessata alla madre; fra qualche tempo si sarebbe cominciata a vedere la pancia, e Vicenzino avrebbe fatto un macello. «Anche a me ammazza quello perché non ho parlato; lui è “uomo di onore”.» Infatti con la sua fronte bassa, con i suoi “cacciolani”,
le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vicenzino era “uomo di onore”; uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage. Su Sarina sopravvenne una nuova crisi di pianto più
forte della prima perché in essa affiorava pure un demente rimorso di aver demeritato dal marito, quello specchio di cavalleria. «Sarina, Sarina, di nuovo! Non fare così! Il giovanot-
to la deve sposare, la sposerà. Andrò a casa sua, parlerò con lui e con i suoi, tutto s’aggiusterà. Vicenzino saprà
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solo del fidanzamento e il suo prezioso onore resterà intatto. Però debbo sapere chi è stato. Se lo sai, dimmelo.»
La sorella rialzò la testa: negli occhi le si leggeva adesso un altro terrore, non più quello animalesco delle coltellate ma uno più ristretto, più acerbo che il fratello non poté per il momento decifrare. «Santino Pirrone è stato! Il figlio di Turi! e lo ha fatto per sfregio, per sfregio a me, a nostra madre, alla Santa Memoria di nostro padre. Io non gli ho mai parlato, tutti dicevano che era un buon figliuolo, invece è un infamone, un degno figlio di quella canaglia di suo padre, uno sdisonorato. Me lo sono ricordato dopo: in quei giorni di Novembre lo vedevo sempre passare qui davanti con due amici e con un geranio rosso dietro l’orecchio. Fuoco d’inferno, fuoco d’inferno!» Il Gesuita prese una sedia, sedette vicino alla donna.
Era chiaro, avrebbe dovuto ritardare la messa. L'affare era grave. Turi, il padre di Santino, del seduttore, era un suo zio; il fratello, anzi il fratello maggiore della Buon'Anima. Venti anni fa era stato associato al defunto nella guardianìa, proprio al momento della maggiore e più meritevole attività. Dopo, una lite aveva diviso i fratelli, una di quelle liti familiari dalle radici inestricabili, che è impossibile sanare perché nessuna delle due parti parla chiaro, avendo ciascuna molto da nascondere. Il fatto era che quando la Santa Memoria venne in possesso del piccolo mando:leto, il fratello Turi aveva detto
che in realtà la metà apparteneva a lui perché la metà dei denari, o la metà della fatica, l’aveva fornita lui; però
l’atto di acquisto era al solo nome di Gaetano, buon’anima. Turi tempestò e percorse le strade di S. Cono con la schiuma alla bocca: il prestigio della Santa Memoria si mise in gioco, amici s'intromisero e il peggio fu evitato; il mandorleto rimase a Gaetano, ma l’abisso fra i due rami della famiglia Pirrone divenne incolmabile; Turi non assistette, poi, nemmeno ai funerali del fratello e nella
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casa delle sorelle era nominato come “la canaglia” e basta. Il Gesuita era stato informato di tutto mediante intricate lettere dettate al Parroco e circa la canaglieria si era formato idee personalissime che non esprimeva per reverenza filiale. Il mandorleto, adesso, apparteneva a Sarina. Tutto era evidente: l’amore, la passione non c’'entravano. Era soltanto una porcata che vendicava un’altra porcata. Rimediabile però: il Gesuita ringraziò la Provvidenza che lo aveva condotto a S. Cono proprio in quei giorni. «Senti, Sarina, il guaio te lo aggiusto io in due ore; tu però mi devi aiutare: la metà di Chìbbaro (era il mandorleto) lo devi dare in dote a ’Ncilina. Non c’è rimedio: quella stupida vi ha rovinato.» E pensava come il Signore si serva talvolta anche delle cagnette in calore per attuare la giustizia Sua. Sarina inviperì: «Metà di Chìbbaro! A quel seme di farabutti! Mai! Meglio morta!» «Va bene. Allora dopo la Messa andrò a parlare con Vicenzino. Non aver paura, cercherò di calmarlo.» Si rimise il cappello in testa e le mani nella cintura. Aspettava paziente, sicuro di sé. Una edizione delle furie di Vicenzino, sia pure riveduta ed espurgata da un Padre Gesuita, si presentava sempre come illeggibile per la infelice Sarina che per la terza volta ricominciò a piangere; a poco a poco i singhiozzi però decrebbero, cessarono. La donna si alzò: «Sia fatta la volontà di Dio: aggiusta tu la cosa, qua non è più vita. Ma quel bel Chìbbaro! Tutto sudore di nostro padre!» Le lagrime erano sul punto di ricominciare, ma Padre Pirrone era di già andato via. Celebrato che fu il Divino Sacrifizio, accettata la tazza di caffè offerta dal Parroco, il Gesuita si diresse di filato
alla casa dello zio Turi. Non vi era mai stato ma sapeva
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che era una poverissima bicocca, proprio in cima al paese, vicino alla forgia di mastro Ciccu. La trovò subito e dato che non vi erano finestre e che la porta era aperta per lasciar entrare un po’ di sole, si fermò sulla soglia: nell’oscurità, dentro, si vedevano accumulati basti per muli, bisacce e sacchi: don Turi tirava avanti facendo il mulattiere, aiutato, adesso, dal figlio.
«Doràzio!» gridò Padre Pirrone. Era una abbreviazione della formula Deo gratias (agamus) che serviva agli ecclesiastici per chiedere il permesso di entrare. La voce di un vecchio gridò: «Chi è?» e un uomo si alzò dal fondo della stanza e si avvicinò alla porta. «Sono vostro nipote, il padre Saverio Pirrone. Vorrei parlarvi, se permettete.»
La sorpresa non fu grande: da due mesi almeno la visita sua o di un suo sostituto doveva essere attesa. Lo zio Turi era un vecchio vigoroso e diritto, cotto e ricotto dal
sole e dalla grandine, con sul volto i solchi sinistri che i guai tracciano sulle persone non buone. «Entra» disse, senza sorridere; gli fece largo ed anche, di malavoglia, l’atto di baciargli la mano. Padre Pirrone sedette su una delle grandi sedie di legno. L'ambiente era quanto mai povero: due galline razzolavano in un cantone e tutto odorava di sterco, di panni bagnati e di miseria cattiva. «Zio, sono moltissimi anni che non ci vediamo, ma non è stata tutta colpa mia; io non sto in paese, come sa-
pete, e voi del resto non vi fate mai vedere a casa di mia madre, vostra cognata; e questo ci dispiace.» «Io in
quella casa i piedi non ce li metterò mai. Mi si rivolta lo stomaco quando vi passo davanti. Turi Pirrone i torti ricevuti non li dimentica, neppure dopo vent'anni.»
«Sicuro, si capisce, sicuro. Ma io oggi vengo come la colombella dell'Arca di Noè, per assicurarvi che il dilu-
vio è finito. Sono molto contento di trovarmi qui e sono stato felice ieri, quando a casa mi hanno detto che Santi-
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no, vostro figlio, si è fidanzato con mia nipote Angelina; sono due buoni ragazzi, così mi dicono, e la loro unione
chiuderà il dissidio che esisteva fra le nostre famiglie e che a me, permettetemi di dirlo, è sempre dispiaciuto.» Il volto di Turi espresse una sorpresa troppo manifesta per non esser finta. «Non fosse il sacro abito che portate, Padre, vi direi che dite una bugia. Chissà che storielle vi hanno raccontato le femminette di casa vostra. Santino, in vita sua,
non ha mai parlato con Angelina; è un figlio troppo rispettoso per andare contro i desideri di suo padre.» Il Gesuita ammirava l’asciuttezza del vecchio, V’im-
perturbabilità delle sue menzogne. «Si vede, zio, che mi avevano informato male; figura-
tevi che mi avevano anche detto che vi eravate messi d’accordo sulla dote e che oggi voi due sareste venuti a casa per il “riconoscimento”. Che frottole raccontano queste donne sfaccendate! Però anche se non sono veri questi discorsi dimostrano il desiderio del loro buon cuore. Adesso, zio, è inutile che resti qui: vo subito a casa a rimproverare mia sorella. E scusatemi; sono stato
molto contento di avervi trovato in buona salute.» Il volto del vecchio cominciava a mostrare un qualche avido interessamento. «Aspettate, Padre. Continuate a farmi ridere con le chiacchiere di casa vostra; e di che
dote parlavano quelle pettegole?» «Che so io, zio! Mi sembra aver sentito nominare la
metà di Chìbbaro! ’Ncilina, dicevano, è la pupilla dei loro occhi e nessun sacrificio sembra esagerato per assicu-
rare la pace nella famiglia.» Don Turi non rideva più. Si alzò. «Santino!» si mise a berciare con la stessa forza con la quale richiamava i muli incaponiti. E poiché nessuno veniva gridò più forte ancora: «Santino! sangue della Madonna, che fai?» Quando vide Padre Pirrone trasalire si tappò la bocca con un gesto inaspettatamente servile.
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Il Gattopardo
Santino stava governando le bestie nel cortiletto attiguo. Entrò intimorito, con la striglia in mano; era un bel ragazzone di ventidue anni, alto ed asciutto come il padre, con gli occhi non ancora inaspriti. Il giorno prima aveva, come tutti, visto passare il Gesuita per le vie del paese, e lo riconobbe subito. «Questo è Santino. E questo è tuo cugino il padre Saverio Pirrone. Ringrazia Dio che c’è qui il Reverendissimo, se no ti avrei tagliato le orecchie. Che roba è questo amoreggiare senza che io, che sono tuo padre, lo sappia? I figli nascono per i padri e non per correre dietro alle sottane.» Il giovanotto si vergognava, forse non della disubbidienza ma anzi del consenso passato, e non sapeva cosa dire; per trarsi d’impaccio posò la striglia per terra e andò a baciare la mano del prete. Questi mostrò i denti in un sorriso e abbozzò una benedizione. «Dio ti benedica, figlio mio, benché credo che non lo meriti.» Il vecchio proseguiva: «Tuo cugino qui, mi ha tanto pregato e ripregato che ho finito col dare il mio consenso. Ma perché non me lo avevi detto prima? Adesso ripulisciti e andremo subito in casa di ’Ncilina.» «Un momento,
zio, un momento.»
Padre Pirrone
pensava che doveva ancora parlare con l’“uomo di onore” che non sapeva niente. «A casa vorranno certo fare i preparativi; del resto mi avevano detto che vi aspettava: no a un’ora di notte. Venite allora e sarà una festa veder: vi.» E se ne andò, abbracciato dal padre e dal figlio. Di ritorno alla casetta cubica, Padre Pirrone trovà
che il cognato Vicenzino era di già rincasato e così, pei rassicurare la sorella, non poté far altro che ammiccare verso di lei da dietro le spalle del fiero marito, il che de resto, trattandosi di due siciliani era del tutto sufficiente
Dopo disse al cognato che aveva da parlargli e i due s avviarono verso lo scheletrito pergolatino dietro la casa
Parte quinta
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il bordo inferiore ondeggiante della tonaca tracciava intorno al Gesuita una sorta di mobile frontiera, invalica-
bile; le chiappe grasse dell’“uomo di onore” si dondolavano, simbolo perenne di altezzosa minaccia. La conversazione fu del resto completamente differente dal previsto. Una volta assicurato dell’imminenza delle nozze di ’Ncilina, l’indifferenza dell’ “uomo di onore” nei riguardi della condotta della figlia fu marmorea; invece fin dal primo accenno alla dote da consegnare i suoi occhi rotearono, le vene delle tempie si gonfiarono e l’ondeggiare dell’andatura divenne frenetico: un rigurgito di considerazioni oscene gli uscì dalla bocca, turpe, ed
esaltato ancora delle più micidiali risoluzioni; la sua mano che non aveva avuto un solo gesto in difesa dell’onore della figlia, corse a palpare nervosa la tasca destra dei pantaloni per significare che nella difesa del mandorleto egli era risoluto a versare sin l’ultima goccia del sangue altrui. Padre Pirrone lasciò esaurirsi te turpitudini accontentandosi di rapidi segni della croce quando esse, spesso, sconfinavano nella bestemmia; al gesto annunziatore di stragi non badò affatto. Durante una pausa: «Si capisce, Vicenzino», disse «che anch'io voglio contribuire al riassestamento di tutto. Quella carta privata che mi assicura la proprietà di quanto mi spetta sull’eredità della Buon'Anima, te la rimanderò da Palermo, stracciata». L’effetto di questo balsamo fu immediato. Vicenzino intento a supputare il valore dell'eredità anticipata, tacque; e nell’aria soleggiata e fredda passarono le note stonatissime di una canzone che ’Ncilina aveva avuto voglia di cantare spazzando la camera dello zio. Nel pomeriggio lo zio Turi e Santino vennero a far la loro visita, alquanto ripuliti e con camicie bianchissime. I due fidanzati, seduti su due sedie contigue, prorompevano ogni tanto in fragorose risate senza parole, l’uno sulla faccia dell’altro. Erano contenti davvero, lei di “si-
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I{ Gattopardo
stemarsi” e di avere quel bel maschiaccio a disposizione, lui di aver seguito i consigli paterni e di avere adesso una serva e mezzo mandorleto; il geranio rosso che aveva di
nuovo all’orecchio non appariva più a nessuno un riflesso infernale. Due giorni dopo Padre Pirrone ripartì per Palermo. Strada facendo rimetteva in ordine le impressioni sue che non erano tutte gradevoli: quel brutale amorazzo venuto a frutto durante l’estate di S. Martino, quel gramo mezzo mandorleto riacchiappato per mezzo di un premeditato corteggiamento, gli mostravano l’aspetto rustico, miserabile, di altre vicende alle quali aveva di recente assistito. I gran signori erano riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari; ma il Demonio se li rigirava attorno al mignolo, egualmente. A villa Salina trovò il Principe di ottimo umore. Don Fabrizio gli chiese se avesse passato bene quei quattro
giorni e se si fosse ricordato di portare i suoi saluti alla madre: la conosceva, infatti, sei anni prima essa era stata ospite alla villa e la sua vedovile serenità era piaciuta ai padroni di casa. Dei saluti il Gesuita si era completamente dimenticato, e tacque; ma disse poi che la madre e la sorella lo avevano incaricato di ossequiare Sua Eccellenza, il che era soltanto una favola, meno grossa
quindi di una menzogna. «Eccellenza» aggiunse poi «desideravo pregarLa se domani potesse dare ordini che mi diano una carrozza: dovrei andare all’Arcivescovado a chiedere una dispensa matrimoniale: una mia nipote si è fidanzata con un cugino.» «Certo, padre Pirrone, certo, se lo volete; ma dopodomani io debbo andare a Palermo; potreste venire con
me; proprio così di furia dev'essere?»
PARIE:SESTÀA
Novembre 1862
La principessa Maria-Stella salì in carrozza, sedette sul raso azzurro dei cuscini, raccolse il più possibile attorno a sé le fruscianti pieghe della veste. Intanto Concetta e Carolina salivano anch'esse: sedevano di fronte e dai loro identici vestiti rosa si sprigionava un tenue profumo di violetta; dopo il peso spropositato di un piede che si poggiò sul montatoio fece vacillare la ca/lèche sulle alte molle: Don Fabrizio saliva anche lui. La carrozza fu piena come un uovo: le onde delle sete, delle armature di tre crinoline montavano, si urtavano si confondevano
sin quasi all’altezza delle teste; sotto era un fitto miscuglio di calzature, scarpini di seta delle ragazze, scarpette mordoré della Principessa, pantofoloni di pelle lucida del Principe; ciascuno pativa della presenza dei piedi altrui e non sapeva più dove fossero i propri. I due scalini del montatoio furono richiusi, il servitore
ricevette gli ordini. «A palazzo Ponteleone.» Risalì a cassetta, il palafreniere che teneva la briglia dei cavalli si scostò, il cocchiere fece impercettibilmente schioccare
la lingua, la calèche scivolò via. Si andava al ballo. Palermo in quel momento attraversava uno dei suoi intermittenti periodi di mondanità, i balli infuriavano. Dopo la venuta dei Piemontesi, dopo il fattaccio di Aspromonte, fugati gli spettri di espropria e di violenze, le duecento persone che componevano “il mondo” non
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Il Gattopardo
si stancavano d’incontrarsi, sempre gli stessi, per congratularsi di esistere ancora. Tanto frequenti erano le diverse e pur sempre identiche feste che i principi di Salina erano venuti a stare per tre settimane nel loro palazzo in città per non dover fare quasi ogni sera il lungo tragitto da S. Lorenzo. I vestiti delle signore arrivavano da Napoli nelle lunghe cassette nere simili a feretri, ed era stato un viavai isterico di crestaie, pettinatrici e calzolai; servi esasperati avevano re-
cato alle sarte biglietti affannosi. Il ballo dai Ponteleone sarebbe stato il più importante di quella breve stagione: importante per tutti per lo splendore del casato e del palazzo, per il numero degli invitati; più importante ancora peri Salina che vi avrebbero presentato alla “società” Angelica, la bella fidanzata del nipote. Erano soltanto le dieci e mezza, un po’ presto per presentarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che (“non lo sanno ancora, pove-
retti”) era gente da prendere alla lettera l’indicazione di orario scritta sul cartoncino lucido dell’invito. Era costata un po’ di fatica il far rimettere a loro uno di quei biglietti: nessuno li conosceva, e la principessa Maria-Stella, dieci giorni prima, aveva dovuto sobbarcarsi a fare
una visita a Margherita Ponteleone; tutto era andato liscio, si capisce, ma nondimeno era stata questa una delle spinucce che il fidanzamento di Tancredi aveva inserito nelle delicate zampe del Gattopardo. Il breve percorso sino a palazzo Ponteleone si svolgeva per un intrico di viuzze buie, e si procedeva al passo: via Salina, via Valverde, la discesa dei Bambinai, così festosa il giorno con le sue bottegucce di figurine in cera, così tetra la notte. La ferratura dei cavalli risuonava pru-
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dente fra le nere case che dormivano o facevano finta di dormire. Le ragazze, questi esseri incomprensibili per i quali un ballo è una festa e non un tedioso dovere mondano, parlottavano liete a mezzavoce; la principessa Maria Stella tastava la borsa per assicurarsi della presenza del flacconcino di “sal volatile”, Don Fabrizio pregustava l’effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un’ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il “frack” di don Calogero? Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata: egli era stato affidato a Tancredi che lo aveva trascinato dal miglior sarto ed aveva perfino assistito alle prove; ufficialmente era sembrato contento dei risultati, l’altro giorno, ma in confidenza aveva
detto: «Il “frack” è come può essere; il padre di Angelica manca di chic». Era innegabile. Ma Tancredi si era reso garante di una perfetta rasatura e della decenza degli scarpini. Era già qualche cosa. Là dove la discesa dei Bambinai sbocca sull’abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellìo e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso,
e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia; era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, le signore fece-
ro il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s’in-
camminò di nuovo verso la meta ormai vicina. Si giunse, si discese nell’androne; la vettura andò a
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Il Gattopardo
scomparire nell’immensità del cortile dal quale giungevano scalpiccii e baluginii degli equipaggi venuti prima. Lo scalone era di materiale modesto ma di proporzioni nobilissime; sui lati d’ogni scalino primitivi fiori spandevano il loro rozzo profumo; nel pianerottolo che divideva le due fughe, le livree amaranto di due servi immobili sotto la cipria, ponevano una nota di colore vivace nel grigio perlaceo dell'ambiente. Da due finestrotti alti e con grate dorate giungevano risa e mormorii infantili: i nipotini dei Ponteleone, esclusi dalla festa, si
rifacevano beffeggiando gli ospiti. Le signore appianavano le pieghe delle sete, Don Fabrizio col g:bus sottobraccio le sorpassava di tutta la testa benché fosse uno scalino indietro. Alla porta del primo salone s’incontrarono i padroni di casa: lui, Don Diego, canuto e panciuto che gli occhi arcigni soltanto salvavano dall’apparenza plebea; lei, donna Margherita, che di fra il corruscare
del diadema e della triplice collana di smeraldi mostrava il volto suo adunco di vecchio canonico. «Siete venuti presto! tanto meglio! ma state tranquilli, ivostri invitati non sono ancora comparsi.» Una nuo-
va pagliuzza infastidì le unghiette sensibili del Gattopardo. «Anche Tancredi è già qui.» Infatti nell’angolo opposto del salone il nipote, nero e sottile come una biscia, teneva circolo a tre o quattro
giovanotti e li faceva sbellicare dalle risa per certe sue storielle certamente arrischiate, ma teneva gli occhi, in-
quieti come sempre, fissi alla porta d’ingresso. Le danze erano di già cominciate e attraverso tre, quattro, cinque,
sei saloni giungevano dalla sala da ballo le note dell’orchestrina. «Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte.» Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazio-
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ne priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con
la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimé! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose. Evocato, creato quasi dalle parole lusinghiere e dalle ancor più lusinghiere cogitazioni, il Colonnello comparve alla scala. Procedeva fra un tintinnìo di pendagli, catenelle, speroni e decorazioni, nella ben imbottita divisa
a doppiopetto, cappello piumato sotto il braccio, sciabola ricurva poggiata sul polso sinistro: era uomo di mondo e di maniere rotondissime, specializzato, come tutta l’Europa ormai sapeva, in baciamani densi di significato; ogni signora sulle cui dita si posarono quella sera i mustacchi suoi odorosi fu posta in grado di rievocare con conoscenza di causa, l’attimo storico che le stampe
popolari avevano di già esaltato. Dopo aver sostenuto la doccia di lodi riversata su di lui dai Ponteleone, dopo aver stretto le due dita tesegli da Don Fabrizio, Pallavicino fu sommerso nello spumeggiare profumato di un gruppo di signore; i suoi tratti coscientemente virili emergevano al disopra delle spal-
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Il Gattopardo
le candide e giungevano sue frasi staccate: «Piangevo, contessa, piangevo come un bimbo» oppure «Lui era bello e sereno come un Arcangelo». La sua sentimentalità maschia rapiva quelle dame che le schioppettate dei suoi bersaglieri avevano di già rassicurato. Angelica e don Calogero tardavano e di già i Salina pensavano a inoltrarsi negli altri saloni, quando Tancredi piantò in asso il proprio gruppo e si diresse come un razzo verso l'ingresso: gli attesi erano giunti. Al disopra dell’ordinato turbinìo della crinolina rosea le bianche spalle di Angelica ricadevano verso le braccia forti e dolci; la testa si ergeva piccola e sdegnosa sul collo liscio di gioventù e adorno di perle volutamente modeste. Quando dall'apertura del lungo guanto g/acé essa fece uscire la mano non piccola ma di taglio perfetto, si vide brillare lo zaffiro napoletano. Don Calogero era nella di lei scia, sorcetto custode di una fiammeggiante rosa; negli abiti
di lui non vi era eleganza ma decenza sì, questa volta; solo suo errore fu quello di portare all’occhiello la croce della Corona d’Italia conferitagli di recente; essa, per altro, scomparve presto in una delle tasche clandestine del “frack” di Tancredi. Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l’impassibilità, questo fondamento della distinzione («Tu puoi esser espansiva e chiassosa soltanto con me, cara;
per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque»), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile.
I palermitani sono dopo tutto degli italiani, sensibili quindi quanti altri mai al fascino della bellezza ed al prestigio del denaro; inoltre Tancredi essendo notoriamente squattrinato era giudicato, per quanto attraente, un partito non desiderabile (a torto, del resto, come si vide
poi quando fu troppo tardi); egli era quindi più apprez-
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zato dalle signore sposate che dalle ragazze da marito. Questi meriti e demeriti congiunti fecero sì che l’accoglienza ricevuta da Angelica fosse di un calore imprevisto; a qualche giovanotto, a dir vero, avrebbe potuto rincrescere di non aver dissepolto per sé una così bella anfora colma di monete; ma Donnafugata era feudo di
Don Fabrizio e se egli aveva rinvenuto lì quel tesoro e lo aveva passato all'’amato Tancredi non si poteva rammaricarsene più di quanto ci si sarebbe amareggiati se avesse scoperto una miniera di zolfo in una sua terra: era roba sua, non c’era da dire.
Anche queste labili opposizioni, d’altronde, dileguavano dinanzi al raggiare di quegli occhi; a un certo momento vi fu una vera calca di giovanotti che volevano farsi presentare e richiedere un ballo: a ciascuno Angelica dispensava un sorriso della sua bocca di fragola, a ciascuno mostrava il proprio carzet nel quale a ogni polka, mazurka e valzer seguiva la firma possessiva: Falconeri. Da parte delle signorine le proposte di “darsi del tu” fioccavano e dopo un’ora Angelica si trovava a suo agio fra persone che del selvaggiume della madre e della taccagneria del padre non avevano la minima idea. Il contegno di lei non si smentì neppure un minuto: mai la si vide errare sola con la testa fra le nuvole, mai le braccia le si scostarono dal busto; mai la sua voce si alzò
al disopra del “diapason” (del resto abbastanza alto) delle altre signore. Poiché Tancredi le aveva detto il giorno prima «Vedi, cara, noi (e quindi anche tu, ades-
so) teniamo alle nostre case ed al nostro mobilio più che a qualsiasi altra cosa; nulla ci offende più della noncuranza rispetto a questo; quindi guarda tutto e loda tutto; del resto palazzo Ponteleone lo merita; ma poiché non sei più una provincialotta che si sorprende di ogni cosa, mescolerai sempre una qualche riserva alla lode; ammira sì ma paragona sempre con qualche archetipo visto prima, e che sia illustre». Le lunghe visite al palazzo di
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Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammirò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; e financo della fetta di torta che un premuroso giovin signore le portò disse che era eccellente e buona quasi come quella di “monsù Gaston”, il cuoco dei Salina. E
poiché “monsù Gaston” era il Raffaello fra i cuochi e gli arazzi di Pitti i“monsù Gaston” fra le tapezzerie, nessu-
no poté trovarvi da ridire, anzi tutti furono lusingati dal paragone ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita. Mentre Angelica mieteva allori, Maria-Stella spettegolava su di un divano con due vecchie amiche e Concetta e Carolina raggelavano con la loro timidità i giovanotti più cortesi, Don Fabrizio lui, errava per i saloni: baciava la mano delle signore che incontrava, indolenzi-
va le spalle degli uomini che voleva festeggiare, ma sentiva che il cattivo umore lo invadeva lentamente. Anzitutto, la casa non gli piaceva: i Ponteleone da settanta anni non avevano rinnovato l’arredamento ed esso era ancora quello del tempo della regina Maria-Carolina, e lui che credeva di avere dei gusti moderni s’indignava. “Ma, Santo Dio, con i redditi di Diego ci vorrebbe poco a metter fuori tutti questi ‘tremò’, questi specchi appannati! Si faccia fare un bel mobilio di palissandro e pel che, stia a vivere comodamente lui e non costringa i suoi invitati ad aggirarsi per queste catacombe. Finirò col dirglielo!” Ma non lo disse mai a Diego perché queste sue opinioni nascevano solo dal malumore e dalla sua tendenza alla contradizione, erano presto dimenticate e lui stesso non mutava nulla né a S. Lorenzo né a Donnafugata. Intanto però bastarono ad aumentargli il disagio.
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Le donne che erano al ballo non gli piacevano neppure: due o tre fra quelle anziane erano state sue amanti e vedendole adesso appesantite dagli anni e dalle nuore, faticava a ricreare per sé l’immagine di loro quali erano venti anni fa e s'irritava pensando che aveva sciupato i propri anni migliori a inseguire (ed a raggiungere) simili sciattone. Anche le giovani però non gli dicevano gran che, meno un paio: la giovanissima duchessa di Palma della quale ammirava gli occhi grigi e la severa soavità del portamento, Tutù Làscari anche dalla quale se fosse stato più giovane avrebbe saputo trarre accordi singolarissimi. Ma le altre... era bene che dalle tenebre di Donnafugata fosse emersa Angelica per mostrare alle palermitane cosa fosse una bella donna. Non gli si poteva dar torto: in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell’alimentazione aggravata dall’abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento,
avevano
riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti; esse passavano il tempo raggrumate
tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate, sembrava, soltanto a far da sfondo alle
tre o quattro belle creature che come la bionda Maria Palma, la bellissima Eleonora Giardinelli passavano sci-
volando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie. Più le vedeva e più s’irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto atrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondo-
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larsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola,
stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori. Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: «Maria! Maria!» esclamavano perpetuamente quelle povere figliole. «Maria! che bella casa!» «Maria! che bell’uomo è il colonnello Pallavicino!» «Maria! mi fanno male i piedi!”» «Maria! che fame che ho! quando si apre il “bouffet”?» Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, poiché non risultava ancora che i owsstiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo. Leggermente nauseato, il Principe passò nel salotto accanto: lì invece stava accampata la tribù diversa e ostile degli uomini: i giovani ballavano ed i presenti erano soltanto degli anziani, tutti suoi amici. Sedette un poco fra loro: lì la Regina dei Cieli non era più nominata invano; ma, in compenso, i luoghi comuni, i discorsi piatti
intorbidivano l’aria. Fra questi signori Don Fabrizio passava per essere uno “stravagante”; il suo interessamento alla matematica era considerato quasi come una peccaminosa perversione, e se lui non fosse stato proprio il principe di Salina e se non lo si fosse saputo ottimo cavallerizzo, infaticabile cacciatore e medianamente donnaiolo, le sue parallassi e i suoi telescopi avrebbero rischiato di farlo mettere al bando; però già gli si parlava poco perché l’azzurro freddo dei suoi occhi, intravisto fra le palpebre pesanti, faceva perdere le staffe agli interlocutori ed egli si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore. Si alzò; la maliriconia si era mutata in umor nero au-
tentico. Aveva fatto male a venire al ballo: Stella, Angelica, le figliuole se la sarebbero cavata benissimo da sole, e lui in questo momento sarebbe beato nello studiolo atti-
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guo alla terrazza in via Salina, ad ascoltare il chioccolìo della fontana ed a cercar di acchiappare le comete per la coda. “Tant'è, adesso ci sono; andarsene sarebbe scorte-
se. Andiamo a guardare i ballerini.”
La sala da ballo era tutta oro: liscio sui cornicioni cincischiato nelle inquadrature delle porte, damaschinato chiaro quasi argenteo su meno chiaro nelle porte stesse e nelle imposte che chiudevano le finestre e le annullavano conferendo così all’ambiente un significato orgoglioso di scrigno escludente qualsiasi riferimento all’esterno non degno. Non era la doratura sfacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunto, pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo; qua e là sui pannelli nodi di fiori rococò di un colore tanto svanito da non sembrare altro che un effimero rossore dovuto al riflesso dei lampadari. Quella tonalità solare, quel variegare di brillii e di ombre fecero tuttavia dolere il cuore di Don Fabrizio che se ne stava nero e rigido nel vano di una porta: in quella sala eminentemente patrizia gli venivano in mente immagini campagnole: il timbro cromatico era quello degli sterminati seminerî attorno a Donnafugata, estatici, imploranti clemenza sotto la tirannia del sole: anche in questa sala come nei feudi a metà Agosto, il raccolto era stato compiuto da tempo, immagazzinato altrove e, come là, ne rimaneva soltanto il ricordo nel colore delle stoppie; arse d’altronde e inutili. Il valzer le cui note traversavano l’aria calda gli sembrava solo una stilizzazione di quell’incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate, ieri, oggi, domani, sempre, sempre, sempre. La folla dei danzatori fra i quali pur contava tante persone vicine alla sua carne se non
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al suo cuore, finì col sembrargli irreale, composta di
quella materia della quale son tessuti i ricordi perenni che è più labile ancora di quella che ci turba nei sogni. Nel soffitto gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il cielo d'estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario. «Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell’oro zecchino!» Sedàra si
era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l’ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario. Don Fabrizio, ad un tratto, sentì che lo odiava; era all’affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro
oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva questi palazzi; si doveva a lui, ai suoi compari, ai loro rancori, al
loro senso d’inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planavano, alla
ricerca di prede putride, al disopra dei valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d’invitarlo ad andarsene fuori dai piedi. Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri. «Bello, don Calogero, bello. Ma ciò che supera tutto sono i nostri due ragazzi.» Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata
di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del “frack” di lui, il roseo della veste di lei,
frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, il-
lusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pa-
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vimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l’uno né l’altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi
mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio, dal profumo dei capelli di lei,
dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire. I due giovani si allontanavano, altre coppie passavano, meno belle, altrettanto commoventi, immerse cia-
scuna nella propria passeggera cecità. Don Fabrizio sentì spetrarsi il cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell’esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? voleva dire esser vili come le pescivendo-
le che sessant'anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato. Anche le scimmiette sui pouf, anche i vecchi babbei suoi amici erano miserevoli, insalva-
bili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello; all'orecchio di ciascuno
di essi sarebbe giunto un giorno lo scampanellìo che aveva udito tre ore fa dietro S. Domenico. Non era lecito odiare altro che l'eternità. E poi tutta la gente che riempiva i saloni, tutte quelle donne bruttine, tutti questi uomini sciocchi, questi due sessi vanagloriosi, erano il sangue del suo sangue, erano lui stesso; con essi soltanto si comprendeva, soltanto con
essi era a suo agio. “Sono forse più intelligente, sono certamente più colto di loro, ma sono della medesima risma, con essi debbo solidarizzare.” Si accorse che don Calogero parlava con Giovanni Finale del possibile rialzo del prezzo dei caciocavalli e che,
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Il Gattopardo
speranzosi di questa beatifica evenienza, i suoi occhi si erano fatti liquidi e mansueti. Poteva svignarsela senza rimorsi.
Fino a questo momento l’irritazione accumulata gli aveva dato energia; adesso con la distensione sopravvenne la stanchezza: erano di già le due. Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini, amati e fratelli, va bene, ma sempre noiosi. Lo trovò presto: la biblioteca, piccola, silenziosa, illuminata e vuota. Sedet-
te poi si rialzò per bere dell’acqua che si trovava su un tavolinetto. “Non c’è che l’acqua a esser davvero buona” pensò da autentico siciliano; e non si asciugò le goccioline rimaste sulle labbra. Sedette di nuovo. La biblioteca gli piaceva, ci si sentì presto a suo agio; essa non si
opponeva alla di lui presa di possesso perché era impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo lì dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della “Morte del Giusto” di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, fra sbuffi di biancheria
pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subito che erano loro il vero soggetto del quadro. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno. Subito dopo chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente sì, a parte che
la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine...) e
che era da sperare che Concetta, Carolina e le altre sa-
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rebbero state più decentemente vestite. Ma, in complesso, lo stesso. Come sempre la considerazione della propria morte lo rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo? Da questo passò a pensare che occorreva far fare delle riparazioni alla tomba di famiglia, ai Cappuccini. Peccato che non fosse più permesso appendere là i cadaveri per il collo nella cripta e vederli poi mummificarsi lentamente: lui ci avrebbe fatto una magnifica figura su quel muro, grande e lungo com'era, a spaventare le ragazze con l’immoto sorriso del volto incartapecorito, con i
lunghissimi calzoni di pigué bianco. Ma no, lo avrebbero vestito di gala, forse in questo stesso “frack” che aveva addosso. La porta si aprì. «Zione, sei una bellezza stasera. La
marsina ti sta alla perfezione. Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?» Tancredi era a braccio di Angelica: tutti e due erano ancora sotto l’influsso sensuale del ballo, stanchi. Angelica sedette, chiese a Tancredi un fazzoletto per asciugarsi le tempie; fu Don Fabrizio a darle il suo. I due giovani guardavano il quadro con noncuranza assoluta. Per entrambi la conoscenza della morte era puramente intellettuale, era per così dire un dato di coltura e basta, non
un'esperienza che avesse loro forato il midollo delle ossa. La morte, sì, esisteva, senza dubbio, ma era roba ad
uso degli altri; Don Fabrizio pensava che è per la ignoranza intima di questa suprema consolazione che i giovani sentono i dolori più acerbamente dei vecchi: per questi l'uscita di sicurezza è più vicina.
«Principe» diceva Angelica «abbiamo saputo che Lei era qui; siamo venuti per riposarci ma anche per chiederle qualche cosa; spero che non me la rifiuterà.» I suoi occhi ridevano di malizia, la sua mano si posava sulla
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manica di Don Fabrizio. «Volevo chiederle di ballare con me la prossima “mazurka”. Dica di sì, non faccia il cattivo: si sa che Lei era un gran ballerino.» Il Principe fu contentissimo, si sentiva tutto ringalluzzito. Altro che cripta dei Cappuccini! Le sue guance pelose si agitava-
no per il piacere. L'idea della “mazurka” però lo spaventava un poco: questo ballo militare, tutto battute di piedi e giravolte non era più roba per le sue giunture. Inginocchiarsi davanti ad Angelica sarebbe stato un piacere, ma se dopo avesse fatto fatica a rialzarsi? «Grazie, Angelica, mi ringiovanisci. Sarò felice di ubbidirti, ma la “mazurka” no, concedimi il primo valzer.» «Lo vedi, Tancredi, com'è buono lo zio? Non fa i ca-
pricci come te. Sa, Principe, lui non voleva che glielo chiedessi: è geloso.» Tancredi rideva: «Quando si ha uno zio bello ed elegante come lui è giusto esser gelosi. Ma, insomma, per questa volta non mi oppongo». Sorridevano tutti e tre, e Don Fabrizio non capiva se avessero complottato questa proposta per fargli piacere o per prenderlo in giro. Non aveva importanza: erano cari lo stesso.
Al momento di uscire Angelica sfiorò con la mano la tapezzeria di una poltrona. «Sono carine queste; un bel colore; ma quelle di casa sua, Principe...» La nave procedeva nell’abbrivo ricevuto. Tancredi intervenne: «Ba-
sta, Angelica. Noi due ti vogliamo bene anche al di fuori delle tue conoscenze in fatto di mobilio. Lascia stare le sedie e vieni a ballare». Mentre andava al salone da ballo Don Fabrizio vide che Sedàra parlava ancora con Giovanni Finale. Si udivano le parole “russella”, “primintìo”, “marzolino”: paragonavano i pregi dei grani da semina. Il Principe previde imminente un invito a Margarossa, il podere per il quale Finale si stava rovinando a forza di innovazioni agricole.
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DID:
La coppia Angelica-Don Fabrizio fece una magnifica figura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicatezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate; la zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull’onda letèa dei capelli di lei; dalla scollatura di Angelica saliva un profumo di bouquet è la Maréchale, soprattutto un aroma di pelle giovane e liscia. Alla memoria di lui risalì una frase di Tumèo: “Le sue lenzuola debbono avere l’odore del paradiso”. Frase sconveniente, frase villana; esatta però. Quel Tancredi...
Lei parlava. La sua naturale vanità era sodisfatta quanto la sua tenace ambizione. «Sono così felice, zione. Tutti sono stati tanto gentili, tanto buoni. Tancredi, poi, è un amore; e anche Lei è un amore. Tutto questo lo devo a Lei, zione, anche Tancredi. Perché se Lei non aves-
se voluto si sa come sarebbe andato a finire.» «Io non c'entro, figlia mia; tutto lo devi a te sola.» Era vero: nes-
sun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio. La avrebbe sposata calpestando tutto. Una fitta gli traversò il cuore: pensava agli occhi alteri e sconfitti di Concetta. Ma fu un dolore breve: ad ogni giro un anno gli cadeva giù dalle spalle; presto si ritrovò come a venti anni quando in questa sala stessa ballava con Stella, quando ignorava ancora cosa fossero le delusioni, il tedio, il resto. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi, “roba per gli altri”.
Tanto assorto era nei suoi ricordi che combaciavano così bene con la sensazione presente che non si accorse che ad un certo punto Angelica e lui ballavano soli. Forse istigate da Tancredi le altre coppie avevano smesso e stavano a guardare; anche i due Ponteleone erano lì: sembravano inteneriti, erano anziani e forse comprende-
vano. Stella pure era anziana, però, ma da sotto una porta i suoi occhi erano foschi. Quando l’orchestrina tacque un applauso non scoppiò soltanto perché Don
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Fabrizio aveva l’aspetto troppo leonino perché si arrischiassero simili sconvenienze. Finito il valzer, Angelica propose a Don Fabrizio di cenare alla tavola sua e di Tancredi; lui ne sarebbe stato
molto contento ma proprio in quel momento i ricordi della sua gioventù erano troppo vivaci perché non si rendesse conto di quanto una cena con un vecchio zio gli sarebbe riuscita ostica, allora, mentre Stella era lì a
due passi. “Soli vogliono stare gli innamorati o magari con estranei; con anziani e, peggio che peggio, con parenti, mai.”
«Grazie, Angelica, non ho appetito. Prenderò qualcosa all’impiedi. Vai con Tancredi, non pensate a me.» Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di verzzez/ che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d’argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici
candele: la perizia dell’orefice aveva maliziosamente espresso la facilità serena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso. Dodici pezzi di prim'ordine. “Chissà a quante ‘salme’ di terra equivarranno” avrebbe detto l’infelice Sedàra. Don Fabrizio ricordò come Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l’oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori. AI disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cin-
que ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva
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la monotona opulenza delle tables è thé dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i
pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all'estremità della tavola due monumentali
zuppiere d’argento contenevano il consorzzzé, ambra bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena. “Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio per tutto questo.” Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Lì immani dabà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco
nevosi di panna; beigrets
Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della Gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini.” Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant'Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I ‘trionfi della Gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!”
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Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, Don Fabrizio si aggirava alla ricerca di un posto. Da un tavolo Tancredi lo vide, batté la mano su una sedia per mostrargli che vi era da sedersi; accanto a lui Angelica cer-
cava di vedere nel rovescio di un piatto d’argento se la pettinatura era a posto. Don Fabrizio scosse la testa sorridendo per rifiutare. Continuò a cercare. Da un tavolo si udiva la voce sodisfatta di Pallavicino: «La più alta emozione della mia vita...» Vicino a lui vi era un posto vuoto. Ma che gran seccatore! Non era meglio dopo tutto ascoltare la cordialità forse voluta ma rinfrescante di Angelica, la lepidezza asciutta di Tancredi? No; meglio
annoiarsi che annoiare gli altri. Chiese scusa, sedette vicino al colonnello che si alzò al suo giungere il che gli riconciliò un poco delle simpatie gattopardesche. Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt'altro che un imbecille; era un “si-
gnore” anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe, soffocato abitualmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, faceva di nuovo capolino adesso che si trovava in un ambiente eguale a quello suo natìo, fuori dell’inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici. «Adesso la Sinistra vuol mettermi in croce n iaraa in Agosto, ho ordinato ai miei ragazzi di far fuoco addosso al Generale. Ma mi dica Lei, principe, cosa potevo fare d’altro con gli ordini scritti che avevo addosso? Debbo però confessarlo: quando lì ad Aspromonte mi son visto dinanzi quelle centinaia di scamiciati, con faccie di fanatici incurabili alcuni, altri con la grinta dei rivoltosi di mestiere, sono stato felice che questi ordini fossero tan-
to aderenti a ciò che io stesso pensavo; se non avessi fatto sparare quella gente avrebbe fatto polpette dei mici
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soldati e di me, e il guaio non sarebbe stato grande, ma avrebbe finito col provocare l’intervento francese e quello austriaco, un putiferio senza precedenti nel quale sarebbe crollato questo Regno d’Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come. E glie lo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini, forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuilleries e da palazzo Farnese; tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati con lui a Marsala, gente che credeva, i migliori fra essi, che si può compiere l’Italia con una serie di “quarantottate”. Lui, il Generale, questo lo sa perché al momento del mio famoso inginocchiamento mi ha stretto la mano e con un calore che non credo abituale verso chi, cinque minuti prima, vi ha fatto scaricare una pallottola nel piede; e sa cosa mi ha detto a bassa voce, lui che era la sola persona per bene che si trovasse da quella parte su quell’infausta montagna? “Grazie, colonnello.” Grazie di che, Le chie-
do? di averlo reso zoppo per tutta la vita? no, evidentemente; ma di avergli fatto toccar con mano le smargiassate, le vigliaccherie, peggio forse, di questi suoi dubbi seguaci.» «Ma voglia scusarmi, non crede Lei, colonnello, di
avere un po’ esagerato in baciamani, scappellate e complimenti?» «Sinceramente, no. Perché questi atti di omaggio era-
no genuini. Bisognava vederlo quel povero grand’uomo steso per terra sotto un castagno, dolorante nel corpo e ancor più indolenzito nello spirito. Una pena! Si rivelava chiaramente per ciò che è sempre stato, un bambino, con barba e rughe, ma un ragazzo lo stesso, avventato e ingenuo. Era difficile resistere alla commozione per esser stati costretti a fargli “bubu”. Perché d’altronde
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avrei dovuto resistere? Io la mano la bacio soltanto alle donne; anche allora, principe, ho baciato la mano alla
salvezza del Regno, che è anch'essa una signora cui noi militari dobbiamo rendere omaggio.» Un cameriere passava: Don Fabrizio disse che gli portassero una fetta di Mont-Blanc e un bicchiere di champagne. «E Lei, colonnello, non prende niente?» «Niente da mangiare, grazie. Forse anch'io una coppa
di champagne.» Poi proseguì; si vedeva che non poteva staccarsi da quel ricordo che, fatto come era di poche schioppettate e di molta destrezza, era proprio del tipo che affascinava i suoi simili. «Gli uomini del Generale, mentre i miei bersaglieri li disarmavano, inveivano e bestemmiavano.
E sa contro chi? contro lui, che era stato il solo a pagare di persona. Una schifezza, ma naturale: vedevano sfug-
girsi dalle mani quella personalità infantile ma grande che era la sola a poter coprire le oscure mene di tanti fra essi. E quand’anche le mie cortesie fossero state superflue sarei lieto lo stesso di averle fatte: qui da noi, in Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo.» Bevve il vino che gli avevano portato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza. «Lei non è stato sul
continente dopo la fondazione del Regno? Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuol cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio... Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si
parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di
Parte sesta
nuovo rosse.
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E come andrà a finire? C’è lo Stellone, si
dice. Sarà. Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fisse non sono.» Forse un po’ brillo, profetava. Don Fabrizio dinanzi alle prospettive inquietanti sentiva stringersi il cuore. Il ballo continuò a lungo e si fecero le sei del mattino: tutti erano sfiniti e avrebbero voluto essere a letto da almeno tre ore: ma andar via presto era come proclamare che la festa non era riuscita e offendere i padroni di casa che, poveretti, si erano data tanta pena.
I volti delle signore erano lividi, gli abiti sgualciti, gli aliti pesanti. «Maria! che stanchezza! Maria! che sonno!» Al disopra delle loro cravatte in disordine le facce degli uomini erano gialle e rugose, le bocche intrise di saliva amara. Le loro visite a una cameretta trascurata, a
livello della loggia dell’orchestra, si facevano più frequenti: in essa era disposta in bell’ordine una ventina di vasti pitali, a quell’ora quasi tutti colmi, alcuni sciabor-
danti per terra. Sentendo che il ballo stava per finire i servitori assonnati non cambiavano più le candele dei lampadari: i mozziconi corti spandevano nei saloni una
luce diversa, fumosa, di mal augurio. Nella sala del bf fet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri
con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell’alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea. La riunione andava sgretolandosi e attorno a donna Margherita vi era già un gruppo di gente che si congedava. «Bellissimo! un sogno! all'antica!» Tancredi dovette faticare per svegliare don Calogero che con la testa all’indietro si era addormentato su una poltrona appartata; i calzoni gli erano risaliti sino al ginocchio e al disopra delle calze di seta si vedevano le estremità delle sue mutande, davvero molto paesane. Il colonnello Pallavicino aveva le occhiaie anche lui; dichiarava però, a chi
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volesse sentirlo, che non sarebbe andato a casa e che sa-
rebbe passato direttamente da palazzo Ponteleone alla piazza d’armi; così infatti voleva la ferrea tradizione seguita dai militari invitati a un ballo. Quando la famiglia si fu messa in carrozza (la guazza aveva reso umidi i cuscini) Don Fabrizio disse che sarebbe tornato a casa a piedi; un po’ di fresco gli avrebbe fatto bene, aveva un’ombra di mal di capo. La verità era che voleva attingere un po’ di conforto guardando le stelle. Ve n’era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò; erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi. Nelle strade vi era di già un po’ di movimento: qualche carro con cumuli d’immondizia alti quattro volte l’asinello grigio che li trascinava. Un lungo barroccio scoperto portava accatastati i buoi uccisi poco prima al macello, già fatti a quarti e che esibivano i loro meccanismi più intimi con l’impudicizia della morte. A intervalli una qualche goccia rossa e densa cadeva sul selciato. Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al disopra del mare. Venere stava lì, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo. Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza?
Pi
PARTE SETTIMA
Luglio 1883
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati lì vigili anche quando non li udivamo. In tutti gli altri momenti gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua vita e lo lasciavano per sempre; la sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere, anzi questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interiori essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto però al presa-
gio vago del riedificarsi altrove di una individualità (gra-
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Il Gattopardo
zie a Dio) meno cosciente ma più larga: quei granellini di sabbia non andavano perduti, scomparivano sì ma si accumulavano chissà dove per cementare una mole più duratura. Mole però, aveva riflettuto, non era la parola esatta, pesante com'era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure: erano più come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andar
su nel cielo a formare le grandi nubi leggere e libere. Talvolta si sorprendeva che il serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste sono cose
che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai, di tutto; non Stella che di-
vorata dalla cancrena del diabete si era pure aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un attimo aveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: «Tu, zione, corteggi la
morte». Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo sì, la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato.
Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avvolte in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria,
sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo compatto, oleoso, iner-
Parte settima
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te, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobi-
le ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava lì sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui. Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestìo del porto alla partenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocìo incessante di quella città paranoica lo avevano esasperato, di quella esasperazione querula dei debolissimi che li stanca e li prostra, che suscita l’esasperazione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvida che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che la aveva spuntata; col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo
delle gallerie che si ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto
richiedere al nipote spaurito; si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei paesaggi calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici mentre di fatto erano tali e quali quelli siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto, sbugiardato subito dalle riarse colline peloritane, di
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nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale; si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni; la locomotiva che annaspava su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All'arrivo le solite maschere dei familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sorriso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla stazione, dal loro finto, e mal
finto, aspetto rallegrato che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto delle rassicuranti generalità; e fu allora, dopo esser
sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi, An-
gelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata. Probabilmente svenne, perché non ricordava come
fosse arrivato alla vettura; vi si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La carrozza non si era ancora mossa e da fuori gli giungeva all’orecchio il parlottare dei familiari. «Non è niente» «Il viaggio è stato troppo lungo» «Con questo caldo sveniremmo tutti.» “Arrivare sino alla villa lo stancherebbe troppo.” Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigi, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del
nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi come fosse tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La carrozza si mosse e svoltò sulla destra. «Ma dove andiamo, Tancredi?» La propria voce lo sorprese, vi avvertiva l’eco del rombo interiore. «Zione, andiamo
Parte settima
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all’albergo Trinacria; sei stanco e la villa è lontana; ti riposerai una notte e domani tornerai a casa. Non ti sem-
bra giusto?» «Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è ancora più vicina.» Questo però non era possibile: la casa non era montata, come ben sapeva; serviva solo
per occasionali colazioni in vista del mare; non vi era neppure un letto. «All’albergo starai meglio, zio; avrai tutte le comodità.» Lo trattavano come un neonato; di un neonato, del resto, aveva appunto il vigore. Un medico fu la prima comodità che trovò all’alberg0; era stato fatto chiamare in fretta, forse durante la sua
sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro; era un povero diavolo, il
medico di quel quartiere angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. AI di sopra della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di peli bianchi, un volto disilluso d’intellettuale famelico; quando estrasse dal taschino l’orologio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano trapassato la doratura posticcia. Anche lui era una povera otre che lo sdrucìo della mulattiera aveva liso e che spandeva senza saperlo le ultime goccie di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle goccie di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati. Presto dalla farmacia vicina giunsero le goccie; gli fecero bene; si sentì un po’ meno debole ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga. Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guancie infossate, la barba lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un Gattopardo in pessima
forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con
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Il Gattopardo
la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani? Avrebbe voluto contravvenire per quanto potesse a quest’assurda regola del camuffamento forzato; sentiva però che non poteva, che sollevare il rasoio
sarebbe stato come, un tempo, sollevare il proprio scrittoio. «Bisogna far chiamare un barbiere» disse a Francesco Paolo. Ma subito pensò: “No. È una regola del gioco, esosa ma formale. Mi raderanno dopo.” E disse forte: «Lascia stare; ci penseremo poi». L’idea di questo estremo abbandono del cadavere con il barbiere accovacciato sopra non lo turbò. Il cameriere entrò con una bacinella di acqua tiepida e una spugna, gli tolse la giacca e la camicia, gli lavò la faccia e le mani, come si lava un bimbo, come si lava un morto. La fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche l’acqua. Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le ombre delle diecine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine vecchie e diverse incupivano la camera. Fece aprire le persiane: l'albergo era in ombra ma la luce riflessa dal mare metallico era accecante; meglio questo
però che quel fetore di prigione; disse di portare una poltrona sul balcone; appoggiato al braccio di qualcheduno si trascinò fuori e dopo quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava un tempo riposandosi dopo sei ore di caccia in montagna. «Di’ a tutti
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di lasciarmi in pace; mi sento meglio; voglio dormire.» Aveva sonno davvero; ma trovò che cedere adesso al sopore era altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta
di torta subito prima di un desiderato banchetto. Sorrise. “Sono sempre stato un goloso saggio.” E se ne stava lì immerso nel grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno. Poté volgere la testa a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura nella cerchia dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa; irragiungibile com'era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce
del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte di terre e di succhi d’erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò
la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care. La fila inerte delle case dietro di lui, la diga dei monti, le distese flagellate dal sole, gli impedivano financo di pensare chiaramente a Donnafugata; gli sembrava una casa apparsa in sogno; non più sua, gli sembrava: di suo non aveva adesso che questo corpo sfinito, queste lastre di lavagna sotto i piedi, questo precipizio di acque tenebrose verso l’abisso. Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti
indomabili. Cerano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all’indirizzo di lei una letterina e poco
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Il Gattopardo
dopo un pacchettino con un braccialetto. Quello sì. Anche lui aveva “corteggiato la morte”, anzi con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere. Ma gli altri... C'erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie. Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l'occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una routine consueta e non più un’avventura audace e predatoria come era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foze-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da quelle delicate e sfumate cose che erano.
E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.
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Dalla camera vicina aperta sullo stesso balcone gli giungeva la voce di Concetta: «Non se ne poteva fare a meno; bisognava farlo venire; non mi sarei mai consola-
ta se non lo si fosse chiamato». Comprese subito: si trattava del prete. Un momento ebbe l’idea di rifiutare, di mentire, di mettersi a gridare che stava benissimo,
che non aveva bisogno di nulla. Presto si accorse del ridicolo delle proprie intenzioni: era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva morire, con tanto di prete accanto. Concetta aveva ragione. Perché poi avrebbe dovuto sottrarsi a ciò che era desiderato da migliaia di altri morenti? E tacque aspettando di udire il campanellino del Viatico. Quel ballo dai Ponteleone: Angelica aveva odorato come un fiore fra le sue braccia. Lo sentì presto: la parrocchia della Pietà era quasi di fronte. Il suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio, si fece acuto quando la porta si aprì: preceduto dal direttore dell’ Albergo, svizzerotto seccatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre Balsàno, il parroco entrò recando sotto
la pìsside il Santissimo custodito dall’astuccio di pelle. Tancredi e Fabrizietto sollevarono la poltrona, la riportarono nella stanza; gli altri erano inginocchiati. Più col gesto che con la voce, disse: «Via! via!». Voleva confessarsi. Le cose si fanno o non si fanno. Tutti uscirono,
ma quando dovette parlare si accorse che non aveva molto da dire: ricordava alcuni peccati precisi ma gli sembravano tanto meschini che davvero non valeva la pena di aver importunato un degno sacerdote in quella giornata di afa. Non che si sentisse innocente: ma era tutta la vita ad esser colpevole, non questo o quel singolo fatto; vi è un solo peccato vero, quello originale; e ciò non aveva più il tempo di dirlo. I suoi occhi dovettero esprimere un turbamento che il sacerdote poté scambiare per espressione di contrizione; come di fatto in un certo senso era; fu assolto. Il mento, a quanto sembrava,
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Il Gattopardo
gli poggiava sul petto perché il prete dovette inginocchiarsi lui per insinuargli la particola fra le labbra. Poi furono mormorate le sillabe immemoriali che spianano la via e il sacerdote si ritirò. La poltrona non fu più trascinata sul balcone. Fabrizietto e Tancredi gli sedettero vicino e gli tenevano ciascuno una mano; il ragazzo lo guardava fisso con la curiosità naturale in chi assista alla sua prima agonia, e niente di più; chi moriva non era un uomo, era un
nonno, il che è assai diverso. Tancredi gli stringeva forte la mano e parlava, parlava molto, parlava allegro: esponeva progetti cui lo associava, commentava i fatti politici; era deputato, gli era stata promessa la legazione di Lisbona, conosceva molti fatterelli segreti e sapidi. La voce nasale, il vocabolario arguto delineavano un fu-
tile fregio sul sempre più fragoroso erompere delle acque della vita. Il Principe era grato delle chiacchiere, e gli stringeva la mano con grande sforzo ma con trascurabile risultato. Era grato, ma non lo stava a sentire.
Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’'immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz'ora in occasione della nascita di Paolo,
quando sentì l'orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina. (L’orgoglio era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero); alcune conversazioni con Giovanni prima che questi scomparisse, alcuni monologhi, per esser veritieri, durante i
quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo; molte ore in osservatorio assorte nell’astrazio-
ne dei calcoli e nell’inseguimento dell’irraggiungibile; ma queste ore potévano davvero esser collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c'erano state.
Parte settima
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Nella strada sotto, fra l’albergo e il mare, un organetto si fermò e suonava nell’avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c'erano. Macinava “Tu che a Dio spiegasti l’ale”; quel che rimaneva di Don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie in Italia da queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone, buttò giù una moneta,
fece segno di tacere. Il
silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì. Tancredi. Certo, molto dell’attivo proveniva da lui: la sua comprensione tanto più preziosa in quanto ironica,
il godimento estetico di veder come si destreggiasse fra le difficoltà della vita, l’affettuosità beffarda come si
conviene che sia; dopo, i cani: Fufi, la grossa 770ps della sua infanzia, Tom, l’irruento barbone confidente ed
amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il posnter che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe più ritrovato; qualche cavallo, questi già più distanti ed estranei. Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il sen-
so di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo, alcuni minuti di
compunzione al convento fra l'odore di muffa e di confetture. Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano di già pepite miste a terra: i momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava per l'esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E perché no? L’esaltazione pubblica quando aveva ricevuto la medaglia in Sorbona, la sensazione delicata
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Il Gattopardo
di alcune sete di cravatte, l’odore di alcuni cuoi macerati, l’aspetto ridente, l'aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era sembrata cercare il
suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. Che gridio di folla. «Panini gravidi!» «Il Corriere dell'Isola!» E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato... E quell’atroce sole all’arrivo, quei sorrisi bugiardi, l’eromper via delle cateratte... Nell’ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto: il suo cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... 3V840.000 ... Si riprese. “Ho settantatré anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale
di due... tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni. Sentì che la mano non stringeva più quella dei nipoti. Tancredi si alzò in fretta ed uscì... Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di
spume e di cavalloni sfrenati... Doveva aver avuto un’altra sincope perché si accorse a un tratto di esser disteso sul letto: qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo accecava; nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo
ma non lo sapeva; attorno vi era una piccola folla, un gruppo di persone estranee che lo guardavano fisso con un'espressione impaurita: via via li riconobbe: Tancredi, Concetta, Angelica, Francesco-Paolo, Carolina, Fabri-
zietto; chi gli teneva il polso era il dottor Cataliotti; credette di sorridere a questo per dargli il benvenuto ma nessuno poté accorgersene: tutti, tranne Concetta, pian-
gevano; anche Tancredi che diceva: «Zio, zione caro!». Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane
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signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata
da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com'era si fosse arresa a lui; l'ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto.
PARTE OTTAVA
Maggio 1910
Chi andava a far visita alle vecchie signorine Salina trovava quasi sempre almeno un cappello di prete sulle sedie dell’anticamera. Le signorine erano tre, segrete lotte per l'egemonia casalinga le avevano dilaniate, e ciascuna di esse, caratteri forti a proprio modo, desiderava avere un
confessore particolare. Come in quell’anno 1910 si usava ancora le confessioni avvenivano in casa e gli scrupoli delle penitenti esigevano che esse fossero frequenti. A quel plotoncino di confessori bisognava aggiungere il cappellano che ogni mattina veniva a celebrare la Messa nella cappella privata, il Gesuita che aveva assunto la direzione spirituale generale della casa, i monaci e i preti che venivano a riscuotere elargizioni per questa o per
quella parrocchia od opera pia; e si comprenderà subito come il viavai di sacerdoti fosse incessante e perché l’anticamera di villa Salina ricordasse spesso uno di quei negozi romani intorno a piazza della Minerva che espongono in vetrina tutti i copricapo ecclesiastici immaginabili da quelli color di fiamma dei Cardinali a quelli color tizzone per curati di campagna. In quel tale pomeriggio di Maggio 1910 l’adunata di cappelli era addirittura senza precedenti. La presenza del Vicario Generale dell’ Archidiocesi era attestata dal suo vasto cappello'di fine castoro di un delizioso color “fuchsia” adagiato su di una sedia appartata, con accanto un guanto solo, il destro, in seta intrecciata del medesimo delicato colore; quella del suo segretario da una lu-
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cente peluche nera a peli lunghi, la calotta del quale era circondata da un sottile cordoncino violetto; quella di due padri gesuiti dai loro cappelli dimessi in feltro tenebroso, simboli di riserbo e modestia. Il copricapo del cappellano giaceva su una sedia isolata come si conviene a quello di persona sottoposta a inchiesta. La riunione di quel giorno, infatti, non era roba da poco. In esecuzione di disposizioni pontificie il cardinale-arcivescovo aveva iniziato una ispezione agli oratori
privati dell’Archidiocesi allo scopo di assicurarsi dei meriti delle persone che avevano l’autorizzazione di farvi officiare, della conformità dell’arredamento e del culto
ai canoni della Chiesa, dell’autenticità delle reliquie in esse venerate. La cappella privata delle signorine Salina era la più nota della città e una delle prime che Sua Eminenza si proponeva di visitare; e proprio per predisporre questo avvenimento, fissato per l’indomani mattina, Monsignor Vicario si era recato a villa Salina. Alla Curia Arcivescovile erano pervenute, sgocciolate attraverso chissà quali filtri, voci incresciose in relazione a quella cappella; non certo in rapporto ai meriti delle proprietarie ed al loro diritto di adempiere in casa propria ai loro doveri religiosi; questi erano argomenti fuori discussione, e neppure si poneva in dubbio la regolarità e la continuità del culto, cose che erano quasi perfette se si volesse trascurare
una
soverchia
riluttanza,
del resto
comprensibile, delle signorine Salina a far partecipare ai riti sacri persone estranee alla loro più intima cerchia familiare. L'attenzione del Cardinale era stata attratta su di una immagine venerata nella cappella e sulle reliquie, sulle diecine di reliquie, esposte: circa l’autenticità di es-
se erano corse le dicerie più inquietanti e si desiderava che la loro genuinità venisse comprovata. Il cappellano, che pur era un ecclesiastico di buona cultura e di migliori speranze, era stato rimproverato con energia per non aver sufficientemente aperto gli occhi alle vecchie signo-
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rine: egli aveva avuto, se è lecito esprimersi così, “una lavata di tonsura”. La riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e dei pappagalli. Su di un divano ricoperto di panno bleu con filettature rosse acquisto di trent'anni prima che stonava malamente con le tinte evanescenti del prezioso parato, sedeva la signorina Concetta con Monsignor Vicario alla destra; ai lati del divano due poltrone simili ad esso avevano accolto la signorina Carolina ed uno dei Gesuiti, padre Corti, mentre la signorina Caterina, che aveva le gambe paralizzate, se ne stava su una seggiolina a rotelle e gli altri ecclesiastici si accontentavano delle sedie ricoperte della medesima seta del parato che allora sembravano a tutti di minor pregio delle invidiate poltrone. Le tre sorelle erano tutte poco al di qua 0 poco al di là della settantina, e Concetta non era la maggiore; ma la lotta egemonica alla quale si è fatto cenno all’inizio essendosi chiusa da tempo con la debellatio delle avversarie, nessuno avrebbe mai pensato a contestarle il rango di padrona di casa. Nella persona di lei emergevano ancora i relitti di una passata bellezza: grassa e imponente nei suoi rigidi abiti di 720/7e nera, portava i capelli bianchissimi rialzati sulla testa in modo da scoprire la fronte quasi indenne; questo, insieme agli occhi sdegnosi e ad una contrazione astiosetta al di sopra del naso, le conferiva un aspetto autoritario e quasi imperiale; a tal punto che un suo nipote, avendo intravisto il ritratto di una zarina illustre in non sapeva più qual libro, la chiamava in privato La Grande Catherine, appellativo sconveniente che, del resto, la totale purezza di vita di Concetta e l’assoluta ignoranza del nipote in fatto di storia russa rendevano, a conti fatti, innocente. La conversazione durava da un’ora, il caffè era stato preso, e si faceva tardi; Monsignor Vicario riassunse i propri argomenti: «Sua Eminenza paternamente deside-
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ra che il culto celebrato in privato sia conforme ai più puri riti di Santa Madre Chiesa ed è proprio per questo che la sua cura pastorale si rivolge fra le prime alla vostra cappella perché egli sa come la vostra casa splenda, faro di luce, sul laicato palermitano, e desidera che dalla
ineccepibilità degli oggetti venerati scaturisca maggiore edificazione per voi stesse e per tutte le anime religiose». Concetta taceva, ma Carolina, la sorella maggiore esplose: «Adesso ci dovremo presentare alle nostre conoscenze come delle accusate; questa di una verifica alla nostra cappella è una cosa, scusatemi Monsignore, che non
avrebbe dovuto nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza». Monsignore sorrideva, divertito: «Signorina, Lei non immagina quanto la Sua emozione appaia grata ai miei occhi: essa è l’espressione della fede ingenua, assoluta, graditissima alla Chiesa e, certamente, a Gesù Cristo Nostro Signore; ed è soltanto per più far fiorire questa
fede e per purificarla che il Santo Padre ha raccomandato queste revisioni le quali, d’altronde, si vanno compiendo da qualche mese in tutto l’orbe cattolico». Il riferirsi al Santo Padre non era a dir vero opportuno. Carolina infatti faceva parte di quelle schiere di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa; ed alcune moderate innovazioni di Pio Decimo, l’abolizione di alcune secondarie feste di precetto in ispecie, la avevano già prima esasperata. «Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe
meglio.» Poiché le sorse il dubbio di essere andata troppo oltre, si segnò, mormorò un Gloria Patri. Concetta intervenne: «Non lasciarti trascinare a dire cose che non pensi, Carolina. Che impressione riporterà di noi Monsignore qui presente?». Questi, a dir vero, sorrideva più che mai; pensava sol-
tanto che si trovava di fronte a una bambina invecchiata
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nella ristrettezza di idee e nelle pratiche senza luce. E, benigno, indulgeva. «Monsignore pensa che si trovi dinanzi a tre sante donne», disse. Padre Corti, il Gesuita, volle rallentare la
tensione. «lo, Monsignore, sono fra quelli che meglio possono confermare le Vostre parole. Padre Pirrone, la cui memoria è venerata da quanti lo hanno conosciuto, mi narrava spesso, quando ero novizio, del santo ambiente nel quale le signorine sono state allevate; del resto il nome di Salina basterebbe a render conto di tutto.» Monsignore desiderava giungere a fatti concreti: «Piuttosto, signorina Concetta, adesso che tutto è stato chiarito, vorrei visitare, se loro lo permettono, la cappel-
la per poter preparare Sua Eminenza, alle meraviglie di fede che vedrà domattina».
Ai tempi del Principe Fabrizio nella villa non vi era cappella: tutta la famiglia si recava in chiesa nei giorni di festa ed anche Padre Pirrone per celebrare la propria messa doveva ogni mattina fare un pezzo di strada. Dopo la morte di Don Fabrizio però, quando per varie complicazioni ereditarie che sarebbe fastidioso narrare, la villa divenne esclusiva proprietà delle tre sorelle, esse pensarono subito a metter su il proprio oratorio. Venne
scelto un salotto un po’ fuor di mano che, con le sue mezze colonne di finto marmo incastrate nelle pareti destava un tenuissimo ricordo di basilica romana; dal cen-
tro del soffitto venne raschiata via una pittura sconvenientemente mitologica e si addobbò un altare. E tutto era fatto. Quando Monsignore entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al disopra dell’altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta esile, assai piacente, gli occhi rivolti al cielo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine
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sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una lettera spiegazzata; l’espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, né corone, né serpenti, né stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l’immagine di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l’espressione verginale fosse sufficiente a farla riconoscere. Monsignore si avvicinò, salì uno dei gradini dell’altare e, senza essersi segnato, rimase a guardare il quadro per qualche minuto, esprimendo una sorridente ammirazione, come se fosse stato
un critico d’arte. Dietro di lui le sorelle si facevano segni della croce e mormoravano delle Ave Marsa. Poi il prelato ridiscese il gradino, si volse: «Una bella pittura» disse, «molto espressiva». «Una immagine miracolosa, Monsignore, miracolosis-
sima!» spiegò Caterina la povera inferma, sporgendosi dal suo strumento di tortura ambulante. «Quanti miracoli ha fatto!» Carolina incalzava: «Rappresenta la Madonna della Lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa». «Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bel quadro e bisogna tenerlo da conto.» Poi si volse alle reliquie: settantaquattro ve ne erano e coprivano fitte le due parti di parete di fianco all’altare: ciascuna era chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l’indicazione di che cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentazione di autenticità. I documenti stessi, spesso voluminosi e gravati di sigilli, erano chiusi in una cassa ricoperta di damasco che stava in un angolo. Vi erano cornici di argento scolpito e di argento liscio, cornici di rame e di corallo, cornici di tartaruga; ve
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ne erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto azzurro; grandi e minuscole, ottagonali, quadrate, tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e cornici comperate ai magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote, ed esaltate dal loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori. Carolina era stata la vera creatrice di questa raccolta: aveva scovato donna Rosa, una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una
parrocchia disagiata o a un casato in decadenza. Se il nome del venditore non era fatto era soltanto a cagione di una comprensibile, anzi encomiabile, discrezione; e
d’altronde le prove di autenticità che essa recava e consegnava sempre erano lì chiare come il sole, scritte com'erano in latino o in caratteri misteriosi che venivano detti greci o siriaci. Concetta, amministratrice e teso-
riera, pagava. Dopo vi era la ricerca e l'adattamento delle cornici. E di nuovo l’impassibile Concetta pagava. Vi fu un momento, un paio d’anni durò, durante il quale la
smania collezionista turbò financo i sonni di Carolina e Caterina; al mattino si raccontavano l’un l’altra i loro so-
gni di miracolosi ritrovamenti, e speravano si realizzassero come talvolta avveniva dopo che i sogni erano stati confidati a donna Rosa. Quel che sognasse Concetta non lo sapeva nessuno. Poi donna Rosa morì e l’afflusso delle reliquie cessò quasi del tutto; del resto era sopravvenuta una certa sazietà.
Monsignore guardò con una certa fretta alcune delle cornici più a portata di vista. «Tesori» diceva «tesori;
che bellezza di cornici.» Poi, congratulandosi dei belli arredi (proprio così disse, dantescamente) e promettendo di ritornare l'indomani con Sua Eminenza («sì, alle
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nove precise»), si genufletté e si segnò rivolto a una modesta Madonna di Pompei appesa su una parete laterale, e uscì dalla cappella. Presto le sedie rimasero vedove di cappelli, e gli ecclesiastici salirono sulle carrozze dell’Arcivescovado che, con i loro cavalli morelli, aveva-
no aspettato in cortile. Monsignore tenne ad avere nella propria carrozza il cappellano, padre Titta, che da questa distinzione fu molto confortato. Le vetture si mossero e Monsignore taceva, si costeggiò la ricca villa Falconeri, con la “bougainvillea” fiorita che si spandeva oltre il muro del giardino splendidamente curato; quando si giunse alla discesa verso Palermo, fra gli aranceti, Monsignore parlò. «E così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha ricevuto l’appuntamento ed aspetta l’innamorato. Non venga a dirmi che anche Lei credeva che fosse una immagine sacra.» «Monsignore, sono colpevole; lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina. Lei questo non può saperlo.» Monsignore rabbrividì al ricordo. «Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e questo sarà preso in considerazione.» Carolina era andata a sfogare la propria ira in una lettera a Chiara, la sorella sposata a Napoli; Caterina, stan-
cata dalla lunga conversazione penosa, era stata posta a letto; Concetta rientrò nella sua camera solitaria. Era
una di quelle stanze (sono numerose a tal punto che si potrebbe esser tentati di dire che lo sono tutte) che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al
visitatore ignaro; l’altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente delle cose, al loro padrone an-
zitutto cui si palesano nella propria squallida essenza. Soleggiata era questa camera, e si affacciava sul profondo giardino; in un angolo un alto letto con quattro guan-
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ciali (Concetta soffriva del cuore e doveva dormire quasi seduta); niente tappeti ma un bel pavimento bianco con intricate filettature gialle, un monetario prezioso con diecine di cassettini ricoperti di pietra dura e di scagliola; scrivania, tavolo centrale e tutto il mobilio di un brioso stile maggiolino di esecuzione paesana, con figure di cacciatori, di cani, di selvaggina che si affaccendavano ambrate sul fondo di palissandro; arredamento questo che Concetta stessa stimava antiquato e persino di pessimo gusto e che, venduto all’asta che seguì ia morte di lei, forma oggi l'orgoglio di uno spedizioniere dovizioso quando la “sua signora” offre un cocktail alle amiche invidiose. Sulle pareti ritratti, acquarelli, immagini sacre;
tutto pulito, in ordine. Due cose soltanto potevano forse apparire inconsuete: nell’angolo opposto al letto un torreggiare di quattro enormi casse di legno dipinte in verde, ciascuna con un grosso lucchetto; e davanti ad esse, per terra, un mucchietto di pelliccia malandata. Al visi-
tatore ingenuo la cameretta avrebbe, se mai, strappato un sorriso, tanto chiaramente vi si rivelava la bonarietà, la cura di una vecchia zitella. Per chi conoscesse i fatti, per Concetta, essa era un in-
ferno di memorie mummificate. Le quattro casse verdi contenevano dozzine di camicie da giorno e da notte, di vestaglie, di federe, di lenzuola accuratamente suddivise
in “buone” e “andanti”: il corredo di Concetta invano confezionato cinquanta anni fa; quei chiavistelli non si aprivano mai per timore che saltassero fuori demoni incongrui e sotto l’ubiquitaria umidità palermitana la roba ingialliva, si disfaceva, inutile per sempre e per chiunque. I ritratti erano quelli di morti non più amati, le fotografie quelle di amici che in vita avevano inferto ferite e che per ciò soltanto non erano dimenticati in morte; gli acquarelli mostravano case e luoghi in maggior parte venduti, anzi malamente barattati, da nipoti sciuponi; i
santi al muro erano come fantasmi che si temono ma cui
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in fondo non si crede più. Se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti oc-
chi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l'abbandono all’immondezzaio: ma Concetta vi si opponeva sempre: essa teneva a non distaccarsi dal solo ricordo del suo passato che non le destasse sensazioni penose. Ma le sensazioni penose di oggi (a una certa età ogni giorno presenta puntuale la propria pena) si riferivano tutte al presente. Assai meno infervorata di Carolina, assai più sensibile di Caterina, Concetta aveva compreso il
significato della visita di Monsignor Vicario e ne prevedeva le conseguenze: l’allontanamento ordinato per tutte, o quasi, le reliquie; la sostituzione del quadro sull’altare, l'eventuale necessità di riconsacrare la cappella. All’autenticità di quelle reliquie essa aveva creduto assai poco ed aveva pagato con l’animo indifferente di un padre che salda il conto di giocattoli che a lui stesso non interessano ma che son serviti a tener buoni i ragazzi; la rimozione di quegli oggetti le era indifferente; ciò che la pungeva, ciò che costituiva l’assillo di quel giorno era la brutta figura che casa Salina avrebbe fatto adesso di fronte alle autorità ecclesiastiche e fra poco di fronte alla città intera; la riservatezza della Chiesa era quanto di meglio potesse trovarsi in Sicilia ma ciò non voleva ancora significare molto; fra un mese, fra due, tutto sareb-
be dilagato come tutto dilagava in quest'isola che anziché la Trinacria dovrebbe avere a proprio simbolo il siracusano Orecchio di Dionisio che fa rimbombare il più lieve sospiro in un raggio di cinquanta metri. Ed essa alla stima della Chiesa aveva tenuto. Il prestigio del nome in sé stesso era lentamente svanito. Il patrimonio diviso e ridiviso nella migliore ipotesi equivaleva a quel-
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Il Gattopardo
lo di tanti altri casati inferiori, ed era enormemente infe-
riore a ciò che possedevano alcuni opulenti industriali; ma nella Chiesa, nei rapporti con essa, i Salina avevano
mantenuto la loro preminenza; bisognava vedere come Sua Eminenza riceveva le tre sorelle quando andavano a fargli visita per il Natale! Ma adesso? Una cameriera entrò. «Eccellenza, sta arrivando la
Principessa. L’automobile è nel cortile.» Concetta si alzò, si ravviò i capelli, buttò sulle spalle uno scialle di
merletto nero, riassunse lo sguardo imperiale; e giunse in anticamera mentre Angelica saliva gli ultimi gradini della scalinata esterna. Soffriva di vene varicose, e le sue
gambe, che sempre erano state un pochino troppo corte, la sostenevano male e veniva su appoggiata al braccio del proprio servitore il cui lungo pastrano nero spazzava, salendo, gli scalini. «Concetta cara!» «Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!» Dall’ultima visita erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi,
ma l’intimità fra le due cugine (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a quella che pochissimi anni dopo avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle contigue trincee), l'intimità era tale che cinque giorni potevano veramente sembrar molti. In Angelica che era vicina ai settant'anni si scorgevano ancora molti ricordi di bellezza; la malattia che tre
anni dopo la avrebbe trasformata in una larva miseranda era già in atto ma se ne stava acquattata nelle profondità del suo sangue; gli occhi verdi erano ancora quelli di un tempo, gli anni li avevano soltanto lievemente appannati e le rughe del collo erano nascoste dai soffici nastri neri della capote che essa, vedova da tre anni, portava con una civetteria che poteva sembrare nostalgica. «Hai ragione» diceva a Concetta mentre si dirigevano allacciate verso un salotto «hai ragione, ma con queste feste immi-
nenti per il cinquantenario dei Mille non c’è più pace.
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Tre giorni fa figurati che mi comunicano di avermi chiamato a far parte del Comitato di onore; un omaggio alla memoria del nostro Tancredi, certo, ma quanto da fare
per me! Pensare all’alloggio dei superstiti che verranno da ogni parte d’Italia, disporre gli inviti per le tribune senza offendere nessuno; premurarsi a far aderire tutti i sindaci dei comuni dell’isola.
A proposito cara, il Sinda-
co di Salina è un clericale ed ha rifiutato di prender parte alla sfilata; così ho pensato subito a tuo nipote, a Fabrizio: era venuto a farmi visita e tac! lo ho acchiappato; non ha potuto dirmi di no e così alla fine del mese lo vedremo sfilare in palamidone per via Libertà davanti a un bel cartello con tanto di “Salina” a lettere di scatola. Non ti sembra un bel colpo? Un Salina renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e della nuova Sicilia. Ho pensato anche a te, cara; ecco il tuo invito
per la tribuna di onore, proprio alla destra di quella reale.» E trasse fuori dalla borsetta parigina un cartoncino rosso-garibaldino, dell’identico colore della fascetta di seta che Tancredi per qualche tempo aveva portato al disopra del colletto. «Carolina e Caterina saranno scontente» continuò a dire in modo del tutto arbitrario «ma potevo disporre di un solo posto: del resto tu ne hai più diritto di loro, eri tu la cugina preferita del nostro Tancredi.» Parlava molto e parlava bene; quaranta anni di vita in comune con Tancredi, coabitazione tempestosa e interrotta ma lunga a sufficienza, avevano cancellato da tempo fin le ultime tracce dell’accento e delle maniere di Donnafugata; essa si era mimetizzata al punto da fare, intrecciandole e storcendole, quel gioco leggiadro di mani che era una delle caratteristiche di Tancredi. Leggeva molto e sul tavolo del suo salotto i più recenti libri di France e di Bourget si alternavano con quelli di D'Annunzio e della Serao; e nei salotti palermitani passava per una specialista dell’architettura dei castelli fran-
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cesi della Loira dei quali parlava spesso con esaltazione imprecisa contrapponendo, forse inconsciamente, la loro serenità rinascimentale all’irrequietezza barocca del palazzo di Donnafugata contro il quale nutriva un’avversione inspiegabile per chi non avesse conosciuto la di lei infanzia sottomessa e trascurata. «Ma che testa ho, cara! Dimenticavo di dirti che fra
poco verrà qui il senatore Tassoni; è mio ospite a villa Falconeri e desidera conoscerti: era un grande amico del povero Tancredi, un suo compagno d’arme, anche, e pare che abbia sentito parlare di te da lui. Caro il nostro Tancredi!» Il fazzoletto col sottile bordino nero uscì dalla borsetta, asciugò una lacrima dagli occhi ancor belli. Concetta aveva sempre intercalato qualche frase nel ronzìo continuo della voce di Angelica; al nome di Tassoni però tacque. Rivedeva la scena, lontanissima ma chiara, come ciò che si scorge attraverso un cannocchia-
le rovesciato: la grande tavola bianca circondata da tutti quei morti; Tancredi vicino a lei, scomparso adesso anch'egli come del resto essa stessa, di fatto, era morta; il
racconto brutale, il riso isterico di Angelica, le proprie non meno isteriche lagrime. Era stata la svolta della sua vita, quella; la strada imboccata allora la aveva condotta fin qui, fino a questo deserto che non era neppure abitato dall'amore, estinto, e dal rancore, spento.
«Ho saputo delle seccature che hai con la Curia. Quanto sono noiosi! Ma perché non me lo hai fatto sapere prima? Qualcosa avrei potuto fare: il Cardinale ha dei riguardi per me; ho paura che adesso sia troppo tardi. Ma lavorerò nelle quinte. Del resto non sarà nulla.» Il senatore Tassoni, che giunse presto, era un vispo elegantissimo vecchietto. La sua ricchezza, che era grande e crescente, era stata conquistata attraverso competizioni e lotte; quindi anziché infiacchirlo lo aveva mantenuto in continuo stato energetico che adesso superava gli anni e li manteneva focosi. Nei pochi suoi mesi di
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servizio nell’Esercito Meridionale di Garibaldi aveva contratto un piglio militaresco destinato a non cancellarsi mai; unito alla cortesia ciò aveva formato un filtro
che gli aveva procurato prima molti dolci successi e che adesso, mescolato al numero delle sue azioni, gli serviva egregiamente per terrorizzare i Consigli di Amministra-
zione bancari e cotonieri, mezza Italia e gran parte dei paesi balcanici cucivano i propri bottoni con i filati della ditta Tassoni & C. «Signorina», andava dicendo a Concetta mentre sedeva accanto a lei su di uno sgabellino basso adatto per un paggio e che appunto per questo aveva scelto «signorina, si realizza adesso un sogno della mia gioventù lontanissima. Quante volte nelle gelide notti di bivacco sul Volturno o attorno agli spalti di Gaeta assediata, quante volte il nostro indimenticabile Tancredi mi ha parlato di Lei; mi sembrava di conoscere la sua persona, di aver frequentato questa casa fra le cui mura la sua giovinezza indomita trascorse; sono felice di potere, benché con tanto ritardo,
deporre il mio omaggio ai piedi di chi fu la consolatrice di uno dei più puri eroi del nostro Riscatto!» Concetta era poco avvezza alla conversazione con persone che non conoscesse fin dall’infanzia; era anche
poco amante di letture; quindi non aveva avuto modo d’immunizzarsi contro la retorica ed anzi ne subiva il fascino sino a diventarne succube. Si commosse alle parole del senatore: dimenticò il semi-centenario aneddoto guerresco, non vide più in Tassoni il violatore di conventi, il beffeggiatore di povere religiose spaventate, ma un vecchio, un sincero amico di Tancredi che parlava di lui con affetto, che recava a lei, ombra, un messaggio del
morto trasmesso attraverso quegli acquitrini del tempo che gli scomparsi possono tanto di rado guadare. «E che cosa Le diceva di me il mio caro cugino?» chiese a mezza voce con una timidezza che faceva rivivere la diciottenne in quell’ammasso di seta nera e di capelli bianchi.
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«Ah! molte cose! parlava di lei quasi quanto parlasse di donna Angelica; questa era per lui l’amore, Lei invece era l’immagine dell’adolescenza soave, di quell’adolescenza che per noi soldati passa tanto in fretta.» Il gelo strinse di nuovo il vecchio cuore; e già Tassoni aveva alzato la voce, si rivolgeva ad Angelica: «Si ricorda, principessa, quanto egli ci disse a Vienna dieci anni
fa?» Si rivolse di nuovo a Concetta per spiegare. «Ero andato lì con la delegazione italiana per il trattato di commercio; Tancredi mi ospitò all'ambasciata col suo grande cuore di amico e di camerata, con la sua affabilità di gran signore. Forse il rivedere un compagno d’armi in quella città ostile lo aveva commosso e quante cose del suo passato ci raccontò allora! In un retropalco dell'Opera, fra un atto e l’altro del “Don Giovanni”, ci
confessò con la sua ironia impareggiabile, un peccato, un suo imperdonabile peccato, come diceva lui, commesso contro di lei; sì, contro di lei, signorina.» S'inter-
ruppe un attimo per dare agio di prepararsi alla sorpresa. «Si figuri che ci raccontò come una sera, durante un pranzo a Donnafugata, si fosse permesso d’inventare una frottola e di raccontarla a Lei; una frottola guerresca in relazione ai combattimenti di Palermo nella quale figuravo anche io; e come Lei lo avesse creduto e si fosse offesa perché il fatterello narrato era un po’ audace, se-
condo l'opinione di cinquant'anni fa. Lei lo aveva rimproverato. “Era tanto cara” diceva “mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti e mentre le labbra si gonfiava-
no graziosamente per l’ira come quelle di un cucciolo; era tanto cara che se non mi fossi trattenuto la avrei abbracciata lì davanti a venti persone ed al mio terribile zione.” Lei, signorina, lo avrà dimenticato; ma Tancredi se ne ricordava bene, tanta delicatezza vi era nel suo
cuore; se ne ricordava anche perché il misfatto lo aveva commesso proprio il giorno nel quale aveva incontrato donna Angelica per la prima volta.» Ed accennò verso la
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principessa uno di quei gesti di omaggio con la destra abbassantesi nell’aria la cui tradizione goldoniana si conservava soltanto fra i Senatori del Regno. La conversazione continuò per qualche tempo ma non può dirsi che Concetta vi prendesse gran parte. L’improvvisa rivelazione penetrò nella sua mente con lentezza e dapprima non la fece troppo soffrire. Ma quando congedatisi e andati via i visitatori essa rimase sola, cominciò a veder più chiaro e quindi a patire di più. Gli spettri del passato erano esorcizzati da anni; si trovavano, naturalmente, nascosti in tutto ed erano essi
che conferivano amarezza al cibo, tedio alle compagnie;
ma il loro volto vero non si era già da molto tempo mostrato; adesso saltava fuori avvolto nella funebre comicità dei guai irreparabili. Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; la eternità amorosa
dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona
da cinquant'anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava uffi-
cialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando es-
sa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subìto, di torto patito, dall’animo-
sità contro il padre gente sentimento sentimenti derivati tutto il suo modo
che la aveva sacrificata, da uno strugriguardo a quell’altto morto; questi che avevano costituito lo scheletro di di pensare si disfacevano anch'essi;
non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa
stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter
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attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati. Se le cose erano come Tassoni aveva detto, le lunghe ore passate in saporosa degustazione di odio dinanzi al ritratto del padre, l’aver celato qualsiasi fotografia di Tancredi per non esser costretta a odiare anche lui, erano state delle balordaggini; peggio, delle ingiustizie crudeli; e soffrì quando le tornò in mente l’accento caloroso, l’accento supplichevole di Tancredi mentre pregava lo zio di lasciarlo entrare nel convento; erano state parole di amore verso di lei, quelle, parole non comprese, poste in fuga dall’orgoglio e che di fronte alla sua asprezza si erano ritirate con la coda fra le gambe come cuccioli percossi. Dal fondo atemporale dell’essere un dolore nero salì a macchiarla tutta dinanzi a quella rivelazione della verità. Ma era poi la verità questa? In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo, la carità, tutte
le passioni le buone quanto le cattive si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso. E l’infelice Concetta voleva trovare la verità di sentimenti non espressi ma soltanto intravisti mezzo secolo fa! La verità non c’era più; la sua precarietà era stata sostituita dall’ir-
refutabilità della pena. Intanto Angelica e il Senatore compivano il breve tragitto sino a villa Falconeri. Tassoni era preoccupato: «Angelica» disse (con lei aveva avuto una breve relazione galante trent'anni prima e conservava quella insostituibile intimità coriferita da poche ore passate fra il medesimo paio di lenzuola) «temo di aver in qualche modo urtato vostra cugina; avete notato come era silenziosa alla fine della visita? mi dispiacerebbe, è una cara signo-
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ra». «Credo bene che la avete urtata, Vittorio» disse An-
gelica esasperata da una duplice benché fantomatica gelosia «essa era pazzamente innamorata di Tancredi; ma lui non aveva mai badato a lei.» E così una nuova palata di terra venne a cadere sul tumulo della verità. Il Cardinale di Palermo era davvero un sant'uomo; e
adesso che da molto tempo non c’è più rimangono vivi i ricordi della sua carità e della sua fede. Mentre viveva,
però, le cose stavano diversamente: non era siciliano, non era neppure meridionale o romano e quindi l’attività sua di settentrionale si era molti anni prima sforzata a far lievitare la pasta inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in particolare. Coadiuvato da due o tre segretari del proprio paese si era illuso, nei primi anni, che fosse possibile rimuovere abusi, poter sgombrare il terreno dalle più flagranti pietre d’inciampo. Presto si era dovuto accorgere che era come sparar fucilate nella bambagia: il piccolo foro prodotto sul momento veniva colmato dopo brevi istanti da migliaia di fibrille complici e tutto restava come prima, con più il costo della polvere, il deterioramento del materiale e il ridicolo sforzo inutile. Come per tutti coloro che, in quei tempi, volevano riformare checchessia nel carattere siciliano si era presto formata su di lui la reputazione che fosse un fesso (il che nelle circostanze ambientali era esatto) e doveva accontentarsi di compiere passive opere di misericordia che del resto non facevano se non diminuire ancora la sua popolarità se esse esigevano dai beneficati la benché minima fatica come, per esempio, quella di recarsi al Palazzo Arcivescovile per ricevere gli aiuti. Il prelato anziano che la mattina del quattordici Maggio si recò a villa Salina era quindi un uomo buono ma disilluso che aveva finito con l’assumere verso i propri diocesani una attitudine di sprezzante misericordia (tal-
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volta, dopo tutto, ingiusta) che lo spingeva ad adottare dei modi bruschi e taglienti che sempre più lo trascinavano nella palude della disaffezione. Le tre sorelle Salina, come sappiamo, erano fonda-
mentalmente offese dall’ispezione alla loro cappella: ma, anime infantili e, dopo tutto femminili com'erano, ne pregustavano anche le sodisfazioni marginali ma innegabili: quella di ricevere in casa loro un Principe della Chiesa, quella di poter mostrargli il fasto di casa Salina che esse in buona fede credevano ancora intatto, ed innanzi tutto quella di poter per mezz'ora vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile rosso e di poter ammirare i toni vari ed armonizzati delle sue diverse porpore e la marezzatura delle pesantissime sete. Le poverette però erano destinate a rimaner deluse anche in quest’ultima modesta speranza: quando esse, discese al basso della scala esterna videro uscire dalla vettura Sua Eminenza dovettero constatare che essa si era posta in piccola tenuta: sulla severa tonaca nera soltanto minuscoli bottoncini purpurei stavano ad indicare il suo altissimo rango; malgrado il volto di oltraggiata bontà il cardinale non aveva maggiore imponenza dell’arciprete di Donnafugata. Fu cortese ma freddo e con troppa sapiente mistura seppe mostrare il proprio rispetto per casa Salina e le virtù individuali delle signorine unito al proprio disprezzo per la loro inettitudine e formalistica devozione; non rispose parola alle esclamazioni di Monsignor Vicario sulla bellezza dell'arredamento dei salotti che traversarono, rifiutò di accettare checchessia del sontuoso rinfresco preparato («grazie, signorina, soltanto un po’ di acqua: oggi è la vigilia della festa del mio Santo Patrono»), non si sedette neppure. Andò in cappella, si genuflesse un attimo dinanzi alla Madotina di Pompei, ispezionò di sfuggita le reliquie. Però benedisse con pastorale mansuetudine le padrone di casa e la servitù inginocchiate in sala d’ingresso, e dopo: «Signorina» disse a Concetta che aveva sul
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volto i segni di una notte insonne «per tre o quattro giorni non si potrà celebrare nella cappella il Servizio Divino; ma sarà mia cura di far provvedere prestissimo alla riconsacrazione. A mio parere l’immagine della Madonna di Pompei occuperà degnamente il posto del quadro che è al disopra dell’altare, il quale, del resto, potrà unirsi alle
belle opere d’arte che ho ammirato traversando i vostri salotti. In quanto alle reliquie lascio qui don Pacchiotti, mio segretario e sacerdote competentissimo; egli esaminerà i documenti e comunicherà loro i risultati delle sue ricerche; e quanto deciderà sarà come se lo avessi deciso 10 stesso». Da tutti si lasciò benignamente baciare l’anello, e, pesante, salì in vettura insieme al piccolo seguito. Le carrozze non erano ancora giunte allo svolto di Falconeri che Carolina con le mascelle serrate e gli occhi saettanti esclamava: «Per me questo Papa è un turco», mentre si era costretti a far fiutare dell’etere solforico a Caterina. Concetta s’intratteneva calma con don Pacchiotti che aveva finito con l’accettare una tazza di caffè e un babà. Poi il sacerdote chiese la chiave della cassa dei documenti, domandò permesso e si ritirò nella cappella non senza aver prima estratto da una sua borsa un martelletto, una seghetta, un cacciavite, una lente d’ingrandimento e un paio di matite. Era stato allievo della Scuola di Paleografia Vaticana, inoltre era Piemontese: il suo lavoro fu lungo e accurato; le persone di servizio che
passavano davanti all'ingresso della cappella udivano martellatine, stridorini di viti e sospiri. Dopo tre ore ri-
comparve con la tonaca impolveratissima e le mani nere ma lieto e con un'espressione di serenità sul volto occhialuto: si scusava perché recava in mano un grande cestino di vimini: «Mi sono permesso di appropriarmi di questo cestino per riporvi la roba scartata; posso po-
sarlo qui?». E depose in un angolo il suo aggeggio che
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straripava di carte stracciate, di cartigli, di scatoline
contenenti ossami e cartilagini. «Sono lieto di dire che ho trovato cinque reliquie perfettamente autentiche e degne di essere oggetto di devozione. Le altre sono lì» disse mostrando il cestino. «Potrebbero dirmi, signorine, dove posso spazzolarmi e ripulirmi le mani?» Ricomparve dopo cinque minuti e si asciugava le mani con un grande asciugamano sull’orlo del quale un Gattopardo in filo rosso danzava. «Dimenticavo di dire che le cornici sono in ordine sul tavolo della cappella; alcune sono veramente belle.» Si congedava. «Signorine, i miei rispetti.» Ma Caterina si rifiutò di baciargli la mano. «E di quel che c’è nel cestino cosa dobbiamo fare?» «Assolutamente quel che vogliono, signorine; conservarle, o buttarle nell’immondizia; non hanno valore al-
cuno.» E poiché Concetta voleva far ordinare una carrozza per riaccompagnarlo: «Non si dia pena, signorina;
farò colazione dagli Oratoriani, qui a due passi: non ho bisogno di nulla». E ricollocati nella borsa i propri strumentini, se ne andò con piè leggero. Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po’ le portarono una lettera. La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo: “Carissima
Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si raccomanda al tuo bor souvenir. Io verrò presto a vederti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica.” Continuò
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a non sentir niente: il vuoto interiore era completo; sol-
tanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. «Annetta» disse «questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.» Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti do-
po quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.
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IL GATTOPARDO: FONTI E VARIANTI
Le fonti superstiti del Gattopardo, come accennato nella Premessa, sono in ordine di redazione le seguenti: 1) Un quaderno manoscritto formato protocollo, il numero 7 della prima stesura, recante sulla copertina: 7 /
Giuseppe Tomasi / Il Gattopardo / Parte IV / (ricostruzione valevole) / (inizio). Datazione approssimativa: giugno-luglio 1956. Esso è il solo quaderno rimasto della prima stesura. La mia ipotesi è che esso sia una prima stesura
dello sdoppiamento della originaria parte III, successivamente divenuta parte III e parte IV. Se la memoria mi soccorre ritengo difatti che «Il ciclone amoroso» della parte IV fosse la principale aggiunta del capitolo sdoppiato. Il quaderno contiene anche una breve sezione iniziale, che potremmo battezzare «Don Fabrizio filosofa con Bendicò», di cui è rimasta menzione nel Ricordo di Lampe-
dusa di Francesco Orlando (cit., p. 85). Questa sezione iniziale, non saprei dire perché, è stata espunta da tutte le fonti successive. Potrei soltanto congetturare che la sezio-
ne, non proposta da Lampedusa autonomamente, ma come cappello a quella intitolata «Don Fabrizio e Don Calogero», fosse considerata dispersiva nell'economia generale della parte IV. Il resto del testo appare in questo quaderno chiaramente propedeutico alle ulteriori versioni, almeno nel senso che quelle successive presentano continuamente integrazioni al testo del quaderno, salvo in due casi. Quando don Fabrizio chiede agli ufficiali di Sua Maestà perché non indossino più la divisa garibaldina (p. 269), il quaderno of
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fre il seguente apprezzamento del principe: «Esaurito l’argomento dei mutamenti militari, argomento, per altro,
che fece molto piacere a don Fabrizio e lo confermò nella propria esaltata stima della sagacia politica del nipote, si passò a temi più ridenti». Mentre tanto nel testo dattiloscritto quanto nella ultima stesura manoscritta abbiamo: «Esaurita la conversazione sui mutamenti militari si passò
a più vaghi argomenti». Risulta poi soppressa nelle versioni successive la considerazione sul contributo di Concetta al clima del “ciclone amoroso”: «Concetta contribuiva al concerto con le note oscure dello sconforto rinchiuso ma amoroso anch'esso e che facevano meglio risaltare i trilli ossessionati e le impennate degli altri». Un commento pleonastico, dopo i puntini di sospensione sulle masturbazioni della Dombreuil. 2) Redazione dattiloscritta in sei parti (I-IV e VIIVIII). Datazione approssimativa: aprile-luglio 1956. La copia în mio possesso mi è stata restituita da Enrico Merlo
dopo conte nella zione corso
la morte di Lampedusa. È il testo ultimo spedito al Federici della Mondadori. Reca, come ho esposto Premessa, varie correzioni autografe: a) la numeradelle pagine è stata ritoccata secondo le aggiunte in d'opera; b) l’autore ha aggiunto le date premesse ad
ogni parte; c) si riscontrano varie correzioni al testo, com-
presa la sostituzione di qualche vocabolo. 3) Ricopiatura manoscritta su un quaderno formato
protocollo recante sulla copertina: Il Gattopardo (completo). Datazione approssimativa: dicembre 1956-febbraio 1957. Questa è la versione del testo stampata dalla Feltrinelli a partire dal 1969. La pubblicazione nelle «Opere» del quaderno di prima stesura mi è parsa opportuna specialmente in considera-
zione del brano iniziale di poi espunto. Ma la pubblicazio-
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ne di un quaderno di prima stesura riapre anche il problema della autenticità testuale. Pertanto alla prima stesura di un frammento (circa tre quarti della parte IV) ho ritenuto opportuno far seguire lo stesso materiale nella versione del dattiloscritto. Il confronto fra queste due stesure ed il testo del Gattopardo (completo), e ancora il raffronto con la prima edizione del romanzo a cura di Giorgio Bassani, forniscono, anche se relativamente alla sola parte
IV, i documenti per seguire l'iter della stesura del Gattopardo. Ed ancora il confronto, sempre relativamente alla sola parte IV, tra la fonte 2 e la fonte 3 con la prima edizione del romanzo a cura di Bassani, forniscono un esempio del lavoro redazionale curato da Bassani. Viene quindi data la traccia per ricostruire la storia della stesura e della pubblicazione dell’opera. Quanto alla edizione Bassani, oggi fuori commercio, essa va presa in considerazione soltanto per una storia della pubblicazione, ma non può più esser adoperata come fonte.
[Quaderno n. 7 della prima stesura]
PARTETN (ricostruzione valevole) (inizio)
Ad uno sconforto generalizzato e cupo, a uno sconforto per così dire metafisico del padrone l’affetto di un cane può arrecare un vero sollievo; quando però le ragioni di cruccio sono circoscritte e precise (una lettera penosa da scrivere, una cambiale che scade, un incontro sgradevole da affrontare) non vi sono scodinzolamenti che tenga-
no; le povere bestie provano e riprovano, continuano ad offrirsi all’infinito, non servono a nulla; la loro dedizione è rivolta a sfere superiori e generiche dell’affetto umano e contro guai individuali le loro profferte cadono nel vuoto; un alano da accarezzare non consola di un rospo da inghiottire. Uno dei primi segni della riconquistata serenità di don Fabrizio fu dunque la ripresa dei suoi fraterni rapporti con Bendicò; di nuovo poté ammirarsi lo spettacolo dell’uomo gigantesco che andava a spasso per il giardino insieme al cane-colosso. Il cane sperava di insegnare all'uomo il gusto dell’attività gratuita, d’inculcargli un po’ del proprio dinamismo; l’uomo avrebbe desiderato che la bestia, attraverso l’affetto potesse apprezzare, se non proprio la speculazione astratta, almeno il piacere dell’ozio ornato e signorile; nessuno dei due, si capisce, riusciva a niente, ma erano contenti lo
stesso perché la felicità consiste nel ricercare gli scopi e non nel raggiungerli; almeno, così si dice. Dalla molto maggiore frequenza dei suoi rapporti con don Calogero Sedara era nato in don Fabrizio un attonito senso di ammirazione per la rara intelligenza dell’uo-
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mo. L’abitudine aveva assuefatto il Principe alle guance mal rasate, ai vestiti bislacchi, all’accento plebeo ed al
perenne odore di sudore stantio e adesso egli notava come certi problemi che erano per lui insolubili erano sciolti da don Calogero in quattro e quattro otto. Questi infatti, sbarazzato dei vincoli che l'onestà, gli scrupoli e financo la buona educazione impongono a tanti uomini, procedeva a passo sicuro verso la propria meta, come un elefante che nella giungla non si cura delle spine che gli sgraffiano la pelle, delle tane che calpesta, dell'umidità degli acquitrini, dei gemiti dei sopraffatti. Nato ed allevato, com'era stato, in vallette ombrose
percorse dal soffio gentile dei “Saresti tanto gentile...” “Per piacere” “Se non ti rincresce”, Don Fabrizio quan-
do parlava con don Calogero si trovava ad un tratto come su una landa esposta a un vento asciutto e, benché continuasse in cuor suo a preferire le anfrattuosità dei monti, non poteva non ammirare l’impeto di queste ven-
tate che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi. A poco a poco il Principe finì col raccontare a don Calogero tutti i propri affari che erano molti, complessi e da lui stesso non ben conosciuti, ciò non per difetto di penetrazione ma perché queste cose erano stimate d’importanza infima; attitudine questa cagionata in fondo in fondo dall’indolenza ed anche dalla sempre sperimentata facoltà ad uscire dai mali passi mediante la vendita di alcune centinaia delle migliaia di ettari che possedeva. A questi problemi don Calogero trovava delle soluzioni dure, di effetto immediato; ma il bello è che queste
soluzioni concepite da Sedara con crudele efficienza ed applicate da don Fabrizio con timorosa bonomia finirono, con l’andar degli anni, per creare a casa Salina fama di esosità verso i propri dipendenti, fama quanto mai immeritata ma che distrusse pian piano il prestigio di es-
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sa tanto a Donnafugata che a Querceta, senza per altro minimamente arrestare il franare del patrimonio. Non sarebbe equo tacere che la frequentazione del Principe ebbe un certo effetto anche su don Calogero. Prima questi aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunione di affari (cioè di compra-vendite) o in seguito a studiatissimi e lungamente dibattuti inviti a feste, due occasioni nelle quali questa singolarissima classe sociale non si mostra sotto l'aspetto migliore. Da questi fugaci incontri egli aveva avuto l'impressione che la nobiltà fosse composta esclusivamente di uomini-pecore esistenti solo allo scopo di abbandonare la propria lana alle sue forbici-tosatrici ed il proprio nome, avvolto di un incomprensibile prestigio, alla propria figlia. Quando conobbe il Tancredi dell’epoca post-garibaldina egli ebbe la sorpresa d’incontrare un giovane nobile, arido e avido quanto lui e che sapeva assai vantaggiosamente barattare sorrisi e nome propri con le avvenenze e ricchezze altrui; ma che inoltre ricopriva queste “sedaresche” attività di una grazia e di un fascino che don Calogero subiva senza rendersene conto e dei quali non riusciva a comprendere le riposte cagioni. Ma credette che Tancredi fosse un esemplare abnorme della specie. Quando però ebbe imparato a conoscere meglio don Fabrizio ritrovò sì in lui quella deficienza di attitudini difensive insite nel suo favoleggiato nobile-pecora, ma anche una forza di attrazione differente in tono ma eguale in intensità a quella posseduta da Tancredi, ed inoltre una facoltà di astrazione, che lo spingeva a trovar
la propria ragione di soddisfazione in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che dagli altri poteva estrarre. Don Calogero lentamente si avvide che una parte di questo fascino consisteva nelle buone maniere, foggia di vita che egli aveva finora cordialmente disprezzato ma delle quali adesso cominciava ad apprezzare l'utilità in una futura società retta dai Sedara. Uno sciocco don Ca-
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logero non era ed egli si avvide che una persona educata col sopprimere tanti aspetti sgradevoli della personalità umana, esercita una sorta di profittevole altruismo (formula nella quale l’utilità dell'aggettivo gli fece perdonare l’assurdità del sostantivo). Si avvide che un pasto non deve per forza essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d’unto; che una conversazione può non rassomigliare a una lite fra cani; che dare la precedenza a
una donna è segno di forza e non di debolezza come egli aveva creduto; e che infine da un interlocutore si ottiene
di più se in una discussione gli si dice: “Non mi sono spiegato bene” invece di “Non hai capito un corno”. E che da queste pratiche cibi, interlocutori, donne ed argomenti vengono assai migliorati a tutto vantaggio an-
che di chi abbia oleato i congegni. Sarebbe esagerato dire che queste riflessioni migliorarono grandemente il comportamento di don Calogero; egli apprese soltanto a radersi un po’ meno male ed a spaventarsi meno del consumo di sapone per il bucato; così però venne iniziato quel procedimento di raffinamento che in tre generazioni trasforma gli efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.” Continua nei foglietti dattilografati. Finiti questi (da A a J) si continua come qui appresso:
ne per bene. E lo sai, zione, quando siamo passati nell'esercito del Re, ci hanno tolto un grado, tanta poca stima avevano della serietà delle nostre abitudini militari. Vedi» e mostrava al Principe le due stellette delle controspalline «io da capitano sono ridiventato tenente, lui da tenente sottotenente. Ma siamo contenti come se avessimo avuto una promozione, credimi. Non è vero,
Cavriaghi? E avresti dovuto vedere quanto è cresciuto “A questo punto il manoscritto si interrompe. La pagina successiva
si apre con l'indicazione autografa qui stampata in corpo minore. Il manoscritto riprende poi con la sillaba finale della parola «persone».
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adesso il nostro prestigio, come siamo più rispettati con le nostre divise.» «Sfido io» interruppe Cavriaghi «la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora.» «Da Palermo a qui, quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli, bastava dire: “Ordini urgenti di Sua Maestà” ed i cavalli comparivano come per incanto; e noi a mostrare gli ordini, che erano poi i conti dell’albergo di Napoli ben avvolti e sigillati.» Esaurito l’argomento dei mutamenti militari, argomento, per altro, che fece molto piacere a don Fabrizio e lo confermò nella propria esaltata stima della sagacia politica del nipote, si passò a temi più ridenti. Concetta e Cavriaghi si erano seduti insieme un po’ discosti in un angolo del salotto ed il contino mostrava alla sua fiamma un dono che le aveva portato da Napoli: i “Canti” di Aleardo Aleardi che egli aveva fatto magnificamente rilegare: sulla pelle azzurro-cupo era stata incisa profondamente una corona principesca sovrastante le cifre di lei: C.C.S. Più sotto caratteri grandi e vagamente gotici dicevano “Sempre sorda”. Concetta, divertita, rideva: «Ma perché sorda, Conte? C.C.S. ci sente benissimo». Durante la sua permanenza a Napoli, quel che per Cavriaghi era stato, nel periodo palermitano delle sue visite insieme al generale a Villa Salina, un superficiale corteggiamento si era mutato in quel che lui credeva, in buona fede, fosse un grande amore. Il suo volto s’infiammò d’infantile passione: «Sorda, sì, sorda, signorina! Sorda ai miei sospiri, sorda ai miei gemiti; e cieca anche agli appelli appassionati che i miei occhi Le rivolgono. Sapesse quanto ho patito a Palermo quando loro sono partiti per qui! Non un saluto, allora, non un cenno mentre la carrozza si allontanava nel viale! Sorda! “Crudele” avrei dovuto far scrivere». La concitazione letteraria di lui fu congelata dalla riserbatezza della ragazza. «Lei è stanco per il lungo viaggio, conte; i suoi nervi
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non sono a posto; si calmi, mi faccia piuttosto sentire
qualche bel verso.» Mentre il contino leggeva i molli versi con voce accorata e con pause piene di sconforto, Tancredi, vicino al caminetto, aveva estratto di tasca uno scrignetto in raso
azzurro: «Ecco, zia, l’anello che ho portato per darlo ad Angelica. O piuttosto, zione, ecco il regalo che tu le fai per mia mano».
Fece scattare la molletta ed apparve il gioiello: uno zaffiro molto scuro, in forma di ottagono schiacciato, serrato tutt'intorno, fitto fitto da piccoli ma purissimi brillantini. Adesso sarebbe sembrato un anello un po’ funereo ma era perfettamente consono al gusto cimiteriale dell’Ottocento e valeva chiaramente le duecento “onze” che ad esso erano state destinate. In realtà era costato assai meno: in quei mesi di semi-saccheggio e di fughe si trovavano a Napoli bellissimi gioielli d'occasione, e dalla differenza di prezzo era saltata fuori una spilla, un ricordo per la Schwarzwald. Passò da mano a mano, fu ammirato, loda-
to; venne apprezzato il prevedibile buon gusto di Tancredi; vennero chiamati ad ammirarlo anche Concetta e Cavriaghi i quali però non si mossero, perché il contino lo aveva già visto e perché Concetta rimandò quel piacere a più tardi; don Fabrizio disse: «Ma per la misura come si farà? bisognerà mandare l’anello a Girgenti per farla fare giusta». Gli occhi azzurri di Tancredi sorrisero: «Non ci sarà bisogno, zio; la misura è esatta; l'avevo presa prima». Don Fabrizio tacque; aveva riconosciuto un maestro.
Il gioiello aveva compiuto il suo percorso attorno al caminetto ed era ritornato nelle mani di Tancredi quando da dietro la porta si udì un sommesso: «Si può?» Ed entrò Angelica. Nella fretta e nell’emozione non aveva trovato di meglio per ripararsi dalla pioggia dirotta, che indossare uno “scappolare”, un pesantissimo mantello da contadino, di ruvido panno, avviluppato nelle rigide pieghe
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bleu-scure il corpo di lei vigoroso appariva snellissimo e sotto il cappuccio bagnato gli occhi erano smarriti, parlavano di voluttà. A quella vista, a quel contrasto anche fra la bellezza della persona e la rusticità della veste, Tancredi ricevette come un colpo di frusta. Si alzò, corse verso di lei e muto la baciò in bocca. L’astuccetto che teneva nella destra le solleticava la nuca recline. Poi si distaccò, estrasse l'anello,
glielo passò al dito. «Ecco, bella, da parte del tuo Tancredi.» L'ironia rigermogliò: «E ringrazia per esso anche lo zio». Poi la baciò di nuovo: l’ansia sensuale li faceva tremare, per essi il salone, gli astanti, erano lontanissimi. Ed a lui sembrava davvero di prendere in quei baci possesso della sua Sicilia, della terra bella e infida che per tanti secoli era appartenuta ai Falconeri, e che, adesso, dopo una vana rivolta, si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da
sempre, fatta di delizie carnali e di raccolti dorati. In seguito all’arrivo degli ospiti benvenuti la partenza per Palermo fu rimandata; e cominciò un periodo d’incanti. L’uragano che aveva accompagnato il viaggio dei due giovani era stato l’ultimo di una serie e, dopo, splendette l'estate di S. Martino, la vera stagione di voluttà in Sicilia: la temperie azzurra e dorata, la persistente mitezza fa di questo breve periodo un'oasi di piacere nell’andamento aspro delle stagioni; ed esso esalta e travia i
sensi, invita alle nudità segrete. Di nudità erotiche non era naturalmente il caso di parlare a Donnafugata; ma vi era copia di eccitazione sensuale, tanto più acerba quanto maggiormente impedita.
Il palazzo dei Salina era stato ottanta anni prima un ritrovo ghiotto di quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza severa della Principessa Carolina, la neo-religiosità della Restaurazione, il carattere soltanto bonariamente arzillo dell’attuale don Fabrizio avevano fatto persino dimenti-
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care i suoi bizzarri e pittoreschi trascorsi; i diavoletti incipriati erano stati posti in fuga; esistevano ancora, certamente, ma allo stato larvale ed ibernavano sotto cumu-
li di polvere in chissà quale soffitta dello smisurato edificio. L'entrata a palazzo della bella Angelica aveva fatto un po’ rinvenire queste larve, come forse si ricorderà, ma fu l’arrivo degli ufficialetti innamorati che ridestò gli istinti rimpiattati in ogni angolo della casa; essi adesso si mostrarono dappertutto, come formiche destate dal sole di primavera; erano molto disintossicati ma oltremodo vivaci. L'architettura, la decorazione stessa “rococò” con le sue curve impreviste evocava adesso an-
che distese e seni eretti; l’aprirsi di ogni portale frusciava come una cortina di alcova. Cavriaghi era innamorato di Concetta; ma infantile come era, e non soltanto nell’aspetto come Tancredi ma più nel profondo della propria personalità, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a precisare il logico epilogo e che del resto la sordità di Concetta schiacciava in embrione. Non sappiamo se nella solitudine della sua camera verde egli si abbandonasse a un più concreto vagheggiare, ma alla scenografia galante di quell’autunno donnafugasco egli contribuiva come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti più che come ideatore di masse architettoniche. Le due ragazze invece, Carolina e Caterina, tenevano assai bene la loro parte nella sinfonia che risuonava in tutto il palazzo e si mescolava al mormorio degli zampilli della fontana, allo scalciare sordo dei cavalli in amore nelle scuderie ed alla pervicace creazione di nidi nuziali da parte dei tarli nei vecchi mobili. Giovanissime ed avvenenti, benché prive di innamorati particolari, esse erano facilmente attratte nel fluire dei desideri; ed il bacio che Concetta negava a Cavriaghi, l’abbraccio di Angelica che non aveva saziato T'ancredi, si riverberavano sui loro corpi in-
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tatti ma adeguati, e di esse si fantasticava ed esse stesse sognavano ciocche intrise di speciosi sudori, gemiti brevi. Anche la povera mademoiselle Dombreuil a forza di sorvegliare innamorati era stata attirata in quei torbidi gorghi ridenti, come quegli psichiatri che si contagiano e soccombono alle frenesie dei loro pazienti. Quando dopo una giornata trascorsa in inseguimenti, in agguati
moralistici essa si coricava nel suo letto solingo, palpava i propri seni avvizziti e indirizzava invocazioni indiscriminate a Tancredi, a Carlo, a Fabrizio... Concetta contribuiva al concerto con le note oscure dello sconforto rinchiuso ma amoroso anch'esso e che facevano meglio risaltare i trilli ossessionati e le impennate degli altri. Centro e motore di questo assillo sensuale era, naturalmente, la coppia Tancredi- Angelica. Le loro nozze sicure benché non vicinissime proiettavano di già la propria ombra rassicurante sul terreno arsiccio dei loro desideri irritati; ed essi incontravano scarse difficoltà per ritrovarsi spesso soli, per sfuggire agli sguardi degli altri, per temprarsi in una fucina di brame sprizzanti e di rinunzie caute. La differenza dei ceti favoriva, anche, questo gioco
ambiguo: don Calogero credeva normale presso la nobiltà questi frequenti “tu per tu” fra gli innamorati e per timore di non apparire al corrente degli usi principeschi, vi si opponeva con mollezza, mentre la principessa Maria-Stella stimava abituale nel rango dei Sedara una certa libertà di contegno che non avrebbe certamente trovata lecita nelle proprie figlie; e così le visite di Angelica al palazzo divennero sempre più frequenti, fino ad esser quasi perpetue, ed essa finì con l’essere accompagnata soltanto formalmente dal padre che si recava presto in Amministrazione per scoprire o per tessere nascoste trame, 0 dalla cameriera che si infilava subito nel riposto a prendere il caffè e ad incupire i domestici sventurati. Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il pa-
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lazzo nel suo complesso fatato di foresterie, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse, scuderie, serre, passaggi, scalette, terrazzini e
porticati, e sopratutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano
un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale; e Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. I due innamorati partivano come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in molti di questi ambienti neppure don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto gli era cagione di grande soddisfazione perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le camere non era degno di essere abitato. Tancredi e Angelica si imbarcavano così verso Citera su una nave fatta di camere solatie e di camere cupe, di ambienti spaziosi e stanze vuote o accatastate di mobilio eterogeneo. Cavriaghi o mademoiselle Dombreuil andavano con loro, e qualche volta tutti e due, e così la decenza
esteriore era salva; ma nel palazzo di Donnafugata era facile far perdere le proprie tracce a chi volesse pedinarvi: bastava infilare un andito, sgattaiolare su per una scaletta imprevista, traversare un ballatoio e si era lontano, come su un'isola deserta; restava a guardarvi soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che per di più l'inesperienza del pittore aveva creato cieco, 0, su un soffitto semi-cancellato, una pastorella subito consenziente. Del resto Cavriaghi si stancava presto e appena trovava sulla propria
rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava tanto per far piacere all'amico come per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva più a lungo ma non per
sempre; si udivano per qualche tempo i suoi appelli mai corrisposti: «Anjélicà, Tancrède, où étes-vous?» poi tutto ripiombava nel silenzio complice, striato solo dal ga-
Appendice
DID
loppare dei topi al disopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento, pretesti per esagerate paure, per un riavvicina-
mento rassicurante dei corpi. E l’Eros era sempre con loro, li stimolava nella vicenda pieno di malia e di azzardi. Tancredi e Angelica erano ancora abbastanza vicini all’infanzia per godere del gioco in se stesso, del piacere d’inseguirsi, di perdersi, di raggiungersi, ma quando si erano ritrovati i loro sensi aguzzati entravano nella ronda e mutavano il gioco in desiderio: le cinque dita di lui incastrate fra quelle di lei nel gesto caro ai sensuali indecisi, il soffregamento soave dei polpastrelli contro le vene pallide dei dorsi, turbava tutto il loro essere. Un pomeriggio essa si nascose dietro un grandissimo quadro poggiato a una parete; e per qualche tempo “Raimondo Corbera all’assedio di Antiochia” nascose l’ansia ridente della giovinetta, ma quando fu scoperta, con le mani grigie di polvere e il sorriso intriso di ragnatele, venne ghermita e stretta così forte che stette una eternità a mormorare: «No, Tancredi, no!» diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva nulla di più che fissare nei verdissimi occhi di lei i propri azzurri. Un’altra volta, in una giornata luminosa e fredda lei tremava nel-
la veste estiva su un divano coperto di stoffa a brandelli e lui la strinse a sé a lungo per riscaldarla, e furono momenti di estatica pena durante i quali il desiderio diveniva tormento ed i freni delizia. Qualche volta perdevano davvero l'orientamento: a furia d’inseguimenti, di giravolte, di lunghe soste piene di mormorii e carezze non sapevano più dove fossero e do-
vevano sporgersi a una finestra per capire dall’aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però la finestra non dava su una veduta nota ma su un cortiletto anonimo mai intravisto, contrassegnato soltanto dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa
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mai se vomitata o buttata via; e da un abbaino li squadravano gli occhi maligni di una cameriera pensionata. Un giorno la loro scoperta fu più inattesa. In una stanza della Foresteria Vecchia si avvidero di una porta nascosta dietro un armadio. La serratura centenaria cedette presto davanti a quelle dita che godevano nell’intrecciarsi e nel soffregarsi per forzarla. Dietro vi era una lunga stretta scala che snodava in soffici curve i suoi scalini di marmo rosso venato di nero; in cima un’altra por-
ta aperta con una spessa imbottitura disfatta; e poi un appartamentino vezzoso e strambo: sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza: tutte pavimentate di candidissimo marmo che declinava in leggero pendio verso canaletti laterali; sulle pareti sei grandi specchi attoniti, appesi troppo in basso, ciascuno col contorto reggi-candele del Settecento. Le finestre davano su un cortile segregato, una specie di pozzo cieco e sordo, che lasciava entrare una luce grigia e nel quale non si affacciava nessun'altra apertura. In ogni stanza, e anche nel salotto, ampi, troppo ampi divani; appoggiatoi maculati; nel marmo dei caminetti delicati, intricati,
intagli, nudi parossistici, martoriati però, mutilati da un martello rabbioso. L'umidità aveva macchiato le pareti in alto e, forse, anche più in basso a men che altezza d’uomo dove aveva preso configurazioni bizzarre, inconsueti spessori, colori cupi. Tancredi inquieto non volle che Angelica aprisse un armadio a muro del salotto: lo schiuse lui stesso: era profondissimo e sembrava vuoto non fosse per un rotolo di stoffa sudicia ritto in un angolo. Dietro vi era un fascio di frustini, di scudisci in nervo di bue, alcuni con leziosi manici d’argento, altri rivestiti sino a metà lunghezza da una seta vecchissima, bianca a righine azzurre, segnata da tre file di macchie oscure; e attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura; paura di se stesso. «Andiamo via, cara», disse «qui non c’è niente d’interessante.» Richiusero le porte,
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ridiscesero in silenzio le scale, rimisero a posto l’armadio; e tutto il giorno, poi, i baci di Tancredi furono lievissimi, come dati in sogno ed in espiazione. Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l'oggetto più frequente a Donnafugata. Il giorno dopo aver scoperto l’appartamentino enigmatico, ne trovarono un’altra, infatti. Questa, però, non era in uno degli appartamenti ignorati ma in quello, venerato, del Duca-Santo. In esso verso la metà del Seicento un Salina si
era ritirato come in un convento privato e lì aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano delle stanzette esigue, dal soffitto bassissimo,
col pavimento di rustica argilla e le mura a latte di calce come quelle dei contadini più derelitti. L’ultima di esse dava su un poggiolo dal quale si dominava il severo paesaggio leonino di feudi accavallantisi sui feudi, tutti immersi in una triste luce. Su una parete vi era un immenso
Crocifisso, più grande del vero: la testa martoriata di Cristo toccava il soffitto, i piedi sanguinanti poggiavano quasi per terra; la piaga del costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino, giù da un chiodo, pendeva una corta frusta il cui manico terminava in
sei striscioline di cuoio indurito con in fondo sei palle di piombo, grosse come nocciole. Era la “disciplina” del Duca-Santo. Lì, al cospetto del suo Dio e del suo feudo, Giuseppe Corbera, duca di Salina, si flagellava e nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che le gocce del suo sangue cadessero sui terreni come preghiera di riscatto, e che soltanto mediante questo battesimo cruento egli potesse farli veramente suoi, carne della sua carne, sangue
del suo sangue, come si dice. Molti però di quei terreni erano sfuggiti lo stesso e la loro opulenza granaria apparteneva adesso ad altri, a don Calogero per esempio. A don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al suo futuro figlio. L’evidenza di quel: riscatto attraverso la bellezza pa-
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rallelo all’altro riscatto attraverso il sangue era tanto chiara che Tancredi ebbe come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. «Vedi, tu sei come quell’arnese lì, servi alla stessa cosa.» E mostrava la
“disciplina”; ma poiché Angelica, sollevata la testa non capiva e sorrideva, bella ma vacua, Tancredi, lì genuflessa
com'era, le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato. E così essi passavano i giorni in vagabondaggi estrosi e venivano a scoprire inferni che l’amore poi redimeva, paradisi trascurati che lo stesso amore profanava. Il pericolo di far cessare il gioco per incassare subito la posta si accresceva, urgeva per tutti e due. Alla fine non si cercavano più ma andavano di filato nelle stanze più remote, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto raggiungere nessuno. Ma grida non vi sarebbero state: solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lì tutti e due, stretti ed innocenti, a compatirsi l’un l’altro.
Le più insidiose per loro erano le stanze della Foresteria Vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna con il suo bel letto col materasso arrotolato che un colpo della mano sarebbe bastato a distendere. Un giorno, non il cervello di Tancredi che in tutto questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di farla finita. Quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto «Sono la tua novizia», ricordandogli così, con la chiarezza di un invito, il primo incontro di
desideri che fosse corso fra loro; e già la donna scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando nel corridoio contiguo passò Cavriaghi che zufolava senza pensare a nulla. I due si ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire. Così passò quel tempo che fu il migliore della vita di entrambi; vita che doveva poi essere variegata e peccaminosa sullo sfondo inevitabile di dolore; ma essi non lo sapevano, allora, e inseguivano un loro avvenire che im-
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maginavano più concreto benché dovesse poi risultare fatto di vento e di fumo soltanto. Quando furono diventati vecchi ed inutilmente saggi i loro pensieri ritornarono a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i
giorni del desiderio sempre presente perché sempre vietato, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, della sensualità che inibita si era un momento sublimata in rinunzia, cioè in vero amore.
Quei giorni furono la preparazione al loro matrimonio che doveva poi, dal punto di vista erotico, riuscir
male; ma una preparazione che si era atteggiata in un tutto a sé stante, squisito e breve; come quelle sinfonie che sopravvivono alle opere dimenticate per le quali furono scritte e che accennano con la loro giocosità velata di pudore tutte le arie, che poi nell’opera dovevano essere goffamente sviluppate, e fallire. Quando i due innamorati ridiscendevano nel mondo dei viventi dal loro esilio nel regno dei vizi estinti, delle virtù svalutate e del desiderio perenne, venivano accolti
con bonaria ironia. «Voi ragazzi siete davvero scemi a impolverarvi così» sorrideva don Fabrizio «ma guardati un po’ Tancredi, come sei ridotto.» E il nipote andava a farsi spazzolare. Cavriaghi a cavalcioni di una sedia fumava compunto un “Virginia” e guardava l’amico che si lavava la faccia ed il collo e sbuffava per il dispetto di veder l’acqua diventare nera come il carbone. «Io non dico di no, caro Falconeri, la signorina Angelica è la più bella “tosa” che abbia mai visto. Ma un po’ di decenza, un po’ di freni ci vogliono, Dio Signore! Oggi siete stati soli tre ore. Se vi amate tanto sposatevi subito e che non se ne parli più. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il padre oggi quando è uscito dall’Amministrazione e si è accorto che voi due stavate ancora navigando in quell’oceano di stanze. Freni ci vogliono, caro amico,
freni; e voi siciliani ne avete pochini.» Pontificava, lieto di poter dare lezione al camerata
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più anziano, al superiore in grado, al cugino della insensibile Concetta. Tancredi impallidiva di rabbia mentre si asciugava la testa: esser accusato di mancare di freni lui, che ne aveva tanti da poter fermare il treno Napoli-Salerno! In quanto al resto Cavriaghi non aveva torto, ma il suo moralismo era nato dopo l’evidente insuccesso della sua corte a Concetta. Ma quell’Angelica anche! quel gusto soavissimo di sangue oggi quando le aveva
morso l'interno del labbro, quel suo piegarsi umile sotto l'abbraccio! Ma Cavriaghi aveva ragione. “Domani andremo a visitare la chiesa, scortati da padre Pirrone e da mademoiselle Dombreuil.” Intanto Angelica si mutava d’abito nella stanza delle ragazze; mademoiselle Dombreuil s’indignava: «Mais, ma chère, est-il Dieu permis de se mettre dans un tel état!» mentre la bella, in sottanino e corpetto, si lavava
le morbide braccia in un immenso tino a fiori ‘amaranto. La governante vedeva giusto: tutto questo era ridico-
lo, e poi a quale scopo? per lasciarsi guardar negli occhi da altri occhi, per lasciarsi percorrere il corpo da quelle dita sottili; per poco di più... E il labbro le doleva ancora. Non aveva senso comune. “Domani andremo in salotto con gli altri.” Ma l'indomani quegli occhi, quelle mani avrebbero riacquisito il loro sortilegio, e i due ragazzi avrebbero continuato il gioco pericoloso e pazzo, a nascondersi, a mostrarsi.
Il risultato paradossale di questi propositi, separati ma convergenti era che la sera, a pranzo, i due più innamorati, poggiando sulle loro effimere risoluzioni di virtù, apparivano i più calmi e si davano il piacere di osservare con occhio ironico le manifestazioni amorose degli altri, pur di tanto inferiori. Tancredi, lui, era irritato contro Concetta. A Napoli aveva provato un certo rimorso nei riguar-
di di lei e, poiché in lui l’astuzia si tingeva spesso di bontà
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e la compassione faceva parte della preveggenza, aveva portato con sé Cavriaghi nell'intento di fornire a Concetta un sostituto di se stesso; quando giunse a Donnafugata ebbe perfino un momento l’aria di condolersi con la cugina per la perdita che essa aveva subito. Ma adesso si vedeva che il corteggiamento di Cavriaghi era fallito dinanzi alla freddezza di lei. Ma, alla fine, cosa voleva questa ra-
gazza? Cavriaghi era un bel giovanotto, una eccellente pasta d'uomo, aveva un bel nome, grasse cascine in Brianza.
Era quel che con termine gelido si chiama un “ottimo partito”. Già, Concetta voleva lui, non era così? Anche lui
l'aveva voluta un tempo: essa era meno bella di Angelica, assai meno ricca anche; ma aveva in sé qualcosa che la Donnafugasca non avrebbe mai posseduto. Ma la vita è una cosa seria, che diamine! Concetta avrebbe dovuto capirlo. E poi è lei che mi ha trattato male: quella partaccia a Santo Spirito! e tante altre dopo. Il Gattopardo, sicuro, il Gattopardo! Ma anche per quella bestiaccia superba dovevano esservi dei limiti! “Freni ci vogliono, cara amica,
freni! e voi siciliane ne avete pochini.” Angelica, dal canto suo, dava invece ragione a Concetta: quel Cavriaghi era veramente troppo melenso: sposare lui dopo aver voluto Tancredi era come bere dell’acqua dopo aver gustato quel Marsala che le stava davanti. La sua irritazione era invece rivolta alle altre sorelle a quelle Caroline e Caterine le quali, evidentemente attratte da quel grazioso scioccone, “friccichiavano”, si sdilinquivano quando lui stava loro vicino, non osavano però fare un passo positivo per riguardo ai diritti di prelazione della sorella. “E dire che all’età di Cavriaghi i giovanotti sono come i cagnolini: basta fischiettare e loro ti seguono dimenando la coda.” La mancanza di scrupoli ereditata da don Calogero la rendeva incapace di apprezzare il riserbo delle sorelle. “Quando si è tanto stupide, tanto rinchiuse, si finisce chissà come vecchie zitelle.”
Dopo il pranzo chi volesse fumare doveva lasciare le
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signore e rintanarsi in un salottino apposito, detto ap-
punto “fumoir”. Tancredi e Cavriaghi erano i soli fumatori della casa e quindi i soli che si esiliassero dopo i pasti. La loro conversazione appartata era più franca che quelle compiute davanti agli altri e Cavriaghi finì, una sera, con l’ammettere chiaramente il fallimento delle proprie speranze nei riguardi di Concetta. «Non ho neppure osato farle una proposta precisa. Essa è troppo bella, troppo pura per me, me ne andrò col pugnale del rimpianto eterno infisso nel cuore, sono stato fin troppo ardito a sperare. Io per lei sono un verme della terra, ed è giusto che sia così. Debbo trovarmi una vermessa mia pari, se pur ce ne sono.» I suoi diciannove anni lo facevano ridere del proprio disinganno che credeva mortale. Tancredi, dall’alto della propria felicità assicurata, lo consolava sorridendo: «Sai, Cavriaghi, io conosco bene
Concetta; è la più cara ragazza che esista, uno specchio di tutte le virtù, ma è molto chiusa, forse un po’ troppo orgogliosa, troppo sicura di se stessa; e poi è molto siciliana, non è mai uscita da qui; chissà se sarebbe stata fe-
lice a Milano, un paesaccio dove per avere un piatto di maccheroni bisogna pensarci una settimana prima». L’uscita di Tancredi, una delle prime manifestazioni dell’unità nazionale, fece ridere il bersagliere: «Ma gliene avrei procurato delle casse, io, dei vostri maccheroni; ed avrebbe avuto la nostra vecchia casa in via Bigli, il nostro palco alla Scala, la villa di Tradate! E un maritino come non ce n'è un altro, non fo per dire. Ma è inutile pensarci: il Signore non ha voluto. Verme e vermessa dovranno essere! Spero soltanto che i tuoi zii che sono stati tanto carini con me non si metteranno a odiarmi da ora in poi per essermi venuto a cacciare fra voi senza costrutto». Tancredi lo rassicurava: era vero che Cavriaghi era piaciuto a tutti, eccetto Concetta, e del resto forse anche a Concet-
ta; in lui il buon umore chiassoso era congiunto al roman-
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ticume più flebile. «Cosa dici mai? Tutti qui speriamo che ti deciderai a far più spesso questo lungo viaggio.» La conversazione deviò su altri argomenti, cioè su Angelica: «Vedi, tu sì che sei fortunato, Falconeri! Andare a scovare una perla simile in un porcaio come questo (scusa, sai!) E tu briccone che te la porti a spasso per
delle ore in questa casa che è grande come il Domm! Bella, già si sa; è inutile dirlo; ma anche intelligente e poi buona! La bontà e la semplicità parlano da quegli occhi!» Tancredi stava ad ascoltare le lodi della bontà di Angelica senza associarsi e senza negare. «In tutto que-
sto il veramente buono sei tu, Cavriaghi.» La frase scivolò inavvertita sull’ottimismo ambrosiano. «Ma insomma, caro, adesso ci vuol poco alla nostra
partenza, quando potrò aver l’onore di esser presentato alla madre della Baronessina?» Era la prima volta che Tancredi sentiva parlare di Angelica con l’aggiunta di un titolo; lì per lì non capì di che si trattasse. Poi il principe in lui si ribellò: «Ma che baronessina e baronessina! È una bella e buona figliola cui voglio bene; e basta». Che Angelica per lui fosse soltanto quello sarebbe esagerato dire; e il “basta” era un po’ arrischiato; ma a Tancredi, atavicamente avvezzo al possesso di vaste terre, sembrava sinceramente che Gibildolce e Settesoli fossero stati suoi dai tempi di Carlo d'Angiò, da sempre.
«In quanto alla madre ho paura che non la potrai vedere. Sta molto poco bene, poveretta, e partirà domani per Sciacca a fare la cura dei fanghi.» Schiacciò irritato il mozzicone di Virginia nel buttacenere. «Andiamo adesso, ritorniamo in salotto. Abbiamo fatto gli orsi abbastanza.» In quel torno di tempo il Principe aveva ricevuto una lettera dal Prefetto di Girgenti. Con forme della massima cortesia si pregava di voler ricevere ed ascoltare il ca-
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valiere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario della Prefettura che due giorni dopo sarebbe giunto a Donnafugata apposta per esporre a lui, Don Fabrizio, un argomento che stava molto a cuore alle Autorità. Il giorno dell’arrivo del “missus dominicus” il Principe spedì il figlio Francesco-Paolo alla stazione di posta per ricevere il funzionario piemontese e per invitarlo a pernottare a palazzo, invito che non era dettato soltanto da ospitalità ma anche da un senso di umanità cui ripugnava di sapere un essere umano esposto ad esser dilaniato dalle mille bestiole che si annidavano nella locanda-spelonca di zu’ Menico. AI cadere della notte giunse la corriera postale proveniente da Girgenti, con la sua guardia armata a cassetta e lo scarso suo carico di volti chiusi. Da essa scese per ultimo un signore piccolino, ben vestito, dallo sguardo guardingo. Era Chevalley di Monterzuolo. Egli si trovava soltanto da un mese in Sicilia e per di più nella parte più tenacemente aborigena dell’isola, sbalzato lì dritto dritto
dalla propria terricciuola nel Monferrato; e vi stava molto a disagio. Era uno delle molte centinaia di burocrati improvvisati che il governo di Torino aveva dovuto creare per sopperire alle necessità della propria ingigantita amministrazione e che, sparsi in tutto l’ex-regno delle Due Sicilie, si affannavano ad impiantare il nuovo regime con favolosa inesperienza pareggiata soltanto dalla loro:commovente rettitudine. Essi erano l’esatta controparte delle molte centinaia di intendenti, sottointendenti e uditori
borbonici che in quei mesi erravano nella penisola alla ricerca di un nuovo posto e che, altrettanto inabili, avevano posseduto almeno una conoscenza non soltanto letteraria della gente che amministravano e del loro linguaggio.
Durante quel breve e interminabile mese l’intelletto congenitamente burocratico di Chevalley di Monterzuolo:era stato imbottito dalle storielle agghiaccianti che i siciliani si compiacciono a raccontare ai nuovi venuti per
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saggiarne la resistenza nervosa; e da un mese egli scorgeva un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio e un pugnale in ogni tagliacarte di legno del proprio scrittoio; inoltre la cucina all’olio gli aveva posto in disordine lo stomaco. Adesso se ne stava lì, nel crepuscolo, nella stra-
da desolata in mezzo alla quale era stato scaricato, accanto alla propria valigetta di tela bigia e guardava l’aspetto assonnato e truculento insieme di quel borgo, notevole per la totale assenza di civetteria che contrassegnava ogni paese in Sicilia. Gli ultimi chiarori del giorno gli permettevano di leggere la scritta “Corso Vittorio Emanuele” stampigliata a caratteri azzurri sulla parete di una casa incredibilmente fatiscente; ma questa scritta era l’unico argomento che potesse indurlo a credersi ancora nella stessa nazione del suo Casale e della sua Alessandria. Non sapeva dove andare a posare il capo e, d’altra parte, non osava chieder nulla ai pochi contadini addossati come cariatidi alle casupole, sicuro come era di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue che gli erano care benché sconvolte. Quando Francesco Paolo gli si avvicinò presentandosi, egli sussultò e strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato, ma l’aspetto biondo e sereno del giovanottone lo rassicurò un pochino e quando comprese che era invitato ad alloggiare in casa Salina fu sorpreso e sollevato; il percorso buio fino al palazzo, durante il quale in-
ciampò più volte, fu tutto occupato da una gara fra la cortesia piemontese e quella siciliana, le due più puntigliose d’Italia, a proposito di chi dovesse portare la valigetta la quale, leggerissima com'era, finì con l’esser sorretta da entrambi i contendenti. Arrivato a palazzo il vedere i due o tre “campieri” barbuti che stavano nel cortile, con le cartucciere intorno al-
la pancia e lo schioppo fra le gambe, lo intimorì di nuovo; in senso opposto agì invece il fasto degli ambienti intravisti, la distante cortesia del Principe cui venne presentato
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e la comodità ricca della stanza che gli si assegnò, in mo-
do che quando discese a pranzo si trovava in uno stato penoso di dissidio interiore: era un germoglio di quella piccola nobiltà piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra e si trovava quindi nello stato di timidezza di chi si trovi per la prima volta in un ambiente diverso e superiore al proprio; d’altra parte gli sgherri (come pensava lui) accampati nel cortile, l'aspetto torvo del paese e gli aneddoti paurosi che aveva inteso raccontare, gli incutevano il timore che sapeva irrazionale ma che era invincibile di esser caduto in un agguato brigantesco. L’avvenenza delle signorine, però, l’austerità di padre Pirrone, la evidente buona educazione di tutti ma sopratutto la lombarda presenza di Cavriaghi che stava lì da parecchi giorni, a quanto sembrava e che pareva star benissimo, lo andarono lentamente ponendo in uno stato di rassicurata calma, la cucina inoltre fu la
prima a sembrargli possibile da quando era in Sicilia; Angelica non c’era, dopo pranzo si giocò al “whist”, occupazione eminentemente non brigantesca; egli fu quarto nel tavolo del principe, Tancredi e padre Pirrone, e quando si alzò avendo vinto tre lite e trentacinque centesimi, si trovò beato, cosicché osò avvicinarsi al Principe e chie-
dergli un colloquio particolare perché, diceva, intendeva ripartire l’indomani mattina. Don Fabrizio gli spiaccicò la spalla con una manata e col più gattopardesco dei sorrisi: «Niente affatto, cavaliere», gli disse «lei è in casa mia
e La terrò in ostaggio finché mi piacerà, e per questo mi priverò del piacere d’intrattenermi con Lei fino a domani alle quattro». Queste parole che lo avrebbero tramortito tre ore prima gli furono adesso graditissime e, coricatosi, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno fiducioso del giusto. (Continua al quaderno 8°)
[Dal dattiloscritto del 1956]
IV
novembre 1860
Dai più frequenti contatti derivati dall'accordo nuziale cominciò a nascere in don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedara. La consuetudine lo abituò alle guance mal rasate, all’accento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore stantio, ed egli cominciò ad avvedersi della rara intelligenza dell’uomo; molti problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattr’otto da don Calogero; liberato com’egli era dalle cento pastoie che l'onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine ed i guaiti dei sopraffatti. Allevato e vissuto in vallette amene percorse dagli zefiri cortesi dei “Per piacere”, “ti sarei grato”, “mi fare-
sti un favore”, “sei stato molto gentile”, il Principe adesso, quando chiacchierava con don Calogero, si trovava invece allo scoperto su una landa spazzata da venti asciutti, e pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti non poteva non ammirare la foga di questa corrente d’aria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi. Pian piano, quasi senza avvedersene, don Fabrizio raccontava a don Calogero i propri affari, che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non già per difetto di penetrazione ma per una sorta di
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sprezzante indifferenza al riguardo di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo in fondo dalla
indolenza e dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche centinaio fra le migliaia dei propri ettari. Gli atti che don Calogero consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da sé la relazione, erano quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato finale dei consigli, concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario don Fabrizio con timorosa mollezza, fu che con l’andar degli anni casa Salina si acquistò fama di esosità verso i propri dipendenti, fama in realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il prestigio di essa a Donnafugata ed a Querceta, senza che peraltro, il franare del patrimonio venisse in alcun modo arginato. Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche su Sedara. Fino a quel momento egli aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o in seguito ad eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eventualità
durante le quali questa singolarissima classe sociale non mostra il proprio aspetto migliore. All’occasione di questi incontri egli si era formato la convinzione che l’aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore, esistenti
soltanto per abbandonare la lana alle forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un inspiegabile prestigio, a sua figlia. Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell’epoca postgaribaldina, si era trovato di fronte a un esemplare inatteso di giovane nobile arido quanto lui, capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con
avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo rivestire queste azioni “sedaresche”'‘di una grazia e di un fascino che egli sentiva di non possedere, che subiva senza rendersene
conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando, necessariamente, ebbe imparato a conoscere
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meglio don Fabrizio, ritrovò sì la mollezza e l’incapacità a difendersi che erano le caratteristiche del suo immaginario nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione differente in tono ma simile in intensità a quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendente verso l’astrazione, una disposizione a cercar la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole, come qui si è tentato di fare; si
avvide che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto un uomo bene-
ducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l'efficacia dell’aggettivo gli fece tollerare l’inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d’unto, che una con-
versazione può benissimo non rassomigliare a una lite fra cani, che dar la precedenza a una donna è segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlo-
cutore si può ottenere di più se gli si dice: “non mi sono spiegato bene” anziché “non hai capito un corno”, e che adoperando simili accorgimenti, cibi, argomenti, donne,
ed interlocutori vengono a guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene. Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfitasse subito di quanto aveva appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po’ meglio e spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato, e null’altro; ma fu da quel momento che si iniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.
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La prima visita di Angelica alla famiglia Salina da fidanzata si era svolta regolata da una regia impeccabile. Il contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che sembrava suggerito parola per parola da Tancredi; ma le comunicazioni lente del tempo rendevano insostenibile questa eventualità e si fu costretti a ricorrere ad una ipotesi: a quella di suggerimenti anteriori allo stesso fidanzamento ufficiale, ipotesi arrischiata anche per chi meglio conoscesse la preveggenza del principino, ma non del tutto assurda. Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli d’uva artificiali e spighe dorate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i granai di Settesoli. In sala d’ingresso piantò lì il padre; nello sventolio dell’ampia gonna salì leggera i non pochi scalini della scala interna e si gettò nelle braccia di don Fabrizio: gli diede, sulle basette, due bei bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il principe si attardò forse un attimo più del necessario a fiutare l'aroma di gardenia delle guance adolescenti. Dopo di ché Angelica arrossì, retrocedette di mezzo passo: «Sono tanto, tanto felice...» Si riavvicinò di nuo-
vo e, ritta sulla punta delle scarpine, gli sospirò all’orecchio: «Zione!»; felicissimo “gag” di regia paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein, e che, esplicito e segreto com'era, mandò in visibilio il cuore semplice del principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola. Don Calogero intanto saliva la scala e andava dicendo quanto dolente fosse sua moglie di non poter esser lì, ma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta una distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. «Ha il collo del piede come una melanzana, principe.» Don Fabrizio esilarato dalla carezza verbale e che, d’altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla innocuità della propria cortesia, si passò il piacere di proporre di andare lui stesso subito dalla
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signora Sedara, proposta che sbigottì don Calogero che fu costretto per respingerla ad appioppare un secondo malanno alla consorte, una emicrania questa volta, che costringeva la poveretta a stare nell’oscurità.
Intanto il principe dava il braccio ad Angelica; si traversavano parecchi saloni quasi all’oscuro, vagamente rischiarati da lumini ad olio che permettevano di trovare a malapena la strada; in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il “salone di Leopoldo”, dove stava il resto della famiglia, e questo procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro dell’intimità aveva il ritmo di una iniziazione massonica.
La famiglia si affollava sulla porta: la principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all’ira maritale, che le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura
nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa grande; Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l’oppor-
tunità eccezionale di baciare anch'egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare: la sua gioia era così intensa da farle salire le lacrime agli occhi; le altre sorelle si stringevano attorno a lei rumorosamente liete appunto perché non commosse; Padre Pirrone, poi, che santa-
mente non era insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di ravvisare una prova innegabile della Bontà Divina, sentì fondere tutte le proprie opposizioni dinanzi al tepore della grazia (col g minuscolo). E le mormorò: «Veni, sponsa de Libano»; dovette poi un po’ contrastare per non far risalire alla memoria altri più calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si conviene alle governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle fiorenti della fanciulla di-
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cendo: «Angelicà, Angelicà, pensons à la joie de Tancrède». Bendicò soltanto, in contrasto con la consueta socievolezza, rintanato sotto una “console”, ringhiava nel
fondo della propria gola, finché venne energicamente messo a posto da un Francesco Paolo indignato cui le labbra fremevano ancora. Su ventiquattro dei quarantotto bracci del lampadario era stata posta una candela accesa, e ognuno di questi ceri, candido e ardente insieme, poteva sembrare una
vergine che si struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro guardavano in giù, ammiravano colei che entrava, e le rivolgevano un sorriso
cangiante e fragile. Il grande caminetto era acceso più in segno di giubilo che per riscaldare l’ambiente ancora tiepido e la luce delle fiamme palpitava sul pavimento, sprigionava intermittenti bagliori dalle dorature appassite del mobilio; esso rappresentava davvero il focolare domestico, il simbolo della casa e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di desideri, la brace a contenuti ardori.
Dalla principessa, che possedeva in grado eminente la facoltà di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, vennero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e tanto essa insistette su questi che davvero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse reputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era stato tanto ragionevole da sottomettersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da
aver osato rubare una manata di ciliegie; mentre quest’episodio di banditismo temerario veniva ricordato, Concetta si mise a ridere e «Questo è un vizio che Tancredi non si è potuto ancora togliere», disse, «ricor-
di, papà, quando due mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle quali tenevi tanto?»; e poi si rabbuiò ad un tratto come se fosse stata presidente di una società di frutticoltura danneggiata. Presto la voce di don Fabrizio pose in ombra queste
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inezie: egli parlò del Tancredi di adesso, del giovanotto sveglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che rapivano chi gli voleva bene, ed esasperavano gli altri; raccontò come durante un soggiorno a Napoli, pre-
sentato alla duchessa di Sanqualchecosa, questa si fosse presa di una passione per lui, e voleva vederlo a casa mattino pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in salotto od a letto, perché, diceva, nessuno sapeva rac-
contare “les petits riens” come lui, e benché don Fabrizio si affrettasse a precisare aggiungendo come allora Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di là della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intuizioni sul conto delle duchesse napoletane. Se da questa attitudine di Angelica si deducesse che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per esser capace di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza il quale non c’è amore; inoltre la propria giovanile esperienza non le permetteva ancora di apprezzare le reali qualità di lui, composte tutte di sfumature sottili; però, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che è assai differente: gli occhi azzurri, la scherzosa affettuosità, certi toni improvvisamente gravi della sua voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento preciso, e in quei giorni non desiderava altro che
di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti avvenne;
ma per il momento ad esser ghermita da lui essa teneva assai. Quindi la rivelazione di quella possibile relazione galante (che era, del resto, inesistente) le causò un attac-
co del più assurdo fra i flagelli, quello della gelosia retrospettiva; attacco presto dissipato, però, da un freddo esame dei vantaggi erotici e non erotici che le sue nozze con Tancredi recavano.
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Don Fabrizio continuava ad esaltare Tancredi: trascinato dall’affetto parlava di lui come di Mirabeau: «Ha cominciato presto ed ha cominciato bene», diceva, «la strada che farà è molta». La fronte liscia di Angelica si chinava nell’assenso. In realtà essa all’avvenire politico di Tancredi non badava: era una delle ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato,
e non immaginava neppure che un
discorso di Cavour potesse con l’andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla. Pensava in siciliano: “Noi avemo il furmento, e
questo ci basta; che strada e strada!” Ingenuità giovanili queste, che essa doveva poi radicalmente scartare quando, nel corso degli anni, divenne una delle più viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta. «E poi, Angelica, voi non sapete ancora quanto è di-
vertente Tancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto. Quando si è con lui, quando è in vena, il mondo appare più buffo di come appaia sempre, talvolta anche più serio.» Che Tancredi fosse divertente Angelica lo sapeva; che fosse capace di rivelare mondi nuovi essa non soltanto lo sperava, ma aveva ragione di sospettarlo fin dal 28 settembre scorso, giorno del famoso ma non unico bacio ufficialmente constatato, al ripa-
ro della infida siepe di alloro, che era stato infatti qualcosa di molto più sottile e sapida, interamente differente da quel che fosse stato il solo altro suo esemplare, quello regalatole dal ragazzotto del giardiniere di Poggio a Cajano, più di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei tratti di spirito, della intelligenza anche del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto queste cose importassero a quel caro don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anché tanto “intellettuale”. In Tancredi es-
sa vedeva la possibilità di avere un bel posto nel mondo nobile della Sicilia, mondo che essa considerava pieno di meraviglie assai differenti di quelle che esso in realtà
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conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di più era anche spiritualmente superiore, tanto meglio; ma lei, per conto suo,
non ci teneva. Divertirsi si poteva sempre. Del resto
queste erano idee per il futuro: per il momento, spiritoso o sciocco che fosse, avrebbe voluto averlo qui, che le stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come ave-
va fatto una volta. «Dio, Dio come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!» Esclamazione che commosse tutti, sia per l'evidente
sincerità come per l'ignoranza in cui restava la sua cagione e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con l’oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa l'ingresso della quale era stato vietato a Peppe Mmerda dalle “lupare” che gli strafotterono i reni.
Una abitudine nella quale si era riannidato don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle letture serali. In autunno, dopo il rosario, poiché faceva troppo buio per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l’ora di pranzo, ed il principe all’in piedi leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e sprizzava di-
gnitosa benevolenza da ognuno dei suoi pori. Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi, si andavano formando quei miti letterari, che ancor oggi dominano le menti europee; la Sicilia, però, in parte per la tradizionale sua impermeabilità al nuovo, in parte per la diffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in parte anche, bisogna dirlo, per la vessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignorava l’esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di Flaubert; financo quella di Dumas. Un paio di volumi di Balzac, è vero, era giunto attraverso sotterfugi fino nelle
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mani di don Fabrizio che si era attribuito la carica di censura familiare; li aveva letti e prestati poi via, disgustato, ad un amico a cui voleva del male, dicendo che essi erano il frutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma strava-
gante e “fissato” (oggi avrebbe detto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo peraltro di una certa acutezza. Il livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionato com'era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupoli religiosi della principessa, e dallo stesso senso di dignità del principe, che si sarebbe energicamente rifiutato a far udire delle «porcherie», ai suoi familiari riuniti. Si era verso il dieci di novembre ed anche alla fine del soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto, imperversava un
maestrale umido che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia sulle finestre; lontano si udiva un rotolare di tuoni; ogni
tanto alcune gocce avendo trovato la strada per penetrare giù negli ingenui fumaioli siciliani friggevano un attimo sul fuoco e picchiettavano di nero gli ardenti tizzoni di ulivo. Si leggeva “Angiola Maria” e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la descrizione dello sgomento viaggio della giovinetta attraverso la diaccia Lombardia invernale intirizziva il cuore siciliano delle signorine, pur nelle loro tiepide poltrone. D'un tratto un gran tramestio nella stanza vicina e Mimì il cameriere entrò col fiato grosso: «Eccellenze», gridò, dimenticando tutta la propria stilizzazione, «Eccellenze, è arrivato il signorino Tancredi! È in
cortile che fa scaricare i bagagli dal carrozzino. Bella madre, madonna mia, con questo tempo!» E fuggi via. La sorpresa rapì Concetta in un tempo che non corri-
spondeva più a quello reale, ed essa esclamò: «caro!»; ma il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente e, come è facile vedere, questi bruschi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad
un’altra palese ma gelida le fecero molto male; per fortu-
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na l’esclamazione sommersa nell’emozione generale non venne udita. Preceduti dai lunghi passi di don Fabrizio tutti si precipitarono verso la scala; si traversarono in fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone esterno e giù sul cortile; il vento irrompeva, faceva fre-
mere le tele dei ritratti spingendo innanzi a sé umidità e odor di terra; sullo sfondo del cielo lampeggiante gli alberi del giardino si dibattevano e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava per infilare la porta quando sull’ultimo scalino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi avvolto nell’enorme mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente inzuppata d’acqua da pesare cento chili e da apparire nera. «Stai attento, zione: non mi toccare, sono una spugna!» La luce
della lanterna della sala fece intravedere il suo volto. Entrò, sganciò la catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciò cadere l’indumento che si afflosciò per terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per don Fabrizio che lo abbracciava, il ragazzo più amato che non i propri figli, per Maria Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per padre Pirrone la pecorella sempre smarrita e sempre ritrovata, per Concetta un caro fantasma rassomigliante ad un suo amore perduto; anche mademoiselle
Dombreuil lo baciò con la bocca disavvezza alle carezze e gridava, la poveretta: «Tancrède, Tancrède, pensons à la
joie d’Angelicà», tante poche corde aveva al proprio arco, sempre costretta com'era a raffigurarsi le gioie degli altri. Bendicò pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma, caninamente, dimo-
strava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell'amato. Fu davvero un momento commovente quello del raggrupparsi della famiglia attorno al giovane che ritorna-
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va, tanto più caro in quanto non proprio della famiglia, tanto più lieto in quanto veniva a cogliere l’amore insieme ad un senso di perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti furono trascorsi, don Fabrizio si accorse che sul limitare della porta stavano due altre figure, gocciolanti anch'esse ed anch’esse sorridenti. Tancredi se ne accorse pure e si mise a ridere: «Scusatemi tutti, ma l'emozione mi ha fat-
to perdere la testa. Zia», disse rivolto alla principessa, «mi sono permesso di portare qui un mio caro amico, il conte Carlo Cavriaghi; del resto lo conoscete, è venuto
tante volte alla villa quando era in servizio presso il generale. E quell’altro è il lanciere Moroni, il mio atten-
dente». Il soldato sorrideva nella faccia ottusamente onesta, se ne stava sull’attenti mentre dal grosso panno del pastrano l’acqua sgocciolava sul pavimento. Ma il contino non stava sull’attenti: toltosi il berrettino fradicio e sformato baciava la mano della principessa, sorrideva e abbagliava le ragazze con i baffetti biondi e l’insopprimibile erre moscia. «E pensare che a me avevano detto che quaggiù da voi non pioveva mai! Mamma mia, son due giorni che siamo stati come dentro il mare!» Dopo si fece serio: «Ma insomma, Falconeri, dov'è la si-
gnorina Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmela vedere. Vedo molte belle, ma lei no». Si rivolse a don Fabrizio: «Sa, principe, a sentire lui è la regina di Saba! Andiamo subito a riverire la “formosissima et nigerrima”. Muoviti, testone!»
Parlava così e trasportava il linguaggio delle mense ufficiali nell’arcigno salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati; e tutti si divertivano. Ma
don Fabrizio e Tancredi la sapevano più lunga: conoscevano don Calogero, conoscevano la “Bella Bestia” di sua
moglie, l'incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che la candida Lombardia ignora. Don Fabrizio intervenne: «Senta, conte: lei credeva
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che in Sicilia non piovesse mai e può vedere invece come diluvia. Non vorrei che credesse che in Sicilia non ci sono le polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. Mimì», disse al suo cameriere, «fai accendere i caminetti nella stanza del signorino Tancredi ed in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene ed a cambiar abito. Le farò portare un ponce e dei biscotti. Ed il pranzo è alle otto, fra due ore». Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio militare per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutò, e seguì mogio mogio il cameriere. Moroni si trascinò dietro le cassette militari e le sciabole ricurve nelle loro fodere di flanella verde. Intanto Tancredi scriveva: “Carissima Angelica, sono arrivato, e arrivato per te. Sono innamorato come un
gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudicio come un cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarò ripulito e mi stimerò degno di farmi vedere dalla bella fra le belle, mi precipiterò da te: fra due ore. I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te... niente, per ora”. Il te-
sto fu sottoposto all’approvazione del principe; questi, che era sempre stato un ammiratore dello stile epistolare di Tancredi, rise, lo approvò pienamente. Donna Bastiana avrebbe avuto tutto il tempo per procurarsi un nuovo malanno; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto. Tale era la foga della letizia generale che un quarto d’ora bastò perché i due giovani si asciugassero, si ripulissero, cambiassero divise e si ritrovassero nel “Leopoldo” attorno al caminetto: bevevano tè e cognac e si lasciavano ammirare. In quei tempi non vi era nulla di meno militare delle famiglie aristocratiche siciliane; ufficiali borbonici non si erano mai visti nei salotti palermi-
tani ed i pochi garibaldini che vi erano penetrati facevano più l’effetto di spaventapasseri pittoreschi che di militari veri e propri. Perciò quei due giovani ufficiali
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erano in verità i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due in “doppio petto”, Tancredi con i
bottoni d’argento dei lancieri, Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l’alto colletto di velluto nero bordato d’arancione il primo, cremisi l’altro, allungavano verso la brace le gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i “fiori” d’argento o d’oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese senza fine: un incanto per quelle figliole avvezze alle “redingotes” severe ed ai
“fracks” funerei. Don Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e trasandati: «Ma insomma, voialtri garibaldini non portate più la camicia rossa!» I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera. «Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell'esercito regolare di Sua Maestà, il re di Sardegna per qualche mese ancora, d’Italia fra poco. Quando l’esercito di Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nelle
armate del Re. Lui ed io come tanti altri siamo entrati nell’esercito “vero”. Con quelli lì non si poteva stare, non è così, Cavriaghi?» «Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni per sparacchiare e basta! Adesso siamo fra persone perbene, siamo ufficiali sul serio insomma.» E sollevava il baffetto con una smorfia di adolescente disgusto. «Ci hanno tolto un grado, sai, zione: tanta poca stima avevano della serietà delle nostre attitudini militari; io
da capitano sono ridiventato tenente, vedi», e mostrava le due stellette delle controspalline; «lui da tenente è sottotenente. Ma siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo rispettati in tutt'altro modo, adesso, con le nostre divise.» «Sfido io», interruppe Cavriaghi,
«la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora.» «Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava
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dire: “ordini urgenti per il servizio di sua Maestà”, e i cavalli comparivano d’incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell’albergo di Napoli bene avvolti e sigillati.» Esaurita la conversazione sui mutamenti militari si passò a più vaghi argomenti. Concetta e Cavriaghi si erano seduti insieme un po’ discosti ed il contino mostrava a lei il regalo che le aveva portato da Napoli: i “Canti” di Aleardo Aleardi che aveva magnificamente fatto rilegare. Sull’azzurro cupo della pelle una corona principesca era profondamente incisa e sotto:le cifre di lei: C.C.S. Più sotto ancora caratteri grandi e vagamente gotici dicevano: “Sempre sorda”. Concetta, divertita, rideva. «Ma perché sorda, conte? C.C.S. ci sente benissimo.» Il volto del contino s’infiammò di fanciullesca passione: «Sorda, sì sorda, signorina, sorda ai miei sospiri, sorda
ai miei gemiti, e cieca anche, cieca alle suppliche che i miei occhi le rivolgono. Sapesse lei quanto ho patito a Palermo, quando loro sono partiti per qui: nemmeno un saluto, nemmeno un cenno mentre la vettura scompariva nel viale! E vuole che non la chiami sorda? “Crudele” avrei dovuto far scrivere». La concitazione letteraria di lui fu congelata dal riserbo della ragazza. «Lei è ancora stanco per il lungo viaggio, i suoi nervi non sono a posto; si calmi: mi faccia
piuttosto sentire qualche bella poesia.» Mentre il bersagliere leggeva i molli versi con voce accorata e pause piene di sconforto, davanti al caminetto Tancredi estrasse di tasca un astuccetto di raso celeste. «Ecco l’anello, zione, l'anello che dono ad Angelica; o
piuttosto quello che tu per mia mano le regali.» Fece scattare la molletta ed apparve uno zaffiro scurissimo, tagliato in ottagono schiacciato, serrato tutt'intorno stretto
stretto da una moltitudine di piccoli purissimi brillantini. Un gioiello un po’ tetro ma altamente consono al gusto cimiteriale dell'Ottocento, e che valeva chiaramente le
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duecento “onze” spedite da don Fabrizio. In realtà era costato assai meno. In quei mesi di semisaccheggio e di fughe, a Napoli si trovavano bellissimi gioielli d’occasione; dalla differenza di prezzo era saltata fuori una spilla,
un ricordo per la Schwarzwald. Anche Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo, ma non si mossero perché il contino l’aveva già visto e perché Concetta rimandò quel piacere a più tardi. L’anello girò di mano in mano, fu ammirato, lodato; e venne esaltato il prevedibile
buon gusto di Tancredi. Don Fabrizio chiese: «Ma per la misura come si farà? bisognerà mandare l'anello a Girgenti per farla fare giusta». Gli occhi di Tancredi sprizzarono malizia: «Non ci sarà bisogno, zio; la misura è esatta; l’avevo presa prima»; e don Fabrizio tacque: aveva riconosciuto un maestro. L’astuccetto aveva compiuto tutto il giro attorno al
caminetto ed era ritornato nelle mani di Tancredi, quando da dietro la porta si udì un sommesso: «Si può?» Era Angelica. Nella fretta e nell’emozione non aveva trovato di meglio per ripararsi dalla pioggia dirotta che mettersi uno “scappolare”, uno di quegli immensi tabarri da contadino di ruvidissimo panno: avviluppato nelle rigide pieghe bleu-scure il corpo di lei appariva snellissimo; di sotto il cappuccio bagnato gli occhi verdi erano ansiosi e smarriti; parlavano di voluttà. Da quella vista, da quel contrasto anche fra la bellezza della persona e la rusticità della veste, Tancredi ricevette
come una frustata: si alzò, corse verso lei senza parlare e la baciò sulla bocca. L’astuccio che teneva nella destra solleticava la nuca recline. Poi fece scattare la molla, prese l'anello, glielo passò all’anulare; l’astuccio cadde per terra. «Tieni, bella, è per te, daltuo Tancredi.» L’ironia si
ridestò: «E ringrazia anche zione per esso». Poi la riabbracciò: l’ansia sensuale li faceva tremare: il salone, gli astanti per essi sembravano molto lontani; ed a lui parve
davvero che in quei baci riprendesse possesso della Sici-
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lia, della terra bella ed infida che i Falconeri avevano per secoli posseduta e che adesso, dopo una vana rivolta, si arrendesse di nuovo a lui, come ai suoi da sempre, fatta di
delizie carnali e di raccolti dorati. In seguito all’arrivo degli ospiti benvenuti il ritorno a Palermo fu rinviato; e seguirono due settimane d’incanti. L’uragano che aveva accompagnato il viaggio dei due ufficiali era stato l’ultimo di una serie e dopo di esso risplendette l’estate di San Martino che è la vera stagione di voluttà in Sicilia: temperie luminosa e azzurra, oasi di mitezza nell’andamento aspro delle stagioni, che con la mollezza persuade e travia i sensi mentre con il tepore invita alle nudità segrete. Di nudità erotiche nel palazzo di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta. Il palazzo dei Salina era stato ottant'anni prima un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza severa della principessa Carolina, la neo-religiosità della Restaurazione, il carattere soltanto bonariamente arzillo dell’attuale don Fabrizio avevano fatto persino dimenticare i suoi bizzarri trascorsi; i diavoletti incipriati erano stati posti in fuga; esistevano ancora, certamente, ma al-
lo stato larvale, ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissà quale soffitta dello smisurato edificio. L’entrata a palazzo della bella Angelica aveva fatto un po’ rinvenire quelle larve, come forse si ricorderà; ma fu l’arrivo dei giovanotti innamorati che ridestò davvero gli istinti rimpiattati nella casa; essi adesso si mostravano dappertutto, come formiche destate dal sole, disintossicati ma oltremodo vivaci. L'architettura, la decorazione stessa
rococò con le loro curve impreviste evocavano anche distese e seni eretti; l’aprirsi di ogni portale frusciava come una cortina di alcova. Cavriaghi era innamorato di Concetta; ma fanciullo
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com’egli era e non soltanto nell’aspetto come Tancredi ma nel proprio intimo, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a contemplare il logico seguito e che del resto la «sordità» di Concetta schiacciava in embrione. Non si sa se nella seclusione della sua camera verde egli non si abbandonasse ad un più concreto vagheggiare ma alla scenografia galante di quell’autunno donnafugasco egli contribuiva come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti più che come ideatore di masse architettoniche. Le due ragazze, invece, Carolina e Caterina, tenevan assai bene la loro parte nella sinfonia di
desideri che in quel novembre percorreva tutto il palazzo e si mescolava al mormorio delle fontane, allo scalciare
dei cavalli in amore nelle scuderie ed al tenace scavare di nidi nuziali da parte dei tarli nei vecchi mobili. Erano giovanissime ed avvenenti e benché prive di innamorati particolari si ritrovavano immerse nella corrente di stimoli che emanava dagli altri; e spesso il bacio che Concetta ne-
gava a Cavriaghi, la stretta di Angelica che non aveva saziato Tancredi si riverberava sulle loro persone, sfiorava i loro corpi intatti e per esse si sognava, esse stesse sogna-
vano ciocche madide di speciosi sudori, gemiti brevi. Financo l’infelice mademoiselle Dombreuil a forza di dover funzionare da parafulmine, come gli psichiatri si infettanoe soccombono alle frenesie dei loro ammalati,
fu attratta nel ridente e torbido vortice; quando dopo una giornata di inseguimenti e di agguati moralistici essa si coricava sul letto solingo palpava i propri seni vizzi e mormorava indiscriminate invoeazioni a Tancredi, a Car-
lo, a Fabrizio...
Cemtro e motore di questa esaltazione sensuale era, naturalmente, la coppia Tancredi-Angelica. Le nozze sicure benché non vicinissime stendevano in anticipo la loro ombra rassicurante sul terriccio arso dei loro mutui desideri e la differenza di ceti faceva credere a don Calo-
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gero normali nella nobiltà i lunghi colloqui appartati, ed alla principessa Maria Stella abituali nel rango dei Sedara la frequenza delle visite di Angelica ed una certa libertà di contegno che essa non avrebbe certamente trovata lecita nella proprie figlie; e così le visite di Angelica al palazzo divennero sempre più frequenti sino ad essere quasi perpetue ed essa finì con l’essere accompagnata soltanto formalmente dal padre che si recava subito in amministrazione per scoprire o tessere nascoste trame 0
dalla cameriera che scompariva nel riposto per bere il caffè ed incupire i domestici sventurati. Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, scalette, terrazzini e porticati, e soprattutto di
una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale; ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato palazzo erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita,
ed incognita era davvero perché in molti di quegli appartamenti e ripieghi neppure don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto gli era cagione di grande soddisfazione, perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscevano tutte le camere non era degno di essere abitato. I due innamorati s’imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da Cavria» ghi o da mademoiselle Dombreuil, talvolta da tutti e due: la decenza esteriore era salva. Ma nel palazzo di
Donnafugata non era difficile di fuorviare chi volesse se-
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guirli: bastava infilare un andito, svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e si era lontano, invisibili, soli come su un’isola deserta. Restavano a guardarli
soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l’inesperienza del pittore aveva creato cieco, o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi del resto si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per far piacere all'amico come per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva più a lungo ma non per sempre; per qualche tempo si udivano sempre più lontani i suoi appelli mai corrisposti: «Tancrède, Angelicà, où étes-vous?» Poi tutto si richiudeva
nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria di-
menticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l'Eros era sempre con loro, malizioso e
tenace; il gioco in cui trascinava i fidanzati era pieno di malia e di azzardi. Tutti e due vicinissini ancora all’infanzia prendevano piacere al giocare in sé, godevano
nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il so-
pravvento e le cinque dita di lui che s’incastravano nelle dita di lei, nel gesto caro ai sensuali indecisi, il soave sof-
fregamento dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso scombussolava tutto il loro essere, preludeva a più insi-
nuate carezze. Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po’ “Arturo Corbera all’assedio di Antiochia” protesse l’ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta e rimase una eternità a dire: «No, Tancredi, no»,
diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva
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altro che fissare nei verdissimi occhi di lei ipropri azzurri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva: su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli in fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta delizia. Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome; e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati celebrandoli coi nomi delle scoperte reciproche; una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo fu ricordata poi come la “camera delle pene”. Più di una volta non seppero davvero più dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, di inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e di contatti perdevano l’orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall’aspetto di un
cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non capivano lo stesso perché la finestra dava non su uno dei grandi cortili ma su di un andito interno, anonimo e mai intravisto, con-
trassegnato solo dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da una finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata. Un pomeriggio rinvennero
dentro un armadio quattro “carillons”, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l’affettata ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle tele di ragno, rimasero mute; ma l’ultima, più recente, meglio chiusa nell’astuccio di legno scuro, mise in
moto il proprio cilindro di rame irto di punte e le linguette di acciaio sollevate fecero ad un tratto udire una musichetta gracile, tutta in toni acuti, argentini: il famoso “Carnevale di Venezia”; ed essi ritmarono i loro baci
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in accordo con quei suoni di gaiezza disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell’accorgersi che la musichetta era cessata da tempo e che le loro espansioni non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica. Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette
presto a quelle dita che godevano nell’incrociarsi e nel soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un’altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte; e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei
piccole camere raccolte attorno ad un salotto di mediocre grandezza, tutte, e il salotto stesso, con pavimenti di bianchissimo marmo, un po’ in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in basso, ciascuno col contorto reggi-
candele del Settecento. Le finestre davano su un cortile segregato, una specie di pozzo, cieco e sordo, che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun’altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto, ampi, troppo ampi divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti delicati, intricati intagli di marmo,
nudi parossistici, martoriati però; mutilati da un martello rabbioso. L'umidità aveva macchiato i muri in alto ed anche, forse, in basso, ad altezza d’uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, inconsueti spessori,
tinte cupe. Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto: lo schiuse lui stesso. Era profondissimo ma vuoto, tranne per un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dietro vi era un fa-
scio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici di argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre,
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sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre: ed attrezzini metallici, inspiegabili. Tancredi ebbe paura di sé stesso: «andiamo via, cara, qui non c’è niente d’inte-
ressante». Rinchiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l’armadio; e tutto il giorno poi i baci di Tancredi furono lievissimi, come dati in sogno ed in espiazione. Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l'oggetto più frequente a Donnafugata. L’indomani della loro scoperta dell’appartamentino enigmati-
co i due innamorati s’imbatterono in un altro frustino. Questo in verità non era negli appartamenti ignorati, an-
zi in quello venerato detto del Duca-Santo, dove a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, bas-
se di soffitto, con l’ammattonato di umile creta, con le pareti candide simili a quelle dei contadini più derelitti. L’ultima dava su un poggiolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un’enorme crocifisso, più grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta dal manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei
palle di piombo grosse come nocciole. Era la «disciplina» del Duca santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della
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sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite e
molte di esse che da lassù si vedevano, appartenevano ad altri, a don Calogero anche: a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al suo futuro figlio. L’evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all’altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. «Vedi, tu sei come quell’arnese lì, servi agli stessi
scopi.» E mostrava la “disciplina”, e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e così genuflessa com'era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato. I due passavano così quelle giornate in vagabondaggi trasognati, in scoperte d’inferni che l’amore poi redimeva, in rinvenimenti di paradisi trascurati che lo stesso amore profanava; il pericolo di far cessare il gioco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano più, ma se ne andavano as-
sorti nelle stanze più remote, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state: solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lì tutti e due stretti ed innocenti, a com-
patirsi l’un l’altro. Le più pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto, dalle materassa arrotolate che un colpo della mano sarebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: «Sono la tua novizia», ri-
chiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri che fosse corso fra loro;
e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi
. Appendice
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giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sotriso. Si
ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire. Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi esser tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benché poi risultasse fatto di fumo e di vento soltanto. Quando furono diventati vecchi ed inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che
erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era un attimo sublimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che eroticamente fu mal riuscito, una preparazione però che si atteggiò in un insieme a sé
stante, squisito pravvivono alle che contengono di pudore tutte esser sviluppate
e breve: come quelle sinfonie che soopere dimenticate cui appartengono e accennate e con la loro giocosità velata quelle arie che poi nell’opera dovevano senza destrezza, e fallire.
Quando Angelica e Tancredi ritornavano nel mondo dei viventi dal loro esilio nell’universo dei vizi estinti, delle virtù dimenticate e soprattutto del desiderio perenne, venivano accolti con bonaria ironia. «Siete proprio scemi, ragazzi, ad andare ad impolverarvi così. Ma guardati un po’ come sei ridotto, Tancredi» sorrideva don Fabrizio, e il nipote andava a farsi spazzolare. Cavriaghi a cavalcioni di una sedia fumava compunto un “virginia” e guardava l’amico che si lavava la faccia ed il collo e che sbuffava per il dispetto di veder l’acqua divenire nera come il carbone. «Io non dico di no, Falconeri: la signorina Angelica è la più bella “tosa” che abbia mai
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Il Gattopardo
visto; ma questo non ti giustifica: Santo Dio, un po’ di freni ci vogliono; oggi siete stati soli tre ore; se siete tan-
to innamorati sposatevi subito e non fate ridere la gente. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il padre oggi quando, uscito dall’amministrazione, ha visto che voi
stavate ancora navigando in quest’oceano di stanze! Freni, caro amico, freni ci vogliono, e voi Siciliani ne avete pochini!»
Pontificava, lieto di infliggere la propria saggezza al camerata più anziano, al cugino della “sorda” Concetta. Ma Tancredi mentre si asciugava i capelli era furibondo: essere accusato di non avere freni, lui, che ne aveva tanti
da poter fermare un treno! D’altra parte il buon bersagliere non aveva poi tutti i torti: anche alle apparenze bisognava pensare; però era divenuto tanto moralista per invidia, perché ormai si vedeva che la sua corte a Concetta non approdava a nulla. E poi quell’Angelica: quel gusto soavissimo di sangue oggi, quando le aveva morso l’interno del labbro! E quel suo piegarsi soffice sotto l'abbraccio! Ma era vero, non aveva senso. “Domani an-
dremo a visitare la chiesa con tanto di Padre Pirrone e di mademoiselle Dobreuil di scorta.” Angelica intanto andava a mutar d’abito nelle stanze delle ragazze. «Mais Angelicà, est-il Dieu possible de se mettre dans un tel état?» s'indignava la Dombreuil.mentre la bella in corpetto e sottanina si lavava le braccia e il collo. L’acqua fredda le faceva sbollire l’eccitazione e doveva convenire fra sé, che la governante aveva ragione: valeva la pena di stancarsi tanto, d’impolverarsi a quel modo, di far sorridere la gente, e perché poi? per farsi guardare negli occhi, per lasciarsi percorrere da quelle dita sottili, per poco di più... Ed il labbro le doleva ancora. “Adesso, basta. Domani staremo in salotto con gli altri.” Ma l'indomani quegli stessi occhi, quelle stesse dita avrebbero riacquistato il loro sortilegio, e di
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nuovo i due avrebbero ripreso il loro pazzesco gioco a nascondersi ed a mostrarsi. Il risultato paradossale di questi propositi, separati ma convergenti, era che la sera a pranzo i due più innamorati erano i più sereni, poggiati sulle illusorie buone intenzioni per l'indomani; e sî divertivano a ironizzare sulle manifestazioni amorose degli altri, pur tanto minori. Concetta aveva deluso Tancredi: a Napoli aveva patito un certo rimorso nei riguardi di lei e per questo si era tirato dietro Cavriaghi col quale sperava di rimpiazzare se stesso verso la cugina; anche la compassione faceva
parte della sua preveggenza. Sottilmente ma anche bonariamente astuto com'era aveva avuto arrivando quasi
l’aria di condolersi con lei per il suo proprio abbandono; e spingeva avanti l’amico. Niente: Concetta dipanava il proprio chiacchiericcio di collegiale, guardava il sentimentale contino con occhi gelidi dietro i quali si poteva financo notare un po’ di disprezzo. Quella ragazza era una sciocca: non se ne poteva tirar fuori niente di
buono. Alla fine cosa voleva? Cavriaghi era un bel ragazzo, una buona pasta d’uomo, aveva un bel nome, grasse cascine in Brianza; era insomma quel che con termine gelido si chiama: “un ottimo partito”. Già; Concetta voleva lui, non era così? Anche lui la aveva voluta
un tempo: era meno bella, assai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualche cosa che la donnafugasca non avrebbe posseduto mai. Ma la vita è una cosa seria, che diamine! Concetta avrebbe dovuto capirlo. E poi perché aveva cominciato a trattarlo così male? Quella partaccia a Santo Spirito, tante altre dopo. Il Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovrebbero esistere dei limiti
anche per quella bestiaccia superba. “Freni ci vogliono, cara cugina, freni! E voi Siciliane ne avete pochini.” Angelica invece dava in cuor suo ragione a Concetta: Cavriaghi mancava troppo di pepe; dopo esser stata innamorata di Tancredi sposare lui sarebbe stato come bere
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Il Gattopardo
dell’acqua dopo aver gustato questo marsala che le stava davanti. Per Concetta va bene, la capiva a causa dei precedenti. Ma le altre due stupide, Carolina e Caterina, guardavano Cavriaghi con occhi di pesce morto e «friccichiavano», si sdilinguivano tutte quando lui si avvicinava. E allora! Con la mancanza di scrupoli familiare essa non capiva perché una delle due non cercasse di distogliere il contino da Concetta a proprio profitto. «A quell’età i giovanotti sono come i cagnolini: basta fischiettar loro e si avanzano subito. Sono delle stupide: a forza di riguardi, di divieti, di superbie, finiranno si sa già come.» Nel salotto dove dopo la cena gli uomini si ritiravano per fumare, anche le conversazioni fra Tancredi e Cavriaghi, i soli due fumatori della casa e quindi i due soli esiliati, assumevano un tono particolare. Il contino finì
col confessare all'amico il fallimento delle proprie speranze amorose: «È troppo bella, troppa pura per me; non mi ama; sono stato temerario a sperarlo; me ne andrò da qui col pugnale del rimpianto infitto nel cuore. Non ho neppure osato farle una proposta precisa. Sento che per lei sono come un verme della terra, ed è giusto che sia così; debbo trovare una vermessa che si accontenti di me». E i suoi diciannove anni lo facevano ridere della propria sventura. Tancredi, dall’alto della propria felicità assicurata, si provava a consolarlo: «Sai, conosco Concetta dalla nascita; è la più cara creatura che esista: uno specchio di tutte le virtù; ma è un po’ chiusa, ha troppo ritegno, temo che stimi troppo se stessa; e poi è siciliana sino al midollo delle ossa; non è mai uscita da qui; chi sa se si sa-
rebbe mai trovata bene a Milano, un paesaccio dove per mangiare un piatto di maccheroni bisogna pensarci una
settimana prima!» | L’uscita di Tancredi, una delle prime manifestazioni dell’unità nazionale, riuscì a far di nuovo sorridere Ca-
vriaghi; su di lui pene e dolori non riuscivano a fermarsi:
Appendice
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«Ma gliene avrei procurato delle casse dei vostri maccheroni, io! Ad ogni modo quel che è fatto è fatto: spero solo che i tuoi zii che sono stati tanto carini con me, non mi odieranno poi per essermi venuto a cacciare fra voi senza costrutto». Fu rassicurato e sinceramente perché
Cavriaghi era piaciuto a tutti, tranne che a Concetta (e del resto forse anche a Concetta) per il rumoroso buon umore che in lui si univa al sentimentalismo più flebile; e si parlò d’altro, cioè si parlò di Angelica. «Vedi, tu, Falconeri, tu sì che sei fortunato! Andare a
scovare un gioiello come la signorina Angelica in questo porcile (scusa, sai, caro). Che bella, Dio Signore, che
bella! Bricconaccio tu che te la porti a spasso per delle ore negli angoli più remoti di questa casa che è grande quanto il nostro duomo! E poi non solo bella ma intelligente anche e colta: e poi buona: si vede dagli occhi la sua bontà, la sua cara ingenuità innocente.» Cavriaghi continuava ad estasiarsi per la bontà di Angelica, sotto lo sguardo divertito di Tancredi. «In tutto questo il veramente buono sei tu, Cavriaghi.» La frase
scivolò inavvertita sull’ottimismo ambrosiano. Poi: «Senti», disse, «fra pochi giorni partiremo: non ti sembra che sarebbe ora che fossi presentato alla madre della baronessina?» Era la prima volta che, così, da una voce lombarda,
Tancredi udiva chiamare con un titolo la sua bella. Per un attimo non capì di chi si parlava. Poi il principe in lui si ribellò: «Ma che baronessina, Cavriaghi! È una bella e cara figliola cui voglio bene, e basta». Che fosse proprio «basta» non era vero; però Tancredi parlava sincero: con l’abitudine atavica ai larghi possessi gli sembrava che Gibildolce, Settesoli ed i sacchetti di tela
fossero stati suoi dal tempo di Carlo d'Angiò, da sempre. «Mi dispiace, ma credo che la madre di Angelica non potrai vederla: parte domani per Sciacca a far le cure delle stufe; è molto ammalata, poverina.»
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Il Gattopardo
Schiacciò nel buttacenere quel che avanzava del “virginia”. «Andiamo in salotto, abbiamo fatto gli orsi abbastanza.» Uno di quei giorni don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti, redatta in stile di estrema cortesia, che gli annunciava l’arrivo a Donnafugata del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario della prefettura che avrebbe dovuto intrattenerlo di un argomento che stava molto a cuore al governo. Don Fabrizio, sorpreso, spedì l'indomani il figlio Francesco Paolo alla stazione di posta per ricevere il “missus dominicus” e invitarlo a venire ad alloggiare a palazzo, atto di ospitalità quanto di vera misericordia, consistente nel non abbandonare il corpo del nobiluomo piemontese alle mille belvette che lo avrebbero torturato nella locanda-spelonca di zu’ Menico. La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile subito all’aspetto esterrefatto ed al sorrisetto guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più strenuamente indigena per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica vi si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa
imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi
arrivati e da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del suo ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio; inoltre la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere. Adesso se ne stava lì, nel crepuscolo, con la sua valigetta
di tela bigia e guatava l'aspetto privo di qualsiasi civetteria della strada in mezzo alla quale era stato scaricato;
l'iscrizione «Corso Vittorio Emanuele» che con i suoi
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caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava rivolgersi ad alcuno dei contadini addossati alle case come cariatidi, sicuro com'era di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue che gli erano care benché sconvolte. Quando Francesco Paolo gli si avvicinò presentandosi, strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato; ma l'aspetto composto e onesto del giovanottone biondo lo rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a casa Salina fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella siciliana (le due più puntigliose d’Italia) a proposito della valigia che finì con l’esser portata, benché leggerissima, da ambedue i cavallereschi contendenti. Quando giunse a palazzo i volti barbuti dei «campieri» che stazionavano armati nel primo cortile turbarono di nuovo l’anima di Chevalley di Monterzuolo: mentre la bonarietà distante dell'accoglienza del Principe insieme all’evidente fasto degli ambienti intravisti lo precipitarono in opposte cogitazioni. Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltà piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra era la prima volta che egli si trovava ospite di una grande casa e questo raddoppiava la sua timidezza; mentre gli aneddoti sanguinosi uditi raccontare a Girgenti, l'aspetto oltremodo protervo del paese nel quale era giunto e gli sgherri (come pensava lui) accampati in cortile, gli incutevano spavento; in modo che scese a pranzo martoriato dai contrastanti timori di chi è capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini ed anche da quelli dell’innocente caduto in un agguato banditesco. A cena mangiò bene per la prima volta da quando ave-
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Il Gattopardo
va toccato le sponde sicule, e l’avvenenza delle ragazze,
l’austerità di padre Pirrone e le grandi maniere di don Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafugata non era l’antro del bandito Capraro e che da esso sarebbe probabilmente uscito vivo; ciò che più lo consolò fu la presenza di Cavriaghi, che, come apprese, abitava lì da dieci giorni ed aveva l’aria di star benissimo ed anche di essere grande amico di quel giovanottino Falconeri, amicizia questa fra un siciliano ed un lombardo che gli apparve miracolosa. Alla fine della cena si avvicinò a don Fabrizio e lo pregò di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l’indomani mattina; ima il principe gli spiaccicò una spalla con una manata e col più gattopardesco sorriso: «Niente affatto, caro cavaliere», gli disse: «adesso lei è a casa mia e la terrò in ostaggio sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr’occhi sino al pomeriggio». Questa frase che avrebbe terrorizzato l’ottimo segretario tre ore prima lo rallegrò invece adesso; Angelica quella sera non c’era e quindi si giocò a “whist”: ad un tavolo insieme a don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone vinse due “rubbers” e guadagnò tre lire e trentacinque centesimi, dopo di che si ritirò in camera sua, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno fiducioso del giusto.
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PREMESSA
Il Gattopardo apparve trentasette anni fa, nell'autunno del 1958. Rapido il successo, sostenuto dal consenso quasi costante delle recensioni e ancor più delle vendite, culminato a otto mesi dall’apparizione del libro con l'assegnazione nel 1959 del Premio Strega. Il riconoscimento, fatto
raro, era stato assegnato ad un’opera che ancora regge sul mercato librario. L'aureola di un premio letterario è di per sé effimera, e lo Strega non fa eccezione, soltanto alcune punte restano in circolazione dopo l'impatto del primo consenso, e il duraturo favore dei lettori si sovrappone alle analisi critiche della prima ora. Se un libro conserva un posto nel cuore del pubblico, e nel caso del Gattopardo esso è rimasto nel cuore dei lettori del mondo intero, significa che i tratti apparsi all'inizio contingenti, legati alla storia personale dell'autore, del suo ambiente e del suo
paese, sono stati invece suscettibili di innescare nei lettori un potenziale di partecipazione imprevedibile, significa che tanti uomini di diversa origine ed esperienza hanno potuto riconoscersi net temi e negli eroi del romanzo, temi
generali per ogni uomo: il destino e senso della vita, il suo mutare, nell'arco fra la spinta alla conquista che contraddistingue la gioventù, e la rassegnazione, la coscienza della vanità di tali sforzi, che accompagna mestamente l'età
matura e l'approssimarsi della morte. Nel 1988, quando apparve l'edizione critica de I racconti, erano stati pubblicati i seguenti scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo, I edizione a cura di Giorgio Bassani, Feltrinelli, 1958; Il Gattopardo, edizione
322
I racconti
conforme al manoscritto del 1957, Feltrinelli, 1969; Lezioni su Stendhal, ir «Paragone», aprile 1959 e poi Sellerio, 1977; I racconti, I edizione, Feltrinelli, 1961; Invito alle lettere francesi del Cinquecento, Feltrinelli, 1969. Nel
1970 Andrea Vitello aveva anche illustrato su «Il Giornale di Sicilia» i tre saggi apparsi nel 1926-27 su «Le Opere e î Giorni». Essi verranno ripresentati al pubblico soltanto nel 1989 sotto il titolo Il mito, la gloria, Shakespeare & Co. Nel frattempo erano anche apparsi i due principali contributi biografici: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Andrea Vitello, Sellerio, 1987 e Lettere a Licy, di Caterina Cardona, Sellerio, 1987; preceduti dalla fondamentale memoria, Ricordo di Lampedusa, di Francesco Orlando,
Scheiwiller, 1963. Stava anche per uscire la biografia di David Gilmour, The last Leopard, London, 1988. La crono-
logia editoriale può esser suddivisa in quattro fasi: 1) 19581961: pubblicazione dell’opera narrativa autorizzata o curata dalla vedova; 2) 1969: edizione conforme al mano-
scritto del 1957 del Gattopardo, a seguito della polemica sull’autenticità dell'edizione Bassani; 3) 1979: pubblicazione dell’Invito alle lettere francesi del Cinquecento, so/lecitata dalla Feltrinelli e curata dalla vedova; 4) dal 1988
ad oggi, revisione critica de I racconti, pubblicazione della Letteratura inglese e dei principali studi biografici, tutti apparsi dopo la morte di Alessandra Wolff (1982). L'edizione de I racconti del 1988 apre quindi le indagini sul Lampedusa privato, e del pari sugli scritti incompiuti e, allo stato in cui ci sono pervenuti, indubbiamente non destinati alla pubblicazione. IÌ sospetto sulla autenticità dei testi dati alle stampe non aveva, come è noto, ri-
sparmiato lo stesso Gattopardo. I/ resto del lascito, umano e letterario, si presenta in questo scrittore di tarda vocazione singolarmente intrecciato, una commistione di
esperienze culturali e di desideri, memorie felici o delusioni, passioni inappagate che covano sotto le ceneri, tratti
questi, che rendono commossa la più arida ricognizione ed
«Premessa
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elencazione. Questo ultimo tratto del suo lascito era rimasto celato fino alla edizione critica de I racconti, sia per la diffidenza della vedova a mostrare i materiali ad occhi indiscreti, sia perché il contatto fra vita ed opera letteraria è in Tomasi talmente personalizzato da indurre alla pietà verso una vita avara di soddisfazioni. Coloro che lo hanno amato hanno ritenuto opportuno rispettare la personalità di un uomo il cui riserbo tradiva anche la problematicità di un inserimento nel proprio tempo.
La scomparsa della vedova nel 1982 lasciava così insoluto il problema sul cosa fare del lascito lampedusiano. Motivi per un ripensamento non mancavano. Né ci si tro-
vava di fronte al caso di una vita segreta, alla possibile rivelazione di pratiche e vizi privati, che alcuni hanno voluto rintracciare, sull'onda di una recente tendenza della
storiografia letteraria britannica. E d'altra parte urgeva il successo costante dell’opera narrativa allora conosciuta,
successo che proseguiva senza soste a trent'anni dall’esordio pubblico; esso sollecitava risposte, indagini, documen-
ti, se non altro per spiegare le ragioni recondite di tale tenuta. La particolarità dello scrittore dipende anche dalla sua propensione a confondere il personale col pubblico, e proprio questo privato può esser la chiave interpretativa di
un tratto singolare di Tomasi di Lampedusa: la cultura quale griglia per meglio articolare e analizzare le vicende individuali, per rendere appieno il gioco delle passioni, donde quella sensazione potente, efficace, di amore rifiutato, la plasticità della dialettica desiderio-frustrazione che
è chiave e magia della sua opera. I racconti, quattro pezzi di diversa provenienza, curati e presentati da Giorgio Bassani nel 1961 sotto questo titolo,
furono pubblicati da dattiloscritti redatti sotto dettatura della vedova dello scrittore. La ricerca dei materiali originali ba consentito, almeno fino ad ora, di rintracciare sol-
tanto l’autografo integrale del “racconto” che era stato inti-
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I racconti
tolato dai curatori Iluoghi della mia prima infanzia; a questo si è aggiunto recentemente un frammento autografo sul palazzo di Torretta. Mancano gli autografi di Il mattino di un mezzadro e di La gioia e la legge. Quanto a Lighea è stato rinvenuto un foglio staccato autografo che contiene un frammento dell'incontro meraviglioso sulle rive dello Jonio. Il frammento rivela una prima stesura poi ampia-
mente rielaborata. Altra fonte testuale è una registrazione su nastro letta dall’autore, che comprende quattro quinti del testo. I quattro pezzi furono scritti nel seguente ordine crono-
logico: I luoghi della mia prima infanzia (estate 1955), La gioia e la legge (autunno 1956), Lighea (inverno 1956-57), Il mattino di un mezzadro (inverno-primavera 1957). Essi vengono qui ripubblicati nell'ordine indicato e con i seguenti titoli: Ricordi d’infanzia (titolo dell’autografo), La gioia e la legge (non è al momento possibile stabilire se il titolo fosse diverso), La sirena (ttolo adoperato dall’autore), I gattini ciechi (tolo previsto dall’autore per il suo secondo romanzo). Il lascito pubblicato sotto il titolo I racconti è quindi formato da una ricognizione della memoria, da due novelle e dal primo capitolo di un romanzo. Riferisco dapprima sui tre pezzi di narrativa e tratterò
infine più diffusamente della memoria che merita una maggiore attenzione.
Non potrei affermare con certezza se La gioia e la legge fosse stata battuta a macchina vivente l’autore, presumo di no, visto che Francesco Orlando sul finire del 1956 si
era allontanato da Lampedusa ed egli è il solo dattilografo di cui questi si sia servito. Inoltre la macchina da scrivere in possesso di Lampedusa era inservibile. Il racconto fu scritto nell’autunnò del 1956, quasi un diversivo dopo il rifiuto del Gattopardo da parte della Mondadori. Nel lascito lampedusiano esso mi appare il pezzo più letterario, nel senso di un’opera estranea alle passioni private
e Premessa
D25
dell'autore. Il dattiloscritto pervenuto alla Feltrinelli fu redatto da Olga Biancheri, sorella della vedova Lampedusa. Sembra del tutto attendibile, salvo qualche svista, da
imputare al fatto che redattrice e curatrice non adoperavano la propria madrelingua. Le rettifiche della presente edizione sono sporadiche e chiaramente dipendenti da errori materiali. Quanto al titolo, mi pare di ricordare, ma non
posso affermarlo con certezza come nel caso della Sirena, che l’autore lo designasse Il panettone, secondo una tradizione novellistica per cui il titolo è desunto dall'oggetto a contendere, ad es. La giara o Il cappotto. È i/ pezzo meno personale della produzione letteraria di Lampedusa, dal che il minore consenso o interesse, che ha portato fra l’al-
tro alla sua esclusione dalla traduzione dei Racconti in lingua inglese. La Sirena fu scritta a cavallo fra il 1956 ed il ’57. Il frammento autografo di una prima stesura è riportato în
appendice. Le differenze sono rilevanti, la lingua ha un'impronta dialettale e meno aulica, la grafia è compressa dalla urgenza dello scrivere e dalla carenza di spazio, il tutto è compreso in un foglio di carta da lettere leggera. Il foglio è stato da me rinvenuto in una cartella contenente due dattiloscritti di Lucio Piccolo ed è custodito nella mia casa di Palermo. Sulla fine del febbraio 1957 Giuseppe Tomasi venne a casa mia (io abitavo allora nel palazzo Mazzarino in via Maqueda) per registrare La Sirena. Era questo il titolo con cui indicava il racconto di cui era specialmente fiero. La mia fidanzata, Mirella Radice, mi aveva regalato per il compleanno (11 febbraio) il primo registratore della mia vita, il miglior Grundig allora in commercio. Giuseppe lesse l’intero racconto, ma nella prima parte, quella ambientata nel caffè, il microfono era troppo discosto e la voce immersa nel rumore di fondo. Questa parte venne cancellata, e la lettura inizia da «Credo che anche lui si fosse
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I racconti
preso di un certo affetto per me»: gli incontri fra il vecchio ed il giovane si svolgono ancora al caffè ma le loro relazioni si avviano a gran passi verso il disgelo. Giuseppe leggeva da un manoscritto, l'accento palermitano della passata generazione, oggi quasi scomparso, e leggeva con intenzione, facendo comprendere le trame sotta-
ciute. Aveva in comune con il cugino Lucio Piccolo il gusto della lettura-recitazione. A Capo d'Orlando i cugini gareggiavano in letture poetiche e citazioni. E le letture del Gattopardo, parte per parte, e delle novelle davano all'autore il piacere di confrontarsi a pagina fresca con un piccolo auditorio. Il riscontro era più che altro intento a verificare la fedeltà dell’ambientazione, ma il principe aveva più volte avuto modo di apprezzare il silenzio ammirato che aveva accompagnato la lettura del passo in cui il principe di Salina entra nel regno dei più, quello Schweigender Beifall di cut Mozart riferisce a proposito delle prime esecuzioni della Zauberflote. Né gli mancava un recupero caustico dalla tentazione di aver ceduto al sentimento. «Non vorret far la figura del vecchio re di Tule — disse una volta — quel verso Die Augen gingen ihm ùber, 7r un contesto per altro sublime, è un tratto alla Bebbuzzo, ricorda le sue tonnellate di
musica.» Metteva così in guardia se stesso dalla tentazione delle lagrime a cui aveva ceduto il povero re nordico, dava una lezione di comportamento a Goethe, e burlava il buon amico Bebbuzzo Sgadari, il quale era un patito del trabocco sentimentale (il senso letterale del Die Augen gingen ihm liber, le lagrime quale trabocco degli occhi) e cospargeva le sue recensioni sul «Giornale di Sicilia» di «tonnellate di musica» e «tonnellate di sentimento». Di Lighea, come il racconto è stato intitolato dalla vedova, la Feltrinelli non conserva il dattiloscritto. La revisione è stata condotta su un testo edito sostanzialmente corretto, dando la preferenza, laddove vi fossero discordanze, alla registrazione. Si osservano anche qui alcuni errori, dipendenti da una errata interpretazione dell’auto-
Premessa
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grafo da cui Licy Lampedusa aveva tratto il dattiloscritto fornito alla Feltrinelli. «Canerino» per “cardellino”, «ricci bradi» anziché “ricci boreali”, etc. Ed ancora l’allitterazione, letta con compiaciuto vezzo retorico dall'autore, «il
tuo sogno di sonno sarà realizzato» appare nell'edizione a stampa «la tua sete di sogno sarà saziata». La lettura rivela collegamenti fra memorie sotterranee, almeno per chi come me ricorda altre letture. Le natiche di Anfitrite che affascinano il principe di Salina nella fontana del parco di Santa Margherita si legano, nella nostalgia erotica, ai glutei della sirena. Le lettere della madre di Giuseppe, Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, indirizzate al figlio «volontario di un anno» ad Augusta nel 1916, rinvenute da David Gilmour fra le rovine del palaz-
zo Lampedusa, rimandano ad esperienze reali del paesaggio jonico in cui si rende possibile l’incontro meraviglioso. Il mattino di un mezzadro, titolo ideato dalla vedova
per la prima edizione dei Racconti, è l’ultimo scritto di Lampedusa. Risale al marzo-aprile 1957. Sul finire di aprile fu diagnosticato il tumore polmonare di cui lo scrittore morì nel luglio successivo. Il racconto è in verità l’inizio di un secondo romanzo,
intitolato dall'autore I gattini ciechi. Corze Il Gattopardo anche questo romanzo avrebbe avuto i tratti del libello storico. Ad apertura incontriamo il vecchio Ibba, fondatore di una dinastia di nuovi latifondisti, al tempo della nar-
razione non certo un mezzadro e tutt'al più di origine contadina. Il suo tratto crudele, volgare, si contrappone alla mollezza degli aristocratici raccolti al Circolo Bellini. Il capitolo di presentazione del romanzo è costruito per antitesi fra mondi e classi diverse, con raffigurazioni efficaci e brillanti. Felice la scena del Circolo dove Lampedusa mostra novità di invenzione, nulla del genere si incontra in-
fatti nella letteratura siciliana ottocentesca. E viene in mente il motivo addotto da Verga per la sua impossibilità
328
I racconti
ad andare oltre nel progetto della Duchessa di Leyra: l'aristocrazia non è raffigurabile per stereotipi e la sua natura sfugge all'esperienza dello scrittore borghese. In questa introduzione non appare l’eroe del romanzo. Questi sarebbe stato il figlio di Batassano Ibba, ed argomento del romanzo, soggetto del libello socio-politico, l'emergere dopo l'Unità di una nuova classe agraria, i baroni di Garibaldi, più rozza ma con la stessa vocazione al-
la cecità di quella precedente. La incapacità di una vera evoluzione borghese, imprenditoriale della Sicilia, nell'arco 1860-1955, sarebbe stata ripercorsa nelle vicende del fi-
glio Ibba, ricco baronello alla conquista di Palermo, e non privo di qualità morali, di interessi culturali ed artistici, avviato alla conquista sociale della capitale siciliana. Nel secondo dopoguerra le porte della società stanno per schiudersi al giovane Ibba, i suoi talenti civili stanno per essere apprezzati, quando sopraggiunge la riforma agraria, e lo sforzo di una dinastia si estingue come la vita di un gattino cieco, prima ancora di vedere la luce del successo. È difficile individuare quale avrebbe potuto essere l’identificazione dell'autore con il protagonista, una personalità emergente per la quale è intuibile che avrebbe nutrito un misto di affetto e di repulsione, e d'altra parte è questo un quesito legittimo, perché secondo Lampedusa l’identificazione è una componente indispensabile della validità narrativa. La sua analisi dell'intera opera shakespeariana stabilisce pedantemente la possibile identifica» zione dell'autore ora con questo ora con quel personaggio teatrale. Per Lampedusa non si dà grande scrittore senza una reale capacità di partecipazione alla vita. I gattini cie-
chi sarebbero stati la sfida di Lampedusa a quanti lo costringono nell’ambito del romanzo autobiografia, avrebbero indicato se lo scrittore, e di converso la sua vita, * Lettera di Giovanni Verga al suo traduttore, Louis-Edouard Rod, del 14 luglio 1899,
Premessa
329
avevano una potenzialità di identificazione plurima e non costretta entro la esaltazione della memoria familiare. Già La sirena indica come il Gattopardo non fosse restio a
cambiar pelle. Come nel caso della Sirena anche del primo capitolo dei Gattini ciechi ron è stato fino ad ora rinvenuto né l’autografo, né il dattiloscritto consegnato alla Feltrinelli. La revisione si è limitata a correggere «zuccuta» in «zucca-
ta», un errore materiale dipendente dalla poca dimestichezza da parte della vedova col termine che indica in Sicilia la zucca bianca candita. Fin qui le varianti testuali hanno peso relativo, possono esser valutate dettagli che non alterano sostanzialmente il testo. Il caso dei Luoghi della mia prima infanzia, come il pezzo è stato intitolato da Licy Lampedusa, è affatto diverso. Nel curare l'edizione di questo testo la vedova ha infatti avuto presenti due punti fondamentali: 1) evitare i riferimenti personali in un testo che è espressamente una
memoria, quindi alterazione di nomi, luoghi e soppressione di interi aneddoti e ricordi; 2) trasformare un testo pervenutoci sostanzialmente nella forma di una raccolta di appunti — la ricognizione di varie memorie felici e in particolare del tempo beato a Santa Margherita Belice che funge da studio per il balzo oltre la prima parte del Gattopardo — in una narrazione articolata, donde una diversa
collocazione e ridistribuzione di varie parti del testo. L’autografo dei Ricordi d’infanzia è contenuto in un blocco per appunti di medio formato a quadretti piccoli. Esso è custodito da Giuseppe Biancheri, primogenito di Olga Wolff Stomersee. Il titolo appare in basso a destra sulla copertina. La stesura è discontinua, fra un pezzo e
l’altro vi sono a volte alcuni fogli bianchi. I pezzi sono quattro, il manoscritto li reca nel seguente ordine, premet-
tendo questi titoli autografi: 1) I ricordi 2) Introduzione 3) Infanzia — i luoghi 4) Infanzia — i luoghi — Le altre ca-
330
I racconti
se (e poco oltre) Sorte di queste case (pià oltre) Il viaggio. Due indicazioni autografe invitano poi ad anteporre l’Introduzione 45 Ricordi e ad inserire Il viaggio prima della descrizione della casa di Santa Margherita. 1) L’Introduzione
espone
propositi
e motivazioni
dell’opera progettata. Siamo a metà giugno del 1955. Lampedusa ha già limato la prima parte del Gattopardo, ser bra abbia bisogno di prender fiato prima di proseguire. Emergono nelle due paginette della Introduzione # tratti commoventi di un dilettante incerto sul da farsi. Lo scritto-
re ha riletto Henry Brulard e si propone di emularne il «metodo... financo nel disegnare le “piantine” delle scene principali». E conclude annunciando l’intento di voler «dividere queste Memorie in tre parti. La prima, Infanzia,
condurrà sino alla mia frequentazione del Liceo. La seconda Giovinezza sino al 1925. La terza Maturità siro ad oggi, data in cui considero che cominci la vecchiaia». 2) I ricordi (scritti prima dell'Introduzione) frugano i primi ricordi, quelli per così dire anteriori alla coscienza cronologica della propria personalità. Subito si erge prepotente il desiderio di ripossedere la «casa», il palazzo Lampedusa distrutto nel bombardamento del 5 aprile 1943. E il ricordo si appoggia a due «piantine», la stanza da toletta della madre e una pianta generale del piano nobile. Dopo I ricordi seguono fogli bianchi e un presumibile stacco temporale dalla stesura della Introduzione. 3) Infanzia — i luoghi. I/ progetto annunziato nell’Introduzione prende corpo. Siamo nella prima sezione, Infanzia, titolo che verrà premesso ai due soli luoghi presi in considerazione. Il primo è il palazzo Lampedusa. La descrizione della casa amatissima è minuta, addirittura pe-
dante. Quasi Giuseppe volesse recuperarla angolo per angolo e pezzo per pézzo. I singoli ambienti scorrono davanti a not inserendosi nella piantina disegnata dall'autore, ciascuno carico di un proprio significato affettivo. 4) Infanzia — i luoghi — Le altre case. Siarzo sempre nel-
- Premessa
331
la sezione Infanzia. Giuseppe elenca le «dipendenze» in campagna che aumentano il fascino della «casa» madre: Santa Margherita Belice, la villa Cutò a Bagheria, ilpalazzo di Torretta, la casa di campagna a Raîtano. Altro sottotitolo Sorte di queste case. E /o scrittore passa ad illustrare il palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita Belice. La lunga e poetica descrizione si conclude con l’omaggio alla memoria di Onofrio Rotolo,
l'amministratore dei Cutò a
Santa Margherita. Qui l’autore torna a ritroso e dedica sei pagine al viaggio per Santa Margherita (titolo autografo Il viaggio) e fornisce un richiamo per il suo inserimento pri-
ma della descrizione del palazzo margaritano. Terminato Il viaggio la memoria riprende con la ricognizione di altri oggetti pregni di tensioni affettive: la boîte à musique, i grandi armadi misteriosi che celano antichi tovagliati, o settecenteschi e desueti materiali di cancelleria. Poi spazia sulle gite al casino della Venaria e altrove nei dintorni della fatata residenza agreste, traccia infine alcuni ritratti di notabili margaritani, e termina con le prime lezioni di lettura impartite al principino di otto anni da una rustica ed efficiente maestra elementare. A questo punto il manoscritto s'interrrompe.
Chi si stimi un amico di Giuseppe Tomasi, e molti suoi lettori possono considerarsi tali, non mancherà di restar commosso dalla manifesta, violenta affettività del docu-
mento. I Ricordi d’infanzia svelano più dell’opera letteraria vera e propria la personalità emotiva dell'autore, il decantarsi dell’uomo nello scrittore. Essi venivano incontro a due esigenze primarie: a) ritrovare gli oggetti amati e abimè perduti; b) fornire un materiale di base per la parte centrale del Gattopardo. Lo stato magmatico del materiale, accavallato in successive colate, era stato rivisto dall’au-
tore stesso. Ed ho già indicato come egli avesse indicato un ordine del materiale diverso da quello che appare nel manoscritto. Il testo presenta inoltre varie biffature. Questi
332
I racconti
passi sono stampati in corsivo nella presente edizione. In particolare le cancellature ricorrono nella minuziosa ricognizione topografica del palazzo Lampedusa. Esse risalgono ad una rilettura dell'autore stesso, tesa a rendere l’elaborato più scorrevole,
magari letterario, censurandone
quindi l'evidente propensione alla ricognizione privata. Altre volte qualche osservazione è stata tagliata perché sarebbe potuta risultar dolorosa per un familiare. Ad esempio il dispettoso rifiuto per la casa di via Butera («non è la mia casa»), 0 il suo riferire la bizzarra opinione ortografica dello zio Pietro Tomasi della Torretta — l’aneddoto che questi si stupisse della grafia “repubblica” con due “b” rientra nella moquerie malvagia che Giuseppe aveva in comune con Lucio Piccolo, e che era fondamentalmente il tratto Cutò
del loro carattere. Tanto Alessandro Tasca Filangeri di Cutò, quanto le sue sorelle Maria Tasca Filangeri e Beatrice Tomasi di Lampedusa si son lasciati alle spalle una vasta aneddotica di battute di questo tipo, una fama di lingue taglienti che si accompagnava all’antipatia delle loro vittime. Wicked jokes verso ifamziliari più stretti e gli amici più cari di cui io ero sempre a parte, e che costituivano, anche,
una parte (complice) della nostra amzicizia. Altre volte ancora si può sospettare che la biffatura si riferisca al travaso di qualche frase nel Gattopardo. E in un caso questa ipotesi è del tutto attendibile. Il passo del romanzo in cui si narra come don Onofrio avesse conservato
il bicchierino di rosolio lasciato semipieno dalla principessa (Il Gattopardo, p. 68) appare nei Ricordi biffato più volte, tanto da non poter esser testualmente ricostruito. Ma per-
ché rivedere testi di cui si dichiarava esplicitamente l’uso privato, e tanto più quando si è affatto distanti, come lo era Giuseppe nel 1955, da una vita letteraria pubblica? La spiegazione possibile deve rifarsi al senso di gioco, di fantasia onirica che accompagna l’irrompere di una creatività
tardiva. Giuseppe è a tu per tu con i grandi della letteratura e tralascia il particolare di non essere ufficialmente un let-
» Premessa
terato, tratto questo anche eminentemente
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aristocratico,
perché l'artista aristocratico non si considera inserito in
una categoria professionale come l'artista borghese. D'altra parte il tratto infantile del ragazzo che crea, presumendo di stabilire un contatto con ilpubblico e il conseguente successo, è all'origine di ogni vocazione artistica, e non importa
se questa emerga in età avanzata. Anche il corso di Letteratura inglese, dato per incenerito al destinatario, Francesco Orlando (Ricordo di Lampedusa, cit, p. 24), è stato da
Tomasi invece riletto ed ordinato in cartelle, anche se la sua ragione di adulto dichiaratamente rifiutava di fondare, più che altro, sul proprio gusto un’opera di taglio didattico, redatta senza alcun controllo scientifico. I Ricordi d’infanzia incensurati rivelano al lettore amico il processo della felicità in un uomo di cinquantotto anni. Ricognizione di un passato familiare e siciliano di cui è veramente scomparso il ricordo, e di cui egli èun emozionato e sopravvissuto depositario. Il gioco della superiorità aristocratica, del privilegio si esprime, oltre che in nostalgia, in una fine e sottaciuta malizia verbale senz’ombra di violen-
za, che si accompagna ad un’aneddotica familiare ricca ed amata, e questo gioco restituisce al soggetto la propria iden-
tità smarrita. L'avvelenamento al petrolio di Giovannino Cannitello era ad esempio un joke preferito degli incontria Capo d'Orlando con Lucio Piccolo, e Lucio, seguendo il
suggerimento stizzito del dottor Monteleone, si abbandonava alla mimica dello stoppino che scendeva nell’esofago del suicida per amore, fino al momento del dargli fuoco. Altro argomento preferito dei cugini erano gli aneddoti su Alessio Cerda, del quale, purtroppo, a parte l’esilarante descrizione in «uniforme molle», Giuseppe si è riservato di parlare diffusamente in un prosieguo delle memorie che non verrà mai scritto. Oltre che un ritorno alla luce, all'identità, dopo lo smarrimento di una emarginazione dovuta a vicende e personali
334
I racconti
e, nel contesto siciliano, collettive della propria classe, i Ricordi d’infanzia ci schiudono anche il laboratorio dello scrittore al tempo del Gattopardo. Core ho indicato nella Premessa al Gattopardo, la prima parte avrebbe dovuto racchiudere nell’arco di 24 ore l’intera materia del romanzo. La parte iniziale fu rivista con cura, ma anche se arric-
chita dalla tecnica del flash-back (il colloquio con Ferdinando II), indubbiamente non esauriva l’apologo siciliano e familiare che ilprincipe si era proposto. I Ricordi d’infanzia prendon corpo a questo punto. L’opera letteraria langue senza il supporto dell'esperienza. Per proseguire è necessario riportarla alla vita. É un tratto che i Ricordi delineano progressivamente. L'inizio è doloroso, personalizzato (la ricognizione di «casa» Lampedusa), ma giunti alla ricognizione di Santa Margherita il timbro del ricordo lascia trasparire come la consolazione della memoria abbia la meglio sulla disperazione della perdita. Si avverte inoltre una scrittura spedita, che lascia da parte alcuni particolari riservandosi di svilupparli successivamente. Ad es. la descrizione della grande anticamera di Santa Margherita è interrotta da un appunto elencazione: «(Campieri — berreiti, divise,
fucili, lepri)», appunio che verrà poi sviluppato nella descrizione della milizia privata che accompagna don Onofrio nel porgere il benvenuto al principe (Il Gattopardo, p. 68). Oppure durante il viaggio, dopo la frase «Il polverone si alzava», compare nei Ricordi un: «[Anna I, che pure era sta-
ta in India]», osservazione che si trasforma a p. 58 in: «Mademoiselle Dombreuil.. memore degli anni passati in Algeria... andava gemendo: “Mon Dieu, mon Dieu, c'est pire qu'en Afrique!”». E la contaminazione della memoria è ripresa poche righe più sotto nel: «Tutti erano bianchi di polvere fin nelle ciglia, le labbra o le code». Indizi questi di una stesura forse contemporanea dei Ricordi e della parte II del romanzo.
. Premessa
335
Nel 1989, aprendo casualmente un libro della biblioteca
Lampedusa, mia moglie Nicoletta vi ha rinvenuto due foglietti con l’inizio della ricognizione di un'altra delle case menzionate nella sezione Le altre case. È /a descrizione iniziale del palazzo di Torretta, un edificio del primo Settecento, architettonicamente senza pretese ed in ritardo di mezzo secolo sullo stile architettonico del tempo, pertanto ancora tardo manieristico, che si trovava nella piazza prin-
cipale di questo paese a pochi chilometri da Palermo. Il palazzo è stato abbattuto in questo dopoguerra ed al suo posto sorge un orrendo edificio scolastico, che, ancor più del palazzo baronale, con terminologia tomasiana, va lentamente
decadendo. Torretta era stata portata in dote ai Tomasi da Rosalia Traina, nipote di uno fra ipiù illustri arcivescovi di Monreale. Per i Tomasi del tardo Ottocento Torretta ricordava la tisi che li aveva decimati. Uno zio dell'autore, invano, vi era stato inviato per ristabilirsi nella sua aria di colli-
na, e di tisi morì anche il solo nipote diretto dell'autore, figlio di suo zio Francesco, ed anche i soli due maschi To-
masi viventi all’inizio degli anni Quaranta, secondi cugini dell'autore, morirono della stessa malattia poco dopo la fine della guerra, ragione per cui la linea maschile diretta della famiglia si estinse. Inoltre Torretta era luogo di mafia, i Tomasi che vi avevano risieduto ne avevano avuto
esperienza diretta anche sul piano delle minacce, delle imposizioni matrimoniali, ancor prima che il paese prendesse
un posto speciale nell'albo d'onore dell’associazione con la “Tower connection” (Torretta = Tower). Ricordo ancora,
qual tratto del sarcasmo tomasiano, come Lampedusa scorresse il giornale in occasione dei grandi arresti di mafia cercandovi i torrettesi, ed i suoi compiaciuti: «Oh! Ci mancava! Ma che diamine!» quando, ed era il più delle volte, essi risultavano fra iprotagonisti della congrega. Il ritrovamento delframmento su Torretta ci dà la chiave delpaese siciliano, della Sicilia disperata, che appare nell'al-
ba livida che saluta la partenza da Donnafugata di Cheval-
336
1 racconti
ley di Monterzuolo. La descrizione di Torretta è appunto la Sicilia del buio cosmico. Ci si ingannerebbe a confonderla con il verismo ottocentesco. La rappresentazione di Lampedusa è come di consueto più psicologica che descrittiva, disperata anziché commovente. Torretta è il “gulag” siciliano, la caligine infernale, l’«irredimibile», parola che chiude perentoriamente la parte IV del Gattopardo. D'altra parte i Ricordi straripano per ogni dove nel romanzo. I luoghi di Santa Margherita pressoché per intero, con la loro toponomastica; ed ogni ambiente di pregio del Gattopardo ba un suo antefatto nei Ricordi. Anche le zone del palazzo Ponteleone che destano la simpatia dell’autore hanno un antecedente negli ambienti settecenteschi di «casa» Lampedusa. Il segno positivo, collegato all'oggetto riesumato, è il filo d'Arianna di queste trasposizioni dalla memoria alla fantasia. La costruzione letteraria del Gattopardo fa subire alla descrizione romanzesca l'accelerazione tipica del sogno di desiderio. La tensione passionale è prodiga di contaminazioni. Quel che conta nel deposito della memoria si riversa dai luoghi amati nell’«orgoglioso scrigno» della sala da ballo dei Ponteleone (pp. 209-210). Il romanzo assume così il significato della compensazione per quello che la vita non ha saputo offrire o conservare. Il cammino verso una felicità che la vita aveva negato, e l'invito
alla bella morte guidano la metamorfosi della ricognizione privata in una esperienza esemplare e degna di esser vissu-
ta. Una soluzione personale, mediata artisticamente, sospesa nell'arco esistenziale e senza presunzioni metafisiche, del problema posto all’inizio del catechismo di Pio X — Perché Dio ci ha creati? — una soluzione di cui tanti lettori banno avvertito ilfascino, e in cut risiede, forse più che altrove, la perdurante fortuna del libro. (Prima redazione in occasione della edizione critica de I racconti, Feltrinelli, Milano 1988.)
e
RICORDI D'INFANZIA
INTRODUZIONE
Ho riletto in questi giorni (metà di Giugno 1955) “Henry Brulard”. Non lo leggevo dall’ormai lontano 1922. Si vede che allora mi trovavo ancora sotto l’ossessione del “bello esplicito” e dell’“interesse soggettivo”, e ricordo che il libro non mi piacque. Adesso non posso dar torto a chi quasi lo giudica il capolavoro di Stendhal. Vi è una immediatezza di sensazioni, una evidente sincerità, un ammirevole sforzo per spalar via gli strati successivi dei ricordi e giungere al fondo. E quale lucidità di stile! E quale ammasso di impressioni tanto più preziose quanto più comuni!
Vorrei cercare di fare lo stesso. Mi sembra addirittura un obbligo. Quando ci si trova sul declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro (Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe esser possi-
bile di preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto per sempre. Quello di tenere un diario o di scrivere a una certa età le proprie memorie dovrebbe essere un dovere “imposto dallo stato”: il materiale che si sarebbe accumulato dopo tre o quattro generazioni avrebbe un valore inestimabile: molti problemi psicologici e storici che assillano l’umanità sarebbero risolti. Non esistono memorie, per quan-
to scritte da personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim'ordine.
338
I racconti
Lo straordinario interesse che destano i romanzi di De Foe consiste nel fatto che sono quasi dei diari, geniali benché apocrifi. Pensate un po’ cosa sarebbero quelli genuini? Immaginate cosa sarebbe il diario di una ruffiana parigina della Régence o i ricordi del cameriere di Byron durante l'epoca veneziana? Cercherò di aderire il più possibile al metodo di “Henry Brulard”, financo nel disegnare le “piantine” delle scene
principali. Ma non posso essere d'accordo con Stendhal sulla “qualità” del ricordo. Lui interpreta la sua infanzia come un tempo in cui subì tirannia e prepotenza. Per me
l'infanzia è un paradiso perduto. Tutti erano buoni con me, ero il Re della casa. Anche personaggi che poi mi furono ostili allora erano “aux petits soins”. Quindi il lettore (che non ci sarà) si aspetti di esser menato a spasso in un Paradiso Terrestre e perduto. Se si annoierà, non m'importa. Vorrei dividere queste “Memorie” in tre parti. La prima, “Infanzia”, condurrà sino alla mia frequentazione del Liceo. La seconda “Giovinezza” sino al 1925. La terza “Maturità” sino ad oggi, data in cui considero che cominci la vecchiaia. I ricordi dell’infanzia consistono, presso tutti credo, in una serie di impressioni visive molte delle quali nettissime, prive però di qualsiasi nesso cronologico. Fare una “cronaca” della propria infanzia è, credo, impossibile: pur adoperando la massima buona fede si verrebbe a dare una impressione falsa spesso basata su spaventevoli anacronismi. Quindi seguirò il metodo di raggruppare per argomenti, provandomi a dare una im-
pressione globale nello spazio piuttosto che nella successione temporale. Parlerò degli ambienti della mia infanzia, delle persone che la circondarono,
dei miei
Ricordi d'infanzia
339
sentimenti dei quali non cercherò “a priori” di seguire lo sviluppo. Posso promettere di non dire nulla che sia falso. Ma non vorrò dire tutto. Riservo a me il diritto di mentire per omissione. A meno che non cambi idea. I RICORDI
Uno dei più vecchi ricordi che mi sia possibile di precisare nel tempo, perché si riferisce a un fatto storicamente controllabile, risale al 30 Luglio 1900, quindi al momento in cui io avevo qualche giorno più di 3 anni e mezzo. Mi trovavo insieme a mia Madre e alla sua cameriera (probabilmente Teresa, la torinese) nella stanza di toletta. Era questa una stanza più lunga che larga che prendeva luce da due balconi opposti, situati sui lati stretti, prospicienti l’uno il giardinetto angusto che separava la nostra casa dall’Oratorio di S. Zita, l’altro un cortiletto
interno. La tavola di toletta che era a forma “haricot”* con il piano superiore in vetro sotto il quale traspariva una stoffa rosa, e con le gambe raccolte in una specie di sottana di merletto bianco, era posta dinanzi al balcone che dava sul giardinetto e su di essa vi era, oltre alle spazzole ed altri aggeggi, un grande specchio con cornice anch'essa di specchio decorata con stelle ed altri ornamenti di cristallo che mi piacevano assai. Era la mattina, verso le 11, credo, e vedo la grande lu-
ce di estate che entrava dalla finestra con i battenti aperti, ma le persiane chiuse.
Mia Madre si pettinava, aiutata dalla cameriera, ed io non so cosa facessi, seduto per terra nel centro della stanza. Non so se fosse con noi anche la mia bambinaia, Elvira, la senese, ma credo di no. “ Nel manoscritto la forma della tavola di toletta è indicata da un disegno (vedi pagina successiva).
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Ricordi d'infanzia 341
342
I racconti
Ad un tratto sentiamo dei passi affrettati che salgono la scaletta interna che comunicava con l’appartamentino di mio Padre che si trovava al mezzanino inferiore proprio sotto di noi, ed egli entra senza bussare e dice una
frase in tono concitato. Ricordo benissimo l'accento di quello che disse, ma non le parole né il senso di esse. “Vedo” invece ancora l’effetto che esse producono: mia Madre lasciò cadere la spazzola d’argento a manico lungo che teneva in mano, Teresa disse «Bon Signour!», e tutta la stanza si trovò costernata. Mio Padre era venuto ad annunziare l’assassinio di Re Umberto avvenuto a Monza la sera precedente, il 29 Luglio 1900. Ripeto che “vedo” tutte le striature di luce e di ombra del balcone, che “odo” la voce eccitata di mio
Padre, il rumore della spazzola che cade sul vetro della toletta, l’esclamazione piemontese della buona Teresa,
che “ri-sento” il senso di sgomento che c’invase tutti. Ma tutto questo rimane personalmente staccato dalla notizia della morte del Re. Il senso per così dire storico mi venne detto dopo ed esso serve a spiegare la persistenza della scena nella mia memoria. Un altro dei ricordi che posso bene individuare è quello del terremoto di Messina (28 Dicembre 1908). La scossa fu avvertita molto bene a Palermo ma io non me ne ricordo; credo che non interruppe il mio sonno. “Vedo” però nettamente il grande orologio a pendolo inglese di mio nonno, che allora era posto, incongruamente,
nella grande sala d’inverno, fermo alla fatale ora di 5.20, e sento uno dei miei zii (credo Ferdinando che andava matto per l’orologeria) spiegarmi che si era fermato per il terremoto della notte scorsa. Poi ricordo che nella serata, verso le 7 e 1/2, mi trovavo nella stanza da pranzo dei miei nonni (io assistevo al loro pranzo spesso, perché esso aveva luogo prima del mio) quando un mio zio, probabilmente lo stesso Ferdinando entrò con un gior-
Ricordi d'infanzia
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nale della sera, che annunziava “Gravi danni e parecchie vittime a Messina per il terremoto di stamane”. Parlo della “stanza da pranzo dei miei Nonni”, ma dovrei dire di mia Nonna, perché mio Nonno era morto da un anno e un mese. Questo ricordo è visualmente assai meno vivace del
primo, invece esso è dal punto di vista della “cosa avvenuta” assai più preciso. Qualche giorno dopo giungeva da Messina mio cugino Filippo che nel terremoto aveva perduto il padre e la madre. Egli andò ad alloggiare dai miei cugini Piccolo insieme ad un suo cugino Adamo, e ricordo come io an-
dassi dai Piccolo a vederlo in una squallida giornata di pioggia invernale. Ricordo che aveva con sé una macchina fotografica (di già!) che aveva avuto cura di prendere con sé fuggendo dalla sua casa di via della Rovere in rovina, e come su un tavolo davanti una finestra disegnasse delle sagome di navi da guerra, discutendo con Casi-
miro del calibro di cannoni e della posizione delle torrette; attitudine sua di distacco fra le orribili sventure
che lo avevano colpito che venne già allora criticata in famiglia ma attribuita caritatevolmente allo “shock” (allora si diceva “impressione”) subito dal disastro e che si diceva comune a tutti i superstiti messinesi. In seguito essa venne più giustamente messa a conto di quella sua freddezza di carattere che si esalta soltanto dinanzi a quistioni tecniche come appunto la fotografia e le torrette delle prime “dreadnoughts”. Ricordo anche il dolore di mia Madre quando parecchi giorni dopo giunse notizia del ritrovamento del cadavere di sua sorella Lina e del cognato. Vedo mia Madre singhiozzare seduta in una grande poltrona nel Salone Verde nella quale nessuno si sedeva mai (quella stessa però nella quale “vedo” seduta mia bisnonna), ricoperta di una corta mantellina di “astrakan moiré”. Grandi carri militari passavano per le strade per racco-
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I racconti
gliere indumenti e coperte per i profughi; uno di essi passò anche per via Lampedusa e da un balcone di casa nostra mi fecero tendere a un soldato che stava all’impiedi sul carro e quasi era al livello del balcone, due coperte di lana. Il soldato era di artiglieria con la bustina bleu filettata di arancione; ne vedo ancora la faccia rubiconda e sento come dice, con accento emiliano, «Grazzie, ragazzo». Ricordo anche come si andasse dicendo
che i profughi che erano alloggiati dappertutto e anche nei palchi dei teatri si conducessero fra di loro «in modo molto indecente» e mio Padre che diceva sorridendo «hanno il desiderio di rimpiazzare i morti» — allusione che comprendevo benissimo. Di mia zia Lina, morta nel terremoto (la cui fine aprì la serie delle morti tragiche fra le sorelle di mia Madre che offrono il campione dei tre generi di morte violenta, la disgrazia, l'omicidio e il suicidio) non conservo nessun netto ricordo. Essa veniva raramente a Palermo; ricordo in-
vece il marito, che aveva due occhi vivacissimi dietro gli occhiali e una barbetta brizzolata e in disordine. Un’altra giornata è rimasta bene impressa nella mia memoria: non posso precisarne la data che fu però certamente di molto anteriore al terremoto di Messina, anzi
credo venne poco dopo la morte di re Umberto. Eravamo ospiti dei Florio nella loro villa di Favignana, in piena estate. Ricordo che Erica, la bambinaia, venne a sve-
gliarmi più presto del solito, verso le 7, mi passò in fretta una spugna con acqua fredda sul viso e poi mi vestì con grande cura. Fui trascinato abbasso, uscii da una porti-
cina laterale sul giardino, e poi mi hanno fatto risalire sulla veranda principale d’ingresso alla villa che guardava sul mare ed alla quale si accedeva da una scalinata di sei o sette scalini. Ricordo il sole accecante di quella mattinata di Luglio od Agosto. Sulla veranda, che era riparata dal sole da grandi tende di tela arancione che il vento di mare gonfiava e faceva sbattere come vele (ne
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sento lo schioccare) erano sedute su sedie di vimini mia Madre, la signora Florio (la “divina beltà” Franca) ed altre persone. Al centro del gruppo si trovava seduta una vecchissima signora, assai curva e con un naso adunco,
avvolta in veli vedovili che si agitavano furiosamente al vento. Mi portarono dinanzi ad essa che disse alcune parole che non capii, si curvò ancora di più e mi diede un bacio sulla fronte (dovevo quindi essere molto piccolo, se una signora seduta doveva ancora curvarsi per baciarmi). Dopo di che fui trascinato via, riportato in camera mia, spogliato dei miei vestiti di gala, rivestito in un più modesto abbigliamento e condotto sulla spiaggia dove erano di già i ragazzi Florio ed altri con i quali, dopo aver fatto il bagno, restammo a lungo sotto il cocentissimo sole a giocare al nostro gioco preferito che era quello di ricercare nella sabbia dei pezzettini di rossissimo corallo che vi si trovavano con una certa frequenza. Mi venne rivelato nel pomeriggio che la vecchia signora era Eugenia, ex imperatrice dei Francesi, il cui “yacht” si trovava alla fonda davanti a Favignana, che era stata a pranzo dai Florio la sera prima (senza che io, naturalmente, ne sapessi niente) e che aveva nella mattinata fatto una visita di congedo (a quell’ora delle sette, infliggendo così, con indifferenza imperiale, un vero supplizio a mia Madre e alla signora Florio) ed alla quale si vollero presentare i rampolli. La frase che essa disse prima di baciarmi pare sia stata: «Quel joli petit!». INFANZIA
I luoghi
Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso quando essa da dodici anni non è più che un ricordo. Fino a pochi mesi prima della sua distruzione dormivo nella stanza nella quale ero nato,
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I racconti
a quattro metri di distanza da dove era stato posto il letto di mia madre durante il travaglio del parto. Ed in quella casa, in quella stessa stanza forse, ero lieto di essere sicuro di morire. Tutte le altre case (poche del resto, a parte gli alberghi) sono state dei tetti che hanno servito a ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma non delle CASE nel senso arcaico e venerabile della parola. Ed in ispecie quella che bo adesso, che non mi piace affatto, che ho comperato per far piacere a mia Moglie e che sono stato lieto di far intestare a lei, perché veramente essa non è la mia casa. Sarà quindi molto doloroso per me rievocare la Scomparsa amata come essa fu sino al 1929, nella sua integrità e nella sua bellezza, come essa continuò dopo tutto ad essere sino al 5 Aprile 1943 giorno in cui le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero. La prima sensazione che mi viene in mente è quella
della sua vastità. E questa sensazione non è dovuta all’ingrandimento che l’infanzia fa di ciò che la circonda, ma alla realtà effettiva. Quando ne vidi l’area coperta di ripugnanti rovine, la sua superficie era di 1600 mq. Abitata soltanto da noi in un’ala, dai miei nonni paterni in un’al-
tra, dai miei zii scapoli al secondo piano, essa era tutta a mia disposizione durante venti anni, con i suoi tre cortili,
le sue quattro terrazze, il suo giardino, le sue scale immense, i suoi anditi, i suoi corridoi, le sue scuderie; i pic-
coli ammezzati per le persone di servizio e per lAmministrazione, un vero regno per un ragazzo solo, un regno vuoto 0 talvolta popolato da figure tutte affettuose. In nessun punto della terra, ne sono sicuro, il cielo si è mai steso più violentemente azzurro di come facesse al di sopra della nostra terrazza rinchiusa, mai il sole ha gettato luci più miti di quelle che penetravano attraverso le imposte socchiuse nel “salone verde”, mai macchie di umidità sui muri esterni di cortile hanno presentato forme più eccitatrici di fantasia di quelle di casa mia.
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I racconti
Tutto mi piace in essa: l’asimmetria dei suoi muri, la quantità dei suoi saloni, gli stucchi dei suoi soffitti, il cattivo odore della cucina dei miei nonni, il profumo di vio-
letta nella stanza di toletta di mia Madre, l’afa delle sue scuderie, la buona sensazione di cuoi puliti della selleria, il mistero di certi appartamenti non finiti al secondo piano, l'immenso locale della rimessa nella quale si conservavano le carrozze; tutto un mondo pieno di gentili misteri, di sorprese sempre rinnovate e sempre tenere.
Ne ero il padrone assoluto e di corsa ne percorrevo continuamente i vasti spazi, salendo dal cortile su per la scala “grande” sino alla “loggia” situata sul tetto dalla quale si vedeva il mare e Monte Pellegrino e tutta la città sino a Porta Nuova e Monreale. E poiché con deviazioni e giravolte sapevo evitare le stanze abitate mi sentivo solo e dittatore, seguito spesso soltanto dall’amato Tom che correva eccitatissimo alle mie calcagna, con la lingua rosa penzoloni fuori dal caro muso nero. La casa (e casa voglio chiamarla e non palazzo, nome che è stato deturpato appioppato come è adesso ai falansteri di quindici piani) era rintanata in una delle più recondite strade della vecchia Palermo, in via Lampedusa, al n. 17, numero onusto di cattivi presagi ma che allora serviva soltanto ad aggiungere un saporino sinistro alla gioia che essa sapeva dispensare. (Quando poi, trasformate le scuderie in magazzini, chiedemmo che il numero fosse mutato ed esso diventò 23, si andava verso la
fine: il numero 17 le portava fortuna.) La strada era recondita ma non strettissima, e ben la-
stricata; e non sudicia come si potrebbe credere perché di faccia al nostro ingresso e per tutta la lunghezza del fabbricato, si stendeva l'antico palazzo Pietraperzia che non aveva né negozi né abitazioni al pianterreno e che mostrava soltanto un’austera ma pulita facciata, bianca e gialla, come si deve, punteggiata da molte finestre custodite da enormi inferriate che le conferivano un aspetto
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dignitoso e triste di vecchio convento o di prigione di stato. (Gli scoppi delle bombe, poi, scaraventarono molte di queste pesanti inferriate dentro le nostre stanze prospicienti, con quali lieti effetti sugli stucchi antichi ed i lampadari di Murano può essere immaginato.) Ma se la via Lampedusa, per lo meno per tutta la distesa della nostra casa, era decente, non così lo erano le
vie di accesso: la via Bara all’Olivella che portava in piazza Massimo era brulicante di miseria e di catodi* e percorrerla era un affare triste. Divenne un po’ meglio quando venne tagliata la via Roma, ma rimase sempre un buon tratto da fare tra sporcizia e orrori. La facciata della casa non aveva nulla di architettonicamente pregevole: era bianca con le larghe inquadrature delle aperture color giallo zolfo, il più puro stile siciliano del 6 e 700 insomma. La casa si stendeva nella via Lampedusa per una sessantina di metri ed aveva 9 grandi balconi di facciata. I portoni erano due, quasi agli angoli della casa, enormemente larghi come si facevano prima per permettere alle vetture di svoltarvi dentro anche da strade strette. Ed infatti vi svoltavano con facilità anche gli attacchi a quattro che mio Padre guidava con maestria nei giorni di corse al galoppo alla Favorita. Varcato il portone dal quale si entrava sempre, #/ primo a sinistra guardando la facciata, quasi all'angolo della via Bara e separato dal canto della casa soltanto dallo spazio di un paio di metri nel quale si apriva la finestra grigliata della portineria, si entrava in un breve androne lastricato con i due muri laterali a stucco bianco, sorretti da
un basso scalino. A sinistra vi era la guardiola del portiere (cui faceva seguito nell'interno la sua abitazione) con la bella porta di mogano nel centro della quale vi era un * Catoiu (qui italianizzato in catodio), dal greco kat@yetov (sotter-
raneo), indica in siciliano un misero locale d’abitazione al pianoterra o seminterrato (cfr. il napoletano basso).
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I racconti
grande vetro opaco con il nostro stemma. E subito dopo sempre a sinistra precedendo ai due scalini, l'ingresso alla “scala grande”, con la sua porta a due battenti anch'essa di mogano e vetro ma senza stemmi e col vetro trasparente,
proprio di fronte alla scala a destra vi era un porticato con colonne di bella pietra grigia di Billiemi che sostenevano il soprastante “tocchetto”. Di faccia al portone vi era il grande cortile acciottolato e diviso in spicchi da file di lastrichi. Esso era terminato da tre grandi archi sostenuti anch'essi da colonne di Billiemi che portavano la terrazza che univa, in quel punto, le due ali della casa. Sotto il primo porticato, a destra dell’androne, vi erano
parecchie piante, palme soprattutto, in botti di legno verniciate di verde e in fondo una statua, in gesso, di non so
quale dio greco all’impiedi. In fondo pure, e parallela all'ingresso vi era la porta della selleria. La “scala grande” era molto bella, tutta in Billiemi
grigio, a due rampe di una quindicina di scalini ognuna, incassata fra due muri giallini. Dove cominciava la seconda rampa vi era un ampio pianerottolo oblungo con due porte in mogano, una di fronte a ciascuna rampa, quella che dava nella prima fuga conduceva nei locali dell’ammezzato adibiti ad Amministrazione e chiamati “la Contabilità”, l’altra in un piccolissimo sgabuzzino che serviva ai camerieri per mutare di livrea. Queste due porte erano adorne di un cornicione pure in Billiemi di stile Impero, ed erano sormontate all’altezza del primo piano ciascuna da un balconcino a petto d’oca dorato che si aprivano ambedue sulla piccola saletta d’ingresso all'appartamento dei Nonni. Ho dimenticato di dire che subito dopo l’ingresso alla scala, però dalla parte esterna, sul cortile, pendeva il laccio rosso della campana che il portiere doveva suonare per avvertire la servitù che si erano ritirati i padroni o che erano venute delle visite. Il numero dei colpi di campana, che i portinai eseguivano magistralmente, ot-
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tenendo, non so come, dei colpi secchi e separati, senza noiosi tintinnii, era rigorosamente protocollizzato: quat-
tro colpi per mia Nonna, la Principessa, due per le visite della Principessa, tre per mia Madre, la Duchessa, uno per le visite di lei. Succedevano però dei malintesi, cosicché essendo talvolta rientrate nella stessa vettura mia Madre, mia Nonna e un’amica che avevano preso con sé
nella strada, venne eseguito un vero concerto di 4 + 3 + 2 colpi che non finiva più. I padroni maschi (mio Nonno e mio Padre) uscivano e si ritiravano senza che per loro si scampanasse.
Terminata la seconda fuga delle scale si sboccava nell'ampio e luminoso “tocchetto” cioè in un porticato i cui vani fra le colonne erano stati riempiti, per ragioni di comodità, da grandi vetrate di vetro opaco a losanghe.* In esso vi erano pochi mobili: grandi quadri di antenati e un grande tavolo a sinistra sul quale si posavano le lettere in arrivo (e fu lì che lessi una cartolina proveniente da Parigi indirizzata allo zio Ciccio nella quale una qualche sgualdrinella francese aveva scritto: “Dis à Moffo qu'il est un mufle”), due belle cassapanche e una statua in gesso di Pandora nell'atto di aprire la fatale scatola, circondata da piante. In fondo, di faccia allo sbocco della scala, vi era
una porta sempre chiusa che immetteva direttamente nel “salone verde” (porta che molto dopo divenne quella d’ingresso al nostro appartamento), e a destra della scala l’ingresso alla “sala grande”, protetta da una porta sempre aperta di raso rosso trapunto con la parte superiore recante a colori nel vetro lo stemma nostro e quello Valdina. La “sala grande” era un immenso ambiente, pavimentato a lastre di marmo bianco grigio, con tre balconi su via Lampedusa e uno sul cortile Lampedusa, prolungamento cieco della via Bara. Esso era diviso in due da un “ Nel manoscritto la forma della vetrata è indicata da un disegno (vedi pagina successiva).
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arco, lo divideva in due parti ineguali, la prima più piccola, l'altra assai più vasta. Con grave rammarico dei miei genitori essa era di decorazione interamente moderna, poiché nel 1848 vi era caduta una bomba che ne distrusse il bel soffitto dipinto e ne danneggiò irreparabilmente le pitture murali. Per lungo tempo pare anzi vi crescesse un bel fico. Essa venne rifatta quando mio Nonno si sposò, cioè nel 1866 o ’67, ed era tutta a stucco lucido bianco, con un “lambris” di marmo grigio. Ne/ centro del soffitto di ognuna delle due parti era dipinto uno stemma, di faccia alla porta d’ingresso vi era un grande tavolo di noce sul quale le visite deponevano cappelli e cappotti; poi vi erano alcune cassapanche e qualche seggiolone. Era in questa sala grande che stavano i camerieri, bighellonando sui loro sedili e pronti a precipitarsi nel tocchetto al suono della famosa campana. Entrati dalla porta di stoffa rossa della quale ho parlato se si girava verso la parete di sinistra si trovava un’altra
porta anch'essa di stoffa ma verde che dava nel nostro appartamento; se si girava a sinistra si doveva traversare tut-
to l’ambiente finché a destra si trovava uno scalino e una porta che conduceva all'appartamento dei Nonni e precisamente cominciando da quella “saletta” con i due balconcini che davano sulla scala. Varcata la porta di stoffa verde si entrava nell’“anticamera” che aveva sei soprapporte di ritratti di antenati sul suo balcone e sulle sue due porte, un parato di seta
grigia, altri quadri e pochi mobili scuri. E l’occhio penetrava nella prospettiva dei salotti che si stendevano l’uno dopo l’altro lungo la facciata. Qui cominciava per me la magia delle luci che in una città a sole intenso come Palermo sono succose e variate secondo il tempo anche in strade strette. Esse erano talvolta diluite dai tendaggi di seta davanti ai balconi, talaltra invece esaltate dal loro
battere su qualche doratura di cornicione o da qualche damasco giallo di seggiolone che le rifletteva; talora,
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specialmente in estate, i saloni erano oscuri ma dalle persiane chiuse filtrava la sensazione della potenza luminosa che era fuori, talaltra, a seconda dell’ora, un solo
raggio penetrava diritto e ben delineato come quelli del Sinai, popolato da miriadi di granellini di polvere, e andava ad eccitare il colore dei tappeti che era uniformemente rosso rubino in tutte le stanze. Un vero sortilegio di illuminazioni e di colori che mi ha incatenato l’anima per sempre. Talvolta in qualche vecchio palazzo o in qualche chiesa ritrovo questa qualità luminosa che mi struggerebbe l’anima se non fossi pronto a sfornare qualche “wicked joke”. Dopo l’anticamera veniva la stanza detta del “lambris” perché rivestita sino a mezza altezza appunto da un “lambris” di noce intagliato, dopo ancora la stanza detta “della cena” con le pareti tappezzate di stoffa arancione a fiori, stoffa che ancora in parte sopravvive come tappezzeria della attuale stanza di mia Moglie. E la sala da ballo con i pavimenti a smalto e soffitti sui quali deliziosi ghirigori oro e giallo incorniciavano scene mitologiche nelle quali con rustica forza e grandi svolazzi di panneggi si affollavano tutti gli dei dell'Olimpo. E dopo il “boudoir” di mia Madre che era molto bello con il suo soffitto tutto a fiori e rami di stucchi colorati antichi, di un disegno soave e corposo come una musica mozartiana.
E dopo ancora si entrava nella camera da letto di mia Madre che era molto grande, la parete maggiore dove era la stanza d'angolo della casa con un balcone (l’ultimo) su via Lampedusa, e uno sul giardino dell'oratorio di S. Zita. Le decorazioni di legno, di stucco e di pittura di questa stanza erano fra le più belle della casa. Dal salotto detto “lambris” andando a sinistra si entrava nel “salone verde”, e da questo nel “salone giallo”, e da questo ancora in una stanza che in principio era la mia “day-nursery”, in seguito trasformata in salottino “rosso”
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la stanza nella quale si stava sempre e in seguito ancora in
biblioteca. Questo ambiente aveva a sinistra (entrandovi dal salone giallo) una finestra sul cortile grande e sullo stesso muro una porta vetrata che immetteva sulla terrazza. Ad angolo retto con queste aperture vi era prima una porta (poi murata) che dava in una piccola stanza che era stata stanza da bagno di mio Nonno (vi era anche la vasca di marmo) e che serviva da ripostiglio per i miei giocattoli, e un’altra porta vetrata che conduceva alla terrazza piccola. Infanzia — I luoghi — Le altre case
Ma la “casa” di Palermo aveva allora delle dipendenze in campagna che ne aumentavano il fascino. Esse erano quattro: S. Margherita Belice, la villa di Bagheria, il palazzo a Torretta e la casa di campagna a Raitano. Vi era anche la casa di Palma e il castello di Montechiaro ma in quelli non andavamo mai. Sorte di queste case
La preferita era S. Margherita nella quale si passavano lunghi mesi anche d’inverno. Essa era una delle più belle case di campagna che avessi mai visto. Costruita nel 1680, verso il 1810 era stata completamente rifatta dal principe Cutò in occasione del soggiorno lunghissimo
che vi fecero Ferdinando IV e Maria Carolina costretti in quegli anni a risiedere in Sicilia mentre a Napoli regnava Murat. Dopo, però, essa non era stata abbandonata come avvenne invece a tutte le altre case siciliane, ma continuamente curata, restaurata ed arricchita, fino a mia
Nonna
Cutò la quale, vissuta sino a venti anni in Francia, non aveva ereditato l’avversione sicula per la vita in campagna, vi risiedeva quasi continuamente e l’aveva posta in condizioni “up to date” (per il Secondo Impero, si capi-
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sce, che non era però molto differente dallo stato di “comfort” che regnò in Europa sino al 1914). Il viaggio
Il fascino dell’avventura, del non completamente comprensibile che è tanta parte del mio ricordo di S. Margherita, cominciava con il viaggio per andarvi. Era un’intrapresa piena di scomodità e di attrattiva. In quei tempi non vi erano automobili: verso il 1905 il solo che circolasse a Palermo era l’“électrique” della vecchia signora Giovanna Florio. Un treno partiva dalla stazione Lolli alle 5.10 del mattino. Bisognava quindi alzarsi alle tre e mezza. Mi si svegliava a quell’ora sempre noiosa ma resa per me più infausta dal fatto che era quella stessa alla quale mi si propinava l’olio di ricino quando avevo mal di pancia. Camerieri e cuochi erano già partiti il giorno prima. Ci si caricava in due “landaus” chiusi, nel primo mia Madre, mio Padre, la governante Anna I,
mettiamo, ed io. Nel secondo Teresa o Concettina che fosse, la cameriera di mia Madre, Ferrara, il contabile
che era di S. Margherita e andava a passare le vacanze con i suoi, e Paolo, il cameriere di mio Padre. Credo che
anche un terzo veicolo seguisse, con i bagagli e le ceste per la colazione. Era generalmente fine Giugno e nelle strade deserte cominciava ad albeggiare. Attraverso piazza Politeama e via Dante (che allora si chiamava via Esposizione) si arrivava alla stazione Lolli. E lì ci si cacciava nel treno per Trapani; i treni erano allora senza corridoi e quindi senza ritirata; e quando ero molto piccolo ci si tirava dietro per me un vasino da notte in orribile ceramica marrone comprato apposta e che si buttava dal finestrino prima di arrivare a destinazione. Il controllore faceva il suo servizio aggrappato all’esterno della vettura e ad un trat-
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to si vedeva dal di fuori sorgere il suo berretto gallonato e la sua mano guantata di nero. Durante delle ore si traversava il paesaggio bello e tremendamente triste della Sicilia Occidentale: credo che fosse allora tale e quale come lo trovarono i Mille sbarcando — Carini, Cinisi, Zucco, Partinico; poi la linea co-
steggiava il mare, i binari sembravano posati sulla sabbia; il sole già ardente ci cuoceva nella nostra scatola di ferro. Termos non ve ne erano; ed alle stazioni non c'era da aspettare nessun rinfresco; poi il treno tagliava verso l’in-
terno, fra montagne sassose e campi di frumento mietuto, gialli come le giubbe di leoni. Alle 11 finalmente si arrivava a Castelvetrano che era allora lungi dall’essere la cittadina civettuola e ambiziosa che è adesso: era un borgo lugubre, con le fognature allo scoperto ed i maiali che si pavoneggiavano nel corso centrale; e miliardi di mosche. Alla stazione che già da sei ore rosolava sotto il solleone, ci aspettavano le nostre carrozze, due “landaus” ai quali erano state adattate delle tendine gialle. Alle undici e mezza si ripartiva: sino a Partanna, per un’ora la strada era piana e facile, attraverso un bel paesaggio coltivato; si andava riconoscendo i luoghi noti, le due teste di negri in maiolica sui pilastri d’ingresso di una villa, la croce di ferro che commemorava un omicidio; giunti sotto Partanna, però, la scena cambiava: si
presentavano tre carabinieri, un brigadiere e due militi che a cavallo e con la nuca riparata da una pezzuola bianca come i cavalleggeri di Fattori avrebbero dovuto accompagnarci sino a S. Margherita. La strada diventava montuosa: attorno si svolgeva lo smisurato paesaggio della Sicilia del feudo, deserto, senza un soffio d’aria, oppresso dal sole di piombo. Si cercava un albero alla cui ombra far colazione: non vi erano che magri ulivi che non riparano dal sole. Infine si trovava una casa colonica abbandonata, semi in rovina, ma con le finestre gelosamente chiuse. Alla sua ombra si scendeva e si
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mangiava: succulente cose, per lo più. Un po’ in disparte anche i carabinieri cui si era mandato il pane, la carne, il dolce, le bottiglie facevano colazione allegri già bruciati dal sole meridiano. Alla fine del pasto il brigadiere si avvicinava, col bicchiere pieno in mano: «A nome anche dei miei militi, ringrazio le Loro Eccellenze». E buttava giù il vino che doveva avere 40 gradi di calore. Ma uno dei militi era rimasto in piedi, e girava attorno alla casa, circospetto. Ci si rimetteva in carrozza. Erano le due, l’ora vera-
mente atroce della campagna estiva siciliana. Si andava al passo perché incominciava la discesa verso il Belice. Tutti erano muti e di fra il battere degli zoccoli si sentiva solo la voce di un carabiniere che canticchiava: «La Spagnola sa amar così». Il polverone si alzava. [Arma I, che pure era stata in India.) Poi si traversava il Belice, che era un fiume sul serio per la Sicilia, con financo dell’acqua nel suo greto, e cominciava l’interminabile salita al passo: le giravolte si succedevano eterne nel paesaggio calcinato. Sembrava non dovesse finir più ma tuttavia finiva: in cima al versante, i cavalli si fermavano, frementi di sudore; i carabinieri smontavano, anche noi scendevamo per sgranchirci le gambe. E si ripartiva al trotto. Mia Madre cominciava ad avvertirmi: «Stai attento ora, tra poco a sinistra vedrai la Venarìa». E infatti si giungevasu un ponte e a sinistra si scorgeva finalmente un po’ di verzura, dei canneti e financo un aranceto. Erano le Dàgali, la
prima proprietà Cutò che s’incontrasse. È dietro le Dàgali una collina ripida, traversata sino in cima da un largo viale di cipressi che portava alla Venarìa, padiglione di caccia che ci apparteneva. Non eravamo più lontani. Mia Madre, sospinta dal suo
amore per S. Margherita, non stava più ferma, si sporgeva ora da uno sportello ora dall’altro. «Siamo quasi a Montevago. Siamo a casa!» Si traversava difatti Montevago pri-
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mo nucleo di vita ritrovato dopo quattro ore di strada. Ma quale nucleo! Larghe strade deserte, case egualmente oppresse dalla povertà e dall’implacabile sole, nessun’anima viva, qualche maiale, qualche carogna di gatto. Ma passato Montevago tutto andava meglio. La strada era diritta e piana, il paesaggio ridente. «Ecco la villa di Giambalvo! Ecco la Madonna delle Grazie e i suoi cipressi!» Si salutava con gioia perfino il cimitero. Poi la Madonna di Trapani. Ci siamo! Ecco il ponte. Erano le 5 di sera. Viaggiavamo da 12 ore. Sul ponte era schierata la banda municipale che attaccava con slancio una “polka”. Noi abbrutiti, con le ciglia bianche di polvere e la gola riarsa, ci sforzavamo di sorridere e di ringraziare. Un breve percorso nelle strade, si sboccava nella Piazza, si vedevano le linee aggraziate della Casa, si entrava nel portone: primo cortile, androne, secondo cortile. Si era arrivati. Al basso della scala
esterna il gruppetto dei “familiari” capeggiato dall’eccellente Don Nofrio, minuscolo sotto la barba bianca e
fiancheggiato dalla potente moglie. «Benvenuti!» «Come siamo contenti di essere arrivati!» Su in un salotto Don Nofrio aveva fatto preparare
delle granite di limone, pessime ma che erano lo stesso una benedizione. Io venivo trascinato da Anna su nella mia stanza e immerso riluttante in un bagno tiepido che Don Nofrio, l’inappuntabile, aveva pensato a far preparare, mentre i miei infelici genitori affrontavano l’ondata delle conoscenze che cominciavano ad arrivare. La casa”
Posta nel centro del paese, proprio nella Piazza ombreggiata, si stendeva per una estensione immensa e contava fra grandi e piccole trecento stanze. Essa dava l’idea di * Titolo non autografo. Cfr. Premessa, pp. 32931.
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una sorta di complesso chiuso e autosufficiente, di una specie di Vaticano, per intenderci, che racchiudeva appartamenti di rappresentanza, stanze di soggiorno, foresterie per trenta persone, stanze per domestici, tre immensi cortili, scuderie e rimesse, teatro e chiesa privati,
un enorme e bellissimo giardino e un grande orto. E che stanze! Il principe Niccolò aveva avuto il buon gusto quasi unico al suo tempo di non guastare i salotti settecenteschi. Nel grande appartamento ogni porta era incorniciata dai due lati da fantasiosi fregi settecenteschi in marmi grigi, neri o rossi che con le loro armoniosissi-
me dissimetrie suonavano una fanfara gioconda ad ogni passaggio da un salone all’altro. Dal secondo cortile un’ampia scala a balaustrata di marmo verde, a una sola
fuga, portava a una terrazza nella quale si apriva la porta d’ingresso sormontata dalla croce a campanelle. Da questa si entrava nella colossale anticamera interamente ricoperta da due file sovrapposte di quadri rappresentanti i Filangeri dal 1080 al padre di mia Nonna, tutte figure in piedi a grandezza naturale nei più svariati costumi, da quello di crociato a quello di gentiluomo di camera di Ferdinando II, quadri che malgrado l’estrema mediocrità della loro fattura, riempivano la sterminata stanza di una presenza viva e familiare. Sotto ciascuno di essi, in lettere bianche su di un cartiglio nero, erano scritti i nomi, i titoli e gli avvenimenti della loro vita: “Riccardo, difese Antiochia contro gli infedeli”; Raimondo, perito nella difesa di Acri; un altro Riccardo
“principale istigatore della rivolta sicula” (cioè dei Vespri siciliani); Niccolò I, “guidò due reggimenti di ussari contro le galliche orde nel 1796”. Al di sopra di ogni porta o finestra vi erano invece le piante panoramiche dei “feudi”, allora ancora quasi tutti presenti all'appello. Nei quattro angoli quattro statue di bronzo di guerrieri in armatura — concessione al gusto del tempo — reggevano alta una semplice lampada a pe-
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trolio. Sul soffitto Giove avvolto in una nube purpurea benediceva all'imbarco Arugerio che si preparava dalla nativa Normandia a salpare verso la Sicilia; e Tritoni e Ninfe marine folleggiavano attorno alle galere pronte a salpare sul mare madreperlaceo. [Campieri — berretti, divise, fucili, lepri.)
Oltrepassato però che si fosse questo suo preludio orgoglioso, la casa era tutta grazia e moine, 0, per meglio dire, il suo orgoglio si velava sotto la mollezza come quello di un aristocratico sotto la cortesia. Vi era la biblioteca racchiusa in armadi di quel sapido stile del Settecento siciliano detto “stile di badia”, simile a quello veneziano fiorito ma più rude e meno zuccherato. Quasi tutte opere illuministiche nelle loro rilegature fulve e dorate: l’“Encyclopédie”, Voltaire, Fontenelle, Helve-
tius, il Voltaire nella grande edizione di Ketil (se MariaCarolina lo leggeva cosa doveva pensarne?): poi le “Victoires et Conquétes”, una raccolta di bollettini napoleonici e di relazioni di guerra che facevano le mie delizie nei lunghi pomeriggi estivi pieni di silenzio mentre li leggevo, a pancia in giù, disteso su uno di quei spropositati “poufs” che occupavano il centro della sala da ballo. Insomma una bizzarra biblioteca se si pensa che era stata formata da quel principe Niccolò che era reazionario. Vi si trovavano anche raccolte rilegate di giornali satirici del Risorgimento, il “Fischietto” e “Lo Spirito folletto”, qualche bellissima edizione di “Don Quichotte”, di La Fontaine, la storia di Napoleone con le preziose illustrazioni di Norvins (questo libro lo ho ancora), le opere complete o quasi di Zola le cui copertine gialle si affermavano sfacciate in quell’ambiente “mellow”, pochi altri romanzi di basso rango; ma anche
i “Malavoglia” con dedica autografa. Non so se sono fin qui riuscito a dare l’idea che ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone. Poiché era così si
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capirà facilmente come la vita a S. Margherita fosse l'ideale per me. Nella vastità ornata della casa (12 persone in 300 stanze) mi aggiravo come in un bosco incanta-
to. Bosco senza draghi nascosti; pieno di liete meraviglie financo nei nomi giocosi delle stanze: la “stanza degli uccellini” tutta tappezzata di grezza seta bianca rugosa nella quale fra infiniti ghirigori di rami fioriti splendevano appunto uccellini multicolori dipinti a mano; la “stanza delle scimmie” dove fra gli stessi alberi tropicali si spenzolavano “oustiti” pelosissimi e maliziosi; le “stanze di Ferdinando” che a me evocavano, prima, l’immagine del mio biondo e ridente zio, ma che invece avevano conservato questo nome perché avevano costituito l'appartamento privato del ridanciano e crudele Re Nasone, come del resto dimostrava lo spropositato “litbateau” Impero il cui materasso era ricoperto da quella specie di cassa in marocchino che pare si usasse invece
della coperta per i letti regali; marocchino verde fittamente inciso dei triplici gigli di Borbone dorati e che sembrava un enorme libro. Le pareti erano ricoperte di una seta di un verde più chiaro, a strisce verticali, una
lucida e una matta a righine, tal e quale come quella del “salone verde” della casa a Palermo. La “sala della tappezzeria” era la sola cui si unì in seguito una qualche associazione sinistra: in essa vi erano otto grandi “succhi d’erbe” su argomenti tratti dalla “Gerusalemme Libera-
ta”. In uno di essi, rappresentante il duello tra Tancredi e Argante, uno dei due cavalli aveva uno sguardo stranamente umano che io dovevo poi riallacciare al “House of the Metzengerstein” di Poe. Questo “succo d’erba”
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del resto, è ancora mio. Noi si stava sempre la sera, strano a dirsi, nella sala da
ballo, ambiente centrale del primo piano, che con otto balconi guardava sulla piazza e con quattro sul primo cortile. Ricordava la sala da ballo della nostra casa di Palermo: l'oro era la nota dominante del salone. Il parato
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però era verdino tenero quasi interamente ricoperto di ricami a mano di fiori e foglie d’oro e interamente in oro zecchino matto con decorazioni in oro più lucido erano i basamenti in legno e le imposte enormi come portoni di case. E quando nelle serate d’inverno (passammo infatti due inverni a S. Margherita da cui mia Madre non voleva staccarsi) si stava seduti davanti al caminetto centrale al chiarore di pochi lumi a petrolio la cui luce riprendeva capricciosamente alcuni fiori del parato ed alcune modanature delle chiusure, sembrava di essere
rinchiusi in uno scrigno delle fate. Di una di queste serate posso precisare la data perché ricordo che vennero portati i giornali che annunziavano la caduta di PortoArturo. Queste serate non erano, del resto, sempre ristrette
alla sola famiglia; anzi non lo erano quasi mai. Mia Madre tendeva a mantenere in vita la tradizione creata dai suoi genitori di mantenere relazioni cordiali con i maggiorenti locali, e molti di questi pranzavano a turno da noi, e due volte la settimana si riunivano tutti per giocare a scopone appunto nella sala da ballo. Mia Madre li conosceva fin da quando essa era bambina, e voleva bene a tutti: a me sembravano, come forse non erano, unanimamente brave persone: vi era don Peppino Lomonaco, un palermitano che le sue miserrime condizioni economiche avevano costretto ad emigrare a S. Margherita dove aveva una minuscola casa e un più minuscolo appezzamento di terreno: grande cacciatore era stato amicissimo di mio Nonno e godeva di un trattamento di particolare favore: credo facesse colazione ogni giorno con noi ed era l’unico che desse del “tu” a mia Madre che lo ricambiava con un rispettoso “Lei”; era un vecchietto diritto, asciutto, dagli occhi celesti e dai lunghi baffi bianchi spioventi, molto distinto ed anche elegante nei suoi logori abiti di buon taglio; ho adesso il sospetto che fosse un bastardo di casa Cutò, uno zio di mia Ma-
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dre, in poche parole; suonava il piano e raccontava meraviglie delle cacce fatte fra macchie e boscaglie insieme a mio Nonno, al prodigioso acume delle sue cagne (“Diana” e “Furetta”) e di trepidi ma sempre innocui incontri con le bande dei briganti Leone e Capraro. Vi era Nenè Giaccone, grosso proprietario del luogo, dal pizzetto ardente e dalla vivacità insanabile, che era stimato il grande “viveur” del paese in quanto passava ogni anno due mesi a Palermo alloggiando all'Hotel Milano che si trovava in via Emerico Amari, di fronte al
fianco del Politeama, e che era considerato “fast”. Vi era il cavaliere Mario Rossi, piccolo uomo dalla barbetta nera, antico ufficiale postale che parlava sempre di Frascati («Lei capirà, Duchessa, Frascati è quasi Roma») dove era stato qualche mese in servizio; vi era
Ciccio Neve, dal grosso viso rubicondo e dalle fedine alla Francesco-Giuseppe, che viveva con una sorella pazza (quando si conosce bene un villaggio siciliano si vengono a scoprire innumerevoli pazzi); Catania, il maestro di scuola con una barba mosaica; Montalbano, anch'egli
grosso proprietario, il vero tipo del “barone di paese” ottuso e grossolano, padre, credo, dell’attuale deputato comunista; Giorgio di Giuseppe che era l’intellettuale della compagnia e passando sotto le sue finestre la sera, si sentivano i Notturni di Chopin da lui suonati al pianoforte; Giambalvo, enormemente grasso e pieno di spirito; il dottor Monteleone, dal pizzo nero, che aveva stu-
diato a Parigi e che parlava spesso della “rue Monge” dove aveva avuto avventure straordinarie; don Colicchio Terrasa, vecchissimo e quasi del tutto contadino, con il
figlio Totò, mangiatore famoso; e tanti altri che si vedevano più raramente. Si noterà come si trattasse unicamente di uomini; le
mogli, le figlie, le sorelle se ne stavano a casa, sia perché le donne in paese (nel 1905-1914) non andassero a fare visite, sia perché i loro mariti, padri e fratelli non le re-
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putassero presentabili; ad esse mia Madre e mio Padre andavano a far visita una volta per stagione, e da Mario Rossi, la cui moglie era una Bilella, illustre per i suoi me-
riti gastronomici, andavano anche talvolta a far colazione; e talvolta essa, dopo un complesso sistema di preavvisi e segnali, mandava, pet mezzo di un ragazzotto che traversava di galoppo la piazza sotto il sole accecante, una immensa zuppiera colma di maccheroni di zito alla siciliana, con carne tritata, melanzane e basilico, che, ricordo, era davvero una pietanza da Dei rustici e primi-
geni. Il ragazzotto aveva l’ordine preciso di posarla sulla tavola da pranzo, quando eravamo di già seduti e prima di andarsene ingiungeva: « A Signura raccumanna: ’u cascavaddu».° Ingiunzione forse saggia, ma che non venne mai ubbidita. A questa assenza di donne la sola eccezione era quella di Margherita, la figlia di Nenè Giaccone il “viveur” che era stata educata al Sacro Cuore e che era una bella figliola dai capelli fiammeggianti come quelli del padre, e che ogni tanto si faceva vedere. A queste relazioni cordiali con la popolazione, si opponevano le relazioni tese con le autorità: il Sindaco, don Pietro Giaccone, non risultava e nemmeno il parroco benché casa Cutò avesse il diritto di patronato; l’assenza del Sindaco si spiega perché vi erano continuamente liti col Comune per gli “usi civici”; era anche lui un uomo galante e per un certo tempo tenne presso di sé una sgualdrinella che si spacciava per spagnola, Pepita, che aveva pescato in un caffè concerto ad Agrigento (!) e che scarrozzava per le vie del paese in una “charrette” trascinata da un “pony” grigio. Mio Padre un giorno che era dinanzi al portone vide passare la coppia nel suo elegante equipaggio; e con l'occhio infallibile
che aveva per queste cose si accorse che il mozzo aveva * Caciocavallo.
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perduto la sua forcella e che la ruota stava per staccarsi, cosicché benché egli non conoscesse il Cavaliere-Sindaco e che le relazioni fossero tese, corse dietro alla “charrette” gridando: «Cavaliere, stia attento, la ruota destra si stacca». Il cavaliere si fermò, salutò con la frusta e disse: «Grazie, ci penserò». E riprese il cammino senza essere disce-
so. Dopo venti metri la ruota effettivamente andò a farsi benedire, e il Cavaliere-Sindaco venne rudemente sca-
gliato per terra insieme a Pepita nel suo abito di “chiffon” rosa. Si fecero poco male; l’indomani comparvero quattro pernici e un biglietto da visita: “Il cav. Pietro Giaccone, sindaco di S. Margherita Belice, per ringraziare del buon consiglio non ascoltato”. Ma questo sintomo di distensione non ebbe seguito. L’ultimo e il maggiore dei tre cortili della casa di S. Margherita era il “cortile delle palme” piantato tutto in giro da altissime palme cariche di quella stagione di grappoli non fecondati di datteri. Entrando in esso dal passaggio che vi immetteva dal secondo cortile si aveva a destra la linea lunga e bassa del fabbricato delle scuderie al di là del quale vi era il maneggio. Nel centro del cortile, lasciando a destra le scuderie e il maneggio, vi erano due alti pilastri in pietra gialla porosa, adorni di mascheroni e svolazzi che immettevano alle scalinate che discendevano nel giardino. Erano delle scalinate brevi (una diecina di gradini in tutto) ma nel cui spazio l'architetto barocco aveva trovato modo di dar sfogo a un estro indiavolato, alternando gradini alti e bassi, contorcendo
le fughette nei modi più inaspettati, creando pianerottoli superflui con nicchie e panche, in modo da creare su tanta piccola altezza un sistema di possibilità di confluenze e defluenze; brusche ripugnanze e affettuosi incontri che conferiva alla scalinata l'atmosfera di una lite di innamorati. Il giardino, come tanti altri in Sicilia, era disegnato su
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un piano più basso della casa, credo affinché potesse usufruire di una sorgente che lì sgorgava. Era molto grande e nella sua complicazione di viali e vialetti perfettamente regolare se lo si guardava da una delle finestre della casa. Era tutto piantato a lecci ed araucarie, con i viali bordati di siepi di mortella e nel furore dell’estate quando la sorgente scemava il suo gettito era un paradiso di profumi riarsi di origano e di nepitella, come lo sono tanti giardini di Sicilia che sembrano fatti più per il godimento del naso che dell’occhio. Il largo viale che lo circondava sui quattro lati era il solo diritto in tutto il giardino, perché nel resto di esso il disegnatore (che doveva per il suo estro bizzarro essere lo stesso architetto della scalinata) aveva moltiplicato le giravolte, imeandri e gli anditi, contribuendo a conferir-
gli quel tono di aggraziato mistero che tutta la casa aveva. Tutte queste vie traverse però finivano con lo sboccare sempre nel grande piazzale centrale, quello dove era stata scoperta la sorgente che adesso, racchiusa in ornata prigione, rallegrava con i suoi zampilli la vasta fontana nel centro della quale su un isolotto di rovine artificiali, la dea Abbondanza, chiomata e discinta, ver-
sava torrenti d’acqua nel bacino profondo e percorso da amichevoli ondate. Una balaustrata lo cingeva, sormon-
tata qua e là da Tritoni e Nereidi scolpiti nell’atto di vo. ler tuffarsi con movimenti scomposti in ogni singola statua ma scenicamente fusi nell’insieme. Tutt'intorno al
piazzale della fontana vi erano delle panche di pietra, annerita ed impiastrata da muffe secolari che intrichi di fogliame riparavano dai venti e dal sole. Ma il giardino era colmo di sorprese per un bambino. In un angolo vi era una grande serra, piena di cactacee e di arbusti rari, il regno di Nino, capogiardiniere e mio grande amico, anche lui di pelo rosso come tanti Margaritani lo erano, forse sotto l’influsso dei Filangeri nor-
manni. Vi era il boschetto di bambù che crescevano fitti
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e robusti attorno a una fontana secondaria, all’ombra
del quale vi era lo spiazzo per i giochi, con l’altalena cadendo dalla quale Pietro Scalea, che fu poi ministro della guerra, si era rotto, prima assai dei miei tempi, il braccio. Vi era in uno dei viali laterali, incastrata nel muro,
una vasta gabbia destinata un tempo a delle scimmie, nella quale mia cugina Clementina Trigona ed io ci richiudemmo un giorno, proprio una domenica mattina quando il giardino era aperto agli abitanti del paese, che si fermarono attoniti e muti a contemplare, incerti, queste bertucce vestite. Vi era la “casa delle bambole” che era stata costruita per i giochi di mia Madre e delle sue quattro sorelle, in mattoni rossi con le inquadrature di finestre in pietra serena, che adesso col tetto sfondato e i pavimenti dei suoi piani crollati era l’unico angolo sconsolato nel grande giardino che Nino, nel rimanente, teneva in modo am-
mirevole con ogni albero ben tosato, ogni viale insabbiato di giallo, ogni siepetta a posto. Ogni paio di settimane saliva dal vicino Belice un carro con una grande botte piena di anguille che venivano scaricate nella fontana secondaria (quella dei bambù) che serviva da vivaio e nella quale il cuoco inviava a pescarle con reticelle secondo i bisogni della cucina. Dappertutto agli angoli dei viali si ergevano busti di Dei oscuri, regolarmente privi di naso, e, come in ogni
Eden che si rispetti, vi era un serpente nascosto nell’ombra, sotto forma di alcuni arbusti di ricino (del resto bel-
lissimi con le loro foglie oblunghe verdi bordate di rosso) che un giorno mi diedero un’amara sorpresa quando, schiacciando gli acini di un bel grappoletto vermiglio, sentii diffondersi l’odore di quell’olio che in quella età felice era/la sola vera ombra della mia vita. Feci fiutare la mia mano unta al beneamato Tom che mi seguiva e vedo ancora il modo gentile e carico di rimprovero col quale sollevò metà del suo labbro nero, come
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fanno i cani bene educati quando vogliono mostrare il loro disgusto però senza offendere i padroni. Giardino, ho detto, pieno di sorprese. Ma tutta S. Margherita lo era: piena di trabocchetti giocondi. Si apriva una porta in un corridoio e si intravedeva una
prospettiva di stanze, immerse nella penombra delle persiane socchiuse, con le pareti coperte di stampe francesi che rappresentavano le campagne di Bonaparte in Italia; in cima alla scala che conduceva al secondo piano vi era una porta quasi invisibile tanto era stretta e conforme al muro e dietro di essa vi era un grande ambiente, zeppo di quadri antichi appesi fino in cima alla parete, come si vede nelle stampe del “Salon” di Parigi nel Settecento. Uno dei quadri di antenati nella sala d’ingresso era mobile e dietro vi erano le stanze di caccia di mio Nonno, gran cacciatore al cospetto di Dio. I trofei racchiusi in bacheche di cristallo erano nostrani: pernici dalle zampe rosse, beccacce dall'aria sconsolata, folaghe del Belice; ma il bancone con le bilance, le presse, i misurini per preparare le cartucce, gli armadi vetrati pieni di bossoli multicolori, le stampe colorate che presentavano più pericolose avventure (vedo ancora un
barbuto esploratore biancovestito che fugge urlando dinanzi alla carica di un rinoceronte verdastro) incantavano l’adolescente. Ai muri pendevano anche stampe e fotografie di bracchi, pointers e setters che diffondevano la calma dolcezza di ogni aspetto canino. Ed in grandi rastrelliere erano esposti i fucili, etichettati con un numero che corrispondeva a un registro nel quale erano noverati i colpi sparati da ciascuno. Fu da uno di questi fucili, credo da un’arma per signora a due canne riccamente damaschinate, che sparai, nel giardino, i primi e
gli ultimi colpi della mia carriera cinegetica: uno dei barbuti campieri mi costrinse a sparare contro alcuni innocenti pettirossi; due, sventuratamente, caddero, con del
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sangue sulle tepide piumette grige; e poiché palpitavano ancora, il campiere stritolò loro la testa fra le sue dita. Malgrado le mie letture di “Victoires et Conquétes” e «L’épée de l’intrépide général comte Delort rougie du sang des ennemis de l’Empire» questa scena mi fece orrore; il sangue mi piaceva, si vede, soltanto metaforizza-
to in inchiostro di stampa. Andai diritto da mio Padre, al cui desiderio si doveva questa strage degli Innocenti, e dissi che mai più avrei sparato su nessuno.
Dieci anni dopo dovevo uccidere con una pistolettata un Bosniaco e chissà quanti altri cristiani a cannonate.
Ma non ne ebbi il decimo dell’impressione che mi fecero quei due miseri pettirossi. Vi era anche la “stanza delle carrozze”, un grande ambiente oscuro, nel quale erano due immensi “carrosses” del Settecento, uno di gala tutto dorature e vetri,
con gli sportelli dove su un fondo giallo erano dipinte delle pastorellerie in “vernis Martin”; i sedili, per almeno sei persone, erano foderati di “taffetas” di un giallino sbiadito; l’altro da viaggio, verde oliva con filettature dorate e lo stemma agli sportelli, foderato în marocchino verde. Sotto i sedili vi erano dei ripostigli imbottiti destinati credo alle provviste da viaggio nei quali vi era soltanto un solitario piatto d’argento. Poi vi era la “cucina delle bambine” con un focolare in miniatura ed una batteria da cucina in rame ad esso proporzionata, che mia Nonna aveva fatto installare nel vano tentativo d’invogliare le figlie ad imparare la cucina. E poi vi era la chiesa e il teatro con i suoi anditi favolosi per arrivarvi, ma di questi parlerò dopo. Fra tanti splendori, io dormivo in una stanza completamente disadorna, che dava sul giardino, detta la “stanza rosa” perché era difatto dipinta di uno stucco lucido proprio della tinta della “Maréchale Niel”; da una parte vi era la stanza di toletta con uno strano bagno ovale di rame installato su quattro alti piedi di legno; ricordo al-
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cuni bagni che mi facevano fare in un’acqua nella quale era disciolto dell’amido, o della crusca racchiusa in un sacchetto dal quale usciva, quando bagnato, un’acque-
rugiola lattea profumata; “ bains de son” dei quali si trova traccia nelle memorie del Secondo Impero, la cui abitudine era stata evidentemente trasmessa da mia Nonna a mia Madre. In una stanza attinente identica alla mia ma celeste dormirono successivamente le mie governanti, Anna I e Anna II, tedesche, e Mademoiselle, francese. Al mio ca-
pezzale pendeva una specie di bacheca Luigi XVI, in legno bianco che racchiudeva tre statuine in avorio, la Sacra Famiglia, su fondo cremisi. Questa bacheca si è miracolosamente salvata e pende adesso al capezzale del letto nella stanza in cui dormo nella villa dei miei cugini Piccolo a Capo d’Orlando. In questa villa del resto ritrovo non soltanto la “Sacra Famiglia” della mia infanzia, ma una traccia, affievolita, certo, ma indubitabile della
mia fanciullezza a S. Margherita e perciò mi piace tanto andarvi. Vi era anche la chiesa, che era poi il Duomo di S. Margherita. Dalla stanza delle carrozze, si svoltava a sinistra, e, salito uno scalino, ci si trovava in un largo corridoio
che terminava poi nella “stanza di studio”, una specie di aula scolastica con banchi, lavagne, e carte in rilievo dove
avevano studiato mia Madre e le mie zie da bambine. Prima di giungere a questa stanza vi erano a sinistra due porte che immettevano in tre stanze di foresteria, le
più ambite perché davano sulla terrazza che terminava lo scalone d’ingresso. A destra invece, fra due “consoles”
bianche vi era una grande porta gialla. Da essa si entrava in una piccola stanza oblunga, con sedie e varie mensole cariche di immagini di Santi; ricordo un grande piatto di ceramica con nel centro la testa di S. Giovanni decollato, grandezza naturale, con il sangue raggrumato sul fondo. Da questa stanza si entrava nella Tribuna che,
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all’altezza di un alto primo piano, si sporgeva direttamente sull’altare maggiore, circondata da una bellissima ringhiera di ferro fiorito e dorato. In essa vi erano pregaDio, sedie e innumerevoli rosari e da essa ogni domenica alle undici assistevamo alla messa, cantata senza so-
verchio fervore. La chiesa stessa era grande e bella, ricordo, in stile Impero con grandi brutti affreschi incastonati fra gli stucchi bianchi del soffitto, così come so-
no nella chiesa dell’Olivella a Palermo, alla quale somigliava in più piccolo. Da quella stessa “stanza delle carrozze” che, mi accorgo adesso, era una specie di “plaque tournante” delle parti meno frequentate della casa, girando a destra si penetrava in una serie di anditi, di sgabuzzini, di scalette
che davano un po’ quell’impressione d’inestricabile che hanno certi sogni e si finiva col giungere nel corridoio del teatro. Era questo un vero e proprio teatro, con due file di 12 palchi ciascuna, più un loggione e si capisce, la platea. Capace di almeno trecento persone. La sala era tutta in bianco e oro, con i sedili e i buchi dei palchi in velluto azzurro, assai stinto. Lo stile era Luigi XVI, composto ed
elegante. Al centro vi era l’equivalente del palco reale, cioè il nostro palco sormontato da un enorme trofeo di legno dorato contenente la croce campanellata sul petto dell’aquila bicipite. Ed il sipario, più tardivo, rappresentava la difesa di Antiochia da parte di Riccardo Filangeri. (Difesa che, a sentire Grousset, fu assai meno eroica di quanto il pittore lasciasse intendere.) La sala era illuminata da lampade a petrolio dorate posate su bracci che sporgevano sotto la prima fila dei palchi. Il bello è che questo teatro (che aveva s'intende anche un ingresso per il pubblico nella piazza) era spesso in azione. Ogni tanto giungeva una compagnia di comici; erano
dei “guitti” che, generalmente in estate, si spostavano su
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carretti da un paese all’altro rimanendo due o tre giorni a dare delle rappresentazioni. A S. Margherita dove c’era un teatro vero e proprio rimanevano più a lungo,
un paio di settimane. Alle 10 del mattino si presentava il capocomico in finanziera e tuba a domandare il permesso di recitare in teatro; era ricevuto da mio Padre, o, se lui non c’era, da mia Madre che naturalmente dava il permesso, rifiutava il prezzo di affitto (o per meglio dire faceva un contratto per il prezzo fittizio di 50 centesimi per le due settimane), e per di più pagava l’abbonamento per il nostro “palco”. Dopo di che il capocomico se ne andava per ritornare dopo mezz'ora per chiedere in prestito dei mobili. Queste compagnie viaggiavano infatti con qualche scenario di tela dipinta ma senza mobilio per la scena che avrebbe costituito un bagaglio troppo costoso e ingombrante. Il mobilio veniva concesso e la sera potevamo riconoscere le nostre poltrone, i nostri tavolini, i no-
stri attaccapanni sulla scena (mi duole dire che non erano mai i migliori). Puntualmente al momento della partenza essi venivano riconsegnati talvolta riverniciati così malamente che si dovette pregare le altre compagnie di desistere da questa bene intenzionata pratica. Una volta, 4 quanto ricordo, si presentò anche la prima
attrice, una buona grossa ferrarese di trent'anni che doveva interpretare in serata d’addio la “Signora dalle Camelie”; essa trovava il proprio guardaroba non adatto alla solennità della serata e venne a chiedere degli abiti da sera a mia Madre; e così si vide la “Signora dalle Camelie” in abito scollatissimo “vert Nil” coperto di paillettes argentate. Questa delle compagnie girovaghe nei paesi di campagna è un’attività scomparsa; ed è peccato. La messa in scena era quel che era; gli attori erano evidentemente cattivi; ma recitavano con impegno e con fuoco e la loro “presenza” era certo più reale di quel che siano le palli-
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de ombre delle pellicole di quint’ordine che in questi stessi paesi si rappresentano adesso. Vi era recita ogni sera: e il repertorio era vastissimo:
tutto il dramma ottocentesco vi passava: Scribe, Rovetta, Sardou, Giacometti e anche Torelli. Una volta venne an-
che dato “Amleto”; fu anche la prima volta che lo sentissi. Ed il pubblico composto in parte di contadini, era attento ed espansivo negli applausi. A S. Margherita, almeno, queste compagnie facevano buoni affari, con il teatro gratuito, i mobili pure ed i cavalli dei loro carri alloggiati e nutriti nella nostra scuderia. Io vi andavo ogni sera, eccetto in quella unica serata nella stagione chiamata “serata nera” nella quale si rappresentava qualche “pochade” francese reputata indecente. L'indomani i nostri amici del paese venivano a far rapporto su questa recita libertina ed erano in genere assai delusi perché si erano aspettati maggiori indecenze. Io mi ci divertivo assai, ed i miei genitori pure; ed alle migliori compagnie, alla fine del loro periodo, veniva offerto in giardino una specie di “garden party” con rustico ma abbondante “buffet” che rallegrava gli stomaci temo troppo spesso vuoti, di quegli eccellenti “guitti”. Ma di già l’ultimo anno che sono stato a lungo a S. Margherita, nel 1921, compagnie di comici non ne vennero più, e si proiettavano invece dei tremolanti “films”. La guerra aveva ucciso, fra il resto, anche questa pittoresca miseria delle compagnie girovaghe, che aveva la propria utilità artistica e che ho l’impressione fosse stata la pepiniera di molti dei grandi attori italiani dell’Ottocento, fra gli altri la Duse.
Ma mi accorgo di aver dimenticato di parlare della stanza da pranzo di S. Margherita che era singolare per parecchie ragioni. Anzitutto, era singolare perché esisteva: credo sia molto raro che in una casa del Settecento vi sia un ambiente espressamente adibito a sala da pranzo;
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allora si pranzava in un salotto qualsiasi, cambiando sempre, come del resto io faccio adesso. A S. Margherita invece c’era. Non molto grande, poteva contenere, comodamente, soltanto una ventina di commensali, essa guardava con due balconi sul secondo
cortile. Vi si accedeva da tre porte: quella principale che immetteva nella “galleria dei quadri” (non quella della quale ho parlato), una che comunicava con le “stanze della caccia” e la terza che conduceva nell'“office” da dove era l'ascensore a corde che lo metteva in comunicazione con la sottostante cucina. Queste porte erano bianche,
Luigi XVI, con dei grandi riquadri dentro i quali erano applicati ornamenti in rilievo, dorati, di un oro verdastro e matto. Dal soffitto pendeva un lampadario di Murano a “lucerna” sul cui vetro grigiastro spiccava il tenue colorito dei fiori. Il principe Alessandro che aveva arredato questa sala aveva avuto l’idea di far dipingere sui muri se stesso e la sua famiglia proprio mentre prendevano i pasti. Erano grandi quadri su tela che ricoprivano ciascuno interamente una parete dal pavimento al soffitto, con le figure a grandezza quasi naturale. In uno si vedeva la prima co-
lazione: il Principe e la Principessa, lui in abito da caccia verde, con stivali e cappello in testa, lei in “déshabillé” bianco ma adorna di gioielli, seduti a un piccolo tavolino intenti a prendere la cioccolata, serviti da uno schiavetto negro con turbante. Lei tendeva un biscotto ad un bracco impaziente, lui sollevava verso la bocca una grande tazza azzurra a fiori. Un altro quadro rappresentava la colazione sull’erba: parecchi signori e signore stavano seduti attorno a una tovaglia stesa su un prato sulla quale erano posti maestosi pasticci e bottiglie impagliate: nel fondo si vedeva una fontana e gli alberi erano giovinetti e bassi; credo fosse proprio il giardino di S. Margherita, appena piantato.
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Un terzo quadro il più grande rappresentava il pranzo di apparato, con i gentiluomini in parrucchino arricciatissimo e le dame in ghingheri; la Principessa aveva un delizioso abito di seta rosa “broché” di argento e al collo un “collier de chien” e una grande collana di rubini sul petto. I camerieri in grande livrea e cordoni entravano recando alti piatti montati di straordinaria fantasia. Vi erano altri due quadri ma ricordo il soggetto di uno solo di essi, perché mi stava sempre in faccia: era la merenda dei ragazzi: due bambine di 10-12 anni, strette e impettite nei loro busti a punta, incipriate, erano sedute di fronte a un ragazzo di forse quindici anni, in abito arancione a risvolti neri, e con spadino, e ad una vecchia
signora in nero (certamente la governante), e prendevano dei grandi gelati di uno strano rosa, forse di cannella, che si erigevano in punta acutissima da larghi calici di vetro. Un'altra delle stranezze di S. Margherita era il centro della tavola da pranzo. Esso era stabile: un grande pezzo di argenteria sormontato da un Nettuno con tridente che minacciava la gente, mentre accanto a lui un’Anfitri-
te faceva loro l’occhietto non senza malizia. Il tutto su una scogliera che sorgeva nel centro di un bacino d’argento circondato da delfini e mostri che mediante un congegno a orologeria nascosto in un piede centrale della tavola spruzzavano acqua dalle bocche. Un insieme certamente fastoso e festoso che aveva però l’inconveniente d’imporre tovaglie che avevano sempre un grande buco nel centro dal quale doveva spuntare il Nettuno. (I buchi del taglio erano mascherati da fiori o da foglie.) Non vi erano credenze ma quattro grandi “consoles” col piano di marmo rosa; e l’intonazione generale della stanza era rosa, sia per il marmo, sia per la “toilette” rosa della Principessa nel grande quadro, sia per la tappezzeria delle sedie che era rosa anche essa, non antica, ma di delicatissima intonazione.
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Come si vede la casa di S. Margherita era una specie di Pompei del Settecento in cui tutto si fosse miracolosamente conservato intatto; cosa rara sempre ma quasi unica in Sicilia che per povertà e incuria è il paese più distruttore che esista. Non so quali fossero le cause precise di questa durevolezza ferorzenale: forse il fatto che mio bisnonno fra il 1820 e il 1840 vi passò lunghi anni in una specie di confino impostogli dai Re Borbone in seguito ad alcune sue indecenze commesse alla Marina; forse la cura appassionata che ne aveva mia Nonna; certamente il fatto che essa aveva trovato in Onofrio Rotolo l’unico amministratore che a mia conoscenza non fosse un ladro. Egli viveva ancora ai miei tempi: era una specie di
gnomo, piccolo piccolo con una lunghissima barba bianca; e viveva insieme alla moglie, incredibilmente grande e grossa, in uno dei molti appartamenti appendicolari alla casa con ingresso separato. Delle sue cure e della sua scrupolosità si raccontavano mirabilia: come quando la casa era vuota egli la percorresse ogni notte col lume in mano per constatare se tutte le finestre erano chiuse e le porte sprangate; come permettesse soltanto alla moglie di risciacquare le porcellane preziose; come dopo ogni ricevimento (ai tempi di mia Nonna) andasse a tastare le viti che si trovavano sotto le sedie “cannées”;
come durante l’inverno passasse giornate intere a sorvegliare squadre di facchini che ripulivano e tenevano in ordine ogni angolo più fuor di mano di quella mastodontica casa. La moglie malgrado la sua età ed il suo poco giovanile aspetto era gelosissima; ed ogni tanto ci giungeva notizia di tremende scenate alle quali ella lo sottoponeva perché sospetto di aver fatto troppa attenzione alle grazie di una giovane fantesca. So di certo che più di una volta andò da mia Madre a rimproverarla vivacemente per le soverchie spese; inascoltato, va da sé, e forse maltrattato.
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La sua morte coincise con la rapida ed improvvisa fine di questa bellissima fra le più belle ville. Siano queste righe che nessuno leggerà un omaggio alla sua illibata memoria. Ma a S. Margherita l'avventura per un ragazzo non si celava soltanto negli appartamenti ignoti o nei meandri del giardino, ma anche in molti singoli oggetti. Pensate soltanto quale fonte di meraviglia potesse essere il centro di tavola! Ma vi era anche la “boîte à musique” scoperta
in un cassetto, un grosso aggeggio meccanico ad orologeria nel quale un cilindro irregolarmente cosparso di punte girava su se stesso sollevando dei minuscoli tasti di acciaio e diffondendo una musica gracile e minuziosa. Vi erano poi delle stanze nelle quali si trovavano enormi armadi in legno giallo dei quali si erano perdute le chiavi; neppure don Nofrio sapeva dove fossero e quando si è detto questo si è detto tutto. Si esitò a lungo, poi si chiamò un fabbro, gli sportelli furono aperti. Gli armadi contenevano biancheria da letto, dozzine su doz-
zine di lenzuola, di federe, tanto da fornire un albergo (e dire che ve ne erano di già in quantità strabocchevole negli armadi conosciuti); altri contenevano coperte da letto, in vera lana, cosparse di pepe e di canfora; altri biancheria da tavola, tovaglie damascate piccine, grandi e smisurate, tutte con il buco in mezzo. E fra uno strato
e l’altro di queste casalinghe ricchezze erano posti sacchetti di tulle contenenti fiori di lavanda ormai polverizzata. Ma l'armadio più interessante era quello che conteneva della cancelleria del 700; era un po’ più piccolo degli altri ed era rimpinzato di enormi fogli di carta da lettere di puro straccio, di fasci di penne d’oca, legate ordinatamente a dieci a dieci, di “pains à cacheter” rossi e verdi e di lunghissime stecche di ceralacca. Vi erano anche le passeggiate intorno a S. Margherita: quella verso Montevago che era la più frequente perché
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si svolgeva in piano, era di giusta lunghezza (3 km. circa in ciascun senso) e portava a uno scopo preciso se non attraente: Montevago stesso.
Poi vi era la passeggiata dalla parte opposta, sulla strada principale verso Misilbesi: si passava dinanzi a un enorme pino-parasole, e poi sul ponte della Dragonara, circondato in modo inatteso da un verde fitto e selvaggio che mi ricordava le scene ariostesche così come le vedevo in quell’epoca nelle illustrazioni del Doràè. Quando si arrivava a Misilbesi — un paesaggio di piglio canagliesco, indice di tutte le violenze e i disagi come credevo non ce ne fossero più in Sicilia: pochi anni fa ho visto una certa svolta presso S. Ninfa (Rampinzeri si chiama) nella quale ho riconosciuto il ceffo canagliesco ma amato di Misilbesi - quadrivio assolato segnato da un’antica casa postale con tre strade polverose e deserte che sembravano dover condurre a Dite più che a Sciacca o Sambuca, si ritornava generalmente in vettura perché i sette chilometri regolamentari erano sorpassati di già da molto. La vettura ci aveva seguiti al passo, fermandosi ogni tanto per non sorpassarci e poi di nuovo riacchiappandoci senza affrettarsi, facendo alternare fasi di silenzio e
anche di scomparsa secondo le svolte della strada, a fasi di scalpiccianti riavvicinamenti. In autunno le passeggiate avevano per meta la vigna di Toto Ferrara, e lì seduti su pietre si mangiava l’uva dolcissima e maculata (uva da vino, perché nel 1905-
1910 uva da tavola quasi non se ne coltivava da noi) e poi si entrava in una stanza semibuia nella quale in fondo un gran giovanottone si agitava come un forsennato dentro una botte pigiando coi piedi l’uva il cui succo verdastro si vedeva scorrere in un canaletto di legno, mentre l’aria si riempiva di un pesante odore di mosto. “Dance, and provengal song, and sunburnt mirth.” No, “mirth” niente; in Sicilia non ve ne era, non ve ne
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è ancora mai quando si lavora; le stornelleggianti vendemmiatrici toscane, le trebbiature livoniane punteggiate da banchetti, da canti e da accoppiamenti, sono cose sconosciute; ogni lavoro è “’na camurrìa”,° una blasfematoria contravvenzione all’eterno riposo concesso da-
gli Dei ai nostri “lotus-eaters”. Nei pomeriggi autunnali piovosi la passeggiata si limitava alla Villa Comunale. Questa era posta al limite settentrionale del paese, proprio sul dirupo che contemplava la grande vallata che è forse l’asse principale est-ovest della Sicilia e, ad ogni modo, uno dei suoi pochi segni geografici evidenti. Era stata donata al Comune da mio Nonno ed era di una malinconia senza limiti: un viale abbastanza lungo bordato da cipressetti giovani e da vecchi lecci affluiva in un piazzale nudo che aveva in faccia una cappelletta della Madonna di Trapani, nel centro un’aiuola fiorita
di “cannae” rosse e gialle ed a sinistra una sorta di chiosco-tempietto con cupola sferica dal quale si poteva guardare il panorama. E ne valeva la pena. Di faccia si stendeva un immenso costone di basse montagne, tutto giallo per il frumento mietuto, con le ristoppie talvolta bruciate che producevano macule nere cosicché si aveva davvero l’impressione di una immane belva accovacciata. Sul costato di questa leonessa o iena (secondo gli umori di chi guardava) si scorgevano a malapena i paesi che la pietra giallogrigiastra delle costruzioni distingueva assai male dal fondo: Poggioreale, Contessa, Salaparuta, Gibellina, S. Ninfa, oppressi dalla miseria, dalla canicola e dall’oscurità che sopravveniva alla quale essi non reagivano col benché minimo lucignolo. La cappelletta sul fondo del piazzale era segno delle manifestazioni anticlericali degli studenti in legge mar‘ In siciliano, malattia venerea, e, per traslato, fastidio, seccatura.
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garitani in quel momento in vacanza. Spesso vi si leggevano scritte a lapis le strofe dell’Inno a Satana: “Salute, o Satana / o ribellione / o forza vindice / della ragione”. E quando mia Madre (che del resto conosceva l'Inno a Satana a memoria e se non lo ammirava era solo per ragioni estetiche) inviava la mattina dopo il giardiniere Nino a passare una pennellata di latte di calce su quei versi modestamente sacrileghi, due giorni dopo se ne leggevano di aspri: “Ti scomunico, o Prete”, “nunzio di lutti e
d’ire” e quanti altri sfoghi il buon Giosuè si era creduto in dovere di fare contro il cittadino Mastai. Sul dirupo sottostante il chiosco si potevano cogliere dei capperi il che facevo regolarmente a rischio di rompermi il muso; e pare vi fossero lì anche delle mosche cantaridi i cui capi polverizzati sono una così potente polvere afrodisiaca; che queste mosche vi fossero ero allora sicuro; ma da chi lo abbia sentito dire, quando e
perché rimane un mistero. Ad ogni modo di cantaridi, sia morte che vive, intere od in polvere non ne ho mai viste in vita mia. Queste erano le passeggiate giornaliere e poco impegnative. Ve ne erano di più lunghe e complicate, delle “gite% La “gita” per eccellenza era quella a Venarìa, quel padiglioncino di caccia posto su un’altura un po’ prima di Montevago. Era questa una gita che si compiva sempre in compagnia, un paio di volte per stagione, e non man-
cava in essa una certa consuetudine comica. Si decideva: «Domenica prossima a colazione a Venarìa». E la mattina verso le 10 ci si metteva in moto, le signore in carroz-
za, gli uomini su asini. Benché tutti o quasi possedessero cavalli o per lo meno muli, l’uso del somaro era tradizionale; vi si ribellava soltanto mio Padre che aveva trovato
modo di aggirare la difficoltà dichiarandosi l’unica persona capace di guidare per quelle strade il “dog-cart” nel quale si trovavano le signore e nelle cui segrete gri-
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gliate per i cani che stavano sotto la cassa erano invece custodite bottiglie e dolci per la colazione. Fra risate e motteggi la brigata prendeva la strada di Montevago. Nel centro del gruppo polveroso era il dogcart nel quale mia Madre, Anna (o “Mademoiselle” che fosse), Margherita Giaccone e qualche altra cercavano di ripararsi dalla polvere con veli grigi di quasi musulmana fittezza; attorno caracollavano gli asini (anzi “i scecche” perché in siciliano l’asino è quasi sempre al femminile, come le navi in inglese) con le orecchie sbatacchianti. Vi erano le cadute vere, gli ammutinamenti asinini autentici e le cadute fittizie provocate per amore del pittoresco. Si attraversava Montevago, destando la vocale indignazione di tutti i cani del luogo, si arrivava al ponte delle Dàgali, si scendeva nel terreno sottostante, s'incominciava a salire l’erta. Il viale era davvero grandioso: lungo trecento metri circa saliva diritto verso la cima della collina, limitato da
ciascuna parte da un duplice filare di cipressi. E non cipressetti adolescenti come lo erano quelli di S$. Guido, ma grossi centenari cipressoni che dalla folta chioma spandevano in ogni stagione il loro austero profumo. I filari erano interrotti ogni tanto da un incrocio di banchi, e una volta da una fontana il cui mascherone sputa-
va ancora acqua ad intervalli. E si saliva nell'ombra odorosa verso la Venarìa che se ne stava lassù, immersa nel
grande sole. Era un padiglione di caccia costruito alla fine del Settecento che passava per “piccolo piccolo” ma che in realtà avrà avuto almeno una ventina di stanze. Costruito in cima alla collina dalla parte opposta a quella dalla quale noi venivamo esso guardava a strapiombo la valle, quella stessa che si vedeva dalla Villa Comunale ma che qui da più alto appariva di una ancor più vasta desolazione.
Eccone la strana pianta. [Vedi p. 384]
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I cuochi che erano partiti da S. Margherita la mattina alle 7 e che avevano già preparato tutto, quando il ragazzo di vedetta aveva annunziato l’approssimarsi del gruppo avevano cacciato nei forni i memorabili timballi di maccheroni alla Talleyrand in modo che, giunti, c’era stato appena il tempo di lavarsi le mani che subito si an-
dava in terrazza sulla quale all’aperto le due tavole erano state preparate. Nei timballi i maccheroni, intrisi di una leggerissima “glas”, avevano, sotto la crosta sfogliosa e non dolce, assorbito il profumo del prosciutto e dei tartufi tagliati a listerelle sottili come i fiammiferi. Enormi spinole fredde alla maionese seguivano, e dopo tacchine farcite e valanghe di patate. C'era da rimanere secchi dalla congestione. Il grosso Giambalvo una volta stava per rimanervi davvero: ma un secchio d’acqua fredda in viso e un prudente riposo in una stanza ombrosa lo salvarono. A rimettere tutto a posto arrivava allora una di quelle torte gelate nella confezione delle quali Marsala, il cuoco, era maestro. La questione dei vini, come sempre nella sobria Sicilia, non aveva importanza. I convitati ci tenevano sì e volevano
che il bicchiere fosse riempito sino all’orlo (“niente colletti” gridavano al cameriere) ma poi di fatto di bicchieri senza colletto ne vuotavano uno, al massimo due.
Cominciato il tramonto si scendeva verso S. Margherita.
Ho parlato di “gite” al plurale; in verità, a ripensarci, la sola “gita” era quella a Venarìa; nei primi anni, altre ve ne furono delle quali però conservo un ricordo alquanto vago; ma la parola “vago” non è esatta. Sarebbe meglio dire “difficile ad esprimere”. L'impressione visuale era rimasta vivacissima nella mente; ma allora essa non si era collegata con nessuna parola. A Sciacca per esempio siamo stati in carrozza a farvi colazione dai Ber-
tolino quando avrò avuto cinque o sei anni; della colazione, della gente che abbiamo incontrato, del tragitto
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per arrivarvi non ho nessuna memoria. Viceversa di
Sciacca stessa o per meglio dire della sua passeggiata al disopra del mare mi era rimasta nel cervello una immagine fotografica completa e precisa a tal punto che quando due anni fa sono per la prima volta ritornato a Sciacca dopo ben 52 anni, ho potuto facilmente paragonare la scena che avevo sottocchio con quella vecchia rimasta in mente, constatare le molte rassomiglianze e le qualche differenze. Come sempre i miei ricordi lontani sono in special modo ricordi di “luce”: a Sciacca vedo un mare azzurrissimo, quasi nero, che scintilla furiosamente sotto il sole
meridiano, uno di quei cieli della piena estate siciliana nebbiosi a forza di afa, una ringhiera che limita uno strapiombo sul mare, una specie di chiosco nel quale vi è un caffè a sinistra di chi guarda il mare. (Questo vi è ancora adesso.) Un cielo invece corrucciato e corso da nuvole pregne di pioggia mi suggerisce il nome del Cannitello, piccola casa di campagna su una ripida collina alla quale si accedeva da una strada a giravolte che, non so perché, oc-
correva che i cavalli salissero di galoppo. Vedo il “landau” con i suoi cuscini azzurri impolverati (e che appunto perché azzurri mostravano che la vettura non era nostra ma presa a nolo), mia Madre seduta in un angolo che, spaventata essa stessa, tentava di rassicurarmi, mentre di fianco a noi gli alberi sparuti passavano e scomparivano con la velocità del vento, e gli incitamenti del cocchiere si univano agli schiocchi della frusta e all’infuriare delle sonagliere (no, la vettura non era proprio la nostra). Della casa del Cannitello ritengo una memoria che adesso mi permette di dire che aveva un aspetto signorile ma poverissimo; allora questo giudizio economico-sociale evidentemente non lo formulavo ma posso serena-
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mente dirlo adesso esaminando la fotografia mentale che ho testé ricavato dall’archivio della memoria. Ho parlato delle persone che frequentavano la casa di S. Margherita; mi resta adesso di parlare degli ospiti che venivano a starvi alcuni giorni od alcune settimane. Premetto che questi ospiti erano pochi. Allora non vi erano automobili; o per meglio dire ve ne saranno state tre o quattro in tutta la Sicilia, e lo stato orrendo delle strade induceva i padroni di queste “rarae aves” a servirsene soltanto in città. S. Margherita era lontana da Palermo, allora, dodici ore di viaggio; e che viaggio! Fra gli ospiti di S. Margherita ricordo mia zia Giulia Trigona con Clementina sua figlia e la governante di essa, una tedesca ossuta e severissima ben differente dalle
mie sorridenti Anne. Giovanna (adesso Albanese) non era ancora nata e lo zio Romualdo non so dove esibisse il suo bel fisico e i propri impeccabili vestiti. Clementina era, come è adesso, un maschio in gon-
nella. Decisa, brusca e manesca era (appunto per queste sue particolarità che poi si rivelarono negative) una gradevole compagna di giochi per un ragazzino di sei o sette anni. Ricordo bene certi interminabili inseguimenti in triciclo che si svolgevano, oltre che nel giardino, nell’interno della casa, fra la sala d’ingresso e il “salone di Leopoldo”, il che fra andata e ritorno doveva fare una distanza di circa quattrocento metri.
Ho di già raccontato la storiella della nostra trasformazione in scimmie nella gabbia del giardino; e ricordo le prime colazioni consumate attorno a un tavolino di ferro nel giardino. Ma temo che quest’ultimo sia uno “pseudo-ricordo”: di queste prime colazioni in giardino esiste una fotografia e può benissimo darsi che io scambi il ricordo attuale della fotografia con uno arcaico dell’infanzia. Il che è quanto mai possibile ed anzi frequente. Debbo dire che non conservo nessun ricordo di mia
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zia Giulia, in questa occasione: probabilmente eravamo,
Clementina ed io, ancora all’età dei pasti separati. Vivacissimo è invece il ricordo di Giovannino Cannitello. Era questi il proprietario di quella casa del Cannitello della quale ho parlato. Giovanni Gerbillo-Xaxa, barone del Cannitello, era il suo nome completo ed egli apparteneva a una buona famiglia locale, sub-feudataria dei Filangeri, che avevano avuto il diritto, rarissimo ed assai invidiato di investire della baronia, sui loro propri feudi, un totale di due vassalli per ogni generazione. I Gerbino (che erano stati giudici dei tribunali del “misto e mero”) avevano avuto questo privilegio, e mia Nonna per questo lo chiamava “fra i miei vassalli primissimo vassallo”. Giovannino Cannitello faceva allora a me l’effetto di un vegliardo: in realtà non doveva avere più di quarant’anni. Era altissimo, magrissimo, miopissimo: malgrado i suoi occhiali, che portava a “pince-nez”, e che forniti di lenti di straordinario spessore, gli straziavano il naso con il loro peso, camminava curvo nella speranza di riuscire a scorgere almeno un’ombra di ciò che lo circondava. Il pover’uomo infatti è morto cieco non più di una ventina d’anni fa. Persona buonissima, delicata, benvoluta e non molto
intelligente egli aveva dedicato la vita (e sperperato la maggior parte delle sue sostanze) al desiderio di essere una “persona elegante”. E dal punto di vista dell’abbigliamento vi era certamente riuscito: non ho mai visto
su di un uomo un vestiario più sobrio, meglio tagliato, meno vistoso del suo. Era stato uno dei tanti farfalloni che la vivace lampada dei Florio aveva attratto, esaltato in giravolte e poi abbandonato sulla tovaglia con le ali bruciate. Con i Florio era stato più d’una volta a Parigi, alloggiando addirittura al “Ritz”, e di Parigi (la Parigi delle “boîtes”, dei bordelli di lusso, delle ragazze a pa-
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gamento) aveva conservato un ricordo abbagliato il quale del resto lo rendeva assai simile al dottor Monteleone del quale ho parlato; con la differenza che i ricordi del dottore si aggiravano intorno al “Quartier latin” ed all’“Ecole de Médecine”. Fra il dottor Monteleone, del resto, e Giovannino Cannitello non correva buon
sangue, forse appunto per questa rivalità nel disputarsi i favori della “Ville Lumière”. Fu per lungo tempo uno scherzo di famiglia il racconto di come il dottor Monteleone, svegliato la notte perché Cannitello aveva inghiottito un litro di petrolio a scopo suicida (perché respinto da una graziosa cameriera) si fosse semplicemente voltato da un’altra parte dicendo: «Calategli uno stoppino nello stomaco e accendetelo». Perché Giovannino Cannitello (che in seguito al tempo francese di mademoiselle Sempell venne chiamato “le grand Esco” cioè “le grand escogriffe”) era di temperamento sentimentale oltreché galante. E innumerevoli furono le volte che egli attentò alla propria vita (mediante il guardingo uso di petrolio o di vapori di “braciera” a finestra aperta) in seguito a ripulse da parte di sue fiamme generalmente di rango ancillare. Il povero Cannitello divenuto quasi cieco e del tutto povero è morto non moltissimi anni fa (verso il 1932) nella sua casa di via Alloro, attigua alla chiesa dei Coc-
chieri. Mia Madre che andava a visitarlo sino alla fine ritornava impressionatissima perché egli era talmente curvo che, seduto in poltrona, il suo volto era a venti centimetri dal pavimento e per parlare con lui occorreva sedersi su un cuscino direttamente sul pavimento. Nei primi anni era anche frequente ospite a S. Margherita Alessio Cerda. Poi divenne cieco e benché lo vedessimo sempre a Palermo, a S. Margherita egli non si fece più vedere. Vi era di lui una fotografia in uniforme di tenente delle Guide, col berretto molle, gli stivali molli, iguanti molli del nostro infelice esercito del 1866;
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mollezze tutte che si affermarono a Custoza. Ma di Alessio Cerda, personaggio singolarissimo, avrò occasione di parlare. Un’altra persona che venne una volta, appunto con una delle prime automobili fu Paolo Scaletta. Credo venisse per caso. Egli andava in alcune proprietà Valdina a Menfi, non lontano da S. Margherita, quando la sua
macchina ebbe una panna. E venne a chiedere ospitalità a noi. Attorno a S. Margherita si raggruppano molti miei ricordi, gradevoli e sgradevoli, tutti però cruciali. Fu a S. Margherita che alla non tenera età di otto anni mi venne insegnato a leggere. Prima mi si facevano delle letture; a giorni alternati mi si leggeva la “Storia Sacra”,
una specie di sunto della Bibbia e del Vangelo i giorni di Martedì, Giovedì e Sabato: e i Lunedì, Mercoledì e Ve-
nerdì... la Mitologia classica. In modo che ho acquisito una solida conoscenza di ambedue queste discipline: sono ancora in grado di dire quanti e quali fossero i fratelli di Giuseppe e me la cavo fra le complicate beghe familiari degli Atridi. Prima ancora di saper leggere mia Nonna era anche costretta dalla sua stessa bontà a leggermi durante un’ora “La Regina dei Caraibi” di Salgari e la vedo ancora mentre si sforzava di non addormentarsi leggendo ad alta voce delle prodezze del Corsaro Nero e delle smargiassate di Carmaux. Finalmente si decise che questa cultura religiosa, classica e avventurosa vicariamente impartita non poteva
durare più a lungo, e si decise di affidarmi alle cure di “Donna Carmela”, una maestra elementare di S. Margherita. Adesso le maestre elementari sono delle signorine vivaci, eleganti che ti parlano di metodi pedagogici di Pestalozzi e di James e che si fanno chiamare “professoresse”. Nel 1905, e in Sicilia, una maestra elementare era
una vecchietta più che a metà contadina, con la testa occhialuta racchiusa in uno scialle nero; viceversa essa sa-
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peva insegnare alla perfezione; in due mesi sapevo leggere e scrivere, non avevo più dubbi circa le doppie consonanti e le sillabe accentate. Durante intere settimane, nella “stanza bleu” che dava sul secondo cortile, separata dalla mia “stanza rosa” soltanto da un corridoio, do-
vetti eseguire delle dettature sillabate, cioè “del-le detta-tu-re sil-la-ba-te” e ripetere diecine di volte «di, do,
da, fo, fa, fu, qui e qua non prendono mai l’accento». Sante fatiche, del resto; yzercé le quali non mi capiterà mai, come capita a un illustre senatore, di sorprendermi
della frequenza dell'errore di stampa, nei giornali e nei manifesti, che fa scrivere “Reppubblica” con due B. Quando ebbi appreso a scrivere l’italiano, mia Madre mi apprese a scrivere in francese: parlare lo parlavo già ed ero stato molte volte a Parigi, ed in Francia. Ma a leg-
gere imparai a S. Margherita. Vedo ancora mia Madre seduta con me davanti a una scrivania scrivere lentamente e con grande chiarezza “le chien, le cat, le cheval”
su una colonna di un quaderno con copertina azzurra lucida ed insegnarmi che “ch” in francese è “sc”, come in italiano “scirocco e Sciacca”, diceva lei. Torretta [frammento di incerta collocazione]
Poi vi era Torretta. Altrettanto S. Margherita era amata, altrettanto detestata era Torretta. Essa è sempre stata, è ancora adesso per me, simbolo ed accompagnamento di malattia e di morte. Torretta è un villaggio a una ventina di chilometri da Palermo, nell’interno, a un’altezza di cinquecento metri
sul mare. Questa sua altezza la faceva reputare fresca e salubre; in realtà il paese rinchiuso in una stretta vallata, dominato da ogni parte da montagne aride e scoscese, sprovvisto di fognature, acqua corrente, servizio postale
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e luce elettrica, è uno dei posti meno salubri che esistano; gli ammalati di casa mia che vi erano inviati per “ri-
stabilirsi” deperivano, intristivano e in capo a tre mesi morivano. La gente del paese poi era fosca, sudicia, incolta e viveva come topi in quelle lerce straducole. La nostra casa era la “casa baronale” del paese e come tale situata sulla piazza principale. Come quella di S. Margherita, ma con quante differenze. Anzitutto la piazza che a S. Margherita era ampia, alberata, soleggiata, circondata da edifici per lo meno decenti, era a Torretta stretta, oscura, rinchiusa, con l’acciottolato sempre umi-
do e sempre adorno delle dorate deiezioni dei muli. Nel centro di essa sorgeva una fontana barocca di un brutto stile la quale sputava fuori da tre misere cannelle l’unica acqua che sgorgasse in paese ed era perciò ventiquattr’ore su ventiquattro circondata da una siepe di donne e ragazzi, con le “quartare” in mano, che attingevano l’acqua, con il disprezzo tipicamente siciliano di qualsiasi forma di ordine e di “coda” e quadri a base di urla, spintoni, pestate di piedi e prepotenze. La nostra casa non era piccola ma sembrava minuscola in confronto a quella di S. Margherita e sfoggiava sulla piazza cinque balconi. Disgraziatamente la facciata non era stata dipinta nei giocondi colori siciliani, bianco e giallo, ma in bianco con le inquadrature delle finestre e dei balconi in grigio abbastanza scuro, che sembrava un nero sbiadito e conferiva all’insieme un aspetto di tomba gentilizia sgradevole appunto perché profetico. Come conseguenza del perpetuo vociare e del perdurante trambusto intorno alla fontana della piazza, la no-
stra vita si svolgeva nelle stanze di fondo della casa, le quali si aprivano su una terrazza che dominava la vallata, una di quelle tristi vallate siciliane, disarmoniche e
pelate, che in fondo in fondo lasciano sempre vedere un piccolo straccetto di azzurrissimo mare. Da quella parte,
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l’aria sarebbe stata buona e la calma assoluta se sotto la terrazza, a un dislivello di una diecina di metri, non si fosse trovata una enorme vascavnella quale tutto il giorno le donne di Torretta, “cantaro” in spalla, venivano a riversare il sovrappiù dei loro pozzi neri. Di modo che all’odore di escrementi non si sfuggiva a Torretta né da una parte della casa, né dall’altra. Con la dominante di questi effluvi, la casa di Torretta si iniziava con una larga scala a due fughe che portava ad una sala d’ingresso...
LA GIOIA E LA LEGGE
Quando salì in autobus infastidì tutti. La cartella stipata di fogli altrui, l'enorme involto che gli faceva arcuare il braccio sinistro, il fasciacollo di felpa grigia, il parapioggia sul punto di sbocciare, tutto gli rendeva difficile l’esibizione del biglietto di ritorno; fu costretto a poggiare il paccone sul deschetto del bigliettaio, provocò una frana di monetine imponderabili, tentò di chinarsi per raccattarle, suscitò le proteste di
coloro che stavano dietro di lui e cui le sue more incutevano il panico di aver le falde dei cappotti attanagliate dallo sportello automatico. Riuscì ad inserirsi nella fila di gente aggrappata alle passatoie; era esile di corporatura ma l’affardellamento suo gli conferiva la cubatura di una suora rigonfia di sette sottane. Mentre si slittava sulla fanghiglia attraverso il caos miserabile del traffico, l’inopportunità della sua mole propagò il malcontento dalla coda alla testa del carrozzone: pestò piedi, gliene pestarono, suscitò rimproveri e quando udì perfino dietro di sé tre sillabe che alludevano a suoi presunti infortuni coniugali, l’onore gl’ingiunse di voltare la testa e s'illuse di aver posto una minaccia nell’espressione sfinita degli occhi. Si percorrevano intanto strade nelle quali facciate di un rustico barocco nascondevano un retroterra abbietto che per altro riusciva a saltar fuori ad ogni cantone; si sfilò davanti alle luci giallognole di negozi ottuagenari. Giunto alla sua fermata suonò il campanello, discese,
incespicò nel parapioggia, si ritrovò finalmente isolato sul suo metro quadrato di marciapiede sconnesso; si af-
La gioia e la legge
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frettò a constatare la presenza del portafoglio di plastica. E fu libero di assaporare la propria felicità. Racchiuse nel portafoglio erano trentasettemiladuecentoquarantacinque lire, la “tredicesima” riscossa un’ora fa, e cioè l'assenza di parecchie spine: quella del padrone di casa, tanto più insistente in quanto bloccato ed al quale doveva due trimestri di pigione; quella del puntualissimo esattore delle rate per la giacca di “lapin” della moglie («Ti sta molto meglio di un mantello lungo, cara, ti snellisce»); quella delle occhiatacce del pescivendolo e del verduraio. Quei quattro biglietti di grosso taglio eliminavano anche il timore per la prossima bolletta della luce, gli sguardi affannosi alle scarpette dei bambini, l'osservazione ansiosa del tremolare delle fiammelle del gas liquido; non rappresentavano l’opulenza certo, no davvero, ma promettevano una pausa dell’angoscia, il che è la vera gioia dei poveri; e magari un paio di mi-
gliaia di lire sarebbe sopravvissuto un attimo per consumarsi poi nel fulgore del pranzo di Natale. Ma di “tredicesime” ne aveva avute troppe perché potesse attribuire all’esilarazione fugace che esse producevano l'euforia che adesso lo lievitava, rosea. Rosea, sì,
rosea come l’involucro del peso soave che gli indolenziva il braccio sinistro. Essa germogliava proprio fuori del panettone di sette chili che aveva riportato dall’ufficio. Non che egli andasse pazzo per quel miscuglio quanto mai garentito e quanto mai dubbio di farina, zucchero, uova in polvere e uva passa. Anzi, in fondo in fondo, non gli piaceva. Ma sette chili di roba di lusso in una volta sola! una circoscritta ma vasta abbondanza in una casa nella quale i cibi entravano a etti e mezzi litri! un prodotto illustre in una dispensa votata alle etichette di terz’ordine! Che gioia per Maria! che schiamazzi per i bambini che durante due settimane avrebbero percorso quel Far-West inesplorato, una merenda! Queste però erano le gioie degli altri, gioie materiali
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I racconti
fatte di vaniglina e di cartone colorato, panettoni insomma. La sua felicità personale era ben diversa, una felicità spirituale, mista di orgoglio e di tenerezza; sissignori, spirituale. Quando poco prima il Commendatore che dirigeva il suo ufficio aveva distribuito buste-paga e auguri natalizi con l’altezzosa bonomia di quel vecchio gerarca che era,
aveva anche detto che il panettone di sette chili che la Grande Ditta Produttrice aveva inviato in omaggio all'ufficio sarebbe stato assegnato all’impiegato più meritevole, e che quindi pregava i cari collaboratori di voler democraticamente (proprio così disse) designare il fortunato, seduta stante. Il panettone intanto stava lì, al centro della scrivania, greve, ermeticamente chiuso, “onusto di presagi” come lo stesso Commendatore avrebbe detto venti anni fa, in orbace. Fra i colleghi erano corse risatine e mormorii; poi tutti, e il Direttore per il primo, avevano gridato il suo nome. Una grande soddisfazione, un’assicurazione della continuità dell’impiego, un trionfo, per dirlo in
breve; e nulla poi era valso a scuotere quella tonificante sensazione, né le trecento lire che aveva dovuto pagare
al “bar” di sotto, nel duplice lividume del tramonto burrascoso e del “neon” a bassa tensione, quando aveva of-
ferto il caffè agli amici, né il peso del bottino, né le parolacce intese in autobus; nulla, neppure il balenare nelle profondità della sua coscienza che si era trattato di un attimo di sdegnosa pietà per il più bisognoso fra gli impiegati; era davvero troppo povero per permettere che
l’erbaccia della fierezza spuntasse dove non doveva. Si diresse verso casa sua attraverso una strada decrepita cui ibombardamenti quindici anni prima avevano dato le ultime rifiniture. Giunse alla piazzetta spettrale in fondo alla quale stava rannicchiato l’edificio fantomale. Ma salutò gagliardamente il portinaio Cosimo che lo disprezzava perché sapeva che percepiva uno stipendio
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inferiore al proprio. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: il piano dove abitava il cavaliere Tizio. Puah! Aveva la millecento, è vero, ma anche una moglie brutta, vecchia e scostumata. Nove scalini, tre scalini, uno sdrucciolone, nove scalini: l'alloggio del dottor Sempronio: peggio che mai! Un figlio scioperato che ammattiva per Lambrette e Vespe, e poi l'anticamera sempre vuota. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: l’appartamento suo, l’alloggetto di un uomo benvoluto, onesto, onorato, premiato, di un ragioniere fuoriclasse. Aprì la porta, penetrò nell’ingresso esiguo già ingombro dell’odore di cipolla soffritta; su di una cassapanchina grande come un cesto depose il pesantissimo pacco, la cartella gravida d’interessi altrui, il fasciacollo ingombrante. La sua voce squillò: «Maria! vieni presto! Vieni a vedere che bellezza!». La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste
segnata dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento
roseo, e squittivano senza ardire
toccarlo. «Bravo! e lo stipendio lo hai portato? Non ho più una lira, io.» «Eccolo, cara; tengo per me soltanto gli spiccioli, duecento quarantacinque lire. Ma guarda che grazia di Dio!» Era stata carina, Maria, e fino a qualche anno fa aveva avuto un musetto arguto, illuminato dagli occhi capricciosi. Adesso le beghe con i bottegai avevano arrochito la sua voce, i cattivi cibi guastato la sua carnagione, lo scrutare incessante di un avvenire carico di nebbie e di scogli spento il lustro degli occhi. In lei sopravviveva soltanto un’anima santa, quindi inflessibile e priva di tenerezza, una bontà profonda costretta ad esprimersi con rimbrotti e divieti; ed anche un orgoglio di casta mortificato ma tenace, perché essa era nipote di un grande cap-
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I racconti
pellaio di via Indipendenza e disprezzava le non omologhe origini del suo Girolamo che poi adorava come si adora un bimbo stupido ma caro. Lo sguardo di lei scivolò indifferente sul cartone adorno. «Molto bene. Domani lo manderemo all’avvocato Risma, al quale siamo molto obbligati.» L’avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un
complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il suo Andrea, il suo Saverio, la
piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all’unico filone di abbondanza scavato in tanti anni! Corse in cucina, prese il coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un’industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all’involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: «Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma». Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati. «Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito,
una prova di considerazione!» «Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girì, nient'altro che
un’elemosina.» Lo chiamava col vecchio nome di affetto, gli sorrideva con gli occhi nei quali lui solo poteva rintracciare gli antichi incanti.
«Domani comprerai un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a tirabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande.» Il giorno dopo, infatti, lui acquistò un panettoncino anonimo, non quattro ma due delle stupefacenti candele
La gioia e la legge
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e, per mezzo di un’agenzia, mandò il mastodonte all’avvocato Risma, il che gli costò altre duecento lire. Dopo Natale, del resto, fu costretto a comprare un terzo dolce che, mimetizzato in fette, dovette portare ai
colleghi che lo avevano preso in giro perché non aveva dato loro neppure un briciolo della preda sontuosa. Una cortina di nebbia calò poi sulla sorte del panettone primigenio. Si recò all'agenzia “Fulmine” per reclamare. Gli ven-
ne mostrato con disprezzo il registrino delle ricevute sul quale il domestico dell’avvocato aveva firmato a rovescio. Dopo l’Epifania però arrivò un biglietto da visita “con vivissimi ringraziamenti ed auguri”.
L’onore era stato salvato.
LA SIRENA
Nel tardo autunno di quell’anno 1938 mi trovavo in piena crisi di misantropia. Risiedevo a Torino e la “tota” n. 1, frugando nelle mie tasche alla ricerca di un qualche biglietto da cinquanta lire, aveva, mentre dormivo, scoperto anche una letterina della “tota” n. 2 che pur attraverso scorrettezze ortografiche non lasciava dubbi circa la natura delle nostre relazioni. Il mio risveglio era stato immediato e burrascoso. L’alloggetto di via Peyron echeggiò di escandescenze vernacole; per cavarmi gli occhi venne anche fatto un tentativo che potei mandare a vuoto soltanto storcendo un poco il polso sinistro della cara figliuola. Quest’azione di difesa pienamente giustificata pose fine alla scenata ma anche all’idillio. La ragazza si rivestì in fretta, ficcò nella borsetta piumino, rossetto, fazzolettino, il biglietto
da cinquanta “causa mali tanti”, mi scaraventò sul viso un triplice «pourcoun!» e se ne andò. Mai era stata carina quanto in quel quarto d’ora di furia. Dalla finestra la vidi uscire e allontanarsi nella nebbiolina del mattino, alta, slanciata, adorna di riconquistata eleganza. Non la ho vista mai più come non ho più rivisto un “pull over” di cascemir nero che mi era costato un occhio e che aveva il funesto pregio di una foggia adatta tanto a maschi quanto a femmine. Essa lasciò soltanto, sul letto, due di quelle forcinette attorcigliate, dette “in-
visibili”. Lo stesso pomeriggio avevo un appuntamento con la n. 2 in una pasticceria di piazza Carlo Felice. Al tavolinetto rotondo nell’angolo ovest della seconda sala che
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era il “nostro” non vidi le chiome castane della fanciulla più che mai desiderata ma la faccia furbesca di Tonino,
un suo fratello di dodici anni che aveva appena finito di inghiottire una cioccolata con doppia panna. Quando mi avvicinai si alzò con la consueta urbanità torinese. «Monsù» mi disse «la Pinotta non verrà; mi ha detto di darle questo biglietto. Cerea, monsù.» E uscì portando via due “brioches” rimaste nel piatto. Col cartoncino color avorio mi si notificava un congedo assoluto, motivato dalla mia infamia e “disonestà meridionale”. Era chiaro che la n. 1 aveva rintracciato e sobillato la n. 2 e che io ero rimasto seduto fra due sedie. In dodici ore avevo perduto due ragazze utilmente complementari fra loro più un “pull over” al quale tenevo; avevo anche dovuto pagare le consumazioni dell’infernale Tonino. Il mio sicilianissimo amor proprio era umiliato: ero stato fatto fesso; e decisi di abbandonare per qualche tempo il mondo e le sue pompe. Per questo periodo di ritiro non poteva trovarsi luogo più acconcio di quel caffè di via Po dove adesso, solo come un cane, mi recavo ad ogni momento libero e, sempre, la sera dopo il mio lavoro al giornale. Era una specie di Ade popolato da esangui ombre di tenenti colonnelli, magistrati e professori in pensione. Queste vane apparenze giocavano a dama o a domino, immerse in una luce oscurata il giorno dai portici e dalle nuvole, la sera dagli enormi paralumi verdi dei lampadari; e non alzavano mai la voce timorosi com’erano che un suono troppo forte avrebbe fatto scomporsi la debole trama della loro apparenza. Un adattissimo Limbo. Come l’animale abitudinario che sono, sedevo sem-
pre al medesimo tavolino d’angolo accuratamente disegnato per offrire il massimo incomodo possibile al cliente. Alla mia sinistra due spettri d’ufficiali superiori giocavano a “tric-trac” con due larve di consiglieri di
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I racconti
corte d’appello; i dadi militari e giudiziari scivolavano atoni fuori dal bicchiere di cuoio. Alla mia sinistra sedeva sempre un signore di età molto avanzata, infagottato in un cappotto vecchio con colletto di un astrakan spelacchiato. Leggeva senza tregua riviste straniere, fumava
sigari toscani e sputava spesso; ogni tanto chiudeva le riviste, sembrava inseguire nelle volute di fumo un qualche suo ricordo. Dopo, ricominciava a leggere ed a sputare. Aveva bruttissime mani, nocchierute, rossastre con
le unghie tagliate dritte e non sempre pulite, ma una volta che in una delle sue riviste s'imbatté nella fotografia d’una statua greca arcaica, di quelle con gli occhi lontani dal naso e col sorriso ambiguo, mi sorpresi vedendo che i suoi deformi polpastrelli accarezzavano l’immagine con una delicatezza addirittura regale. Si accorse che lo avevo visto, grugnì di furore e ordinò un secondo espresso. Le nostre relazioni sarebbero rimaste su quel piano di latente ostilità non fosse stato un fortunato incidente. Io portavo con me dalla redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta, il «Giornale di Sicilia». Erano gli anni
nei quali il Minculpop più infieriva, e tutti i giornali erano identici; quel numero del quotidiano palermitano era più banale che mai e non si distingueva da un giornale di Milano e di Roma se non per la imperfezione tipografica; la mia lettura di esso fu quindi breve e presto abbandonai il foglio sul tavolino. Avevo appena iniziato la contemplazione di un’altra incarnazione del Minculpop quando il mio vicino mi indirizzò la parola: «Mi scusi, signore, Le dispiacerebbe se dessi una scorsa a questo
suo “Giornale di Sicilia”? Sono siciliano e da venti anni non mi capita di vedere un giornale delle mie parti». La voce era quanto mai coltivata, l'accento impeccabile; gli occhi grigi del vecchio mi guardavano con profondo distacco. «Prego, faccia pure. Sa, sono siciliano anch'io, se
lo desidera mi è facile portare qui il giornale ogni sera.»
e
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«Grazie, non credo sia necessario; la mia è una semplice
curiosità fisica. Se la Sicilia è ancora come ai tempi mici, immagino che non vi succede mai niente di buono, come da tremila anni.» Leggiucchiò il foglio, lo ripiegò, melo restituì e s’ingolfò nella lettura di un opuscolo. Quando se ne andò voleva evidentemente svignarsela senza salutare ma io mi alzai e mi presentai; mormorò fra i denti il proprio nome che non compresi; ma non mi tese la mano; sulla
soglia del caffè, però, si voltò, alzò il cappello e gridò forte: «Ciao, paesano». Scomparve sotto i portici lasciandomi sbalordito e provocando gemiti di disapprovazione fra le ombre che giocavano. Compii i riti magici atti a far materializzare un cameriere e gli chiesi mostrando il tavolo vuoto: «Chi era quel signore?» «Chiel», rispose. «Chiel l'è ’1 senatour Rosario La Ciura.» Il nome diceva molto anche alla mia lacunosa cultura giornalistica: era quello di uno dei cinque o sei italiani che posseggono una riputazione universale e indiscussa, quello del più illustre ellenista dei nostri tempi. Mi spiegai le corpulente riviste e l'incisione accarezzata; anche
la scontrosità ed anche la raffinatezza celata. L’indomani, al giornale, frugai in quel singolare schedario che contiene i necrologi ancora “in spe”. La scheda “La Ciura” era lì, passabilmente redatta, una volta tanto. Vi si diceva come il grand’uomo fosse nato ad
Aci-Castello (Catania) in una povera famiglia della piccola borghesia, come mercé una stupefacente attitudine allo studio del greco ed a forza di borse di studio e pubblicazioni erudite avesse ottenuto a ventisette anni la cattedra di letteratura greca all’Università di Pavia; come poi fosse stato chiamato a quella di Torino dove era rimasto sino al compimento dei limiti di età; aveva tenuto dei corsi a Oxford e a Tiibingen e compiuto molti viaggi anche lunghi perché, senatore pre-fascista e acca-
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demico dei Lincei, era anche dottore “honoris causa” a Yale, Harvard, Nuova Delhi e Tokio oltre che, s’inten-
de, delle più illustri università europee da Upsala a Salamanca. L'elenco delle sue pubblicazioni era lunghissimo e molte sue opere, specie sui dialetti ionici, erano reputate fondamentali; basti dire che aveva ricevuto l’incarico, unico straniero, di curare l'edizione teubneriana di Esiodo cui aveva premesso una introduzione latina d’in-
sorpassata profondità scientifica; infine, gloria massima, non era membro dell’Accademia d’Italia. Ciò che lo aveva sempre distinto dagli altri pur eruditissimi colleghi era il senso vivace, quasi carnale, dell’antichità classica e
ciò si era manifestato in una raccolta di saggi italiani Uomini e dei che era stata stimata opera non soltanto di alta erudizione ma di viva poesia. Insomma era “l'onore di una nazione e un faro di tutte le colture”, così concludeva il compilatore della scheda. Aveva 75 anni e viveva,
lontano dall’opulenza, ma decorosamente con la sua pensione e l'indennità senatoriale. Era celibe. È inutile negarlo: noi italiani figli (o padri) di primo letto del Rinascimento stimiamo il Grande Umanista superiore a qualsiasi altro essere umano. La possibilità di trovarmi adesso in quotidiana prossimità del più alto rappresentante di questa sapienza delicata, quasi necromantica e poco redditizia, mi lusingava e turbava; provavo le medesime sensazioni di un giovane statunitense che venga presentato al signor Gillette; timore, rispetto e una forma particolare di non ignobile invidia. La sera discesi al Limbo in uno spirito ben diverso dei giorni precedenti. Il senatore era già al suo posto e rispose al mio saluto reverenziale con un borbottio appena percettibile. Quando però ebbe finito di leggere un articolo e di completare alcuni appunti su una sua agendina, si voltò verso di me e con la voce stranamente musicale: «Paesano», mi disse, «dai modi come mi hai
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salutato mi sono accorto che qualcuna di queste larve qui ti ha detto chi sono. Dimenticalo e, se non lo hai già fatto, dimentica anche gli aoristi studiati al liceo. Dimmi piuttosto come ti chiami perché ieri sera hai fatto la solita presentazione farfugliata ed io non ho, come te, la risorsa di chiedere il tuo nome ad altri, perché qui, certo, nessuno ti conosce». Parlava con insolente distacco; si avvertiva che io ero
per lui assai meno di uno scarafaggio, una specie di quelle bricioluzze di pulviscolo che roteano senza costrutto nei raggi del sole. Però la voce pacata, la parola precisa, il “tu”, davano la sensazione di serenità di un
dialogo platonico. «Mi chiamo Paolo Corbèra, sono nato a Palermo, do-
ve mi sono laureato in legge; adesso lavoro qui alla redazione della “Stampa”. Per rassicurarla, senatore, aggiungerò che alla licenza liceale ho avuto “cinque più” in greco, e che ho motivo che il “più” sia stato aggiunto proprio per poter darmi il diploma.» Sorrise di mezza bocca. «Grazie di avermelo detto,
meglio così. Detesto di parlare con gente che crede di sapere mentre invece ignora, come i miei colleghi all’Università; in fondo in fondo non conoscono che le forme esteriori del greco, le sue stramberie e difformità. Lo spirito vivo di questa lingua scioccamente chiamata “morta” non è stato loro rivelato. Nulla è stato loro rivelato, d’altronde. Povera gente, del resto: come potreb-
bero avvertirlo questo spirito se non hanno mai avuto occasione di sentirlo, il greco?»
L’orgoglio sì, va bene, è preferibile alla falsa modestia: ma a me sembrava che il senatore esagerasse; mi ba-
lenò anche l’idea che gli anni fossero riusciti a rammorbidire alquanto quel cervello eccezionale. Quei poveri diavoli dei suoi colleghi avevano avuto l'occasione di udire il greco antico proprio quanto lui, cioè mai. Lui proseguiva: «Paolo... Sei fortunato di chiamarti
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come il solo apostolo che avesse un po’ di cultura e una qualche infarinatura di buone lettere. Girolamo però sarebbe stato meglio. Gli altri nomi che voi cristiani portate in giro sono veramente troppo vili. Nomi da schiavi». Continua a deludermi; sembrava davvero il solito mangiapreti accademico con in più un pizzico di nietz-
scheismo fascista. Era mai possibile? Continuava a parlare con l’avvincente modulazione della sua voce e con la foga di chi, forse, era stato molto tempo in silenzio. «Corbèra... M’inganno o non è questo
un grande nome siciliano? Ricordo che mio padre pagava per la nostra casa di Aci-Castello un piccolo cànone annuo all’amministrazione di una casa Corbèra di Palina o Salina, non ricordo più bene. Anzi ogni volta scherza-
va e diceva che se al mondo vi era una cosa sicura era che quelle poche lire non sarebbero finite nelle tasche del “dominio diretto”, come diceva lui. Ma tu sei proprio uno di quei Corbèra o soltanto il discendente di un qualche contadino che ha preso il nome del signore?» Confessai che ero proprio un Corbèra di Salina, anzi il solo esemplare superstite di questa famiglia: tutti i fasti, tutti i peccati, tutti i canoni inesatti, tutti i pesi non
pagati, tutte le Gattoparderie insomma erano concentrate in me solo. Paradossalmente il senatore sembrò contento. «Bene, bene. Io ho molta considerazione per le vecchie famiglie. Esse posseggono una memoria, minuscola è vero, ma ad ogni modo maggiore delle altre. Sono quanto di meglio, voialtri, possiate raggiungere in fatto d’immortalità fisica. Pensa a sposarti presto, Corbèra, dato che voialtri non avete trovato nulla di meglio, per sopravvivere, che il disperdere la vostra semente nei posti più strani.» Decisamente, mi spazientiva. «Voialtri, voialtri.» Chi voialtri? Tutto il vile gregge che non aveva la fortuna di essere il senatore La Ciura? E lui la conseguiva l’immor-
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talità fisica? Non si sarebbe detto a guardare il volto rugoso, il corpo pesante... «Corbèra di Salina» continuava imperterrito. «Non ti offenderai se continuo a darti del tu come a uno dei miei studentelli che, un istante, sono giovani?» Mi professai non solo onorato ma lieto, come infatti ero. Superate ormai le questioni di nomi e di protocollo, si parlò della Sicilia. Lui erano venti anni che non ci metteva piede e l’ultima volta che era stato laggiù (così diceva, al modo piemontese) vi era rimasto soltanto cinque giorni, a Siracusa, per discutere con Paolo Orsi alcune quistioni circa l'alternarsi dei semicori nelle rappresentazioni classiche. «Ricordo che mi hanno voluto portare in macchina da Catania a Siracusa; ho accettato solo quando ho appreso che ad Augusta la strada passa lontano dal mare, mentre la ferrovia è sul litorale. Rac-
contami della nostra isola; è una bella terra benché popolata da somari. Gli Dei vi hanno soggiornato, forse negli Agosti inesauribili vi soggiornano ancora. Non parlarmi però di quei quattro templi recentissimi che avete, tanto non ne capisci niente, ne sono sicuro.»
Così parlammo della Sicilia eterna, di quella delle cose di natura; del profumo di rosmarino sui Nèbrodi, del gusto del miele di Melilli, dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di Maggio come si vede da Enna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di Giugno. Parlammo dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare,
quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme l'avvicinarsi dei demoni. Dopo un’assenza quasi totale di cinquanta anni il Senatore conservava un ricordo singolarmente preciso di alcuni fatti minimi. «Il mare: il mare di Sicilia è il più co-
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lorito, il più romantico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città,
s'intende. Nelle trattorie a mare si servono ancora i “rizzi” spinosi spaccati a metà?». Lo rassicurai aggiungendo
però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo. «Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe. Che tifo e tifo! Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità. A Siracusa li ho perentoriamente richiesti a Orsi. Che sapore, che aspetto divino! Il più bel ricordo dei miei ultimi cinquanta anni!» Ero confuso ed affascinato; un uomo simile che si ab-
bandonasse a metafore quasi oscene, che esibiva una golosità infantile per le, dopo tutto mediocri, delizie dei ricci di mare! Parlammo ancora a lungo e lui, quando se ne andò, tenne a pagarmi l’espresso, non senza manifestare la sua singolare rozzezza («Si sa, questi ragazzi di buona famiglia non hanno mai un soldo in tasca»), e ci separammo amici se non si vogliono considerare i cinquanta anni che dividevano le nostre età e le migliaia di anni luce che separavano le nostre culture. Continuammo ad incontrarci ogni sera e, benché il fumo del mio furore contro l’umanità cominciasse a dissiparsi, mi facevo un dovere di non mancare mai d’incontrare il senatore negli Inferi di via Po; non che si chiacchierasse molto: lui continuava a leggere e a prendere appunti e mi rivolgeva la parola solo di tanto in tanto, ma quando parlava era sempre un armonioso fluire di orgoglio e insolenza, misto ad allusioni disparate, a venature d’incomprensibile poesia. Continuava anche a sputare e finii col notare che lo faceva soltanto mentre leggeva. Credo che anche lui si fosse preso di un certo affetto per me, ma non mi faccio illusioni: se affetto c’era non era quello che uno di “noialtri” (per adopera-
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re la terminologia del senatore) può risentire per un essere umano ma piuttosto era simile a quello che una vecchia zitella può provare verso il proprio cardellino del quale conosce la fatuità e l’incomprensività ma la cui esistenza le permette di esprimere ad alta voce rimpianti nei quali la bestiola non ha parte alcuna; però se questa non ci fosse essa risentirebbe un malessere. Cominciai a notare, infatti, che quando tardavo gli occhi alteri del vecchio erano fissi alla porta d ingresso. Ci volle circa un mese perché dalle considerazioni, originalissime sempre ma generiche da parte di lui, si passasse agli argomenti indiscreti che sono poi i soli a distinguere le conversazioni fra amici da quelle fra semplici conoscenze. Fui io stesso a prendere l’iniziativa. Quel suo sputare frequente m’infastidiva (aveva infastidito anche i custodi dell’Ade che finirono col porre vicino al suo posto una sputacchiera di tersissimo ottone) cosicché una sera ardii chiedergli perché non si facesse curare di questo suo insistente catarro. Feci la domanda senza riflettere, mi pentii subito di averla arrischiata e aspettavo che l’ira senatoriale facesse crollare sul mio capo gli stucchi del soffitto. Invece la voce ben timbrata mi rispose pacata: «Ma, caro Corbèra, io non ho nessun catarro. Tu che osservi con tanta cura avresti dovuto notare che non tossisco mai prima di sputare. Il mio sputo non è segno di malattia anzi lo è di salute mentale: sputo per disgusto delle sciocchezze che vo leggendo; se ti vorrai dare la pena di esaminare quell’arnese lì (e mostrava
la sputacchiera) ti accorgerai che esso custodisce pochissima saliva e nessuna traccia di muco. I miei sputi sono simbolici e altamente culturali; se non ti garbano ritorna ai tuoi salotti natii dove non si sputa soltanto perché non ci si vuol nauseare mai di niente». La straordinaria insolenza era attenuata soltanto dallo sguardo lontano, nondimeno mi venne voglia di alzarmi e di piantarlo lì; per fortuna ebbi il tempo di riflettere che la colpa stava
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nella mia avventatezza. Rimasi, e l’impassibile senatore passò subito al contrattacco. «E tu, poi, perché frequenti questo Erebo pieno di ombre e, come dici, di catarri,
questo luogo geometrico di vite fallite? A Torino non mancano quelle creature che a voialtri sembravano tanto desiderabili. Una gita all’albergo del Castello, a Rivoli o a Moncalieri allo stabilimento di bagni e il vostro sudicio sollazzo sarebbe presto realizzato.» Mi misi a ridere sentendo da una bocca tanto sapiente informazioni così esatte sui luoghi di piacere torinesi. «Ma come fa Lei a conoscere
questi indirizzi, senatore?»
«Li conosco,
Corbèra, li conosco. Frequentando i Senati Accademici e politici si apprende questo, e questo soltanto. Mi farai però la grazia di esser convinto che i sordidi piaceri di voialtri non sono mai stati roba per Rosario La Ciura.» Si sentiva che era vero: nel contegno, nelle parole del senatore vi era il segno inequivocabile (come si diceva nel 1938) di un riserbo sessuale che non aveva nulla da fare con l’età. «La verità, senatore, è che ho comiriciato a venir qui appunto come in un temporaneo asilo lontano dal mondo. Ho avuto dei guai proprio con due di queste ragazze da Lei tanto giustamente stigmatizzate.» La risposta fu
fulminea e spietata. «Corna, eh, Corbèra? oppure malattie?» «Nessuno delle due cose: peggio: abbandono.» E gli narrai i ridicoli avvenimenti di due mesi prima. Li narrai in modo lepido perché l’ulcera al mio amor proprio si era cicatrizzata; qualsiasi persona che non fosse
stato quell’ellenista della malora mi avrebbe o preso in giro o, eccezionalmente, compatito. Ma il temibile vecchio non fece né l’uno né l’altro: s'indignò, invece. «Ecco che cosa succede, Corbèra, quando ci si accoppia fra esseri ammalati e squallidi. Lo stesso del resto direi alle due sgualdrinelle parlando di te, se avessi il disgusto d’incontrarle.» «Ammalate, senatore? Stavano d’incanto
tutte e due; bisognava vederle come mangiavano quan-
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do si pranzava agli Specchi; e squallide poi, no: erano pezzi di figliuole magnifiche, ed eleganti anche.» Il senatore sibilò uno dei suoi sputi sdegnosi. «Ammalate, ho detto bene, ammalate; fra cinquanta, sessanta anni, forse molto prima, creperanno; quindi sono fin da ora ammalate. E squallide anche: bella eleganza, quella loro, fatta di cianfrusaglie, di “pull over” rubati e di moinette apprese al cinema. Bella generosità quella loro di andare a pesca di bigliettucci di banca untuosi nelle tasche dell'amante invece di regalare a lui, come altre fanno, perle rosate e rami di corallo. Ecco che cosa succede quando ci si mette con questi sgorbietti truccati. E non avevate ribrezzo, loro quanto te, te quanto loro, a sba-
ciucchiare queste vostre future carcasse fra maleodoranti lenzuola?» Risposi stupidamente: «Ma le lenzuola erano sempre pulitissime, senatore!». S’infuriò. «E che c'entrano le lenzuola? L’inevitabile lezzo di cadavere era il vostro. Ripeto, come fate a intrecciar bagordi con gente della loro, della tua risma?» Io che avevo di già adocchiato una deliziosa “cousette” di Ventura, mi offesi.
«Ma insomma non si può mica andare a letto soltanto con delle Altezze Serenissime!» «Chi ti parla di Altezze Serenissime? Queste sono materiale da carnaio come le altre. Ma questo non lo puoi capire, giovanotto, ho torto io a dirtelo. È fatale che tu e le tue amiche v’inoltriate nelle mefitiche paludi dei vostri piaceri immondi. Pochissimi sono coloro che sanno.» Con gli occhi rivolti al soffitto si mise a sorridere; il suo volto aveva un’espressione rapita; poi mi tese la mano e se ne andò.
Non si vide durante tre giorni; il quarto mi giunse una telefonata in redazione. «L'è monsù Corbèra? Io sono la Bettina, la governante del signor senatore La Ciura. Le fa dire che ha avuto un forte raffreddore, che adesso sta meglio e che vuol vederla stasera dopo cena. Venga in via Bertola 18, alle nove; al secondo piano.» La comuni-
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cazione, perentoriamente interrotta, divenne inappella-
bile. Il numero 18 di via Bertola era un vecchio palazzo malandato, ma l'appartamento del senatore era vasto e ben tenuto, suppongo mercé le insistenze della Bettina. Fin dalla sala d’ingresso cominciava la sfilata dei libri, di quei libri di aspetto modesto e di economica rilegatura di tutte le biblioteche vive. Ve ne erano migliaia nelle tre stanze che attraversai. Nella quarta sedeva il senatore avvolto in un’amplissima veste da camera di pelo di cammello, fine e soffice come non ne avevo mai viste.
Seppi poi che non di cammello si trattava ma di preziosa lana di una bestia peruviana e che era un dono del Senato Accademico di Lima. Il senatore si guardò bene dall’alzarsi quando entrai ma mi accolse con cordialità grande; stava meglio, anzi del tutto bene, e contava ri-
mettersi in circolazione non appena l’ondata di gelo che in quei giorni pesava su Torino si fosse mitigata. Mi offrì del vino resinoso cipriota, dono dell'Istituto Italiano di Atene, degli atroci “lukums” rosa, offerti dalla Missione Archeologica di Ankara, e dei più razionali dolci torine-
si acquistati dalla previdente Bettina. Era tanto di buon umore che sorrise ben due volte con tutta la bocca e che giunse perfino a scusarsi delle proprie escandescenze nell’Ade. «Lo so, Corbèra, son stato eccessivo nei termi-
ni per quanto, credimi, moderato nei concetti. Non ci pensare più.» Non vi pensavo davvero anzi mi sentivo
pieno di rispetto per quel vecchio che sospettavo di essere quanto mai infelice malgrado la sua carriera trionfale. Lui divorava gli abominevoli “lukums”. «I dolci, Corbèra, debbono essere dolci e basta. Se hanno anche
un altro sapore sono come dei baci perversi.» Dava larghe briciole ad Eaco, un grande “boxer” che era entrato a un certo punto. «Questo, Corbèra, per chi sa com-
prenderlo, rassomiglia più agl' Immortali, malgrado la sua bruttezza, delle tue sgrinfiette.» Rifiutò di farmi ve-
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dere la biblioteca. «Tutta roba classica che non può interessare uno come te, moralmente bocciato in greco.» Ma mi fece fare il giro della stanza nella quale eravamo che era poi il suo studio. Vi erano pochi libri e fra essi notai il Teatro di Tirso de Molina, la Undine di Lamotte-Fouqué, il dramma omonimo di Giraudoux e, con
mia sorpresa, le opere di H.G. Wells; ma in compenso alle pareti vi erano enormi fotografie, a grandezza naturale, di statue greche arcaiche; e non le solite fotografie che tutti noi possiamo procurarci ma esemplari stupendi evidentemente richiesti con autorità ed inviati con devozione dai musei di tutto il mondo. Vi erano tutte, quelle magnifiche creature: il “Cavaliere” del Louvre, la “Dea seduta” di Taranto che è a Berlino, il “Guerriero” di
Delfi, la “Corè” dell’Acropoli, l'“Apollo di Piombino”, la “Donna Lapita” e il “Febo” di Olimpia, il celeberrimo “Auriga”... La stanza balenava dei loro sorrisi estatici ed insieme ironici, si esaltava nella risposata alterigia del loro portamento. «Vedi, Corbèra, queste sì, magari; le “totine”, no.» Sul caminetto anfore e crateri antichi:
Odisseo legato all'albero della nave, le Sirene che dall’alto della rupe si sfracellavano sugli scogli in espiazione di aver lasciato sfuggire la preda. «Frottole queste, Corbèra, frottole piccolo-borghesi dei poeti; nessuno sfugge e quand’anche qualcuno fosse scampato le Sirene non sarebbero morte per così poco. Del resto come avrebbero fatto a morire?» Su di un tavolino, in una modesta cornice, una fotografia vecchia e sbiadita; un giovane ventenne, quasi nudo, dai ricci capelli scomposti, con una espressione bal-
danzosa sui lineamenti di rara bellezza. Perplesso, mi fermai un istante: credevo di aver capito. Niente affatto. «E questo, paesano, questo era ed è, e sarà (accentuò
fortemente) Rosario La Ciura.» Il povero senatore in veste da camera era stato un giovane dio.
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Poi parlammo d’altro e prima che me ne andassi mi mostrò una lettera in francese del Rettore dell’Università di Coimbra che lo invitava a far parte del comitato d’onore nel congresso di studi greci che in maggio si sarebbe svolto in Portogallo. «Sono molto contento; m’imbarcherò a Genova sul Rex insieme ai congressisti francesi, svizzeri e tedeschi. Come Odisseo mi turerò le
orecchie per non sentire le fandonie di quei minorati, e saranno belle giornate di navigazione: sole, azzurro, odor di mare.» Uscendo ripassammo davanti allo scaffale nel quale stavano le opere di Wells e osai sorprendermi di vederle lì. «Hai ragione, Corbèra, sono un orrore. Vi è poi un romanzetto che se lo rileggessi mi farebbe venir la voglia di sputare per un mese di fila; e tu, cagnolino da salotto come sei, te ne scandalizzeresti.»
Dopo questa mia visita le nostre relazioni divennero decisamente cordiali; da parte mia, per lo meno. Feci elaborati preparativi per far venire da Genova dei ricci di mare ben freschi. Quando seppi che essi sarebbero arrivati l'indomani mi procurai del vino dell'Etna e del pane di contadini e, timoroso, invitai il senatore a visita-
re il mio quartierino. Con mio grande sollievo accettò contentissimo. Andai a prenderlo con la mia Balilla, lo trascinai sino a via Peyron che è un po’ al diavolo verde. In macchina aveva un po’ di paura e nessuna fiducia nella mia perizia di guidatore. «Ti conosco, adesso, Corbèra; se abbiamo la sventura d’incontrare uno dei tuoi
sgorbietti in sottana, sarai capace di voltarti e andremo tutti e due a spaccarci il muso contro un cantone.» Non
incontrammo nessun aborto in gonnella degno di nota e arrivammo intatti. , Per la prima volta da quando lo conoscevo vidi il senatore ridere: fu quando entrammo nella mia camera da letto. «E così, Corbèra, questo è il teatro delle tue lercie
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avventure.» Esaminò i miei pochi libri. «Bene, bene. Sei
forse meno ignorante di quel che sembri. Questo qui» aggiunse prendendo in mano il mio Shakespeare «questo qui qualche cosa la capiva. “A seachange into something rich and strange.” “What potions have I drunk of Siren tears?”» Quando, in salotto, la buona signora Carmagnola entrò portando il vassoio con i ricci, i limoni e il resto, il senatore rimase estatico. «Come? hai pensato a questo?
Come fai a sapere che sono la cosa che desidero di più?» «Può mangiarli sicuro, senatore, ancora stamani erano
nel mare della Riviera.» «Già, già, voialtri siete sempre gli stessi, con le vostre servitù di decadenza, di putrescibilità; sempre con le lunghe orecchie intente a spiare lo strascichio dei passi della Morte. Poveri diavoli! Grazie, Corbèra, sei stato un buon “famulus”. Peccato che non
siano del mare di laggiù, questi ricci, che non siano avvolti nelle nostre alghe; i loro aculei non hanno certo
mai fatto versare un sangue divino. Certo hai fatto quanto era possibile, ma questi sono ricci quasi boreali, che sonnecchiavano sulle fredde scogliere di Nervi o di Arenzano.» Si vedeva che era uno di quei siciliani per i quali la Riviera Ligure, regione tropicale per i milanesi, è invece una specie d'Islanda. I ricci, spaccati, mostravano le loro carni ferite, sanguigne, stranamente comparti-
mentate. Non vi avevo mai badato prima di adesso, ma dopo i bizzarri paragoni del senatore, essi mi sembravano davvero una sezione fatta in chissà quali delicati organi femminili. Lui li degustava con avidità ma senza allegria, raccolto, quasi compunto. Non volle strizzarvi sopra del limone. «Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone, lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso!» Quando ebbe finito bevve un sorso di vino, chiuse gli
occhi. Dopo un po’ mi avvidi che da sotto le palpebre avvizzite gli scivolavano due lagrime. Si alzò, si avvicinò
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alla finestra, si asciugò guardingo gli occhi. Poi si volse. «Sei stato mai ad Augusta, tu, Corbèra?» Vi ero stato tre mesi da recluta; durante le ore di libera uscita in due o
tre si prendeva una barca e si andava in giro nelle acque trasparenti dei golfi. Dopo la mia risposta tacque; poi, con voce irritata: «E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la colllina che sovrasta le saline, voi
cappelloni siete mai andati?». «Certo; è il più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi. La costa è selvaggia, è vero, senatore? completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l'Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno
di quei luoghi nei quali si vede un aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole.» Il senatore taceva. Poi: «Sei un buon ragazzo, Corbèra; se non fossi tanto ignorante si sarebbe potuto fare qualcosa di te». Si avvicinò, mi baciò in fronte. «Adesso
vai a prendere il tuo macinino. Voglio andare a casa.» Durante le settimane seguenti continuammo a vederci al solito. Adesso facevamo delle passeggiate notturne, in generale giù per via Po e attraverso la militaresca piazza Vittorio, andavamo a guardare il fiume frettoloso e la Collina, là dove essi intercalano un tantino di fantasia
nel rigore geometrico della città. Cominciava la primavera, la commovente stagione di gioventù minacciata; nelle sponde spuntavano i primi lillà, le più premurose fra le coppiette senza asilo sfidavano l'umidità dell'erba. «Laggiù il sole brucia di già, le alghe fioriscono; i pesci affiorano a pelo d’acqua nelle notti di luna e s’intravedono guizzi di corpi fra le spume luminose; noi stiamo qui davanti a questa corrente di acqua insipida e deserta, a
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questi casermoni che sembrano soldati o frati allineati; e udiamo i singhiozzi di questi accoppiamenti di agonizzanti.» Lo rallegrava però di pensare alla prossima navigazione fino a Lisbona; la partenza era ormai vicina. «Sarà piacevole; dovresti venire anche tu; peccato però che non sia una comitiva per deficienti in greco; con me si può ancora parlare in italiano, ma se con Zuckmayer o Van der Voos non dimostrassi di conoscere gli ottativi di tutti i verbi irregolari saresti fritto; benché forse della realtà greca sei forse più conscio di loro; non per coltura, certo, ma per istinto animalesco.»
Due giorni prima della sua partenza per Genova mi disse che l’indomani non sarebbe venuto al caffè ma che mi aspettava a casa sua alle nove della sera. Il cerimoniale fu lo stesso dell’altra volta: le immagini degli Dei di tremila anni fa irradiavano gioventù come una stufa irradia calore; la scialba fotografia del giovane dio di cinquanta anni prima sembrava sgomenta nel guardare la propria metamorfosi, canuta e sprofondata in poltrona. Quando il vino di Cipro fu bevuto il senatore fece venire la Bettina e le disse che poteva andare a letto. «Accompagnerò io stesso il signor Corbèra quando se ne andrà.» «Vedi, Corbèra, se ti ho fatto venire qui stasera a
rischio di scombinare una tua qualche fornicazione a Rivoli, è perché ho bisogno di te. Parto domani e quando alla mia età si va via non si sa mai se non ci si dovrà tratte-
nere lontani per sempre; specialmente quando si va sul mare. Sai, io, in fondo, ti voglio bene: la tua ingenuità mi commuove, le tue scoperte macchinazioni vitali mi divertono; e poi mi sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione. Meriti dunque che io non ti lasci a bocca asciutta, senza averti spiegato la ragione di alcune mie stranezze, di alcune frasi che ho detto
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davanti a te e che certo ti saranno sembrate degne di un matto.» Protestai fiaccamente: «Non ho capito molte delle cose dette da Lei; ma ho sempre attribuito l’incomprensione alla inadeguatezza della mia mente, mai a un’aberrazione della sua». «Lascia stare, Corbèra, tanto
fa lo stesso. Tutti noi vecchi sembriamo pazzi a voi giovani e invece è spesso il contrario. Per spiegarmi, però, dovrò raccontarti la mia avventura che è inconsueta. Essa si è svolta quando ero “quel signorino lì”» e m’indicava la sua fotografia. «Bisogna risalire al 1887, tempo che ti sembrerà preistorico ma che per me non lo è.» Si mosse dal proprio posto dietro la scrivania, venne a sedersi sul mio stesso divano. «Scusa, sai, ma dopo dovrò parlare a voce bassa. Le parole importanti non possono essere berciate; l’“urlo di amore” o di odio s’incon-
tra soltanto nei melodrammi o fra la gente più incolta, che sono poi la stessa cosa. Dunque nel 1887 avevo ven-
tiquattro anni; il mio aspetto era quello della fotografia; avevo di già la laurea in lettere antiche, avevo pubblicato
due opuscoletti sui dialetti ionici che avevano fatto un certo rumore nella mia Università; e da un anno mi pre-
paravo al concorso per l’Università di Pavia. Inoltre non avevo mai avvicinato una donna. Di donne a dir vero non ne ho mai avvicinato né prima né dopo quell’anno.» Ero sicuro che il mio volto fosse rimasto di una marmorea impassibilità, ma m’ingannavo. «È molto villano quel tuo battere di ciglia, Corbèra: ciò che dico è la verità; verità ed anche vanto. Lo so che noi Catanesi passiamo per esser capaci d’ingravidare le nostre balie, e sarà vero. Riguardo a me, no però. Quando si frequentano, notte e giorno, dee e semidee come facevo io in quei
tempi, rimane poca voglia di salire le scale dei postriboli di S. Berillio. D'altronde, allora, ero anche trattenuto da
scrupoli religiosi. Corbèra, dovresti davvero apprendere a controllare le tue ciglia: ti tradiscono continuamente. Scrupoli religiosi, ho detto, sì. Ho anche detto “allora”.
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Adesso non ne ho più; ma sotto questo riguardo non mi è servito a nulla. «Tu, Corberuccio, che probabilmente hai avuto il tuo posto al giornale in seguito a un bigliettino di qualche gerarca, non sai che cosa sia la preparazione a un concorso per una cattedra universitaria di letteratura greca. Per due anni occorre sgobbare sino al limite della demenza. La lingua, per fortuna, la conoscevo di già abbastanza bene, proprio quanto la conosco adesso; e, sai,
non fo per dire... Ma il resto: le varianti alessandrine e bizantine dei testi, i brani citati, sempre male, dagli autori latini, le innumerevoli connessioni della letteratura con la mitologia, la storia, la filosofia, le scienze! C’è da
impazzire, ripeto. Studiavo quindi come un cane e inoltre davo lezioni ad alcuni bocciati dal liceo per poter pagarmi l’alloggio in città. Si può dire che mi nutrissi soltanto di olive nere e di caffè. In cima a tutto questo sopravvenne la catastrofe di quell’estate del 1887 che fu una di quelle proprio infernali come ogni tanto se ne passano laggiù. L'Etna la notte rivomitava l’ardore del sole immagazzinato durante le quindici ore del giorno; se a mezzogiorno si toccava una ringhiera di balcone si doveva correre al Pronto Soccorso; i selciati di lava sem-
bravano sul punto di ritornare allo stato fluido; e quasi ogni giorno lo scirocco ti sbatteva in faccia le ali di pipistrello vischioso. Stavo per crepare. Un amico mi salvò: m’incontrò mentre erravo stravolto per le strade balbettando versi greci che non capivo più. Il mio aspetto lo impressionò. “Senti, Rosario, se continui a restare qui impazzisci e addio concorso. Io me ne vo in Svizzera (quel ragazzo aveva soldi) ma ad Augusta posseggo una casupola di tre stanze a venti metri dal mare, molto fuori del paese. Fai fagotto, prendi i tuoi libri e vai a starci
per tutta l'estate. Passa a casa fra un’ora e ti darò la chiave. Vedrai, lì è un’altra cosa. Alla stazione domanda
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dov'è il casino Carobene, lo conoscono tutti. Ma parti davvero, parti stasera.” «Seguii il consiglio, partii la stessa sera, e l’indomani al risveglio, invece delle tubature dei cessi che di là dal cortile mi salutavano all’alba, mi trovai di fronte a una
pura distesa di mare, con in fondo l'Etna non più spietato, avvolto nei vapori del mattino. Il posto era completamente deserto, come mi hai detto che lo è ancora adesso, e di una bellezza unica. La casetta nelle sue stanze
malandate conteneva in tutto il sofà sul quale avevo passato la notte, un tavolo e tre sedie; in cucina qualche pentola di coccio e un vecchio lume. Dietro la casa un albero di fico e un pozzo. Un paradiso. Andai in paese, rintracciai il contadino della terricciuola di Carobene,
convenni con lui che ogni due o tre giorni mi avrebbe portato del pane, della pasta, qualche verdura e del petrolio. L'olio ce lo avevo, di quello nostro che la povera mamma mi aveva mandato a Catania. Presi in affitto una barchetta leggera che il pescatore mi portò nel pomeriggio insieme a una nassa e a qualche amo. Ero deciso a restare lì almeno due mesi. «Carobene aveva ragione: era davvero un’altra cosa. Il caldo era violento anche ad Augusta ma, non più ri-
verberato da mura, produceva non più una prostrazione bestiale ma una sorta di sommessa euforia, ed il sole, smessa la grinta sua di carnefice, si accontentava di ‘esse-
re un ridente se pur brutale donatore di energie, ed anche un mago che incastonava diamanti mobili in ogni più lieve increspatura del mare. Lo studio aveva cessato di essere una fatica: al dondolio leggero della barca nella quale restavo lunghe ore, ogni libro sembrava non più un ostacolo da superare ma anzi una chiave che mi aprisse il passaggio ad un mondo del quale avevo già sotto gli occhi uno degli aspetti più maliosi. Spesso mi capitava di scandire ad alta voce versi dei poeti e i nomi di quegli Dei dimenticati, ignorati dai più, sfioravano di
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nuovo la superficie di quel mare che un tempo, al solo udirli, si sollevava in tumulto o placava in bonaccia. «Il mio isolamento era assoluto, interrotto soltanto
dalle visite del contadino che ogni tre o quattro giorni mi portava le poche provviste. Si fermava solo cinque minuti perché a vedermi tanto esaltato e scapigliato doveva certo ritenermi sull’orlo di una pericolosa pazzia. E, a dir vero, il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti, tessevano attorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio. «Questo venne a compiersi la mattina del cinque Agosto, alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia e mi ero fermato sotto un roccione la cui ombra mi avrebbe protetto dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e azzurro il candore del mare aurorale. Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra,
dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria, di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale
gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agisse su di me rivelandomi paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color di sole l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti d’infantile purezza. «La nostra ombrosa ragione, per quanto predisposta, s'inalbera dinanzi al prodigio e quando ne avverte uno
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cerca di appoggiarsi al ricordo di fenomeni banali; come chiunque altro volli credere di aver incontrato una bagnante e, muovendomi con precauzione, mi portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma
essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall'acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella
barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta
che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena. «Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva
quel che ho mal chiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima. Eravamo in ombra ma a venti metri da noi la marina si abbandonava al sole e fremeva di piacere. La mia nudità quasi totale nascondeva male la propria emozione. «Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo, maggiore sortilegio, quello della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene, Corbèra, non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce. «Parlava greco e stentavo molto a capirla. “Ti sentivo parlare da solo in una lingua simile alla mia; mi piaci, prendimi. Sono Lighea, sono figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto.” «Curvo su di essa, remavo, fissavo gli occhi ridenti. Giungemmo a riva: presi fra le braccia il corpo aromatico, passammo dallo sfolgorio all’ombra densa; lei m’in-
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stillava già nella bocca quella voluttà che sta ai vostri baci terrestri come il vino all’acqua sciapa.» Il senatore narrava a bassa voce la sua avventura; io che in cuor mio avevo sempre contrapposto le mie svariate esperienze femminili a quelle di lui ritenute mediocri e che da ciò avevo tratto uno sciocco senso di diminuita distanza, mi trovavo umiliato: anche in fatto di amori mi vedevo inabissato a distanze invalicabili. Mai un istante ebbi il sospetto che mi si raccontassero delle frottole e chiunque, il più scettico, fosse stato presente, avrebbe av-
vertito la verità più sicura nel tono del vecchio. «Così ebbero inizio quelle tre settimane. Non è lecito, non sarebbe d’altronde pietoso verso di te, entrare in
particolari. Basti dire che in quegli amplessi godevo insieme della più alta forma di voluttà spirituale e di quella elementare, priva di qualsiasi risonanza sociale, che i nostri pastori solitari provano quando sui monti si uniscono alle loro capre; se il paragone ti ripugna è perché non sei in grado di compiere la trasposizione necessaria dal piano bestiale a quello sovrumano, piani, nel mio caso, sovrapposti.
«Ripensa a quanto Balzac non ha osato esprimere nella Passion dans le désert. Dalle membra di lei immortali scaturiva un tale potenziale di vita che le perdite di energia venivano subito compensate, anzi accresciute. In
quei giorni, Corbèra, ho amato quanto cento dei vostri Don Giovanni messi insieme per tutta la vita. E che
amori! al riparo di conventi e di delitti, del rancore dei Commendatori e della trivialità dei Leporello, lontani
dalle pretese del cuore, dai falsi sospiri, dalle deliquescenze fittizie che inevitabilmente macchiano i vostri miserevoli baci. Un Leporello, a dir vero, ci disturbò il pri-
mo giorno, e fu la sola volta: verso le dieci udii il rumore degli scarponi del contadino sul sentiero che portava al mare. Feci appena a tempo a ricoprire con un lenzuolo il corpo inconsueto di Lighea che egli era già sulla porta:
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la testa, il collo, le braccia di lei che non erano coperte fecero credere al Leporello che si trattasse di un mio volgare amorazzo e quindi gl’incussero un improvviso rispetto; si fermò ancor meno del solito e andandosene strizzò l’occhio sinistro e col pollice e l'indice della destra, raggomitolati e chiusi, fece l’atto di arricciarsi all’angolo della sua bocca un baffo immaginario; e si arrampicò sul sentiero. «Ho parlato di venti giorni passati insieme; non vorrei
però che tu immaginassi che durante quelle tre settimane essa ed io abbiamo vissuto “maritalmente”, come si dice,
avendo in comune letto, cibo e occupazioni. Le assenze di Lighea erano frequentissime: senza farmene cenno prima si tuffava in mare e scompariva, talvolta per moltissime ore. Quando ritornava, quasi sempre di primo mattino, o m’incontrava in barca o, se ero ancora nella casupola, strisciava sui ciottoli metà fuori e metà dentro l’acqua, sul dorso, facendo forza con le braccia e chiamandomi per esser aiutata a salire la china. “Sasà” mi chiamava, poiché le avevo detto che questo era il diminutivo del mio nome. In questo atto, impacciata proprio da quella parte del corpo suo che le conferiva scioltezza nel mare, essa presentava l'aspetto compassionevole di un
animale ferito, aspetto che il riso dei suoi occhi cancellava subito. «Essa non mangiava che roba viva: spesso la vedevo emergere dal mare, il torso delicato luccicante al sole, mentre straziava coi denti un pesce argentato che fremeva ancora; il sangue le rigava il mento e dopo qualche morso il merluzzo o l’orata maciullata venivano ributtate dietro le sue spalle e, maculandola di rosso, affonda-
vano nell'acqua mentre essa infantilmente gridava nettandosi i denti con/la lingua. Una volta le diedi del vino; dal bicchiere le fu impossibile bere, dovetti versargliene nella palma minuscola ed appena appena verdina, ed essa lo bevette facendo schioccare la lingua come fa un ca-
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ne mentre negli occhi le si dipingeva la sorpresa per quel sapore ignoto. Disse che era buono, ma, dopo, lo rifiutò sempre. Di quando in quando veniva a riva con le mani piene di ostriche, di cozze, e mentre io faticavo ad aprirne i gusci con un coltello, lei li schiacciava con una pietra e succhiava il mollusco palpitante, insieme a briciole
di conchiglia delle quali non si curava. «Te l'ho già detto, Corbèra: era una bestia ma nel medesimo istante era anche una Immortale ed è peccato che parlando non si possa continuamente esprimere questa sintesi come, con assoluta semplicità, essa la
esprimeva nel proprio corpo. Non soltanto nell’atto carnale essa manifestava una giocondità e una delicatezza opposte alla tetra foia animale ma il suo parlare era di una immediatezza potente che ho ritrovato soltanto in pochi grandi poeti. Non si è figlia di Calliope per niente: all’oscuro di tutte le colture, ignara di ogni saggezza, sdegnosa di qualsiasi costrizione morale, essa faceva parte, tuttavia, della sorgiva di ogni coltura, di ogni sapienza, di ogni etica e sapeva esprimere questa sua pri-
migenia superiorità in termini di scabra bellezza. “Sono tutto perché sono soltanto corrente di vita priva di accidenti; sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera.” Poi diceva: “Tu sei bello e giovane; dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa quiete tanto con-
naturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non
ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato”. «Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tri-
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toni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri.
«Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” «Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine. L’ho conservato a lungo in un cassetto ed ogni sera baciavo quei posti sui quali ricordavo che si erano posate le dita della Indifferente cioè della Benefica. Un giorno poi la Maria, quella governante mia che ha preceduto la Bettina, lo ha rubato per darlo a un suo magnaccia. L'ho ritrovato poi da un gioielliere di Ponte Vecchio, sconsacrato, ripulito e lisciato al punto di essere quasi irriconoscibile. Lo ho ricomprato e di notte lo ho buttato in Arno: era passato per troppe mani profane. «Mi parlava anche dei non pochi amanti umani che essa aveva avuto durante la sua adolescenza millenaria: pescatori e marinai greci, siciliani, arabi, capresi, alcuni
naufraghi anche, alla deriva su rottami fradici cui essa era apparsa un attimo nel lampeggiare della burrasca per mutare in piacere il loro ultimo rantolo. “Tutti hanno seguito il mio invito, sono venuti a ritrovarmi, alcuni
subito, altri trascorso ciò che per loro era molto tempo. Uno solo non si è fatto più vedere; era un bel ragazzone con pelle bianchissima e con capelli rossi col quale mi sono unita su di una spiaggia lontana là dove il nostro mare si versa nel grande Oceano; odorava di qualche cosa di più forte di quel vino che mi hai dato l’altro giorno. Credo che non si sia fatto vedere non certo perché felice ma perché quando ‘c’incontrammo era talmente ubriaco da non capir più nulla; gli sarò sembrata una delle solite pescatrici,”
«Quelle settimane di grande estate trascorsero rapide
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come un solo mattino; quando furono passate mi accorsi che in realtà avevo vissuto dei secoli. Quella ragazzina lasciva, quella belvetta crudele era stata anche Madre saggissima che con la sola presenza aveva sradicato fedi, dissipato metafisiche; con le dita fragili, spesso insanguinate, mi aveva mostrato la via verso i veri eterni riposi,
anche verso un ascetismo di vita derivato non dalla rinunzia ma dalla impossibilità di accettare altri piaceri inferiori. Non io certo sarò il secondo a non ubbidire al suo richiamo, non rifiuterò questa specie di Grazia pagana che mi è stata concessa. «In ragione della sua violenza stessa, quell’estate fu breve. Un po’ dopo il venti Agosto si riunirono le prime timide nuvole, piovve qualche goccia isolata tiepida come sangue. Le notti fu tutto un concatenarsi, sul lontano orizzonte, di lenti, muti lampeggiamenti che si deducevano l’uno dall’altro come le cogitazioni di un dio. Al mattino il mare color di tortora come una tortora si doleva per sue arcane irrequietudini ed alla sera s’increspava, senza che si percepisse brezza, in un digradare di grigi-fumo, grigi-acciaio, grigi-perla, soavissimi tutti e più affettuosi dello splendore di prima. Lontanissimi brandelli di nebbia sfioravano le acque: forse sulle coste greche pioveva di già. Anche l’umore di Lighea trascolorava dallo splendore all’affettuosità del grigio. Taceva di più, passava ore distesa su uno scoglio a guardare l’orizzonte non più immobile, si allontanava poco. “Voglio restare ancora con te; se adesso andassi al largo i miei
compagni del mare mi tratterrebbero. Li senti? Mi chiamano.” Talvolta mi sembrava davvero di udire una nota differente, più bassa fra lo squittio acuto dei gabbiani, intravedere scapigliamenti fulminei fra scoglio e scoglio. “suonano le loro conche, chiamano Lighea per le feste
della bufera.” «Questa ci assalì all’alba del giorno ventisei. Dallo scoglio vedemmo l’avvicinarsi del vento che sconvolgeva
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le acque lontane, vicino a noi i flutti plumbei si rigonfiavano vasti e pigri. Presto la raffica ci raggiunse, fischiò nelle orecchie, piegò i rosmarini disseccati. Il mare al di sotto di noi si ruppe, la prima ondata avanzò coperta di biancore. “Addio, Sasà. Non dimenticherai.” Il cavallo-
ne si spezzò sullo scoglio, la Sirena si buttò nello zampillare iridato; non la vidi ricadere; sembrò che si disfaces-
se nella spuma.» Il senatore partì l’indomani mattina; io andai alla sta-
zione per salutarlo. Era scontroso e tagliente come sempre, ma quando il treno incominciò a muoversi, dal finestrino le sue dita sfiorarono la mia testa. Il giorno dopo, all’alba, si telefonò da Genova al giornale: durante la notte il senatore La Ciura era caduto in mare dalla coperta del Rex che navigava verso Napoli, e benché delle scialuppe fossero state immediatamente messe in mare, il corpo non era stato ritrovato. Una settimana più tardi venne aperto il testamento di lui: alla Bettina andavano i soldi in banca e il mobilio; la biblioteca veniva ereditata dall'Università di Catania; in un codicillo di recente data io ero nominato quale lega-
tario del cratere greco con le figure delle Sirene e della grande fotografia della “Corè” dell’ Acropoli. I due oggetti furono inviati da me alla mia casa-di Palermo. Poi venne la guerra e mentre io me ne stavo in
Marmarica con mezzo litro di acqua al giorno i “Liberators” distrussero la mia casa: quando ritornai la fotografia era stata tagliata a striscioline che erano servite come torce ai saccheggiatori notturni; il cratere era stato fatto a pezzi; nel frammento più grosso si vedono i piedi di Ulisse legato all'albero della nave. Lo conservo ancora. I libri furono depositati nel sottosuolo dell’Università ma poiché mancano i fondi per le scaffalature essi vanno imputridendo lentamente.
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(Frammento di una prima versione) ... con un lenzuolo il corpo di Lighea quando egli apparì sulla porta. Del vero significato dell’avvenuto non comprese, va da sé, nulla ma la testa, il collo, le braccia di Lei che si mostravano al disopra del drappo, gl’incussero per me un improvviso rispetto; credette a una banale avventura, si fermò anche meno del solito ed al momento di andarsene mi strizzò un occhio e col pollice e l’indice destro raggomitolati e uniti fece l’atto di arricciare all'angolo della bocca un baffo immaginario: si congratulava. Ho parlato di venti giorni passati insieme; non vorrei però che tu credessi che per queste tre settimane essa ed io abbiamo vissuto “maritalmente” come si dice avendo in comune letto, tavola e divertimenti. Le assenze di Li-
ghea erano frequentissime: senza farne nessun cenno prima essa si tuffava in mare e scompariva talvolta per molte ore. Quando ritornava, quasi sempre al primo mattino o m’incontrava in barca o se ero ancora sulla spiaggia essa strisciava sui ciottoli metà fuori e metà dentro l’acqua, sul dorso, facendo forza sulle braccia e chiamandomi perché la aiutassi a salire il pendio. “Sasà” mi chiamava perché le avevo detto che tale era il diminutivo del mio nome. Così, impacciata da quella parte stessa del suo corpo che le conferiva nell’acqua divina scioltezza, essa presentava un aspetto commovente di bestia ferita che il riso degli occhi smentiva invano. Riguardo alla mensa essa non mangiava che roba viva; spesso la vedevo emergere dal mare, il magnifico torso luccicante al sole mentre straziava con i denti un pesce argenteo che fremeva ancora; il sangue le rigava il mento e dopo qualche morso la triglia o l’orata maciullata veniva ributtata dietro le spalle e maculandolo di rosso affondava nel mare mentre essa magnificamente rideva nettandosi i denti con la lingua. Una volta le diedi del vi-
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no: nel bicchiere le fu impossibile bere: dovetti versarne un po’ nella palma minuscola ed appena appena verdina ed essa lo bevette facendo schioccare la lingua come un cane mentre negli occhi le si dipingeva la sorpresa per quel gusto nuovissimo. Disse che era buono, ma dopo lo rifiutò sempre. Talvolta ritornava con le mani piene di ostriche e cozze; mentre io faticavo ad aprirne i gusci con un coltello essa le schiacciava semplicemente con una pietra e succhiava il mollusco palpitante insieme a briciole di conchiglia cui non badava minimamente. Te l’ho già detto, Corbèra, un animale era; ma era an-
che una Immortale ed è peccato che parlando non si possa continuamente esprimere questa sintesi che essa
nel suo corpo manifestava con meravigliosa semplicità. Non soltanto nell’atto d'amore essa mostrava una foga e una delicatezza più che umana ma il suo parlare era di una immediatezza potente che ho ritrovato solo in pochi grandissimi poeti, Non si è figli di Calliope per niente: all’oscuro di tutte le culture, ignara di tutte le saggezze, sdegnosa di ogni costrizione morale, tuttavia essa faceva
parte della fonte naturale di queste entità, ed esprimeva questa sua primigenia superiorità in termini di scabra
bellezza. «Sono tutto perché sono soltanto corrente di vita priva di accidenti; sono immortale perché tutte le morti da quella dell’orata di dianzi a quella di Zeus confluiscono in me e diventano vita non più individuale e determinata, ma pànica e quindi libera.» E poi diceva: «Tu sei bello, e giovane e forte; dovresti seguirmi nel mare adesso ed eviteresti dolori, vecchiaia, miseria, morte; ti porterei nella mia dimora, al disotto degli altissimi monti di acque immote ed oscure, dove tutto è silenzio e pace così connaturata che non si avverte neppure. Io ti
ho amato e ricordatelo quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più non avrai che da curvarti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono dappertutto, e il tuo sogno di pace sarà saziato».
© La sirena
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Mi narrava della sua vita sotto i mari, delle glauche
spelonche, dei tritoni suoi compagni, dei pesci fosforescenti; ma diceva che anche queste erano vane apparenze e che la verità era ben più in fondo nel cieco, muto palazzo di acque, senza forme, senza luce, senza rumori. Una volta, eccezionalmente, mi avvertì che sarebbe stata
assente a lungo sino al giorno seguente. «Devo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.» Ritornò l'indomani verso sera con un lunghissimo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine. L’ho conservato a lungo in un cassetto, e ogni sera baciavo quei posti sui quali ricordavo che si erano posate le sue dita. Una volta, poi, la Maria, quella governante
mia che precedette la Bettina, me lo rubò per darlo a un suo ganzo. L’ho rivisto poi da un gioielliere sul Ponte Vecchio, così lisciato, ripulito, sconsacrato da esser quasi irriconoscibile. Non l’ho ricomprato perché ormai era
passato da troppe mani profane. Mi parlava anche dei molti amanti umani che aveva avuto nella sua adolescenza plurimillenaria, pescatori e marinai greci, siciliani, arabi, alcuni naufraghi su rottami sballottati cui essa apparve un attimo per trasformare in
giubilo il loro ultimo istante. «Tutti hanno seguito il mio invito: tutti sono venuti a ritrovarmi, alcuni subito, altri
dopo molto tempo. Uno solo non si è fatto più vedere: era un bel ragazzone dai capelli rossi e dalla pelle bianchissima col quale mi unii su una spiaggia lontana, là dove il nostro mare si unisce al grande Oceano fra rupi e montagne; odorava di qualcosa di simile ma di più forte di quel vino che mi hai dato l’altro giorno. Credo che non si sia fatto più vedere perché quando c’incontrammo era talmente ubriaco da non capir più nulla. Gli sarò sembrata una delle sue solite pescatrici effimere.» Quelle settimane della grande estate passarono rapide come un solo mattino; ma quando furono passate mi accorsi che in realtà avevo vissuto millenni. Quella ragazzi-
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na lasciva, quella bestiola crudele era stata anche una Madre saggissima che con la sua sola presenza aveva distrutto credenze, dissipato metafisiche, con le ditina fragili spesso insanguinate mi aveva mostrato la via verso
gli autentici eterni riposi, verso un ascetismo di vita derivato non dalla rinunzia ma dalla sazietà. Non io certo sarò il secondo a non ubbidire al suo richiamo: approfitterò di questa specie di Grazia pagana che mi è stata concessa. In ragione stessa della sua violenza quell’estate fu breve. Un po’ dopo il venti le prime timide nuvole apparvero in cielo, qualche tiepida goccia isolata cominciò a cadere. La notte, sul lontano orizzonte, vi fu un con-
catenarsi di lenti, muti lampeggiamenti che si partorivano l’uno dall’altro, come le cogitazioni di un Dio. Al mattino il mare color di tortora, come una tortora tuba-
va per sue irrequietudini arcane; ed alla sera s'increspava, senza che si percepisse brezza, in un digradare di grigi fumo, di grigi di acciaio, di grigi perla, soavissimi tutti e più cari alla vista del suo prepotente splendore di prima. Lontanissimo, brandelli di nuvole scure lambivano le onde: forse sulle coste greche pioveva di già. Lighea mutava anch'essa di umore: taceva più spesso, si allontanava meno, passava ore distesa su uno scoglio a scrutare l’orizzonte lontano. «Voglio restare ancora un poco con te; se andassi al largo adesso i miei compagni del mare mi tratterrebbero e sarebbe difficile ritornare. Li senti? Mi chiamano.» E davvero mi sembrava udire una nota differente fra gli squittii dei gabbiani, notare...
pa,
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La pianta delle proprietà Ibba, disegnata alla scala di 1 al 5000, occupava una striscia di carta oleata lunga due metri e alta ottanta centimetri. Non che tutto quanto si vedeva sulla mappa appartenesse alla famiglia: vi era anzitutto, a Sud, una listarella di mare che, su quella costa
orlata di tonnare, non apparteneva a nessuno; a Nord vi erano montagne inospiti nelle quali gl’Ibba non avevano mai voluto metter mano; vi erano soprattutto numerose e non piccole chiazze bianche attorno alla massa giallolimone che designava la proprietà di famiglia: terreni mai potuti acquistare perché i proprietari erano ricchi; terreni offerti ma rifiutati perché di qualità troppo scadente, terreni desiderati ma nelle mani di gente sotto cottura, non ancora giunta al grado di masticabilità opportuno. Vi erano, anche, pochissimi terreni che erano
stati gialli e che erano ridiventati bianchi perché venduti, per acquistarne altri migliori durante certe male annate nelle quali i contadini erano scarsi. Malgrado queste macchie (tutte ai margini), il complesso giallo era imponente: da un nucleo ovoidale interno, attorno a Gi-
bilmonte, una larga branca si stendeva verso levante, andava restringendosi, e poi, di nuovo ampliata, spingeva
due tentacoli, uno verso il mare raggiunto per un piccolo tratto, l’altro verso Nord dove si fermava alle falde dei monti dirupati e sterili. Verso occidente l'espansione era stata ancor maggiore: erano, questi, terreni ex-ecclesia-
stici, nei quali l’avanzata era stata rapida come uno scivolone, quella di un coltello nella sugna: i paesetti di $. Giacinto e S. Narciso erano stati raggiunti e superati
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dalle colonne leggere degli atti di esproprio, una linea difensiva nel fiume Favarotta aveva resistito a lungo ma adesso era crollata, e oggi, il 14 Settembre 1901, una testa di ponte era stata stabilita al di là del fiume mediante l'acquisto di Pìspisa, piccolo ma succoso feudotto sulla riva destra della fiumara. La proprietà acquistata non era ancora stata colorata
di giallo, nella pianta, ma di già l’inchiostro di China e il pennelluzzo aspettavano nello scrittoio l'intervento di Calcedonio, che era il solo, in casa, che sapesse adoperarli a dovere. Don Batassano Ibba stesso, il capo della
famiglia e quasi-barone, ci si era provato dieci anni fa quando era stato espropriato Scìddico, ma il risultato era stato gramo: una marea giallina si era sparsa su tutta
la mappa e si era dovuto spendere un sacco di soldi per farne rifare un’altra. La bottiglia d’inchiostro, però, era ancora quella. Questa volta quindi don Batassano non si arrischiava a metter mano, e si accontentava di guardare il posto da colorare con quei suoi occhi di contadino sfrontato, e pensava che anche su una carta dell’intera Sicilia, ormai, si sarebbero potuto scorgere le terre Ibba, grandi come una pulce nella immensità dell’isola, si capisce, eppur nettamente visibili. Don Batassano era soddisfatto ma anche irritato, due stati d'animo che in lui coesistevano spesso. Quel Ferrara, quel procuratore del principe di Salina giunto in mattinata da Palermo per stipulare l’atto di vendita, era stato cavilloso sino al momento della firma, che dico si-
no alla firma! anche dopo!, ed aveva voluto il prezzo di ottanta bigliettoni rosei del Banco di Sicilia invece che nella fede di credito che già era stata preparata; e lui, don Batassano, era stato costretto a salir le scale e ad
estrarre il malloppo dal cassetto segretissimo della propria scrivania, operazione piena di ansie perché a quell’ora Mariannina e Totò era possibile fossero in giro. Vero è che il procuratore si era lasciato infinocchiare
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riguardo a quel canone di ottanta lire all'anno da pagare al Fondo Culto, per il quale aveva accettato di rilasciare mille e seicento lire di valore capitalizzato, mentre don Batassano (ed anche il notaio) sapevano che esso era già stato reluito nove anni fa da un altro procuratore dei Salina. Questo però non importava: qualsiasi opposizione, anche minima, alla propria volontà, specialmente in ciò
che riguardasse denaro, lo esasperava: “Sono costretti a vendere, con l’acqua alla gola, e ancora salta loro il ticchio di voler distinguere fra biglietti e fedi di credito!”. Erano soltanto le quattro e ci volevano cinque ore per il pranzo. Don Batassano aprì la finestra che dava sull’esiguo cortile. L’afa di settembre cotta, ricotta e macerata, s'insinuò nella stanza in penombra. Giù, un vec-
chio baffuto stendeva del vischio su alcune bacchette di canna: preparava i sollazzi per i padroncini. «Giacomino, sella i cavalli, il mio e il tuo. Sto scendendo.» Desi-
derava andare a vedere i danni dell’abbeveratoio di Scìddico: alcuni monellacci avevano frantumato uno dei conci del bacino, così gli avevano detto stamani; la falla era già stata tappata alla men peggio con pietrisco e con
quel fango misto a paglia che non manca mai vicino ai bivieri; ma Tano, l’affittuario dello Scìddico, aveva chiesto che si facesse presto una riparazione sul serio. Sempre seccature, sempre nuove spese: e se non andava di persona a vedere, l’operaio gli avrebbe presentato un conto esorbitante. Si assicurò che la fondina con la pesante Smith-Wesson gli pendesse dalla cintura: egli era tanto abituato ad averla sempre con sé che non la avver-
tiva più. Scese in cortile per la scaletta di lavagna. Il campiere finiva di sellare i cavalli; salì sul suo servendosi di tre scalini in muratura addossati a bella posta a una parete, prese il frustino che un ragazzo gli porgeva, aspettò che Giacomino (senza aiuto degli scalini padronali) si mettesse in sella. Il figlio del campiere spalancò il
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portone corazzato, la luce del pomeriggio estivo allagò il cortile e don Baldassare Ibba uscì con la guardia del corpo nel Corso Maggiore di Gibilmonte. I due andavano quasi a fianco, il cavallo di Giacomino di mezza testa soltanto più indietro di quello del padrone: il “due botte” del campiere esibiva, a destra e a sinistra dell’arcione, il calcio ferrato, le canne brunite;
gli zoccoli delle bestie scalpicciavano fuori tempo sui ciottoli delle viuzze ripide. Le donne filavano davanti alle porte, e non salutavano. «La vita!» gridava ogni tanto Giacomino quando un qualche bambinetto, integral mente nudo, stava per rotolare fra le zampe dei cavalli; l’Arciprete, in bilico su una sedia e con la nuca poggiata alla parete della chiesa, fece finta di dormire: tanto il patronato non apparteneva a Ibba il riccone, ma ai poveri
ed assenti Santapau. Solo, il brigadiere dei carabinieri, in maniche di camicia sul balcone della caserma, si spor-
se in un saluto. Uscirono dal paese, risalirono la trazzera che porta al biviere. L’acqua perduta durante la notte era molta e tutt'intorno era ristagnata in una larga pozzanghera: mista ad argilla, a detriti di paglia, a sterco, a orina di mucche, esalava un puzzo ammoniacale pungente. Ma la riparazione di fortuna era stata efficace; dalle congiunture delle pietre l’acqua non scorreva più, trasudava soltanto, e il sottile flusso che scaturiva a singhiozzo dal tubo arrugginito bastava a superare la perdi-
ta. Il nessun costo di quel che si era fatto soddisfece don Batassano, gli fece trascurare la provvisorietà della riparazione. «Cosa ci stava a raccontare Tano! Il biviere è in
ottimo stato! Non ha bisogno di niente. Di’ piuttosto a quel minchione che, se è vero che è un uomo, stia atten-
to a non far danneggiare la roba mia dal primo moccioso che passa. Si metta in cerca dei padri e li faccia parlare con te se lui stesso non ce la fa.» Sulla via del ritorno un coniglio spaurito traversò la stradella, il cavallo di don Batassano si adombrò, sparò
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un paio di calci, e il magnate, che aveva sì un bel sellino inglese ma adoperava corde rivoltate invece di staffe, finì per terra. Non si fece nulla e Giacomino, esperto della prassi, prese la giumenta per la briglia e la tenne ferma; don Batassano da terra frustava acerbamente il muso, le orecchie, i fianchi dell’animale che era percor-
so da un tremito continuo e si copriva di spuma. Un calcio nella pancia concluse l'operazione pedagogica, don Batassano risalì e i due tornarono a casa che cominciava appena ad annottare. Il ragioniere Ferrara, intanto, non sapendo che il padrone di casa era uscito, era andato nello studio e, trova-
tolo vuoto, si era seduto un momento per aspettare. Nella stanza vi era una rastrelliera con due fucili, una scansia con poche cartelle (“Tasse”, “Titoli di proprietà”, “Cautele”, “Mutui”, dicevano le etichette incollate sul cartone marrone); sullo scrittoio l’atto di com-
pra-vendita firmato due ore fa; dietro, sul muro, la mappa. Ferrara si alzò per guardarla da vicino: dalle sue conoscenze professionali, dalle innumerevoli indiscrezioni che aveva ascoltato, egli conosceva bene come si era formato quell’enorme patrimonio terriero: era stata una epopea di astuzia, di mancanza di scrupoli, di sfide alle leggi, d’inesorabilità, di fortuna anche, e di ardimento. Ferrara pensò quale interesse avrebbe presentato una pianta diversamente tinteggiata nella quale, come nei testi scolastici per l’espansione italiana di casa Savoia, fossero stati colorati in tinte diverse i successivi acquisti. Qui, a Gibilmonte, era l'embrione: sei tumuli, mezzo ettaro di vigneto e una casetta di tre stanze, tutto quanto
aveva ereditato il padre di don Batassano, Gaspare, analfabeta di genio. Giovanissimo ancora aveva sedotto la figlia sordomuta di un “borghese”, di un piccolissimo proprietario appena appena meno povero di lui, e con la
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dote ottenuta mediante le nozze estorte aveva raddoppiato il proprio avere. La moglie minorata era entrata pienamente nel gioco del marito: una economia sordida aveva permesso alla coppia di accumulare un gruzzolo minuscolo ma prezioso in un paese come la Sicilia nel quale l'economia, a quei tempi, era, come nelle città-stato antiche, esclusivamente fondata sull’usura. Prestiti accortissimi erano stati concessi, quei prestiti
di particolare fisionomia che si concedono a persone che posseggono un patrimonio ma non redditi sufficienti a sodisfare gli interessi. I mugolii di Marta, la moglie di Gaspare, quando si aggirava al tramonto in paese per esigere i propri crediti settimanali, erano divenuti proverbiali. “Quando Marta va grugnendo, le casuzze van cadendo.” In dieci anni di visite gesticolanti, in dieci an-
ni di sottrazioni di frumento ai marchesi Santapau dei quali Gaspare era mezzadro, in dieci anni di cauti spostamenti di confini, in dieci anni di sodisfatta fame, il
patrimonio della coppia si era moltiplicato per cinque: lui aveva solo ventotto anni, l’attuale don Batassano set-
te. Vi era stato un periodo burrascoso quando l’autorità giudiziaria borbonica aveva avuto il capriccio d’indagare circa uno dei soliti cadaveri trovati in campagna; Gaspare aveva dovuto tenersi lontano da Gibilmonte e la moglie faceva capire che egli si trovava da un cugino ad Adernò per impratichirsi della coltura dei gelsi; in realtà non vi era stata sera nella quale, dai monti vicini, l’affet-
tuoso Gaspare non avesse visto fumare la cucina della sua felice casetta. Poi vennero i Mille, tutto andò a soqquadro, gli incartamenti indiscreti scomparvero dalle cancellerie, e Gaspare Ibba ritornò ufficialmente a casa sua. Tutto era meglio di prima. Fu allora che Gaspare concepì una manovra che era pazzesca come tutto ciò
che è geniale: come Napoleone ad Austerlitz osò sguarnire il proprio centro per intrappolare nelle fortissime
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ali gli austro-russo babbei, così Gaspare ipotecò sino all’osso tutte le proprie combattutissime terricciuole, e con le poche migliaia di lire ricavate dall’operazione fece un prestito senza interessi al marchese Santapau che le proprie elargizioni alla causa borbonica avevano posto nei guai. Il risultato fu questo: dopo due anni i Santapau avevano perduto il feudo “Balate” che, del resto, non avevano mai visto e che, dal nome, credevano infe-
condo, le ipoteche sui beni Ibba erano tolte, Gaspare era diventato “don Gaspare” ed a casa sua si mangiava castrato il sabato e la domenica. Raggiunto il traguardo delle prime centomila lire tutto si era svolto con la precisione di un congegno meccanico: i beni ecclesiastici, acquistati pagando le prime due rate del loro miserevole estimo, si erano avuti per un decimo del loro valore; i caseggiati, le sorgive in essi contenute, i diritti di passaggio che essi possedevano, resero quanto mai facile l’acquisto dei beni laici circostanti, svalutati; i forti redditi
accumulati permisero la compra o l’esproprio di altri più lontani terreni. — Quando don Gaspare morì ancor giovane la sua proprietà era più che ragguardevole però; come i territori prussiani della metà del settecento, consisteva in grossi
isolotti separati da proprietà altrui. Al figlio Baldassare toccò, come a Federico Secondo, il compito e la gloria di unificare tutto in un solo blocco, prima, e di spostare i limiti del blocco stesso verso più lontane contrade. Vigneti, uliveti, mandorleti, pascoli e canoni enfiteutici, soprattutto però terreni seminativi, venivano annessi e digeriti, i loro redditi affluivano nel dimesso studio di
Gibilmonte dove rimanevano poco e dal quale uscivano presto, quasi intatti, per trasformarsi di nuovo in terreni. Un vento d’ininterrotta fortuna gonfiava le vele del galeone Ibba: quel nome cominciò a essere pronunziato con reverenza in tutto il bisognoso triangolo dell’isola. Don Batassano intanto si era sposato, a trent'anni, e non
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con una minorata come era stata la sua venerata genitrice, ma con una robusta diciottenne, Laura, la figlia del
notaio di Gibilmonte: essa portava in dote la propria salute, non pochi contanti, la preziosa esperienza curialesca del padre, e una sottomissione che era assoluta, sodi-
sfatti che fossero stati i propri non indifferenti bisogni sessuali. Otto figli erano la prova vivente della raggiunta sottomissione: una felicità aspra e priva di luce regnava in casa Ibba. Il ragioniere Ferrara era individuo di teneri sentimenti, varietà umana rarissima in Sicilia. Già suo padre era
stato impiegato nell’amministrazione Salina ai tempi burrascosi del vecchio principe Fabrizio; e lui stesso, allevato nell'atmosfera ovattata di quella casata, si era av-
vezzo a desiderare una vita mediocre magari ma calma; e il proprio pezzetto di formaggio principesco da rosicchiare gli era sufficiente. Quei due metri quadri scarsi di carta oleata gli evocavano asprezze e pervicacia di lotte dalle quali la sua anima di roditore più che di carnivoro ripugnava. Aveva l'impressione di rileggere le dispense di quella Storia dei Borboni di Napoli di La Cecilia che suo padre, acceso liberale, gli comprava ogni sabato; qui a Gibilmonte, per giunta, mancavano le presunte orgie di Caserta descritte nel libello: qui tutto era scabro, positivo, puritanescamente cattivo. Si spaurì e lasciò la stanza. La sera, a pranzo, tutta la famiglia era presente, meno il primogenito, Gaspare, che era a Palermo sotto il pretesto di preparare gli esami di riparazione per la licenza liceale (aveva di già vent'anni). Il pasto era servito con rustica semplicità: tutte le posate, del resto pesanti e ricche, erano poste nel centro della tavola e ciascuno pescava nel mucchio secondo i propri bisogni; il servo Totò e la serva Mariannina si ostinavano a servire la gente dalla destra. La signora Laura era l’immagine della sa-
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lute giunta al proprio supremo fiorire, cioè alla pinguedine somma: il mento di bella forma, il naso gentile, gli occhi esperti di coniugali voluttà scomparivano in un rigoglio di lardo ancor fresco, sodo e appetitoso; le forme spropositate del corpo erano rivestite di una seta nera, segnacolo di sempre rinnovati lutti. I figli Melchiorre, Pietro e Ignazio, le figlie Marta, Franceschina, Assunta e Paolina, si alternavano in curiose rassomiglianze, in stra-
ne misture dei tratti rapaci del padre e di quelli misericordiosi della madre. In tutti, in tutte, la ricerca della to-
letta era nulla: “cretonnes” stampate (grigio su bianco) le femmine, vestiti da marinaio per i maschietti, anche
per il maggiore fra i presenti, Melchiorre, cui i nascenti baffetti di diciassettenne conferivano uno strano aspetto di effettivo membro dei Reali Equipaggi. La conversazione, o per meglio dire il dialogo fra don Batassano e Ferrara, si aggirò esclusivamente intorno a due argomenti: il prezzo dei terreni nelle vicinanze di Palermo in confronto a quelli nelle vicinanze di Gibilmonte, e i fatterelli della società aristocratica palermitana. Don Batassano considerava tutti questi nobili come dei “morti di fame”, anche quelli che, dopo tutto, possedevano non fosse che in collezioni di antichità, a parte i redditi, un
patrimonio eguale al suo. Sempre rinchiuso nel suo paese, con rare gite al capoluogo e rarissimi viaggi a Palermo per “seguire” delle cause in Cassazione, di questi nobili non ne conosceva personalmente neppure uno, e di loro si era creata una immagine astratta e monocorde,
come ciò che il pubblico immagina di Arlecchino o del capitan Fracassa. Il principe A. era spendaccione, il principe B. donnaiolo, il duca C. violento, il barone D. giocatore, don Giuseppe E. spadaccino, il marchese F. “estetico” (voleva dire “esteta”, eufemismo a sua volta
per indicare cose peggiori); e così via di seguito: ciascuno era una figurina spregevole ritagliata in cartone. Don Batassano possedeva in queste sue opinioni una formi-
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dabile propensione all’errore e si può dire non vi fosse epiteto che non fosse erroneamente accoppiato al nome, e certamente nessun difetto che non venisse favolosamente esagerato, le reali mende di queste persone rimanendogli intanto ignote: si vedeva che la sua mente lavorava su astrazioni e che essa si compiaceva
di far
risaltare la purezza degli Ibba sullo sfondo corrotto della vecchia nobiltà. Ferrara conosceva le cose un po’ meglio, ma anche lui in modo lacunoso, e quindi, quando si provò a contradire le assertazioni più fantastiche, rimase presto a corto
di argomenti; d’altronde le sue parole suscitavano in don Batassano un tale sdegno moralista che presto tacque; del resto si era alla fine del pranzo. Questo era stato, a giudizio di Ferrara, eccellente;
donna Laura non si abbandonava a voli pindarici in materia di cucina: essa faceva servire la cucina siciliana elevata al cubo in quanto a numero di portate e ad abbondanza di condimenti, quindi resa micidiale. I maccheroni nuotavano letteralmente nell’olio del loro sugo ed erano sepolti sotto valanghe di caciocavallo, le carni erano farcite di salami incendiari, le “zuppe in fretta” contenevano il triplo dell’alchermes, dello zucchero e della “zuccata”* prescritti; ma tutto ciò, si è già detto,
sembrava squisito a Ferrara e l'apice della vera buona cucina; le sue rare colazioni a casa Salina lo avevano sempre deluso per la scipitezza dei cibi. Il giorno seguente, però, ritornato a Palermo, dopo aver consegna-
to al principe Fabrizietto le settantottomila e duecento lire, descrisse il pasto che gli era stato offerto, e poiché conosceva la predilezione del principe per i “coulis de volaille” del Pré Catelan e le “timbales d’écrevisses” di Prunier, mostrò come orrori ciò che gli erano sembrati
pregi; e così fece cosa assai grata a Salina il quale, poi, “ Zucca candita, ingrediente tipico della pasticceria siciliana.
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durante il “pokerino” al Circolo, raccontò ogni cosa agli amici sempre avidi di notizie sui leggendari Ibba; e tutti risero sino al momento in cui l’impassibile Peppino San Carlo annunziò un full di regine. Come si è già detto, la curiosità circa la famiglia Ibba era acuta negli ambienti dei nobili palermitani. La curiosità è, poi, la madre delle favole, e da essa infatti nasce-
vano in quegli anni cento fantasie intorno a questa fortuna subitanea. Esse testimoniavano non soltanto della spumosa infantile immaginazione delle classi superiori, ma anche di un inconscio disagio nel vedere che si poteva, al principio del secolo ventesimo, erigere una grande fortuna esclusivamente terriera, forma di ricchezza questa che, per amara esperienza di ciascuno di quei signori, era materiale da demolizione e non adatto alla costruzione di ricchi edifici. Questi stessi proprietari sentivano che questa moderna reincarnazione Ibba degli sterminati possessi granari dei Chiaromonte e dei Ventimiglia dei secoli scorsi era irrazionale e, per loro stessi, pericolosa;
quindi le erano sordamente avversi; ciò non soltanto perché quest’edificio imponente era in gran parte eretto con materiale che era già appartenuto ad essi stessi, ma perché lo avvertivano come manifestazione dell’anacronismo permanente che è il freno sulle ruote del carro siciliano, anacronismo che moltissimi avvertono ma al
quale nessuno, poi, si sottrae o fa a meno di collaborare. Occorre ripetere che questo disagio rimaneva latente nell’inconscio collettivo: affiorava solo sotto il travestimento di frottole e barzellette, come si conviene a una classe che fa scarso consumo di idee generali. Prima e più elementare forma delle frottole, l’esagerazione delle cifre che da noi sono sempre elastiche. A dispetto della facilità dei controlli la fortuna dei Baldassare Ibba era valutata in parecchie diecine di dozzine di milioni; un
ardimentoso osò parlare una volta di «quasi un miliar-
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do», ma fu, a dir vero, zittito, perché questa cifra tanto
banale oggi era nel 1901 di così raro impiego che la quasi totalità della gente ne ignorava il vero significato, e in quel tempo di lira-oro, dire un miliardo di lire era lo stesso che dir niente. Sulle origini di questa fortuna venivano intrecciate fantasie analoghe: sulla umiltà dei natali di don Batassano era difficile esagerare (il vecchio Corrado Finale, la cui madre era una Santapau, aveva insinuato, senza dirlo chiaro e tondo, che egli fosse figlio
di un suo cognato che aveva per qualche tempo risieduto a Gibilmonte, ma la frottola ebbe poco credito perché si sapeva che era nelle abitudini di Finale attribuire a se stesso od ai suoi parenti la paternità clandestina di qualsiasi notorietà si parlasse, generale vittorioso o fe-
steggiata primadonna); il modesto cadavere però che aveva causato noie a don Gaspare si moltiplicava per dieci, per cento, e non vi era soppressione di individui che fosse avvenuta in Sicilia da trent'anni (e ne erano avvenute parecchie) che non venisse addebitata agli Ibba, i quali erano, dopo tutto, penalmente più che a posto. Questa, benché possa forse sorprendere, era la parte più benevola della leggenda perché il fatto di violenza, quando impunito, era, allora, motivo di estimazione, l’aureola dei Santi siciliani essendo sanguigna. A queste invenzioni di diretta semina si aggiungevano quelle di trapianto: veniva rispolverata, per esempio, la storiella narrata già cento anni prima a proposito di Testasecca che, fatto scavare un canaletto, riunite a monte
di esso le centinaia di mucche e le migliaia di pecore loro, e fattele mungere allo stesso istante, avrebbe dato a
re Ferdinando IV lo spettacolo di un ruscello di latte tiepido e spumoso che scorreva dinanzi a lui. Questa favola non priva di una pastorale poeticità, che avrebbe dovuto denunciarne
l’origine teocritea, veniva adesso
accollata a don Batassano con la semplice sostituzione di Umberto I a re Ferdinando; e benché fosse facilissimo
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provare che mai questo sovrano avesse posto piede sui beni Ibba essa sopravviveva, irrefragabile. Fu per queste ragioni di rancore misto a timore che,
quando il “pokerino” ebbe termine, la conversazione cadde di nuovo sull’argomento Ibba. La diecina di soci presenti si era installata sulla terrazza del Circolo, che sovrasta un placido cortile ed era ombreggiata da un alto albero che faceva piovere petali di lillà su quei signori per lo più anziani. Servi in rosso e bleu portavano in giro gelati e bibite. Dal fondo di una poltrona di vimini giungeva sempre collerica la voce di Santa Giulia. «Ma insomma si può sapere quante terre ha questo benedetto Ibba?» «Si può sapere, si sa. Quattordici mila trecento venticinque ettari» rispose freddo San Carlo. «Solamente? Io credevo di più.» «Quattordicimila un corno! Secondo persone che sono state sul posto non possono essere meno di ventimila ettari, sicuro come la Morte; e tutti semineri di prima scelta.»
Il generale Làscari, che sembrava immerso nella lettura della «Tribuna», abbassò bruscamente il giornale e mostrò la faccia sua di fegatoso, ricamata di rughe gialle nelle quali la cornea bianchissima risaltava dura e un po’ sinistra, come gli occhi di certi bronzi greci. «Sono ventotto mila, né uno di più né uno di meno; me lo ha detto mio nipote che è cugino della moglie del suo Prefetto. È così, e basta; ed è inutile discuterne più a lungo.» Pippo Follonica, un invitato romano di passaggio, si mise a ridere: «Ma insomma se vi interessa tanto perché
non mandate qualcheduno al Catasto; è facile sapere la verità, questa verità per lo meno». La razionalità della proposta fu accolta con freddezza. Follonica non capiva la natura passionale, non statistica, della discussione: quei signori palleggiavano fra loro invidie, rancori, timori, cose tutte che i certificati
catastali non bastavano a sedare.
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I racconti
Il generale si inviperì: «Quando una cosa la dico io non occorrono catasti né controcatasti». Poi la cortesia verso l’ospite lo raddolcì. «Caro Principe, Lei non sa
che cosa è il catasto da noi! Le volture non sono mai fatte e vi figurano come proprietari ancora quelli che hanno venduto e che adesso sono all’Ospizio di Mendicità.» Di fronte a una smentita tanto circostanziata, Folloni-
ca cambiò tattica. «Ammettiamo che l’ettaraggio rimanga ignoto; ma il valore del patrimonio di questo buzzurro che vi appassiona si saprà!» «Questo si sa benissimo: otto milioni netti netti.»
«Un corno!» Era questo l'immancabile inizio di ogni frase di Santa Giulia. «Un corno! Non un centesimo meno di dodici!» «Ma in che mondo vivete! Non siete informati di niente! Sono venticinque milioni soltanto in terreni. In più vi sono i canoni, i capitali prestati e non ancora trasformati in proprietà, il valore del bestiame. Almeno al-
tri quindici milioni.» Il generale aveva posato il giornale, si agitava. La perentorietà dei suoi modi aveva da anni irritato tutto il Circolo, ciascun socio del quale desiderava essere il solo a fare affermazioni incontrovertibili; co-
sì che contro l’opinione di lui si formò immediatamente una coalizione di antipatie risvegliate e, senza riferimento alla verità maggiore o minore dei fatti, la stima del patrimonio Ibba calò a precipizio. «Queste sono poesie; denari e santità metà della metà. Se Baldassare Ibba ha dieci milioni, tutto compreso, è molto.» La cifra era sta-
ta distillata dal nulla, cioè, per necessità polemica; ma quando fu detta, poiché rispondeva al desiderio d’ognuno, li calmò tutti, eccetto il generale che gesticolava dal fondo della sua poltrona, impotente, contro i suoi nove avversari. i
Un cameriere entrò con una lunga asta di legno che portava in cima un batuffolo con spirito acceso. Alla mite luce del tramonto si sostituì quella rigida del lampa-
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dario a gas. Il romano si divertiva assai: era la prima volta che veniva in Sicilia, e nei suoi cinque giorni di permanenza a Palermo era stato ricevuto in parecchie case
ed aveva cominciato a lismo dei palermitani: saloni belli, le signore scussione appassionata
ricredersi sul presunto provinciai pranzi erano stati ben serviti, i aggraziate. Ma adesso questa disulla fortuna di un individuo che
nessuno dei contendenti conosceva né voleva conoscere, queste esagerazioni patenti, questo gesticolare convulso
per niente, gli facevano di nuovo far macchina indietro, gli ricordavano un po’ troppo le conversazioni che sentiva a Fondi o a Palestrina, quando doveva andarvi per badare alle sue terre, e magari la farmacia Bésuquet, della quale dal tempo della sua lettura del Tartarin conservava un ricordo sorridente; e faceva provvista di storielle da raccontare agli amici quando fra una settimana sarebbe ritornato a Roma. Ma aveva torto: era troppo uomo di mondo per essere avvezzo a tuffare l'indagine sua al di sotto delle più evidenti apparenze, e ciò che gli appariva come umoristica esibizione di provincialismo era tutt'altro che comico: erano i tragici soprassalti di una classe che vedeva sfuggire il proprio primato latifondistico, cioè la propria ragion d’essere e la propria continuità sociale, e che cercava nelle artate esagerazioni, e nelle artificiali diminuzioni, sfoghi alla sua ira, sol-
lievo alla sua paura. Dato che era impossibile raggiungere la verità, la conversazione deviò: rimase sempre diretta a indagare i fatti privati di Baldassare Ibba, ma si mise a considerare quelli personali di lui. «Vive come un monaco; si alza alle quattro del mattino; va in piazza ad ingaggiare i braccianti, si occupa di amministrazione tutto il giorno, mangia solo pasta e verdura all’olio, e la sera alle otto è a letto.» Salina protestò: «Monaco con moglie ed otto figli, in-
tendiamoci. Un mio impiegato ha passato ventiquattr'ore
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I racconti
in casa sua: la casa è brutta, ma grande e comoda, decente
insomma; e la moglie deve essere stata bella; i ragazzi sono ben vestiti, anzi uno è qui a Palermo per gli studi; ed alla sua tavola si mangia in modo pesante ma abbondante, come vi ho raccontato».
Il generale teneva duro: «Tu, Salina, credi a tutto quanto ti raccontano; o, per meglio dire, hanno voluto gettar del fumo negli occhi del tuo impiegato che dev'essere un fesso. Pane, cacio e lucerna a olio, questa è
la vita giornaliera, la vera vita di Ibba; quando qualcheduno viene da Palermo si capisce che vuol fare lo sfarzo per abbagliare noi come s’illude di fare». Santa Giulia, sotto l’impeto delle notizie che voleva comunicare, si dibatteva nella sua poltrona: i piedi ben calzati battevano il pavimento, le mani gli tremavano, e
la cenere della sigaretta gli nevicava sul vestito: «Signori, signori, voi non sapete un corno; vi sbagliate completamente. Io solo so come stanno le cose: la moglie di un mio campiere è di Torrebella, a due passi da Gibilmonte; ogni tanto va a vedere la sorella che è maritata lì e che le ha raccontato tutto. Più sicuro di così non si può, mi
pare». Negli occhi di ciascuno cercò una conferma alla propria sicurezza, e poiché tutti si divertivano la trovò facilmente. Benché non vi fosse nessun orecchio pudico da rispettare, abbassò la voce: senza questo accorgimento da melodramma l’effetto delle rivelazioni non sarebbe stato lo stesso. «A quattro chilometri da Gibilmonte, don Baldassare s'è fatto costruire una casetta: tutto quello che si può immaginare di più lussuoso, con mobili di Salci e tutto il resto.» Ricordi di letture di Catulle Mendès, nostalgiche rimembranze di case d’appuntamento parigine, brame irrealizzate benché a lungo allattate, apparirono alla sua fantasia. «Ha fatto venire da Parigi il grande pittore Rochegrosse che gli ha affrescato tutte le stanze: tre mesi è rimasto a Gibilmonte ed ha voluto centomila lire ogni
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mese.» (Rochegrosse era stato infatti in Sicilia due anni fa: vi era rimasto otto giorni con la moglie e tre figli, ed era ripartito dopo aver quietamente visitato la Cappella Palatina, Segesta, e le Latomie di Siracusa.) «Un patrimonio speso! Ma che affreschi ha fatto! Roba da far risuscitare un morto! Donne nude, tutte nude, che ballano, bevono, si accoppiano con uomini e fra di loro, in
tutte le posizioni, in tutti i modi possibili. Capolavori! Un’enciclopedia, vi dico, un’enciclopedia di tutti i piaceri! Del resto lasciate fare un parigino con centomila lire al mese. Là Ibba riceve donne a diecine: italiane, fran-
cesi, tedesche, spagnole. La Oteràò ci è stata anche lei, lo so di sicuro. Là un Batassano si è fatto il suo Parco dei Daini, come Luigi Decimosesto.» Questa volta Santa Giulia aveva fatto colpo davvero: tutti stavano ad ascoltarlo a bocca aperta. Non che ci credessero, ma trovavano la fantasia altamente poetica e ciascuno desiderava avere i milioni di Ibba perché sul suo conto si potessero inventare simili sontuose frottole. Il primo a riscuotersi dal sortilegio poetico fu il generale. «E tu come lo sai? Ci sei stato nella casetta? Come odalisca o come eunuco?» Risero, rise anche Santa Giulia. «Ve
lho già detto: la moglie di Antonio, il mio campiere, ha visto quelle pitture.» «Bravo! Allora hai il campiere cornuto!» «Cornuto un corno! è andata lì a portare delle lenzuola che aveva lavate. Non l’hanno fatta entrare, ma una finestra era aperta ed ha visto tutto.» Il castello di bugie era evidentemente fragilissimo; ma era tanto bello, tutto fatto di cosce femminili, di oscenità
senza nome, di grandi pittori e di bigliettoni da centomila lire, che nessuno ebbe voglia di soffiarci su per farlo cadere. Salina tirò fuori l'orologio: «Mamma mia! Sono già le
otto! Debbo andare a casa a vestirmi: stasera c’è la Traviata al Politeama, e quell’“Amami, Alfredo!” della Bellincioni non è roba da perdersi. Ci vediamo in barcaccia».
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TRE SAGGI DA «LE OPERE E I GIORNI» (1926-1927)
: &aeRREMESSA: UN ESORDIO DI SAGGISTA
Negli anni Venti Giuseppe Tomasi di Lampedusa visse a più riprese a Genova e a Torino. Documenti di questi passaggi non ne sono rimasti. Il punto di appoggio a Torino
era Bruno Revel, francesista e figlio del pastore valdese di Torre Pellice, e in casa dei Revel Lampedusa soggiornò varie volte. Revel fu anche il confidente dello scrittore al terpo del suo corteggiamento diAlessandra Wolff Stomersee, quando occorreva giustificare le sue lunghe assenze da Palermo e tener nascoste le sue intenzioni. Un gruppo di lettere di Lampedusa a Revel è stato consultato dai biografi
dello scrittore e utilizzato da Caterina Cardona nel suo Lettere a Licy. Un punto di appoggio a Genova era invece la
famiglia Erede. Il direttore d'orchestra Alberto Erede serba la memoria di Lampedusa a Genova, che era stato appunto negli anni Venti un grande amico di suo fratello Massimo. Nel 1926 la firma di Giuseppe Tomasi appare sul mensile genovese «Le Opere e i Giorni», diretto allora da Mario Maria Martini. Lo scrittore esordisce con Paul Morand (a. V, n° 5, 1° maggio 1926, pp. 36-46) a firma Giuseppe Tomasi. Sei mesi dopo esce W.B. Yeats e il risorgimento ir-
landese (a. V, n° 11, 1° novembre 1926, pp. 36-46) a firma Giuseppe Tomasi di Palma (duca di Palma era il “titolo di cortesia” tradizionalmente portato dal primogenito del principe di Lampedusa). Infine sotto lo stesso nome pubblica Una storia della fama di Cesare (a. VI, n° 3, 1° marzo
1927, pp. 28-42 e a. VI, n° 4, 1° aprile 1927, pp. 17-32).
Nessuna informazione ci è giunta sui contatti tenuti fra
Lampedusa e il mensile. Marcello Staglieno, nella postfa-
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
zione alla riedizione in volume dei tre saggi (Tomasi di Lampedusa, Il mito, la gloria, Rorza 1989) riferisce che i contatti con i collaboratori erano tenuti da Mario Capocaccia, da lui definito «umanista finissimo quanto riservato». Ed avaro di informazioni era anche lo stesso scrittore. Egli aveva menzionato ai suoi giovani amici questo suo passato
di saggista, ma senza alcuna parola di commento. Tre dei quattro numeri del mensile che contenevano i pezzi a sua firma sono stati rinvenuti a Palermo in un cassetto assieme
a fotografie di famiglia e carte varie di amministrazione.
Giacevano là, fra i depositi documentari della sua vita, reliquie delle case distrutte, non riordinate in scaffali come i li-
bri. Oggetti da rimuovere i primi, oggetti amati gli altri, con cui la vita, alla meno peggio, aveva ripreso il suo corso.
Eppure «Le Opere e î Giorni» avrebbe potuto esser un punto d'incontro. Fra i collaboratori si rinvengono i più illustri scrittori del tempo; dal più illustre, Montale, che vi pubblicò tre poesie nel 1924, a Camillo Sbarbaro, Leonida Repaci, Orio Vergani, Riccardo Bacchelli, Aldo Gabrielli, Lorenzo Gigli, Angiolo Silvio Novaro, etc. Ma Lampedu-
sa non parlò mai di una propria vita culturale collegata alla rivista, e dobbiamo ritenere che questa vita davvero non vi fu. Probabilmente i saggi furono mediati dagli amici genovesi senza un inserimento dell'autore nell’ambiente degli animatori della rivista e dei collaboratori della stessa. Di certo, nel 1957, quando cercava di far pubblicare Il Gattopardo, Larzpedusa era privo di qualsiasi conoscenza diretta nel mondo delle lettere. È anche probabile, quindi, che la scrittura stessa dei saggi non sia collegata a lunghi soggiorni genovesi, ma che essi siano stati redatti a Palermo. Nel 1927 l'epoca dei viaggi volgeva al tramonto e il declino della rendita incalzava. Palermitana è anche l’ascendenza degli interessi culturali dei primi due saggi. Dopo la Prima guerra mondiale i contatti culturali esterni, in particolare francesi, di Piccolo
e di Lampedusa erano stati filtrati attraverso Fulco Santo-
«Premessa
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stefano duca della Verdura e marchese della Cerda (Alessio Cerda, il gentiluomo descritto nei Ricordi d’infanzia, era
uno zio di Fulco e portava il titolo di cortesia di marchese). Fulco ci ha lasciato un libro di memorie sulla sua infanzia palermitana a Villa Niscemi (The Happy Summer Days, London 1976): sua madre era una Valguarnera di Niscemi, figlia di Maria Favara e di Corrado Valguarnera, la coppia le cui relazioni parentali con i Tomasi e alcuni aneddoti biografici sono stati riportati nella coppia Angelica e Tancredi. I Santostefano furono colpiti da una crisi di rendite a seguito del testamento della Favara, che aveva favorito ilfiglio maschio Giuseppe Valguarnera principe di Niscemi e duca dell’Arenella. Fulco fu uno dei primi aristocratici che individuò allora la sopravvivenza nella emigrazione. Dilettante colto, con vasti interessi culturali, buon talento di di-
segnatore, entrò subito dopo la Prima guerra mondiale nel mondo della moda; collaboratore a Parigi di Coco Chanel, divenne pot disegnatore di gioielli e pittore di piccole nature morte. Fu un protagonista della vita mondana internazionale fra Parigi, Londra e New York. Ai cugini palermitani, che come lui subivano il fascino dei mondi lontani, rivelò in quegli anni Valéry, Gide, Cocteau, Jacob, Radi-
guet. Per una generazione che si addentrava nella lettura in epoca dannunziana l’effetto ebbe l'efficacia di un antidoto. Il distacco aristocratico che accompagna ogni descrizione dell'approccio di Lampedusa alla vita ed all'arte ha per fondamento questa cura disintossicante. È certamente vero
che la pratica di qualche lingua straniera nella alta aristocrazia palermitana e la sua propensione esterofila erano un terreno di cultura adatto ad opporre resistenza alla retorica che accompagnò l'emergere dell’Italia unita, in cui guazzava di converso la nuova borghesia meridionale, ma Lampedusa è anche il professor La Ciura, l’uomo che fa sibilare
uno sputo ad ogni smargiassata dell'accademia ignorante. Il giovane Lampedusa smilitarizzato non è soltanto un aristocratico, non gioca con le culture esterne, se ne appassto-
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
na e le adotta. La Francia sottrae Lampedusa alla prima fase della sua vita, quella nazionalista e magari nietzschiana;
la Francia del primo Novecento forma l’uomo che apprenderà poi a Londra la possibile unione fra comportamento stimabile e democrazia. La recensione delle due raccolte di novelle di Paul Morand, Ouvert la nuit e Fermé la nuit, rivela in qualche misura il pensiero di Lampedusa sul trascorso decennio. Egli aderisce alla fisionomia del dopoguerra proposta da Morand, lo difende dall'accusa di cedimento al facile successo della novella libertina, sottolinea appunto l’effetto disintossicante di una descrizione che, come una istantanea,
denunci le rughe nascoste. Il saggio percorre tutta l’opera allora disponibile di Morand. Accennando alla raccolta di versi Feuilles de température troviamo la prima insorgenza di quella associazione tra il diagramma della febbre al capezzale dei malati e il nostro destino segnato dal tempo. Ne ho parlato nella Premessa alla Letteratura inglese, seguendone il percorso dalle letture di Virgina Woolf fino alle estreme conseguenze della «Morte del Principe». Questo diagramma della malattia si conferma fin dall’esordio come il fondamentale “correlativo obiettivo” di Lampedusa, il suo “fire” e il suo “rose” dei Quartets eliotiani, tanto meno misterico e tanto più “segnato”.
Ma anche se il saggio su Morand è il più collegabile al Lampedusa del secondo dopoguerra, la distanza dallo scrittore, dall'uomo che conosciamo indica la lentezza del-
la fase di trapasso. Il Lampedusa sulla metà degli anni Venti palesa le sue adesioni all'idea “nazionale”. L'uomo del primo dopoguerra osserva che, come al solito, gli stranieri guardano alle «cose d’Italia senza comprensione», mentre il Lampedusa del secondo dopoguerra avrebbe ritenuto la questione priva di interesse.
Un elemento che accomuna i due saggi su Morand e su
_ Premessa
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Yeats è una scaletta sottesa alla loro redazione e che in certo qual modo impone alla dissertazione una camicia di forza. Il taglio è affine a quello di una voce di enciclopedia e il redattore si prefigge di fornire una opinione a volo d’uccello sull'intera opera dell'autore trattato. Il metodo è quanto di più distante si possa concepire dal Lampedusa successivo, dal relatore di impressioni soggettive, dal suo sistema di stimolare gli ignari ricorrendo ad associazioni smargiasse, ad osservazioni personali e coinvolgenti, ed eludendo del tutto l'informazione apologetica. Qui invece essa prevale, e prevale frammista a ricordi “italianissimi” e a studi liceali. Negli anni Cinquanta bo sentito a Capo d'Orlando ricorda re ancora il trionfale 10 in greco di Lucio Piccolo alla maturità classica, e Piccolo era invero intriso di cultura umani-
stica. Non così Lampedusa. A differenza degli amatissimi scrittori passati per Oxford e Cambridge il liceo non era stato una esperienza formativa fondamentale, e nel secondo dopoguerra quel tanto di latino e greco che aveva appreso era, come per il novantanove per cento degli italiani con in tasca un diploma di maturità classica, totalmente scom-
parso. La citazione dell’Ars poetica con cui si apre il saggio su Yeats non è più che un omaggio verbale a studi che non erano penetrati nel deposito profondo di quelle esperienze che formeranno la sua futura identità. L'Italia d'altra parte non è ancora la terra estranea nella cui lingua e cultura per fortuito destino egli si era formato: accanto a Baudelaire e a Keats, si trovano ancora menzionati Petrarca, Leopardi, D'Annunzio. Più che i loro meriti agirà difatti nel Lampedusa maturo il disgusto della cultura fascista, quello che lo
porterà a respingere in un sol blocco l'arco storico che dal Risorgimento arriva alla Marcia su Roma, né, come Croce,
riferendosi alla svolta autoritaria, accarezzò l'ipotesi dell’antirisorgimento, di un Risorgimento tradito.
L'identità ancora incerta del Lampedusa 1927 rende piuttosto insignificante il saggio su W.B. Yeats e quello
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
sul Caesar: Geschichte seines Ruhms di Friedrich Gundolf. Il tono generale è difatti costantemente informativo ed apologetico piuttosto che discriminante e critico. Nel caso di Yeats lo si può ben constatare nel raffronto con la voce a lui dedicata nella Letteratura inglese, dove Lampedusa non si dilunga nelle banali osservazioni sull’aura celtica e rivolta sostanzialmente il giudizio sul teatro di Yeats, tanto magnificato nel saggio del ’27. Fra il primo testo ed il secondo si rileva la distanza che corre fra un lavoro di compilazione ed una relazione critica, condotta direttamente sui testi, e da parte di una mente che due guer-
re mondiali hanno liberato da ogni pregiudizio. Il lungo saggio, apparso in due puntate, sul Caesar di Gundolf è sostanzialmente un sunto di questa storia della fama di Cesare. I soli passi che possono spiegarci l'interesse di Lampedusa sono i raffronti di Cesare con Alessandro e soprattutto con Napoleone. Il tema della «gloria», quindi, come ha indicato Staglieno. Ma queste assonanze con il corso, da Lampedusa stendhalianamente tanto ammirato (as-
sente ogni malizia sulle marachelle sessuali di Cesare, il che per un principe palermitano sta per una rinunzia alla pro-
pria identità), non sono poi il fulcro della recensione, la quale si presenta come un diligente sunto del testo. Questo culto della gloria è invero piuttosto astratto, tanto da far sospettare che, piuttosto che da una scelta d’autore, il saggio dipenda da una commissione della rivista. L'assenza di identità propria nella trattazione rende più evidente la omologazione del Lampedusa anni Venti ai luoghi comuni della cultura italiana del tempo. La linea è tracciata: da Roma antica all’umanesimo, da Dante, Petrarca al Rinasci-
mento, questa storia d’Italia in cui gli uomini sono collocati nei pannelli dell’apoteosi e nulla sappiamo della loro vera natura. Nulla di più antitetico di quanto ci attenderemmo da un sainte-beuviano di ferro, il Lampedusa anni
Cinquanta, quello che ammiriamo e ricordiamo.
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Tutti gli orrori e tutti gli eroismi della Grande Guerra hanno, bene o male, trovato una espressione d’arte. Gli elementi umoristici, invece, che il conflitto contenne,
non sono ancora stati posti in luce. Non alludo qui a quella comicità elementare che, durante la guerra come in ogni altro tempo, è nata dalla imbecillità di certi attendenti o dalle astuzie dei muli, o dall’ingenuità dei cifrari telefonici o anche da certe bizzarre sproporzioni fra cause ed effetti, comicità spicciola presto sommersa nell’onda di sangue e di lagrime. Vi fu nella guerra un altro grottesco, smisurato, quasi cosmico e profondamente significativo, mostruoso prodotto della fusione di tante razze, del subitaneo sgomento di popolazioni per solito dignitosissime. La frenetica propaganda di tanti avversari e la lunga doccia di acqua ragia alla quale fu sottoposta quella generazione disciolse molte vernici; e se è vero che riapparve la solida quercia delle virtù ancestrali è anche vero che si rivelarono nodi e tare del legno che si credevano già curate e piallate via.
Fra l’immane congerie di rovine che torreggiò nel continente europeo in quei cinque anni di tormenta un
osservatore attento e un po’ crudele può anche scorgere non pochi profili caricaturali e dalle linee paradossalmente comiche. Siamo costretti a usare la parola «comico» perché non ne troviamo una migliore: essa sola risponde all’impressione di meccanizzazione della vita e di automa impazzito che danno certi episodi. E in questo senso è forse esatta.
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
Ma è certamente falsa (e irriverente) se ad essa si vuol connettere una qualsiasi idea di giocondità e di alleggerimento dello spirito. Da quella apocalittica «comicità» potremo forse trarre qualche insegnamento amaro ma nessuna modesta risata. Da poco si ha notizia di qualche stravaganza del genere: il mese scorso ci fu rivelato che Parigi, nutrice, a
quanto pare, della civiltà moderna, fu difesa da un capitano negro, da un autentico negro della Martinicca, contro gli attacchi aerei dei tedeschi, anch'essi, si dice, espertissimi balii di quella medesima civiltà; sappiamo come un carico d’uova russe diretto in Inghilterra fosse, nello scompiglio dei primi mesi di guerra, scambiato per un esercito moscovita accorrente alla difesa di Parigi; conosciamo i retroscena della famosa storiella dei cadaveri trasformati in esplosivi dai chimici di Germania, e nulla ci farà meglio comprendere la vastità del conflitto quanto il sapere che questa fola fu architettata non già per esasperare i compitissimi abitanti di Londra ma per indurre il governo cinese a intervenire contro i profanatori di cadaveri. In qualche guida del Belgio si può leggere come il bombardamento di Anversa risolvesse in poche ore un problema edilizio intricato ed annoso; e chi non ricorda quella smisurata partita di «poker», perfetta in ogni sua mossa, che fu lo scambio di telegrammi fra Lansing e il governo tedesco, e che su un «vedo» inopportuno conchiuse il conflitto? Ma troppo vivace è ancora il ricordo dei nostri morti e troppo brucianti le ferite perché un autore che insistesse su simili elementi non sembri profano. Benché una simile opera non sarebbe che il ghigno del teschio che fa più desolante la morte. Nessuno però sivè indignato quando Paul Morand con impareggiabile spregiudicatezza ha presentato la triste caricatura dell'Europa del dopo-guerra. Nietzsche ci aveva di già avvertito che «per i porci
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tutto è porco». E quindi non c’è da meravigliarsi se i ricercatori di descrizioni lascive, approfittando di alcune arditezze superflue di quelle pitture, si sono affrettati a includere Ouvert la nuit e Fermé la nuit e altri volumi del Morand nella lista delle loro letture preferite. E chi è uso a giudicare i libri dalla qualità dei lettori anziché dal loro contenuto li ha anatemizzati. E qui si può far notare quanto bisogna andar cauti nell’adoperare il ginnasiale precetto del Tasso, occorre dosare e scegliere il «soave licor» col quale si voglion ungere «gli orli al vaso»; ché ad esagerare può capitare che su quegli orli si posino delle brutte vespe che impediscono a labbra timorose di accostarsi alla salutare miscela. Ma in queste opere del Morand vi è di più e di meglio di semplici storielle piccanti. Chi non abbia ancora smessa la vetusta abitudine di leggere le prefazioni si accorgerà subito, leggendo le poche righe che stanno innanzi a Ouvert la nuit, della tristezza e del disgusto dell’autore di fronte alle scene che descrive. Il vizio è descritto in molte, in troppe pagine del Morand; in nessuna però si trova quella acquiescenza, quell’aria di trovar tutto ciò normale, che rende intollerabile la lettura di tanti contemporanei. Il libertinaggio non è mai considerato come essenziale funzione dell’umanità, soltanto come caratteristica principale di un particolare periodo di crisi. E non è mai confuso con l’amore. Il clima storico nel quale evolvono i personaggi del Morand fu quello che fu: uno dei più assurdi che mai generazione umana abbia attraversato. Adesso che anche il ciclo del dopo-guerra si è chiuso, e che le recenti conferenze diplomatiche hanno gettato le salde basi dei conflitti futuri, possiamo ripensare quel lustro singolarissimo con qualche serenità. Tutte le guerre si rassomigliano. Ma ciascun dopo-guerra ha la
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propria fisionomia inconfondibile: è durante il dopoguerra che saltano fuori gli effetti delle mescolanze di razza e dei contagi di abitudini; che gli «chocs» dei combattenti fioriscono in ben ordinate follie; allora è che il
disagio finanziario, accettato come sacrificio durante le ostilità, si incarna ogni giorno in stupendi fenomeni. Durante il dopo-guerra il rispetto per gli avversari che si può finalmente esprimere e la disistima per gli alleati che è spesso doveroso manifestare, reagiscono in precipitati sentimentali imprevisti. È il momento in cui i ricchi diventano poveri, e i poveri ricchi, gli eroi si fanno ritrosi e gli imboscati riprendono fiato e ardire, I paesi vittoriosi si considerano sconfitti; e i vinti, dopo essersi
tastati e aver constatato che qualche membro intatto ce l'hanno ancora, guardano le piaghe dei vincitori e con sofismi mirabili spiegano al pubblico come stiano meglio di prima. Il dopo-guerra che fu demoniaco e disperato dopo la crisi dei Cento Anni, mistico e bigotto dopo i conflitti napoleonici, dopo la guerra europea fu, secondo il Morand, essenzialmente quattrinaio e femminiero. È innegabile che non vi fu soltanto questo, in quegli anni: le riserve silenziose andavano accumulando energie anche allora; ma è altrettanto certo che l’assetto europeo dopo l'armistizio fu molto, molto simile al quadro che ce ne fa
il Morand. Si fu in pochi nel 19 e nel ’20 a non tentar di vendere sia pure un chilo di zucchero al quadruplo del giusto prezzo; e quanti furono coloro che in quegli anni non hanno avuto nella coscienza una cartina di cocaina
e un'avventura sudicetta? E poiché il numero dei belligeranti fu enorme e alla danza presero parte anche i neutrali, e la sarabanda si sferrò su l’intero orbe terraqueo, i giuochi della speculazione e della lussuria furono di una complicazione e di una varietà senza precedenti. Percorrendo le pagine del Morand si prova quel sen-
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so di disagio che si avverte guardando certe istantanee nelle quali un amico indiscreto ci ha colti sotto una luce troppo viva e in un momento di nostra assoluta naturalezza. Scopriamo rughe ignorate; l’occhio che forse stava inseguendo meschine immagini ci appare smorto; le vesti che credevamo decenti mostrano pieghe e ginocchiere. Che fare? Rimproverare il fotografo indiscreto? Meglio far stirare il vestito e provarsi a guardare il cielo. Una delle prime raccolte di versi di Paul Morand, s'intitola Fewzlles de température. E in germe vi si trova di già tutta la sua arte fatta di contrasti violenti e di riavvicinamenti inattesi; vi si trova sopratutto la sua inesora-
bile curiosità per gli aspetti babelici di questi nostri modernissimi tempi. E il titolo è profetico: tutte le opere successive del Morand hanno questo carattere di «feuilles de température», degli esili diagrammi che il medico traccia al capezzale dei febbricitanti e che segnano le oscillazioni della temperatura e che sono la tenue traccia dei deliri. Paul Morand, funzionario diplomatico, costretto dalla sua carriera a percorrere i luoghi dove più acuta esplose la febbre del dopo-guerra, possiede l’autorità del testimonio oculare; e appunto per questo le sue parole trovano una eco immediata in chi non fu cieco allo straordinario spettacolo dell'Europa affannata a rassettare il proprio letto, sconvolto dal parto mostruoso. Chi non sente dolorare lontani ricordi rileggendo queste brevi righe, poste sulla soglia di Quvert la nuit? «Rivedevo quell’anno 1918-19, al quale nessun altro somiglierà mai; senza stagioni, né clima, né verde, né anniversari; traversato tutto d’avvenimenti brutali, da sacrifizi, contorto dalle ultime offensive, spaccato dall’ar-
mistizio, deformato dalla rettorica degli oratori, dall’eccesso dei biglietti di banca; percorso da un gran numero di personalità in “tight”, da eroi, da statistiche, dalle
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fanfare, dalle decorazioni, dai sentimenti e dai sistemi politici; tanto diverso, in breve, da ciò che avrebbe dovuto essere questo ritorno alla pace che si era immagi-
nato pensoso e religioso, talmente la nuova vita appariva più bella e anche più pericolosa della “morte a tutti i piani” che l'aveva preceduta.» Questa mistura di «reportage», di stile da «réclame» alberghiera e di commozione, fusa in un’unità stilistica che mai si smentisce, dà
il tono a tutta l’opera. Di rado quanto in queste opere può constatarsi l’importanza della forma: la materia delle novelle è la medesima che abbiamo letto nelle cronache di quegli anni e nei libri che si acquistano alle stazioni, insieme all'acqua minerale e al pollastro tisico. Ma l’acutezza dello stile, la perfetta rispondenza della parola all’idea, mettono in luce gli elementi umani che ogni più umile aneddoto può contenere. In ciascuna delle brevi novelle che compongono Oxvert la nuit e Fermé la nuit è descritto un particolare ambiente europeo del dopo-guerra. E in ognuna si agita una folla di figure, ognuna delle quali è molteplice, prodotto di incroci di sangue e di circostanze. E in quasi ogni novella si assiste al disfacimento di un’anima. Costantinopoli presidiata dalle truppe alleate, popolata dalla miseria e dalla rassegnazione dei profughi russi; Dublino ribelle «deserta, abitata soltanto dalle deto-
nazioni», con quel suo strano aspetto di guerra divenuta casalinga senza cessare di essere atroce; Barcellona sotto la minaccia dei «pistoleros»; Budapest, subito dopo la caduta di Bela-Kun; la Berlino dell’inflazione, folle e corrotta; Parigi, in una notte delle ricorrenti crisi ministeriali; questi ed altri luoghi, che per un momento comparvero a caratteri di scatola sulle prime pagine dei giornali, ritornano in questi volumi. Ed essi sono animati da personaggi particolarissimi, fiori germogliati in quella corsia di ospedale. Egen von Srachwitz, l'ufficiale tede-
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sco, colto, valoroso, distinto, nel quale la sconfitta e la
povertà hanno compiutamente liquidato ogni forza morale; la povera ragazza russa, costretta a far da cameriera in una bettola a Costantinopoli e che sogna ancora di passar due settimane a Parigi e poi morire; il corridore ciclista, idolo effimero delle folle notturne dei «Sei giorni»; il poeta irlandese, che seppe contenere in sé l’anima di un popolo e adesso muore pietosamente inebetito. E ancora la donnina ebrea che vuol ritornare alla Sinagoga, quando i correligionari sono in pericolo, la ragazza di Finlandia emancipata, viziosa ed ingenua; cento altre macchiette ridicole e dolorose, dall’agitatrice catalana cui l’arresto tronca a mezzo un idillio, al «masseur»
siriaco divenuto padrone delle eleganze londinesi. Nella novella appunto nella quale appare quest’ultimo (La nuit de Putney) si potrà forse notare meglio che altrove la riposta sensibilità dell’autore, che dopo averci,
durante venti pagine, fatto osservare sotto i più ridicoli aspetti il protagonista e il suo ambiente, trova modo di chiudere con una scena di una specialissima e inattesa commozione.
E sempre lo stile meticcio, sincopato, aderente al soggetto. Trascrivo a caso queste righe su un viaggio dell’OrientEspress: «Il treno risvegliò le stazioni svizzere, in istile gotico, le cui vetrate tremarono. Il Sempione, durante ventinove minuti, eseguì una grande sinfonia di ferro, poi, sopra
gli argini, si traversarono le risaie del Piemonte sinché si giunse a una stazione che finiva sul nulla, su una grande cisterna d'ombra: Venezia. Al risveglio una tramontana di zinco falciò il granturco della pianura croata. La Serbia si manifestò per mezzo dei suoi maiali, a righe bianche e nere come i fantini, e che divoravano, rovesciata
nel fossato, una carcassa di vagone del quale restavano soltanto le ruote ed il campanello d’allarme. I fiumi si
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barattarono contro altri fiumi valicati su passerelle flessibili come giunchi mentre, vicino, emergevano le pile dell’antico ponte, decapitato durante le ritirate. A Vinkopje i Rumeni di velluto furono staccati dal treno, nella notte ghiaccia. Dopo Sofia, le case portarono i loro peperoni che stavano a seccare, fratelli della vigna rossa. Illuminate dal sole nascente, arate dai bovi le pianure bulgare ostentavano una prosperità simbolica, come sulle vignette dei francobolli o nel rovescio delle monete.» Incoraggiato dal successo grandissimo dei due primi volumi, il Morand volle affrontare, con Lewis et Irène, il
romanzo. Ma il suo stile impressionistico, la sua sensibilità acuta ma saltuaria mal lo predisponevano a un’opera a lungo fiato. Quel che sarebbe stata una novella maliziosa divenne un romanzo un po’ scucito e non troppo inte-
ressante. Ma anche in quest'opera mal riuscita vi è una miniera di osservazioni precise su quel modernissimo idillio bancario e una ironia sapiente nella constatazione della fondamentale ingenuità degli amanti che pur sono entrambi espertissimi maneggioni finanziari. Molte speranze si ridestarono quando si apprese che il Morand era stato in missione in Russia. Si aspettavano preziose osservazioni su quella vita così nuova e interes-
sante. La delusione è stata grande. I pochi racconti di ambiente sovietico inclusi nell’Europe galante sono fra i peggiori di questo volume che è poi il peggiore del Morand. La buona vena sembra esaurita, e malgrado la enormità di certe trovate il libro è noioso e le concessioni fatte ai lettori più facili, sono troppo sfacciate. Adesso il Morand è in Estremo Oriente, e certe lettere inviate da laggiù sono di un delizioso colore; i paesi del Sole Levante hanno spesso recato fortuna agli scrittori francesi: speriamo che il nostro diplomatico dimentichi le torbide notti del dopo-guerra europeo, di cui fu
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il poeta, e sappia guardare con occhi freschi quel mondo vetusto sino al punto di esser nuovo. I titoli di due delle migliori novelle del Morand, La nuit de Portofino-Kulm e La nuit de Rome potrebbero far credere che in esse si svolge una vicenda del nostro agitatissimo dopo-guerra italiano. Inganno. I personaggi di queste novelle appartengono a tutte le nazionalità europee tranne che alla nostra; e anche lo scenario nel qua-
le questi personaggi si muovono, benché italiano, è disegnato senza alcuna nettezza di contorni e in modo davvero cosmopolita. Nei più recenti volumi del Morand l’Italia appare un po’ di più, specialmente la Sicilia; ma sempre in modo incidentale e senza che l’autore vi abbia spiegato una benché minima parte del suo acre ma sagace spirito d’osservazione. È necessario aggiungere che le cose d’Italia sono sempre guardate senza comprensione? Dell’assenza dell’Italia da questi libri non credo che abbiamo a dolerci: il nostro dopo-guerra ha già trovato nell’Ojetti e nel Panzini osservatori insuperabili e possiamo fare a meno di quelli, men caritatevoli, stranieri. E neppure credo avremmo ragione di offuscarci delle frecciate che ci rivolge il Morand: egli non ne risparmia a nessuno e men che ad altri al suo paese e poi, siccome il valore della sua opera è appunto quello di essere uno specchio fedelissimo degli anni nei quali fu scritta, dobbiamo confessare che trovare dei giudizi benevoli o anche equi sulle cose italiane in un libro straniero dell’immediato dopo-guerra sarebbe un anacronismo quasi doloroso. È anche alla diffusa antipatia verso noi italiani che seguì l’armistizio che dobbiamo di essere entrati in convalescenza tanto più rapidamente dei nostri amici e dei nostri nemici; e senza aver chiesto aiuti da infermieri che
avevano avuto la sbadataggine di preannunziarsi ostili.
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A malgrado delle gravi pecche di tutti e dei difetti gravissimi degli ultimi suoi libri, può darsi che l’opera di Paul Morand prenda posto onorevole fra quelle opere, così numerose nella letteratura francese, che pure essendo di second’ordine hanno saputo sopravvivere perché in esse si riuscì a fissare gli aspetti unici e irripetibili dei costumi di una speciale crisi storica.
Rileggendo certe pagine del Morand si pensa alla frase del Valéry, nel mirabile suo discorso sulle conseguenze spirituali della guerra: «L’oscillazione della nave è stata così forte che le lampade meglio sospese si sono rovesciate.» Paul Morand è spesso riuscito a cogliere, col suo stile che rassomiglia alla deformante luce del magnesio, gli aspetti frenetici di alcuni naufraghi mentre essi tentavano di riaccendere le prime fiammelle.
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Non a torto Orazio si vantava di aver innalzato con le sue liriche un monumento più duraturo del bronzo. L’edificio di gloria che i poeti lirici riescono a costruire è certamente il più solido prodotto dell’edilizia letteraria: non essendo destinato ad alcun uso pratico esso sfugge alle vicissitudini della moda: e, poggiato com'è sulla roccia immutabile del comune sentire degli uomini, e su quello soltanto, non teme gli sconvolgimenti prodotti dall’infiltrazione delle filosofie e dalle frane dei mutamenti storici. Il monumento della fama del Tasso, ad esempio, già tanto adorno di lampade adoranti, giace in. rovina; e se qualche dubbioso pellegrino vi si accosta ancora si può esser certi che nella sua bisaccia vi è non già un cero per il nume ma una matita e un album per ricopiare qualche squisito particolare ornamentale che ancora si scorge fra le erbacce invadenti. E il disordinato palazzo costruito dall’Hugo, per metà stazione per «ruggenti vaporiere» e per metà catte-
drale gotica adorna soltanto di mostri e di angeli senza Dio e senza effigie umana, dopo aver ospitato agapi democratiche e messe laiche, esso ha di già, recente com'è,
più d’un vetro rotto e più di uno stucco scrostato. Ma, lassù, in cima ai colli privi di strade camionabili, i
templi nudi, lisci e chiusi della gloria di Petrarca e di Baudelaire, di Keats e di Leopardi rimangono intatti nella loro solitaria bellezza. La duratura gloria dei grandi lirici, tuttavia, non va esente da qualche svantaggio: quel che essa guadagna
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nel tempo vien perduto nello spazio: troppo musicalmente legata alla lingua materna per sopportare impunemente la brutalità delle traduzioni, la poesia che attin-
ge tutto il suo valore da una perfetta espressione riesce di rado a varcare la cerchia dei lettori cui quella medesima espressione è familiare; e benché, con l’andar del
tempo, quei poeti, attraverso i pochi che li conoscono, finiscano con l’influenzare anche le letterature straniere,
per essi si verifica il paradosso di avere più imitatori che conoscitori diretti. Quanti in Italia, pur fra coloro che meglio conoscono i grandi romanzieri russi, sanno che
esistono dei poeti come Lermontoff e Nekrassow dotati della medesima intensità spirituale di Dostoiewski e di Tolstoi? E all’estero il grande poeta delle Laudi è apprezzato soltanto come l’autore del Fuoco e del Piacere. Si deve appunto a questo disperante ostacolo alla comprensione se neppure l'attribuzione del premio Nobel è riuscita a far conoscere in Italia l’opera di William Butler Yeats e se il suo nome, nome di gloria pari a quello di un D'Annunzio o di un France, rimane ancora ignoto. Leggendo gli scarni commenti che i giornali italiani
hanno dedicato all'opera di Yeats quando il premio gli venne conferito, il pubblico ha certamente avuto l’impressione che anche questa volta quel conclave nordico, tanto lontano e un po’ ermetico, avesse voluto premiare non si sa quali pudiche virtù familiari senza tener conto di tanti nobili artisti che ancor oggi si affaticano ad adornare i cenci di questa povera vecchia Europa. La verità era invece che, quella volta, il premio Nobel era stato attribuito bene; e poiché questo fenomeno è avvenuto soltanto tre o quattro volte da che la fondazione esiste, sarebbe stato caritatevole verso la canuta giuria svedese, il farlo notare. Tanto più che, per una felice
coincidenza o per un’imprevedibile sensibilità dei giudici, il premio veniva a onorare nella persona di un poeta grandissimo una antichissima razza da pochi mesi, allo-
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ra, risorta a dignità di nazione attraverso secoli di sangue e di indicibile orrore. L’irlandese Yeats riceveva quello che avrebbe dovuto essere la consacrazione di una fama mondiale negli stessi mesi in cui poteva finalmente sedere nel libero senato di un libero stato irlandese; simbolo quasi di quella antica verità troppo misconosciuta ai giorni nostri, che una
reale e duratura universalità può solo raggiungersi nell’approfondimento e quasi nell’esasperazione della propria nazionalità. Di rado, infatti, un poeta ha saputo incarnare una razza quanto Yeats ha saputo essere l’espressione di tutta la travagliata anima celtica. E poche fisionomie nazionali sono più nettamente profilate di quella. Ricacciati da cento invasori, corrosi da un intimo
squilibrio che talvolta neutralizzò l’azione del loro ingegno e del loro coraggio, questi avanzi delle prodi tribù celtiche si ridussero ad occupare soltanto le contrade dell’estremo occidente d’Europa, le terre minacciate e sconvolte dall'oceano, regioni che la povertà del suolo
rendeva a un tempo temibili e poco ambite dai nemici. L'atmosfera di brume, di spume marine e di lento fuoco di torba ha foggiato a chi la respira un’anima nella quale una virile malinconia si è fusa con le molte virtù dei popoli poveri; e dall’impeto battagliero degli avi gallici e dalla loro giocondità guerriera i celti moderni hanno derivato frenetici lampi di violenza e quello spirito irriducibilmente mordace che con Swift e Bernardo Shaw e James Joyce ha maneggiato la più spregiudicata satira che la letteratura ricordi. E la compenetrazione dell’anima della razza e dei luoghi in cui essa vive si è fatta a tal punto perfetta che, ad un osservatore appassionato, le lande profumate dal triste ginepro di Bretagna e del Munster, le scogliere senza pace del Connaught e del Finistère, la costa di Cornovaglia abitata dai prodigi, i laghi spettrali di Scozia e d’Ir-
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landa, tutto, i boschi, i prati ove par di scorgere l’orma delle fate, le luci violente che d’un tratto spezzano i cieli
piovorni, le nebbie che ovunque stemperano il paesaggio e lo fanno infinito, più che le cause sembrano la proiezione di quelle anime singolari. Nessun eroe più fascinoso di quelli in cui questi celti hanno incarnato i loro ideali. O mitici come Tristano e la sua Isotta, Macbeth e re Artù, Cathleen e Deirdre la Dolorosa, o storici come Wallace e Montrose, Charette e O'Connell che già in vita furono avvolti di aureola leggendaria. È anzi questa la sola razza che fino a tempi relativamente moderni è rimasta ignota e nascosta al punto da far rinascere un mito. Fino a tempi recenti la vita sociale dell'Irlanda fu simile alla vita dei tempi omerici. Quei capi gaelici che il coltissimo Leicester trovò nell'isola verde, che lo Spencer e Philip Sidney combatterono e tentarono amministrare, e che tutti e tre ci descrissero con elegante compatimento di umanisti, vivevano in realtà la vita
patriarcale dei re di Argo e di Itaca. È forse questo un buon argomento per spiegare quanto errata sia l’opinione che vuole il Rinascimento sia un semplice ritorno alla cultura classica: il giorno in cui quei ferventi lettori di Omero vennero a contatto con degli autentici Aiaci ne ebbero raccapriccio e li beffarono. Vivevano quei capi in rozze regge di frasche e di mota, governavano un popolo più che di sudditi composto di consanguinei; la forza fisica conquistava e conservava lo scettro e una mandra di maiali era invidiata ricchezza. Il cristianesimo, presto e gloriosamente predicato, fu presto e senza violenza abbandonato: troppo vivaci erano ancora le voci delle‘antiche divinità su le sponde dei pallidi laghi e fra l’incessante gemito della pioggia; in quell’ambiente brutale la religione di mitezza destava sospetti; e i padri pretendevano che dal battesimo venisse
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escluso il braccio destro dei figli affinché essi potessero sempre vibrare colpi spietati. E quando ancora una volta Cristo tornò, i numi indigeti non scomparvero ma trasformati in fate e geni, nell’onnipresente «Sidhe» gaclica, continuarono a turbare i cuori e a ricevere culto domestico e offerte. I conventi che S. Colombano aveva fondato nei più aspri recessi dell’isola si mutarono spesso in congreghe di allucinati, di ferventi cercatori di prodigi che usavano il latino mistico per lodare gli Dei spodestati. Sempre i poeti occuparono un rango eminente in
quelle tribù: sedevano alla mensa del re, erano giudici e ispiratori e custodirono con una cura che non ha precedenti il patrimonio spirituale della stirpe. Talmente primitiva fu quella società che essa non mutò nei secoli; ac-
quistò la immobilità delle rocce e dei boschi; le figure di Costello e di Dermot, per esempio, hanno una tale ele-
mentarietà di linea che occorre fare uno sforzo per convincersi che sono contemporanee dei nostri Medici e degli ultimi Plantageneti. E quando la conquista inglese fu compiuta, quando i coloni sassoni sbarcarono a torme, armati di moschetto,
di Bibbia e di inflessibile volontà gli Irlandesi, più degli altri Celti, avulsi dal muoversi del mondo non poterono neppure in minima parte comprendere i vantaggi del nuovo regime. E la cieca incomprensione reciproca impedì qualsiasi collaborazione; nel ricordo irlandese il magnifico Cromwell si perpetua solo nella stampa famosa e tanto comune in Irlanda che lo rappresenta brutale lanzo del sacco di Drogheda, col piede sul corpo della
donna oltraggiata. L'Inghilterra che con tanta sapienza aveva assimilato senza annullarlo lo spirito celtico del Galles e della Scozia non ebbe un solo momento di felice politica irlandese: rigori spietati si alternarono a più spietati abbandoni e a debolezze inopportune; l’assimilazione esteriore fu completa; non un atomo dello spiri-
to celtico fu mai perduto.
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E si avverò unità è rimasta spiritualità ha lingua. Tranne
il paradosso unico di un popolo la cui soltanto spirituale ma che di questa sua perduto anche la forma primordiale: la poche migliaia di individui, tutti i milioni
di irlandesi dimenticarono il loro idioma, adottarono
quello degli invasori, ne divennero artefici spesso eccellenti. E si dovette iniziare la faticosa ricostruzione della patria con ordigni stranieri. I poeti irlandesi arricchirono l’incomparabile patrimonio lirico della letteratura inglese. Blake, Davies, Synge, W. B. Yeats, i politici come
O'Connell e Parnell compirono il prodigio e subirono la tragedia di riforgiare e dar vigore all’anima irlandese servendosi della lingua avversaria. Lotta stupenda in cui ogni poema che provava al mondo la persistenza degli ideali celtici era nello stesso tempo conferma del completo disarmo anche linguistico, e una nuova gemma nella corona nemica! Per apprezzare l’orrore di queste tragedie noi italiani dobbiamo immaginare il nostro Risorgimento propugnato da un Mazzini che avesse scritto
in tedesco e cantato da un Mameli in versi croati. Fu una rissa di secoli che assunse sempre caratteri di versi: fu guerra religiosa, fu lotta sociale, fu dibattito par-
lamentare, fu polemica letteraria: rimase sempre e soltanto affermazione di nazionalità. Lotta che dilaniò gli Irlandesi medesimi fra di loro, che ancora adesso li oppone in diverse concezioni della libertà; lotta senza esclusione di colpi in cui i ribelli non esitarono ad appoggiarsi sui più mortali nemici dell'Inghilterra, sui francesi nel 1798, sui
tedeschi nella tragica Pasqua del 1916 e ciò mentre molti reggimenti irlandesi sanguinavano al fronte; lotta nella quale l’indomabile «humour» irlandese non si ritenne dal beffare il nemico e gli stessi martiri che aveva pianto ieri e che avrebbe glorificato domani; singolare atteggiamento psicologico che anche oggi si rivela nelle opere tanto caratteristiche di O’Casey. Lo spirito di razza irlandese che in politica e in reli-
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gione non aveva mai cessato di aver coscienza di sé stesso si era nei secoli lentamente oscurato. Non che la pro-
duzione letteraria irlandese fosse scarsa; gran parte delle migliori opere della letteratura inglese son nate al di là del Canale di San Giorgio: basterebbe citare i nomi di Swift e di Sterne, di Congreve e di Sheridan; ma questi insigni uomini, quanto mai irlandesi per i loro caratteri di foga, la loro potenza di satira e, alcuni fra essi, per l’intransigente idealismo, lo furono quasi senza saperlo, imbevuti com'erano di coltura inglese. Fu soltanto nel 1842 durante il «Decennio nero», nel
quale per le carestie, le epidemie e il disperato emigrare la popolazione irlandese fu ridotta del cinquanta per cento, che pochi giovani fondarono il giornale «La Nazione», alla cui scuola la nascente generazione di letterati apprese a riconoscere in sé stessa i tratti della Patria caduta in catalessi. Poco dopo Standish O’Grady, energica ed originale figura di lottatore, pubblicò il libro sulle leggende celtiche in cui dava alimento nazionale e titoli di fierezza alla nuova letteratura, e Douglas Hyde fondava quella società per la lingua gaelica che riusciva nell'intento di galvanizzare l’antica lingua irlandese che lentamente si spengeva. Squadre di professori e di studenti si recavano nelle remote isole della costa occidentale per raccogliere piamente dalle labbra di quei pescatori la pura pronunzia gaelica e le frasi più espressive: commovente pellegrinaggio per ritornare alla terra ed al mare dei padri e non fare disperdere l’ultimo e più prezioso distintivo della stirpe. La lingua fu salvata: adesso l’insegnamento di essa è obbligatorio nelle scuole primarie e secondarie; mentre cinquant’anni fa questa lingua pur così ricca e nobile era disprezzata e derisa dagli stessi Irlandesi colti, adesso è segno di coltura conoscerla e servirsene. E a fianco di un così tenace sforzo sembra ben povera l’ironia inglese
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che fa notare come, nel Libero Stato d'Irlanda, l’ingiun-
zione di pagamento delle tasse continui a essere redatta in lingua inglese, senza dubbio ancor oggi più largamente intesa.
Figura di prim'ordine durante gli ultimi decenni della lotta quella di W. B. Yeats; tenace combattente giustamente ricompensato dalla vittoria. Ma errerebbe chi credesse di trovare nella sua opera frequenti eccitamenti alla rivolta o esplicite polemiche nazionali. Egli non appartiene alla famiglia dei Kòrner e dei Mameli. In un tempo in cui si dubitava perfino della sopravvivenza dell’anima celtica egli si è accontentato di incarnare quest'anima nel modo più completo, di essere la voce più appassionata; in giorni in cui le tradizioni irlandesi erano o ignorate o note soltanto a pochi eruditi egli le ha risuscitate alla calda vita immortale dell’arte; ha posto sul capo della propria razza allora derisa la corona purissima della propria gloria di artista. Non si è astenuto, certo, dall’intervenire direttamente nella lotta e ne son te-
stimonianza certi suoi alti poemi in memoria di alcune vittime della triste rivolta di Pasqua 1916; ma queste sono eccezioni; egli non ha incitato alla ribellione e cantato le barricate; ma ha a tal punto marcato i lineamenti del suo popolo e la sua differenziazione dagli «altri» che, la sua opera compiuta, pochi mesi di violenza son stati sufficienti a realizzare quello che, nei secoli, poté
sembrare utopia. Yeats, in una breve sua opera (Fantasticando nell'infanzia e la gioventù), ha narrato l’evoluzione del suo spirito: nato a Londra da un padre di lunga ascendenza irlandese ma da madre inglese, educato nel culto protestante, il bimbo si recava durante le vacanze nella
casa dei nonni, lassù nella contea di Sligo in quelle terre perpetuamente battute e dal mare e dal minaccioso Ulster anglo-sassone vicinissimo; una di quelle regioni di
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frontiera dove le razze, le religioni, le civiltà opposte si fronteggiano con maggiore ostinazione e vivacità. Lì, fra
gli scogli, i boschi ed i laghetti (quel lago di Innisfree che egli doveva in seguito celebrare in melodiosissimi versi), l'incantesimo racchiuso in ogni angolo dell’isola verde irretì il cervello ed il cuore del figlio che tornava alla terra. Il fascino singolare dell'ambiente celta, di già sottilmente analizzato da Renan, i parenti, vigorosi tipi di originali col nitido conio di razza, influenzarono per sempre quella giovane intelligenza. Più tardi, durante i suoi studi a Dublino, comprese
quanto insufficiente fosse la propaganda della presente generazione di letterati, propaganda di azione diretta che serviva soltanto a eccitare vaghi elementi anarcoidi che trovano facile sviluppo nell’eccitabilità irlandese, mentre, sotto il velo delle risonanti apostrofi, l’anima della razza lentamente agonizzava. Prima di porre un fucile nelle mani degli Irlandesi occorreva dimostrare che essi esistevano.
E con pochi entusiasti fondava quello che fu poi lAbbey Theatre dove Lady Gregory, Synge ed egli stesso ripresentarono al popolo i miti antichi o il volto doloroso dell’Irlanda moderna; e poco dopo pubblicava la sua prima raccolta di liriche. Questo volume e quelli che seguirono costituiscono certamente la parte migliore della sua opera. In quegli anni, gli ultimi del secolo scorso, la poesia di lingua inglese vivacchiava modestamente scaldandosi alle ultime faville della splendida fiamma che aveva illuminato la metà del regno vittoriano. Tennyson e Swinburne, ancora viventi, si sperdevano in tristi imitazioni di
quella che era stata la vigorosa poesia della loro maturità. Hardy era di già il grande incompreso che è poi rimasto, mancante di quella infinitesima particella di accorgimento che sarebbe stata sufficiente a far irraggiare le doti illimitate del suo spirito. Meredith, Wilde e Ki-
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pling, eccellenti artisti ciascuno a loro modo, sembrava-
no perseguitati da uno strano incantesimo che rendeva prosaica la poesia di prosatori tanto poetici. Quando ecco, di fra le folle ostili di Dublino, questo giovane sparuto e macilento che i bimbi avevano soprannominato «il re Morte» fa sentire una poesia che si riattacca direttamente alla inesauribile fonte nella lirica elisabettiana. Per quanto nei suoi ricordi lo Yeats accenni appena al suo culto per i poeti del secolo d’oro inglese e si professi piuttosto devoto discepolo dei simbolisti francesi, sembra evidente che i grandi predecessori suoi si trovano appunto in quel gruppo illustre che trasformò l'adolescente Inghilterra d’Elisabetta in un «nido di usignuoli canori». Oppure, discendenza vera e propria non vi è, ma vi è certamente il medesimo intenso amore per le umili manifestazioni nella vita, lo sfruttamento nei temi popolari trasfigurati nella luce di un alto temperamento artistico; e insieme all’amore della vita una irrimediabile nostalgia per il passato, per tutta la bellezza appassita che è ormai soltanto eloquente cenere; tutta la
sanità e tutto il fuoco interiore che fa brillare come smalti i versi dei sonetti shakespeariani, dei poemi oscuri e arditi di John Donne e quella elegia di Nash alcuni versi della quale potrebbero esser posti come epigrafe all’intera opera di Yeats. Certo sarebbe vano negare le influenze simbolistiche che si rivelano nella lirica yeatsiana. Ma queste influenze sono esclusivamente tecniche; e davvero le innovazioni
dei poeti francesi da Villiers a Mallarmé furono tante e alcune così felici che sarebbe difficile trovare, dopo di essi, un poeta che non ne abbia approfittato. Ma lo spirito della poesia di Yeats, tanto attaccato alla terra, mi sembra, totalmente differente da quello della elegante e rinchiusa scuola simbolista. Certo, il senso del mistero e la penetrante angoscia di alcuni drammi nel poeta irlandese ricordano i terrori dei personaggi di
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Maeterlinck; ma ciò che in questo è voluta letteratura, in Yeats è naturale prodotto nella terra natia, in ogni tem-
po grande evocatrice di fantasmi; la terra irlandese nella quale fu dosato il filtro d’Isotta e dove la nebbia scopre a uno a uno i piani del paesaggio come apparizioni magiche, è legittima madre di imprecisate inquietudini che non troverebbero posto nelle ordinate e grasse pianure fiamminghe. E il Maeterlinck medesimo per meglio ambientare i suoi tremebondi eroi li circonda di luoghi e li etichetta di nomi vagamente celtici. I poemi pieni di tenebra e di foga che cantano la rosa, la mistica rosa, antichissimo simbolo celtico nell'anima
umana e si colora volta a volta di tutto ciò che questa anima ama, e che rappresenta così l'Irlanda, la bellezza o la donna amata; quelli in cui sono evocate le leggende della razza e ne è tratto l'aroma e ne è rivelata la profon-
dità; quei molti poemi di amore nei quali passa la mesta figura di donna della quale il poeta parla con fervorosa umiltà, e che appare talora inaccessibile divinità, tal altra «ridente e ardente come una nuvola a sera», sempre
evocatrice di tutta la bellezza del mondo e di tutto il perduto fascino del passato; l’alto conflitto nell’animo del poeta fra il suo amore per la vita e il disprezzo per questa vita se paragonata al sogno (ripugnanza al realismo che nei suoi ultimi drammi lo ha tratto al tentativo di «scenario parlato» e di attori mascherati), tutto que-
sto rende il breve volume nel quale possono essere in-
cluse le liriche un tesoro inesauribile di bellezza. Raramente, prima, il verso inglese era stato adoperato
con più altera maestria; vi sono dei versi talmente aderenti al nostro sogno interiore che restano scolpiti in noi fin dalla prima lettura; versi che «riconosciamo», perfetta espressione del nostro vano sentire. La ricerca tecnica
è spinta all’estremo, non vi è una incidentalità, non una superfluità; il verso si muove con la noncuranza del movimento perfetto; nella poesia «l’uomo che sognò il pae-
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se delle Fate», semplici nomi di luoghi irlandesi, incastonati nel verso perfetto, bastano a evocare, col suono
soltanto, il paesaggio fatato; talaltre poesie, che derivano l’austerità e la forza dai grandi lirici teologici del Seicento, trovano, mercé la foga e la grazia celtica infusavi, una
risonanza che nell’animo di un lettore devoto non potrà più affievolirsi. Spesso si è davvero realizzata l'aspirazione di uno dei personaggi delle novelle di Yeats, del vecchio Aherne che desiderava «un mondo composto soltanto di essenziali»; in molte di quelle brevi liriche le immagini si seguono pure e diafane, senza scosse, come le gocce di un cero purissimo consumato dall’ardore. Ma parlare indegnamente di così pudiche bellezze è di già profanarle. Chi conosce l’inglese vada a leggerle nella bella edizione di MacMillan; e se pure conoscerà tutte le più alte cime della poesia avrà la sorpresa e la gioia di trovare che esiste ancora un lirico pari ai più grandi. Più facile cosa è parlare dei drammi e delle prose di Yeats.
L’unità della sua opera è completa: in tutta vi è l’idea della perpetua lotta dell'ordine naturale con l’ordine spirituale, l’appassionata ricerca di questo ordine superiore attraverso la natura medesima e ogni sua più dimessa apparenza; la diffidenza verso la saggezza umana orgogliosa e vana, l'aspirazione verso il prodigioso mondo del passato nel quale forse meno spessa era la parete fra materia e spirito. Ma nei drammi queste idee appaiono più nette e di più immediata comprensione. Nel suo primo dramma, in versi, Yeats sceneggiò l’antica leggenda irlandese della contessa Cathleen che vendette al demonio l’anima purissima per salvare il popolo suo dalla carestia. Figure delineate come quelle delle vetrate delle cattedrali, interamente composte di luci e di colori, tenute insieme dall’arabesco dei versi; lo scanda-
W.B. Yeats el risorgimento irlandese
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lo creato dal dramma fu notevole: le carestie medievali, in Irlanda, non sono soltanto ricordi storici; e il baratto
delle anime per salvare i corpi dovette risvegliare ricordi di facili transazioni; e per questo, chi più gridò fu appunto il partito nazionale e cattolico. Ma la poesia del mistero era così alta che l’opera finì col trionfare; cupa opera ritmata sul gemito delle folle fameliche e sull’ingordigia dei demoni-mercanti, illuminata dall’angelica luce della protagonista, «il grande giglio bianco del mondo». Il sacrificio dell’eroina non è stato vano: il popolo è salvo e Dio spezza il mercato infame del Maligno e l’anima bianchissima di Cathleen è accolta da Maria sulla soglia del cielo. Ma il dolore continua a imperversare nel mondo e il dramma si chiude con i versi che ricordano un rilievo giottesco di S. Maria del Fiore «gli anni, immani bovi neri, calpestano il mondo e Dio, il pastore, gl’incita e li punge. Ed io sono spezzato dalle loro zampe che passano».
È peccato che in Italia, dove si cerca da ogni parte un teatro di poesia, nessuno abbia mai pensato a rappresentare questo dramma, del quale esiste da tempo una traduzione di Carlo Linati, e che pare sia stato uno degli ultimi progetti che sedussero lo spirito di Eleonora Duse. D’ispirazione più esplicitamente patriottica è l’altro dramma che porta quasi lo stesso nome del precedente (Catbleen O'Hoolihan) mercé di che nei giornali capita talvolta di vederli confusi insieme. Cathleen O’Hoolihan è il commovente simbolo dell’Irlanda che insistentemente torna a chiedere ai suoi figli disattenti che le venga pagato il loro debito verso di lei; debito tanto grande che soltanto col dedicare ad esso la vita intera potrà saldarsi. Nel poema drammatico I/ paese che il cuore desidera si manifesta la tendenza così vivace in Yeats a evadere dal mondo reale per rifugiarsi nel più desiderabile ambito
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
del sogno; e vi si può ritrovare anche quell’indomabile amore dell'anima celtica per gli antichi dei e i geni del bosco, entità nelle quali per la prima volta la razza seppe esprimere il proprio volto: la giovine sposa nella notte del primo maggio lasciò il marito e la casa, il focolare difeso dal crocefisso, per raggiungere gli elfi che danzano sotto la luna e andare là dove «nessuno diviene vecchio bigotto e grave, dove si ignora vecchiaia ed amarezza, dove si è fedeli soltanto alle luci lontane e alle canzoni». Qui si manifesta violentemente il senso pagano che in tutti i paesi celtici si mescola così stranamente a una in-
tensa religiosità cristiana. E ancora in un altro dramma Le acque d'ombra i due amanti che rimangono soli nella roccia battuta dal mare, in versi di incomparabile bellezza esprimono la medesima idea di distacco dalle convenzioni della vita per esultare nelle regioni pericolose e intense del sogno. Compiuto quest’ultimo dramma Yeats s’accinse a trattare il più alto mito irlandese, quello di Dezrdre la Dolorosa che doveva più tardi ispirare anche a Synge un capolavoro di sommesso dolore terminato dal drammaturgo sul letto di morte. Anche Yeats dal nobile tema ha tratto quello che, poeticamente, è forse il più notevole dei suoi drammi. La tragedia dei due amanti protesi verso una unione perfetta che potranno solo conseguire nella mofte, è trattata con magnifico fervore lirico; e dopo la catastrofe, il canto alterno dei bardi celebranti le anime ormai
congiunte «come aquile che si son rifugiate nel loro letto di nuvole» è uno dei brani di poesia più semplici e più alti del grande poeta. Ma i miti irlandesi sono una fonte inesauribile di ispirazione: nella Soglia del Re il poeta Seanchan, umiliato dal suo sovrano, decide di lasciarsi morire d’inedia per affermare i diritti del poeta, legislatore e arbitro della società. Neppure nella Difesa della poesia dello Shelley si
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trovano più orgogliose ed eloquenti espressioni del carattere sacro dell’arte. E a proposito del singolare genere di morte prescelto dal bardo bisogna far notare che quella della volontaria morte per inedia è una antichissima forma di protesta, in uso in Irlanda da tempo immemorabile. E il famoso sindaco di Cork, e gli altri che adoperarono simile tragica forma di pressione morale avevano lontanissimi precursori nelle loro tradizioni nazionali. E in un altro dramma ancora, non più squillante ed altero come La soglia del Re ma amaro, pessimista, è rie-
vocata la leggenda della morte di Cutulain, l’Aiace irlandese, il prode re che poté esser vinto soltanto dal mare. Tutta la grandiosa storia di eroismo e di follia è narrata nel dramma di Yeats da due mendicanti che nel tragico trambusto hanno scorto solo una buona occasione per saccheggiare i forni incustoditi: ripresa del tema caro al poeta di irrisione della folla che passa quotidianamente dinanzi all’eroe senza riconoscerlo. Allora si potrebbe parlare dei più recenti drammi del poeta, di quelle Corzzedie per danzatori e della Regina, nei quali l’autore ha introdotto notevoli innovazioni sceniche per sfuggire il detestato realismo. Ma il contenuto esoterico di queste ultime opere che soverchia quasi il loro splendore formale le riconnette alle opere mistiche in prosa dello Yeats delle quali sarebbe troppo lungo incominciare a trattare qui. Non tutte le opere di prosa di Yeats, del resto, sono
opere di teoria. Anzi non lo è nessuna perché ovunque il pensiero si presenta trasformato in immagini che, se non sempre utili a chiarire il significato del testo, sono sempre veicoli di spirituale bellezza; nella Rosa Al/cherzica per esempio e nel Michael Robartes, che pure sono fra le più difficili pagine di speculazione esoterica, si trovano brani che per grazia di rappresentazione e musicalità non sono inferiori alle migliori liriche. Ma della visione
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
del mondo dello Yeats, delle sue convinzioni filosofiche
e religiose, della sua ars poetica non è il caso di discorrere qui, malgrado il grande fascino che emana da questi argomenti e dalla personalità singolarissima che attraverso ad esse si rivela. Ma nelle brevi storie che compongono il Libro della Rosa e Hauraban il Rosso l'artista ha ancora il sopravvento sul pensatore. Son quasi tutte novelle dei tempi eroici dell'Irlanda; tutte di una sconsolata malinconia,
nelle quali si assiste al naufragio di chi cerca di stabilire un ordine spirituale in confronto del caos materialista del mondo; e si sarebbe tentati di dubitare della utilità
dello sforzo dei vari eroi se non sapessimo come certe sconfitte rechino più gloria dei bassi trionfi effimeri. Sotto l’alta guida di W.B. Yeats, illuminata dalla gloria di Synge, con degli artisti come George Russell, Stephens e James Joyce; con un drammaturgo originale come Sean O°Casey e dei pittori illustri come Orpen e Lavery, la letteratura e le arti della nuova Irlanda vengono ad assumere un posto degno delle tradizioni di un popolo che in tutte le ore tragiche della storia trovò sempre un poeta per indicargli l’infallibile stella.
UNA STORIA DELLA FAMA DI CESARE
Il pubblico di adesso è avido di biografie illustri. In Italia e in Francia, in Inghilterra e in Germania le case editrici lanciano sul mercato diecine e diecine di «vite» che trovano sempre lettori numerosi e ammiratori. Un seguace
dello Spengler potrebbe scorgere in questo gusto un sintomo di decadenza e riavvicinare tale fioritura di scritti biografici alla fitta produzione di «vite esemplari» in cui le morenti civiltà classiche, arabe e indiane si compiacquero di cercare la fisionomia del loro trascorso vigore. Paragone che sarebbe erroneo: in altre epoche, e d’indubbio fervore vitale, si èguardato con interessamento alle biografie dei grandi sia per additarle, edificanti esempi, ai peccatori, come avvenne per le agiografie medievali, sia, durante il Rinascimento, per il piacere intellettuale provocato dalla contemplazione di una vita magnanima, quercia fra la sterpaglia delle esistenze anonime. L’attuale voga degli studi biografici non può, certo, derivare da un bisogno di evocare modelli d’illustre vivere: ai nostri giorni la virtù dell'esempio ha perduto molto della sua vantata efficacia; e si è troppo sprovvisti di originalità per permettersi il lusso d’imitar checchessia senza cadere nella copia servile. D'altronde le sole vite imitabili son quelle dei santi, con il loro esclusivo con-
tenuto d’insegnamento morale assimilabile da chiunque abbia fede e fervore; le vite delle altre categorie di gran-
di uomini sono per loro natura uniche; e chi fosse dotato, ad esempio, del genio e dell’audacia di un Napoleo-
ne, possiederebbe di già tale tempra di eroe da poter disdegnare i modelli. Occorre dire poi come la maggio-
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Tre saggi da «Le Opere e i Giorni»
ranza delle «vite» che ci vengono offerte non siano precisamente esemplari: da che parte comincerebbe un bravo borghese del XX secolo a imitare Mosè o Vercingetorige? E un volenteroso seguace del marchese di Sade vedrebbe presto interporsi la lucerna della Benemerita fra se stesso e il tema da svolgere. Eppure sono appunto le vite di queste diverse celebrità che saranno tra breve pubblicate da un noto editore francese. La verità è che in una età come questa nella quale la coscienza del «divenire» di ogni cosa ha assunto un’acuità senza precedenti, nella quale la rapidità stessa dell’evoluzione conferisce alla vita un senso di disagiata precarietà, adesso che l’anima soffre di non poter mai riposare nella contemplazione di una immagine compiuta ma partecipa dell’angoscia creatrice, è desiderio comune e ristoro il poter contemplare una vita passata, com-
pleta e chiusa; una figura che non sia argilla cedevole ma bronzo perenne, della quale possiamo compiere il giro e che, mostro o divinità, possiamo pesare e valutare. Certamente, una volta soddisfatto questo bisogno di immagini stabili, ci si accorge che il bronzo è freddo e il marmo inerte e si preferisce tuffarsi nell’inquietante tepore della vita viva. Ma non tutte le statue vengono a noia. Ne esistono alcune, poche, è vero, ma ne esistono, che sono immobili soltanto nella perfetta armonia delle forme, ma che turbano ancora i cuori; statue il cui gesto di amore e di comando accende ancora deliri, odi e passioni discordi. Vi furono, insomma, di quegli uomini che, chiusa la breve vita terrena, continuarono e conti-
nuano a stimolare volontà e a porre problemi. Massimo fra questi uomini Cesare, da venti secoli lon-
tano nella carne, da venti secoli presente nello spirito; senza dubbio il più vivente di tutti gl’immortali. Egli ha posto nell’ombra i grandi che lo hanno preceduto e ha costretto i posteri a riconoscere una sua reincarnazione nei
grandi che lo hanno seguito; lamemoria di lui è ancora ge-
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nuina azione; il nome stesso di Cesare è stato per millenni quello della suprema autorità statale; le sue vicende han| no valore di metodo politico; episodi della sua vita sono simboli ancora viventi ed attivi, e persino il nome dei suoi avversari è stato assunto avessillo di battaglia; il ricordo di lui pone ancora gli eterni problemi di libertà e autorità, ridesta i conflitti fra valori etici e valori estetici. Esistenze come la sua hanno diritto a due biografie: una limitata per quanto gloriosa che si riferisca alle gesta compiute dal corpo e dalla mente viventi; l’altra senza confini di tempo o di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra smisurata e le conseguenze delle sue apparizioni. Quella la storia della vita; l’altra la storia della gloria.
Federico Gundolf nella sua recente opera (Caesar: Geschichte seines Rubms, Bondi Verlag, Berlin 1925) si è
appunto provato a tracciare questa biografia alla fama di Cesare. Ambiziosa impresa: in trecento pagine, per quanto dense di fatti e di dottrina, è impossibile chiudere un tema smisurato; ma eccellente sintesi dell’opinione che di Cesare ebbero i grandi statisti e i grandi artisti; lucida esposizione dell’evoluzione del concetto di Cesare da Cicerone a Nietzsche; lettura di alto interesse che costringe, pur chi dissenta da alcune interpretazioni dell’autore, ad ammirarne la erudizione profonda e lo stile vigoroso. Potrà non esser privo d’interesse il rintracciare l’incessante influenza del morto Cesare sui viventi, avendo
a guida questo geniale critico. Primo e massimo propagatore della gloria cesarea fu Cesare stesso. I Corzzzentari che i nostri studi ginnasiali profanarono, ci stupiscono ad ogni nuova lettura; e non soltanto per le gesta narrate, ma anche per lo stile che, raramente quanto in queste opere, è stato rivelatore alla personalità dello scrittore. Nessuno mai è riuscito a raccontare se stesso con l’elegante obiettività di Cesare;
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obiettività intesa non come imparzialità, ché da un uomo che fu pura azione sarebbe vano pretendere simile bibliotecaria virtù, bensì quale facoltà di vedere le proprie azioni proiettate al di fuori, di narrarle con fervida compostezza, di guardare senza vertigini il panorama della propria gloria. Serenità davvero divina dalla quale nasce la celata ironia cesarea, che non è dubbio, ma lieta supe-
riorità di un adulto che racconta ai bimbi imprese per essi sovrumane, per lui forte ed ardito, facili e quasi banali.
Il Gundolf che vuol scorgere nella figura di Cesare il punto di perfetta fusione delle differenti civiltà greca e latina, ravvisa
appunto
in tale compiuta
misura,
in
quest’armonia trasmutante in spirito l’ereditate forme dell’ava Afrodite, la caratteristica che distingue Cesare da Alessandro, da Napoleone e da altri fratelli suoi, altissime
menti cui tuttavia non mancò talvolta lo stordimento della propria altezza. E poiché è indubbio che perseveranza romana e agilità greca si riassumono nello stile di Cesare, egli è giustificato nello stimare che i Corzzzentari offrono da soli la misura del genio del loro autore. Nessun eroe fu più lontano di Cesare da ciò che possiamo adesso chiamare «romanticismo» e il Gundolf fa notare come malgrado la rapidità leggendaria (quella rapidità che sgomenterà Dante pur fra gli abissi dei cieli), le campagne cesaree, come vengono esposte nei Corzzzentari, si apparentino più alle sapienti opere dell’agricoltura che ‘all’affannosa fatica della caccia. Se non a definire la personalità storica certo a creare la leggenda di Cesare sarebbero stati sufficienti i suoi scritti. E i due autoritratti, quello che lo mostra capitano e governatore, guerreggiante e legiferante in nome del popolo romano durante la guerra di Gallia; e l’altro ove lampeggia la figura del supremo reggitore, del semidio offeso della guerra civile, ci offrono dell’eroe immagini quali nessuno ha saputo in seguito evocare. E come sfondo la lunga epopea, i fiumi varcati combattendo, le
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isole misteriose raggiunte, il Rubicone, Farsaglia, la plebe mutevole e l’ardente pazienza delle legioni. Ma quel mondo corso e debellato aveva un suo aspetto, le folle pigmee che nei Corzzzentari sono contemplate con signorile distacco, possedevano una voce: ed è dal coro di voci consenzienti ed ostili che la gloria futura prenderà il suo canto. Occorre quindi conoscere anche i contemporanei di Cesare. Primo fra questi, Cicerone. Il Gundolf analizza acutamente la personalità del grande oratore e attribuisce l’ondeggiante contegno suo rispetto a Cesare al dissidio, in Cicerone immanente, fra
una sensibilità e una coltura ellenica, pronte ad abbandonarsi al fascino della grandezza, e il sentire e la dottrina sinceramente repubblicani e romani. Osservatore sagace e, rispetto a Cesare, anche leale, Cicerone possedeva però ampiezza di vedute sufficiente a fargli interamente comprendere l’avversario. Sempre ammiratore dell’eroe, fu quasi sempre oppositore dell’uomo di stato; ed è dall’opinione ciceroniana che deriva il tono di tutti gli oppositori dell’«imperator», da Livio agli storici dei giorni nostri: l’incondizionata ammirazione del genio mista all’implacabile avversione per la sua politica. Cicerone era stato, nella prima gioventù, condi-
scepolo e amico di Cesare; e le prime lotte politiche, durante le quali presero parti contrarie, intiepidirono senza spezzarli i vincoli di personale amicizia. Durante le guerre galliche le relazioni ridivennero più cordiali: Cesare considerava Cicerone quasi suo agente nell’Urbe e gl’inviava frequenti lettere che affascinavano l’Arpinate per la loro alta affabilità e cortesia. Cicerone da parte sua raccomandava al vittorioso capitano giovani patrizi desiderosi di combattere in Gallia; e il fratello stesso del grande oratore, Quinto, divenne prode luogo-
tenente di Cesare. Era Cicerone che proponeva al Senato festeggiamenti per le vittorie galliche, fu Cicerone ad
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esaltarle in una sontuosa orazione. In compenso Cesare gli dedicava con alte lodi la sua Aralogza. Idillio — Improvvisamente tutto cambia: Cicerone entra nelle file pompeiane e prende parte attiva, se non estrema, nella lotta contro Cesare - Dopo Farsaglia nuova riconciliazione — Cicerone prende dimora a Roma, intercede in favore di parecchi amici esiliati; valido inter-
cessore ché Cesare rispetta sempre in lui, se non il carattere, almeno l'ingegno. Nell’orazione Pro Marcello Cicerone trova accenti commossi per magnificare il dittatore clemente: «Siamo stati vinti, potevi farci morire
tutti». Ma la dignità dell’ex avversario vien salvata da qualche severo ammonimento celato tra i festoni dell’oratoria: «Hai fatto abbastanza per meritare l’ammirazione degli uomini, non ne hai però ancora meritate le lodi». Frase che, in innumerevoli variazioni, sarà il te-
ma di tutte le opposizioni ideologiche a tutti i Cesari, che potrebbe ad esempio servir da epigrafe alle pagine anti-napoleoniche di Chateaubriand. In seguito le relazioni tornano ad inacidirsi. Cicerone pubblica l’Apologia di Catone. Con la consueta abile affabilità Cesare gliene fece ampie lodi; ma rispose col proprio violentissimo Ant:-Catone, adesso sventuratamente perdutosi. La corrispondenza privata di Cicerone in quegli anni è piena di motteggi, di scherzi crudeli contro Cesare e le opere sue; finché dopo gl’Idi di Marzo egli erompe in urlo di quasi ferina violenza. Scomparsa la personalità affascinante, l’odio per la politica cesariana sembra non dover trovar più freni in Cicerone. Eppure, nella Seconda Filippica egli giunge ad un più giusto apprezzamento della mente di Cesare. In complesso l’opera ciceroniana giovò alla gloria di Cesare. E vero che'è dalle opere di Cicerone che ha inizio quel doppio movimento di approvazione intellettuale e di disapprovazione etica che accompagnò fino al Rinascimento il nome di Cesare; è vero anche che fu
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Cicerone a creare il mito catoniano sempre contrappo-
sto a quello di Cesare; ma è necessario riconoscere che egli riuscì, pur nel fervore della lotta quotidiana, a considerare sempre l’avversario nella sua interezza, a vederlo da vivo quasi storicamente. E mai, com'è consuetudine di altri, mediocri, si attardò a rilevare le minuzie, i «pec-
cati» che in Cesare furono tanto numerosi. E per apprezzare la differenza dell’intelletto di Cicerone da quello di minori avversari basta considerare la grettezza delle critiche di Catullo e le meschine difese di un partigiano di Cesare, quale Sallustio.
Terminata questa esposizione degli effetti dell’opera di Cicerone su la gloria di Cesare, il Gundolf passa ad esaminare l’opera di altri due contemporanei dell’«imperator»: Catullo e Sallustio, figure di prim'ordine in letteratura, ma innegabilmente di secondo rango politicamente, e che di questa loro mediocrità recano chiari segni nel loro opposto giudizio su Cesare. Catullo, tipico rappresentante e voce di quella gioventù aristocratica ricca di sensibilità e non priva di idealismo che stava per essere spodestata, mancava dell’ampia visione che gli avrebbe permesso di misurare l'avversario anche criticandolo; e se la prende con i suoi seguaci e, armato dell’infallibile buon gusto suo e di una certa tenacia nell’odio e negli amori che gli conferivano un’apparenza di principi morali, fu instancabile fustigatore della corruzione e dell’avidità di molti partigiani di Cesare. Critica preziosa per noi perché ci apre uno spiraglio su l’opinione di quella gioventù fra la quale annodò le sue fila la congiura di Bruto, ma che rimane estranea alla grande
ficura della lembo della Appunto fu Sallustio.
quale non riesce ad imbrattare che l'estremo veste. uno dei seguaci di Cesare, e dei più corrotti, Preso da una tardiva mania di moralista ci
presenta un Cesare astratto, quasi un carattere di Teo-
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frasto. Benché con finalità diverse egli accentua l’antitesi Cesare-Catone, che sarà portata all’esasperazione da Lucano. Quest’antitesi fu sempre assai più forte come im-
magine che come concetto. Catone che passa come esempio tipico della virtù sfortunata ha avuto in realtà la più rara delle fortune: quella di poter riassumere in un gesto tutta la sua attività: nell’immaginazione dei posteri l’ultima notte, il breve fulgore della spada sotto il cielo africano hanno potuto contrapporsi alla massa delle opere magnanime del rivale. L'efficacia del mito catoniano fu immensa; Dante ne doveva essere la vittima più illustre; e soltanto nel diciannovesimo secolo la folgorante reincarnazione di Cesare in Napoleone fece impallidire la dolente ombra del vinto.
Poco tempo dopo la morte di Cesare la sua gloria toccò il più alto degl’immaginabili vertici: la dinastia imperiale da lui fondata lo annovera fra gli Dei; il suo culto è ufficialmente proclamato, pubblicamente professato. Prodigiosa ascensione senza precedenti nell’antichità europea, ché la deificazione di Alessandro trae origine dalla conquistata Asia e differisce anche nei modi del culto cesareo: Alessandro ebbe preghiere in quanto discendente dagli Dei; Cesare invece da uomo è assunto
fra gl’Immortali. Teurgie diverse che rivelano, come osserva il Gundolf, un profondo senso della realtà psicologica in quanto Alessandro poté davvero apparire impeto splendido di forze naturali nell’ambito dell'umanità; mentre Cesare sta appunto a rappresentare un affinarsi illimitato e un ingigantire di facoltà puramente umane. Sagacissime pagine dell’opera di Gundolf analizzano le origini del culto di Cesare: a formarlo concorsero le varie correnti ideali che agivano a Roma in quel momento storico: l’immemoriale venerazione italica per idémoni dei luoghi e delle ore e quella specificamente romana per i simboli dello stato si unirono, e rafforzarono le ten-
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denze asiatiche all’adorazione della forza attiva e quelle elleniche perennemente protese verso l'esaltazione del compimento, della perfetta fioritura. Culto dunque rispondente a vere tendenze spirituali; favorito, senza dubbio, dalle lusinghe e dalla doppia necessità per Augusto e di fondare su salde basi la propria dinastia e di allontanare pesanti paragoni; provvedimento nel quale quell’enigmatico imperatore manifestò insieme la genuina modestia e l’innegabile orgoglio. Considerazioni personali e politiche che poterono affrettare l'ufficiale venerazione dell’eroe ma che non ne furono certamente la causa esclusiva. In questo medesimo suo sublimarsi la gloria di Cesare corse il più grave dei pericoli: una forza che durante decenni ha foggiato l’umanità non diviene impunemente pura astrazione; relegata nelle inaccessibili profondità dei cieli acquista insieme allo splendore anche l’indifferenza degli astri. La relativa frigidità delle lodi dei poeti ufficiali augustei rivela come di già il ricordo di Cesare cominciasse a mummificarsi fra gli aromi e gl’incensi. Il dittatore è assiso al convito divino, e questa promozione suprema ha saldato ogni suo credito: è al nipote umano che si rivolgono i carmi e le suppliche tiepide di vita. Quanto dovesse essersi allontanata l’ombra di Cesare durante il regno di Augusto, si può giudicare anche dalla glaciale magnificenza del verso virgiliano «imperium oceano famam qui terminet astris» che è triste dell’infinita distanza dei mari e dei cieli, in così forte contrasto col verso famoso di Dante, tutto carne e nervi.
Durante i tredici secoli ha percorso un cammino è ridisceso sulla terra. Un anche negli storici minori
intercorsi il ricordo di Cesare opposto al consueto; dal cielo tale irrigidimento si fa notare come Diodoro, Asinio Pollio-
ne, Velleio Patercolo; o almeno in quanto della loro
opera avanza. Nell'opera di Appiano si affaccia per la prima volta il paragone con Alessandro che in seguito
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avrà così confortanti sviluppi. Durante l’età augustea soltanto Germanico, conscio delle difficoltà superate, ha per Cesare parole di «umano» apprezzamento. È difficile immaginare fino a qual punto sarebbe giunto il distacco del nome di Cesare dalla vita vissuta, se il suo culto fosse stato davvero generale. Fortunatamente per la fama terrena di Cesare una larga corrente non vedeva nel «Divus Julius» altro che lo spietato uccisore della Repubblica; per questi egli era una figura avversata, dunque un vivente. Ed è appunto negli scrittori di opposizione, in Livio e più tardi in Tacito e in Plinio che troviamo una più fervida se non più giusta comprensione di Cesare. Livio pone il famoso dilemma se di Cesare sia stata più utile a Roma la nascita o la morte. Non occorre conoscere la risposta per apprezzare l’importanza della domanda: chi è ancora a tal punto discusso è un contemporaneo, non un mito astrale. Il punto di vista ciceroniano è ripetuto negli apprezzamenti di Tacito, con maggiore comprensione; ed è al repubblicano
Plinio che siamo debitori di un eccellente schizzo delle particolarità cesariane, inserito nella Storia Naturale quale esempio di una meraviglia del mondo. Ma nessuno di questi scrittori ha per la storia di Cesare l’importanza di Svetonio e Plutarco. Né l’uno né l’altro hanno preteso di interpretarne le azioni o di fissare linee essenziali: ma essi hanno compiuto l’indispensabile processo di cristallizzazione delle peculiarità esteriori dell’eroe, di quelle incidentalità che per sempre lo distingueranno dalle altre figure storiche. Le cognizioni che Svetonio possiede su Cesare non sono né estese né
tanto meno profonde; sono però precise. Inestimabile qualità quella nettezza del conio per una moneta destinata a esser barattata nelle folle dei secoli. Mercé Svetonio penetriamo nell’intimità di Cesare, intimità che, a
smentita del proverbio servile, non sminuisce le vere grandezze. Per usare una frase del Gundolf, l’opera di
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Svetonio è rispetto a Cesare quel che una visita a Pompei è per la conoscenza del mondo romano; nessuna imponenza di monumenti e nessun senso di fatali destini, ma una familiarità rispettosa e l'improvvisa sorpresa di sentir tepide di vita, magari di meschina vita, le statue togate. Svetonio ci dà modo di penetrare nei gusti privati di Cesare: conosciamo le frange delle sue vesti, i gusci di noce coi quali si depilava, gli oggetti d’arte che preferiva, gli emetici che gli occorrevano, la sua morale o la sua immoralità domestica. Meno preciso di Svetonio ma infinitamente più artista, Plutarco è stato il vero «poeta» di Cesare. Egli è il padrino di tutte le opere di poesia che l’Imperator ha ispirato: la sua forza rappresentativa, l’intenso significato di ogni aneddoto riferito rendono la sua opera indispensabile a qualsiasi apprezzamento di Cesare: le più alte figurazioni che ci rimangono delle vicende cesaree hanno la loro origine da quelle splendenti e celebrate pagine. Né si può, per altro, malignare e sostenere che la grandezza umana di Cesare sia esclusiva derivazione di Plutarco: perché la figura agisce direttamente su noi che dimentichiamo le massime morali e i paragoni coi quali lo storico ha voluto appesantire la
propria opera. Le pagine che il Gundolf ha dedicato a Plutarco sono fra le più intelligenti dell’intero libro e contengono anche un'originale disamina della diversa importanza dell’aneddoto per la storia degli antichi e
per quella moderna. Ma l’opinione del Gundolf è riassunta nelle parole che chiudono questa parte dell’opera sua: «Plutarco intendeva soltanto di proporci esempi edificanti e piacevoli; invece è riuscito a risuscitare per noi l’afflato magico degli eroi greci e romani, i più coloriti miti della grandezza storica». Il placido Plutarco pervenne senza volerlo alla creazione di un mito cesareo; il disordinato talento di Luca-
no che si era prefisso di risuscitare le ombre di Pompeo e di Catone fu trascinato dall’argomento stesso che ave-
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va scelto e lasciò ai posteri una delle più potenti immagini poetiche dell’avversato Cesare. Certamente il vincitore di Farsaglia non riscuote le simpatie del poeta; ma domina il poema e ci sta dinanzi terribile e affascinante come il Satana di Milton e il Tamerlano di Marlowe; mostri odiati dal loro creatore ma
a cospetto dei quali l’angusta virtù degli altri personaggi appare esangue e vuota. Fortemente dovette sentire Lucano il «pathos» della guerra civile, dello smisurato conflitto il cui frastuono turbò per alcuni attimi fin la lucida compostezza dei Commentari cesariani; e malgrado gli innumerevoli difetti del poema è necessario riconoscere che la tragedia mondiale è veramente espressa in quei versi; in Lucano vi era una genuina ammirazione per la grandezza in se stessa, un patetico desiderio di possenti destini da contrapporsi a una vita che fu senza dubbio meschina e forse infame; i tragici paesaggi del poema, la notte frequente di brividi e di presagi che precede Farsaglia, le lagrime del vincitore sul capo del morto Pompeo rimangono nella nostra memoria quali elementi essenziali della figura di Cesare; e nel poema di Lucano il contrasto
dell’«imperator» con Catone, iniziato da Cicerone, teorizzato da Sallustio, viene ripreso e assume appunto quelle apparenze esteriori e quelle movenze drammatiche alle quali sarà debitore della propria importanza. Gli ulteriori storici latini, troppo asciutti cronisti, quelli greci, troppo ornati retori, i cronografi bizantini che presentano un difettoso ma vano miscuglio di entrambe le maniere, non aggiungeranno più nessuna linea al ritratto tracciato da Svetonio e Plutarco, colorito da
Lucano. Con le opere di questi l’immagine storica ed estetica di Cesare assunse lineamenti precisi che più non muteranno durante l’antichità classica. Era tempo, del resto, che si giungesse a questo irrigidimento; scompar-
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so con Nerone l’ultimo sovrano che potesse inorgoglirsi di sangue giulio e stabilizzatosi nel contempo l'impero, vennero a mancare insieme alle ragioni di opposizione anche alcune delle necessità del culto cesareo; era urgente quindi che vi fosse una figura storica da sostituire
al nume, soppiantato in gran parte dal culto dello stato meglio personificato in Augusto. Cesare, del resto, aveva così intensamente riassunto in
se stesso l’idea romana e l’impero che tutte le forze disgregatrici della romanità e dello stato dovevano necessariamente convergere ai danni della gloria di lui. E gli Alessandrini gli antepongono risolutamente Alessandro: e ciò non soltanto per naturale orgoglio del rinascente ellenismo ma anche perché il romantico macedone, più orientale, meglio si lasciava avvolgere dalla nube di sogni d’ogni genere che, in quei secoli, precedevano da Levante le turbe dei cavalieri persiani; e il grande spezzatore di limiti, più distruttore che creatore, assai più echi dell’inquadratore Cesare ridestava in un mondo stanco che veramente agognava la morte. E anche il cristianesimo agiva contro Cesare: supremo valore del mondo antico egli fu il primo a subire le conseguenze dell’immane trasmutazione di valori effettuata dai Padri. S. Agostino, per citarne soltanto uno, se ne occupa frequentemente ma contempla tanta gloria terrena da un al di là fuori del tempo e Cesare è per lui (come si direbbe adesso) un sorpassato; il senso dell’epopea è mutato: essa non è più la crisi di un mondo e lo sbocco fatale di tutta una civiltà ma un episodio soltanto dell'eterna battaglia di Dio; il perfetto esemplare di umanità è soltanto un esempio, prezioso quanto più illustre, della caducità delle umane cose. Ripete Agostino il confronto lucaniano fra Cesare e Catone, ma al solo scopo di annientare e la gloria ela virtù pagana ai piedi della Croce. È impossibile seguire passo a passo l’opera del Gundolf in quella parte in cui analizza l’azione personale dei
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singoli imperatori riguardo alla gloria cesarea. In queste
pagine si nota come l’idea di Cesare rinverdisse insieme alle fortune dell’impero, scomparisse nelle sventure; ma anche nei momenti più felici essa è tinta della melanconica luce di tramonto che avvolge tutta la decadenza romana. Marco Aurelio loda Cesare per l’umana sua mitezza e (paradossale adattamento imperiale del concetto cristiano) lo addita quale esempio della «vanitas vanitatum». L’eroico e triste Alessandro Severo, la più nobile
figura d’imperatore conscio, lo esalta quale modello di fiera morte; Diocleziano ricostruisce il tempio di lui in-
cendiatosi ma distrugge la creazione statale cesariana sostituendo al culto della personalità eroica il freddo funzionamento di una monarchia burocratica. Giuliano ne disegna la figura con rispettosa ironia; lo stima il solo uomo paragonabile ad Alessandro; però, soggiunge l’austero apostata, «più carico di peccati».
Le voci si affievoliscono. Giustiniano, laggiù nella città greca ed asiatica, lo invoca ancora insieme ad altri
eroi e a molti santi, nell’esordio alla raccolta delle leggi, tarda realizzazione di un disegno cesareo. Poi più nulla. L’urlo barbarico soffoca le ultime voci latine. Tutto quanto era stato fondamento della gloria di Cesare giaceva in frantumi: il nume sostituito da una più potente divinità, l'impero polverizzato, lo scrittore ignorato, la personalità morale dimenticata o svalutata di fronte ai nuovi ideali etici. Roma, posta a sacco dai barbari di quella selva germanica che Cesare aveva per primo esplorata, sanguinava in una vana vicenda di conflitti con i vescovi e i basilei tutti ostili al mondo crollato se pur tutti miranti a sostituirlo. Nel fitto dell'Alto Medioevo, durante le età oscure, come dicono gli storici inglesi, non tutto
fu tenebra: roventi anime preparavano l’avvenire; ma, reazione al paganesimo tutto visivo, i tempi erano ciechi alle grandi figure e sordi all’eco delle grandi glorie.
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Sotto l’urto della nera tempesta storica la fiamma avrebbe potuto estinguersi. Nell’ora delle supreme catastrofi la fama di Cesare trovò rifugio nel nome: essa valicò le più dure età poggiata alle sei lettere prodigiose. Sei secoli prima, sulle rive d’un lago di Siria, Uno aveva
preso una moneta e aveva ammonito che anche verso Cesare vi erano dei doveri da compiere. Chi, Cesare?
Forse ignoravano chi fosse le plebi cristiane ascoltanti il Vangelo, ma un potente e un giusto era stato di certo, se gli si era reso un simile, sia pur disdegnoso, tributo. E ancora laggiù, nella città dorata fra i due mari, sopravviveva il nome di Cesare, vacuo titolo di onore largito talvolta ad un amico da un imperatore orientale. E basta. Sopravvive quella parola, talvolta interamente svuotata di significato: sonora, metallica, storpiata dalle dizioni nel crogiuolo dei popoli, ma onnipresente: una formula incantatoria quasi, un rito di teofania, un
simbolo in quelle età di credenze astratte e di segni, un nome. Un nome magico. Ma questa parola, non più evo-
catrice di ricordi, era segnata su tutta la terra europea e scintillava fuori da ogni rupe percorsa. I Germani da essa datavano il proprio ingresso nella storia e si inorgoglivano di aver combattuto le prime battaglie contro quella misteriosa potenza. Più tardi, quando avranno più netta coscienza nazionale, ne faranno, con devota contraddi-
zione, il loro primo re. In Gallia, in Spagna, sul Reno i ricordi cruenti della conquista non erano scomparsi ma si erano trasformati in leggende benefiche. Per oscuro intuito dei popoli l’aspetto distruttore di Cesare era stato obliterato dal tempo, permanendo solo la sensazione che vedeva in lui il fondatore della civiltà europea. Firenze era stata costruita da Cesare, si diceva; e Parigi da
Cesare invocava le origini; campo di Cesare e valico delle legioni Londra; Cesare padre di Siviglia. Alla suprema investitura cesarea si richiamavano queste città, allora umili poi culle della civiltà moderna. Chi, Cesare? Non
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importa: il nome è magico ed augurale; esso ha assorbito tutta l’attività dell'impero; ciò che si ricordava romano
non poteva che esser opera sua. Worms e Spira, Magonza e Oppenheim, Tournai, Cambrai, Verdun, Gand, Worcester, tutte le città che
aspirano a nobiltà di origini vogliono esser state fondate da lui. Sulle ali della fantasia popolare la forza del nome varca financo i confini dell'impero quale fu nel suo massimo fulgore: borghi pomeranici e sassoni dove mai legionario pose il piede, ancor adesso vantano la torre o il «castrum» di Cesare. Il vescovo Ottone di Bamberga recatosi nell’estrema Pomerania a evangelizzare i Vendi trovò quelle tribù in adorazione di una lancia e di una colonna: la lancia e la colonna di Cesare. I barbari abitatori della Danimarca affermavano a chi li voleva convertire che Cesare aveva istituito colà il culto della luna. Mai quanto in quei secoli in cui sopravviveva il solo suo nome, fu vasta l’influenza di Cesare. Senza dubbio potenti correnti si agitavano sotto questa mitica popola-
rità: le influenze nostalgiche di Bisanzio, quelle giovanili della Chiesa; l’inconsapevole desiderio di unire la saggezza latina alla forza germanica, il naturale distendersi e incivilirsi sotto i soli meridionali della ferocia barbarica, quel movimento di idee che si iniziò sotto Teodorico e fu la tragedia del suo regno e che doveva concretarsi nella figura di Carlomagno. Queste furono le forze reali che agirono mediante quelle ferree e (allora) vacue sillabe. Ma chi può dire quanto avrebbero tardato a maturare se non avessero trovato un così fiero nome su cui poggiare? Ma la fantasia popolare non può accontentarsi a lungo di un semplice nome, fors’anche magico; e quando le fanno difetto elementi precisi con i quali unificarlo essa si affretta a ricorrere a quelli immaginari. Del resto un po’ di luce filtrò nelle tenebre opache durante ciò che si è chiamato il rinascimento carolingio; la conoscenza dei
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testi antichi andava lentamente migliorando: ed è appunto dagli antichi scrittori, attraverso inesatte traduzioni, goffi adattamenti e cervellotiche interpretazioni, che prese origine la tradizione popolare medioevale su Cesare, come sempre ingrossata da stupefacenti immaginazioni e talvolta da felicissimi intuiti. I romanzi della Tavola Rotonda mettono in scena un Giulio Cesare devoto cattolico che assiste alla messa nella sua cappella privata; questo Cesare cristiano è del resto contemporaneo di re Artù e amico del mago Merlino dal quale apprende come la moglie lo tradiva. Strana mistura d’immaginazione e di retta tradizione, in quanto l’adulterio della «male emperière» è narrato con particolari che ricordano da vicino l’aneddoto famoso della moglie di Cesare. Altrove si narrano le guerre con Gog e Magog, il dominio cesareo su la Germania, l'Ungheria e le Indie, le vittorie su i Goti, iGaramanti e i Saraceni; né si tace degli
amori dell'eroe con la fata Morgana e con la regina dell’Isola Nascosta e lo si identifica con Oberon re degli Elfi; da un accenno della Canzone d’Orlando ci è rivelata
la discendenza di Gano da Bruto, mentre altrove apprendiamo che ad uccidere Cesare furono gli amici di Virgilio, irritati dagli scherni della figlia dell’«Imperatore» contro il poeta. L’infantile mania medievale di riannodare elementi disparati ha creato genealogie prodigiose: talvolta Cesare figura quale figlio di Brunilde, talaltra quale nipote di Giuda Macabeo; una saga irlandese gli attribui-
sce la paternità dei cavalieri del cigno, e nelle canzoni francesi tutti i più illustri cavalieri lo annoverano fra i loro antenati; una volta lo troviamo addirittura nonno di S. Giorgio; innumerevoli poi sono le case papali, imperiali, reali e principesche che lo pongono alle radici del proprio albero genealogico. Il Medio Evo catalogatore raggruppava volentieri in ragionate liste i nomi dei migliori cavalieri del passato; o ne dipingeva o scolpiva le immagini sui libri o sulle cattedrali; in simili liste (sempre com-
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poste di nove nomi) è raro che manchi quello di Cesare; esso figura insieme a quelli di Ettore e di Alessandro, di Giosuè, Davide e Giuda Macabeo, re Artù, Carlomagno
e Goffredo. Quest’uso di raggruppare nove prodi si protrasse a lungo, fino al XVI secolo; Chaucer vi accenna e a
Carlo VIII di Francia fu dedicato un libro: Triorzphe des neuf preux. Esistono ancora dei mazzi di carte da giuoco del ’500 nei quali Cesare e Carlomagno, Alessandro e re Artù figurano quali re, gli altri eroi come valletti. Nelle Pene d'amor perdute Shakespeare ci mostra una mascherata alla quale intervengono i nove prodi; in essa, come talvolta avveniva, Pompeo Magno aveva sostituito il suo avversario. Nei trattati di politica Cesare interviene sempre quale altissimo esempio, talvolta in gara con Alessandro, e sempre il suo nome apre la lista delle virtù necessarie all'ottimo principe. «Julii strenuitas, felicitas Augusti, Titi liberalitas, innocentia
Traiani, Constantini
fides,
Theodosii poenitentia, magisterium Justiniani, magnanimitas Caroli, facetia Henrici», comincia la cronaca di Ro-
dolfo. Assai spesso è additato quale modello di sovrano amico delle lettere, affratellato in questa inclinazione tal-
volta a Salomone, talaltra ad Augusto e a Carlomagno, come nello Specchio dei regnanti di Giovanni di Salisbury o nell’opera di Gerardo di Cambrai. Coro di lodi che si sintetizza negli esametri scritti da Stefano di Rouen al tempo del Barbarossa: «Clarius hic eloquio sensu virtute triumphis, — clarior in mundi climate nemo fuit. — Miliciae probitas, decus orbis, luxque sofiae, — regum sol radians fulguris instar habens — Nascitur imperii Romani splendor ab isto - Romulidea laudis Caesar origo fuit». Ma l’immaginazione popolare medioevale fu colpita dalla morte di Cesare più che da ogni altra cosa. Assecondata dalla corrente patristica che aveva appunto insistito sul tema della morte repentina e violenta dell’uomo trionfale, questa immaginazione si sbizzarrì in mille mo-
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di circa la morte e le sue cause, i funerali e la tomba. Le vittorie, le leggi, il valore e le virtù di Cesare sono, nel sentimento medioevale, favole per i bimbi; il vero am-
maestramento sta nella sua morte; egli era stato posto così in alto soltanto per meglio mostrare la vanità delle fortune umane. Si ripete continuamente il distico famoso che alcuni dicevano inciso sulla sfera d’oro che aveva racchiuso le sue ceneri:
Caesar, tantus eras quantus et orbis sed nunc in modico clauderis antro.
Numerose poesie in ogni lingua d'Europa svolgono questo tema. È una trenodia che echeggia fin nel tardo Rinascimento e che si chiude col sospiro di Amleto nel cimitero: «Imperial Caesar dead and turned to clay...». I funerali di Cesare vengono diversamente narrati secondo il prevalere, nello scrittore, della gioia aulica della pompa o dell’umiltà religiosa. Secondo il Libro Imperiale il cadavere fu trasportato «cinto dalla corona di saggezza di Minerva» fra il clamoroso compianto del popolo e la magnificenza feudale della nobiltà. Invece Jacopo della Lana, nel suo commentario dantesco, narra i fune-
rali notturni e segreti dell’eroe. L’Agulia stessa, la favolosa colonna tombale di Cesare, era avvolta in un nimbo di favole e, unico resto tangibile del passato, ha vivamente eccitato la fantasia popolare; alcuni la dicono
eretta dal mago Virgilio, altri la vogliono ereditata da Salomone. Meravigliose descrizioni ne facevano i romei di ritorno alla patria lontana e fino al secolo XVI i cronisti, in ispecial modo quelli inglesi e tedeschi, sono prodighi delle più svariate notizie circa il suo nome, la sua altezza, le sue iscrizioni e la sua provenienza. Durante il Medio Evo le vaste, profonde e imprecise cognizioni circa la morte e i funerali e la tomba di Cesare sostituiscono tutto ciò che adesso è il luogo comune della leggenda cesarea dal Rubicone al «Veni, vidi, vici». E soltanto du-
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rante il Rinascimento il popolo si occuperà più dell’azione che della scomparsa di lui. Rintracciato così il rivolo della permanente gloria di Cesare nel popolo, il Gundolf ritorna indietro e si dà ad esaminare l’evoluzione dell’idea cesariana negli spiriti più alti e specialmente negli imperatori germanici che lentamente vanno riaccostandosi a lui e acquistano sem-
pre maggior coscienza dell’ereditato impero. Durante il Medio Evo troviamo tra gli scolastici i soli avversari di Cesare; avversione che non è tanto argomento papale contro il prepotere imperiale quanto risveglio del pensiero indipendente contro la credenza nei segni e nei nomi. Per Anselmo di Canterbury Cesare è, insieme a Nerone e a Giuliano, uno dei tre anticristi, predecessori
dell’antipapa Enrico. Avversione inasprita dalla ripugnanza cristiana del polemista verso il possente e il gaudente e che, nel caso particolare, è una dell’estreme con-
seguenze della corrente di negazione etica che abbiamo visto iniziarsi con Cicerone, aggravarsi con Lucano ed esser diffusa da S. Agostino; e che è anche uno dei prodromi del culto per Catone e per Bruto che vedremo fiorire durante il Rinascimento. Ma che questa corrente non fosse ancora forte ce lo prova il fatto che nessun Papa nella lotta contro l’Impero si servì mai, quale argomento polemico, delle colpe del primo imperatore; ed appunto fra i più convinti partigiani del Papa troviamo i più fervidi ammiratori di Cesare, sino a Tommaso d'Aquino con la strana indulgenza ch'egli dimostra verso il culto cesareo. E Bonifacio VIII giunge fino a fregiarsi del suo nome: «Ego sum Caesar, ego Imperator». Che Cesare riunisse in sé i poteri temporali e quelli spirituali i contendenti quasi non lo sapevano, eppure oscuramente ognuno si appellava a lui quale precedente riunione di entrambi i poteri: mai la Chiesa si rivoltò
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contro di lui quale persona o quale imperatore, ma solo contro quel mondo che in lui si affermava. Prima di Carlomagno i vari dominatori germanici di Roma mancano di una netta coscienza storica. Erano talvolta, come Teodorico, anime profonde percorse da aspirazioni di ordine superiore; ma in essi queste aspirazioni non giunsero mai a delinearsi e a fissarsi. Con Carlomagno invece si sente che lo stato di continua guerra e di transitorietà è passato; e subito in lui si reincarna il titolo di Cesare e così lo chiamano spesso i poeti tanto latini che germanici. Non sappiamo con precisione se
Carlomagno abbia conosciuto o no la personalità storica di Cesare; ma è certo che il suo Eginordo fu buon conoscitore di Svetonio e forse anche dei Comzzzentari; du-
rante il suo regno il monaco Errico ricercò le tracce dell’antica Alesia basandosi sui dati cesarei: come dubi-
tare che essi abbiano fatto parte delle loro cognizioni all’imperatore che ci è sempre mostrato così avido di sapere? E se bisogna intendere letteralmente i versi di Ermoldo Nigellio diretti a Carlo il Pio, Carlomagno stesso,
al letto di morte, avrebbe scelto quale supremo titolo di onore quello di essere stato il primo Cesare uscito dalla stirpe franca. Quest’ansia di riannodarsi all’antichità romana si calma un poco al tempo dei suoi successori immediati, più esclusivamente germanici e troppo vicini alle gesta del grande Carlo per sentir il bisogno di richiamarsi ad altri lontani modelli. Ma quanto più l'Impero s’ingerisce nelle cose d’Italia, tanto più i richiami a Cesare si fanno frequenti. Ottone III reclama i propri diritti in nome di Cesare e si considera suo erede con la stessa calma insistenza con la quale il papato si riconnette a Pietro. Si direbbe quasi che quegli imperatori cercassero in tal modo di costruirsi una legittimità di fronte all'Italia. Federico Barbarossa fu circondato di cultura classica: spesso voleva che si leggessero le gesta degli eroi greci e
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romani; l’Archipoeta spesso lo invoca con epiteti imperiali classici; Ottone di Frisinga ha cura di congiungere ogni sua cronaca alla storia romana ed era un attento lettore di Virgilio e di Lucano. E che tutto ciò non rimanesse esteriore ornamento culturale ma fosse divenuta assimilata mentalità lo dimostra il fiero rescritto imperiale diretto al Saladino nel quale il Barbarossa impone all’eroe musulmano di restituire «la provincia ch'io ereditai da Cesare e che tu contro legge detieni». Malgrado l'energia del gesto tutto ciò rimaneva ancora allo stato di velleità. Soltanto quando comparirà sulla scena Federico II, il magnifico imperatore cosmopolita, italiano, germanico e orientale, Cesare cesserà di essere un modello
distante di saggezza e valore per diventare, in uno spirito imperiale, volontà cosciente e forza operante.
Cessa qui la seconda parte dell’opera del Gundolf che abbiamo cercato di riassumere fedelmente: e comincia la terza e più complessa in cui si osserva l’infiuenza di Cesare da Federico II e Dante sino a Napoleone e Nietzsche su tutti igrandi creatori e osservatori della storia. Durante il Medio Evo era rimasta visibile soltanto l’aureola di Cesare; fin dai primissimi albori della Rinascita, però, gli occhi fatti più acuti cominciano a discernere anche i tratti del volto. La scolastica sostituisce al culto dei nomi il concetto di valore; la nuova civiltà co-
munale veniva ridestando nelle masse il senso della materia e degli uomini; ci si prepara a considerare l’antichità classica più come un tesoro da spendere che come un museo d’irreparabili mummie. Federico II diceva profeticamente in quegli anni: le vecchie sorgenti adesso danno acqua nuova. Per Carlomagno; per Ottone III, per il Barbarossa Cesare era stato un nome lontano, un fondatore di diritti, un prezioso «precedente» diplomatico, un argomento polemico: per il grande Svevo egli
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diviene anche un modello personale che occorre sforzarsi d’imitare con l’azione, con lo stile di vita: è durante il regno di Federico che il titolo di Cesare viene ufficialmente adottato accanto a quelli di Augustus e d’Imperator; le monete coniate per lui recano il profilo del dittatore e il Gundolf, forse con soverchio fervore, le chiama le prime medaglie del Rinascimento; in un rescritto imperiale si legge la denominazione affettuosa di «Magnificus ille Julius Caesar»; e in molti eventi di quel regno luminoso si trovano segni della volontà imperiale di uniformarsi alla maniera del predecessore grandissimo. Dopo la battaglia di Cortenuova Federico II scrive a Roma esser suo proposito di celebrare il trionfo «così come Cesare»; quando decreta gli onori funebri al figlio Enrico morto ribelle egli si richiama espressamente alle lagri-
me di Davide e di Cesare sui cadaveri di Assalonne e di Pompeo. Buon conoscitore del poema di Lucano com'era, a lui fu certo gradito il richiamo di alcuni versi esaltanti la clemenza cesarea che gli venne fatto da Papa Onorio, desideroso di disporlo a mitezza verso certe città assediate. Ma la nuova civiltà si propagava a spinte, con improvvisi progressi e arresti e rinculi inaspettati; e
il Gundolf per dimostrare ciò si addentra in un attento esame di due opere, il Policratico di Giovanni di Salisbury composto verso il 1160 e il De Regizzine Principum di Tommaso d'Aquino, scritto circa un secolo dopo e fa notare come l’Aquinate, non ostante l’altezza del suo spirito e i cento anni intercorsi, si riveli, rispetto alla storia, assai più lontano dall’albeggiante umanesimo di quanto non lo fosse stato il meno illustre inglese. Questi mostra ad esempio di ammirare alcuni versi classici per la loro bellezza formale, indipendentemente dal loro contenuto dottrinale; in lui di già il Cristianesimo, cosciente di se stesso e della propria vittoria, esamina i secoli del paganesimo con una certa serenità e raddolcisce la propria intransigenza verso il passato: egli riprende il
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paragone agostiniano (e lucaniano) fra la gloria cesarea e la virtù di Catone, però non lo termina con l’asprezza dei primi Padri, ma timidamente prosegue: «Catone era più vicino al vero»; Traiano è esaltato sopra ogni altro per la virtù sua; Bruto incomincia ad esser caratterizzato
e Cesare incomincia a palpitare di vita: egli è capace di suscitare passioni e infatti il monaco inglese ricorda con
orgoglio di razza l'insuccesso delle spedizioni dell’«imperator» in Britannia.
L’opera di Tommaso d'Aquino segna, da questo punto di vista, un passo indietro. La conoscenza delle fonti classiche è profonda ed esatta; lo spirito che le interpreta è rigidamente medievale. Caratteristicamente, ogni cosa viene esaminata in rapporto ad altre cose e mai per il proprio valore intrinseco; esempi vengono tratti dal medesimo episodio per provare verità opposte; tutto è adoperato al fine dell’esaltazione della società religiosa: così le accuse di Cesare al potere dei Druidi gallici servono a provare una predeterminazione divina alla supremazia ecclesiastica, anche fra i pagani; la morte di Cesare non è considerata quale tragedia storica, ma insieme alle tragiche fini di Ciro e di Alessandro quale prova della potenza divina; e la sua persona è a volta a volta additata ai principi quale esempio di liberalità e di semplicità o esecrata quale pericoloso simbolo dell’usurpazione e della violenza. Dopo un secolo dalla compilazione di Giovanni di Salisbury che lasciava percepire l’esistenza di un soffio nuovo, ci si trova dinanzi a un’opera possente, indubbiamente, ma chiusa a qualsiasi moderna possibilità; una di quelle opere medievali nelle quali, per usare un'immagine del Gundolf, «i frammenti del mondo classico sono riconoscibili ma vengono arbitrariamente adoperati per formare un mosaico
NUOVO». Lo Spirito della Terra insegna al Faust goethiano che una entità può esser evocata soltanto da una entità che le sia eguale. Il miracolo di far ritornare fra i viventi, dal-
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la buia profondità di dieci secoli, la personalità di Cesare, di infondere nuova vita a ciò che era la vuota buccia
dell'impero, poteva esser compiuto soltanto da un’anima pari a quella di Cesare per intensità e ampiezza vitale. Era necessario che venisse Dante. La sua, dopo quella di Giuliano, è la prima immagine vivente di Cesare: le migliaia di parole scritte su tale argomento durante l’intero Medio Evo divengono indistinto mormorio poste in confronto dell’unico verso del IV canto dell'Inferno, e delle cinque terzine del VI del
Paradiso. Ecco ridivenuto carne (e tremenda carne) ciò che nei secoli fu astrazione politica ed etica, da un fantasma errante su tombe sconvolte. Eppure nessuna parola nuova, nessuna esplicita interpretazione originale in
questi versi: soltanto ciò che era indispensabile: un volto, dei lineamenti precisi espressi in brevi ritmi ardenti. Le letture classiche di Brunetto Latini non erano state certo né minori né meno intelligenti di quelle del discepolo suo: eppure i gioielli del Tesoro sono rottami senza
luce, centinaia di lettori e copisti medievali avevano prima di Dante letto e trascritto le parole di Svetonio circa gli occhi di Cesare: lettere erano rimaste, vane lettere.
Per primo Dante alzò gli occhi dal libro e fissò in volto l'eroe armato e scorse gli occhi imperiali; egli seppe comunicare la sua visione e subito l'Europa riconobbe l’indimenticabile padrone, e ancora lo serve. Come per l’immagine così per la storia di Cesare: cronache e romanzi erano stati riempiti dalle vittorie, dagli assedi, dalle stragi e dai trionfi, parole innumeri si erano propalate insieme a precisi riassunti di Svetonio, di Lucano e dei Commentari; tutto ciò era rimasto caos di nomi e di cose
e di figure, deposito ingombro di oggetti, senza luce, spazio, ordine o significato. Soltanto quando Giustiniano narrerà al poeta, con scarsi nomi e radi particolari, l’epopea dell'aquila, tutto ciò risusciterà, e ne sarà compreso e assimilato da tutti il succo epico e l’eterno signi-
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ficato. Chiarita così l’importanza grandissima che l’opera di Dante ha per la fama di Cesare, cioè quella del primo grande spirito che abbia fatto cessare lo stato di pura astrazione cui questa forza medesima era venuta riducendosi, il Gundolf esamina le idee di Dante stesso sulla personalità dell’imperatore. Troppo lungo sarebbe seguire l’autore in questa disamina che, pur fornendo interessanti interpretazioni al divergente atteggiamento
dantesco rispetto a Catone e a Bruto, non può del tutto convincere in quanto Dante è studiato unicamente qua-
le autore della Divina Commedia. L'esame si chiude con l'osservazione che la dottrina di Dante rimane interamente chiusa nell’ambito delle formule medievali mentre il suo intuito artistico lo aveva condotto a dare alla figura e alle gesta di Cesare una forma pari in intensità e splendore alle più belle che saranno in seguito escogitate dagli umanisti. Fu compito del Petrarca il dispiegare compiutamente le forze che in Dante rimasero solo in potenza, strette
ancora dalle rigide dottrine medievali: Cesare nelle opere del primo degli umanisti ridiventa una personalità storica, e con lui rivive tutto l’ambiente nel quale fu im-
merso. Anche la qualità dell’ammirazione di Petrarca per Cesare è differente e più moderna di quella di Dante: mentre questo venerava in lui il fondatore dell’impero, il primo s’interessa soltanto all’individualità eroica;
atteggiamento simile a quello di Cicerone e forse dallo stesso derivato; ma poiché il Petrarca non fu (come troppi suoi discepoli) un vile mimo dell’antichità, egli non si credette costretto a condividere anche le ripugnanze politiche del grande oratore. Loda, è vero, talvolta la virtù di Catone e il sacrificio di Bruto e deplora anche la frenetica ambizione di Cesare, ma sono soltan-
to atteggiamenti letterari; gli accade di rimpiangere la Repubblica romana ma è un semplice rimpianto di este-
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ta su una bella cosa passata, come chi piangesse su delle rovine ma non volesse in alcun caso vederle restaurate. Temperamento esclusivamente letterario, basta paragonare le togate e nobili immagini delle sue canzoni politiche con la disadorna violenza delle parole di Dante per accorgersi del divario fra un vero temperamento politico e quello di un semplice innamorato della bellezza formale e delle personalità eccezionali. Benché non immune da residui medievali (la cerva col collare di Cesare fa parte delle vecchie leggende, e nei Trionft stessi può ritrovarsi traccia del medievale culto dei nomi), la visione che egli ebbe di Cesare rimarrà sostanzialmente immutata per quattro secoli, sinché, per l’aumentata copia di documenti, questa visione verrà modificata e ancora ampliata. Si può affermare che, dopo quella di Laura, le immagini che più hanno ossessionato messer Francesco sono state
quelle di Cesare e di Scipione; questo egli esaltò nel poema imitato da Virgilio; quello in una «vita» in prosa, tutta compilata sugli autori latini; egli ondeggiò sempre nella sua ammirazione per l’uno e per l’altro, fra il fascino della grandezza virtuosa e quello della grandezza senza aggettivi, ondeggiamento che fu, in altro campo, quello dell’in-
tera sua vita e che si espresse nella sestina a Laura e nella canzone alla Vergine. La bilancia però finì col pendere in favore di Cesare: la biografia che ne scrisse è prettamente apologetica: tutte le riserve cadono e cadono gli accorgimenti letterari: il regicidio di Bruto vien bollato come inumana ingratitudine, ignobile perfidia e disastrosa follia, e (commovente coraggio) egli osa ribellarsi perfino all’idolatrato Cicerone. Il valore di questa biografia petrarchesca di Cesare è grandissimo; la sua diffusione durante il Rinascimento, immensa; ed essa per la prima volta dalla fine del mondo antico, presenta la figura dell’eroe completamente ripulita dalle incrostazioni leggendarie e inizia la moderna conoscenza di Cesare.
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Dopo Petrarca la gloria del mondo antico, e con essa quella del suo rappresentante più alto, dilaga per l’Italia e dopo per l’intera Europa. È questa la parte più interessante dell’opera del Gundolf, nella quale si assiste all’immissione graduale delle correnti del pensiero classico in quelle dell’attività contemporanea e si vedono tutte le più alte menti di quei secoli fecondissimi trovare nella figura di Cesare affinità di sentire e incitamenti all’azione. In nessun paese civilizzato questi germi fiorirono più vigorosamente che in Italia; in nessuno meno che in Germania dove l’umanesimo nascente fu presto soffocato dalla Riforma; ma in tutta l'Europa, in grado maggio-
re o minore, Cesare ridiventò un collaboratore dei tempi presenti.
Dapprima si occupano di lui soltanto i letterati di professione: e si esauriscono in lunghe polemiche, in stancanti paralleli fra la sua grandezza e quella di Scipione: fatiche che non aggiungono una sola linea nuova alla fisionomia di Cesare quale era stata tracciata dal Petrarca ma che servono a diffonderne il nome e la gloria. In quel tempo appunto va manifestandosi in Italia e in Francia l’abitudine di imporre ai bimbi i nomi di Giulio, di Cesare, o di Giulio Cesare. Maggiore importanza per una migliore conoscenza
storica dell’eroe assumono nel tardo Rinascimento i lavori degli eruditi: Lorenzo Vico inizia la prima collezione di monete cesaree e la illustra in un suo libro nel 1527; in quei tempi di professionalismo guerresco si pubblicano numerose opere tecniche di arte militare ed è fatale che abbondino gli studi su Cesare stratega. Il Brancacci lo chiama «l’unico e solo maestro della guerra finché durerà il mondo»; il Florido in un suo strano libro del 1540 tenta una via di mezzo fra le consuete esercitazioni letterarie sulle virtù dei grandi romani e i trattati di argomento puramente militare; ma nel 1589
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Pietro Ramus compone una sua opera magistrale, vera
filosofia della guerra dedotta dai Comzzentari, che abbraccia tutte le branche dell’attività guerresca di Cesare per terra e per mare, dall’organica delle legioni alle più vaste concezioni strategiche. Mentre gli scienziati compivano i loro sereni lavori, in altri campi si avevano sintomi ben più importanti del ritorno dell’ombra imperiale: rimaneva l'opposizione a Cesare; opposizione non più basata su trascendenti motivi religiosi ma su concrete obbiezioni politiche: in quei secoli qualsiasi tirannello assumeva volentieri gli atteggiamenti di Cesare; era inevitabile che tutti gli interessi offesi, sia democratici che nobiliari, si ammantassero
nelle illustri toghe di Catone e di Bruto. Ma, osserva il Gundolf, tutto ciò rimase pur sempre assai meschino e fu transitorio come gli interessi stessi che avevano provocato quelle ribellioni; ché l’intera anima italiana dapprima, europea dopo, rimase durante l’intero Rinascimento orientata verso il culto della personalità eroica, e quindi verso Cesare. Quasi tutti i politici e i guerrieri italiani a quel tempo si professavano discepoli di Cesare: certo innato vigoreggiare di razza e similità di condizioni li sospingevano in quella direzione, ma non è arrischiato affermare che diverso sarebbe stato, se non la loro attività, certo il loro stile senza la continua osserva-
zione degli esempi cesarei; ben osserva il Gundolf che Cesare fu per gli uomini d’azione del tempo ciò che Cicerone fu per i letterati. Colleoni impose il nome di Giulio Cesare a un suo nipote e volle che un busto dell’eroe ornasse la propria tomba; a Cesare pensò sul letto di morte Giovanni dalle Bande Nere; e il feroce
Monluc intitola Corzzzentari le sue memorie in omaggio «al più grande capitano che sia mai esistito»; frequenti richiami cesarei si trovano nelle parole e negli atti di Carlo Quinto e di Carlo Ottavo di Francia. Più ancora che i guerrieri e i sovrani legittimi rivolgo-
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no lo sguardo al grande modello i politici, i principi che con la violenza o l’astuzia erano riusciti a impadronirsi del potere e che in esso cercavano una specie di legittimità. Tanto variamente umana e poliedrica fu la figura di Cesare che ad essa si rivolgono e in essa trovano incitamento le mentalità più diverse. Così il sereno e cavalleresco Federigo da Montefeltro ammirò il suo stile più che la sua spada e dal volume dei Corzzentari fu indivisibile: Alfonso il Magnanimo sospira per l’irraggiungibile grandezza dell’eroe e per risuscitare la famosa «clementia Caesaris» si dimostra di una generosità estranea ai tempi; in questi principi agiva la magnanimità dell’eroe; in altri invece si manifestava la sua dura vo-
lontà; Sigismondo Malatesta innalza in Rimini una colonna che commemorando il passaggio del Rubicone, tramandasse ai posteri il nome Malatestiano unito a quello di Giulio. Cesare Borgia, che aveva avuto nel nome l’augurio e l’incitamento, visse sempre immerso in una atmosfera cesarea, falsata e unilaterale, ma indub-
biamente derivata da quella e poi corrotta da una natura di ben diversa altezza. Egli rinnova, nella sola coreografia, i trionfi di Cesare, adorna le proprie armi della doppia immagine dell’ardire e della ricompensa cesarea e formula nel suo «aut Caesar aut nihil» la brutale parodia della frase eroica, trasformandone in sfrenato ghigno di giocatore le meditate parole. Papa Giulio Secondo, umanista e guerriero, scelse il nome imperiale quando salì al trono pontificio, lieto che un oscuro predecessore medievale gli avesse permesso di assumerlo senza scandalo soverchio; e gli accenni, le
allegorie, i giuochi di parole che univano il nome suo cristiano a quello pagano furono sotto il suo regno numerosi e sempre graditi. Né il suo riavvicinarsi a Cesare
è dovuto come quello di Bonifacio VII a una semplice astuzia politica e a rispetto dell’«ufficio» imperiale ma
Una storia-della fama di Cesare
DID
ad una personale ed umanistica ammirazione di Cesare in quanto eroe.
Carlo il Temerario, strana mistura di principe legittimo ed avventuriero, fu un fervente ammiratore del Ro-
mano e negli arazzi di Berna si è fatto rappresentare nelle sue vesti. A Filippo Maria Visconti fu dedicata la prima versione italiana dei Comzzentari opera di Pier Candido Decembrio; a un doge di Genova la seconda, mentre all'imperatore Massimiliano venne offerta la prima traduzione tedesca. Quest’imperatore, sempre combattuto fra secolari tradizioni e il suo moderno sentire,
fu frequentemente paragonato a Cesare dai suoi adulatori e il Gundolf fa notare come le lodi dei sicofanti siano in generale degne di una certa attenzione in quanto rivelano ai posteri non certamente l’uomo quale fu ma almeno quale volle esser creduto. Francesco I di Francia tollera volentieri che lo chiamino Cesare e lascia che si paragoni Marignano alla vittoria sugli Elvezi, e financo sua madre lo chiama spesso «mon César»: con la forza sorniona di Enrico VIII la gloria umanistica di Cesare giunge in Inghilterra; la sottile ironia di Erasmo paragona il «Difensore della Fede» a tutti i grandi dell’antichità, e Colet deve invitare il Sovrano a cercare d’imitare Cristo piuttosto che Cesare. Assai interessante è l’esposizione che fa il Gundolf del concetto imperiale di Carlo Quinto e delle sue relazioni con la memoria di Cesare; ma è quasi impossibile riassumerla. È difficile dire se in quel grande imperatore fosse più profonda l'ammirazione o l’opposizione per il creatore dell'impero pagano; sempre egli tentò di contrapporre la propria cristiana all’idolatra sovranità dell’Altro: dopo la vittoria di Mùhlberg dice: «Venni, vidi, Dio vinse».
Malgrado ciò fece compiere in Italia e in Francia scavi per meglio approfondire lo studio delle Campagne di Cesare; e nell’eremo di San Juste non portò con sé che
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tre libri profani, scelti non senza grandezza d'animo: un trattato di astronomia, un riassunto della propria storia, e una versione italiana dei Comzzzentari. Dell’incorporazione della gloria di Cesare alla monarchia asburgica e del tentativo di ridurre una così vasta luce alla funzione di maggior gioiello della corona di Vienna, rimane una testimonianza strana in un libro di Alessandro Guarino, gentiluomo ferrarese, dedicato a
Ferdinando II. In quest’Apologia di Cesare pubblicata nel 1632, l'ammirazione per l’Eroe è spinta sino all’idolatria; e sarebbe un libro assurdo se non vi fossero conti-
nui riferimenti alla Maestà Imperiale e Apostolica che siede in Vienna che lo rendono interessante testimonianza della mentalità creata da Carlo Quinto con la sua monarchia universale, dinastica e cattolica. E fu così che Cesare, come il Gundolf dimostra dopo, divenne stru-
mento della contro-riforma. Frattanto la sua fama, durante le guerre di Carlo Quinto contro i Turchi, aveva varcato i confini europei: Solimano il Magnifico volle si traducessero in lingua ottomana i Commentari; e gli storici latini del tempo vollero scorgere nella vita di questo sultano una «imitatio Juliana». Prima di lui, del resto, Maometto Secondo, lo
spietato adolescente che espugnò Costantinopoli, aveva sottratto al saccheggio un codice cesareo. Ancora un’altra forma assunse durante il Rinascimento la gloria di Cesare: quella della festa, della parata. Lorenzo il Magnifico aggrega alla processione religiosa del Battista la pompa pagana del trionfo di Cesare, suscitando i fulmini del Savonarola. E numerose furono le cavalcate e i tornei nei quali fu riprodotto un episodio delle gesta cesaree: sappiamo di quelli indetti da Alfonso d'Aragona, Borso d'Este, Cesare Borgia, Federico Gonzaga e Francesco I di Francia. E vi fu anche un artista che fuor dalle truccature e dai fug-
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gevoli orpelli delle rappresentazioni seppe risuscitare i Trionfi nello splendore di un’arte immortale. Andrea Mantegna, con la cultura umanistica e l'animo di eccezione del quale fu dotato, compì, nel campo delle arti figurative, un miracolo simile a quello che nelle lettere aveva realizzato Dante nei riguardi di Cesare: una evocazione talmente nitida della fisica che nessuno dopo ha potuto distaccarsene. E Tiziano che forse fu anche lui attirato dai lineamenti rigidi del dittatore, Rubens che li
immerse nei suoi colori rimasero, malgrado la diversità dei loro geni, fedeli alla tradizione mantegnesca; e forse a quella tradizione aveva aderito anche Diirer nel suo quadro, oggi perdutosi, nel quale Cesare era rappresentato in compagnia di Pompeo e di Catone. Numerosi anche, durante il Rinascimento, furono i
busti, dapprima di pura immaginazione, dopo ispirati dalle parole di Svetonio, dopo ancora copiati dalle opere classiche o addirittura gabellati per oggetti di scavo. Quasi ogni palazzo o villa del 500, in Italia e fuori, si adornava di una serie di sculture in marmo o in terra cotta raffigurante gl’imperatori romani; ed è particolarmente notevole quella dei medaglioni che spiccano sui mattoni purpurei dei cortili di Hampton-Court, appunto quel palazzo dei re d'Inghilterra che custodisce anche la impareggiabile raccolta dei «Trionfi» del Mantegna. E il Rinascimento italiano si chiude col tragico michelangiolesco Bruto, nel quale già freme il tormento che troverà fra qualche decennio voce nella tragedia di Shakespeare. Chiuso così l’esame della gloria di Cesare in quei paesi nei quali fu maggiore l’influenza umanistica, il Gundolf si volge a considerare le vicissitudini di questa fama in Germania. Lentamente erano penetrate fin lassù le idee di rinascita provenienti dal Mezzogiorno; e ancora gracile era la cultura umanistica tedesca quando su di essa piombò la bufera della Riforma: l’antichità, dice il
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Gundolf, cambiò di prospettiva con lo studio delle discipline bibliche; Lutero poi col suo ideale di credenze assolute e di morale casalinga era quanto mai distante da una ammirazione del classicismo che non soltanto fraintese ma talvolta insolentì con la grossolanità consueta: non si può pretendere un giusto apprezzamento di Cesare da parte di chi bistrattava Aristotile chiamandolo
«noioso asino». Di tale grossolanità e dello spirito grettamente borghese che fu quasi l’unico contributo tedesco alla fama cesarea durante il Rinascimento fu vittima anche Melantone, pur l’unico spirito che riuscisse a conciliare in sé umanesimo e riforma; egli fu il primo ad abbassare i Comzzentari a uso scolastico, proprio nel tempo in cui i dirigenti del mondo europeo leggevano le opere di Cesare per trarne esempi di strategia e di alta politica. L'espressione più intensa dell’incomprensione germanica verso l’antichità classica in generale e Cesare in ispecie si trova nei versi di Hans Sachs nei quali i più alti spiriti della romanità vengono trattati con la boriosa alterigia con la quale un sottufficiale può trattare una recluta; sciocco atteggiamento che si ritrova in Fischart, in Pauli e in Frischoff e del quale il Gundolf si duole a lungo, con una imparzialità verso le cose del suo paese che gli fa onore e che proviene forse dalla coscienza di quanto in seguito operò la razza tedesca nel campo del classicismo e che basta certamente a riscattare le facezie del poeta-ciabattino. Egualmente lontana dallo spirito umanistico sarebbe rimasta la Spagna, a quanto dice il Gundolf, specie riguardo a Cesare, e le opere di Juan de la Cueva e di Laso de la Vega, che riguardano la storia di lui, conservano ancora tracce abbondanti della rigidità medioevale miste a deplorevoli anticipazioni della maniera lagrimosa e patetica nella quale nel ’600 verrà trattata la figura di Cesare. Le proporzioni di questo articolo non permettono di
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riassumere l’analisi accurata compiuta dal Gundolf dell’atteggiamento di Montaigne e di Bacone rispetto a Cesare. Montaigne che ricade nel dissidio ciceroniano fra l'ammirazione all’uomo e l’avversione per l’opera; Bacone che studia l’alterna vicenda del destino e del carattere nella storia di Cesare, ma con puro spirito obbiettivo, libero dai pregiudizi politici del Machiavelli e del Montaigne come dal culto degli eroi del Petrarca; spirito scientifico, egli preannunzia anche in questo i secoli delle ricerche erudite e, simile a Plinio, studia Cesare, dice il Gundolf, come Buffon studia il leone.
Anche prima di Shakespeare il teatro si era occupato di Cesare: ma erano esercitazioni culturali nelle quali i personaggi non esprimevano passioni o idee ma erano i por-
tavoce delle letture compiute dall’autore. Shakespeare pure, è vero, si è ditettamente ispirato a Plutarco, ma con la immensa forza del genio ha totalmente sorpassato le fonti e ha ricreato «ex novo», dalle pure sostanze nell’umanità le sue figure tragiche. Si è voluto vedere nel Giulio Cesare una esaltazione del delitto di Bruto: le tendenze nettamente antidemocratiche e il rispetto dimostrato dall’autore per la figura del dittatore ogni qualvolta vi accenna, non autorizzano questa opinione. E poi di fatto, la tragedia è storica soltanto esteriormente: perennemente preoccupato delle relazioni dell'anima col mondo ambiente, anche qui Shakespeare non vide che la lotta di Bruto contro la fatalità: e la fatalità per Bruto ha nome Cesare. E la tragedia conchiude con la negazione dell’azione, «Leitmotiv» di tante opere shakespeariane. S’intende che, siccome Shakespeare non era un vuoto teorista, egli ha fortemente caratterizzato, con infallibile intuito, le fi-
gure di Cesare e di Bruto e di Cassio dando dei tre personaggi principali alcune delle più intense immagini di essi; ma sarebbe vano fare una tragedia politica di questo dramma nel quale si agitano forze alla politica preesistenti e superiori.
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Sotto il regno di Enrico IV la Francia fu percossa da una vera mania cesarea: molti furono i punti di contatto fra il gran re e il grande imperatore: le guerre civili, il potere conquistato con la spada e col senno, l'altezza dell’ingegno, l’affabilità del carattere e persino il libertinaggio; era ovvio che da tanta rassomiglianza si prendesse frequentemente lo spunto per fare omaggio al sovrano. E quando la morte violenta per mano di un fanatico colse Enrico IV, così come aveva colto Cesare, nel mezzo del lieto fervore di alti propositi, sembrò che la rassomiglianza fosse divenuta identità. Ed è questa reale affinità unita al sincero sentimento che fa tanto commoventi i 540 alessandrini disadorni nei quali Sully espone un compiuto e ingegnoso parallelo fra Cesare e il suo Re ed amico defunto. La voga cesariana si mantenne in Francia sotto il regno di Luigi XIII, senza per altro trovare espressioni originali; ma con l’avvento al trono di Luigi XIV il vento cambiò. Perfetta espressione della legittimità, il Re Sole non poteva troppo gradire un frequente ricordo del grande seduttore di popoli; e gli adulatori furono costretti a cercar altre metafore: furono scelti Augusto, e soprattutto Alessandro. Al Macedone pare che Luigi XIV rassomigliasse anche fisicamente, almeno così disse il Bernini che un adulatore non era; e si vollero trovar
punti di contatto nell’esser ambedue ascesi giovinetti al trono e nell’aver entrambi con gloriose conquiste ingrandito un regno ereditato da un padre glorioso; financo la qualità degli amori di Alessandro, più composti e sentimentali di quelli libertini di Cesare, parve adombrare le esaltazioni galanti del Re; il quale sembra gradisse questi raffronti ché egli stesso commissionò al Lebrun le grandi tele raffiguranti le gesta del conquistatore delle Indie nelle quali a ognuno era dato ammirarlo in costume di Alessandro e nell'atto di debellare spagnoli e tedeschi vagamente travestiti da Persiani. Financo il più
Una storia-della fama di Cesare
DA
alto spirito del secolo, Bossuet, soggiacque a quella moda e nella sua magnanima storia universale disegna un accurato ritratto di Alessandro mentre si sbriga di Cesare (considerato fondatore dell’impero e quindi veicolo della Chiesa) con due aggettivi da salotto, «actif et prévoyant» e con una immagine mirabile: «en un clin d’ceil il brilla sur la terre entière». Ma quando, altrove, si oc-
cupa di Cesare egli dimostra, nell’apprezzare utilitariamente la sua opera politica, tutto l’acume dell’uomo di stato che si celava sotto la veste episcopale e giustifica la lode di Napoleone che affermava avergli la lettura di Bossuet squarciato il velo dietro il quale dapprima si nascondeva per lui la figura del primo imperatore. Nessun’altra voce notevole parla di Cesare durante il grande secolo francese, o per meglio dire anche le più illustri voci vi fanno solo fuggevoli accenni: brevi alte ironie di Pascal, rapidi apprezzamenti di La Rochefoucauld. La Bruyère si serve dei nomi di Cesare e di Alessandro per tracciare le caratteristiche di Turenna e di Condé; La
Fontaine fa servire le glorie cesariane e quelle macedoni a far risaltare la campagna di Rocroi. Quella civiltà di corte e di accademia era interamente rinchiusa nell’ora presente e mancava del senso della grandezza passata. Corneille con la sua Morte di Pompeo diede la stura agli innumeri drammi e melodrammi francesi, inglesi, italiani nei quali Cesare si presenta quasi soltanto quale irresistibile seduttore di donne; il nome e le gesta di lui servono soltanto da sfondo alle pene amorose della giovane principessa gallica o britannica o iberica che lo ama malgrado i torti di lui verso la propria patria. Il dramma di Antonio de Solis y Rivadeneyra del quale il Gundolf dà un divertente riassunto, è l'esemplare perfetto di quella letteratura. Gli eruditi però lavoravano e pubblicavano preziose edizioni dei Comzzentari che preparavano i nuovi atteggiamenti degli spiriti. Ma durante la prima metà del secolo XVIII si era quasi ridotti
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al concetto del nome magico di Cesare, come durante il Medio Evo. Con Montesquieu s’inizia tutta una nuova corrente di studi storici che da ora in poi tende a considerare ogni personalità non più in relazione ai servizi resi al concetto di umanità eroica ma a valutarli a seconda del contributo dato alla causa del bene dell’umanità, della civiltà. Le antiche discussioni circa la preminenza delle virtù di Cesare e di Alessandro, sulla grandezza di Scipione o di Annibale vengono sostituite da disquisizioni sottili e spesso vane quanto le prime circa l’utilità o il danno arrecato da ciascuno di quei valentuomini al progresso civile; errore di Montesquieu, del resto inevitabile in un pioniere, fu di costruire teorie ideali moderne servendosi esclusivamente di materiali letterari antichi; questo e l’inconscia suggestione dell'ambiente lo condussero a preferire Alessandro a Cesare, in quanto civilizzatore, ciò perché gli scrittori classici esplicitamente accennano all’opera civilizzatrice del Macedone mentre tacciono di quella del romano; l’importanza unica della conquista delle Gallie e delle puntate in Britannia e in Germania, gesta che realmente fondarono l’Europa come la vediamo adesso, sfuggì a tutti gli storici del diciottesimo secolo. L’intuirà soltanto Napoleone e non verrà sviluppata che da Hegel. In Voltaire si ritrova la medesima tendenza d’idee; egli però, più sensibile alle emozioni estetiche, è maggiormente attirato dalle possenti figure storiche; nelle tragedie presenta la figura di Cesare con benevolenza specie nella Rozza salvata ove vien contrapposta alla bassa ambizione di Catilina; Cesare è spesso nominato insieme con Alessandro quale esempio tipico della gloria, anzi nel Dizionario il suo nome è addirittura adoperato per chiarire il concetto di «Renommée», non vi è insomma nessun
tentativo di sminuire la fama di Cesare quale eroe, ma noi sappiamo che per Voltaire come per Montesquieu l’al-
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tezza della figura storica non è più un valore incondizionato; e così mentre gli dimostra una certa benignità in qualità di collega in libero pensiero egli non cessa di preporre i meriti civilizzatori di Cesare a quelli di Alessandro «che fondò città di grandi traffici e diede incremento ai commerci» mentre rimprovera a Cesare di aver causato,
perla sola ambizione, la morte e la schiavitù di un milione d’uomini, e si fa beffe dei popoli di Francia, del Belgio e d'Inghilterra che ancora venerano il loro soggiogatore. Strana cecità di uno spirito acutissimo che non comprende la immensa differenza di valore civilizzatore fra le durevoli feconde conquiste romane e le splendide e fuggevoli gesta alessandrine, transitorie e nefaste come tutti i contatti europei con l’Oriente; opinione più strana che mai in un Francese come il Voltaire che alla conquista gallica era debitore dell’intera sua struttura mentale e financo della impareggiabile limpidità della lingua che gli serviva a esprimere ingrati pensieri. Fino adesso abbiamo trovato dei nemici di Cesare, dei detrattori anche: l’odio
però non aveva mai sfiorato la sua figura: e nemmeno in Bruto. Ma la china era pericolosa: l’educazione aristocratica, la cultura umanistica, il senso del bello avevano trattenu-
to Montesquieu e Voltaire nell’orlo della bassa ingiuria e della calunnia; quando si manifesterà uno scrittore assolutamente sprovvisto di quelle tre qualità e per di più dotato di ristretto e fanatico animo, la catastrofe avverrà. E avvenne con Rousseau che apre i tempi dell’esecrazione cesarea, originata ad un tempo dall’avversione della Riforma per un libero stile di vita e dall’esecrazione democratica della robusta personalità. Quanto intenso e tragico e breve sia stato quel periodo in Francia è noto a tutti; esso corrisponde esattamente all’adolescenza di Bonaparte... Non poteva l’offesa ombra di Cesare sognare più luminosa vendetta che questa sua reincarnazione. Con maggiore attenzione osserva il Gundolf il movi-
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mento d’idee che si svolgeva parallelamente in Germania. Neppur lì mancarono le società per il culto di Bruto, e le innocue leghe di tirannicidi, e Bodmer vilipese Cesare in una sua grottesca tragedia, ma, quasi a riscatto delle insolenze dei riformatori, il tono degli anti-cesaria-
ni era più dignitoso che in Francia, e la razza tedesca espresse in quel tempo dal suo seno, con Federico II di Prussia, una delle più compiute immagini di Cesare, le cui gesta, la cui alta opera di uomo di stato, la cui popolarità volsero in parte a creare una reazione alle idee diffuse in quel tempo. Di già Middleton in Inghilterra e Bury in Francia tentavano di risalire la corrente e di riporre Cesare nell’altare sconsacrato; il principe di Ligne ne farà senza ambagi e scrupoli il proprio Dio; quando Herder avrà completato la propria nuova teoria della storia la rivalutazione di Cesare sarà completa nel campo delle idee e non si farà attendere a lungo la riscossa politica. Quanta parte della grandezza napoleonica spetti a Cesare; come l’eroe corso fosse un minuto conoscitore delle gesta del romano, e un loro critico geniale e discepolo devoto; come nel complesso e malgrado apparenti deviazioni l’intera storia del secolo decimonono sia stata influenzata da Cesare attraverso Napoleone; quale sia stata la vicenda ideale della fama di Cesare, che trovò nel secolo scorso propagatori quali Goethe, Mommsen e Nietzsche, sono argomenti che il Gundolf tratta diffusamente nelle ultime pagine del suo libro; sarebbe superfluo riassumerli perché ancora di tanto valore attuale che in linea generale tutti li conoscono e in particolare
meritano un ben più assiduo studio di quanto potrebbe esser compiuto in brevi righe; qui non si è voluto far altro che seguire passo per passo l’esposizione che delle vicende della gloria cesarea ha compiuto il Gundolf in un’opera affascinante e colorita.
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PREMESSA
A Francesco Orlando
Palermo, anni Cinquanta Sono nato a Roma nel 1934 e vi sono vissuto fino al 1944. Mio padre, Fabrizio Lanza di Assaro, era il figlio cadetto di Giuseppe Lanza di Mazzarino, il cui padre, Emanuele, era a sua volta figlio ultimogenito di Giuseppe Lanza di Trabia, capo della famiglia Lanza. Le principali famiglie siciliane, dopo l'abolizione del maggiorasco, quando il titolo non era più direttamente associato alla potestà amministrativa sul feudo, usavano distribuire i propri titoli fra i figli cadetti. Erano i cosiddetti “titoli di cortesia”, accorda-
ti per cortesia del primogenito ai cadetti, ma da questo in realtà detenuti. La prassi aveva i suoi inconvenienti. Il
primo che fratelli e cugini, chiamati abitualmente per tito-
lo anziché per cognome, sembravano appartenere a famiglie diverse, il che confonde ancor oggi gli estranei sui rapporti parentali. Il secondo che i primogeniti qualche volta tentavano di ritirare “la cortesia”. Nella famiglia LanzaBranciforte fece scalpore sul finire dell'Ottocento la presa di posizione del principe Pietro Lanza di Trabia, che ritirò i titoli al fratello Camastra ed ai cugini Scalea, Ajeta e Mazzarino, notificando l'accaduto alla stampa. Ne seguirono alti fracassi, che furono sanati da un intervento regio. Umberto I reinvestì gli spodestati di un titolo equipollente sul cognome. Dopodiché mio nonno non fu più il conte di Mazzarino, ma il conte Lanza dei Lanza-Branciforte di Mazzarino. Come soleva dire Lucio Piccolo, che si dilettava a rintracciare per i Nebrodi discendenti esiliati
di antiche ed illustrissime dinastie regnanti, i Paleologo di
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Letteratura inglese
Bisanzio e gli Este di Ferrara: «l’araldica è la più pura delle scienze... perché è stata privata di ogni risvolto utilitario». Se la sua purezza è incontestabile, resta nondimeno anche fonte di prolungate pene. Mio padre risiedeva spesso in Sicilia, dove si era dedicato all'amministrazione di una tenuta in provincia di Ragusa, circa mille ettari dell’ex feudo (come si indicava nel-
la terminologia siciliana) Dorilli, sulla sponda sinistra del fiume Acate e presso la sua foce. La mia famiglia si era trasferita a Roma nel 1911, visitava saltuariamente la Si-
cilia, il palazzo di Palermo, le altre case (le due ville di Santa Flavia finché non furono vendute) e meno ancora le terre lontane, nelle province di Enna, Catania e Ragusa.
Sull’inizio degli anni Trenta mio padre si era dedicato all’amministrazione del patrimonio superstite, aveva soggiaciuto al sottile fascino della proprietà, quel piacere del comando su uomini e cose, che a quei tempi si era accom-
pagnato anche a un arresto del declino finanziario; segretamente era tornato ad amare la Sicilia, da cui i suoi con-
giunti si erano allontanati in cerca di una vita sociale meno provinciale e più allettante. La guerra perduta fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mio padre arrivò a Roma nella tarda primavera del 1944, e dopo un lungo, avventuroso viaggio in automobile, almeno così apparve a
un bambino di dieci anni, eravamo tutti in Sicilia, dapprima a Dorilli e dall'autunno nel palazzo di Palermo. Ma di questo vi dirò forse un’altra volta. Ora debbo dirvi come incontrai Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
I miei genitori restaurarono il palazzo di Palermo, il palazzo Mazzarino in via Maqueda, squassato ma non direttamente colpito dai bombardamenti aerei, e si dedicarono a una intensa vita mondana. La società palermitana vi era convitata, e per personale amicizia, e per parentela
_ Premessa
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e prestigio sociale, e per far corona ai tanti ospiti italiani e stranieri, amicizie della vita romana ed internazionale dei miei genitori, che trascorrevano qualche settimana nel pa-
lazzo. I Tomasi, Giuseppe e la moglie Alessandra, anche se nostri parenti — la bisnonna per via materna di Giuseppe Tomasi era sorella di mio bisnonno, Emanuele Lanza di Mazzarino — godevano più che altro di prestigio araldico, comparivano alle grandi occasioni — in un ballo in costume del 1938 al palazzo Mazzarino, Giuseppe Tomasi è ritratto assieme alla sorella di mio padre, Lucia — e dopo la guerra erano invitati ai grandi cocktails assieme ai principi decaduti. Facevano a quel tempo coppia con i Gravina di Montevago, anch'essi illustri e rintanati come i Tomasi in un palazzo del centro storico, fitto di popolino e di miseria, da cui ogni palermitano non vedeva l'ora di fuggire, con i risultati che sono a cinquant'anni dalla guerra sotto gli occhi di tutti. E va detto che Giuseppe e Licy, a differenza di altri, non si erano rintanati in via Butera per necessità, ma in un tentativo di tutelare la
propria identità. La casa era stata comprata dopo la guerra, col ricavato della vendita del palazzo Lampedusa, distrutto, ma allora ricostruibile. Giuseppe non avrebbe potuto affrontarne la ricostruzione, e forse, seguendo il cupio dissolvi della propria classe, avrebbe acquistato, come tutti avrebbero fatto, un appartamento della nuova Palermo, che andava allora sviluppandosi attorno al prolungamento della via Roma, se la moglie non lo avesse indotto ad acquistare una quota (circa un terzo) di un immobile che nel secolo scorso era stato della famiglia Tomasi. La forte volontà di lei, come sempre, aveva il so-
pravvento nelle decisioni fondamentali. Vi si erano trasferiti nel 1949, e vi facevano agli occhi dei miei, di tutti, vita ritirata. Questa opinione sussisteva
anche se la principessa riceveva un paio di volte al mese, la domenica, nella biblioteca del piano nobile. Un “salon”
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Letteratura inglese
che le dava l'impressione di avere conservato ancora un ruolo sociale. I frequentatori erano gli intellettuali amici del marito (lo storico e filosofo Corrado Fatta della Fratta e il musicologo Bebbuzzo Sgadari), il pettegolo e innocuamente maldicente Fortunio Parodi di Belsito con la placida moglie danese Thove, cugino per via Valguarnera (un discendente di Tancredi per intenderci), il mondo degli emigrati russi, rappresentato dalla gioviale Lila Iliascenko e da Alek Boltho, un barone baltico come la padrona di casa. Lila Iliascenko discendeva da una ricchissima fami-
glia ucraina ed era stata una amica d'infanzia di Licy dai tempi del collegio a Pietroburgo. Legata sentimentalmentea un ufficiale bianco era rimasta in Russia dopo la sconfitta della sua parte e la morte dell'amico. Licy era riuscita a farla uscire dall'Unione Sovietica negli anni Trenta, aveva pagato la tariffa matrimoniale a un signore baltico che per un certo periodo era vissuto sposando alcune aristocratiche russe allo scopo di far loro ottenere il passaporto. Fino al 1939 era vissuta a Riga, dove dava lezioni di lingue e cantava nelle chiese. Prima dell'annessione delle repubbliche baltiche all'Unione Sovietica aveva seguito Licy in Italia e si era poi trasferita a Palermo, dove viveva dando lezioni di lingue. Era un carattere estremamente ottimista, senza alcuna recriminazione per il passato scomparso,
e tanto più adorabile quanto più bistrattata dall’amica e padrona di casa che le rimproverava qualche leggerezza di condotta in gioventà. Lila replicava alle sue seriose considerazioni morali e, fondamentalmente, sociali che l'aveva
semplicemente fatto «pour votr ce que c'était», ottenendo di fronte a questa attestazione di incorreggibilità uno sbuffo di disappunto da parte dell'amica. Boltho era invece un distinto gentiluomo piuttosio sordo, esperto di sto-
ria e di quant'altro si potesse apprendere in un buon liceo imperiale. Veniva accompagnato dalla moglie, una tedesca di Riga di famiglia borghese, di solido senso pratico, che tirava la carretta per tutta la famiglia (marito e due figli)
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lavorando al consolato degli Stati Uniti. Come è costume dei sordi Boltho parlava molto, esponendo i suoi punti di vista secondo il metro del liceo imperiale 1910, e anche se era questo l’ambito stesso dell'educazione e del sapere a cui ancora Licy mostrava di aderire, essa non nascondeva
la sua irritazione e ogni tanto per un nonnulla maltrattava il vecchio amico e gentiluomo. Licy, difatti, aderiva all'istruzione e all’educazione ricevuta per salvaguardare l’identità di un mondo scomparso e del quale sentiva di far parte; le nozioni dell'infanzia operavano in lei come il battesimo sul cristiano, Licy era una unta dell’ancien régime, mentre Boltho era semplicemente tardo di comprendonio come era adesso debole di udito, e non si era mai affaticato a cercare nel mondo qualche cosa di diverso da quanto gli era stato garantito come perfetto. Eppure Boltho, come molti emigrati, avrebbe potuto contarla lunga. Negli anni Trenta era vissuto per un periodo in Sudafrica, dove aveva lavorato come corrispondente di alcuni giornali tedeschi, ai quali inviava ancora di tanto in tanto
qualche sagace saggio di ambito pittoresco e sociopolitico sulla situazione africana o mediorientale. Giuseppe Tomasi non mancava di beffarsi con benevolenza di questa attività: «Figurarsi, i tedeschi si leggono le corrispondenze di Boltho, redatte a Palermo, ma intestate Capetown, pen-
sando di avere un Churchill che riferisce sulla guerra boera». Altre volte il povero gentiluomo era trattato con meno indulgenza. Se Boltho si azzardava a dire qualche sciocchezza sull'Italia, Giuseppe era colto da un’ignota vena municipalista. Una volta che questi definì la chiesa della Catena «cette jolie église faux-Renaissance», Giuseppe sibilò un: «Nous ne sommes pas en Russie, ici il-y-a la Renaissance». E ritengo che nella sua sordità il gentiluomo avesse percepito abbastanza: il suo volto cerimonioso si irrigidì per un attimo, prima di riassumere il tratto sorri-
dente e interrogativo che seguiva ogni suo soliloquio, quel tratto con cui rassicurava l'interlocutore di non poter per-
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cepire esattamente la sua di certo cordiale, pertinente, risposta.
Le domeniche della principessa vivevano anche occasioni più solenni. I cugini Corrado e Peggy Valguarnera di Niscemi ritenevano opportuna una visita al loro arrivo da-
gli Stati Uniti, e vi erano ancora rare principesse dotate di solidarietà aristocratica, Giovanna Moncada di Paternò o Vanna di Spadafora, che si facevano vedere un pato di volte all'anno. Erano occasioni in cui la padrona di casa si profondeva in affettati complimenti, memori di un cerimoniale di corte appreso nell'adolescenza e che la Rivoluzione d'Ottobre non aveva consentito si evolvesse a livello di un impiego adulto. Poi vi era il passaggio di un ospite straniero, e il tetto della gioia era toccato nelle visite di
qualche discendente Romanov. Allora la principessa si agghindava con qualche improbabile boa, copricapo e parrucca, sfoggiava l’inchino di corte imperiale, descritto da Giuseppe Tomasi come una sorta di “spazzasuolo”, recuperava per un pomeriggio le promesse giotose dell’infanzia, dimenticava il presente e abbassava la guardia. Svaniva quel timore sociale del giudizio altrui, causa prima del filo spinato che nel tempo si era steso fra lei e il prossimo: era felice come una bambina e il marito era felice per lei. La gioia metteva un suggello sugli esiti inattesi, e da un’altra ottica, ridicoli, degli incontri imperiali. Giuseppe ripercorse per giorni assieme a me, e con delizia, l'attimo
di stupore di un principe del sangue tedesco (discendente invero di una granduchessa Romanov, ma pacificamente residente nella comunità russa del Canada, e anche piuttosto gracile) di fronte allo “spazzasuolo”, il suo tentativo di risollevare la padrona di casa, come un Giovanni XXIII preoccupato dall’eccesso di fede di un cardinale acciaccato, nel mentre Licy rimbalzava da terra con imprevedibile agilità e appena essoufflée.
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Ho parlato delle domeniche della principessa. Il principe era là sornione, impassibile nel volto da vecchio felino, annuiva a ogni opinione della moglie, e la contrappuntava con arte mimica appena percettibile, a volte con monosillabi imperscrutabili se non da un siciliano con la sua
stessa formazione di classe. Un osservatore senza particolare perspicacia avrebbe fatto fatica a intravedere in lui una personalità degna di nota. L’understatement o il camuffamento dei sentimenti, il che non significa il non esprimerli ma l’esprimerli per sottintesi 0 nei loro contrari, era in lui certo più sviluppato che nella media degli
aristocratici palermitani di razza. Ma nella sua classe era tratto non raro far scenate per cose di cui importava ben poco, quasi per sentire i propri polmoni, e restar freddi davanti a situazioni che coinvolgevano nel profondo la propria passionalità. Ricordo mio padre far tremare i vetri della casa per un sarto che aveva sbagliato uno smoking a mio fratello, e non appena il colpevole mogio e derelitto si era allontanato portandosi via il corpo del reato (una giacca il cui delitto era di esser a un petto anziché a due, 0 viceversa), scoppiare in una gran risata. Episodio che secondo la sensibilità di un dodicenne rivelava una pericolosa umoralità di carattere, ma che in verità aveva conno-
tazioni soprattutto scherzose: una parodia della scena madre quale tratto di carattere piccoloborghese e pertanto ridicolo. Giuseppe Tomasi si atteneva all'espressione per contrari sempre dal lato opposto, la sua vita affettiva era stata sempre simbiotica, ma laddove il ruolo di mio padre
era quello della balena il suo era quello del pesce pilota. E un pesce pilota comunica via radio e su frequenze misteriose. Era stato tutta la vita attaccato a personalità dominanti, e la sua indipendenza si era sviluppata continuando a viver nel loro grembo. Una domenica Licy espose straziantemente il suo legame con Stomersee, il castello in Lettonia su cui era rimasta fissata la libido della nostra Elettra: Giuseppe ricordava quale massima espres-
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sione del suo attaccamento per lui la volta in cui gli aveva detto: «je t'aime comme Stomersee». Quella domenica Licy passò in rassegna la memoria affettiva del suo arredamento, stanza per stanza e pezzo per pezzo; quando le mancarono le parole e il suo silenzio ne segnava la totale desolazione, Giuseppe indicò a Francesco Agnello e a me due cachepots di rame argentato e un po’ malconci, si espresse senza alcuna inflessione passionale: «Son rimasti
soltanto quei due vasi là». Era quel che egli indicava come il «dolore nero», il dolore di Concetta quando subisce l’affronto della ispezione alle reliquie, per il principe di Lampedusa la forma di partecipazione personale più intensa. Licy comprendeva queste espressioni fino a un
certo punto; portata a valutare quanto le era estraneo in termini di psicologia dinamica, definiva questi tratti moqueurs del marito come mascheramenti individuali, senza rilevare il loro valore, sì di mascheramento, ma di un ma-
scheramento sviluppatosi nel tempo quale comportamento di classe. L'aristocrazia palermitana era un libro chiuso per lei, la cui difformità dal proprio modello non finiva di stupirla. I suoi contatti con la società palermitana erano resi difficili anziché esser agevolati dalla psicoanalisi. Esercitava la professione con uno zelo e una partecipazione che avvolgevano interamente le pene del paziente. Era il tratto in cui il suo attaccamento libidico si manifestava su fronti altrimenti incompatibili. La psicoanalisi rappresentava per lei a un tempo scienza e missione, e missione era
anche la preservazione dell'immagine dell’ancien régime, come il governo feudale di Stomersee, missione la rico-
struzione della psiche che a lei si affidava. Ma ci si ingannerebbe se la si ritenesse priva di metodologia scientifica. La sua ortodossia freudiana era inattaccabile, il senso delle associazioni faticosamente sceverato, aveva il massi-
mo disprezzo della psicoanalisi selvaggia, delle conclusioni generalizzanti. Licy giungeva davvero a vivere le pene
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del paziente, e sapeva tollerare le eventuali deviazioni morali che emergevano nel corso della cura. Salvo forse quando all'attaccamento per il paziente si sovrapponeva una qualche forma di partecipazione alla sua vita. Come maestra di vita l'analista non rappresentava un modello credibile, la sua comprensione del mondo esterno era troppo eccentrica, per quella via nessuno ha voluto seguirla. L’azzeramento dei transferts era a volte difficile da entrambe le parti, e lei stessa poteva non riprendersene mai. Altre barriere si alzarono così nei rapporti con la sua cerchia parentale. Non aveva tentato di analizzare Giuseppe, rendendosi magari conto delle difficoltà insormontabili che si pongono a intraprendere l’analisi in un rapporto matrimoniale e convinta del pari della sua saldezza psichica, ma si era offerta di intervenire sui Piccolo. Casimiro Piccolo, con le sue mani screpolate dall'alcool, era
infatti un caso manifesto di pura fobia, e il rifiuto che ne aveva ricevuto l'aveva addolorata e del pari aveva guastato i rapporti con i soli parenti adorati dal “mostro”. L’origine del nomignolo con cui la cerchia intima, cioè i Piccolo e “le philosophe”, alias Corrado Fatta, designava Giuseppe Tomasi risale agli anni Venti, quando Lucio Piccolo l'aveva scovato per indicare la sua mostruosa avidità di lettore, ma più tardi vi si era sovrapposto il senso di mostruosità fisica, una esagerazione sarcastica della sua corpulenza. Per la psicoanalisi Licy era scesa anche in battaglia contro l'ordinario di psichiatria, il professor Coppola, e i Piccolo non mancarono di parteggiare per Coppola, naturalmente per pura avversione verso chi aveva biasimato il loro rifiuto a farsi analizzare, e senza alcun giudizio di merito. Psichiatria 0 psicoanalisi d'altra parte costituivano un campo d'interessi del tutto incompatibile con il loro zelo metapsichico. Licy non era difatti abbastanza sensibile all'ammonimento di Giuseppe, «in Sicilia anche i muri hanno le orecchie», col risultato che le sue opinio-
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ni sulla barbarie del paese che la ospitava e i suoi abitanti erano diffuse anche se non da lei espresse ai diretti interessati, senso ultimo della frase del marito. Le chiacchiere
non provengono da frasi veramente dette ma da frasi che lo potrebbero essere. La Sicilia è il paese dove pettegolezzo e lettere anonime sono nella regola del gioco. Ma la principessa era di parere contrario ed era solita prendere ogni cosa al suo valore facciale. Come si vedrà in seguito, ciò sfocerà anche in un mancato duello fra giganti, una querela reciproca fra lei ed Elena Croce, giunta quasi alle soglie del tribunale, motivata da un “bon mot” di Bassani, apparso nella prefazione alla prima edizione del Gattopardo, secondo il quale, nell’affidargli il dattiloscritto
di Tomasi, la Croce gli avrebbe detto che le pareva fosse stato scritto da una vecchia signorina, ed una causa finita
davvero in tribunale per un innocente disegno di Bruno Caruso, raffigurante la psicoanalista al lavoro, apparso sull’«Espresso». D'altra parte negli anni Cinquanta la psicoanalisi era una disciplina ignota a gran parte dei palermitani istruiti,
pronti a mutare tale lacuna in un fondo di imprecisata avversione. Si aggiunga a ciò che il tratto della damza psicoanalista era pieno di affettazione sociale, con rutilante ufficialità di titoli nobiliari (Licy in società apostrofava tutti col titolo, dal cavaliere al principe), ma non nascondeva al proprio interlocutore di avere una circostanziata opinione
sul bene e sul male, e di esser pronta a prenderlo sotto la propria ala, per insegnargli la via che gli avrebbe fatto acquisire la stessa sicurezza di giudizio. Gli aristocratici “viaggiati” (il palermitano indica col participio aggettivato l’azione compiuta; vengo “mangiato” non significa ad esempio finire nelle fauci del lupo, bensì non voler importunare la padrona di casa arrivando in ritardo a cena) fiutavano in queste propensioni pedagogiche potenziali seccature, e non senza ragione vi individuavano un tratto di
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durezza tedesca, lontano da quella souplesse degli emigrati aristocratici russi incontrati a Parigi, di cui erano rima-
ste impresse nella memoria le propensioni goderecce. Di fatto i tratti più ingenui delle sue osservazioni sulla società in cui l'annessione dei paesi baltici l'aveva costretta a vivere erano analoghi a quelli espressi dal barone de Borch un secolo e mezzo prima nel suo libro sulla Sicilia. Una incomprensibile promiscuità fra classi sociali, il non saper prender sul serio il proprio ruolo istituzionale, lasciandoselo tutt'al più vivere addosso. Infantilmente questi difetti venivano fatti risalire anche al sangue. Antenati borghesi e, come aveva sentito dire sul luogo, in odor di mafia, che avevano corrotto la selezione privilegiata della specie in una società che per la sua supremazia poteva con-
tare anche su questo principio del buon allevatore, l’incrocio fra animali di razza. La principessa si dilettava infatti di elencare i grandi scrittori che probabilmente anziché esser stati generati dai loro padri ufficiali erano figli
dell'erotismo aristocratico. Apprezzava l'ipotesi aristocratica della paternità delle opere di Shakespeare, e non le di-
spiaceva la supposizione che Goethe fosse figlio di un nobile ufficiale francese di stanza a Francoforte. Giochi di desiderio e nulla più, in cui non credeva per davvero, ma nei quali era pur piacevole crogiolarsi. Così se Giuseppe aveva a Palermo pochi e solidi amici, Licy non ne aveva nessuno, salvo il marito che aveva stabi-
lito con lei un rapporto simbiotico di interdipendenza. Da un lato sussisteva intatto il modello intellettuale, la donna
diversa ed eccezionale che aveva sposato e ancora intensamente ammirava, che lo divertiva proprio nel riconoscimento della totale diversità delle loro radici, dall'altro occorreva schivare i fastidi che tale eccezionalità sollevava,
vivere quindi due vite, da marito di Licy e da gentiluomo palermitano col proprio passato di affetti in cui continuava a galleggiare. Giuseppe Tomasi viveva questa doppia iden-
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tità senza problemi, era il capolavoro della sua moquerie e ne era felice. Era sfuggito alla “terra adorata” e al tempo stesso vi era immerso fino al collo. Avesse soltanto avuto un po’ più di denari, non avesse avuto da pagare le rate di un mutuo contratto col Banco di Sicilia sulla casa di via Butera, il suo equilibrio sarebbe stato invidiabile. E quel tratto dell’esser dentro ed esser fuori che ha reso specialmente originale la tecnica del narratore. Della Sicilia Tomasi sarà aun tempo osservatore interno ed esterno. Quel che è stato
indicato come amore-odio per l'isola è la sua capacità di sovrapporre i punti di osservazione alla stregua di un pittore cubista. Sotto la veste del narratore di tradizione ottocentesca Tomasi sarà indubbiamente nuovo e diverso, alcuni po-
trebbero dire scientemente schizoide e quindi moderno. Mentre Licy viveva per le proprie opinioni e per ipropri pazienti, il marito aveva conservato una vita di relazione su
vari piani. Al primo posto nel suo cuore stava Capo d’Orlando, residenza dei cugini Piccolo, ifratelli Casimiro, Gio-
vanna e Lucio, figli della sorella di sua madre Teresa Tasca di Cutò, poi il Circolo Bellini, fin quando non dovette abbandonare la sede di palazzo Villarosa, al cui posto sorse sul finire degli anni Quaranta una gloria postuma dell’architettura Littorio, la piazza Ungheria con tanto di grattacielo, si fa per dire, e sul fronte di via Ruggero Settimo ipalazzi delle banche. Le reminiscenze erano attaccate ai luoghi, alle memorie di una società in migliore salute di quanto la guerra l'avesse lasciata. E poi a quel tempo si facevano ancora vivi al Bellini gli amici di suo padre. La sua vita di clubman sarebbe cessata con essi. I veri amici risalivano difatti a prima della guerra, ed erano i soli che sapevano come il taciturno gentiluomo non fosse una personalità insignificante, ed erano tutti intellettuali di estrazione aristocratica, Corrado Fatta ed Enrico Merlo în primo piano, e
in secondo Bebbuzzo Sgadari, critico musicale del «Giornale di Sicilia».
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Con la lottizzazione del palazzo Villarosa cambiò anche la vita mia e di alcuni amici che ritroveremo nella cerchia di Lampedusa, Francesco Agnello e Antonio Pasqualino. Il palazzo Villarosa avrebbe dovuto esser un immenso, son-
tuoso edificio appena fuori porta in stile neoclassico. Ma la costruzione sti era arrestata al primo piano. Essa era stata
avviata ai tempi della volontaria rinunzia ai diritti feudali del 1812. A tale rinunzia, anche se mossada spirito costituzionalista, non era estranea la conseguente facoltà di poter disporre dei propri beni; molti, fra cui i Notarbartolo di Villarosa, ne disposero con eccessiva rapidità. Il grande giardino retrostante, in buona parte poco curato, era affittato al Circolo Savoia, la cui sede occupava un ampio edificio all'inglese dell'inizio del secolo, con tanto legno a vista, e prospetti sulla via Mariano Stabile e il giardino. L'edificio diffondeva un senso di ariosa frivolezza in un paesaggio edilizio tanto accuratamente serrato da mura come quello palermitano. E questa boccata d’aria, quel tocco d'Europa che il gusto inglese, lo stile floreale avevano portato a Palermo, quello che denotava la via Libertà prima degli attuali falansteri, era anche il carattere del Circolo, un circolo dove il tono smart-set contava più dei quarti di nobiltà. Col suo piglio alla de Borch, Licy deplorava questa concezione della società come evasione, anziché come istituzione: al Savoia si incontravano difatti quelle persone che, come diceva lei, «si vogliono divertire», nobiltà antica e nuova, le famiglie borghesi venute alla ribalta dopo l’unità d'Italia, qualche professionista di successo. Nella parte retrostante di quel propizio giardino, quella meno curata e non frequentata dai soci del circolo, io avevo passato interi pomeriggi a giocare sin dal mio arrivo a Palermo. “Guardie e ladri”, “liberi tutti” e soprattut-
to interminabili battaglie con spade e scudi di legno. Francesco Agnello era il capopopolo di queste battaglie. La banda era divisa per sommi capi secondo l'età, i grandi sui quindici anni, i medi sui dodici, i piccoli ancora alle
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elementari. Francesco Agnello organizzava le squadre; non era il più grande, ma era il grande che preferiva i giochi con i piccoli, non ci sfuggiva per cose più serie, come ci dicevano ragazzi e ragazze sulle soglie dei quattordici anni; implacabile fracassatore degli scudi nemici e in particolare dei miei: io arrivavo ogni volta con un attrezzo difensivo più vasto, fatto segare apposta da Fifiddo, il falegname di famiglia. La lottizzazione Villarosa chiuse allora d'autorità l'età dei giochi. Tutti ci volgemmo a cose più serie. Sui quattordici anni esplose in me, in altri coetanei,
l'ambizione culturale. Pare che un tempo, anche in Sicilia,
e forse si esagera, questa ambizione fosse un punto d’onore dell'istruzione media di indirizzo classico. Alla prova dei fatti, cioè la conoscenza delle persone, ritengo che il tasso di partecipazione della mia generazione non fosse davvero inferiore a quello della precedente, e in ogni caso immensamente più alto dell’attuale, con la televisione che toglie all'infanzia, certamente a quella meridionale, lo sti-
molo a costruirsi una identità a partire dalla propria esperienza, a fare del cervello un opificio di elaborazione delle nozioni ricevute, un produttore di strategie che servano alla trasformazione del mondo esterno. Per me, in particolare, questo stimolo si rivelò specialmente attivo nella musica, come lo furono questa o altre arti per alcuni coetanei e amici che traversarono al sorgere della pubertà un periodo di propensioni artistiche. Bebbuzzo Sgadari era lè per questo. Negli anni Cinquanta una vera acculturazione musicale poteva formarsi a Palermo soprattutto sulla lettura. E qui soccorreva la biblioteca musicale di Ottavio Tiby, un ex militare, diventato di poi musicologo e organizzatore musicale. La biblioteca di Tiby era stata iniziata da Alberto Favara, primo raccoglitore dei canti popolari siciliani esuocero di Tiby, ma Tiby, che aveva
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ricoperto sotto ilfascismo importanti incarichi ministeriali, l'aveva accresciuta con l'opera omnia che andavano pubblicando le varie società intestate ai singoli compositori, con
molti omaggi di musicisti viventi e con una accorta selezio-
ne di acquisti personali. Tiby era un uomo squisito, generoso nel consiglio quanto nell’incoraggiamento, da cui potevo prendere a prestito tanto una antologia di polifonisti fiamminghi quanto la partitura del Pelléas. Aveva avuto una carriera pubblica all'ombra di Mario Labroca ed era quindi un entusiasta di musica contemporanea. Ma la lettura musi-
cale, l'immaginazione del suono, si perfeziona e trova testimonianza auditiva nell’ascolto. E qui sopperiva la discoteca di Bebbuzzo, unita alla sua cordialità, generosa nella testi-
monianza personale di una vita passata a teatro e in sala da concerto, e trasmessa con quel tratto tipicamente italiano
della tolleranza. Bebbuzzo era quel che si dice un uomo di cattivo gusto, in cui era poi difficile coglierlo, vista l'ampia esperienza di ascolto. Il suo metro di partecipazione alla musica era il sentimentalismo, e pertanto andava raramen-
te oltre la superficie godibile del fenomeno artistico, ma era al tempo stesso capace di graduare una scala del sentimentale da Tosti al Tristano. A 720do suo era un maestro, molto più di Tiby, tipico esempio di strabismo musicologico, che della musica aveva una concezione astratta, tutta calata sulla novità del documento, fosse essa un colpo d'arco del Tartini o una armonia del Pelléas. O alrzeno Bebbuzzo era più aperto di Tiby laddove questi era piuttosto dommatico, e fra i due non correva il miglior sangue. Bebbuzzo si compiaceva di ripetere l’aneddoto della presentazione di Tiby a Mascagni: il vecchiaccio, alla presentazione quale «maestro Tiby» dell'ex militare, e ora musicologo fresco di diploma, avrebbe risposto: «colonnello Mascagni». In ogni caso, sia che tali sarcasmi, secondo l’uso palermitano, glifossero riportatie
amplificati, sia che al militare il cerchio magico di Bebbuzzo desse un certo fastidio, in corso Scinà Tiby si faceva vedere di rado e finì per non venirvi più del tutto. Per la nostra fri-
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volezza, il nostro spirito dilettantesco, Bebbuzzo era certo più divertente (concetto esecrato, ma tanto pieno di pro-
messe). E poi Bebbuzzo era disponibile ad accettare la intolleranza giovanile, e a esserne bersaglio. Il mago (e “mago” era l'epiteto con cui lo chiamava Lucio Piccolo) confidava che il suo castello avrebbe resistito agli esorcismi, l’incante-
simo che teneva in piedi il suo estetismo di vanità e vellicamenti sarebbe sopravvissuto agli iconoclasti. Bebbuzzo era un vero maestro della convivenza, la sua casa ospitale luogo di incontri privati in cui potemmo entrare in contatto con
gli intellettuali ufficiali, da Calvino a Ungaretti a Rops, a tuttii musicisti di passaggio a Palermo, e senza le preclusioni del gruppo aristocratico, tanto timido anche se coltissimo, al punto da schivare î contatti con la cultura ufficiale in assenza di una presentazione formale. E siccome questo costume settecentesco della commendatizia, della necessità del conoscente comune, era tipico del mondo anglosassone,
i Lampedusa sociarono quasi esclusivamente con intellettuali di lingua inglese, da Freya Stark a Bernard Berenson. I{ portone del palazzetto di Bebbuzzo tn corso Scinà era invece sempre aperto, un luogo di assoluta promiscuità, frequentato da amici, famigli, parassiti, intellettuali veri o presunti: è stato il luogo dove potemmo cogliere la riflessione privata di qualche grande, dove il cerchio magico del padrone di casa rendeva possibili convivenze altrimenti impossibili. Oggi al posto del palazzetto di corso Scinà si leva una fra le tante case di civile abitazione della nuova Palermo; al posto delle sue serate vi sono le cene ufficiali del premio Mondello, dove ilpreside, ilpresidente, l'assessore recitano
la propria parte, e si può apprendere la via di una carriera, cattedra o seggio in parlamento. Ogni intellettuale di passaggio a Palermo finiva a casa del mago e veniva offerto ai suoi giovani amici, e soltanto un mago avrebbe potuto discernere che la malinconica aristocrazia palermitana aveva i propri intellettuali, ancor più oscuri di lui che poteva almeno pretendere a qualche pubblicazione a proprie spese, ma-
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gari in veste tipografica lussuosa, ornata da xilografie di gusto dannunziano. Qui riîncontrai Lampedusa, squisito, caustico, come noi adolescenti ancora adolescente nell’entusiasmo, sep-
pur incommensurabilmente più sapiente, e il sapientissimo poeta, Lucio Piccolo, nei suoi curiosi abiti da cuoco e
bizzarre pettinature. «Si motteggiava.» Essi riconobbero in me uno di loro, mi avrebbero amato più degli altri. Era 11 4952;
Questi legami si fecero più saldi lungo l'anno successi vo. Fu nel 1953 che Giuseppe mi condusse per la prima volta a Capo d'Orlando, di ritorno dalla mostra messinese dedicata ad Antonello e alla sua cerchia. Lucio che già conoscevo ci accolse nell’anticamera, luogo deputato per i catecumeni, come avrei di poi appreso. La casa dei Piccolo era distinta in tre zone, la grande anticamera per visitatori
catecumeni, il salone sul terrazzo e la stanza da pranzo per visitatori amici o da questi accompagnati, infine il lato sinistro dell’edificio, sancta sanctorum con le stanze di abitazione dei tre fratelli, che io e lo stesso Giuseppe non varcammo mai, e dove una volta Giovanna introdusse mia
moglie Mirella, prodigio possibile soltanto alla confidenza che le donne riescono a stabilire nei confronti dell’uomo.
Giuseppe fu sorpreso dal mancato accesso oltre l’anticamera, ma si seppe poî che la baronessa Piccolo, zia di Giuseppe, era stata «aperta e richiusa», come suona l’espressione del compiaciuto cerimoniale macabro palermitano, per indicare ilfallimento di un intervento di resezione tumorale. Teresa Piccolo, nata Tasca di Cutò, di lì a poco
morì, e come avrebbe di poi affermato Giuseppe, con tratto di psicoanalisi spicciola, «dalle sue ceneri venne fuori un poeta». E per li rami, come sappiamo, anche un romanziere.
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I frequentatori della casa di Bebbuzzo erano giovani che avevano in comune inclinazioni culturali e artistiche senza
precise mete professionali: io avevo ambizioni di compositore, Francesco Agnello, oltre che dedicarsi genericamente al violino, alle arti, alla storia, cercava di migliorare il rapporto interpersonale fra uomini diversi per età, motivazio-
ni, esperienze. Ne seguivano interpretazioni morali sul comportamento, l'influenza dei vecchi sui giovani all’interno del gruppo, interpretazioni che trovavano la via spianata nel caso di Bebbuzzo, pronto a cogliere ogni occasione di effusione sentimentale, un atteggiamento di sarcastica condiscendenza in Giuseppe e poca simpatia nel mondo al di là dello specchio, il Wonderland di Capo d'Orlando. I suoi abitanti, nei riguardi del “vescovo”, come avevano sopran-
nominato Francesco, finirono con l’acquisire un tono difensivo. Dal canto suo Antonio Pasqualino coltivava una
passione teatrale, una conoscenza e pratica del teatro di marionette e delle sue fonti letterarie, in particolare del
Guerin meschino e der Reali di Francia di Andrea da Barberino, anche se era convinto che si sarebbe dedicato alla
medicina e chirurgia nella clinica della madre. Ma il suo hobby di gioventù è poi rimasto una professione collaterale, e dirige oggi insieme alla moglie il museo delle marionette di Palermo. Altri, Bebè Pintacuda ed Elio Balletti,
gravitavano attorno al palazzetto di corso Scinà e davan fiato per un verso 0 per l’altro al misterioso prestigio del padrone di casa incantatore. Ed il cerchio magico aveva anche il suo souffre-douleurs in Ubaldo Mirabelli, rimasto a lungo soprintendente del Teatro Massimo, carica che ha lasciato nel 1995, docente all’Accademia di belle arti di Palermo e critico d'arte, allora giornalista e al tempo stesso filosofo, e, in quanto più anziano di noi, esperto di erotismo e peren-
nemente innamorato. Le sue traversie sentimentali erano oggetto di smisurata attenzione da parte del mago e fonte di gran divertimento per tutti noî.
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Fra tutti questi giovani, dilettanti di maggior 0 minor talento, vi era soltanto un professionista, Francesco Or-
lando. I Piccolo lo avevan battezzato tout-court il poeta, e poeta a quei tempi Francesco era per davvero. Pubblicò nell'adolescenza un libro di poesie plasmato su Les Fleurs du mal. Bebbuzzo lo aveva presentato nel 1953 a Lampedusa come poeta e letterato, e Francesco gli aveva sottoposto man mano le sue liriche. Questo talento poetico, autenticato da Giuseppe fin quando non si arrese alle riserve di Lucio Piccolo, fu la molla iniziale che lo spinse a dedi-
cargli un paio d’anni della propria vita. Francesco era molto più precocemente colto di tutti noi. Aveva un interesse
professionale per la letteratura e si dedicava a letture ampie e metodiche, laddove noi eravamo orecchianti, e molti
di noi lo sarebbero rimasti per sempre. A differenza degli altri Francesco aveva già pensato sul finire degli studi medi di fuggire, a vent'anni la decisione era già matura e per fuggire lavorava assiduamente, non per imprecise ambizioni artistiche, ma per acquisire una scholarship capace di avviarlo al più presto alla carriera accademica. Il suo retroterra familiare e privato era senza dubbio più penoso del nostro, gli aveva aperto precocemente gli occhi. Egli cercò subito quella emancipazione dalla famiglia, dalla Sicilia, a cui anche Francesco Agnello e io, allora adagiati nella speranza di vivere come i nostri padri, dovevamo più o meno arrenderci. L’orecchio di Orlando per le lingue era inferiore al mio, che conoscevo l'inglese dalla nursery, e avevo avuto a casa frequenti occasioni di assistere o parteCcipare a conversazioni tn francese, oltre ad aver avuto as-
sieme a lui lo stesso e ottimo insegnante di francese alle scuole medie, Nicola De Girolamo. Ma Francesco posse-
deva una prontezza di assimilazione del lessico, degli idiotismi, dei nessi sintattici assolutamente sbalorditiva. Im-
parò l'inglese dal nulla in circa un anno di letture. Lo doveva a una memoria eccezionalmente potente, che, se
non è un segno certo di capacità intellettuali fuor del co-
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mune, è pur sempre un mezzo straordinario di apprendimento. Verso i dieci anni anch'io ero capace di ricordare
una pagina di testo con due o tre letture. Poi questa facoltà scomparve e ora riesco soltanto a tener sulla punta delle dita tutti i dati inerenti alle diverse attività che mi occupano. Mi consolo così di non poter citare per intero
utia sola poesia, di poter suonare a memoria non più di dieci pezzi di musica, e anche questi col pericolo di un intoppo. In tal senso ero già fuori gara a diciott’anni, mentre Francesco era în grado di inserirsi con pertinenza nei tor-
nei di citazioni poetiche fra Piccolo e Lampedusa. Era più agguerrito di Lampedusa nei vasti poemi italiani, Dante, Ariosto, Tasso, dove Piccolo era comunque imbattibile, evidentemente soccombente nelle letterature straniere, se
non forse l'amato Baudelaire. Nella sua bizzarria Lucio dapprima cercò la compagnia di Orlando, lo invitava a pranzo in occasione delle sue visite palermitane. A modo suo Lucio era un poeta professionale, molto più di quanto
Giuseppe fosse un letterato professionale: di conseguenza Lucio era pronto a entrare in sintonia con il mondo lette-
rario e accademico, che il principe degnava tutt'al più di qualche burla rispettosa. Cecchi e Montale gli apparvero a San Pellegrino consci della propria importanza, come lo possono essere i marescialli di Francia, ma poté toccar con mano che di Martin Tupper non avevano letto un bel niente. Di ritorno dal suo solo e unico tuffo nell’ufficialità culturale scriverà con la solita ambivalenza: «Adesso sono matematicamente sicuro di essere il solo in Italia ad aver letto Tupper. Cecchi e Montale lo ignorano, sia detto a loro lode: per amarlo occorre un po’ di necrofilia». Seppur incomparabilmente più eccentrico, capace di squilibrate originalità, Lucio aveva i tratti dello scholar, dell’umanista, quanto più lontano dal mondo di Lampedusa si possa immaginare. Lucio riconobbe in Orlando una comunanza di interessi, una certa propensione astrat-
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ta per la tecnica poetica, per l’analisi del testo, che era per Lampedusa di marginale interesse. I loro scambi di opinioni erano più professionali che mondani, si sarebbe potuto prevedere che sarebbero stati più duraturi di quelli dell'allievo col maestro, considerando che l'allievo opponeva una assoluta resistenza a vedere il mondo con gli occhi del principe. Francesco mancava di ogni propensione per il senso ultimo di una cultura aristocratica, la sua atarassica autosufficienza, il suo protettarsi in comportamen-
to e in godibilità, il suo rifiuto della metodologia e della scienza. Ma da Capo d'Orlando dovette partire un veto. Attorno ai Piccolo si agitava un mondo di interessi campestri che sapeva cogliere il lato debole della loro innegabile “eccentricità”. Forze oscure, spiriti della fiumara in carne e ossa si intromisero. Dietro i suggerimenti attribuiti agli ectoplasmi si nascondevano interessi reali, e ponevano
ogni tanto un veto al proseguimento dei contatti, veti che colpivano or questo or quel frequentatore dei bizzarri, geniali, adorabili fratelli. Persino Lampedusa e io fummo a volte presi di mira. Orlando fu spazzato via senza appello.
Sul finire del 1953 Orlando era al secondo anno di giurisprudenza. È indubbio che Lampedusa lo avesse in simpatia, ma la spinta finale all'offerta del corso di lingua e letteratura inglese venne probabilmente dalla principessa. Il suo amore del prossimo aveva tratti più concreti di quelli che rientrano nella categoria del divertimento, prodromo a un tempo di separazioni penose che sarebbero state la fine inevitabile di tanti suoi affetti. Era sempre lei a decidere quanto esulasse dalla routine, fu anche lei a decidere la mia adozione da parte del marito. Biografi e gazzettieri del caso Lampedusa hanno spesso parlato di un corso di lezioni tenute a un gruppo di giovani, di una sorta di cenacolo riunito attorno all'uomo che aveva letto tutti i libri. È un travisamento della verità. Le lezioni furono scritte, adoperate, soltanto per Orlando, e lette clandesti-
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namente da me in blocchi che mi venivano forniti da Giuseppe sotto la consegna del silenzio, e che ero tenuto a restituire. Le lezioni collettive furono poche, concentrate all’inizio del corso e non più del dieci per cento del totale, e anche a queste non avranno partecipato più di due o tre persone, oltre a Francesco e a me. Il plurale maiestatis rivolto a più riprese all’auditorio, i tanti inviti al plurale a. leggere or questo or quello sono finzione letteraria. D'altra parte, oltre a Orlando, a Pasqualino, alla mia fidanza-
ta Mirella Radice e a me, nessuno masticava l'inglese a sufficienza per leggere alcunché. L’uditorio più ampio delle prime lezioni (Agnello, e altri ospiti saltuari che per la loro mutevolezza possiamo dire occasionali, e che portano a una diecina le persone che hanno ascoltato almeno una lezione) era stato attratto più dalla curiosità dell’insolito spettacolo che da amore della letteratura. Lampedusa lo aveva compensato con l’invettiva contro il melodramma. Giunti ai poeti elisabettiani questo auditorio si era bell'e diradato. Sul finire del corso si verificò infine un affollamento straordinario per una replica pubblica delle lezioni su Joyce e su Eliot. Furono due sedute formali nella biblioteca del piano nobile, a cui parteciparono una diecina di persone, sollecitate dalla curiosità per questi maestri dell'avanguardia, che, anche se non letti, erano allora sulla bocca di tutti. Il corso di Lampedusa era un po’ come il racconto di Prospero a Miranda. Il vecchio mago parlava per se stesso e per tutti, mentre ilfuturo accademico ne assorbiva quella parte del sapere che gli era congeniale. I due sinceramente si apprezzavano, anche se la specificità delle loro nature non avrebbe consentito l'insorgere di una affinità elettiva. La passionalità analitica della principessa fece il resto e contribuì a turbare il rapporto. Ma le lezioni non sarebbero state scritte se l'avidità di apprendere dell'allievo non avesse convinto Lampedusa che dopo tutto non avrebbe perso il proprio tempo.
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Giuseppe Tomasi non avrebbe mai pubblicato le sue divagazioni di lettore, colme di una soggettività che si spinge fino all'errore. A trentotto anni dalla sua morte nessuno ha più bisogno di pretendere che questo sia un manuale esemplare, ma la fama, la peculiarità dello scrittore, dello stesso caso Lampedusa, sollecitano una conoscenza dell’uomo e del suo mondo di cui le lezioni costituiscono il documento di gran lunga più ampio e significativo. Giuseppe non è più qui per dedicare queste 600 pagine al loro “only begetter”, né to potrei farlo. Mi permetto di dedicare a Francesco questa mia memoria.
Letteratura inglese Giuseppe Tomasi ha lasciato la sua Letteratura inglese ordinata in quattro raccoglitori. Ogni raccoglitore, salvo il primo, reca la data di inizio e fine. Il secondo fu iniziato il 20 febbraio del 1954. Il quarto compiuto il 3 settembre dello stesso anno. Sono quasi 1000 pagine manoscritte, stese in undici-dodici mesi. È il primo scritto letterario di Tomasi dopo i tre saggi del 1926-27 apparsi sulla rivista genovese «Le Opere e i Giorni». L'appuntamento con Orlando era trisettimanale, alle sei del pomeriggio, la razione di 15-20 fogli manoscritti. Orlando era incaricato della lettura, sia che fosse solo 0 in compagnia. L'idea del lettore che non sapeva quel che gli sarebbe toccato divertiva l’autore; egli ascoltava sornione e compiaciuto quando qualche impertinenza nella narrazione biografica o nei riguardi di qualcuno dei suoi nuovi e vecchi amici colpiva nel segno. A più riprese nel corso dell'esposizione Giuseppe assicura gli ascoltatori che ifogli quadrettati per contabilità, formato protocollo, fitti della sua minuta grafia, sarebbero stati distrutti non appena essi avrebbero varcato la porta. Sapevo che ciò non era letteralmente vero. Difatti nel corso di quello stesso 1954 e dell’anno successivo
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egli mi diede in prestito le lezioni raccolte în vari blocchi. Ma lo stesso andava ripetendo a sua moglie, e dopo il 54 fu tanto assorbito dalla sua attività di scrittore che l’interesse dei suoi intimi per le lezioni venne a cadere. Il convegno di San Pellegrino e la presentazione di Lucio nel mondo delle lettere risale al luglio di quell’anno. Quando Giuseppe morì, per alcuni anni le lezioni sembrarono smarrite, e Licy pensò che quanto il marito le aveva assicurato a proposito della loro distruzione, pur se fra il serio e ilfaceto, fosse purtroppo la verità. La casa di via Butera non era un modello di ordine, ed entrambi i Lampedusa
avevano una infantile gioia del nascondiglio. Lei riponeva in doppi fondi argenteria e altri oggetti presumibilmente di valore (ifamosi cassetti segreti dei mobili siciliani, «segreti a tutti salvo ai ladri», come commentava Giuseppe), lui adibiva i libri a cassetta di sicurezza. Io stesso ho trovato una banconota da cinquemila lire fra le pagine di una rivista ottocentesca, il «Poliorama pittoresco», lasciata lì
per un soccorso di emergenza e poi smarrita. Giuseppe
stesso mi aveva raccontato di questa sua mania, ridendo poi di se stesso al pensiero di possedere suppergià venti o trentamila lire che non era più in grado di ricordare dove fossero. E ancora qualche anno fa mia moglie ha rinvenuto in un libro una descrizione del palazzo Lampedusa di Torretta, un frammento sciolto dei Ricordi d’infanzia,
quanto di più sinistro la Sicilia del Nostro possa offrire, assieme al paese nell’alba livida che circonda la partenza di Chevalley da Donnafugata. Dopo il ritrovamento della Letteratura inglese, in un primo momento Licy era stata attratta dall'idea di una pubblicazione di questa e delle lezioni di letteratura francese, scritte nel corso del 1955 sempre per Francesco Orlando. Pensava anche di affidarne la revisione rispettivamente a Gabriele Baldini e a Giovanni Macchia, e a Macchia mostrò alcuni passi delle lezioni francesi. Alcune
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riserve la misero però in allarme, e decise allora che avrebbe mostrato ai potenziali editori soltanto dei dattiloscritti redatti sotto la propria sorveglianza. Ma sia che i manoscritti offrissero una difficile decifrazione, sia che il dattilografo non si trovasse, questo progetto non andò mai in porto. Quando Livia de Stefani cercò di acquisire la Letteratura inglese per la Rizzoli la trattativa si arenò di fronte alla impossibilità materiale di entrare in possesso del testo. Quel che non si riesce a concludere a settant'anni è addirittura impossibile a ottanta e oltre, e le lezioni rimasero in un angolo della libreria di via Butera, assieme ad
altri fasci di carte, appunti di sogni e protocolli di analisi. Il primo lettore dai tempi di Orlando della Letteratura inglese è stato David Gilmour, autore della più recente biografia dello scrittore. L’opinione di un inglese colto, storico di professione, su un’opera riguardante il suo paese mi è parsa fondamentale per prendere una decisione sull'opportunità di una pubblicazione. Riassumendo a mio modo le sue impressioni dirò che l’opera ha un valore documentario straordinario, una tenuta narrativa discontinua anche se a tratti affascinante, una condotta critica che dall'originale sconfina nel romanzesco, una inquadratura storica sovente ingenua; al tempo stesso Gilmour re-
stava sbalordito da quanto Lampedusa avesse letto, dallo straripare, dilagare di una mostruosa esperienza diretta, da una ricognizione di testi diversissimi, importanti, mediocri, pessimi, attraverso la quale l’autore aveva ricostrui-
to una civiltà, in uno con la sua dedizione e amore per il
paese prediletto. Una ricognizione della letteratura inglese in sintonia col caso Gattopardo, quel procedere anomalo, da outsider, da dilettante, anche se assistito da una
esperienza dei testi confrontabile con la migliore formazione accademica. Volendo rifarsi a precedenti italiani vi sono tratti del Gabriele Baldini musicologo verdiano, le sue stupende osservazioni e relazioni d'ascolto che nessun
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musicologo imbrigliato nella Wissenschaft avrebbe mai fatto, e scivolate, banalità, sul genere della Storia d’Italia
di Indro Montanelli. In comune con quest’ultimo Lampedusa ha infatti la preoccupazione di non annotare, di non risparmiarsi nessuna generalizzazione purché spiritosa e di conseguenza efficace. Ma raramente manca in Tomasi una
sostanza, la relazione diretta di una scoperta personale, forse non sempre plausibile, ma non per questo meno affascinante. Fosse vissuto fino al tempo in cui il mercato gli avrebbe strappato di mano ifondi di magazzino, Giuseppe Tomasi avrebbe rivisto il testo da par suo. Una sua revisione avrebbe contemperato la passione del bon mot con le cadute di tono, ripulito le trasandatezze stilistiche, le
imprecisioni di una memoria fulgida ma umanamente fallibile. Le dispense sicuramente non sono state riviste. Si osservano infatti tratti di una scrittura totalmente di getto, mossa soltanto dalla gioia del ricordo, dall’accumula-
zione dell'esperienza, e dalla voglia di divertire e divertirsi. Occasionalmente non mancano
ripetizioni, verbi 0
pronomi saltati, segno della massima fretta e della mancanza di una correttura. Questo testo ipotetico sarebbe forse uscito dalla revisione come una versione tomasiana dei più corrivi Aneddoti di varia Letteratura del Croce. Giuseppe burlava la critica letteraria crociana per le lodi degli umanisti, e del Bembo in particolare, pur ammirandone la perfezione dello stile, la vivacità, la malizia del
trattamento riservato agli stupidi e ai critici letterari fascisti. Croce, di cui poco lo interessava l’opera filosofica e teorica, era pur sempre un maestro di fronte al quale metteva da parte il sarcasmo. Una volta gli feci notare che, a giudicare dal suo saggio su Hopkins, Croce non aveva quasi sentore delle tecniche di sovrapposizione e di contrazione temporale della poesia moderna, analizzate da Tomasi nella Letteratura inglese 4 partire appunto da Hopkins. Ma Giuseppe non colse l'occasione per beffarsi di un grand’uomo, il saggio di Croce in verità non è parti-
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colarmente illuminante — e rispose che il critico non può divinare quel che sarà alla portata comune della generazione successiva. Il laboratorio del narratore è già tutto nelle lezioni. Lo stile di esposizione è quello del romanzo. Giuseppe rivela già qui un talento sommo di sceneggiatore, come avviene
quando nelle mani di Suso Cecchi da un aneddoto vien fuori un copione. Si vede lo scrittore torrenziale, sempre ricco di materiale, capace di trasformare un'informazione in racconto. Quando si possiede la pietra filosofale è difficile rinunziarvi, se l’aneddoto manca Giuseppe se lo inventa. Fonde ad esempio in una sola persona sir William Temple con un suo successore all'ambasciata britannica dell'Aja, per render più piccante la storia di come Matthew Prior aprì le porte alla propria carriera. Ed era inevitabile che il diario di Samuel Pepys destasse in lui un entusiasmo senza pari. Nell'’immenso magma dei temi, degli interessi, si possono cogliere alcuni filoni precisi, quelli su cui si sofferma a preferenza il suo talento ora di moralista, ora di narratolo-
go e di romanziere, ora infine di critico.
II moralismo si compendia nella sua personale anglomania. Questa non si esaurisce in se stessa ma si accende
in rapporto ai costumi di altri popoli ed evidentemente e soprattutto in rapporto all'Italia e alla Sicilia. Di qui i sarcasmi sull'ignoranza di Mussolini. Non ha letto The Pilgrim’s Progress, ron ha letto Izaak Walton e pensava di battere l'Inghilterra nei suoi due volti, quello cocciuto e puritano di Bunyan e quello civile di chi per lodare un poeta lo apostrofa quale «gentleman and friend». Ed è stato anche il solo uomo politico a manifestare ammirazione per Machiavelli, col risultato antimachiavellico per
eccellenza, conclude Giuseppe, «di svegliare tutti i sospetti». Per Giuseppe l'Italia è anche il paese stendhaliano culla di ogni delitto. Così Livorno con la sua acqua pestilenziale spedisce all’altro mondo il povero Smollett. (Ma
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per chi non lo avesse presente occorre ricordare che lo stesso inconveniente occorse al diletto Prince Albert con l’acqua di Windsor.) Apodittico il ritratto di Dante quale «buon esemplare d'italiano»: «Egli possedeva molte caratteristiche di tutti noi: il culto della forma, l’espressione icastica, la faziosità, la povertà, il “fuoriuscitismo”», ma
per esser perfetto italiano occorrerebbe, aggiunge il principaccio, «che sapessimo in modo irrefragabile che fosse anche chiacchierone, donnaiolo e doppiogiochista: egli non sarebbe più il signor Dante Alighieri, sarebbe l’Italia». Di contro Samuel Johnson, epitome dell'Inghilterra,
è un ecologista; quando i ladri per derubarlo gli rompono due costole e gli spezzano tre denti, descrive l'incidente come uno scambio di opinioni un po’ vivace, laddove «uno di noi avrebbe detto “m'ammazzaru”», e così via. Fra i due contendenti l'arbitro è venduto sul serio. Così la lapide apposta dal comune di Viareggio sul luogo dove fu cremato il corpo di Shelley, che non vi vien manco
menzionato, suscita nell’indignato ammiratore il commento: «composta con la consueta e pervicace ignoranza dei nostri municipi». E le mode letterarie producono in Italia il loro peggio. Discendenti del Child Harold sono tanto il West-6stlicher Divan di Goethe, Les Orientales
di Hugo e i Profughi di Parga di Berchet. «Sotto la percossa byroniana ogni selce diede quel che poté» commenta Lampedusa, «capolavori maggiori di quelli dell’incitatore, o modeste opericciole.» Ma il pet hate del Nostro è il povero Carducci: lo doveva aver appreso a memoria da ragazzo, al tempo della sua massima popolarità, e lo trovava adesso poco più d’un cretino. «Guglielmo, re de’ poeti da l'ardua fronte serena.» «È un verso di Carducci. E la sua Mille e Unesima fesseria», commenta Lampedu-
sa dopo esser sceso ‘negli abissi di Measure for Measure. E ricorderà ancora la lirica del nostro premio Nobel sulla tomba di Shelley al cimitero del Testaccio, «una delle sue peggiori». Per non parlare della narrativa italiana mino-
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re. Laddove i minori vittoriani scrivono in onesto inglese, «i nostri Grossi, d’Azeglio, Rosini, Cantù e Guerrazzi
scrivono una specie di “esperanto” che loro soli possono capire», e se a qualcuno venisse in mente di leggere per passatempo in treno la Luisa Strozzi di Rosini lo «ritroveranno impiccato al portabagagli». Il romanticismo italiano, se si eccettuano î veri grandi, Manzoni, Foscolo,
Leopardi, destava in Lampedusa soprattutto ilarità. Si prese così la briga di introdurre il capitolo sui fratelli Rossetti ricopiando ampi stralci di una poesia del loro padre Gabriele, «uno di quei venerandi e fessissimi liberali napoletani del 1821», e di commentarla nel modo più esila-
rante, contrappuntando il verbiage patriottico ai disastrosi esiti militari. Non sfuggiva a Lampedusa l'assenza di istituzioni culturali atte a formare nel nostro paese una classe dirigente
omogenea e degna di tal nome. Il suo soffermarsi sulle highschools e sulle università inglesi aveva il senso di indicare un punto cruciale delle sue motivate preferenze. Anche se ammetteva che nel quadro palermitano la circolazione di idee era migliorata dai tempi della sua gioventù. «Voi giovani potete con difficoltà farvi idea diquanto ristretto fosse l'orizzonte intellettuale di cento anni fa a Palermo. Si credeva sul serio che Giovanni Meli fosse uno dei due o tre poeti sommi italiani e che Paolo Emiliano Giudici avesse scritto la storia definitiva della letteratura, che Pietro Novelli fosse un pittore e Paciniun musicista.» Era il clima in cui Carlyle diventava un profeta e D'Annunzio avrebbe imposto il dannunzianesimo. Ma Palermo è e resta un “backwater”, dove non si trova un libro nemmeno se lo si ordina, e questa lagnanza si intensifica man mano che ci si accosta all’epilogo. Più volte ancora se la prende con i sicilianisti locali che incontrava da Caflish, i De Carlo e i Falzone, tanto esperti di viaggiatori stranieri, ma poco versati nella lettura delle loro
lingue. Non conoscono le lettere di Matthew Arnold sulla
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Sicilia, «di grande interesse artistico e sociale come nai ban-
no riferito». Ma quando commenta la loro ignoranza del periplo siciliano compiuto da Samuel Butler nel 1896, «proprio l'anno
in cui nascevo
to, prendendo
appunti
e
paragonando ogni capo ed ogni isoletta con quelli nominati da Omero», passa all'ingiuria esplicita: «È strano come i nostri eruditi locali che spulciano la presenza in Sicilia di qualsiasi imbecille straniero non si siano mai occupati di questo tenace e geniale viaggiatore». D'altra parte gli eruditi palermitani, locali o internazionali che siano, hanno per-
severato nella poca dimestichezza con le lingue anglosassoni. Arnold e Butler aspettano ancora. E l'opinione diminutiva di Ruskin sull'arte în Sicilia: «the nearly-Greek temples, the nearly-gothic churches, the nearly-byzantine mosatcs and the nearly-baroque monuments», si riverserà nelle parole di don Fabrizio sulla assenza di una civiltà artistica specificamente siciliana. Come ha riferito Orlando nel
suo Ricordo di Lampedusa, su/finire del 54, sia che urgesse l’opera del narratore, sia che gli sembrasse davvero di sprecare ilproprio tempo, ilprincipe sembrava aver esaurito
la pazienza. L'ultima parte della Letteratura inglese è pd intollerante che mai. Lo scherno non risparmia adesso gli editori italiani di grido. Ha visto una edizione Einaudi del Portrait of a Lady di Henry James: «fausto segno che da noi ci si accorge dei grandi scrittori quaranta anni dopo la loro morte». La canicola estiva picchia sulla città, e si chiede anche perché mai debba continuare a darci il suo parere, quando avremmo potuto abbeverarcialDizionario delle Opere e dei Personaggi della Bompiani: «opera, per le sue illustrazioni, egregia. A qual fine parlare di Kim, per esempio, se vi
sarà sufficiente aprire uno di quei volumi rossi e dopo breve sfogliare troverete un riassuntino ammodo seguito anche da ottime critiche come: Kipling è uno dei maggiori narratori del nostro tempo. Pinco Pallino
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Forse Kipling sapeva far molte cose ma non certo narrare una
storia.
Tizio de’ Catis»
Ha proprio voglia di piantar tutto. E conclude con fatalismo, vera e profonda ascendenza dell’Africa mediterra-
nea: «Scrivendo 0 non scrivendo il caldo c'è lo stesso». Emergono cattivi ricordi, più per lui che per il gruppo di ascoltatori, che stante la loro età potevano tutt'al più avere un senso molto vago di tali pene: «Noi italiani, adesso, abbiamo una netta ripugnanza verso la parola Impero che ai nostri occhi implica vociare di piazza, vanterie ridicole, guerre ingiuste e batoste». Ed i suoi giovani allievi non gli facevano sperare di meglio: «Voi, naturalmente, da buoni italiani che desiderate la letteratura “seria” per poter più serenamente condurre una vita non-seria...». Oppure sfotte-
va i nostri magari modesti sforzi di uscire dal pantano: «Non potrei abbastanza consigliarvi di leggere molto Conrad. Ne trarrete un grande godimento estetico, e ne trarrete anche un altro non mediocre profitto: quello di apprendere che esiste un altro mare oltre quel vezzoso pantano che umetta Mondello, altri uomini (e altre donne) oltre quelli che cinquanta volte al giorno arano via Ruggero Settimo, altri problemi psicologici e “approfondimenti” (come li chiamate) che neppure possono passare per la testa in questo brodetto semitiepido». O ancora ci tacciava diarretrare spaventati davanti all'applicazione che richiedeva la lettura di Hopkins, eravamo «temperamenti pigri che preferiscono le prostitute alle vergini».
La malinconia di don Fabrizio è alle porte e Lampedusa afferma che il problema del prolungamento della vita, come è posto da Shaw in Back to Methuselah, «è posto in termini del tutto errati, in quanto la vera tragedia dell’umanità non consiste nel fatto che gli uomini muoiono troppo presto ma proprio in quello che vivono troppo a lungo».
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«Finché c'è morte c'è speranza», sarà la massima consolatoria del suo eroe. E nell’illustrare il concetto del tempo in Virginia Woolf scoprirà il ritmo che accompagna la morte
di don Fabrizio: «in Proust il tempo è contemplato come “tempo trascorso”, mai come “tempo fluente”. La Recherche du temps perdu è ur libro di memorie, i romanzi della Woolf sono come quei diagrammi che al capezzale dei ricoverati all'ospedale segnano ora per ora la febbre. La nostra epoca attuale è divenuta sensibilissima al Tempo che continuamente udiamo rombare come ilfrastuono della cascata che c'inghiottirà e verso la quale, senza scampo, fluiamo». Eravamo prossimi al «dark, dark, dark» dei Four Quartets di Eliot. E il suo veleno attaccava quel corpo della nazione, oggi screditato quanto e più degli altri, ma allora circondato da un’aura sacrale, la giustizia italiana. «Non vi sono che
le nostre Corti d'Assise che condannano un tipo all’ergastolo per omicidio premeditato più sei mesi di arresto per porto d’armi proibito.» E nel descrivere la tecnica del giallo sottolineava che è indispensabile ambientare questo tipo di narrazione in paesi dove l’habeas corpus non risulti vana parola. «Da noî se avviene un omicidio si comincia con l’ar-
restare la moglie, ifigli, i genitori, ifratelli, gli zii, i cuginie tutti i conoscenti della vittima. Uno di questi deve essere il colpevole. E di fronte a tanta perentoria sicurezza il “detective” che si trastulla con la cenere delle sigarette e le macchioline del caffè appare, come è, ridicolo.» Profezia di luce sinistra, per cui è possibile che un inglese possa esser in buona fede convinto che Roberto Calvi si sia appeso al ponte dei Blackfriars, ma nel suo intimo nessun italiano è convinto che un omicidio, con cui si è posta la parola fine a una operazione politica di ricambio al potere, sia opera solitaria di un piccolo gruppo eversivo, o che uno yuppie di Atlanta abbia maneggiato in solitudine tre miliardi di dollari. Un argomento collaterale a tanta esterofilia è costituito dall'attacco frontale a quella forma artistica che egli considerava responsabile di gran parte dell'ignoranza naziona-
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le, il melodramma. Oltre che in un inserto apposito, venutogli di getto nel mentre, scrivendo sul teatro di Shakespeare, si rammenta del fatto che gli italiani conoscono l’opera Otello anziché la tragedia, le punzecchiature si trovano a ogni piè sospinto. E alcune contano fra le battute più deliziose del libro, come questa su Wordsworth: «Se si
fosse iscritto ai giacobini sarebbe probabilmente perito durante il Terrore insieme ad André Chénier; ma la difficoltà di pronuncia del suo nome avrebbe impedito che anche lui fosse tratto sulla nostra scena lirica». Motivazione d'altra parte insufficiente a schivare l'eventuale scempio. Lampedusa non era a conoscenza che Leoncavallo aveva scritto un Chatterton, un’opera su Thomas Chatterton,
mediata dal dramma di de Vigny. È inutile qui che elenchi singolarmente le sue insolenze. Emergono non appena gliene capiti l'occasione. Degli operisti romantici non se ne salva nessuno, men che mai
Bellini anche se non perpetrò alcun delitto di lesa maestà letteraria. Al sentimentale Bebbuzzo che, dopo poche pagine dell’Ulysses, lo aveva chiuso affermando che era opera di un mistificatore, replicava che questa era l'opinione di «coloro che non scorgono la mistificazione che si spiattella nelle tele di Bouguereau o nelle odi di Carducci, nei litri di sciroppo della musica di Bellini e dei versi di Gozzano». Ma la sua cautela non lo salvò dall’esser a sua volta melodrammatico quando volle tipizzare lo spirito d'avventura della società elisabettiana. E ne uscì un quadro alla Cammarano, una società da cappa e spada, che veniva incontro a una sua mai sopita, pur se repressa, ammirazio-
ne per la sfrenatezza e l'eccesso. È il momento più montanelliano di tutto il corso. Come è stato osservato fin dalla pubblicazione su «Paragone» delle Lezioni su Stendhal, l'esercizio critico sollecitava in Lampedusa anche elucubrazioni da narratologo. A un punto della Letteratura inglese Giuseppe riferisce co-
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me, non potendo nella sua solitudine poi leggere tutto il santo giorno, egli si diletti a riorganizzare in ipotesi teori-
che la propria esperienza di lettore. Queste ipotesi sono assai varie. Molte sono fondate su un legame per Lampedusa indissolubile, quello fra biografia e opera d’arte. Lampedusa era un sainte-beuviano di ferro. Fra queste ipotesi quindi
la ricostruzione della biografia ignota era uno dei suoi principali divertimenti, ed essa trova la sua più concreta applicazione nella esposizione delle opere di Shakespeare. L'assenza di documenti non consentiva certo di raccontarci
quel che Shakespeare aveva in realtà fatto, il romanzesco della critica letteraria di Lampedusa è un romanzo del possibile, ma i Sonetti e la rilettura del teatro shakespeariano
consentirono a Lampedusa di scrivere il romanzo della sua vita affettiva. È un vero e proprio lavoro difiction, la parte della Letteratura che rimase più impressa nella memoria del piccolo cenacolo. Si era anche all’inizio,
e Lampedusa
aveva dato alle letture un po’ il taglio di una letteratura per bambini. La sua affermazione che non aveva consultato un manuale è fin qui anche sostanzialmente vera. Dopo, quando gli fu necessario servirsene — il book of reference è fondamentalmente la Cambridge History of English Literature, — la piega dell'esposizione vira verso un tono più sfaccettato, non l’alta cultura, a cui si sentiva estraneo e di
cui sostanzialmente gli importava ben poco, ma quella come dice lui di mezza-tacca. Non che rinunziasse a fantasti-
care, ma il metodo seguito è ora quello dell'esposizione sceneggiata condotta per eccessi. La seconda grande biografia delle lezioni, almeno per ampiezza, è quella di Byron, dove Lampedusa poté far sfoggio di questo suo talento per la drammatizzazione sarcastica. Una narrazione costruita per
accostamento di aneddoti, quel procedere come dirà lui «alla carlona», che tanto ammirava nei Pickwick Papers e che, desunto come si vedrà dall'analisi dell'amato Dickens, resterà il tratto stilistico più costante della sua opera narrativa. Noi siamo oggi abituati alla diffusione triviale del re-
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soconto giornalistico inventato dal «Giorno» di Baldacci: «un uomo uscì sull’imbrunire dal portone di via Nazionale, schivava la premura degli uscieri, si sottrasse al servizio di sicurezza che dalla singolarità del suo comportamento ritenne di essersi ingannato sulla sua identità, si avviò per via IV Novembre, era Carlo Azeglio Ciampi»; chiusa la se-
quenza introduttiva del portratt, il giornalista baldacciano, espressiano, panoramiano, repubblicano, vi informerà sulle apprensioni del Governatore per il buco di Atlanta 0 quello del Commercio Estero, esporrà soluzioni lapalissiane per risolvere il tutto, confidategli ovviamente dalla cerchia del Governatore stesso se vuol farci intravedere la sua attendibilità di confidente di palazzo, o le farà emergere da una notizia riservata che ha per intermediario l'amica se-
greta di qualche illustre personaggio, se vuol giocar la carta porno detective (tecnica d'incontro fra giornalismo e fiction fattasi più desueta dopo il successo “grillo parlante” del giornalista confidente), per concludere che soltanto occul-
ti nemici, i sindacati, gli andreottiani, gli italiani tutti, stronzi e consumisti e spendaccioni, impediscono un ritor-
no alle magnifiche sorti e progressive. Questa sceneggiatura dell’informazione, fondata sull’esagerazione e l'eccesso, di cui mi sono concesso un ritrattino ai tempi preagonici
della Prima Repubblica, è la stessa adoprata da Lampedusa, prima ancora della sua banalizzazione giornalistica. Di-
fatti negli anni Cinquanta usava ancora in Italia il giornalismo paludato ed era affatto sconosciuta. Nella Letteratura inglese la presentazione di Izaak Walton ne fornisce un esempio che attinge il sublime. St. James's Street è la sequenza di accesso attraverso cui capire Walton e con lui l'Inghilterra, vera terra adorata di piccole cose e di prassi eccentriche, tutte discrete, ma correlate, significative, sorm-
ma di segnali che risvegliano nel cuore dello scrittore l’estasi dell’adorazione. Non citerò, ma a quei lettori che si fosse-
ro infastiditi dopo la centesima o la duecentesima pagina e
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pensassero di abbandonare, consiglio di correre alle sei pagine su Walton. Sono la somma di tutto. Questa sceneggiatura dell’informazione risale al primo Dickens, ed è corrente nei Pickwick Papers. Dickens più di Stendhal è il vero biglietto d'accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa. La singolarità di uno scrittore che sembra emergere senza precise filiazioni dirette se non tutte le possibili, e le più ovvie. Quel suo procedere «alla carlona» per accostamenti e bozzetti, la cura con cut fa uscire dall'anonimato ogni comparsa è proprio quanto egli ammira sin dalla «prima maniera» di Dickens. Se gli italiani leggessero si sarebbero potuti risparmiare i vari e falsi collegamenti siciliani (De Roberto, Brancati). L’abbaglio era inevitabile, secondo una diagnosi che risale allo stesso Lampedusa. Nell’affermare che «Dickens è ancora ai giorni nostri lo scrittore maggiormente letto», prose-
guiva prefigurando l'assenza da parte nostra di una conferma a tale assunto. «Non bisogna giudicare dall'Italia dove, in linea di massima, non si legge; ma non vi è chiosco di stazione 0 biblioteca circolante in Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Unione Sovietica (mi è stato riferito)
dove non siano esposte due o tre sue opere.» Dickens è difatti l’autore nel cui ambito si svolge ilperiodo di apprendistato dello scrittore, il che per Lampedusa significa tutto l'arco dell'attività, in soli quattro anni non poteva aver ancor varcato la propria “prima maniera”. Quando, parlando di Northanger Abbey di Jane Austin, afferma che «è come ogni “opera prima” una velata autobiografia» il narratologo anticipa il proprio cammino. L'analisi della sua narratologia rivela l’impalcatura teorica che Lampedusa si pose come narratore, fino a quella della compresenza dei significati, quella tecnica di compressione del tempo e dello spazio, del superamento della griglia tridimensionale e temporale in cui viviamo per passare alla elaborazione di altre griglie concettualmente ipotetiche, processo tipico delle avanguar-
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die storiche, amato e studiato da Lampedusa nei moderni,
da Hopkins a Joyce, da Eliot alla Woolf. da Rimbaud a Mal: larmé, ma rinvenuto all'indietro fino in una lapide inclusa in un racconto di Dickens, con cui si chiude l’analisi di questo scrittore. Giuseppe Tomasi, apparentemente tardo naturalista, vi proverà la mano a più riprese. Esempio proban-
te le formiche che marciano impettite nella canicola estiva della campagna siciliana: «Richiamate da alcuni chicchi di uva stantia... accorrevano esaltate di annettersi quel po’ di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti
colme di baldanza, in disordine ma risolute... poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il sicuro avvenire; i dorsi lucidi di quegli insetti vibravano di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno». «Come conseguenza dialcune associazioni d’idee
che non sarebbe opportuno precisare» prosegue il romanzo «l'affaccendarsi delle formiche impedì il sonno a Don Fa-
brizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito...» Il passo apparentemente rientra in un descrittivismo grottesco, ma
è anche l’allegoria espressionista di una adunata fascista al Foro Italico, quelle a cui per affittare parte di casa Lampedusa all'Azienda municipale del Gas Giuseppe era stato una volta costretto a partecipare. La nausea della putredine si somma qui alla nausea dell’idiozia di massa. Il «grosser Ekel» del Nietzsche letto e amato da Giuseppe in gioventà, come da tanti europei che avevano recato con sé Zarathustra nell'affrontare la guerra, anziché in liberazione si trasforma nella profonda disperazione della soluzione impos-
sibile. Questa era la vera sola morte, uno schifo, una nausea universale, che al di là della estrema civiltà dell’uomo, del
suo wit e dello humour, infondeva sul principe quel che Orlando ha indicato come il tanfo della morte. Altre considerazioni sollevano le molte pagine dedicate alla poesia inglese. Giuseppe, tanto sordo alle complessità di codice linguistico della musica, il cui solo parametro che
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arrivava a percepire era quello del messaggio contenutistico o sentimentale, è un acuto analista del senso fonico e
ritmico, quindi musicale della poesia. Fra le tante letture della sua vita vi doveva esser stato anche Oper und Drama, re dubiterei soltanto perché altrimenti l’avrebbe usato come pezza d'appoggio nella sua crociata antimelodrammatica, ma aveva certo conoscenza delle riflessioni wagneriane sulla efficacia retorica delle posizioni quantitative all’interno del verso, sulla sua teoria delle corrispondenze fra figurazioni ritmiche e situazioni emotive, (per spiegare le innovazioni ritmiche di Hopkins si appella alla «Dauerkopfmelodie»), sull'efficacia dell’allitterazione, che era abimè un vezzo della sua prosa e non sera-
pre riuscito. (Ad esempio nella Letteratura «spurza spumosa di spumante».) La conoscenza di Wagner, quanto quella dei suoi antagonisti italiani, dipendeva in Giuseppe dall'opinione altrui. Egli infatti riporta, senza il tono che mostra sempre in lui una verifica nell'esperienza diretta o le relative argomentazioni che lo soccorrono dovunque si parli di letteratura, l'opinione di Nietzsche che il Parsifal fosse una sostanziale mascalzonata. Vi fa riferimento nel parlare del Perfect Wagnerite di Shaw, quando si compiace tout-court che questi «come ogni persona per bene ripudiò l’infelice ravvedimento finale».
Ma sulla musica del verso aveva idee affatto personali e moderne. Le sue analisi mostrano come il rapporto fra fonema, quantità, ritmo, indicati quali veri epropri parametri di timbro-altezza,
intensità-colore, flusso nel tempo, possa
prescindere dalla nomenclatura. Si compiaceva, nell’evocare il suono di una poesia, sul come questo suo dispiegarsi musicale fosse più importante di quello verbale e sintattico, quasi fosse esso a dar senso a un testo, quasisitrattasse della stessa relazione prodottasi nel rapporto musica-parola all’interno della tradizione culturale del Lied tedesco. Gli esempi sono innumerevoli e corrono da Shakespeare fino a
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Eliot. Il sonetto 129 di Shakespeare gli appare come il massimo esempio di questa sua speciale accezione del durchkomponiert: «now si tratta più di rintocchi ma di colpi di maglio; le rime al mezzo, le allitterazioni, il rimbombo delle rime finali creano un’atmosfera parossistica, e il sonetto in-
cede barcollando fino all'inferno, cheè infatti la sua parola di chiusa edèanche la più comune bestemmia inglese». È una dimensione “altra”, che gli consente nel caso particolare di sorvolare la manierata concettuosità d'epoca per pun-
tare su altri e meno apparenti valori, e più in generale di inglobare anche poeti estranei al suo sentire, come Wordsworth, Spencer o Browning. «I versi di Wordsworth hanno movenze, spezzature, ritmi fra ipiù belli della poesia inglese; il tutto, intendiamoci, in tono minore: sottilissime fusio-
ni di sfumature, mai iprodigiosi sfavillamenti di Byron 0 di Shelley. Il verso rotondo, il verso da declamarsi non esiste
in lui: èun susseguirsi di modulazioni, un discorso sommesso pieno di echi segreti.» L'analisi in questi casi è tutta volta al senso recondito, a quel gioco del cruciverba praticato sul testo che era stato uno dei maggiori conforti della sua solitudine. Stupisce semmai che in assenza di contatti esterni Lampedusa avesse mantenuto una straordinaria vigilanza sulvalore, lafunzione sociale dell’opera d’arte, quell’equilibrio fra i tanti sensi e funzioni che la civiltà europea ha asse" The expense of spirit in a waste of shame Is lust in action; and till action, lust
Is perjur'd, murderous, bloody, full of blame, Savage, extreme, rude, cruel, not to trust;
Enjoy'd no sooner but despised straight; Past reason hunted; and no sooner had, Past reason hated, as a swallow'd bait,
On purpose laid to make the taker mad: Mad in pursuit, and in possession so; Had, having, and in quest to have, extreme;
A bliss in proof, — and prov’d a very woe; Before, a joy propos’d; behind, a dream. AII this the world well knows; yet none knows well
To shun the heaven that leads men to this hell.
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gnato attraverso la storia alla pratica artistica, e che era da tempo scomparso, per prendere le ariostesche vie del senno di Orlando, dalla mente di Lucio Piccolo. Lampedusa detestava la letteratura stilistica e programmatica, male supremo della letteratura italiana, trasmessale dall’umanesimo, dal petrarchismo, dal marinismo, dal romanticismo, dal dannunzianesimo, dal gramscismo. La sua scarsa simpatia
per Shaw e per Wells, per la letteratura a tesi, in generale, ha in ciò ilproprio fondamento. Ogni scritto non poteva per lui fare a meno di esser anche reportage, anche testimonianza, anche glossa, doveva insomma esser rappresentativo di una esperienza diretta e socialmente concreta. Un grande scrittore, poeta o meno, non poteva mancare di fornire un
contributo al quadro storico generale, libero di far quel che voleva quanto a forma e argomento, non poteva sottrarsi alla testimonianza, quanto Pepys o Saint-Simon. E di qui la sua curiosità per il giornalismo, i diari, la letteratura di consumo. Era quel tratto che lo portava a preferire Robespierre a Louis XVI, Cromwell a Carlo I. Paradossalmente l’aristo-
crazia del pensiero lo portava a esser regicida e iconoclasta, era forse una sopravvivenza delle letture nietzschiane della gioventù il suo credere nell’ utilità ciclica della purga, quel la che avrebbe permesso di ripartire da nuove basi, ristabilire nel mondo il tempo della gioventà. Il timido bordeggiatore nascostamente amava gli eccessi, e meno male che nella
civiltà inglese essi non andavano oltre le imposte spogliative di sir Stafford Cripps. L'uomo è un grumo di contraddizioni, e come poteva non esserlo un uomo senza vita pratica,
che passava la propria vita in compagnia dialtri uomini che conosceva soltanto dai loro scritti? Dire che in Giuseppe
Tomasi si avvertisse la crisi della vecchia classe dirigente siciliana è un luogo comune, in verità si rifletteva in lui la cri-
si europea, quell'accavallarsi di ideali infranti, che le guerre mondiali, l’emergere delle masse, la dimensione planetaria che ha tolto alla vita misura umana e domestica, hanno lasciato in grembo alla nostra generazione.
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L'officina
La Rivoluzione francese può esser assunta come linea discriminante del punto di vista con cui Giuseppe Tomasi si accosta all'amata Inghilterra. Fino alla Rivoluzione ambiente e personaggi sono per l’autore distanti, separati da una condizione culturale in cui la sua generazione non riesce più ad immedesimarsi; dalla Rivoluzione in poi i personaggi, scrittori o eroi romanzeschi, sono esempi di valore in cui l’autore spesso vorrebbe immedesimarsi. Per un narratore potenziale quale era Tomasi al tempo della stesura della Letteratura inglese, ur worzo în cui la costruzione di una identità rispondente al proprio metro dell'eroe era prevaricante rispetto alla obiettività del letterato e del critico, questa partecipazione emotiva si traduce in una accelerazione
della prevaricazione. Le biografie degli scrittori contenute nella seconda parte sono permeate da una aneddotica che riflette il gusto per una condotta supremamente elegante, immorale per un uomo di ideologia o di fede, ed impeccabile nel senso stendhaliano dell'eroe. Tomasi ritiene l’adulterio, la derisione, l’eccentricità caratteri distintivi dell’uomo di merito, predilige la devianza rispetto alla norma. Tratto singolare in un uomo che alle regole del gioco ed a caratteri di lui più forti aveva dovuto sottostare tutta la vita; ma que-
sta acquiescenza aveva sviluppato in lui l’idolatria di un mondo migliore, dove altri avevano saputo godere di quella spregiudicatezza magnanima, di quella facoltà di ribellione che ragione, coscienza di una responsabilità storica e cultura erano state capaci di mantenere entro le regole della vita civile. Anzi la cultura civile, ed in particolare quella britannica, proprio perché soppesata nei suoi pro e contro, diven-
tava supremo valore della specie nel comportamento dei suoi elementi migliori. La trattazione degli autori dell’Otto e Novecento è so-
vente più originale (riflessioni, aneddoti, narrazioni si impossessano adesso degli autori 0 dei loro personaggi come
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Letteratura inglese
punto di partenza per considerazioni che esulano dall’oggetto di una storia letteraria) anche se vasti tratti sono vere e proprie traduzioni dalla Concise Cambridge History of English Literature di George Sampson, Cambridge 1949, e per la quinta ed ultima sezione «I contemporanei» da Fifty Years of English Literature 1900-1950, di R.A. Scott-James, London 1953. Le traduzioni o i compendi si intersecano difatti con tratti originali, siano essi analisi
dei testi o divagazioni biografiche. Il livello di derivazione va infatti dalla traduzione alla vera e propria invenzione,
ma appunto questo modo di appropriazione rende tutto tremendamente tomastano, perché il filtro del compilatore rimodella la frase secondo il proprio gusto narrativo. Valgano all'uopo i seguenti esempi: 1) TRADUZIONI
Concise Cambridge History..., p.579: Sara Fricker, who became Mrs Coleridge in 1795, had many deficiencies, but she is entitled to our pity, for Coleridge was probably the most disastrous husband (except Shelley) who ever lived.
Letteratura inglese, p. 909: Poi si sposò, assai male, con una donna che gliene fece di tutti i colori; del che la povera Sara Fricker dev'essere in parte scusata, perché Coleridge doveva essere il peggior marito immaginabile, in tutto degno di completare, con Byron e Shelley, la triade dei peggiori mariti del mondo. 2) MANIPOLAZIONI
Fifty Years of English Literature, p. 147: (a proposito di The Years di Virginia Woolf) Her subject here explicitly is Time and events and persons repeating themselves in time. [...] And the clocks, too, arranged by human agency, have gone on striking regularly and, at dramatic moments, noticeably — «the sound of the hour filled the room; softly, tumultuously, as
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if it were a flurry of soft sighs hurrying one on top of another, yet concealing something hard. Lady Pargiter counted. It was late». [...]
Is this another version of what Bennet attempted in the 0/4 Wives' Tale, or Galsworthy in the Forsyte Saga? Or of A la Recherche du Temps Perdu? In any broad account of our timeconscious society its time-consciousness sooner or later is
bound to come in. But Virginia Woolf is not concerned to discover in the externals of life an explanation of changes in habits and thought. The outer changes are noted only lightly and in passing — Eleanor gets into a taxi now instead of a hansom when she goes to a party — but these are only concomitant facts, part of the setting, like the March wind or the autumn leaves, and less significant than those too persistent chimes of bells. Impressions come into the mind of this and that person; they are transient and repetitive; and the change which makes its most melancholy mark may be that of a house, long occupied, now «to let», the sort of transition which is due simply to the recurrence of death and the dissolution of families and the way of all flesh at all times. [...] Into this Heracleitean flux the author does introduce certain fixities — individual characters, pertinacious in going of being themselves. This is for her the one sure immovable point - the character of a person which can be identified only in terms of itself not of its period.
Letteratura inglese, pp. 1255, 1256-1257: The Years è il libro della Woolf che ha suscitato maggiori controversie e che molti disapprovano. Essi trovano che il tema del tempo è qui troppo insistentemente, troppo esplicitamente posto. Può darsi. A me sembra il più penetrantemente poetico di tutti. Sono episodi staccati di quattro momenti della vita di una famiglia, dal 1880 ad oggi. Ben s'intende non momenti cruciali ma momenti qualsiasi, carichi però come sempre di una celata fatalità. E gli orologi della casa, che in quei cinquant'anni si guastano, si riaggiustano, si vendono e si comprano, ma sempre in
modo che uno ne resti a battere le ore, ritmano attraverso questo mezzo secolo il fluire eracliteo del tempo. Insieme ad essi le stagioni si alternano, immenso orologio cosmico, sottolineano con
la loro varietà la mutevole identicità delle generazioni.
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Ascoltate la chiusa di Years, cercate di capirne la sommessa poesia, la sorridente mestizia: «The sound of the hour filled the room: softly, tumultuously, as if it were a flurry of soft sighs hurrying one on top of another, yet concealing something hard. Lady Pargiter counted. It was late». [...] Ciascuno di questi romanzi ha un tema chiaramente definito, sul quale si sviluppa una composizione musicale svolta qui frase per frase, quasi nota per nota, con crescendi e rallentamenti, sempre accompagnati dalla sensazione del fluire del tempo, scandito sia dagli orologi, sia dalle onde, sia dalle stazioni e financo dalla misura dei brutti versi di Isa. Il tutto espresso per mezzo di immagini interiori di visioni e di suoni che schiudono lunghe prospettive psicologiche. Proust, direte voi. Certo, anche Proust. Ma il tempo è osser-
vato in modo diverso: in Proust il tempo è contemplato come «tempo trascorso», mai come «tempo fluente». La recherche du temps perdu è un libro di memorie, i romanzi della Woolf sono come quei diagrammi che al capezzale dei ricoverati all’ospedale segnano ora per ora la febbre. La nostra epoca attuale è divenuta sensibilissima al Tempo che continuamente udiamo rombare come il frastuono della cascata che ci inghiottirà e verso la quale, senza scampo, fluiamo.
Il Gattopardo, parte settima, p. 223: Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un oro-
logio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s'impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre
stati lì vigili anche quando non li udivamo.
Premessa
STAI
3) ANEDDOTICA ROMANZATA
Fonti
Dalle biografie di Belloc si evince che nel 1895 lo storico oxoniano Charles Oman aveva fatto parte della commissione che aveva negato a Hilatre Belloc una fellowship a Oxford, un insuccesso accademico che divenne per Belloc una vera e propria ossessione ed una perenne fonte di rancore contro i responsabili della sua bocciatura. Belloc era noto per la sua litigiosità. Aveva combattuto
la storiografia inglese apologetica caldeggiata dagli ambienti universitari ed è rimasta celebre una sua lite con G.M. Trevelyan. Belloc aveva confutato con argomenti tecnico-militari e statistici la ricostruzione di Trevelyan della battaglia sul Boyne fra Guglielmo d'Orange e Giacomo IL che, avendo segnato la vittoria dei protestanti, era esaltata come un successo social-popolare a cui riportare l'identità e
l’autonomzia religiosa del Regno Unito. Un'altra lite famosa di Belloc fu con G.G. Coulton, professore di storia medievale a Cambridge. Belloc lo attaccò in vari articoli e finalmente in un libro, The Case of Dr Coulton, di cui ebbe
a vantare «la miscela di erudizione e di oltraggio». Belloc inoltre aveva visitato personalmente i campi di battaglia delle guerre napoleoniche, dall’Europa centrale fino a Mosca, dove si era recato nel 1912. Ed invero ogni tanto dalle pagine dell’«Universe» aveva attaccato questo o quello storico con argomenti tecnico-militari accompagnati da accuse di grossolana ignoranza rivolte all’avversario. La spedizione spagnola di Belloc ed Oman, ciascuno alla testa di un drappello di eruditi, per confermare sul campo le proprie tesi relativamente ai successi di Wellington durante la campagna antinapoleonica di Spagna, non risulta però da alcuna biografia dei due storici. La presenza di Belloc in Spagna è documentata nel 1907 (la percorse da solo e a piedi), nel 1911 la visitò in macchina con la moglie e due amici, nel 1924 nuovamente con la moglie e
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un amico; infine nel 1936 durante la guerra civile si recò in Spagna per intervistare Franco. Pare veramente che mai Oman e Belloc si siano affrontati sul terreno in una
torrida estate spagnola. Letteratura inglese, pp. 1203-1204: Belloc però si cacciò nella testa il desiderio di scrivere storia militare: egli volle provare che la famosa storia di Oman sulle guerre inglesi in Spagna al tempo di Napoleone era un mucchio di inesattezze e si fondò specialmente su argomenti tecnici (portata dei fucili e delle artiglierie, distanza fra luogo e luogo che egli andò a misurare sul posto, ecc.). Il risultato fu impressionante: secondo i libri di Belloc, Oman era una specie di mentecatto. Però Oman mentecatto non era, ed inoltre aveva dietro di sé la grande forza dell’Università di Oxford, in un college della quale insegnava storia moderna. Ero in Inghilterra allora e potei seguire il putiferio che si scatenò. La cosa durò mesi e finì nel modo più inglese che si possa immaginare: Belloc e Oman partirono per la Spagna seguiti ognuno da una trentina di amici e discepoli. E lì, proprio sul terreno della battaglia e alle stesse date (era il mese di agosto!) questi due esercitini eruditi riprodussero, schematizzandole, le vecchie battaglie di Talavera de Ja Reina e di Torres Vedras. E poiché il nocciolo della lite consisteva nell’efficienza degli armamenti di allora, ognuno dei «combattenti» era armato di vecchi fucili napoleonici presi in prestito ai musei. Lo spasso non conobbe più limiti: ogni sera i giornali pubblicavano bollettini emanati da Belloc-Napoleone o da Oman-Wellington: «British troops in advance towards Salamanca», oppure «French infantry beaten as it attacks Badajoz». Il governo spagnolo (sprovvisto di umorismo) si seccò e pregò di smetterla. E così non si poté mai venire a sapere da che parte stesse veramente la ragione. Belloc al ritorno assicurò il pubblico che «both armies have disturbed cellars but left girls alone». Il che è meritorio ma poco concludente.
Queste e varie considerazioni affini che si potrebbero addurre dipendono dalla speciale tipologia del letterato Tomasi di Lampedusa. Così per solito l’aneddotica appa-
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rentemente più documentata (a volte come nel caso Oman-Belloc si appella ad una testimonianza diretta) è quella meno attendibile. Si veda ad esempio (p. 1078) il passo su Charles Reade e la causa intentata alla Regina Vittoria per un disservizio postale patito, la cui veridicità è garantita da oggetti concreti, le marmellate arrivate in ritardo, la sterlina d’oro montata in un cerchio di brillan-
tini e conservata in una vetrina di Windsor. Oppure l’aneddoto di Samuel Butler che gira per Londra truccato da scimmia e col cartello antidarwiniano appeso al collo (p. 1134).
Fonte preziosa d’interpretazione è la biblioteca dello scrittore (intendendo per la sua biblioteca quella quota formata dai libri che aveva personalmente acquistato e letto). È composta da circa 4000 volumi, divisi equamente fra libri storici ed opere di letteratura, con piccoli spazi accordati alla storia dell’arte ed alla saggistica. La biblioteca ed il suo proprietario erano affatto estranei a quel tratto della scienza, rigogliosamente sviluppato dall’informatica, basato sulla collazione di argomenti e di opinioni. Giuseppe Tomasi collazionava sensazioni, esperienze, non documenti e citazioni. Vero era quel che parlava alla sua natura di indagatore del comportamento umano e di narratologo, non quel che aveva alle spalle una impeccabile prova documentale. Pertanto Tomasi era anche abbastanza estraneo all’aggiornamento dell'indagine critica 0 a farsi affascinare da una ricerca delle fonti che andasse oltre i requisiti di un buon manuale. Ma questa insensibilità verso la scientificità di un testo era compensata da un'attenzione profonda al suo contenuto stilistico ed alla sua potenza rappresentativa. Un testo meritava la sua attenzione se era capace prima di ogni altra cosa di comunicare una esemplarità. E la memoria prodigiosa che aveva di innumerevoli pagine scritte si appoggiava a questa sua personale galleria di esempi di valore.
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Si aggiungano a ciò i limiti dell’approvvigionamento librario palermitano su cui si hanno ricorrenti sfoghi nella Letteratura inglese. Per la vita di Byron si servì della Vie de Byron di A. Maurois e di una antologia delle lettere. E qui il livello di approssimazione si collega tanto al suo modo di procedere che a quello di Maurois. Ad esempio la lettera di congedo a Caroline Lamb, addotta quale esempio di crudeltà byroniana, è la traduzione dal francese all'inglese di una lettera costruita da Maurois su un originale molto meno provocatorio. Quanto poi alla lettera di Mme de Staél sul suo incontro con Shelley tutto lascia pensare ad una mistificazione tomasiana. Shelley non incontrò mai Mme de Staél, ma Giuseppe in vena di arricchimento biografico le fa scrivere in un francese d’epoca la sua profetica intuizione del genio. Altre volte la memoria dell'esempio di valore è vaga, così le citazioni di versi sono sovente imprecise, gli autori de-
gli stessi incerti. Ciò non toglie che il verisimile è sovente eccelso. Valga fra tutto l'apertura delle pagine dedicate a ]. Keats, con tre versi di Shelley in memoria dell'amico scomparso, orecchiati dal biografo e quindi testualmente introvabili, seguiti dalla teoria degli angeli, quelle apparizioni artistiche improvvise e di valore assoluto: «Bisogna che la loro apparizione sia fulgida e brevissima, così da dare a noi grigi mortali la sensazione di un visitatore superumano che
durante un istante ci abbia guardato, e sia dopo ritornato ai suoi cieli, lasciandoci doni di qualità divina e anche un amaro rimpianto per la fugacità della sua apparizione». Nulla di ciò è rinvenibile nei testi consultati, salvo il continuo attributo angelico che circonda la celebre coppia poetica, correlato alla prematura fine di entrambi, e che si trova riassunto nell’apostrofe a Shelley di Matthew Arnold: «Beautiful but ineffectual angel». Nella quinta parte («I contemporanei») la lagnanza contro l'approvvigionamento librario palermitano si fa insi-
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stente e con buona ragione. Molti autori che di certo avrebbe amato sono rimasti ignoti a Tomasi (primo fra tutti W.H. Auden), di altri ha conoscenze frammentarie fornite da edizioni in paperback. Discende da ciò una maggiore dipendenza dalla fonte indicata, i Fifty Years of English Literature, salvo l'originalità delle sezioni dedicate a Hopkins, Conrad e Graham Greene. Qui Giuseppe Tomasi si attiene strettamente alla lettura dei testi, e le riflessioni che ne
emergono, la profondità dell’introspezione le fanno risaltare fra le sue pagine critiche più felici. L'analisi si impossessa qui del segreto della comunicazione pertinente ad ogni autore: la cifra stilistica della devianza fa tutt'uno con quella della originalità. Quel senso del moderno, l'essere uguale e diverso, in cui Tomasi da uomo del nostro secolo vedeva la
sola via del processo artistico. Concluso il suo romanzo della letteratura inglese Tomasi intraprese con pari approccio un largo frammento di quella francese, ed in questo tempo elaborava già il progetto del Gattopardo. Dalla fiction storico-letteraria a quella vera e propria, senza soluzione di continuità.
Una considerazione personale e un ringraziamento Questo scritto era stato redatto a otto anni dalla morte della mia prima moglie e a sette da quella della principessa Lampedusa. La memoria di Giuseppe, anche se da punti di vista diversi, era strettamente connessa alla loro vita.
Giuseppe e Licy erano stati i grandi mediatori della mia emancipazione e anche del mio matrimonio. Ma io non
ebbi il talento di Giuseppe di condurre una doppia vita, una mia e una come Licy avrebbe voluto che fosse. Il rapporto ebbe passaggi burrascosi, certo penosi per entrambi. Anche i Piccolo erano morti nel frattempo, avvolti in una tragedia contadina che ebbe aspetti di crudele violenza,
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superiori all’immaginazione di un ultimo romanzo verghiano. Quando Mirella morì, quella morte dei giovani che fa tremenda pena, anche se ebbe tutti i tratti della
morte di un giusto e di un credente, gli anni Cinquanta mi parvero come un campo di sterminio. Tutti quegli uomini sembravano scomparsi senza perché, come in un trionfo della morte i loro sforzi, le loro passioni e liti, sembravano
vanificati da una violenza che ne aveva calpestato l’identità. Non mi sarei occupato di Lampedusa, non sarei stato il curatore del suo lascito manoscritto, non avrei cercato di
documentarmi sulla sua vita. Un suggello della sua sicilianità si spargeva da quelle memorie, come dalle macerie del centro storico di Palermo, quel tanfo di morte che egli aveva avvertito tanto vicino si era esteso a macchia d'olio, un alito che si spargeva per tutto e tutti, uomzini e cose che
ricordavano il suo contatto. Il restauro del palazzo di via Butera mi pareva il tentativo di far arretrare i confini di un Totentanz, che, al di là della mia piccola sfera di azione, continua ancora negli anni Novanta tutt'all’intorno
desolante e indisturbato. Ho ricostruito anche gli affetti e mi sono risposato. Ma non avrei lo stesso toccato questi
manoscritti. Mia moglie Nicoletta aveva però diritto di soddisfare la sua curiosità sull’episodio più divulgato della vita di suo marito. Un episodio apertosi al tempo della sua nascita. In questo clima non avevo risposto alla lettera di David Gilmour, quando verso l’84 si era presentato come uno storico con le carte in regola, interessato a scrivere
una biografia di Tomasi di Lampedusa. Il tramite per le ricerche lampedusiane di Caterina Cardona, di David Gilmour nei luoghi polverosi del palazzo di via Butera è stato sempre Nicoletta. Non io sarei andato a cercare quei fantasmi, che trasformarono invece Nicoletta in una amica
del mio padre adottivo. Attraverso Nicoletta ho cominciato a rigustare il wit, l'affetto che usciva dai suoi appunti, dalle sue dotte smargiassate. Nicoletta mi ha condotto per mano a conversare con il vecchio mostro, il grande amico
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dei miei vent'anni. Lo scrittore Lampedusa imbastisce su-
bito una conversazione col lettore. Lo provoca e lo riprende, guida la sua attenzione con mano di giocoliere, nessuno dopo Rabelais è capace come lui di saltare di palo in frasca, la sua lingua è tutta gergale, ammiccante, inventata all'istante nel fluire delle sue maledette biro di infimo
costo. Nicoletta aveva tutti gli strumenti per imbastire questa amicizia, una furiosa dose di letture dal liceo
all'università, anche lei ba rivisitato un passato (prossimo) e si è divertita come una matta. Oltre al resto, le debbo l'avvio di una riconciliazione. (Prima redazione in occasione della pubblicazione di Letteratura inglese, Mondadori, Milano, vol. I 1990, vol. II 1991.)
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Parte prima
LE ORIGINI - CHAUCER GLI ELISABETTIANI
Poche parole d’introduzione. Anzitutto parole di scusa. L’ardire mio nel voler tenere conversazioni sulla letteratura inglese può essere assolto soltanto se si voglia tenere a mente il mio grande amore per questa letteratura. E dopo, parole di spiegazione. Questo non è uno scritto; o lo è soltanto nel senso in cui scritto è un resoconto
stenografico. La mia memoria è incerta e mi sarei ricordato di metà delle cose da dire soltanto quando gli ascoltatori erano già per le scale. È un resoconto stenografico anticipato, ma non è altro che notazione di parole. Ho sottomano due o tre storie della letteratura inglese. Mi sono scrupolosamente vietato di guardarle. Questo che sentirete non è che la somma dei miei ricordi e delle mie impressioni. Da ciò le imprecisioni e gli errori, forse grossolani, che non vi sarà difficile rilevare. Da ciò anche le digressioni, i «fuori tema» che abbondano. Se avessi soltanto
parlato sarebbero stati in numero ancor maggiore. Queste note non sono altro che il residuo, il precipitato di trenta anni di letture disordinate passate attraverso un cervello notorio per la sua smemoratezza. Quindi avete poco da sperare.
La metà delle pagine di questa prima parte è dedicata a Shakespeare. È l’autore inglese (e non inglese) che conosco meno superficialmente. Ho voluto ricordare i Soretti quasi uno per uno, e tutte le opere teatrali senza eccezione. Ma non si tratta di note su Shakespeare, bensì di note circa i miei ricordi shakespeariani. Il che è assai differen-
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te. Un secchiello pieno di acqua di mare non è il mare. Per conoscere il mare occorre sondarlo, navigarlo e rischiare di naufragarvi. Questo sarà compito vostro. Ho cercato di spiegare la personalità di Shakespeare servendomi della sua opera; e l’opera, a sua volta, viene rischiarata da quel tanto che si sa della sua vita. Compito arduo nei confronti di un autore drammatico che una sola volta ha parlato in prima persona. È superfluo dire che tutto questo è ricordo delle letture che ho fatto di una schiera di studiosi inglesi, francesi e italiani. Potrete osservare che alcuni autori son trattati con leggerezza e fretta (Chaucer, Spenser). Non è perché siano gente da poco, è semplicemente perché li conoscevo poco io.
A onor del vero debbo dichiarare che ho consultato una diecina di volte un dizionario per fissare qualche data che, anno più anno meno, mi sfuggiva. N.B. Questa introduzione è stata scritta appena avevo finito di scarabocchiare su Shakespeare. Dopo, e per tutta la parte che riguarda gli elisabettiani minori (eccetto Ben Jonson) ho dovuto ricorrere a una storia della letteratura inglese per districarmi dal sensibile imbarazzo che crea troppa gente di talento rinchiusa nello spazio di cinquanta anni. Ma lo ho fatto con moderazione, preferendo sbagliare a compilare.
I PRIMI POETI
La letteratura dell'Inghilterra comincia in lingua inglese. Voglio dire che non sopravvive nulla dei canti dei bardi britanni prima della conquista di Cesare, di quelli dei Britanni sotto il dominio romano o anche di quelli del periodo formativo della lingua anglo-sassone. Ma quando dico «lingua inglese» qui intendo dire un dialetto di già fortemente differenziato dalle altre parlate scandinave dalle quali si era distaccato, possedente alcuni dei caratteri peculiari della lingua inglese 724 recante la decisiva differenza dalla parlata inglese anche antica nell’assenza di quella larga parte di vocabolario e di sintassi latina che in Inghilterra approdò solo, mediatori i Normanni, al tempo della Conquista (1066). Come tutte le grandi letterature europee (eccezion fatta di quella italiana) la letteratura inglese si presenta dapprima con un canto epico e bellicoso: il Beowx/f composto verso il 700 ma giuntoci in trascrizioni più re-
centi. Esso narra le lotte dell’eroe Beowulf, nipote del re dei Goti, contro i mostri che turbavano la tranquillità del regno di Danimarca, le vittorie di lui, ma anche la
sua finale sconfitta. L'Inghilterra non vi è nominata. Si tratta di un poema assai lungo (più di tremila versi), opera di un poeta di già artisticamente maturo e cristiano che tratta in modo cristiano un materiale narrativo pagano. Dicesi sia opera con delle parti di grande bellezza, piena di alterigia barbarica e pervasa, malgrado la sua vernice cristiana, di quel senso di fatalità e di inevitabile disfacimento di ogni cosa, proprio delle primitive letterature germaniche.
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Letteratura inglese
Non l’ho letto.
Attorno al Beowulf si raggruppano (per sole ragioni filologiche e metriche, ché gli argomenti sono diversissimi) pochi altri brevi poemetti. Di due di questi ho conoscenza diretta, si capisce attraverso traduzioni moderne.
Essi mi hanno fatto una profonda impressione sia per la loro accorata semplicità, sia perché mi è sembrato scorgervi l'ombra di un accenno ad alcune caratteristiche della poesia inglese futura. In uno di essi, una specie di breve elegia, parla un povero diavolo di servo che ha perduto il padrone e protettore e che erra solo in una barca nell’aspro mare nordico alla ricerca di un luogo di asilo. Si addormenta e sogna la sicurezza di cui godeva, e la casa e la terra. Poi si risveglia e il poema si chiude mentre contempla il grigio mare infinito (l’infinità è espressa con misure: lungo trecento volte la barca) sul quale turbina una tempesta di neve. Si chiama The Wanderer, l’errante. L'altro è chiamato The Ruined Burg ed è il lamento per la distruzione di una città della quale si esaltano gli edifici ora in cenere e i «grandi bagni degli antichi». Da ciò si suppone si tratti di Bath, cittadina balneare dei Romani, che esiste ancora adesso e che presenta ora un delizioso modello rococò di luogo termale della fine del Settecento. I motivi della poesia inglese che in questi poemi sono presagiti, mi sembra, sono tre: il mare che si insinua ed arieggia ogni poesia inglese (Raleigh, Shakespeare, Coleridge, Shelley, Kipling). L’attitudine d’interessamento e di comprensione per lo sventurato, per chi le ha prese, per l’underdog, attitudine non già cristiana ma «sportiva», che troverà qualche secolo dopo mirabile espressione in Piers the Plowman, e che si ritroverà in Shakespeare (distinguere) ed in Dickens. E in quell’attardarsi e quasi compiacersi nell’aspetto delle rovine quel motivo romantico che di poi popolerà di rovine artificiali e di
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false tombe i parchi inglesi, e financo il giardino di Villa Igea. Il metro di questi poemi è singolare. Si tratta di un
lungo verso di un numero variabile di sillabe, ma con un numero fisso, generalmente quattro, di sillabe accentate. Di queste sillabe accentate tre debbono essere «allitterate» («Fremere le fronde e le frasche»). Non vi è divisione in strofe o lasse e la rima o le assonanze sono casuali,
tranne in un poema detto appunto «il poema rimato».
SCRITTORI DI STORIA, RELIGIONE E MORALE
Durante l’impero romano, l'Inghilterra aveva attraversato un lungo periodo di prosperità e d’incivilimento, come testimoniano le numerose strade lastricate (street = strada viene da stratum = lastrico) e i begli avanzi di edifici. Però si avvertiva che ci si trovava al limite estremo dell'impero. I Romani non avevano voluto conquistare la Scozia e nell’ultima strettoia dell’isola avevano costruito un potente sistema difensivo, il Vallo di Adriano, del quale restano imponenti avanzi, per tenere a bada le bellicose tribù dei Pitti d’oltre confine. Col ritiro delle guarnigioni romane l'Inghilterra subì una sorte quasi unica nella storia occidentale. Essa ritornò alla preistoria. Sommersa dalle invasioni scozzesi, martoriata dalle tremende incursioni marittime scandinave che risalendo i fiumi navigabili si spingevano molto avanti nell’isola, non solo essa perdé qualsiasi civiltà, ma anche l’uso della scrittura e il bisogno di tener nota degli avvenimenti. Mentre in Italia, Francia e Spagna anche nelle epoche più torbide delle invasioni barbariche si può seguire il corso della politica mese per mese, sull’Inghilterra è calato un sipario di tenebre. Si ritorna al mito: ed allora cominciano a formarsi quelle conglomerazioni di leggende che dovevano poi esprimersi nei poemi di Re Artù e nel ciclo brettone. Questo periodo notturno dura circa tre secoli. Papa Gregorio dovette inviare dei missionari per evangelizzare di nuovo i Britanni. Verso il 700 i regni sassoni e angli si consolidano e si estendono, i Pitti vengono ricacciati in Scozia, si fonda-
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no monasteri e abbazie. Sorgono quindi figure di re (Alfredo) e riappare, in latino, la storiografia. Due di questi storici sono notevoli: l’abate Gildas che ha tentato di ricostruire la storia dell’Inghilterra dai tempi più remoti ai suoi, ricostruzione evidentemente favolosa sino all'inverosimile. Più interessante diventa Gildas quando narra i fatti a lui contemporanei o quasi; e la sua cronaca (che per altro ha un vivo movimento profetico e moralistico) costituisce un quadro terrificante dello stato di disordine e della incredibile ferocia di costumi di quell’epoca che, benché di già in via di assestamento, era ancora tristissima. Un animo più pacato traspare nella Storia ecclesiastica del Venerabile Beda, che ha grande importanza per la conoscenza storica di questo periodo. Scritta in un latino semplice e sereno contiene delle religiose storie di santi e di missionari. L’influenza di questa opera latina sulla susseguente letteratura in inglese è notevolissima. (Beda nato 673-t 735 circa.) Circa un secolo dopo ci troviamo di fronte alla prima opera in prosa inglese (sempre osservazioni sulla lingua). Il grande Re Alfredo fece compilare verso 1850 l’Antica Cronaca Inglese che è anche la prima storia in lingua volgare che vi sia in Occidente. Molto importante è anche una vita dello stesso Alfredo scritta da Asser, vescovo di Sherborne, nel 909 circa.
L'INVASIONE NORMANNA (1066)
Quando il duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, sbarcò in Inghilterra per rivendicare alcuni suoi più che dubbi diritti alla corona, e quando, sconfitto e
ucciso a Hastings il Re Aroldo, si fece incoronare Re d'Inghilterra a Westminster, si formò lo stato inglese quale lo conosciamo ancora adesso, e si iniziò la forma-
zione della odierna lingua inglese. I Normanni di Guglielmo non erano, in realtà, degli stranieri. Discendenti di guerrieri scandinavi come gli Anglo-sassoni dello sconfitto Aroldo, avevano però assimilato, durante la loro pur breve sosta nel ducato di
Normandia, la civiltà latina e la lingua della Francia. Portavano inoltre con sé l'ordinamento feudale, opposto a quello tribale dei regni anglosassoni, e, benché non lo fossero, si sentivano stranieri e superiori ai loro cugini
dell’isola. Dopo il 1066 convissero in Inghilterra due lingue: il sassone parlato dalla generalità del popolo, e il francese parlato dalle classi elevate e nel quale erano redatte le nuove leggi. Lentamente, per necessità pratiche e anche
per l’innato spirito di compromesso della gente scandinava, comune ai due partiti, le lingue si fusero: le leggi accolsero alcuni termini sassoni, il popolo apprese alcuni termini francesi. Nel 1250 circa la lingua inglese odierna si era formata: una prevalenza di termini sassoni
in generale, e specie per tutto ciò che riguarda l’attività pratica, una larga immissione di termini francesi per i concetti astratti, la legge, le scienze. La lingua sassone pura, confinata ai ceti meno colti, cessò di essere scritta;
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l’antica poesia, i metri di Beowulf scomparvero o per meglio dire si nascosero, pronti a risorgere nella nuova lingua con l’erompere delle Ballate. È quasi superfluo, adesso, far notare come la letteratura non potesse in questo periodo esprimere idee originali. Mentre il paese si copriva delle meravigliose cattedrali che ancora adesso ne costituiscono la suprema gloria architettonica, mentre i re partivano per le Crociate, mentre con lento e continuo moto si affermavano
le libertà parlamentari, mentre, insomma, il popolo dava segni imponenti di vitalità e anzi di rigoglio, la letteratura segnava il passo: aride imitazioni dei romanzi allegorici francesi, trattati di falconeria, drammi religiosi aridi e stentati, cronache insipide che sopravvivono nel nostro ricordo perché sono quelle che fornirono il materiale combustibile per la fiamma immortale delle «storie» shakespeariane. Più materia da linguisti che da studiosi della letteratura d’arte. Si stacca da questa grigia congerie il Piers the Plowman, Pietro l’aratore, di William Langland, scritto verso
il 1330; è anch'esso un poema allegorico in versi allitterativi ma vi si rivela a tratti una notevole potenza icastica. Ma esso è notevole soprattutto per la marcatissima tendenza sociale che nel poema esalta la passione del contadino, lo situa come il vero seguace di Cristo in contrapposizione al clero, alla nobiltà e ai mercanti, e talvolta lo identifica con il Cristo stesso. È una delle più nette affermazioni dell'amore per l’underdog del quale già si trattò. E rivela il malcontento delle masse che doveva non molto dopo scoppiare nelle grandi rivolte contadine contro i nobili, e contro il clero manifestarsi in
quell’apatia e indifferenza che resero possibile ai pochi riformatori del Cinquecento l’abbattimento della vecchia Chiesa. Intanto, sotto sotto, continua ad elaborarsi il mito ar-
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Letteratura inglese
turiano e si forma anche quello di Rob Roy. Le sanguinose epoche trascorse si presentano all’immaginazione
del popolo trasfigurate e nobilitate. Questo nucleo centrale di tradizioni propriamente inglesi viene arricchito da apporti e prestiti brettoni, francesi, tedeschi e spagnoli; ad esso si saldano i miti di Isotta, quello del Graal e quello di Carlomagno. Frequenti ma goffe sono le rappresentazioni di questi grandi motivi; Malory ne è il più perspicuo interprete.
Soltanto dal fremito della quercia si può auspicare il volo della grande aquila, la quale, peraltro, doveva posarsi lungi dal nido inglese.
LE BALLATE E CHAUCER
Alla fine del Trecento, bruscamente, la sala dello spetta-
colo s’illumina. Non è ancora il momento della grande rappresentazione. Ma di già, in questa sorta di prologo, si presenta un attore eminente, il primo autentico valore della letteratura inglese, e di già s’infittiscono i motivi tematici che formeranno il tessuto della produzione seguente. Si moltiplicano le raccolte di canzoni: canzoni d’amore, canzoni di caccia, soprattutto canzoni da bere. Di ti-
po nettamente popolare, rivelano, nella loro insospettata allegria, le migliorate condizioni degli abitanti, prima che di nuovo la «Morte Nera» e la Guerra delle Rose spargessero la desolazione. Notevolissima la produzione musicale: in un paese che doveva in seguito dimostrarsi di così scarsa creazione musicale, può sorprendere il fatto che le più antiche musiche laiche a noi pervenute siano proprio le inglesi (Spring is a-coming by). A fianco di queste canzoni, fioriscono le Ballate, ano-
nime. Occorre circoscrivere il concetto di «ballata»: essa è essenzialmente una narrazione, forte e obiettiva, libera
da riflessioni e sentimenti generali; è stata creata per esser cantata e, come il nome indica, talvolta accompagnata da danza; viene sempre trasmessa ed elaborata per tradizione orale. Possono suddividersi in due classi. La più antica è breve, narra un fatto semplice e subitaneo, senza durata,
e i versi narrativi sono inframezzati da ritornelli (le canzoni di Shakespeare ne sarebbero un esempio se si sostituissero ai versi lirici dei versi narrativi).
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Letteratura inglese
Dopo il poeta ha voluto narrare dei fatti più complessi, più estesi nel tempo, riguardanti più personaggi, la ballata è allora diventata più lunga, il ritornelio è stato eliminato (tranne talvolta nelle due strofe di apertura), tutta la cura è stata rivolta alla energia e rapidità della narrazione. Esse sono in genere composte da un numero indefinito di quartine, nelle quali un verso a quattro accenti si alterna con uno a tre: disposizione metrica che conferisce una grande rapidità alla recitazione e che crea un tessuto ritmico perfettamente atto a riprodurre le scene violente e tragiche che ne formano il principale contenuto (il ritmo di Chevy Chase). Vi è tutto il ciclo di Robin Hood, il brigante cavallere-
sco e gaio, che difende il contadino contro le prepotenze; ci sono inoltre ballate isolate che narrano fatti reali trasformati, come Chevy Chase, The Nut-Brown Matd,
Clerk Saunders, che raggiungono, a mio parere, le più alte cime della commozione. Il loro numero è immenso; e degli stessi argomenti esistono spesso parecchie versioni con impliciti giudizi morali contrastanti. (Clerk Saunders: in alcune versioni gli amanti sono compianti, in altre i fratelli sono considerati come giustizieri.) Molte di queste ballate furono cantate sino al Seicento avanzato, specie nel Border, nella travagliata zona di confine fra Scozia e Inghilterra. Anche queste versioni posteriori sono di grande bellezza e energia. Gusto di narrare; gusto di dialogare. Si aprono le due vie che condurranno al teatro e al romanzo. Dietro il volto mascherato dell’anonimo s’intravedono i lineamenti di Shakespeare e quelli di Fielding e Dickens.
Gusto di narrare anche nell’opera principale di Geoffrey Chaucer (+ 1400), il primo grande nome della letteratura inglese. Era persona colta, incaricato dalla Corte di servizi economico-diplomatici che lo portarono più volte in Italia. Petrarca e Boccaccio lo conobbero forse
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di persona. Certamente l’influenza letteraria italiana su di lui fu grande. Soprattutto quella di Boccaccio. Mi mancano le conoscenze (e il tempo) per esaminare tutte le opere di Chaucer: tutti lavori raffinati, tecnicamente assai evoluti, spesso imitazioni o traduzioni di Boccaccio (il Boccaccio poetico); basti citare Troilo e Criseide, La
casa della fama, La leggenda delle buone donne. Ancora allegorie e digressioni moralistiche nel più puro spirito medievale, arricchite però da un humour ironico che lo
mostra superiore ad esse; e del quale occorrerà riparlare. L’opera di gran lunga più importante di Chaucer è i Racconti di Canterbury. La moda di raggruppare delle novelle intorno a un motivo centrale è vecchia come il mondo (Mz/le ed una Notte) ed aveva avuto di già nel Decamerone la sua più insigne manifestazione. I Racconti di Canterbury potrebbero quindi definirsi, molto all’ingrosso, un Decamzerone in rima.
Vi si narra di una comitiva di pellegrini che si riuniscono allo scopo di recarsi a Canterbury a venerare la tomba del grande vescovo martire Tommaso Becket (quello di Eliot). Qui si intravede la prima differenza col Decamerone: mentre in Italia i dieci narratori sono poco
individuati e appartengono tutti al medesimo strato sociale, i pellegrini rappresentano ciascuno un tipo e una professione diversa: vi è il nobile con figlio e scudiero, vi è un tessitore, un cuoco, un intendente di beni, uno studente, due frati, due monache, tre mercanti, un contadi-
no e un venditore d’indulgenze («il Perdonatore»): una piccola commedia umana dell’Inghilterra nella sua primavera. E ciascuno di questi tipi è descritto con simpatia e comprensione, illuminato da un perenne humour, da un benevolo sorriso, mai scipito e mai acre. La narrazione del viaggio (pieno d’incidenti narrati con brio) è interrotta dai racconti che ognuno dei pellegrini deve fare per allietare le serate («accanto al fuoco e col bicchiere di birra in mano, è bello udire il gocciolio
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Letteratura inglese
della pioggia e immaginare la nebbia e il freddo di fuori»): racconti non tutti d’ispirazione originale, sono tutti
però espressi in forma originale e personalissima, sprizzanti di spirito, di senso satirico e alcuni di una accorata malinconia (la storia della Priora, quella di Sir Thopas,
quella del Franklin, quella dell’Oste). In tutti brilla l'ammirevole decasillabo chauceriano a rime baciate. E una delle grandi opere dell’umanità, uno dei «libri di viaggio» nei quali l’uomo ha espresso tanta parte di sé (l'Odissea, la Commedia, questo, Don Chisciotte, Candido, le Anime morte, Pickwick). Molti tipi e molti versi
sono ancora vivi nella parlata inglese odierna. Secondo me, però, l'interesse più vivo dei Racconti di
Canterbury risiede per noi nella apparizione artistica che in essi vi fanno tre dei temi della letteratura inglese: la casa (1be home), l’umorismo e il fiabesco. La casa, tran-
quilla e serena, la casa (per essere anacronistici) dei quadri olandesi (Vermeer, Terborch), il rifugio dalle intem-
perie, dalle asprezze e dai guai è tema principalissimo della letteratura inglese fino a noi (Sherriff). Questo tema è un po’ presente nella letteratura tedesca, assente o negato nella letteratura francese e italiana (Dossi! De Marchi! Serao! Zola! Stendhal! Verga!). L’umorismo, questo modo bonario di contemplare il mondo e i suoi guai, di cercare di sconfiggerlo col sorriso, di implicare anche se stessi nella contemplazione e nella beffa (parola quanto mai inadeguata: si tratta del vecchio signore che cade e rialzandosi sorride della figura che ha fatto, si trasporta nella pelle del monello che lo ha deriso), è riconosciuta unanimamente come qualità
inglese e costituisce il più gradevole ornamento di questa letteratura. Manca del tutto in Milton. I[ fiabesco (parola non esatta) è un lieve contorcimento delle linee, una deformazione, involontaria forse, che
lo scrittore dà alla cosa narrata, per la quale il lettore si accorge ad un tratto che ciò che legge non avviene più
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soltanto in questo mondo, ma che vi è la partecipazione di un altro elemento, estraneo. I personaggi, elisabettiani, seicenteschi, vittoriani, contemporanei si sono per
un attimo trasformati in gnomi e vi guardano lepidi o minacciosi con occhi morti di già o non mortali. Vi è il fiabesco dichiarato in Shakespeare (La Tempesta o il Sogno di mezza estate) e nello stesso il fiabesco recondito (Mariana’s Grange, gli uccelli del Macbetb, il cimitero di Arzleto, Cimbelino, Re Lear, alcuni sonetti — non
si finirebbe più), lo si trova in ognuno degli altri grandi drammaturghi (parossistico in Marlowe, nei Serzzoni di Donne, in Swift, in Richardson, in Byron, Keats, Shel-
ley, esplicito in Coleridge e De Quincey, in Poe e Melville e James e Kipling e Shaw. Yeats ne è materiato, in Dickens e Thackeray si manifesta vivacissimo e inatteso nel cortile di una locanda o fra gli ospiti di un salotto. E De La Mare e la Woolf, e financo Faulkner).
Può dirsi che è la marca di fabbrica di ogni grande scrittore anglosassone. Vi è una parola scozzese che lo definisce, eerie, un’altra irlandese, fey, esprime una subi-
tanea e passeggera trasmutazione di piano, un richiamo alla tristezza, all’orrore, o al grottesco di una quarta di-
mensione. Si dice di una strada o di una stanza che è eerie quand elle n’est pas naturelle, quando sembra recare
la traccia di una presenza estranea, di una assenza anche (i sonetti di Mallarmé, alcuni poemi di Baudelaire, le canzoni di Maeterlink). In Italia non vi è forse eerzress,
cielo troppo nitido e assenze di nebbie, mari marci e gente immersa nei sensi. Difficilissimo da definire, un occhio esperto lo ritrova in #22 ibuoni libri inglesi e in moltissimi dei cattivi. Con la morte di Chaucer i grandi temi sono fissati: il mare, the underdog, la casa, l’humour, il fiabesco. Manca ancora l’antagonismo religioso, e il Nemico. L’età successiva fornirà questi ingredienti. E sarà l’ora di fare appello ai grandi cuochi.
LANA E ORO
Dai primi del Quattrocento alla metà del secolo seguente la letteratura inglese si trova in stato di letargo. Si elaborano i miti della Religione e del Nemico, elaborazione sanguinosa che fa tacere i canti. Ciò non toglie che il Quattrocento sia appunto il secolo decisivo della storia inglese dal punto di vista politico, economico e religioso, quello nel quale si posero le premesse che dovevano finire al sole di Gloriana. Sconfitta nella Guerra dei Cento Anni, l'Inghilterra abbandonò la chimera di una unione con la Francia (unione che ne avrebbe allora distrutta la personalità; chimera che doveva esser stranamente riproposta da Churchill nel giugno del 1940 in una tempestosa seduta di gabinetto sulle rive verdi della Loira) e si ripiegò su se stessa. Venne devastata dalla «Morte Nera», pestilenza atrocissima che falciò strati della sua popolazione; vide la sua nobiltà decimata ed esautorata nella sanguinosissima e vana Guerra delle Rose. I frutti di queste sventure furono opulenti. Il difetto di mano d’opera, causato dalla peste, spinse i proprietari a restringere al minimo la produzione di cereali e a sostituirla con la pastorizia. Greggi immensi di pecore picchiettarono di bianco il verde tenero delle campagne. L'Inghilterra assunse in campagna quel volto pastorale che, con l’aiuto della rivoluzione industriale e
conseguente svalutazione della proprietà terriera, non ha ancora perduto. Nei Paesi Bassi intanto si era impiantata una industria
tessile e di tintoria in concorrenza con Firenze. La lana
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delle greggi inglesi trovò facile, vicino e proficuo sbocco nelle filande fiamminghe; le stoffe derivate dagli armenti britannici vestirono l'Olanda, la Francia, la Germania,
invasero gli Stati Scandinavi, premettero sui mercati italiani e spagnoli. E l’oro si precipitò a fiumi nelle casse dei mercanti e dei proprietari. Venne tentato un nuovo passo: la costruzione di naviglio per trasportare a Bruges, Anversa e Ostenda la lana senza pagare noli agli olandesi e ai genovesi. Riuscì anche questo. Si formò una flotta mercantile inglese; doppio guadagno: quello economico è evidente; quello politico si intuirà quando si pensi che furono queste leggere navi da carico, armate alla meglio ma ben guidate, che salvarono in seguito il paese dall’attacco spagnolo.
Terzo passo: l'impianto di filande che consumassero in situ la lana prodotta. Successo anche qui, ma a scadenza più lontana. Le maggiori terre, i più ricchi armenti appartenevano alla Chiesa. Essa guadagnava oro e nell’oro la sua perdita. Per una doppia ragione: l’opulenza ne corruppe i costumi: le grasce delle Abbazie e il continuo battagliare e politicare dei prelati sdegnò le masse; queste non si portarono mai ad atti di violenza o di aperto dispregio: secondo il costume inglese li lasciarono cadere dal cuore. Wyclif passò la vita predicando contro la corruzione ecclesiastica, passò gradualmente dalla critica dei costumi a quella delle credenze, tradusse di nuovo la Bibbia in inglese, si appellò ad essa come all’autorità suprema, ottenne che in ogni chiesa fosse posta una Bibbia in inglese, incatenata, perché ognuno potesse leggerla. D'altra parte l’aristocrazia guardava con gelosia le ricchezze ecclesiastiche; l’idea di una espropriazione e di un cambiamento di confessione quale pretesto dell’espropriazione prendeva piede. In coincidenza con ciò, la corruzione della Corte papale andò a precipitare nei noti scandali: mancò il potere repressivo o riforma-
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tore interno. Ancora, le idee edonistiche del Rinasci-
mento cominciarono ad infiltrarsi. Con tutto ciò la crisi sarebbe stata ritardata e forse non sarebbe mai avvenuta, data la ripugnanza inglese ai metodi politici violenti (interni), se una grave gaffe del Vaticano non avesse posto anche la Corona dalla parte dei malcontenti. La Guerra delle Rose era scoppiata per quistioni dinastiche, centrate sull’incertezza della successione al trono. Il giovane Enrico VIII si trovava, nel primo quarto del Cinquecento, dinanzi a una eguale incertezza ed a un uguale pericolo di torbidi. Dal suo matrimonio con Caterina di Aragona, figlia di Ferdinando il Cattolico di Spagna, zia quindi di Carlo V, non aveva avuto che una figlia e sembrava certo che altra discendenza non potesse esserci. Pensò quindi di far sciogliere il suo matrimonio dalla Chiesa e di sposare una giovane inglese, con il doppio scopo di poter avere un successore maschio e di sottrarre l'Inghilterra ad una influenza straniera esercitata mediante una regina. Pretesto il fatto che Caterina d'Aragona, prima che di lui, era stata moglie del fratello, Arturo, mor-
to poco dopo le nozze, sembra senza averle consumate. La Santa Sede, istigata forse da Carlo V, temporeggiò dapprima e rifiutò, dopo, lo scioglimento. Enrico VIII riunì un concilio di vescovi inglesi e fece sciogliere il suo matrimonio. Sposò Anna Bolena, si proclamò capo secolare della Chiesa inglese; non introdusse, per il mo-
mento, alcun mutamento ai dogmi ma incamerò i beni della Chiesa. Dopodiché perseguitò aspramente tanto i vecchi cattolici quanto gli inglesi che simpatizzavano con Lutero e Calvino. Il tema della controversia religiosa era sorto. E con esso quello del Nemico: il Nemico era una figura mista e spaventevole: il Papa, la Spagna, e una nuova
persona sulla quale si era formato un mito: Niccolò Machiavelli.
Pi
L’ETÀ ELISABETTIANA
Verso l’anno 1560 ci troviamo di fronte ad una Inghilterra che è ancora un regno di secondo ordine in Europa ma possiede delle caratteristiche che fanno presagire un avvenire di potenza. Anzitutto paese ricco, in atto e ancor più in potenza.
Abitato da una popolazione attiva, coraggiosa, gaudente; profondamente radicata nelle sue tradizioni, le quali
tradizioni appunto sono così confermate che rendono lecito, per così dire «tradizionale», qualsiasi mutamento
e progresso purché graduale. Paese al sicuro. Isola facilmente difendibile, può fare a meno dei costosissimi eserciti di Francia e Spagna. Paese contento del suo governo. Una dinastia recente si appoggia sulla borghesia che fa entrare via via nelle file della nobiltà; le leggi semplici, chiare, puramente empiriche reggono senza stridore. Paese nel quale le lotte religiose non sono degenerate in stragi come in Francia e Germania ma sono servite soltanto a far cambiar di mano la ricchezza e a tener desto uno spirito polemico e critico quanto mai salutare. Paese che mostra una devozione cavalleresca verso la sua Regina, che, intelligentissima, astuta, dura e brutta, doveva pur avere un grande fascino per tenere avvinta, come fece, la popolazione intera. Paese di pastori, di artigiani ma anche paese di pirati, di navigatori commercianti lesti a tirar la spada per salvaguardare i propri profitti o per arraffare quelli degli altri. Paese nel quale la felice congiuntura storica ha creato un gruppo di prenietzchiani, imbevuti dell’amo-
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ralismo rinascimentale inseritosi in carne giovane e animalescamente vivace. L’«uomo elisabettiano», sia esso soldato o poeta, politico o mercante, religioso cattolico, anglicano o calvinista, è uno dei più attraenti, dei più dotati, dei più temibili esemplari viventi che siano stati creati. Ciò che Hitler sognò di creare, una razza di superuomini piena di talenti e vuota di virtù, è stato allora realizzato da un fecondo congiungimento di astri, cioè da una congiuntura storica quasi priva di precedenti.
Questa gente parla una lingua già formata e consolidata; l'inglese elisabettiano è poco dissimile da quello vittoriano; lingua ricchissima, come tutte quelle miste, che la controversia religiosa ha piegato ad esprimere tutte le astrazioni, che l’uso commerciale ha arricchito di termini concreti. Lingua per di più non ancora sfiancata dalla soverchia finzione letteraria, lingua che attende gli artisti adatti a farle esprimere quanto essa è capace di dire, a trasmutare in energia ciò che può sembrare rozzezza, in eleganza le voci fresche che odorano ancora di
campagna. La vita intellettuale era di già allora concentrata a Londra, Oxford e Cambridge servendo solo da preparazione. Concentramento e supremazia assoluta che dura ancora e che soltanto a cavallo tra Settecento e Ottocento subì una leggera concorrenza da parte di Edinburgo. Intorno a quell’anno 1560 si andava formando a Londra un gruppo di scrittori che abbordarono tutti i generi di poesia, in tutti eccellendo. Vi sono i lirici quali Spenser e Sidney, gli epici quali Chapman, i poeti mistici e in primo luogo i poeti drammatici. Degli altri parleremo in seguito, benché fossero, tranne Donne, un po’ più anziani dei grandi drammaturghi.
IL TEATRO ELISABETTIANO
È superficiale, ma gradevole, istituire un parallelo fra il teatro elisabettiano e il melodramma italiano dell’Ottocento. I punti di contatto sono numerosi, il punto di contrasto uno solo. In ambedue i generi di teatro troviamo una raccolta straordinariamente numerosa di autori dotati di straordinario talento. In Italia e in Inghilterra questi autori sono non soltanto geniali ma fecondi in modo stupefacente. Nei due paesi la produzione drammatica è soggetta alle stesse leggi, desunte e dal talento degli autori e dalla loro produzione forzata: accanto ad opere sublimi vi sono dello stesso autore opere pessime; e spesso nella stessa opera pagine di prim’ordine stanno a fianco di produzioni di livello bassissimo. Nei due casi il pubblico seguì con immutato entusiasmo il buono, il meno buono e il cattivo che veniva a lui ammannito. In Italia e in Inghilterra il teatro rispecchia fedelmente la società contemporanea. Questi sono i punti di contatto.
Il punto di contrasto è che il melodramma italiano non ebbe uno Shakespeare. Questi drammaturghi costituiscono un vero ceto letterario che va dalla bohème più marcata (Marlowe) allo stato quasi di gran signore (Jonson). Quasi tutti sono dotati di grande cultura, provengono da Oxford o da Cambridge, sono reclutati negli strati più diversi della società. Nessuno però proviene dai contadini: nessuno, tranne Shakespeare che costituisce una eccezione per-
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Letteratura inglese
ché non ha seguito altri studi regolari all’infuori della scuola parrocchiale. Il primo a farsi luce nel gruppo è Christopher Marlowe, il più geniale di tutti, secondo soltanto a Shakespeare, pari in merito a Jonson. Figlio di un calzolaio di
Canterbury, educato all’Università di Oxford, questo grande poeta, che doveva morire a ventinove anni, si ri-
vela in pieno possesso di una profonda cultura classica. La sua vita privata è più che deplorevole: egli è il primo in data dei poètes mzaudits. Irrequieto, rissoso, ladro, assassino, omosessuale, pare anche incestuoso, spia della polizia, doveva finire ucciso in una rissa di taverna (1564-1593). Era noto per aver fatto parte di un gruppo di atei militanti. Detto questo, il teatro di Marlowe vive di una forza
demoniaca travolgente. I suoi protagonisti, consci della fatalità della loro caduta, continuano a sfidare il fato: ris-
se fra Capanei. Eduardo II è però una elegia: il Re debole, incerto e benintenzionato non sa opporsi alle mosse dei partigiani della Regina che vuol detronizzarlo. Egli muore dopo aver pronunziato alcuni fra i versi più patetici della poesia inglese, disperato perché gli è stato ucciso il favorito che amava assai più del necessario. Nel Dr Faustus si mostra invece in pieno il temperamento demoniaco dell’autore: l’irruenza della passione, la sete di vita, la brama di piaceri, il disperato coraggio di questo futuro dannato sono avvolti nei versi più splendenti e perfetti che si possano immaginare: lava infernale entro cofani d’oro. Uguale, anzi maggiore, eccesso vitale e disperato dinamismo si ritrovano nel Tamburlaine the Great, una lunga variazione sui temi del potere, della crudeltà e del
peccato. Il grande condottiero barbaro incede nel sangue e nel sangue perisce, senza un attimo di raccoglimento, senza un brivido di sconforto. Questa figura, che
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potrebbe riuscire caricaturale, è interamente salvata dalla evidente simpatia dell’autore, dalla allucinata bellezza del verso, a volte terso come il ghiaccio (numerosi i paragoni invernali), a volte corrusco di fiamma. Un giorno un poeta sadista scriverà un dramma equivalente sul bunker di Berlino dove perì Hitler. Altro dramma di sangue e di delitti, Ebreo di Malta ci mostra un caso di paranoia sanguinaria, a malapena giustificato dal desiderio di vendicare la propria razza perseguitata. Il prologo è detto da Niccolò Machiavelli, rappresentante il Diavolo. Vi si trova la stessa magnificenza di versificazione. Inferiori, ma a tratti potentissimi e quasi sempre adorni di versi trascendentali, Didone e Il massacro di Parigi, drammatizzazione della Notte di San Bartolomeo. Esistono anche di questo stranissimo artista un poema, Ero e Leandro, di contenuto omosessuale, e la ver-
sione del primo libro di Lucano. Nettamente inferiore, benché pieno di talento, è Tho-
mas Kyd (1558-1594) che riportò un immenso successo con il dramma Una tragedia spagnola, anch'esso colmo di orrori, non sostenuti però dalla demoniaca sincerità di Marlowe. In questo dramma tuttavia si nota una struttura tecnicamente assai più sviluppata che in Marlowe; e si nota anche un personaggio, Hieronimo, che ha delle singolari rassomiglianze con Amleto, con la sua mania di introspezione e conseguente indecisione. Si dice che Kyd abbia collaborato con Shakespeare in alcuni drammi.
SHAKESPEARE (1564-1616)
La biografia documentata
La prima volta che questo nome, il più glorioso dell’umanità, vien menzionato, è nel 1547 quando apprendiamo che un certo Tommaso Shakespeare, di Stratford, è stato
impiccato quale rapinatore. Si tratta probabilmente del nonno di Guglielmo. Quel che si sa della vita di Guglielmo Shakespeare può facilmente esser contenuto in una paginetta. Dico sapere e non dedurre o congetturare. Di queste deduzioni che, pur fragili, non mancano di un certo interesse parleremo dopo. Dunque: Guglielmo Shakespeare è nato un giorno imprecisato del mese di aprile 1564 (la data del 23 aprile, che è anche quella della morte, sembra essere una
bella trovata sentimentale di un ammiratore del Seicento) a Stratford-on-Avon, villaggio che è piccolo adesso e che doveva esser minuscolo allora, sulle rive di un placido fiumicello, in vista delle belle colline che lo separano dal Galles, poco distante. Il padre cominciò come contadino, divenne poi mercante di cuoio e di legno, ebbe un momento la carica di sindaco, dopo di che le sue condizioni economiche periclitarono. La madre, Mary Arden, era di migliore famiglia, sempre rurale, da lungo tempo stabilita sul luogo e senza impiccati in casa.
Guglielmo, il terzo di otto figli, ricevette quel tanto di educazione che poteva impartire il parroco di Stratford e non ne ricevette dopo alcun’altra scolastica. A diciotto anni fu costretto a sposare Ann Hathaway, una ragazza di
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otto anni maggiore di lui, che aveva sedotto. A ventun anni lasciò la moglie e i tre figli che già aveva e prese la strada di Londra. Una antica e diffusa tradizione vuole che egli dovesse lasciare il paese natale minacciato da Sir Thomas Lucy, il signore del luogo, nel cui parco aveva rubato un daino. Qui abbiamo una lacuna, una mancanza totale di notizie. I biografi si sono affannati a cercar di colmare questi sette anni di oscurità: chi lo fa viaggiare in Italia, chi lo fa studiare in una università, chi lo vuole soldato o
predicatore (i due mestieri meno adatti — a prima vista — al genio shakespeariano). La verità è che non si sa nulla. Ed è peccato perché questi furono gli anni formativi. Nel 1592, però, un altro scrittore per teatro scrisse un libello, Un soldo di spirito, nel quale, geloso, si scaglia contro «un rozzo contadino, un corvo vestito delle nostre penne che si immagina di dar fiato ai versi come il migliore di noi; e non essendo altro che un “John of all works” (vuol dire un factotum che si prendeva in ingaggio) crede di essere l’unico Scuoti-Scena dell'Inghilterra». Il gioco di parole è chiarissimo: Scuoti-Scena (Shakestage) invece di ScuotiLancia (Shakespeare). Dunque prima del 1592 Shakespeare aveva già scritto per il teatro. Subito dopo l’editore del Soldo di spirito, Cheattle, pubblicò un opuscolo per scusarsi di aver contribuito a diffamare un uomo «del quale io stesso ho 0sservato la condotta civile (bene educata); e molte perso-
ne mi hanno parlato della sua rettitudine, della sua onestà e della sua grazia». Dopo di che si sa che fu attore, e cattivo attore, se i
soli ruoli rammentati sono quelli dello spettro del padre di Amleto e del vecchio servo Adamo in Come vi pare, parti di men che quarto ordine. Nel 1594 acquistò una caratura nel capitale di gestione del teatro; nel 1596 gli muore il figlio Hamnet; nello stesso anno fa domanda di aver il diritto di portare uno stemma, il che gli vien concesso (in campo azzurro una
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mano d’oro scuotente una lancia); ma subito dopo il collegio degli araldi protesta perché si è concesso lo stemma a «persona di così vile origine». Nel 1597 acquista una bella casa a Stratford; nel 1602 circa venti ettari di terra; poco dopo è implicato in un processo per minacce a mano armata, nel 1612 in un altro processo perché aveva combinato un matrimonio garantendo una dote che poi non fu versata. Nel 1605 acquista per quattrocento sterline dei canoni già appartenenti a una chiesa di
Stratford. Circa il 1610 cessa di scrivere e si ritira a Stratford,
dove pare eserciti una leggera usura: la figlia Susanna fu accusata di incontinenza e sporse querela; Giuditta si sposò con Thomas Quiney. Nel 1616, il 23 aprile, morì. Fu sepolto nella parrocchia. Di lui non resta nessun manoscritto; soltanto cinque firme, una nel testamento, una su un esemplare di
Montaigne, tre in documenti legali. Sono tutte di scrittura differente, e tutte precedute dal puntino che allora,
per gli analfabeti, sostituiva la croce. Ma perché questa firma su un libro? Nessun ritratto assolutamente autentico. Il busto tombale, di parecchio posteriore, è ignobile. Una stampa in rame preposta all’edizione completa delle sue opere (1623) ci mostra una maschera che ricopre il vero volto invisibile. Un ritratto alla National Gallery è assai attraente ma di molto dubbia autenticità. Ricordi personali di autori ed attori che lo conobbero parlano concordi della sua attrattiva personale, della sua «instancabile benevolenza», del «suo spirito vivacissimo». Tutti quelli che lo ascoltavano nella Taverna della Sirena (Mermaid) ove andava ogni sera ne conservarono un ricordo, come dicono, «fatato». ’
Keats in una commossa poesia ha esaltato i lunghi colloqui della Taverna della Sirena.
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La biografia deduttiva Questi i dati di fatto sicuri. Sono di una scarsezza de-
solante; e per di più meschini, alcuni ripugnanti, qualcheduno paradossale. È ovvio che i critici, i lettori, gli entusiasti non potevano contentarsene. Essi allora ricorsero per aver notizie
maggiori alla lettura delle opere. Ogni poeta dipinge se stesso e la propria vita nella sua opera; Shakespeare deve aver fatto lo stesso. La difficoltà era che si trattava di un poeta drammatico, costretto quindi a far parlare personaggi di diverse e opposte passioni, e che, tranne nei Sonetti, non parla mai dicendo «io». Bisognava fra le centinaia di personaggi scegliere quelli che potevano sembrare aver incarnato l’autore, cioè quelli che da dramma a dramma mostrassero una certa identità di passioni e di espressioni e che nel contempo fossero omogenei al solo «io» sincero, quello dei Sorzett. Bisognava da migliaia di frammenti creare la lirica personale di Shakespeare. Qui gli studiosi si divisero: i più fanatici si rifiutarono semplicemente di far l’onore di accordare al cattivo attore, all’usuraio, all’ignorante la paternità di tante opere di altissimo valore spirituale. Dissero concordi che il signor William Shakespeare non poteva essere che un prestanome (ricordare il «John of all works») di un altro personaggio che per ragioni sociali o politiche non voleva apparire come autore drammatico (professione allora, difatti, considerata poco raccomandabile). Essi si
diedero a dimostrare che il William Shakespeare di cui conosciamo i dati biografici non poteva scrivere l'Opera che dimostra illimitate (dicevano essi) conoscenze politiche, diplomatiche, scientifiche, militari, legali, letterarie, ecc. Essi esageravano perché in fondo quel che traspare di conoscenze culturali dai drammi è mediocre, disordi-
nato e autodidattico, ad ogni modo ampiamente assimi-
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labile da un cervello della potenza di quello di Shakespeare. Però l’opera demolitrice di questi critici può scuotere. Dove invece casca l’asino è quando vogliono ricostruire, identificare cioè l’autore dell’opera. Sono ricorsi alla criptografia, allo spiritismo, ad ogni mezzo e trucco. Un belga ha perentoriamente provato che Shakespeare fu il conte di Rutland; un inglese che fu Lord Southampton; un altro inglese sostiene la paternità di Lord Derby; la scuola americana sostiene che l’autore di Arz/eto è stato Francesco Bacone, il grande filosofo.
Questa ingarbugliatissima quistione è stata brillantemente e chiaramente riassunta da un professore francese, Georges Connes, in un interessante volume, Le 77ystère shakespearien. Gli altri ricercatori furono più ragionevoli. Trascurarono la questione d’identità personale e cercarono di rimpolpare lo scheletro biografico mediante la «internal evidence», la testimonianza interiore offerta dall’opera stessa. Il libro di Frank Harris The Man Shakespeare fa il punto di questa più proficua ricerca.
Shakespeare fu un uomo di genio ma anche di parecchi difetti. Avido di denaro, poco scrupoloso, pessimo padre di famiglia, dotato di straordinari poteri di assimilazione, attraverso letture disordinate e contatti personali si formò una cultura. Quando fuggì da Stratford fece dapprima il mestiere di guardiano di cavalli dinnanzi ai teatri, poi entrò al servizio di un giovane gentiluomo, il conte di Southampton, che andava a studiare all’Università di Padova. Al suo ritorno in Inghilterra, verso il 1590, scrisse una serie di drammi italiani (I due gentiluomini di Verona, Il mercante di Venezia, Romeo e Giuliet-
ta) tutti situati nel Veneto e nei quali si mostrano alcune nozioni precise di luoghi e di persone impossibili ad acquistarsi restando in Inghilterra. Intanto aveva contratto con il giovane conte una stranissima relazione amiche-
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vole della quale sono materiati i due terzi dei Sonetti. Ad un certo punto però s'innamora di una signora, la «Dark Lady», e ne diviene l'amante. Qui scoppia il dramma: il giovane conte lo soppianta nelle grazie della signora e sotto il peso di questo doppio tradimento la sua ragione vacilla: è l'epoca delle grandi opere pessimistiche (Re Lear, Amleto, Misura per misura, Timone d’Atene, Otel-
lo), poi la furia si placa, il dramma personale viene allontanato e piazzato nella prospettiva storica (Artorzo e Cleopatra. Anche Cleopatra è una «gipsy queen» e a lei si rivolgono gli stessi appellativi che alla «Dark Lady»). Poi ancora i drammi di conciliazione e perdono (Cirbelino e la Tempesta) e il ritiro ultimo al paese natale per attendervi la morte. Le ultime parole, presumibilmente, che siano state scritte dal poeta sono quelle pronunziate da Prospero mentre rinuncia alla sua magia e spezza la bacchetta: «And my ending is despair» — «E la mia fine è la disperazione». Su questo schema la maggior parte degli studiosi è d’accordo pur dissentendo su qualche particolare, il più importante dei quali è la sostituzione di un giovane attore al conte di Southampton. Anche la «Dark Lady» è stata identificata come Mary Fitton, una giovane damigella della Corte della quale al South Kensington esiste un ritratto che giustifica la passione di Will e del Lord (o dell’attore). Cronologia delle opere È particolarmente importante in relazione non solo a un discernimento dello sviluppo artistico ma anche della biografia. Ed è particolarmente difficoltosa in quanto la pubblicazione stampata delle opere sotto forma di quartos, cioè l'equivalente dei nostri libretti d’opera, talora
precedeva, talora seguiva la rappresentazione. Talvolta
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mancava del tutto e allora l’opera ci è nota soltanto dal folio pubblicato dagli amici sotto la direzione di Ben Jonson sette anni dopo la morte del poeta e senza alcuna indicazione né disposizione cronologica. Si è stati aiutati dalle registrazioni, incomplete, del libro della Censura, dai riferimenti, incerti, dei contem-
poranei e soprattutto dallo studio minuzioso della tecnica scenica e del verso, che mostra un progressivo abbandono del verso rimato (ma anche questo con un ritmo di velocità diverso secondo si tratti di tragedie, commedie o storie). Si è giunti alla seguente conclusione, sicura nelle grandi linee, incerta ancora per le singole opere. Periodo di gioventù: II e III parte dell’Errico VI-I parte dell’Enrico VI — Riccardo III — Commedia degli errori — Tito Andronico — Bisbetica domata (1590-1594). Periodo maturo: Venere e Adone (poemetto) — I due gentiluomini di Verona — Pene d’amor perdute — Romeo e Giulietta — Riccardo II — Sogno di una notte d’estate - Re Giovanni — Mercante di Venezia — Enrico IV — Molto rumore per nulla — Enrico V— Giulio Cesare — Come vi pare — Dodicesima notte (1595-1600). Periodo massimo: Arzleto — Gate comari — Troilo e Cressida — Tutto è bene quel che finisce bene — Misura per misura — Otello — Lear — Macbeth — Antonio e Cleopatra — Coriolano — Timone — Pericle — Sonetti (1600-1609). Periodo finale: Enrico VIII — Cimbelino — Racconto
d'inverno — Tempesta (1609-1612).
Tutte le opere del periodo giovanile, e inoltre Pene d'amor perdute, Re Giovanni, Pericle e Enrico VIII sono state scritte in collaborazione con Beaumont, Fletcher, Webster o Kyd.
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Opere non teatrali di Shakespeare
Nel 1593, il 18 aprile, uscì il sonetto Verere e Adone, dedicato, si capisce, al conte di Southampton e presentato come «il primo erede della mia invenzione». È un lungo poema in quartine 4bab, di versi squisiti e luminosi, ma freddi. Fa l’effetto di uno smalto o di un arazzo. I maligni potrebbero notare che è tutto un inno alla bellezza virile. Eguale compiutezza tecnica, ancor minore commozione nel Ratto di Lucrezia, nel quale si può notare l’assoluta mancanza di caratterizzazione che non fa certo presagire le future grandezze sceniche e che anzi è inferiore alle prime mediocri prove già date. È superfluo indicare a chi va la dedica. In seguito venne stampato La Fenice e la Tortora, breve, singolare poemetto di qualità fortemente superiore ai precedenti, con tratti di grande e oscura bellezza. In esso si lamenta che il congiungimento di questi due grandi e nobili esseri (in inglese Fenice è maschile) non abbia prodotto prole. Si è sospettato da parte dei maligni che la Fenice stia per Shakespeare e la tortorella per il conte (o l'attore). Ma con ciò non vengono chiarite le ragioni del lamento. Insipide le brevi elegie, I/ larzento di un amante e Il pellegrino appassionato. Majora premunt
Nel 1609 l’editore Thomas Thorpe pubblicò un libretto contenente i centocinquantaquattro sonetti di Shakespeare, col nome dell’autore. Ma di già dieci anni prima il nostro vecchio amico, il prezioso Meres, aveva alluso agli
«zuccherati sonetti che Shakespeare fa circolare tra i suoi intimi amici», e due erano stati pubblicati, abusivamente,
in un libretto attribuito a Shakespeare ma nel quale i due sonetti sono la sola opera davvero sua.
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Fortunatamente (o sventuratamente) l’editore dei Sonetti completi premise all'opera una sua personale dedica indirizzata alla persona cui i sonetti erano indirizzati.
Per ovvie ragioni però non lo nominò ma ne indicò soltanto le iniziali. Non immaginava che quelle trenta sue parole avrebbero scatenato una battaglia letteraria che dura ancora. Ecco la dedica (assai aggraziata del resto), tradotta e riprodotta nella sua tipografia che ha la sua importanza. Al solo. originatore. di questi. seguenti sonetti
Signor W.H. ogni felicità e quell’eternità promessa da il nostro sempre vivente poeta
augura il bene augurante avventuriero nel mettersi in moto
VISTE
«Originatore» è parola, oltre che barbarica, imprecisa. Il begetter inglese è «colui che fa produrre» ed ha anche un senso sessuale. «Avventuriero» va inteso in senso commerciale: colui che cerca la ventura, che si rischia a
una impresa. T.T. sono le iniziali di Thomas Thorpe, l'editore. I Sonetti hanno cominciato a destare la curiosità soltanto nell'Ottocento, quando Wordsworth scoprì che «nei Soretti Shakespeare ci ha aperto il suo cuore». In quell’epoca vittoriana questa scoperta destò l’indignazione e Browning teplicò dicendo: «e allora di altrettanto ne esce diminuito». Sembra impossibile ma per generazioni nessuno si era accorto, o nessuno aveva osato
dire, che la maggior parte dei sonetti fosse indirizzata a
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un ragazzo. La lingua inglese, occorre dire, con i suoi aggettivi invariabili, favorisce questi errori. Chi era «Mr W.H.»? Le iniziali sono quelle, invertite,
di Henry Wriothesley, cioè dell’onnipresente conte di Southampton. Ma in inglese non vi sono precedenti di queste inversioni di iniziali, e ancor meno di chiamare così familiarmente «Signor» un pari d’Inghilterra. «Proprio questa è la prova: l'editore ha cercato di nominare e non nominare, per non porre in imbarazzo il conte, data la delicatezza dell'argomento — o forse anche per fargli comprendere che gli sarebbe stato facile fare una seconda edizione con le iniziali a posto e un bel “Lord” invece di “Mr”, se non fosse stato tacitato. E an-
che quello strano “Avventuriero” posto in fondo giustifica i peggiori sospetti.» Così dicevano molti fra gli studiosi. «È impossibile. Il conte di Southampton, potentissimo e violento, non poteva minacciarsi di ricatto. Una
buona bastonatura avrebbe fatto tacere chiunque. Chi si poteva minacciare era invece un qualche povero ragazzo, uno di quei p/ay-boys che interpretavano le parti femminili nei teatri elisabettiani. Perché questo W.H. non sarebbe Willie Hughes, un giovanetto noto allora per la sua bellezza e la sua abilità artistica?» Questa tesi fu sostenuta con l’ausilio di una preziosa esperienza ma con scarsi argomenti storici da Oscar Wilde, la cui novella I/ ritratto del signor W.H. è però di eccellente e istruttiva lettura. In fondo non ha importanza guardiamo l’opera.
I Soretti non sono nella forma italiana; sono sì quattordici versi ma raggruppati in tre quartine 4045 e conchiusi da un binario 44. Questa formula ha i suoi pregi e i suoi difetti; consente un costante fluire di ritmo e di
colori nei primi dodici versi; ma alla fine si produce una
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Letteratura inglese
cesura violenta e i due ultimi versi fanno l’effetto di una appiccicatura, la morale della favola. Quasi sempre si può, si deve oserei dire, fare a meno di leggerli. Come potenziale poetico il sonetto shakespeariano consta di dodici versi. La storia narrata nei Sonetti è semplice: il poeta, dapprima ancora in stato di inferiorità di fronte al nobile giovinetto, lo incita fervorosamente e rispettosamente a sposarsi per continuare il casato e non lasciare perire la propria bellezza. Questo è l’argomento dei sonetti 1-17. Col sonetto 18 la preoccupazione matrimoniale scompare e le lodi prendono un tono di sempre più incalzante fervore. Verso il sonetto 70 l’amore sembra soddisfatto. Di poi al sonetto 86 si insinua gelosia e invidia per un rivale, poeta anche lui; poi ripetute assenze, riprese di passione, assenze. Al sonetto 126 compare la «Dark Lady»: fervore, amore, possessione. Il tradimento fa scoppiare i fulmini. La storia finisce con un sonetto ingiurioso (il 152). I due ultimi sonetti sono semplici esercitazioni metriche. I primi diciassette sonetti (i matrimoniali) sogliono essere trascurati: a torto; sono pieni di fervore e il tema amoroso si insinua fra le pieghe del rispetto e della poesia d'occasione (vedi sonetto 1 verso 11) con versi lucenti e freschissimi. (Sonetto 5 versi 8-11: stagioni, il divino verso 1 del sonetto 8, «Music to hear, why hear'st thou
sadly», i bucolici versi 1-8 del 12); è vero però che sin qui non vi è nessun sonetto interamente bello. Non sappiamo, non sapremo mai, cosa sia avvenuto fra il 17 e il 18: il tono è cambiato, il rispetto sociale svanito. Prima minacciava sempre il giovane signore per
l'inevitabile perdita della bellezza consigliandolo di eternarla con la prole; al 18 dopo gli attoniti ammirevoli versi 1-2 gli dice: «la tua immortale estate non appassirà mai». E lo stesso tema in versi peggiori è svolto nel 19. Il sonetto 20 è di già il più esplicito fra tutti e benché non
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contenga particolari bellezze è di estremo interesse psicologico. Nel 21 i versi 5-8 sono una lussuosa descrizione della natura. Al 22 il poeta prima tanto sicuro della perennità della bellezza teme il giorno in cui vedrà apparire una ruga. Il 23 è quanto mai ambiguo, il verso ha la stanca andatura di molti versi dell’A7z/eto, il poeta esita, si tenta e teme. Il primo sonetto di totale bellezza. Niente nel 24 e nel 25 un’abbastanza puerile e un po’ indecente soddisfazione. Il 26 è una specie di scherzo in tono solenne di rispetto, il 27 è un’altra incomparabile gemma nella quale si descrivono le miserie e le ansie di una notte solitaria rischiarata alla fine dal verso 11 meravigliosamente eerze. Il 28 e 29 sono delle magnifiche esplosioni di tristezza e di sconforto, terminate dalle solite consolazioni amorose che, questa volta, mi sembra
non abbiano potuto superare il malessere. Il sonetto 30 è uno dei massimi vertici della raccolta e quindi... Il soggetto è lo stesso dei due precedenti ma con maggior franchezza il poeta non tenta di superarlo con pensieri d’amore o per meglio dire lo tenta solo nei versi 13-14, cioè fuori del poema. Il ritorno addolcito, le lunghe arcate come di violoncello, l’uso sapientissimo dei gravi suoni o e 0e, son cose da far strabiliare. Nel 31, nettamente di secondo piano, non vi sono di notevole che i versi 9-10, funerei e solenni. Il 32 è orrendo. Il 33 si rialza con una luminosa impressione di mattino che antici-
pa Monet; alla fine risorge la tristezza, per la prima volta tristezza d'amore. E questa impressione penosa conti-
nua nel 34. Il 35 di nuovo come il 20: mediocre come arte, di prim'ordine per interesse umano. I sonetti 36, 37, 38 e 39 non presentano alcun interes-
se. Il 40 è un miracolo: uno dei gridi di amore più puri (poeticamente parlando) e più sostenuti che vi siano: una dedizione assoluta espressa in grida elementari. La parola love vi è ripetuta otto volte e fa da basso obbligato al lamento.
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Al 41 si affaccia una rivale, una donna. Sarà la «Dark
Lady»? Non ancora. Il 42 è evidentemente fuori posto: dovrebbe essere dopo il 126 perché parla nettamente del doppio tradimento: ma ancora la spada non è entrata sino al cuore. Il poeta ci ragiona su e se ne compiace!
Il 43 è tessuto di concettini glaciali, come pure il 44, che per eccezione si rialza in due magnifici versi, il 13 e 14,
che preparano il magnifico 45, alchimistico ed esoterico, pieno di luci da laboratorio di Faust. Il 46 val poco: ingombro di concetti e linguaggio giuridico come il 47. Nel 48 e 49 si torna al tema della gelosia umile e del timore dell’abbandono e con essi tornano i versi magistrali che procedono lenti carichi dei dolori futuri. I sonetti 50 e 51 sono non cattivi ma mediocri: la metafora vi è stentata e lenta, e il 52 non val niente. Nel 53 il poeta si è ripreso: è il poema della sorpresa, dell’attonito vagheggiare davanti alla bellezza dell'amico. I versi 1-2 carichi di magia fanno restare allibiti. Il 54 è nullo (non è vero — il verso 1 è splendido); il 55 riprende con magnifica alterigia il tema dell'immortalità dell’arte che trascinerà nella sua sfera celeste anche l'oggetto amato. Il 56 è uno dei più espliciti, un po’ troppo; vedo che vi avevo scritto come epigrafe «dans cette pose nonchalante où t'a surprise le plaisir» di Baudelaire e avevo ragione. Il 57 ha forse dei meriti di analisi; l’espressione non è raggiunta come non lo è nel 58. Invece il 59 è di una chiarezza di espressione che pareggia l’acutezza dell’analisi interiore e il verso 9 è trasognato e splendido. Il 60 ha belli i versi 1-2. Il 61, un sonetto d’insonnia, non è male ma qualsiasi altro (grande) poeta avrebbe potuto scri-
verlo. Il 62 non mi piace. Il 63 ha i versi 4 e 8 adorabili. I 64 e 65 potrebbero non esserci. Il 66 è un capolavoro: un urlo di insofferenza, di dolore, di arrabbiata melan-
colia. Si prevedono i tremendi tuoni di Lear e di Timone. 67, niente. Il 68 ha un bel verso 2 ma si prolunga parlando ridicolmente di parrucche. Nel 69 si vede il
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poeta preoccupato del «qu’en dira-t-on?», il che gli ispira versi mediocremente piatti. E nel 70 rincara la dose. Il 71 commuove: il poeta pretende prender congedo dal mondo, in realtà nel subconscio sente la fine dell’amore. Nel 72 torna a rimproverare l’amico perché ama oggetti che valgono poco. Nel 73 la vena poetica è ricominciata a fluire piena: il sentimento autunnale, la sensazione della fine mesta ma fastosa riempie questo sonetto che con i consueti rintocchi di frasi ripetute, con le immagini esclusivamente gialle o grigie, con il meraviglioso verso 4 («nude absidi dirute dove un giorno cantarono i dolci
uccelli»), tocca un’altra volta quasi le estreme cime dell’ispirazione di Shakespeare. Anche il 74 è investito di un senso di decadenza morbosa e allettevole che però non riesce a fondersi interamente nel linguaggio. Il 75 mostra con spietata chiarezza lo stato d’animo irrazionale prodotto dall'amore mentre vien giudicato dalla mente lucidissima. Ma non è possibile esaminare i Sozetti uno per uno. Mi contenterò adesso di indicare quelli supremi. Nel 79 compare il rivale, il poeta che voleva strappare a Shakespeare l’amore dell’amico. Pare si trattasse del poeta Chapman, uomo di prim'ordine, grande umanista, famoso ancor oggi per la sua versione di Omero, e inoltre uomo di mondo e di corte. Una specie del nostro Annibal Caro. I timori e le gelosie riempiono gli 80 e 81 mentre 82 e 83 accennano a uno strano compromesso. Vi si
parla dei «due poeti tuoi» che insieme ameranno ed esalteranno, uno al modo moderno (Shakespeare), l’al-
tro nella lira antica (Chapman). L’86 è di nuovo un vertice. Preso l’abbrivio dalla immagine marina del primo verso (immagini navali si affacciano fin da quando Chapman si fa vivo) Shakespeare s’inoltra nel sonetto a piene vele con un moto maestoso e serrato, con una gravità, con un’abbondanza di rime echeggianti, con degli accenni di tale solennità alle arti magiche del rivale che
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rendono questo poema uno dei più impeccabilmente costruiti, su di una retorica (in inglese la parola ha senso favorevole) maestosa tanto rara in Shakespeare. Nell’87 si dà per vinto, ma si dà per vinto in malo modo, con una abbondanza di termini e di concetti giuridici che rendono il poema simile al lamento di un tipo che abbia perduto una causa in tribunale. Il verso 1 affettuoso e dolente faceva presagire meglio. Il sonetto è così vuoto di materia poetica che, per eccezione, i due ultimi versi
figurano come i migliori (dopo il primo). Negli 88 e 89 il lamento continua, egualmente e, anzi, più vuoto di poesia. Ma si sente che il poeta si va montando, che al dolore sta per succedere l’ira. Che scoppia, furiosa ma non ancora intrisa di tenerezza, nel 90, un altro dei gioielli
della raccolta. Nel 93 il povero Shakespeare si adatta ancora al compromesso: «vivrò come un marito ingannato
volendo supporre che sei fedele». Il 94 è di grande e pensosa bellezza: sembra però fuori posto nella storia: sembra davvero la lode a un giovane attore ed è infatti il più solido argomento dei sostenitori della teoria Willie Hughes. A meno che non si voglia riconnettere al precedente 93 e non sia un perverso e abbastanza vile complimento al conte per l’eccellente recitazione nella parte di «moglie» fedele. In certi abissi morali tutto può avvenire. E la teoria (che ho scoperto all’istante) mi sembra plausibile. Il 95 a pensarci conferma questa ipotesi e si scaglia contro chi dice male dell'amato «per i suoi peccati». Il 97 è uno dei primi sonetti di separazione e i primi otto versi, coloriti e sontuosi come un Rubens, sono
fra i massimi che mano umana abbia scritto. Il 98 ripete lo stesso tema in tono minore. Il 99, il sonetto dei fiori,
si riporta in parte alla famosa scena delle rose nell’Exrico VI, prima parte, e contiene un verso alla maniera di
Swinburne, romantico e morboso: il verso 9, «una rosa
era tutta vergogna arrossita, l’altra era bianca disperazione». La natura partecipa a questo dolore.
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Il 104 contiene più di un verso freschissimo (versi 56-7) ma c’interessa perché contiene un accenno alla durata del triste dramma: un po’ più di tre anni. Il che è importante da ricordare perché, diluendoli nel tempo, rende più notevoli i molti cambiamenti di tensione e di umori ai quali abbiamo assistito. Il 106 rappresenta una oasi nel deserto di pena e vergogna che Shakespeare sta attraversando; è un magnifico sonetto d’amore, senza
sospetti e senza rimpianti, un inno alla bellezza con delle immagini da messale medievale che hanno dovuto fortemente impressionare i Pre-Raffaelliti e Yeats, a giudicare dagli effetti. Nel 107 il verso 2 è impressionante: «il vasto mondo sognante delle cose che verranno»; una di quelle aperture cosmiche che Shakespeare va a pescare chissà dove. Il 109 è un sonetto di assenza e di ritorno, soavissimo. Il 110 è un altro di quei forsennati sonetti di rimpianti e di vergogna, ove ogni verso sanguina come una piaga, e si conchiude, di fatto, al verso 9 con il
famoso «adesso tutto è stato compiuto tranne ciò che non avrà fine». In questi tre anni il povero Shakespeare aveva accumulato le esperienze di tutta una vita e si vede dinanzi al nulla. Un altro Everest. Un altro grosso guaio doveva essere capitato all’infelice Shakespeare quando scrisse il 112. Una umiliazione pubblica o un grave oltraggio. Ed egli è diventato troppo fiacco per adirarsi e cerca consolazione nell’ormai dubbio amore del giovane. Penoso e preciso. Il 116 esalta la costanza e l’immortalità dell'amore. Nel 117 è il povero tradito Shakespeare che si difende dai rimproveri dell’amico: una delle più dolorose (e del resto inevitabili) tappe nel cammino della rottura. Il 119 (uno dei grandissimi) ambientato in un'atmosfera di sortilegio, ci
mostra Shakespeare ormai pienamente cosciente della degradazione passionale nella quale è scivolato. La seconda parte è pietosa: pur di continuare a degradarsi, balbetta che ciò gli fa bene.
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Da adesso sino alla fine i Sozetti sono un lamento doppio: di amore per la «Dark Lady», di rimpianto per l’amico; di costernata meraviglia per il tradimento di entrambi. Il livello (sempre relativo) non è altissimo, ma vi si trova il più profondo e il più doloroso di tutti: il terribile 129 che esprime il distacco definitivo dalla carnalità. Quando i lussuriosi si presenteranno all’ultimo Giudizio, certo udranno pronunziare dall’ Angelo questi versi definitivi che bollano l’inutilità e la ingenita schifezza della carne. La tecnica è sorprendente: non si tratta più di rintocchi ma di colpi di maglio; le rime al mezzo, le allitterazioni, il rimbombo delle rime finali creano un’atmosfera parossistica, e il sonetto incede barcollando sino all'inferno che è infatti la sua parola di chiusa. E che è anche la più comune bestemmia inglese. AI di là del 129 né Shakespeare né nessun altro è arrivato. I due ultimi sonetti sono dei dolciastri intingoli nei quali mi piacerebbe scorgere la mano di Thorpe, «ricattator cortese». Qualche considerazione d’insieme.
A me la sordida storia di questi amori shakespeariani sembra narrata con sufficiente chiarezza nei Sozetti; la chiarezza apparirà maggiore ove si rifletta che l’ordine nel quale sono stati pubblicati e nel quale ancora si leg-
gono i Sonetti non è certo quello della loro composizione; è un ordine qualsiasi escogitato da Thorpe e che risponde a necessità logiche soltanto nelle grandissime linee. Un editore che rimettesse al loro posto parecchi sonetti che sono evidentemente fuori sede verrebbe a comporre, senza metterci di suo neppure una virgola, la più dolorosa tragedia di Shakespeare. Dal rigido formalismo dei primi diciassette sonetti (illuminati dalla passione nascente) si passa bruscamente alle espressioni di amore più brucianti, all’appagamento
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rapido e al godimento. Poi sopravvengono i primi sospetti, le prime gelosie; adesso si presenta Chapman, il rivale in poesia e in amore; tristezza e rimpianti; dopo, il sordido accomodamento, la spartizione; dopo ancora
entra in scena la «Dark Lady» che seduce il poeta (di già mortalmente offeso); in seguito fa suo anche il ragazzo; e il poeta affonda nella disperazione e rinnega la carnalità. Questo procedimento passionale e soprattutto il sudicio episodio della «spartizione» è tipico delle passioni omosessuali che non vengono mai alla fine per un «terzo uomo» ma soltanto quando entra in scena una donna (vedi Wilde e Gide, passim). Sui centocinquantaquattro sonetti
a me sembrano
privi di valore estetico una ottantina circa (nessuno però è una vacua esercitazione retorica come sostengono
molti critici pudichi); degli altri una trentina contengono dei bei versi; gli altri quaranta circa sono fra le cose più alte della letteratura mondiale. Percentuale, quindi, elevatissima. Superata forse soltanto dai Carzi leopardiani e che permette di piazzare i Soretti fra le tre o quattro più insigni raccolte di liriche. Altro valore: quello di farci meglio comprendere, di farci avvicinare, nelle sue miserie e vergogne, a Shakespeare; di lasciarci meglio intendere i capolavori teatrali che, se non conoscessimo «le dessous des cartes», avreb-
bero un po’ troppo l’aria di esser dettate da un Dio. Non si tratta più adesso del mestierante di genio, ma di una povera creatura dal cuore pieno di pena, dalla coscienza infiacchita; la quale, ritrovata la relativa pace
della disperazione, può pronunziare le parole di disillusione e non-cristiana carità che chiudono la Terzpesta e la sua opera.
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Il teatro elisabettiano
Avrei dovuto indicare prima quali siano le origini del teatro elisabettiano: non saprei farlo bene e preferisco tenermi sulle generali. Origini furono da un canto le rappresentazioni sacre che presentarono al pubblico, recitate o semplicemente mimate, scene della Scrittura e storie miracolose dei Santi; dall’altro le ballate che,
quando ebbero raggiunta una grande complessità di trama e di dialogo, si trasformarono da sé in dramma. A questo occorre aggiungere influenze estranee, classiche, francesi e italiane. Soprattutto gustato fu il frenetico teatro di Seneca conosciuto di terza mano attraverso le imitazioni italiane e quelle francesi degli imitatori italiani. Ma a me adesso interessa mostrare l’ambiente vivo e materiale di questo teatro. Sappiamo tutti che non vi erano vere e proprie sale di teatro ma che le rappresentazioni si svolgevano senza sipario e quasi senza scenari nel cortile delle locande. Soltanto sotto Giacomo I, il successore di Elisabetta, si costruirono apposite sale.
Il magnifico Enrico V di Olivier ci ha fatto vedere una sala di spettacolo elisabettiana; ma ne ha attenuato i toni e smorzate le rozzezze. Queste locande-teatri erano situate sulla riva destra del Tamigi, allora del tutto campagnola, a due passi dal porto. E il pubblico era in gran parte composto da marinai e da facchini, da tavernieri e da donne di malaffare. Esser direttore di un teatro equivaleva allora ad essere una mistura di proprietario di postribolo e di capo-mafia. I marinai erano tutti, o almeno erano stati di recente, dei pirati. Erano quelli che avevano saccheggiato Cadice, che avevano sgozzato gli Spagnoli dell’Armada gettati dalla tempesta sulle coste d’Irlanda, che commettevano pochi mesi prima di ogni recita i più innominabili orrori contro le colonie spagnole dell’ America centrale. Magnifici tipi di avventurieri,
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senza l’ombra di pregiudizi, senza l’idea di una educazione, senza il sospetto della paura tiravano il coltello alla benché minima provocazione. Nel 1597, l’anno appunto di Exrico Ve di Giulio Cesare, avvennero nei due teatri di Londra nove omicidi in rissa. Quasi ogni rappresentazione era preceduta dall’uccisione di un vitello in scena, compiuta da un attore, scena di sangue della
quale il pubblico era particolarmente ghiotto. Lo sfrenamento sessuale non aveva limiti e gli accoppiamenti avvenivano in piena platea. Quando un artista o un dramma non piaceva non ci si contentava di disapprovare con
la voce, ma si lanciavano sulla scena carogne di cani o di gatti, topi morti (quei bei grossi toponi del porto di Londra) o, per benevolenza, uova e frutta marcia.
I gentiluomini e altre persone bene allevate frequentavano i teatri ma con lo stesso spirito col quale andavano al bordello; e sempre accompagnati da servi armati. Se desideravano ascoltare davvero un dramma la Regina o i Lords se lo facevano rappresentare a palazzo. Era teatro non tanto di popolo che di plebe; non tanto di plebe che di malavita. Occorre non dimenticare questo che aiuterà a giustificare e scusare le intemperanze e gli orrori di molti drammi elisabettiani, la grossolanità di molte scene anche di Shakespeare, i lazzi volgari e insopportabili di quasi tutti i clown. La mistura del comico più brutale col dramma più elevato fu necessità sociale ed economica del teatro inglese (e spagnolo) di quei tempi. Ed è stato uno dei grandi paradossi che questa mistura fosse accettata dai romantici quale canone artistico e che si tentasse di imporla ai pubblici bene educati di Francia e di Germania che erano di già passati attraverso la civiltà del Seicento e del Settecento. In Inghilterra infatti (che la sapeva per esperienza più lunga) l'avventura non fu neppure tentata; e dovunque fallì, ad ogni modo.
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Il teatro di Shakespeare Periodo giovanile Enrico VI —- Riccardo III - Commedia degli errori Tito Andronico — Bisbetica domata
Enrico VI è forse la prima opera di Shakespeare. È senza dubbio la più lunga. Con qualche dubbio è anche la peggiore. Quel che vi è stato di veramente ammirevole a proposito dell’Exrico VI è stata la tenacia degli studiosi inglesi i quali, con pazienza benedettina e fiuto canino, hanno analizzato, dissecato, contato parola per
parola i versi, li hanno paragonati a quelli di Shakespeare della medesima epoca, a quelli degli altri autori contemporanei per sceverare la parte di collaborazione altrui che vi si può trovare. I risultati sono stati brillanti: più che di un’opera di Shakespeare con l’ausilio di altri sembra si tratti di un’opera di altri con qualche ausilio di Shakespeare. Occorre dire che era impossibile creare un’opera drammatica dal caos: la Guerra delle Rose, che è il soggetto dei tre drammi, è una tale successione parossistica
di stragi, assassini e malvagità che era impossibile ordinarla e piegarla a decente forma artistica rel suo insieme. Che cosa si salva? Poco. La grande scena della disputa nel Temple-Garden, nella quale vengono scelti i simboli della guerra futura. Il carattere dell’infelice Re, nato per essere un monaco e che trascina una vita affannata in quei tempi ferrei. Le scene della rivolta di Cade, nelle quali affiora di già l’anti-democraticismo shakespeariano, sono abbastanza vigorose e dotate di un gustoso humour macabro. L’orrore della guerra civile è reso e condensato in due didascalie: «entra un padre che ha ucciso il figlio» e dopo «entra un figlio che ha ucciso suo padre». E quanto di meglio vi è nelle tre «storie». Ma è un po” breve. Una curiosità è costituita dalla parte di Giovanna
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d'Arco. Con riferimento alle cronache quasi contemporanee, la santa guerriera è rappresentata come un’impu-
dica baldracca. Sono lieto che a questo almeno Shakespeare abbia preso così scarsa parte. Riccardo III è una delle più famose, non certo delle migliori fra le «storie». Essa deve la sua reputazione al fatto di esser stata spesso rappresentata perché il gigionismo trova nella parte del Re immediata ed efficace applicazione. È gobbo, è zoppo, è cattivo: una parte «d’oro», come dicono in Francia. Fatte queste riserve, convengo che non bisogna esa-
gerare. Il progresso fatto dall’Ezrico VI è immenso. Gobbo o no, Riccardo III vive nella sua cupa grandezza, con la sua pervertita gaiezza, col suo sorriso di scherno verso le vittime. «Io sono me stesso soltanto», «nessuna
creatura mi ama». Chi ha visto il suo magnifico ritratto di Londra lo vedrà sempre così, con lo scarno viso dell’intellettuale, con le mani nervosamente contorte del grande nevrotico. E tutto ciò è reso: reso nella incredibi-
le scena della seduzione della vedova dinanzi alla bara del marito, reso nelle maledizioni che la vecchia Regina insegna alla giovane, reso nella scena finale con l’ultimo grido di disperato coraggio. Lui era la fiaccola che rinnovava l’incendio. Lui morto torna la pace, splende il sole sui campi: E come ne abbiamo fatto il giuramento Uniremo la rosa bianca alla rossa.
Della Comedia degli errori c'è da dire più di quanto non credessi due ore fa. Non la rileggevo da venti anni. E in mente mia la chiamavo la «Commedia degli Orrori». Rilettala vedo che un qualche fascino vi è nascosto. Deve rendere molto sulla scena. Vi è un tentativo di caratterizzazione: Antipholus di Siracusa è certamente uguale, umanamente differente dal gemello Antipholus
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di Efeso, è più interessante e più amabile, se così può dirsi. E i versi sulla Sirena sono squisiti e fanno presentire le melodie di Rozzeo e Giulietta. Detto questo, basta. Tito Andronico ha dovuto piacer molto all’eletto pubblico del quale abbiamo testé trattato. Perché non sono né un pirata, né una donna di malaffare, dico subito che è illeggibile. Sono sicuro che dai Campi Elisi Will mi ap-
prova. La Bisbetica domata è un piccolo gioiello. Ciò che io vi apprezzo di più sono le brevi scene campagnole. Che lo stesso autore che ha creato Amleto e Prospero possa aver creato Sly l’ubbriacone «creditore di quattordici pence dalla moglie del birraio di Wincot», quello che così umanamente dice alla moglie: «Vieni, signora moglie, siedi vicino a me e lascia che il mondo vada a farsi friggere, non saremo mai più giovani di quel che siamo adesso», rimane eterno soggetto di meraviglia compunta. Petruchio è un bravo ragazzo: è delizioso il suo perenne, insmontabile buon umore. Kate, sposata, sarà
un'eccellente moglie che rivolgerà contro gli altri il proprio caratterino.
Il teatro di Shakespeare Il periodo maturo I due gentiluomini di Verona — Pene d’amor perdute Romeo e Giulietta — Riccardo II Sogno di una notte di mezza estate — Re Giovanni Il mercante di Venezia — Enrico IV — Molto rumore per nulla Enrico V — Giulio Cesare — Come vi pare — Dodicesima notte
I due gentiluomini di Verona non è una buona commedia: potrebbe con vantaggio essere iscritta fra le più giovanili dell’autore; l’intreccio è convenzionale, quasi
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tutti i caratteri senza rilievo, disposti l’uno di fronte all’altro con una simmetria arcaica, l’assenza di bei versi è cospicua. Eppure la commedia ha la sua importanza in riguardo all’opera successiva. È la prima commedia di amore romantico, la prima di quel genere nel quale Shakespeare conseguirà poi dei risultati estremamente felici: Molto rumore, Come vi pare, Dodicesima notte. È la prima ope-
ra di Shakespeare che abbia per scena l’Italia. Giulia è la prima fra le molte donne shakespeariane che ci si presenti quasi sempre in veste maschile. Da questa brutta commedia si partono i sentieri che ci conducono a Romeo e Giulietta, Dodicesima notte e Sogno di una notte di mezza estate.
Launce il buffone mi sembra il migliore dei personaggi: ha un certo suo spiritaccio ed è stato evidentemente creato con amore. E mi dorrebbe di dimenticare Crab, il
suo cane screanzato e amato, che ruba le cosce dei capponi e inonda le vesti dei padroni. Una bestiola di rara simpatia che ho cercato di commemorare degnamente.” Anche Pere d'amor perdute val poco e anch'essa ha un interesse che la sorpassa, interesse maggiore ancora
che quello dei Due gentiluomini. Qui vediamo in Berowne uno, il primo, di quei personaggi che sono i portavoce di Shakespeare; i personaggi che esprimono l’autore. E Berowne è molto occupato dallo «stile» nel quale si esprime; e questo stile fa presentire quello dei Sonetti. E nella commedia sono posti problemi di condotta, problemi etici. I quali vengono risolti appunto secondo la massima che Shakespeare doveva così luminosamente esporre molto più tardi: «La natura non potrà mai esser migliorata se non con mezzi che la natura stes“ Tomasi chiamò infatti Crab un suo amatissimo cocker spaniel nero.
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sa fornisce». Abbiamo qui di già uno Shakespeare artista in formazione ma conscio; abbiamo di già uno Shakespeare pensoso degli affari del mondo secondo un suo personale punto di vista. È molto. E le cialtronerie di Oloferne, e il sussiego di Adriano de Armado contano poco di fronte a questo. La canzone del III atto è uno dei miracoli di Shakespeare. La perfezione è tale che meriterebbe di appartenere al periodo finale. Con Pene d’amor perdute si chiude la minore età artistica di Shakespeare. Da ora in poi, quasi senza sosta, saremo sulle cime.
Giovanile ma in ben altro senso del consueto il Romeo e Giulietta. È il divino poema della gioventù, anzi dell’adolescenza (Giulietta non ha ancora quattordici anni!). E non solo della gioventù dei personaggi ma, stranamente, anche dell’autore che si dimostra inesperto, che costruisce male il dramma, che non sa variare ritmo ai suoi versi (in generale); ma al quale questa inesperienza miracolosamente serve per aggiungere tono di
franchezza ed acerbità e alla trama e alle parole dette. Si è detto che per quattro atti e mezzo la tragedia è costruita come una commedia, che i personaggi non portano 77 sé la necessità tragica che scaturisce solo da fatti esteriori, che dopo tutto sarebbe stato sufficiente un altro fatto esteriore perché tutto finisse in suon di campane e ghirlande, come nel Molto rumore per nulla. È vero; ma quale adolescenza (Amleto ha trenta anni) porta in sé il destino tragico? Crede di andare all’amore e va alla morte, data da altri, occasionata da interessi estranei, dai vecchi
e asmatici interessi dei «grandi». I versi sono monotoni, è vero. Ma quale varietà ritmica può stare a fronte della «monotonia» della scena del balcone, di quella del rugiadoso risveglio degli amanti, del dialogo atroce con l’apotecario, della tenebrosa scena finale?
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I caratteri sono tutti d’un pezzo, è vero. Ma anche gli Dei sono immutabili e tipizzano sempre le stesse passioni. E Giulietta, Romeo, Mercutio e la Nutrice sono en-
trati a far parte della nostra mitologia, come gli Dei sempre freschi, sempre giovani, sempre eguali a se stessi, senza possibilità di rughe. Di Mercutio vorrei dire che per somma ventura lo Shakespeare ci ha trasmesso la parlata, l’umore, la fantasia di un giovane gentiluomo italiano del Rinascimento, uno di quei gentiluomini dei quali Tiziano e Lorenzo Lotto ci hanno tramandato i tratti, ma dei quali la infa-
me letteratura italiana del Cinquecento aveva trascurato di trasmetterci l’anima e la parlata. (Forse, forse qualche accenno nell’Or/ardo.)
Riccardo II ci mostra ancora di più (anzi ci mostra per la prima volta) uno Shakespeare che si guarda allo specchio. Si direbbe che i guai della sua vita li abbia già passati (e probabilmente li ha già passati, ché ogni guaio è in noi, prima ancora del fatto esterno che lo provoca). Questo Re sensibile e interiorizzato, che si effonde in elegie soavissime ad ogni nuovo colpo che lo ferisce, che agisce male e inutilmente, questo Re che quasi senza esitare acconsentirebbe a dividere la corona, lo abbiamo già conosciuto sotto altre vesti nei Sozezzi. E nella sua
miseria, debolezza e inefficienza pratica lo amiamo tutti. Vi sono nel Riccardo II alcuni dei più bei versi di Shakespeare (e ciò vuol dire molto): «With a little pin», «How soon my sorrow», «And send the hearers weeping to their beds» e molti altri; e vi si trovano altri bei versi, di un metallo tutto differente: la spietata energia di Bolingbroke che così brevemente si esprime («My Lord Northumberland, see them dispatched») e la bella
e commossa tirata del vecchio York sull’Inghilterra, che suona fino adesso su tutte le bocche inglesi.
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Il sogno di una notte di mezza estate ci mostra uno Shakespeare in pieno possesso delle sue uniche possibilità. Non perché l’opera, bellissima per quanto sia, appartenga alle sue migliori, ma per la già consumata abilità, per l’ardimento sovrumano, per la facoltà che l’artista sente in sé di andare là dove vuole ed in qualsiasi posto egli voglia. Certo è vero che la parte fantastica da un lato (Puck e Oberon), parodistica dall’altro (Bottom e i suoi cari compari) costituisce il meglio di questa insuperabile fiaba, ma occorre non trascurare la paste passionale e umana: le scene degli amanti sperduti nel bosco profumato che si attraggono, si fuggono, si desiderano e si respingono, costituiscono una analisi perspicacissima dell’amore e vi sono note di languore, di tenerezza, di beffa e di
crudeltà che forse invano si cercherebbero meglio espresse in Shakespeare, all’infuori dei Sonetti. Questa volta è il duce Teseo che incarna l’autore. L’autore in un umore di serena gaiezza ma che non nasconde il sorridente scetticismo, il désenchantement, la sovrana indifferenza del Dio costretto per qualche tempo a soggiornare tra gli uomini che è la nota sempre presente, mai ostentata dello Shakespeare migliore. (Ricordare il giudizio «distante» e disilluso del più grande uomo di teatro del mondo sul teatro: «The best in this kind are but shadows, and the worst are no worse, if imagination amend them».) E la «musical discord»
della muta che si ode festosamente risuonare tra gli alberi e la minuscola imperiosità, i capricci microscopici di Titania, che è già una Cleopatra in nuce, gli squisiti bruttissimi versi della tragedia di Piramo e Tisbe (chi scriverà degnamente dei brutti versi fatti apposta dai grossi poeti?), la bonarietà adorabile dei tragèdi dilettanti, formano un insieme che è veramente fatato, nel senso letterale della parola, in quanto anche io non posso adesso strapparmi da esso per proseguire.
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Con il Re Giovanni siamo costretti a far parecchi passi indietro. Il dramma è di andatura impacciata, e noio-
setto anziché no. Il patetico delle scene dell’assassinio di Arturo è troppo ovvio. Ma i modi ambigui con i quali il Re lascia intendere a Hubert che il ragazzo è di troppo, sono maestrevolmente espressi, e i giri della frase, le interruzioni, i ritorni di parole sono di già quelli che verranno usati nella parte di Jago. E poi «Look, who comes here! a grave unto a soul». E poi vi è Faulconbridge, il primo personaggio irruento nel buonumore, cavalleresco, simpatico e yigotst di Shakespeare. Nel Mercante di Venezia è Antonio il personaggioShakespeare. Indeciso, arguto, pronto ad effondersi, generoso, è un gran personaggio poetico ma uno strano mercante. Ben più solidamente costruito, sino al punto che, come di tante nostre conoscenze, non si sa se sia
vittima o tiranno, Shylock. E Porzia, la prima «femminista» della storia (letteraria), e Jessica, sensuale e ingrata,
sono dei miracoli di caratterizzazione. E tutti questi personaggi sono immersi nella favola scorrente e scintillante, che alterna l’estasi giocosa («In such a night as this») con toni vicini alla tragedia, la scena squisitamente comica dei pretendenti con l’asciutta drammaticità del giudizio. E diecine di versi languidi. E un intero Veronese nel racconto che si fa a Shylock di Jessica che dà un brillante in cambio di uno scimmiotto. Enrico IV, nelle sue due parti, è il capolavoro fra i drammi storici. Grande come insieme e grande nei particolari, non ha una sola scena mediocre, non ha un solo
carattere sbagliato. Riguardo all’insieme trovo di patetica grandiosità l’alternarsi delle scene di vita popolare e da taverna, piene di impeto vitale, con le malinconiche scene dove il Re compare, quel Re sfiduciato, tradito che abbiamo già cono-
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sciuto nel Riccardo II, animoso, pushing e di tagliente parola quale Bolingbroke. E in seno alle stesse scene gravi le parentesi che pongono le apparizioni di Hotspur, l’entusiasta ribelle, pieno di brio e di buonumore, lui e la sua moglie trepida che egli così graziosamente tratta, sempre fra un bacio e una partenza subitanea. Ma la gemma fra tutti i personaggi, è, inutile dirlo, Falstaff, gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro
massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora. «Non sono soltanto spiritoso io stesso, ma sono
la causa che fa nascere lo spirito negli altri.» È questa probabilmente la chiave degli straordinari successi di conversatore di Shakespeare alla Taverna della Sirena dei quali ci sono giunti gli echi. E una sorte benigna ha permesso che di questi discorsi di taverna ci giungesse, attraverso Falstaff, una insufficiente ma ad ogni modo larga porzione. Dal momento in cui compare sulla scena accompa-
gnato da quella straordinaria similitudine per il sole («A fair hot wench in flamecoloured taffeta») fino all’istante nel quale aspetta il passaggio del nuovo Re, il suo apparire è annunzio della più serena letizia che si possa provare. Attraverso le scene della rapina nella strada («Go, hang thyself in thine own heir-apparent garters»), il racconto così esagerato delle sue prodezze, le sue liti e le sue riconciliazioni con Mrs Quickly, il suo obeso amoreggiare con l’impagabile Doll Tearsheet, il suo saggissimo e vittorioso dialogo col giudice Gascoigne, la scena incredibile del reclutamento, il pranzo con Shallow nel quale fra lo spirito più eccezionale si odono i rintocchi delle campane di Oxford («We have heard the chimes at midnight, Master Shallow»), il suo improvviso cedimento prima della battaglia che fa ritrovare al vecchio peccatore il linguaggio del bambino di quattro anni («I would it were bed-time,
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Hal, and all well»), attraverso questi e dieci altri episodi la sua prontezza di spirito, la sua felicità verbale, l’inesausto
| dinamismo del suo carattere lo portano, sulla cresta dell’onda del nostro affetto, sempre vittorioso. E si capisce assai bene come il giovane Principe di Galles non se ne potesse staccare. Fedele al suo enunciato, Falstaff non ha soltanto lo
spirito per se stesso ma è causale di spirito in chi gli sta vicino. Mrs Quickly, la Tearsheet, Pistola, Bardolfo,
Poins, il Principe stesso sono dei caratteri comici perfetti, degno coro di naiadi discinte e di tritoni imbroglioncelli intorno a questa agilissima balena. La naturalezza con la quale Shakespeare nell’Exrico IV passa dal più bel verso sciolto cosmico alla più lavorata e sfaccettata prosa sarebbe impareggiabile se un simile prodigio non si ripetesse (in altra chiave) nell’Ayz/eto. Dopo Falstaff si possono trovare in Shakespeare delle creature di pari altezza artistica — di yzaggiori no. Ci resta da affrontare l’ultimo argomento: quello del tradimento del Principe verso il vecchio, impareggiabile amico. Ma è argomento troppo doloroso per soffermarcisi; e anche Shakespeare ha sentito questo e se la sbriga in quattro parole. A scusare, dal punto di vista artistico, questo avvenimento che costituisce la pagina più nera della storia inglese (e non è dir poco), dobbiamo far no-
tare che esso è memorando perché introduce sulla scena la prima apparizione della famosa ipocrisia britannica. È facile trovare chi nell’Exrico IV incarna Shakespeare: è evidentemente Falstaff. Il poeta si è ritratto qui da un solo punto di vista: quello dell’uomo di spirito e del buon compagnone di taverna. (Ma è poi vera questa unilateralità? Non abbiamo già visto nei Soretti una simile, strana — per altri motivi — amicizia fra un uomo maturo e un giovanotto socialmente assai superiore? e
un nero tradimento finale?) I critici estremisti, quelli che non vogliono attribuire
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all’attore Shakespeare le opere che vanno sotto il suo nome, hanno emesso una ipotesi strana: che cioè il poeta (Bacone, mettiamo) abbia rappresentato in Falstaff il suo prestanome, il signor Guglielmo Shakespeare. Puro gioco verbale a me sembra invece il Molto numore per nulla. Sia detto questo senza nessuna riserva di carattere negativo. Puro gioco verbale, piacere del conversare, gusto di ascoltarsi, soddisfazione nel constatare
la suprema abilità raggiunta nell’intrecciare motti e motteggi, immagini suscitate dalle parole e non parole dalle immagini. I nove decimi di Goldoni son questo, e gli otto ottavi di Ariosto. E in Inghilterra, più tardi, Sir Thomas Browne. E son grandi scrittori; come a suo modo è grande commedia Molto rumore per nulla. Una delizia a leggerla, una più grande delizia a vederla rappresentata. Si esce da teatro a testa rasserenata, con un turbinio di
squisite parole, simiglianti a fuochi d’artifizio, dinanzi agli occhi. Dopo di che non ci si pensa più. Si parla molto del culto di Shakespeare per l'Italia. E quando si parla di questo si include nel conto Molto rumore per nulla. Si ha torto. La commedia si svolge, è vero, a Messina. Difficilmente però potrebbe immaginarsi qualcosa di meno italiano (e non diciamo neppur siciliano) di quel che vi si svolge. I personaggi sono per la maggior parte dei gradevolissimi apolidi: i due soli (e sono i migliori) che abbiano un qualche carattere nazionale sono spiccatamente inglesi: i due eccellenti e onesti poliziotti, Dogberry e Verges. Magari i vigili urbani di Messina fossero così! Quando si dà ad un sarto la stoffa per un soprabito, il sarto trova sempre modo di far saltar fuori un berrettino per il suo rampollo. E dalla sontuosa stoffa con la quale fu fatto Falstaff, Shakespeare ha fatto saltar fuori Dogberry. Si sente: è tutta lana, calda e morbida; il disegno è quello stesso: riposante e allegro. Ma è un berrettino.
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E le arguzie, i motti di spirito, le chiacchiere, le maldi‘ cenze, i pettegolezzi, le rispostacce e gli intenerimenti ‘ fra Beatrice e Benedick sono quanto di più arguto e gra‘ zioso si possa immaginare. Spuma spumosa di spuman-
te. Ma lo stomaco rimane vuoto. Enrico V, che abbiamo visto sotto così sgradevole
aspetto al momento del suo accesso al trono, ci appare trasformato nel dramma che porta il suo nome. Gli è capitata un'avventura straordinaria, invidiabile: è diventa-
to Shakespeare. Dentro certi limiti. Il personaggio storico era troppo caratterizzato e noto per cambiarlo totalmente: farne un indeciso e un sognatore ad occhi aperti non era facile. Pure, chi conosce quel personaggio-Shakespeare che troviamo in quasi tutte le opere, non stenta troppo a ritrovare il poeta sotto la maschera ferrigna del vincitore di Agincourt. Innanzi tutto nella cadenza di certi versi; soprattutto nella cadenza di quei versi che più vorrebbero essere energici e bellicosi, e che invece all’orecchio attento rivelano scoraggiamento o incertezza («Once more unto the breach, dear friends, once more»; «And you, good yeomen, whose limbs were made in England»). E poi nel bisogno un po’ sorprendente in un Re tanto «uomo di azione» di «sbottonarsi» con chiunque, di ricercare giustificazioni e confidenze, attitudine che culmina nella
impareggiabile scena notturna (scena che è stata barbaramente mutilata nel film o da Olivier o dai traduttori nostri) fra il Re e un soldato, nella quale il capo si ostina a cercare giustificazioni morali alla sua guerra, che è tipica dello Shakespeare che sempre è desideroso di «unpack his heart with words», di «disimballare con parole il proprio cuore», scena che è ricca di quei tali versi tremanti e dubitosi che sono il fascino fondamentale delle opere del nostro poeta. Anche l’humour è largamente rappresentato: nelle
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delicate caricature dei ricchi e gaudenti principi francesi, nello stesso tempo fanfaroni e genuinamente valorosi;
nelle scene adorabili del corteggiamento di Caterina di Francia, soldatesco e commosso insieme.
E naturalmente nella descrizione della morte di Falstaff, in versi intrisi di lacrime e di sorrisi che costitui-
scono l’unica consolazione che potesse essere porta a noi, straziati dall'idea che un tanto caro personaggio dovesse pur morire.
Nel Giulio Cesare ci si presenta, a mio parere, una delle prove più chiare della scarsa importanza dell’inventività e, conseguentemente, del nessuno interesse
della ricerca delle famose «fonti». Il Giulio Cesare di Shakespeare è per tre terzi la drammatizzazione della vita di Cesare, di quella di Bruto e di quella di Antonio di
Plutarco, che allora erano molto note in Inghilterra attraverso la traduzione (in bellissima prosa, del resto) che North aveva fatto della traduzione francese di Amyot dello storico greco. Per non citare che un esempio, i famosi discorsi fune-
bri di Bruto e di Antonio sono la riproduzione quasi letterale della traduzione di North. Le parole, le circostanze sono di North; la poesia, che è altissima, è tutta di Shakespeare. E anzitutto è di
Shakespeare la trasformazione di Cesare in Fato, in forza indistruttibile che neanche l’assassinio può uccidere, che dopo morto continua a governare quanto prima e più di prima, mediante l’ossessione che crea negli avversari. E dopo di questo nella figura di Bruto (un’altra, una delle più attraenti auto-presentazioni di Shakespeare), che già, nell’incertezza a risolversi e nell’ingenita discrepanza con la parte che gli avvenimenti gli impongono di rappresentare, è più che un semplice abbozzo di Amleto. Gaston Boissier, che era un grande storico ingiusta-
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mente dimenticato, ha scritto che Bruto era «un uomo di studio che malgrado la sua naturale ripugnanza, è divenuto uomo di azione, e che la corrente delle circostanze ha trascinato ad azioni opposte alla sua natura». Potrebbe anche essere una caratterizzazione di Amleto. Cassio, il nervoso, l’ombroso, l’uomo che ha in sé una punta d’invidia e d’incomprensione per Cesare, costituisce l'elemento attivo necessario a spingere Bruto all’azione. Porzia costituisce la vera differenza fra Bruto e Amleto. Nelle scarse parole che essa pronunzia si definisce come l’anti-Ofelia, come la donna che può dare aiuto e comprensione simpatica. Così viene a mancare uno degli elementi tragici dell’A7z/eto, l’amore penoso e vano per chi non può assolutamente essere il vostro eguale. Nel Marc’ Antonio di Giulio Cesare sono già stranamente (è vero, non stranamente) contenuti quegli elementi di uomo bravaccio, spensierato, leggero, violento che dovranno un giorno fiorire nell’Artozzio e Cleopatra. E poi vi sono i particolari, tutti degni di Shakespeare: la folla vile, mutevole, ingannata e infida; lo scetticismo di Cicerone («Ay, he spoke Greek»), l'atmosfera lam-
peggiante di presagi che precede l'assassinio, l’altra atmosfera ancora più allucinata che annunzia Filippi, la terrificante scena della morte di Cinna il poeta che a noi fa così invincibilmente pensare ai sei Teruzzi fucilati nell’aprile ‘45 a Milano, mentre il solo vero se ne stava nascosto sicuro. E i grandi versi che sembrano acqueforti di Goya: «He doth bestride the world, like a Colossus», «Danger
knows full well that Caesar is more dangerous than he» e tanti altri.
André Suarès nel suo penetrante studio su Shakespeare, poeta tragico dà a Come vi pare la palma fra tutte le opere di Shakespeare. Evidente esagerazione. E vero
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però, è vero invece, che con Come vi pare cominciamo a
penetrare nell'opera più alta e più intima del poeta. In fondo Come vi pare è tutta una lirica: come tale inanalizzabile. I personaggi che rappresentano l’autore... sono tutti. Ognuno tormentato, ognuno ironico, ognuno sor-
ridente con la disperazione nel cuore. Ma il figlio prediletto è evidentemente Jaques, il fratello di Orlando, che non si capisce mai bene cosa faccia precisamente, ma
che è il cuore di tutta la poesia che si trova in tutta questa romantica foresta di Arden, tanto verde, tanto bella, tanto pastorale, tanto minacciata. Questa gente canta le
più belle canzoni, si abbandona ai più delicati e sorridenti amori (la mia divina Rosalinda «che giunge all’altezza del mio cuore», tradita e abbandonata, «Yet each
man kills the thing he loves») sull’orlo della catastrofe. Qui, per un pelo, i guai sono ancora evitati. Ma verranno. E spazzeranno via tutto. E allora sarà il momento delle grandi tragedie cosmiche. Dei tuoni e delle folgori di Arzleto, Lear, Macbeth, Troilo, Otello, Timone e Antonio e Cleopatra, qui non abbiamo che il presentimento. «Il tempo si annuvola, caro, sarà meglio rincasare.» Basterebbero i primi (illustrissimi) versi della Dodicesima notte per piazzarla nel clima della commedia romantica. Basterebbe la terza scena del I atto per incasellarla tra i grandi capolavori comici. La verità è che questa commedia rappresenta una «riuscita» quasi unica in tutta la storia della letteratura: quella della fusione perfetta di un romanzo sentimentale che sfiora il dramma, con la commedia più larga, più cordiale che quasi sfiora la farsa. La nostra cara ViolaCesario è una delle più deliziose donne di Shakespeare. È Giulietta «sei anni dopo», con la birichineria sovrapposta alla passione. È la migliore di quelle inquietanti figure di donna-uomo, dopo Porzia e Rosalinda, prima di Imogene, che Shakespeare (del resto senza originalità
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diretta; vedi Giulio Cesare) ha creato. La sua impudenza, i suoi timori, la sua inconfessata passione ci resteran-
no sempre nel cuore. E il Duca, il Duca in fondo cattivo, sadista, come tanti potenziali cattivoni musicista ed esteta, le è degno contrappunto. In Sir Toby Belch e Sir Andrew Aguecheek (si inizia la tradizione inglese dei cognomi significativi che trionferà in Dickens, nel predicatore Honeythunder) troviamo, sdoppiato e un po’ abbassato, il nostro perduto ma sempre vivo Sir John, e l'ottima Maria serve loro pan per focaccia e tutti e tre costituiscono uno dei più splendenti insiemi comici che esistano. Cui fa da contrappunto Malvolio (l’uomo dai nastri gialli), disegnato con larvato odio da Shakespeare, nel quale si affaccia sulla scena, per ora come modesto maestro di casa, quello che sarà fra cinquant'anni il padrone dell'Inghilterra: il puritano. E così vediamo insieme il Rinascimento, tanto perspicuamente incarnato dal Duca, e la classe che abbatterà il suo regno in Inghilterra e vi sostituirà il suo dominio, non ignobile certo, ma fondamentalmente an-
titetico al genio di Shakespeare. (Questo spirito puritano ha, d’altronde, prodotto grande poesia anche esso: Milton, Marvell e Bunyan.) Ma qualche cosa di più opposto a Shakespeare, alla illimitata libertà shakespeariana, di questi tre, che si pongono sempre dei problemi esteriori di conformismo, non è facile immaginare. Shakespeare, quando Milton era segretario di Cromwell, sarebbe finito male; in anticipo Shakespeare ha fatto di Milton un personaggio subalterno, non privo di dignità, ma con «le giarrettiere a traverso».
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Il teatro di Shakespeare Periodo massimo Amleto — Le gaie comari — Troilo e Cressida Tutto è bene quel che finisce bene — Misura per misura — Otello — Re Lear Macbeth — Antonio e Cleopatra — Coriolano — Timone — Pericle
Il silenzio è il solo omaggio che gli spiriti inferiori ma onesti possano recare in dono a certe divinità. Né quindi vorrò trasgredire a questo principio parlando a lungo di Amleto. L’opinione generale lo stima il capolavoro di Shakespeare. I più sofisticati (anglicismo) fra gli spettatori gli rendono (forse per ragioni opposte) lo stesso omaggio delle platee più rustiche (ricordo durante la mia infanzia la rappresentazione di Arz/eto nel teatro di S. Margherita Belice da parte di una compagnia di guitti, che fece rabbrividire ed esaltare un pubblico composto per il novanta per cento di zappatori analfabeti); biblioteche, quasi, potrebbero riempirsi di ciò che è stato scritto su questa tragedia. Ed a noi tutti sono presenti gli scritti memorabili di Goethe, Coleridge, Mallarmé e Freud.
Poche sono le persone, anche nei più reclusi angoli del mondo civile, che non lo abbiano almeno sentito nomi-
nare. Ed ogni persona di media cultura ne ricorda almeno un paio di interpretazioni. (Io ne ricordo tre, oltre a quella suaccennata: Novelli [durante la mia infanzia], Ruggeri e Moissi.) E infine la mirabile interpretazione cinematografica di Laurence Olivier ne ha presentato la figura fraterna e allucinata al più vasto dei pubblici. Ispiratasi alla storia narrata da Saxo Grammaticus nella seconda metà del 1100, comparve nel 1570 in Francia una Histotre tragique di Belleforest che raccon-
tava la storia di Amleto, con notevoli differenze da quella che conosciamo. Il Belleforest fu tradotto in inglese e questa traduzione diede origine a un dramma inglese,
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certamente non di Shakespeare, che era già scritto nel 1587; di esso ci rimane una critica quanto mai acerba scritta da Nashe. Secondo tutte le probabilità questo «Ur-Hamlet» era opera di Kyd. Le due principali differenze d’intreccio (due, ma, a me sembra, superessenziali) fra lo «Ur-Hamlet» e il nostro, consistevano in una
segreta alleanza fra Amleto e sua madre contro il Re, e nella fine, che era lieta e consolante in quanto non solo il cattivo patrigno veniva con generale compiacimento ucciso, ma Amleto finiva con l’essere incoronato.
Il 26 luglio 1602 è data licenza di stampare «un libro chiamato la Vendetta di Amleto principe di Danimarca, così come è stata rappresentata dai servitori del Lord Chamberlayne». E l’anno seguente, il 19 maggio, il libro venne pubblicato, recando di già con sé gli attestati di grandi ed intellettuali consensi. Eccone il titolo: La Tragica Storia di Amleto principe di Danimarca. Di Guglielmo Shak-speare. Così come è stata diverse volte recitata dai servi di sua Altezza nella Città di Londra; e anche nelle due Università di Cambridge e Oxford; e altrove.
Questa è la prima edizione di Arzleto. Ad essa nel 1604 seguì una seconda «aumentata di quasi il doppio, in conformità del vero e perfetto copione», come dice il titolo e come in realtà è. Nel 1611 abbiamo la terza edizione, non aumentata ma con varianti. E nel 1623 l’Amleto compare nel famoso folio a cura
di Ben Jonson, in un testo nuovo ed armonico che contiene molti passi che non si trovano nei precedenti quartos e manca di parecchi altri che erano presenti in quelli. Testo quindi indipendente dalle edizioni precedenti e derivato probabilmente da un altro manoscritto. Il testo che noi leggiamo nelle edizioni moderne è quello del folio con in più i numerosi passi di alto interesse psicologico che si trovano nei quartos e che erano
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stati omessi da Ben Jonson. (Valga per tutti il «To be or not to be».)
E qui terminerà quel che scrivo su Arz/eto. A titolo di curiosità desidero aggiungere che, dopo minuziose indagini sulla «durata» della tragedia, si è venuti alla conclusione che essa si svolge da marzo a giugno, in circa quattro mesi. E che sulla scena vengono rappresentate sette od otto giornate. Ancora. L’Arz/eto è il solo dramma di Shakespeare che sia stato ininterrottamente rappresentato dal 1602 ad oggi. Sia pure nel Settecento con orribili modifiche. Nel 1607 abbiamo notizia di una rappresentazione di Amleto a bordo di una nave inglese (il Dragone) al largo della Sierra Leone, nell'Africa occidentale. Nel 1931 lho visto rappresentare al St James a Londra, protagonista Hardwick, in costume moderno. Il fantasma del Re
con elmetto moderno e maschera antigas appesa al collo; tutti fumavano, le coppe avvelenate dell’ultimo atto erano dei bicchieri da cocktail con i loro mestoletti di vetro, il Re pregava in pigiama e Amleto era alternativamente in uniforme kaki, in frack e in costume sportivo. L’effetto drammatico permaneva intero, anzi nelle scene minori era accresciuto e non si avvertiva la mini-
ma discrepanza fra il linguaggio e il costume. Una tradizione molto antica e che dispone di autorevoli garanti vuole che Le gaze comzari sia stata scritta in
due settimane da Shakespeare su ordinazione della Regina Elisabetta «che desiderava vedere Falstaff innamorato».
Se è così, Elisabetta fu disubbidita. Nelle Gaie comzari
vi è un personaggio che si chiama Sir John del nostro indimenticabile amico ha, oltre l’età, la pancia e i seguaci, ma che col vero ha proprio nulla in comune. Chi può figurarsi Falstaff (il vero) preso
Falstaff, che che il nome, Falstaff non in giro da tre
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pettegole, umiliato, beffato e calato in Tamigi insieme ai panni sudici? A parte il fatto che ciascuna delle tre signore, se avesse avuto dinanzi il vero Falstaff, sarebbe immediatamente divenuta pazza di lui, come lo siamo tutti noi. Confesso che di tutti i personaggi quello che mi dà meno piacere è Falstaff: è troppo sciocco, troppo ingenuo, troppo poco Falstaff. Il poeta lo aveva fatto morire tanto bene, proprio fra le braccia di quella Mrs Quickly che adesso deve prenderlo in giro, che non si è fidato di creare un gemello rassomigliante. Invece gli altri personaggi sono tutti simpaticissimi. La commedia è la sola fra quelle di Shakespeare che si svolga «ufficialmente» in Inghilterra; essa è piena infatti di allusioni locali; è la prima opera letteraria inglese che ci dia quel senso di «stampa» che nel Settecento e Ottocento diventerà tanto frequente e caro. Vi sono i tre signori (Shallow, Slender e Page) che vanno a zonzo per le strade di Windsor, parlando, si capisce, di cani («The fallow greyhound who was outrun on Cotsall»); vi si parla di una festa in una fattoria; si offrono (che cosa
d’altro poteva offrirsi?) «dei pasticci di caccia caldi»; e Mrs Ford e Mrs Page hanno sul volto quelle «rughe che sembrano più l’effetto dell’allegria che degli anni» che ancora adesso si vedono su tante facce inglesi. Il giovane Slender, il più incompetente degli innamorati, è figura comica trattata con tale delicato umorismo da renderlo uguale alle più famose. Si direbbe quasi che abbia voluto anticipare una parodia di Otello, o meglio delle sontuose vanterie di Otello per sedurre Desdemona. Anche Slender si vanta e gonfia il petto striminzito e desidera far rabbrividire la sua Anna raccontandole che più volte ha visto «Sackerson sciolto» (Sackerson era un famoso orso ammaestrato). E il suo magico «mumbudget»; e il suo pietoso ricredersi! Boito componendo il suo libretto deve essersi accorto
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della vuotaggine del personaggio di Falstaff, ed ha cercato di rimpolparlo interpolando frasi e motti tirati dal vero Falstaff; senza risultato. Nell'opera come nella commedia il grande effetto di poesia è dato dal «fiabesco» del finale. Ben altro materiale ci viene offerto da Trozlo e Cressida. Troilo è l’ultimo personaggio che incarna, in parte, l’autore. Dopo di lui non incontreremo più uno Shakespeare travestito. Il poeta non ha più bisogno di far esprimere il suo tormento da una data figura, ma investe di esso tutto il dramma, foggia il mondo intero a immagine del suo dolore; la vicenda è diventata Shakespeare e i miseri personaggi esprimono ciascuno una nota sepa-
rata del suo canto. Nel Troilo e Cressida il dramma personale di Shakespeare è scoppiato e vien denunciato in pieno. Il mondo è stato avvelenato. Ma la motte non è ancora venuta. Per ora il mondo è allo stadio del vomito, della diarrea e degli
ululati. Il mondo è brutto e sudicio. E tanto più brutto e sudicio in quanto il dolore deforma una testa di eroe, il vomito macchia un manto regale. Son tutti dei porci, i vicini e i lontani, Mary Fitton e Cressida, il conte e Achille.
E anche Troilo è un mascalzone che cerca di destreggiarsi fra tutti questi fanfaroni, maneggioni, ruffiani e sgualdrine. Cacciarli via bisognerebbe, ma egli non osa, egli teme, egli viene a compromessi (vedi Sonetti). Raramente un autore si è guardato tanto freddamente e specchiato in così scarsa indulgenza. Ma verrà il momento in cui questo ignobile mondo sarà schiaffeggiato e vinto: verranno i tuoni di Timzone; verranno i meno fragorosi ma più cocenti disdegni di Misura per misura; verrà il distacco sdegnoso di Prospero.
Il mondo ha trattato male Guglielmo Shakespeare. Ma egli lo ha prima deriso (Troilo); poi disprezzato (Misura per misura); poi ancora fulminato (Tirzone); ed
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infine, suprema vendetta perché la migliore, perdonato (Tempesta). (E tralasciamo i più noti Lear, Macbeth e Otello.) Finito questo sfogo personale non c’è quasi altro da dire su questa opera di un ardimento supremo (tale ardimento ha fatto sì che dal 1733 non è stata più rappre| sentata in Inghilterra) dove i caratteri immersi nel fango quasi più non si distinguono l’uno dall’altro. Non una bella opera, ma forse di più. Si ha l'impressione che quando il Trozlo e Cressida venne scritto la materia dolente era ancora in ebollizione; e mancò la serenità dell’artista, che ritornò in pieno
dopo, nel Misura per misura, Re Lear, Macbeth e Otello. . E lo stesso dicasi per Tirzone diAtene. Nessuno ha mai composto una dignitosa elegia in esametri sul momento in cui gli vengono pestati i calli scendendo dall’autobus. Trascinatosi a casa e calzate le pantofole potrà sgorgare l’alto lamento «De conculcato callo». Sull’istante non vi furono che rimbrotti, gemiti e
moccoli. Questi sono echeggiati da Troilo e da Timone. Ma sono i moccoli di Shakespeare. E val la pena di ascoltarli. Tutto è bene quel che finisce bene non mi era mai piaciuta. Ma quando Shaw fece sapere che questa era la sola opera di Shakespeare che lo soddisfaceva completamente, la mia ostilità si confermò. Non per disprezzo
per l'ingegno di Shaw che io ammiro assai; non per suspicione verso il gusto di lui, perché egli è stato talvolta (Giovanna d'Arco, Cesare e Cleopatra) ottimo poeta, ma per diffidenza verso la sua ideologia. Egli vedeva in Elena il «più antico esemplare letterario della donna professionista», «una delle riprove che è sempre la femmina a scegliersi il suo maschio e non, come si crede, il con-
trario», ecc. con sciocchezze di questo calibro. Sciocchezze, del resto, coerenti e che egli stesso ha poi messo
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in opera, non riuscendovi (per la prima affermazione) nella Giovanna d'Arco nella quale voleva mostrare la più antica donna pratica e matter of fact ma che gli guizzò dalle mani e si concretò in quel capolavoro che è; per la seconda affermazione riuscendovi (per sua sfortuna) in quell’ingegnosissimo polpettone che è Uozzo e superuomo (anche questo un Don Giovanni) colmo d’idee brillanti e di saporosi sbadigli. Mi dicevo dunque che un’opera che può dar la stura a tali marchiane stoltezze dev'essere un’opera inferiore; e che quindi avevo ragione. Opera inferiore lo è. Priva di ogni lirismo; noiosa; zeppa di personaggi repellenti (ove se ne eccettui la gra-
ziosa vecchia Contessa). Me la leggo una volta all'anno, in Quaresima. La sola cosa che può sorprendere in essa è il fatto che si trovi piazzata fra Troilo e Cressida e Misura per misura. Ma è vero pure che se siamo poco informati sulle date di pubblicazione e di recita delle opere di Shakespeare non sappiamo rulla sulla vera data della loro composizione. E questa penitenziale commedia mi ha tutta l’aria di essere stata a lungo in un cassetto dell’autore che la ha poi tirata fuori a quella data per sovvenire a qualche bisogno dei suoi poveri guitti o perché aveva bisogno di soldi da imprestare a buon interesse. Ma si vede che son di cattivo umore. Dunque, basta. Misura per misura
Come dice Shakespeare nel sonetto 144; e come riafferma Joséphine Baker nella nota canzone, ognuno di noi «ha due amori». E tutti e due sinceri. Uno ufficiale, sacramentato, coniugale, legittimo, confessabile e conformista. L’altro segreto, peccaminoso, adulterino, illegittimo,
clandestino e scandaloso. Così Luigi XV aveva per aman-
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te la bella, intellettuale ed elegante Pompadour (veramente non era legittima, ma era certamente ufficiale); ma
amava anche le giovani pidocchiosette che gli portavano al Parc aux Cerfs; altri hanno un harem pubblico le cui favorite si chiamano Barték, Brahms, Mozart e Wagner; ma anche si sdilinquiscono sotto le carezze della Vedova Allegra; Chateaubriand ammirava Béranger; e Baudelaire leggeva di nascosto Paul de Kock. E tutti quanti sono
nel loro diritto. Io pure sono di quella illustre schiera. La mia moglie (intellettuale) si chiama Amleto; le mie amanti, che mantengo pubblicamente a suon di pellicce di visone, fuoriserie e rubini di Bulgari, sono Cordelia, Desdemona,
Lady Macbeth e Sir John. | Mainunappartamentino della periferia ho una man| tenutina, una sartina, della quale tutti dicono che è brut-
ta, che si contenta di una giardinetta, di un lapin e di uno zircone. E quando sono con lei Amleto mi sembra inconcludente, Cordelia un po’ freddina, Desdemona oltremodo oca, Lady Macbeth un po’ troppo lesta di mano e Sir John, via! un po’ troppo panciuto. Il mio amore sotterraneo è Misura per misura. E se mi dicessero che tutte le opere di Shakespeare debbono perire tranne una che debbo scegliere io, prima tenterei di uccidere il mostro che me ne facesse la proposta; poi, se non vi riuscissi, tenterei di suicidarmi;
e se nemmeno a questo potessi arrivare, ebbene, dopo tutto, sceglierei Misura per misura. Grande poema indefinibile, grande opera di teatro inclassificabile, questa che è troppo tragica per essere commedia, troppo ironica per essere tragedia, nella qua-
le i versi più commoventi si alternano alla più aspra e «maledetta» prosa, questa opera porta, come la Pietà Rondanini alla quale rassomiglia, nella sua goffaggine e scabrosità, il segno più accecante del genio più trascendentale.
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Anzitutto nell'argomento. In questa fantastica Vienna che così stranamente rassomiglia alla Vienna del Terzo uomo (perché stranamente, del resto? Graham Greene è ben uomo da comprendere l’atmosfera di Misura per misura), si svolgono, sotto l’egida della più rigorosa moralità, i fatti più abominevoli. L’onore delle fanciulle e le teste degli innocenti e dei colpevoli si barattano come alla Borsa le azioni industriali. I ruffiani, gli smidollati e le prossenete espongono le loro ragioni con le più auree e commoventi parole. I tutori della morale pubblica (dignitosissimi sempre, si capisce) si tuffano nella corruzione, ne approfittano e la accrescono; i «giovanotti di belle speranze» si trascinano ai piedi delle loro sorelle, monache, implorandole di prostituirsi per aver salva la vita. Nelle prigioni l'esempio di dignità è dato da un condannato a morte che per altro non è un bruto ma che può dar lezioni alle persone per bene. E lontano, fuori dal cupo carcere che è tutta la città, in un giardino di sobborgo, un ragazzo canta all’alba la più bella canzone che esista, una canzone anch'essa di amore tradito. Ma il lettore sa che tutto si aggiusterà; sa che il virtuoso Duca fa soltanto finta di essere assente, e che al quinto atto ritornerà per mettere tutto a posto, secondo la morale e la giustizia. «Misura per misura.» E il vecchio Duca ritorna, infatti. E sanziona tutto il male che si è fatto; anzi lo legittima; anzi lo esalta. Premia i colpevoli, rimprovera i giusti. E cala la tela. «Misura per misura.»
Epigrafe alla commedia potrebbe essere l’italianissimo (come direbbe Mussolini) e mai abbastanza apprezzato motto: «Andate a farvi benedire».
E dopo nell’atmosfera. Le città di Shakespeare sono sempre aperte e cordiali. La Verona di Rorzeo e Giulietta, la Windsor delle Gaze comzari, la Messina di Molto ru-
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more, financo la Troia di Troilo sono aperte, soleggiate e accoglienti, per lo meno come edilizia. Non vi è che il castello di Elsinore, finora, che sia un incubo. Ma in Misura per misura il Male ha corrotto anche la pietra. Non so cosa sia che me lo faccia pensare, ma io vedo questa Vienna come per metà demolita, con le mura rose da una lebbra (gli accenni vi sono, ma quasi impercettibili); la gente erra per le strade come nei tempi di grandi calamità. Sembra un quadro di Monsù Desiderio. E questa sensazione la avevo venticinque anni prima che esistesse
il Terzo uomo. Città spettrale, composta di postriboli, prigioni e soffitte dove piangono donne abbandonate. Una voce, una sola, di speranza. Nella prigione uno dice: «Guarda, sorge la stella del mattino». Ma subito dopo la didascalia indica per toglierti l’illusione: «Ricominciano la pioggia ed i tuoni». E poi, i personaggi. Angelo, il freddo, implacabile ipocrita. La bestia di lussuria ammantata nella toga del magistrato. Un personaggio a paragone del quale il Tartuffe sembra fatto di pasta di mandorla. Ricompensato. Claudio, il vigliacchetto lussurioso, che comprerebbe volentieri la propria spregevole vita con il corpo della sorella prima, con la testa di un altro poi. Perdonato. Pompeo. Il ruffianello, vecchio, non convalescente di
non squisiti mali, linguacciuto, strisciante e vile. Assolto. Lucio, il vecchio scapestrato, chiacchierone, maldicente, inutile e vile anche lui. Assolto.
La signora Overdone, la prosseneta sfrontata, intrigante, sempre pronta ad arraffare e, ben s'intende, vile. Bernardino, il carcerato, abbrutito, non privo di un suo bestiale coraggio, riassunto in un verso supremo
«insensible of mortality, and desperately mortal». Perde la testa. Marianna, la ragazza sedotta e abbandonata, che rimpiange l’amante non per lui ma per la «posizione perduta», una prostituta mancata. Ricompensata.
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Giulietta, altra ragazza che si conduce male per stupidaggine, incinta, pronta al panico, fiacca e tendenzialmente traditrice. Ricompensata. Isabella, la pura, la virginea, la vittima. Lo stile. Tutti questi personaggi, la più parte sprege-
voli, si esprimono con la più felice eloquenza che mai abbia suonato su bocche umane. E tutti sembrano aver ragione.
La poesia della pura Isabella brilla come una torcia nel carcere: le espressioni più umane, più alte, più commoventi si effondono invano dinanzi ad Angelo che vuole il suo corpo, dinanzi a Claudio, il fratello, che, co-
sti quel che costi, vuol salvare la propria testa. Ma anche Claudio, il gaglioffo, esprime le proprie ragioni, evoca l’orrore della morte con le note più commoventi, con lo smalto più raro d'immagini, con i ritmi più desolati. E Angelo, l’ipocrita, scandisce le sue necessità, giustifica la propria nefandezza con gli argomenti più sottili, di una capziosità inconfutabile e splendente. E Pompeo, il ruffiano, rimproverato per la turpitudine del proprio mestiere, trova immediatamente, con
umiltà, con semplicità, la sola giustificazione completa: «Cosa volete, signore? Sono un pover’'uomo che deve vivere». E tutti, Lucio, le altre donne, i passanti, il Duca, Esca-
lus, attingono a piene mani nella cassetta di gemme del vocabolario di Shakespeare. Qualunque cosa gli abbiano fatto i suoi guai non gli hanno certamente impoverito il linguaggio. È ad un ignoto carceriere che Shakespeare ha la generosità di affidare uno dei suoi dieci o venti versi maggiori, il già citato «Insensible of mortality, and desperately mortal». Questo splendore verbale avvolge come un velluto prezioso il sarcofago dove giace il nostro mondo, morto.
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I critici, quasi tutti, pur convenendo nell’ammirare l’ineguagliato splendore stilistico, biasimano Misura per misura perché è «pessimista» (bisogna essere ottimisti per forza), trovano «assurdo e immorale» il finale. E classificano la commedia fra quelle di second’ordine ed ostentano una irritata sorpresa nel trovarla contemporanea alle opere maggiori. Swinburne, che era un vero poeta, dice a questo proposito che essi sono «degli asini mostruosi in quanto asi-
ni privi di orecchio». Il che mi sembra definitivo. Misura per misura, allo stesso modo che segna uno dei culmini più alti dell’arte di Shakespeare, segna indubbiamente anche il punto più basso della sua depressione psicologica. Egli stava peggio quando scriveva Misura per misura che quando componeva Re Lear o Macbeth 0 Timone. Perché in queste ultime tragedie ha ritrovato la forza d’irritarsi e d’inveire. In Misura per misura è talmente accasciato che tutto gli sembra naturale. Ha toccato il fondo. Guglielmo, re de’ poeti da l'ardua fronte serena.
È un verso di Carducci. E la sua Mille e Unesima fesseria.
Adesso ci troviamo dinanzi alla più compatta catena montuosa di opere shakespeariane. Così come son sette le meraviglie del mondo (e sette i peccati mortali) così son sette (a mio parere) le vette assolutamente supreme raggiunte da Shakespeare: Enrico IV, Amleto, Misura per misura, Otello, Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra. Però, mentre fra l’Enrico IV e Arzleto, fra questo e Mt-
sura per misura si trovano dei passi, dei pianerottoli rocciosi ove ci è concesso fermarci per riprendere fiato, fra le quattro ultime non ci è concesso un attimo di sosta. Differenti quanto è possibile fra se stesse, ambientato
l’Otello in un’epoca quasi contemporanea al poeta con
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soltanto quell’allontanamento nello spazio che equivale a un distanziamento nel tempo, del quale parlerà poi con tanta chiarezza Racine nella prefazione al suo Bazazet; posto il Lear in una antichità favolosa e imprecisa
che equivale ad una specie di atemporalità; costruito il Macbeth sul modello delle grandi storie, però con nomi di luoghi e di genti estranei al pubblico di Londra; Antonio e Cleopatra viene invece situato in un’epoca precisa
e ben nota che vi si rispecchia con la chiarezza e il colorito di un affresco tiepolesco. E differenti fra loro anche per il dinamismo tragico che è l’anima di ciascuna di esse: nell’Ote/lo la tragedia nasce dal crollo dell'anima che si vede (o crede vedere) sottratta la base sulla quale posava il proprio orgoglio; nel Re Lear è l’ingratitudine che spinge il vecchio alla follia, nel Macbeth è l'ambizione che vuol continuamente sorpassare se stessa; nell’Anzonzo e Cleopatra è la voluttà che irretisce, butta giù e uccide un uomo che stava
per possedere tutto il mondo. Mal rigore di queste varianti, non è difficile scorgere il tema comune a tutte e quattro: la storia di un uomo rovinato dalla donna. In queste formidabili tragedie misogine la donna è svalorizzata in tutti i suoi aspetti, ne è mostrata la pericolosità insita in lei in tutte e tre le sue attribuzioni principali: in quella di moglie, in quella di figlia, in quella di amante. In un dramma successivo, mi-
nore, ne sarà mostrata la pericolosità anche nella parte di madre. Misoginia, ben s’intende, sempre quale poteva esser concepita da un temperamento di grandissimo artista, che, nell’infuriare del risentimento e della passione delusa, non perde tuttavia la chiarezza dello sguardo. E così abbiamo in queste opere misogine delle tenere figure di donna (Desdemona, Cordelia, e Virgilia) e una Cleopatra per la quale «il mondo è ben perduto». Ma il fondo rimane anti-donna. Mary Fitton aveva lavorato bene.
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L’Otello (che è la minore delle quattro tragedie, se vogliamo proprio lasciarci andare a questo meschino gioco di soppesare in grammi il peso dei dinosauri) ha avuto la sventura di essere il luogo geometrico di due malintesi, due malintesi che per gli italiani diventano tre. Il primo è che si è trovato affetto da una luce razziale derivata dalla cattiva traduzione inglese delle novelle italiane dalle quali Shakespeare lo ha tratto. Il Moro di Venezia, per Cinzio, non è affatto un moro ma un signor Moro, cognome comunissimo (con Moroni e Moretti) nel Bergamasco. I camionisti della Lombardia, del Veneto e del Piemonte berciano ancor oggi «Ciao, bella mora» a qualsiasi ragazzotta non-bionda che capiti loro fra i piedi. E se l’ignoto traduttore inglese avesse assistito a uno di questi incontri sulle autostrade, il dramma sarebbe risultato assai più patetico e la figura di Desdemona meno stravagante. Ma contro questo non c’è niente da fare: Shakespeare ha bevuto a fondo la frottola libraria e fin dalle prime battute (precisamente dal verso 66 nella prima scena del primo atto) Otello è già additato come «negro dalle labbra turgide». Il secondo malinteso è più grave. I critici letterari non sono quasi mai stati ufficiali, e gli ufficiali (di carriera)
non sono assolutamente mai critici letterari. Cosicché nessuno si è accorto che Jago è (si capisce) un cattivissimo tipo, ma non il Satana, l'essere che ama il male per il male, ecc. ecc. Egli è semplicemente un ufficiale che è
stato scavalcato nella promozione, e a qual punto può portarsi l’acredine e l’invidia di un individuo posto in questa congiuntura può facilmente essere appreso in un
quarto d’ora passato a una mensa di battaglione dopo che è arrivata la «Gazzetta Ufficiale» che reca stampata l’infausta notizia. In Otello come in qualsiasi altra opera di Shakespeare non vi è nessun personaggio-simbolo: vi
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sono un certo numero di uomini e di donne che soffrono, si dibattono e muoiono, come tutti noi.
Il terzo malinteso è, come ho detto, più specificamente italiano ed è un aggravamento del secondo. Per novantanove italiani su cento Otello è il nome che, durante tre
ore, un tenore porta sulla scena. E il nome del Moro vien ricongiunto a quello di Tamagno o di Marconi (non Guglielmo) infinitamente più spesso che a quello di Shakespeare. Quindi è al libretto di Boito che occorre rivolgersi per conoscere l’opinione della media-alta degli italiani. Questo libretto ha una tenuta letteraria assai migliore di quasi tutti gli altri di Verdi. Va da sé. Ciò non toglie che esso sia fondamentalmente sbagliato, che esso muti-
li gravemente prima e deformi poi tutto il dramma. Lo mutila di tutto il primo atto nel quale Shakespeare (che era un signore più acuto che Boito) prepara tutte le condizioni che dovranno far sbocciar la tragedia: lo mutila delle indispensabili scene di invidia di Jago, lo mutila soprattutto dell’avvertimento di Brabanzio a Otello che avrà tanta parte nelle furie di questo: «Ingannò il padre e ti potrà ingannare». Invece Boito, questa quintessenza di romanticismo, è
stato ben lieto di abbandonarsi a capofitto alla ipotesi del Jago-Satana; egli era sempre l’uomo che in gioventù aveva cantato (diciamo così per dire) il Mago Troll che «sulla ventraia tien la mannaia» ed a tutti i pubblici italiani ha voluto ripetere il famoso verso «bimbi cacciatevi sotto il lenzuol ché viene Troll». E poiché nel testo shakespeariano non trovava niente che potesse giustificare questa sua apocalittica veduta del carattere di Jago, si è messo a farlo lui questo Satana, ed ha confezionato il famosissimo «Credo» che è quanto di meno shakespeariano, di meno jaghiano — e di meno umano — un romantico ritardatario di cinquanta anni potesse immaginare. E adesso, tale è la forza esercitata dal melodramma sui precordi italici, anche lo Shakespeare da noi è rap-
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presentato privo del suo primo atto, e gli attori drammatici, non potendo spifferare il «Credo in un dio crudel» alle platee che lo attendono, cercano di dar delle equivalenze mediante ghigni satanici e truccature da «ba-bau»; e quando ho assistito all’Ote//o firmato da Orson Welles sentivo dietro di me delle signore deplorare che il regista avesse aggiunto di suo tutto il principio del film, le scene appunto veneziane. L’opera Otello ha ucciso per gli italiani la tragedia Otello. Il fatto è che Jago non è altro che un mediocre malfattore, ne troviamo a decine in tutte le amministrazioni statali, parastatali e private, intenti a scrivere lettere ano-
nime ai superiori che non li han fatti promuovere. Tanto meschina è la sua malvagità che egli non prevede (né ha l'intenzione) di far scorrere sangue e di provocare quel grande guaio che sappiamo. Egli (e lo dice) voleva semplicemente untune, cioè togliere l'armonia esistente fra
Otello e Desdemona. Si deve soltanto al temperamento di Otello, alla sua estrema facilità allo squilibrio se la tragedia scoppia. Il personaggio tragico è Otello; Jago è la spregevole miccia che fa deflagrare la mina. Otello è (ad occhio e croce) la sola tragedia di Shakespeare che non contenga un ruolo comico. E perché questo? Perché la parte comica è affidata al «Satana». Così poco Shakespeare aveva paura di Jago che non esitò ad affiancargli numerosissime battute di humour. In modo che volendo fare una lista di personaggi allegri, mordaci, spiritosi di Shakespeare sarebbe ingiusto di trascurare Jago che per una buona metà di ciò che dice si apparenta a Benedick. Humour però, ed è inutile dirlo, saturnino, amaro e terra terra. Sarebbe troppo lungo (e del resto, superfluo) ricordare gl’innumerevoli tratti di alta poesia; ma avrei rimorso
di non additare tutto il quinto atto, denso di presagi e positivamente «sgradevole» da ascoltare se ben rappre-
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sentato. E la morte di Otello che sarebbe la più grandiosa scena funebre di Shakespeare se non vi fosse il precedente della morte di Amleto, e se qualche mese dopo egli non avesse concepito la morte voluttuosa e beffarda di Cleopatra-Fitton. Non ho mai inteso dire che l’Ote/lo sia stato rappresentato in costumi moderni. Eppure sarebbe l’opera di Shakespeare che più si presterebbe ad una regia del genere. Ne guadagnerebbe, anzi. Sarebbe palesemente changée en elle-méme, mostrata come il sordido intrigo
di guarnigione coloniale che essa è. Re Lear
Sfuggita per un capello alla manomissione di Arrigo Boito, Re Lear si presenta anche a noi italiani in tutta la
purità della sua bellezza. Questa tragedia cosmica passa su chi la legge (non su chi l’ascolta) come il galoppo dei Quattro Cavalieri. La furia è stata tale che si direbbe che nulla più potrebbe rifiorire. Le nostre ultime speranze erano riposte in Cordelia. Essa era diventata potente, pensate un po’: Cordelia Regina! Ma neanche i figli d’oro bastano a salvare la bontà. Essa è pure perita. E Shakespeare che troverà poi degli accenti così alti per cantare un’altra morte, dinanzi a questa rimane muto e saranno i balbettii incomposti di un vecchio pazzo a tesserne l’elogio. Ritroviamo il nichilismo morale assoluto che già ci ha trafitto in Mzsura per misura. La tecnica dell’«intreccio-satellite» è stata qui adoperata con consumata maestria. E qui, ben più che in Arxleto, esso serve a lumeggiare la disperazione del poeta. «Badate» egli sembra dirci, «questi atroci casi d’ingratitudine non sono eccezione; sono quasi la regola: eccone un altro dopo quello di Gonerilla.» È il metodo dei rin-
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tocchi, dei colpi di martello che ribadiscono i chiodi sul feretro; quello che abbiamo già visto in nuce nel sonetto 149,
A ripensarci, però, il pessimismo qui è meno assoluto che in Misura per misura. Cordelia muore ma almeno non è disonorata come Isabella. E tutti i personaggi, anche i peggiori, Edmondo e Gonerilla, hanno un loro supremo coraggio ben lontano dall’ignobile «doppio-giochismo» che dominava Vienna. Edmondo muore addirittura bene; dicendo una di
quelle frasi che Shakespeare andava a trovare in cielo quando ci si metteva sul serio: «Yet Edmound was beloved». Pare che Shakespeare si sia finalmente accorto che due cose possono sempre salvarci: la morte o la forza d’animo. Più che Lear, in fondo antipatico fino al momento in cui le sventure lo redimono, più che il tenerissimo Buffone, più che il servizievole Kent, la tempesta, la vera
tempesta dei cicli, è la grande protagonista di questa apocalisse in forma di dramma. Essa rugge durante due atti, rugge per l'eternità. Mi rincrescerebbe terminare queste miserabili annotazioni senza citare i grandi versi di Yeats su King Lear: The years like great black oxen tread the world, And God the herdsman goads them on behind,
And Iam broken by their passing feet.
La storia scenica di Lear è povera. Pochi attori si sono arrischiati di impersonare questo personaggio michelangiolesco. E nessuno pare vi sia pienamente riuscito. Macbeth Introduzione digressiva che si può anche saltare
Ho pensato che anche il Macbeth è stato adattato a melodramma. Per fortuna con minor successo dell’Ote/-
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lo in modo che il dramma vero non ne è rimasto macchiato. Ma questo pensiero ha fatto ribollire in me il fiele ammassato contro il melodramma; vedo che ce n'è molto ancora; le qualche righe che vi ho dedicato a proposito dell’Ote/lo hanno scaricato la milza in minima parte. Debbo farlo adesso se no non dormirò bene. Non m’intendo di musica. Mi si dice che tra le opere italiane dell’Ottocento vi siano dei capolavori relativi. Sarà, lo credo, lo sottoscrivo a priori. Voglio considera-
re il melodramma in Italia soltanto come fenomeno culturale, anzi per essere più precisi come fenomeno educativo.
Da questo punto di vista a me sembra che la fioritura, lo straordinario favore che il melodramma ha trovato in Italia, la singolare continuità di questo favore, siano uno
dei più sinistri fenomeni che si possano riscontrare nella storia di ogni cultura. L’infezione cominciò subito dopo le guerre napoleoniche. E crebbe con passi da gigante. Per più di cento anni in tutte le grandi città durante otto mesi dell’anno, nelle città minori durante quattro mesi, nei piccoli centri durante due o tre settimane, migliaia, decine di mi-
gliaia, centinaia di migliaia d’italiani andarono all’Opera. E videro tiranni uccisi, amanti suicidi, buffoni magnanimi, monache pluripare e ogni sorta di castronerie scodellate dinanzi alla loro faccia, in un turbinio di
stivali di cartone, polli arrosto di gesso, prime donne col viso affumicato e diavoli che schizzavano fuori dal pavimento facendo sberleffi. Tutto questo sintetizzato, senza
passaggi psicologici, senza sviluppi, tutto nudo, crudo, brutale e irrefutabile. E questa insondabile asineria non passava per divertimento volgare, per scusabile distrazione di sfaccendati
analfabeti: era gabellata per Arte, per Vera Arte, e, orrore! talvolta lo era davvero. Il cancro assorbì in sé tutte le energie artistiche della nazione: la musica era l'Opera; il
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dramma era l’Opera, la pittura era l'Opera. E le altre musiche, la sinfonica, quella da camera, intristirono e morirono; l’Italia durante l’Ottocento ne è priva del tut-
to; il dramma, che non poteva, con i suoi lenti sviluppi, resistere alle ondate dei do di petto, morì anch'esso; i
pittori trascuravano le nobili tele per buttarsi a capofitto a disegnare le prigioni del Dor Carlos o i boschi sacri della Norrza. Quando dopo il 1910 la mania dell'Opera si affievolì,
la vita intellettuale italiana era come un campo nel quale cento anni di seguito fossero passate le cavallette. Gli italiani si erano abituati a citare come verità biblica i versi di Francesco-Maria Piave e di Cammarano; a ritenere Enrico Caruso o Adelina Patti il fiore della razza; a cre-
dere che la guerra erano i cori della Norzza. L'influenza di questi pensieri sul carattere nazionale è sotto i nostri occhi. L’arte doveva esser facile, la musica cantabile, il dramma era composto di colpi di spada conditi da trilli. Ciò che non era semplice, violento, alla portata egualmente del professore universitario e del netturbino non aveva diritto di cittadinanza. Ma vi era di peggio: saturi e gonfi di tanta strepitosa inettitudine, gli italiani credevano, sinceramente, di conoscere tutto: non andavano forse ogni sera che Dio faceva ad ascoltare Shakespeare, Schiller, Victor Hugo, Goethe? Il comm. Gattoni di Milano o il cav. Pantisi di Palermo erano convinti che la letteratura universale era stata rivelata loro, perché conoscevano i suddetti poeti avendoli sentiti sotto le note di Verdi o di Gounod. Questo fino all’avvento del Cinema. Tutto l’Ottocento, il secolo nel quale i famosi «lumi» si sono diffusi in Europa, in Italia è stato adoperato per ascoltare, freneticamente, insaziabilmente, il «teatro lirico». E adesso siamo la nazione meno interessata alle lette-
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re che esista al mondo, stufi (almeno pare) dell'Opera,
impreparati ad ascoltare altro. Mi sono quasi sfogato. Adesso continuiamo. Macbeth Shakespeare non è mai stato in Scozia, a quanto si
può sapere. Rimbaud non aveva mai visto il mare quando compose il Bazeau Ivre. E così come il Bazeau Ivre ci dà una delle più intense (e precise) sensazioni dell'Oceano, il Macbeth ci dà una portentosa rappresentazione paesistica della Scozia. Quest’affare della sensazione del «paesaggio» che viene talvolta comunicata da grandi scrittori ron descrittivi è uno dei problemi più affascinanti che si pongano al lettore appassionato. E meriterebbe da parte di qualcheduno una completa indagine. Che Chateaubriand ci faccia vedere le foreste che ai suoi tempi coprivano gli Stati Uniti oppure ci dia la sensazione netta della campagna romana, che Balzac ci faccia vivere nella pensione Vanquer, non sorprende. Essi si adoperavano a descrivere, impiegavano le parole come pennelli e colori. Ma che Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, che Verga nei Malavoglia, che Shakespeare in Misura per misura, nel Mercante di Venezia, in Antonio e Cleopatra, in questo Macbeth ci rendano il paesaggio senza aver scritto un rigo di descrizione è cosa che lascia interdetti. Le spiegazioni non possono essere che due: o una mia illusione, e allora è inutile continuare a parlarne; o che vi siano, spezzettatissimi, ridotti allo stato di polvere impalpabile gli accenni paesistici, ma collocati con tale maestria in relazione alla vicenda ed ‘al carattere dei personaggi da essere centuplicati in efficacia e da suscitare rel loro complesso l'impressione paesistica. Tolstoj, che neppur lui fu grande «descrittore» ma
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che anche lui suscita visioni incomparabili, diceva che la più bella e completa immagine della pianura russa in inverno poteva essere data da questa frase: «un ponte di legno su un fiumiciattolo gelato, attraversato da due stivali che camminano da soli». Questo può dare una idea vaga del metodo cui accennavo. Sia come sia, nel Macbeth (oltre a molte altre cose) il paesaggio scozzese è reso in pieno. Questo paesaggio si-
mile a Alpi), ri, con bracci
quello nostro di altissima montagna (intendo dire con le brughiere rosse e violacee, quasi senz’albegrandi dossi montani color ocra strapiombanti su di mare verdastri e schiumosi, queste città grigie,
basse, di ardesia e nebbia (bellissime) che, senza la transizione dei sobborghi, si mutano da un metro all’altro nella campagna più deserta, questa luce quasi perenne e mai scintillante in estate, che in inverno è quasi assente
ma mai del tutto, questo paesaggio spettrale, stregonesco, carico di malefizi, animato (per modo di dire) da
una popolazione quasi muta tanto parla basso, fra la quale, se si ha fortuna, s'incontrano le più belle ragazze d’Europa (occhi di smeraldo in volti di latte e di rosa),
questo inobliabile, affascinante paesaggio lo avevo conosciuto dal Macbeth e non mi arrecò nessuna sorpresa quando l’ho visto e vissuto. Tranne qualche «partenza» di Baudelaire e una sola di Milton, nulla, nella letteratura che io conosco, ha un
inizio più drammatico, più significativo del Macbeth. E non intendo parlare soltanto delle streghe (benché esse siano la più convincente introduzione del soprannaturale in un dramma che io conosca) ma anche dell’incontro del Re con il soldato ferito, del racconto impareggiabile della battaglia, interrotto da quei monconi di verso di così patetico effetto, con tutte le scene che seguono fino all’arrivo al castello di Macbeth. Con un solo colpo d’ala laquila si è levata nel suo cielo di nuvole e di tempesta.
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Il Macbeth mi sembra essere tecnicamente la più perfetta opera di Shakespeare. Ma questa tecnica è addirittura bruciata nel fuoco inesauribile delle immagini che hanno tale intensità da poter vivere da sole, anche strappate dal contesto. Le acqueforti insigni di Blake, che con il Macbeth-dramma non hanno nulla in comune ma che sono straordinarie concretizzazioni delle immagini di esso, ne sono una prova; ed un’altra è che Baudelaire
si ispirò ad una di esse, come fece altrove per delle opere di pittura, per una delle più sconvolgenti liriche. E questa «vena» fenomenale, che per durata ed omo-
geneità d’ispirazione non ha equivalente, nonché altrove, neppure in Shakespeare, si mantiene senza un intoppo sino alla fine, sino all’urlo di disperato coraggio del Re criminale. Non esiste successione di scene più dense di poesia, più compresse di significato. Basti pensare (oltre all’inizio impareggiabile) all’arrivo al castello di Macbeth, alla sovrumana scena del benvenuto di Lady Macbeth, alle scene dell’assassinio, a quelle della morte di Banquo e a quelle del banchetto, alle martellanti espressioni dell’indignazione generale, alla follia della Regina, alle veramente crudeli (per noi) espressioni di Macbeth per la morte di lei, alle scene finali per convincersi che, per quanto possibile sia all'uomo, qui è stata creata l’opera perfetta. E la lingua adoperata! La ricchezza, la varietà, la armonia e le dissonanze, le elevazioni più ardue commiste di termini più banali che acquistano per magia valore di gemme.
Antonio e Cleopatra Antonio e Cleopatra ci mostra uno Shakespeare in piena convalescenza morale. La misoginia rimane ma curiosamente atteggiata: si potrebbe riassumere in una
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formula paradossale: «la donna è un pericolo; ma è bene che sia così». Nel rifacimento seicentesco di Antonio e | Cleopatra, opera di notevole valore di Dryden, la tragedia era intitolata I/ yz0ndo ben perduto. Mi sembra che Dryden abbia qui espresso assai bene il senso recondito di Antonio e Cleopatra. Il mondo è perduto, non c'è rimedio; ma valeva la pena di perderlo. Pour faire la guerre au Roi, j'ai perdu les deux yeux; Mais pour un tel objet je l’eusse faite aux Dieux.
Anche La Rochefoucauld era di quest’opinione. Ad ogni modo è difficile immaginare cambiamento di tono più netto. Dopo le sonorità cupe, i cieli a lutto, l’atmosfera soffocante della Scozia medievale, abbiamo le parole smaltate d’oro, il sole perenne del Mediterraneo,
l’azione cosmopolita che abbraccia Europa, Africa ed Asia. Gli uomini sono ventinove, quasi tutti potenti, guer-
rieri, gente di polso; le donne sono quattro: la mite Ottavia, le due cameriste (deliziose poeticamente, inesistenti
nella dinamica tragica) e Cleopatra. Essa non è più giovanissima; è troppo bruna («the Dark Lady», «the woman coloured ill» dei Soretz); è di
piccola statura (è detto nettamente. Ricordate la Rosalinda «just as high as my heart» di Corze vi pare?); ma è tale il sex-appeal che si sprigiona da lei che tutti si debbono sottomettere, anche il vecchio Enobardo, così soldatescamente brontolone. Chi potrà resistere alla sua più che tenera civetteria? quando essa offre da baciare le sue braccia, «le mie più azzurre vene», chi si scosterà?
Antonio e Cleopatra richiede una messa in scena dinanzi alla quale arretrerebbero i registi di Hollywood se per impossibile fossero capaci di concepirla. Soltanto il Globe Theatre con il suo pubblico di pirati e di prostitute poté arrischiarsi; è vero che era il teatro degli Dei. Simile a un grande arazzo seicentesco, con le sue figu-
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re leggiadramente avvolte in vesti verde-veronese o morate, con i suoi guerrieri dall’elmo troppo grande e troppo piumato, con i suoi sfondi paesistici di mari in gentile corruccio e di isole boscose, tramato tutto dalla seta pura dei versi più voluttuosi che siano stati scritti (insieme a quelli dei Soretti), Antonio e Cleopatra sembra più una sontuosa cantata del Seicento che un’opera elisabettiana; rassomiglia di più a un epitalamio gongoresco che non al Macbeth suo predecessore immediato. D'altra parte gli Immortali non hanno data di nascita. Sembrerà forse ridicolo che io insista tanto sulle «partenze». A me sembrano il sintomo che più chiaramente denunzia il grado di temperatura di un poeta. Se il primo verso, 0 la prima scena, è tiepido, è raro (avviene
però) che la grande combustione si produca. E la prima scena di Antonio e Cleopatra che si inizia con i corrucciati e licenziosetti motteggi di Filo e che pochi versi dopo ci mostra Lei che fa il suo ingresso «sventagliata dagli Eunuchi» e che subito dopo entra nel fitto della schermaglia erotica e politica, e che esplode poi nei versi impareggiabili che le rivolge Antonio, mi sembra di eccezionale bellezza. E senza prender fiato è seguita dal dialogo squisito e pensoso dell’indovino con le cameriste, per sfociare in quel colloquio fra Antonio e Enobardo, con la sua maestrevole dosatura di ver-
so e di prosa, nel quale già l’irrevocabile condanna di Antonio diviene palese. E bisognerebbe continuare così per tutti e cinque gli atti. Certamente non vi è in Antonio e Cleopatra l’ineccepibile continuità d’ispirazione che troviamo nel Macbeth. Non ce ne lamentiamo: si può restar desti in notti di terrore e di odio; nelle notti d’amore più ardenti è concessa, fa parte dell'amore, qualche pausa di sonno. Finché essa muore, la più pericolosa, la più divina donna dopo Eva, come Eva amica dei serpenti; muore dopo aver chiamato Ottavio «ciuco scostumato» ed aver
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pronunziato sillabe incomprensibili e dolcissime sul profumo dei balsami, la dolcezza dell’aria. Ricordiamo adesso la grigia meschinità del finale di «vita» di Misura per misura; paragoniamolo allo splendore gemmeo di questa morte, motteggiatrice e voluttuosa. Il poeta è uscito dalla crisi; la sua morte lo ha salvato. Che Cleopatra sia un «ritratto» mi sembra cosa più evidente del sole. Chi poteva essere se non un’antica amante la persona che nell’ultimo epiteto a lei rivolto vien chiamata con familiarità poco regale «a lass unparalleled», «una figliola come non ce ne è una seconda»? Alla Mary Fitton, traditrice, adorata e perdonata Shakespeare ha elevato il più bel monumento che creatura umana abbia avuto, dopo che Michelangelo ebbe piantato quello di Giulio IL Timone di Atene
Questo Tirzone di Atene sembrerebbe smentire le linee precedenti circa l'avvenuta guarigione morale di Shakespeare. Esso passa per esser stato scritto poco dopo l’Antonio e Cleopatra e il suo contenuto, il suo stile indubbiamente evocano i più duri momenti della crisi. È stato già detto che non possiamo saper nulla di preciso sul momento nel quale furono scritte le varie opere di Shakespeare. Sappiamo talvolta, sappiamo anzi spesso, quando son state rappresentate, e ciò è molto differente. Per cercare d’indovinare quando un’opera è stata scritta e stabilire un limite 44 querz non ci rimane che la testimonianza interiore, cioè le allusioni a fatti o libri dei
quali conosciamo la data precisa, e la fattura dell’intreccio e del verso. Si suol attribuire la creazione di Tizzone ad un’epoca posteriore ad Antonio e Cleopatra basandosi sul fatto
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che molti aneddoti sulla vita del misantropo ateniese sono evidentemente estratti dal Plutarco tradotto da North dove essi sono inclusi, quali digressioni, nella Vita di Marco Antonio. Da ciò si vuol dedurre che, poiché Shakespeare ha certamente letto la Vita di Marco Antonio di Plutarco, ha anche dovuto leggere gli aneddoti timoniani e se ne è servito, dopo l’Antorio e Cleopatra,
per comporre Timone. Ma mi sembra che si potrebbe egualmente ragionare che, essendo indubbiamente le Vite di Plutarco comparse prima tanto dell’Anzonzo che del Tirzone, Shakespeare nel suo periodo nero sia stato attratto dalle furie di Timone, e dopo abbia compreso quanta maggiore poe-
sia vi fosse nella storia di Antonio. In quanto alla testimonianza della verseggiatura essa
ha certo grande valore quando si tratti di determinare l'appartenenza a un dato periodo di questa o quell’opera. Ma poiché qui si tratta in ogni caso di opere composte a
pochi mesi di distanza, voler ritrovare un progresso o un regresso mi sembra voler spaccare i capelli in quattro.
Del resto, anche se si volesse concedere la priorità di data ad Antonio e Cleopatra, Timone potrebbe essere soltanto il simbolo di una di quelle ricadute passeggere tanto comuni nelle depressioni nervose anche quando la carica emotiva che le ha causate è stata esaurita. Ad ogni modo, scritto prima o scritto dopo, il Tizzone rimane quel che è: un’opera mancata. Shakespeare ha dimenticato il volo d’aquila del Macbetb e quello di fenice di Antonio e Cleopatra. L'intreccio si trascina interminabile e smorto, il doppio intrigo (Timone da una parte, Alcibiade dall’altra) che fu così potentemente adoperato nell’Ayz/eto e nel Re Lear, qui mostra la corda e rende
inceppata l’azione drammatica. Detto questo, però, la denigrazione deve cessare. Nelle furie di Timone, in quel suo morboso tentativo di superare ogni volta l’imprecazione precedente, possiamo
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ascoltare il riverbero dei possenti tuoni di Re Lear e di Macbeth. Sembra uno di quei pasticci di caccia che i cuochi combinano con le parti meno elette dei fagiani, delle lepri e dei cinghiali. Se il cuoco sa il fatto suo c’è da leccarsi i baffi. E in questo caso il cinghiale è Macbeth, il fagiano Re Lear. E il cuoco è Shakespeare. Però la forma nella quale rinchiuse il pasticcio valeva poco. E ci è servito in tavola a pezzi e bocconi poco gradevoli da vedere. Ma se ci si arrischia a gustarli si ritrova l'aroma della bestia selvaggia e il profumo dei boschi. Coriolano
È una bella tragedia. Stranissima: il personaggio «pericoloso» per la individualità dell’eroe è qui la madre. Risalgono forse in Shakespeare, indebolito dall’età, dai guai e dal suo stesso genio, vecchi rancori contro la povera donna che, chissà, tanti anni prima aveva tentato di trattenerlo presso di sé, di vietargli la via della gloria e del dolore? A Carducci può esser lecito dire: «Meglio era sposar te, bionda Maria». A Shakespeare, evidentemente, no. È la tragedia dell’orgoglio. Dell’orgoglio smisurato, non orgoglio di politico o di guerriero, del vero orgoglio, quello dell’artista. È la tragedia del disprezzo verso gl’inferiori, verso la plebe cieca e malvagia, che Shakespeare ha sempre così cordialmente detestata. La donna che è ancora pericolosa nella parte di Volumnia è completamente soggiogata in quella di Virgilia, il «mio caro silenzio». Tutto questo è drammaticamente realizzato? No. Ha l’aria di un’opera affrettata, scritta contro voglia. Magnifiche esplosioni di alterigia si alternano a lunghi grigiori. Ma l’insieme è potente.
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Il vero Coriolano lo ha scritto Beethoven. Scambio di
piccoli servizi fra fratelli. Pericle
Opera indigesta, scritta in grandissima parte in collaborazione, farcita di stomachevoli orrori, Pericle è, alla
fine della produzione shakespeariana, il corrispettivo di Tito Andronico al principio. Con la differenza che qui vi sono alcune scene (poche) di primissimo ordine. Quelle del postribolo. Raramente Shakespeare ha scritto qualcosa di più possente e disperato. Mai ha fatto cosa altrettanto realistica. Ma non c'è proprio altro. Il teatro di Shakespeare Periodo finale Enrico VIII — Cimbelino — Racconto d’inverno — La Tempesta
Di queste quattro opere una, l’ultima, è di primo ordine; due, le centrali, sono molto buone; Errico VII non
aggiunge e non toglie nulla alla firma di Shakespeare. In tanta disparità di valore queste opere hanno però due tratti comuni a tutte: 1) una certa tinta autunnale, una
mellowness per dirla in inglese (parola che indica tutto ciò che ha acquistato valore col tempo, sia esso vino, intelligenza che gli anni hanno approfondita pur togliendole l’asprezza, colori di stoffe antiche cui il sole ha tolto il soverchio fulgore); 2) difetto che è consequenziale al pregio del n. 1: una certa insita debolezza, intesa non già come difetto di qualità artistiche, ma come manifestazione di una stanchezza di fronte alla.vita, un voler ripiegarsi su se stesso e farla finita. Il sole d’autunno è altrettanto splendente di quello estivo: ma scalda meno. Sull’Ezrico VIII si sono in ogni tempo elevati forti
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dubbi. Ne è stata interamente negata la paternità shakespeariana. Si è giunti, dopo secoli di controversia, ad un compromesso fortemente appoggiato: l’opera è di Shakespeare, ma con larghe e profonde contribuzioni di un altro grande artista: Fletcher. Il dramma si presta a rappresentazioni spettacolari, a cortei e messe in scena grandiose. È infatti, in Inghilterra, frequentemente rappresentato, e si può dire non vi è
stato grande attore inglese dal Seicento ad oggi che non abbia interpretato Enrico VIII o il cardinale Wolsey. E la illustre Mrs Siddons, che vive ancora per noi nel suo insigne ritratto, vi riportò un trionfo senza pari nella sto-
ria del teatro inglese, nella parte della Regina Caterina. Sembra che la sala, al termine della rappresentazione, apparisse semi-demolita, con le stoffe delle poltrone strappate, gli stucchi scrostati, le candele dei doppieri contorte. Pare si sia visto un certo Lord Dalbreith che in un palco mangiava una candela per trovare uno sfogo alla sua emozione. Isteria collettiva-che potrà meravigliare soltanto chi non ha visto una folla inglese in stato di entusiasmo. Comunque, ciò è estraneo all'argomento.
Malgrado le sue possibilità spettacolari, il dramma è uno dei più tristi di Shakespeare. Esso è costituito da una serie di crolli, da una serie di grandi personaggi che perdono il favore regale, e marciano, senza ira, verso la
morte. Enrico VIII vi appare in modo fortunatamente (ed eccezionalmente) aderente alla realtà storica: non cattivo come si dice, non crudele, niente affatto il Barbablù della tradizione: ma dotato di una sua noncurante forza, di un potere leonino, di una maestà ingenua e primaria. Il ri-
tratto di Holbein, negli occhi del quale sorge un accenno lievissimo ma importante di humour. Il più inglese dei Re, sempre in simpatia col suo popolo; ed ogni tanto in
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Letteratura inglese
Inghilterra capita di vedere la sua figura massiccia fra gente del popolo. Ne ricordo uno a Londra, un imponente carrettiere; e uno a Liverpool, un bitraio che cacciava
fuori dal suo spaccio un ubriaco, e che avevano entrambi la corporatura, le fedine rossicce, l’occhio glauco e la fredda maestà di questo, dopo tutto, simpatico sovrano. Tipo diverso il cardinale Wolsey; agitato, astuto, nervoso, dotato di alta intelligenza ma predestinato al patibolo dalla sua ambizione che non aveva esattamente valutato la dormiente possa del Re. E la Caterina d'Aragona, la infelice bigotta, colma della dignità e della boria spagnola che di già nell’Inghilterra enriciana appaiono fuori di moda, travolta senza conforto o speranza dalla ragion di stato incarnata nel biondo consorte. Ma io, si sa, posseggo un forte cattivo gusto. E a tutte le scene dignitose e politiche preferisco le due ultime del quinto atto; la penultima nella quale appare un portiere che cerca di trattenere la folla, e che impiega un linguaggio di un colore, di una sapiente oscenità, di una così gustosa arguzia che riporta alla memoria il nostro immortale Defunto. E l’ultima nella quale il Re appare, sornione e bonario, al battesimo di Elisabetta e dove Shakespeare mostra di aver compreso in pieno il carattere di Enrico VIII e le cause della devozione a lui del suo popolo: dove il Re parla un linguaggio di una leggerezza, di una semplicità, di una modernità, di uno spirito da far restare com-
punti pensando che lo Shakespeare pochi mesi prima, probabilmente, aveva usato le saette di Tyzzone e i colori veronesiani di Antonio e Cleopatra.
Si ha un bel cercare di spiegare, si finisce sempre col restar male. Prima di rileggere il Cimbelino vorrei ritornare su quanto ho annotato circa le ultime opere di Shakespeare.
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Vi sono altri caratteri comuni più specialmente a queste tre ultime commedie (anche Cibelino è in verità una commedia), Cimbelino, Racconto d'inverno, La Tempe-
sta. Sono tutte a lieto fine. Un lieto fine un po’ tirato peri capelli e che si spinge, nel Racconto d'inverno, fino a far risuscitare una morta. In ognuna di esse l’amore, spezzato al principio della commedia, risorge alla fine su un altro piano di maggiore nobiltà. In ognuna anche i fanciulli, le ragazze che erano scomparse si ritrovano tali e quali. Queste rassomiglianze hanno un senso? Sono volute e significative o sono semplicemente ispirate alle novelle dalle quali Shakespeare estraeva le sue opere come da una tonnellata di materiale inerte si estrae un milligrammo di radium? Altre rassomiglianze vi sono, esteticamente più im-
portanti: in ciascuna delle tre commedie è accentuato il senso del «fiabesco», in modo crescente sino a culmina-
re nella Terzpesta che è quasi esclusivamente fiaba. E ciascuna delle tre contiene molte effusioni liriche, intendo dire vere e proprie «canzoni», tutte super-insigni, dalla freschissima serenata del Cirzbelino ai canti villerecci e giocosi di Autolycus nel Racconto d'inverno, dal sublime (e disperato) canto funebre del Cirbelino alle radiose (e pur esse disperate) canzoni della Terzpesta. Se pensiamo alle altre mirabili canzoni dell’ultimo periodo, a quella di Misura per misura, a quella del salice nell’Oze/lo si direbbe quasi che Shakespeare si andasse sempre più orientando verso la lirica. Ma chi lo sa? E cosa avrà scritto e gettato nel fuoco il vecchio cigno ferito e vicino a morire? O forse sono in quella brutta tomba per merciaio arricchito che ci si è sempre rifiutati di aprire?
Cimbelino è tratta dalla nota novella di Boccaccio. Tratta sì, ma con notevoli e significative varianti. Ambrogiuolo (in Shakespeare Jachimo) viene da Boccaccio
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condannato a pene orrende. Shakespeare, fedele alla sua insultante misericordia, lo fa perdonare. Non solo, ma è anche curioso il vedere come Shakespeare conoscesse e ricordasse il supplizio di Ambrogiuolo perché, nella commedia che scrisse immediatamente dopo, il Racconto d'inverno, vi fa una chiara allusione in tono scherzoso.
Occorre confessare che Cizbelino non è una gran cosa; sarebbe addirittura una povera cosa se non la sollevassero le stupefacenti liriche delle quali parlammo più su, e il personaggio di Imogene, donna straordinaria per dolcezza, dignità e imperterrita amorevolezza verso quel poco di buono di marito. La sua apparizione riscatta le tragedie misogine del grande periodo. A me sembra sia proprio nel Cirzbelino che si avverte di più il senso di debolezza, di distacco (non più sprez-
zante come nel Misura per misura) verso tutto e verso tutti.
Il Racconto d'inverno è una ben strana commedia. Comincia come un dramma, come il più penoso e sgradevole a sentirsi dei drammi (dico sgradevole nel senso che lo spettatore positivamente patisce per collera e per umiliazione alternate davanti al triste spettacolo che ci dà il siciliano Leonte); e si conchiude in commedia pastorale, con la grazia, le danze, l’arguzia e... la scioccaggine che sono indissolubilmente legate alla parola «pastorale». Ermione (prima che muoia e risusciti), Leonte, Poli-
mene, sono creature di sangue e di nervi, diversamente
atteggiate, ammirevole Ermione nella sua dignità e nel suo dolore, odioso Leonte nella sua morbosa gelosia. E il piccolo Mamilio, principe di Sicilia, è un delizioso bambino che strappa al padre quella sublime parola di lode, «Guarda che nobiltà!».
Nelia seconda parte tutti i personaggi (salvo uno che
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è una grande creazione) hanno la grazia, icolori e la vuotaggine delle figurine di Sassonia. Dico meglio, dei nostri «pupi di cena». Perdita, «the queen of curds and cream», è assai ammirata da tuttii critici e non riesco a comprendere perché. È buona, è graziosa, è ingenua, è innamorata; è, innanzi tut-
to, inesistente. E il principe Florizel di Boemia (il cui nome è divenuto in Inghilterra l'equivalente del nostro «Principe Azzurro») è di una melensaggine tale che soltanto il genio di Shakespeare avrebbe potuto immaginarlo. Occorre dire che nelle ultime scene il tono si rialza, e
non di poco. La scena della statua che a poco a poco si anima e si manifesta come Ermione, questo amore maltrattato che ritorna a noi non per punire ma per consolare, ha
una sopraterrena dolcezza; e alcuni fra i più bei versi che il Nostro inesauribile Shakespeare abbia pensato avvolgono tutto di un'atmosfera sognante e irreale. Queste scene salvano tutto, giustificano tutto. Siamo perdonati, e, anche noi, perdoniamo. Un personaggio, però, non ha bisogno di perdono. Uno dei più polposi, dei più bizzarri che Shakespeare abbia creato: Autolycus. Attraentissimo ladro campagnolo, mano lesta e lingua arguta, Autolycus è una specie di fauno che erra attraverso i campi, adocchiando ra-
gazze e «lenzuola stese sulle siepi a sbiancare.» Anche lui è della stessa stoffa di Sir John. E sarebbe davvero peccato che fosse un uomo onesto. Non si può che deplorare che si trovi nella seconda parte, e che sia quindi uno Czeco. Avrebbe adornato,
nella' prima parte, e rischiarato di un sorriso la troppo austera galleria dei delinquenti siciliani. * Pupi di cena o pupacene (figurine per la festa) sono dette, in Sicilia, le figurine di zucchero fuso e solidificato in appositi stampi, decorate a vivaci colori e tradizionalmente donate ai bambini per le festività pasquali e la commemorazione dei Defunti.
La Tempesta
L’ultima opera di Shakespeare è fra le sue più alte. Dire che racchiude tutta la sua Weltanschauung sarebbe dir male. Quale Weltanschauung? Ogni spirito, anche mediocre, ne cambia tre o quattro in vita. Ed è chiaro che chi ha scritto, ad esempio, Romzeo e Giulietta non
può avere la stessa visione del mondo venti anni dopo, quando nel frattempo ha scritto Arzleto e Misura per misura. La Tempesta esprime l’animo di Shakespeare nel 1612 o giù di lì, al momento in cui aveva deciso di lasciare
Londra. È l’animo del più grande poeta che sia mai nato, e che il mondo (si chiama così, fra la gente, il nostro temperamento, il nostro demonio interiore) ha riempito di ama-
rezza. Questa amarezza egli la ha sputata via dapprima (Troîlo e Misura per misura), dopo sublimata in canto altissimo e straziante. E amarezza in corpo non si ha più. Soltanto il ricordo dell’amarezza, ciò che si chiama di-
sgusto. Quel momento del «grosser Ekel» che Nietzsche INvOcava.
E vuole una sola cosa: ritirarsi in campagna e dimenticare. La favola del Duca mago, benefico e perseguitato;
che, fattisi amici gli spiriti elementari, attira nel suo rifugio i nemici; e li perdona e dà loro la sua bellissima figlia (l'Arte?) e dopo spezza la bacchetta, sotterra il libro, disperde i sortilegi. E se ne va. A morire. Ma tutto ciò è trattato, per l’ultima volta, con un brio
indiavolato. Per quanto stanca e disillusa è la filosofia della Tempesta per tanto vivace e brillante è l’esecuzione. Qui troviamo le liriche più fatate, qui quell’Ariel che è una replica dell’Oberon liberata da ogni ridicolo e presentato come mero figlio della luce. Qui l’inquietante
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Calibano cui tanto si promette in modo così ambiguo. Qui ancora Miranda e Fernando che rinnovano in extremis il miracolo adolescente di Romeo e Giulietta. Qui soprattutto Prospero, Shakespeare, il padrone degli elementi, il potentissimo, mite, disilluso Incantatore. E il mio finire è la disperazione.
Sono le ultime parole che dalla soglia della morte ci rivolge il Signore delle ombre e dei sorrisi.
IL TEATRO SINO AL 1642
La scelta della data del 1642 non delle poche svolte di una storia, sia, che si possano precisamente ti, il Parlamento puritano decise
è arbitraria. È anzi una letteraria o politica che datare. Nel 1642, infatla chiusura dei teatri in
Inghilterra. Quando, circa vent'anni dopo, essi vennero
riaperti il loro aspetto, il loro pubblico e, in primo luogo, il contenuto e la forma di ciò che vi si rappresentava erano completamente mutati. In fondo, fino al 1642 abbiamo il diritto di chiamare «elisabettiano» il teatro inglese. Dopo, evidentemente, no. Quali fossero le ragioni che spinsero alla chiusura esporremo quando ci occuperemo della letteratura puritana. Adesso, per fortuna nostra, abbiamo ancora un bel
po’ di tempo per occuparci della radiosa epoca elisabettiana che, come ho detto, comprende anche i regni di Giacomo I e quasi tutto quello di Carlo I. Ben Jonson
Subito dopo Shakespeare occorre considerare Ben Jonson, non perché egli sia, come da molti si dice, il più grande drammaturgo inglese dopo Shakespeare: questo posto se mai sarebbe da assegnare a Marlowe o a Ford. Ma per altre ragioni, una estrinseca e una interiore.
La prima è la sua posizione cronologica: egli, di solo otto anni più giovane di Shakespeare, visse sino al 1637, mostrandoci così con l'evidenza delle date l’ininterrotto fluire della letteratura inglese: quando egli morì Milton
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aveva ventinove anni ed era in piena produzione. Il che è sempre cagione di sorpresa quando vi si ripensi accidentalmente. I grandi Puritani giunti al potere furono letteralmente i figli dei più grandi elisabettiani. Molti dei Cavaliers che perirono nella carica finale di Naseby che vide crollare il regno (o lo vide rafforzarsi, come è meglio interpretare) avevano assistito alle prime rappresentazioni di Arzleto e di Macbeth. Di uno di essi, Sir Henry Wotton, ciò si sa con sicurezza.
Di questa estrema prossimità di due epoche tanto differenti la vita e l’arte di Ben Jonson sono simbolo eloquente. La seconda ragione è questa: la figura di Ben Jonson e la sua attività letteraria servono ottimamente a dissipare un errore che la mia troppo fervida esposizione delle opere di Shakespeare avrebbe potuto creare in chi ascolta: che la letteratura elisabettiana fosse un blocco, una specie di Sturm und Drang che passava seminando capolavori tutti del medesimo tipo senza trovare opposizione. Essa invece era di già atteggiata dialetticamente, suscitava acerbe opposizioni in altri artisti, era in istato di continua polemica. Vi era insomma di già allora l'eterna rissa fra i «romantici» e i «classici». E se i romantici rimangono soli nella nostra più immediata coscienza si deve solo al genio smisurato di Shakespeare. In realtà, come doveva mostrare l’avvenire, i «classici» restarono vincitori. E Ben Jonson che, dopo tentennamenti e apostasie, fu il loro capo, divenne il dittatore letterario inglese, come più di cento anni dopo lo doveva divenire il suo quasi omonimo, il grande Samuel Johnson. È ovvio che «romanticismo» e «classicismo» vanno
presi come etichette di comodo. Ne parleremo più a lungo. Basti dire adesso che i «classicisti» inglesi erano tali in quanto si richiamavano a una tradizione che non era però soltanto, e nemmeno principalmente, quella greco-romana, ma quella della Bibbia, opera la cui im-
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portanza, anche meramente letteraria, è impossibile di sopravalutare se ci si occupa di lettere inglesi. I «romantici» invece puntavano di più sull’estro personale, le tradizioni popolari e la storia inglese. Ben Jonson — Le opere
Ben Jonson nacque a Londra verso il 1574, da famiglia povera ma cittadina (primo contrasto con Shakespeare). Per mezzo di potenti protettori compì severi studi classici alla Westminster School, divenne, come dissero di lui,
«a monster among scholars», un mostro di conoscenze greche e latine; e quando morì aveva ottenuto la laurea ad honorem in entrambe le Università di Oxford e di Cambridge (secondo contrasto con Shakespeare). Si sbaglierebbe, però, chi da questo preludio studioso arguisse un decorso calmo e dignitoso della sua vita. Lo Zeitgeist elisabettiano era troppo violento. Poco dopo la sua uscita dalla Westminster School, Ben Jonson si ar-
ruolò nell'esercito e andò a combattere in Fiandra contro gli spagnoli. Al suo ritorno divenne attore e scrisse delle tragedie, oggi perdute, che ebbero grande successo. Nel 1598 uccise in duello un attore e, messo in prigione, fu sul punto di essere impiccato. In gattabuia si convertì al cattolicesimo. Ma dodici anni dopo ritornò alla Chiesa anglicana. Come si vede, seguì la tradizionale carriera dell’intellettuale elisabettiano. All’uscita dal carcere, si dedicò unicamente alle lette-
re. Conobbe momenti di grande fortuna e ricchezza, momenti di gravi depressioni. Ma la sua influenza letteraria non subì mai eclissi. Poiché morì in uno dei suoi periodi di povertà fu sepolto bensì nell'Abbazia di Westminster, ma non vi erano abbastanza soldi per erigergli un monumento e neppure una lapide. Qualche anno do-
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po un ignoto ammiratore scrisse con il carbone sulla pietra funeraria «O rare Ben Jonson». Questo conciso epitaffio in puro stile elisabettiano piacque tanto che venne di poi inciso sul marmo e ognuno lo può ancora leggere nel Pantheon nazionale. (Come tutti i Pantheon nazionali Westminster manca del pezzo più grosso; la tomba di Shakespeare ne è altrettanto clamorosamente assente quanto quella di Dante a Santacroce.) Di lui ci restano tre raccolte di liriche (Epigramzzzi, La foresta, I{ sottobosco); alcune di esse (non molte) sono perfette per freschezza, ritmo, eleganza, degne delle migliori che Shakespeare abbia inserito nelle sue commedie (Drink to me only with thine eyes, Go and catch a
mandrake root, O so white, 0 so soft, 0 so sweet, Queen and Huntress, It is not growing like a tree); esse si trovano in tutte le antologie di liriche inglesi. Debbono essergli sfuggite contro sua voglia. Egli, coscientemente, desiderava sfuggire ogni effetto che potesse esser chiamato «poetico». E mi si è detto che anche nelle liriche, considerate come complesso, vi è una totale mancanza di «fascino», di «charme», il che costituisce appunto anche la principale caratteristica delle sue pur magistrali opere di teatro. (Mancanza di charme: terzo contrasto con Shakespeare.) La prima sua commedia è The Case is Altered (La cau-
sa — in senso legale — è mutata). Non si trova nella mia edizione del teatro di Ben Jonson e sembra valga poco: è una caricatura ferocissima di altri poeti contemporanei. La sua prima opera di valore è Every Man in his Humour (Ciascuno nel proprio umore, che si potrebbe meglio tradurre Ciascuno fedele al proprio tipo) recitata nel 1598. Essa è, intende essere, una rivolta contro la com-
media di Shakespeare. Nel prologo si dice che bisogna impiegare
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Deeds and language such as men do use; And Persons such as Comedy would choose; When she would show an Image of the times And sport with human follies, not with crime.
Manifesto anti-skakespeariano, sottolineato da una tirata famosa sulla commedia stessa contro lo stile «tempestoso» e a favore della necessità di introdurre «restraint» (cioè, ritegno, compostezza) nelle opere teatrali. Malgrado il suo fondamento polemico Every Mar in his Humour è una deliziosa commedia, scritta quasi del tut-
to in una tersa prosa sfavillante di motti di spirito. Composta, dignitosa, terenziana. La poesia ne è completamente assente. Assai peggiore invece è Every Man out of his Humour che è didattica, prolissa e perfettamente inutile. E nel Poetaster, dove si scaglia (non contro Shakespeare fortunatamente) contro Marston e Dekker, i rari momenti di
spiritosa invettiva non bastano ad equilibrare la sua passione per «far scuola al prossimo». Dopo di che si mise a scrivere tragedie romane in stile classico. Ho letto il suo Sejanus, his Fall che è del 1611. Pare sia un modello di accuratezza storica e di aderenza alle regole dell’arte classica. Anche in questo modo voleva protestare contro i gloriosi svarioni e le adorabili intemperanze del suo amico-nemico. È, senza dubbio, un
monumento di noia. Gli mancava il potere di Shakespeare di trasporre fatti e figure storiche in termini di conflitti spirituali eterni. E così pare che sia anche Cazzline che non ho mailetto. Ma fra queste due infelici tragedie si piazzano i quattro capolavori di Ben Jonson, le quattro commedie Vol pone, La donna silénziosa, L'alchimista e La fiera di S. Bartolomeo. Nel Volpone ci vien maestrevolmente mostrato un avaro sensuale, caso psicologico raro delineato con arte
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di prim'ordine; egli sfrutta le debolezze delle sue conoscenze e finisce col vituperarle con magnifica irruenza. I versi sono vigorosi e pieni di slancio. Uno dei rari capolavori dai quali la poesia è assente. La donna silenziosa, che è del 1609, è l’unica commedia nella quale Ben Jonson si astenga dallo sbraitare contro le debolezze umane. È perciò la più gradevole a sentirsi (ho sentito Vo/pone e appunto The Silent Woman) se non la sua migliore. L'alchimista ci dà anzitutto una magnifica rappresentazione della Londra elisabettiana ed ha un intreccio veramente divertente sugli imbroglioni e i creduloni. Il personaggio di Sir Epicure Mammon è indimenticabile e così quello dei due schifiltosi puritani. La fiera di S. Bartolomeo è anch'essa una vivacissima rappresentazione di Londra, città natale ed amatissima di Ben Jonson che nel suo amore per essa sembra aver un po’ dimenticato la sua voluta asciuttezza e si concede
un po’ delle adorabili volgarità, del caro disordine di Shakespeare. È scritta interamente in succosa e bella prosa, e può considerarsi più che come una commedia, come
un romanzo
sceneggiato; contiene Fielding e
Dickens. Una grande opera. Dopo di essa sembra che la vena di Ben Jonson si esaurisca. Non ho letto le commedie seguenti: I/ zzodello delle novità, Il nuovo albergo, La signora magnetica, Il diavolo è un asino, Il racconto di una botte. Ma Dryden,
il grande poeta e critico della metà del Seicento, uomo nel cui impeccabile gusto ripongo la massima fiducia, le chiama «dotage», cioè «discorsi di rammolliti». E ciò mi basta. Adesso che ne ho detto quanto pensavo di meglio, posso indicare i suoi difetti. Anzitutto la sua prolissità, la sua garrulità. Egli si rifiuta tenacemente di lasciare passare checchessia o chicchessia senza aver esaurito tutto ciò che della cosa o della persona possa dirsi. Di-
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fetto insopportabile anche se le cose da dirsi sono, come spesso in Ben Jonson, acute e spiritose.
Dopo, la sua assenza di charme, la sua quasi assoluta asciuttezza. E dopo ancora la sua mancanza di carità che gl’impediva di capire molte cose: non capì, per esempio, nella sua dura satira contro i Puritani la verità e la passione che giaceva sotto i loro atteggiamenti ridicoli e le loro esagerazioni; non capì il fascino e la bellezza nascosta delle strade di Londra, fascino che è tanto notevole ancor oggi e che allora doveva saltare agli occhi di chiunque. È con questa mancanza di comprensione che egli si dimostra irrimediabilmente differente e incommensurabilmente inferiore a Shakespeare la cui attrattiva principale come uomo doveva essere la sensazione che doveva dare a ciascuno di essere compreso e amato. Ben Jonson scrisse anche numerosi r2asques, cioè spe-
cie di scenari per balletti, intramezzati di dialoghi e di canzoni. Una sorta di «rivista».
Opere in prosa — Ben Jonson e Shakespeare
Le opere in prosa di Ben Jonson sono poche ma importanti: una preziosa Grammzatica Inglese, che aiuta molto a comprendere la scrittura e il funzionamento dello splendido linguaggio elisabettiano; opera condotta con un rigore e una precisione inconsuete, anzi uniche,
in quei tempi. Timber, cioè «materiale da costruzione», è uno smilzo
volumetto nel quale Ben Jonson ha raccolto le sue osservazioni e le sue critiche nel corso delle sue immense letture. È un’operetta di prim'ordine anzitutto per lo stile semplice, gaio, financo superiore a quello dei pur deliziosi Saggi di Bacone. E poi per le idee espresse, che sono appunto quelle idee di ritegno, di «fren dell’arte», di antiromanticismo delle quali abbiamo già parlato. Ben
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Jonson vi si mostra quale artista-conscio, artista-critico;
l'apparizione di questo tipo di scrittore ci dimostra quanto fosse matura la letteratura elisabettiana pur sotto l'apparente disordine. Le relazioni tra Ben Jonson e Shakespeare possono sembrare esser state eccellenti, se ci fermiamo ai fatti esteriori. Erano amiconi. E si sa da molti, e da Ben Jonson stes-
so, che per anni passarono lunghe ore, ogni sera, alla Taverna della Sirena, a scambiarsi frizzi e scherzi e a discutere, come dissero, «of men, of maids, of plays, of Gods and of Demons» «with unsurpassed wit», «con spirito insuperabile». Lo crediamo facilmente e la sola cosa che ci dispiaccia è che non vi fosse un registratore nascosto sotto il tavolo. Inoltre Ben Jonson ha reso alla gloria di Shakespeare e all'umanità intera il servizio inestimabile di pubblicarne le opere complete nel famoso folio del 1623 salvando, fra altri tesori, l’intero Macbeth e la migliore versione di
Armzleto che senza l’opera di Ben Jonson ignoreremmo del tutto. E non è poco. Nella prefazione Ben Jonson giudica Shakespeare con giustizia dicendo che «il suo nome non è per una sola età, ma per tutti i tempi». Non c'è niente da dire.
Però. Però in una conversazione con Drummond in Scozia, dopo la morte di Shakespeare, disse che «a Shakespeare mancava l’arte». Però ad un attore che gli diceva, commosso, che
Shakespeare non aveva mai avuto bisogno di cancellare un rigo, rispondeva: «Sarebbe stato meglio se ne avesse cancellati un migliaio». Però dichiarò una volta che amava Shakespeare «fino al di qua del confine dell’idolatria», frase ambigua che
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sembra più un rimprovero agli idolatri che una ammissione di reverenza. Però in una delle sue brutte commedie (scritte dopo la morte di Shakespeare), mi pare nella Magnetic Lady,
fa un brutto e volgare gioco di parole su Hamlet e «gamblet», come si chiamava allora quel luogo che ora designamo con le iniziali OO: «Td rather go to gamblet than to Hamlet». Brutte cose, signor Ben Jonson, brutte cose.
Tanto più brutte in quanto dette o scritte dopo la morte di Shakespeare, il quale da vivo avrebbe fatto sbellicare dalle risate financo i gatti della «Sirena» se avesse cominciato a far dello spirito sulle vostre commediole. Tanto più brutte in quanto non possono passare per
maligne, ma insignificanti tirate di spirito se si mettono in relazione alle idee artistiche di Ben Jonson come espresse in teoria ed in pratica. Mostrano una animosità e un’invidia degne di chi, signor Ben Jonson? Del vostro Volpone. Tanto più brutte se riflettiamo che il vostro maggior servizio alla memoria di Shakespeare, il folto, venne pagato da un «gruppo di amici» fra i quali era forse il povero attore che voi rimproveraste; e che avevate avuto ben cura di far pubblicare dieci anni prima, proprio l’anno della morte di Shakespeare, le vostre «opere complete» in un folio identico. Ad ogni modo, io sono per l'ammirazione al di là del confine dell’idolatria.
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SCRITTORI DI TEATRO ANTERIORI A SHAKESPEARE
Adesso, come avevo già avvertito, siamo costretti a far
macchina indietro e ad occuparci degli scrittori di teatro anteriori a Shakespeare. Fra questi ci siamo già occupati di Marlowe. Quando parlo di scrittori anteriori a Shakespeare intendo però sempre parlare di scrittori «elisabettiani». Per gli scrittori di teatro che hanno preceduto questa epoca mi manca la competenza, ancor più di quanto mi manchi per il resto; essi d’altronde rivestono un interesse documentario e storico più che artistico; e
pur trovando il loro posto in una Sforza della Letteratura Inglese non possono trovare il loro posto qui dove non si fa altro che «ricordare delle letture». Però sarebbe peccato non nominare John Heywood (che nulla ha in comune con il suo più illustre omonimo Thomas del quale parleremo in seguito). Egli è notevole in quanto a durata anzitutto: visse dal 1497 al 1587, dal regno di Enrico VII cioè a quello, avan-
zato, di Elisabetta. Inoltre egli apparteneva alla cerchia illustre di Thomas More, e sua figlia fu la madre del grande John Donne. Morì in esilio dove aveva dovuto andare quale cattolico. Tre delle sue commedie furono stampate fin dal 1533. Alcune sue opere risentono della «moralità» medievale e sono discussioni fra personaggi simbolici. Ma due, La allegra commedia tra il perdonatore (distributore d’indulgenze) e d/frate, ilprete e un vicino di loro e La allegra commedia fra Giovanna, suo marito e il prete sono di già delle vere commedie, farsesche, ma vivacissime e spiritose; tale è la differenza fra queste e le precedenti dello stesso autore che i critici moderni hanno voluto
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supporre che Sir Thomas More vi abbia posto mano. Il che sarebbe molto interessante, e non solo letterariamen-
te, in quanto ci mostrerebbe l’indignazione sollevata dalla vendita delle indulgenze e dalla corruzione del clero anche presso personalità che come Thomas More furono cattolici fino al martirio compreso. Verso il 1570 il teatro inglese era diviso in due correnti: quello per il popolo (al quale dovevano per altro appartenere Shakespeare e gli altri grandi) e quello colto detto degli Unzversity Wits. Questi erano (come del resto molti altri del campo avverso, Marlowe compreso) degli autori che avevano frequentato Oxford e Cambridge, che si erano impregnati di cultura classica o italiana, che conducevano una vita più dignitosa di quella, veramente deplorevole, degli scrittori popolari e che destinavano le loro opere ad esser rappresentate a Corte o nelle grandi case della nobiltà e non in quei luoghi di perdizione che erano i teatri di Southwark. Ma il genio era dall'altra parte. Più tardi Ben Jonson mediò fra i due partiti, con delle forti propensioni per gli universitari. Capo di questo gruppo più colto e meno stt/rrzsch fu John Lyly (1544-1606), che aveva studiato in entrambe le Università. Le sue opere tratte dalla mitologia classica (per nominarne due: Edizione, l’uomo sulla luna, e Ga-
latea) furono tutte rappresentate «before the Queen Her Majesty» e mostrano uno stile concettoso, raffinato e pedantesco, privo di voli ma nutrito di cultura. Egli pone grande attenzione al «contegno» dei suoi personaggi e si richiama esplicitamente al nostro Cortegiaro. Egli è, in anticipo, un «seicentista». Disse, non senza spirito, che il dramma inglese «è mascolino sino alla frenesia e che una infusione di delicatezza e pudore femminile non poteva che giovargli».
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Dopo di lui vi è George Peele ( 1597) anche lui universitario ma dotato di humour e di spirito polemico. Morì molto giovane e le sue opere ci mostrano uno spirito irrequieto che probabilmente era ancora in via di esperimenti quando dovette morire. Drammi mitologici come I/ Giudizio di Paride si alternano a cronache sceneggiate come Eduardo I, a drammi biblici come Gli amori di Re Davide e della bella Betsabea, a commedie
moderne e polemiche come I/ racconto di una vecchia. Possiede un vivo senso della musicalità delle parole. Fu una speranza soffocata prima di poter fiorire. Pare abbia collaborato all’Ezrico VI shakespeariano.
Robert Greene (+ 1592), dopo aver studiato nelle due Università, visse a lungo in Italia, e la sua opera è colma d’influenza italiana. Arrivò al punto di portare in teatro L’Orlando Furioso. Egli è il tipo del «precursore»: precursore nel romanzo (ma di ciò parlerò dopo); precursore nella tecnica scenica che doveva essere adottata da Shakespeare; precursore financo nell’invenzione di Oberon, Re delle fate, che era poi destinato a così illustre destino. Ma di lui poco rimane di concreto. Ancora meno rimane di Thomas Lodge (* 1625) il quale del resto dovette presto allontanarsi dal teatro perché cattolico e visse trent'anni facendo il medico. Thomas Nashe invece è un personaggio di maggior rilievo (* 1601). Anzitutto come uno dei creatori della prosa inglese moderna (e di ciò parleremo nel capitolo della «prosa elisabettiana») e poi quale eccellente collaboratore di Marlowe. Con Nashe si chiude il paragrafo degli University Wits. Ciò che resta di loro (quale teatro) non ha molta importanza. Ma l’interesse di questo sparuto manipolo fu di rilievo anzitutto nella dialettica artistica dell’epoca
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di Elisabetta, nella quale essi rappresentarono la tesi moderata e colta di fronte alla pura intuizione dei loro più gloriosi rivali; e poi quale preparazione al «classicismo» (per così dire) di Ben Jonson che doveva finire col trionfare durante l’epoca puritana e della Restaurazione. Poiché abbiamo già parlato di Marlowe non ci rimane che Thomas Kyd quale esponente del dramma «popolare» (anche questo per così dire) pre-shakespeariano. Kyd (+ 1594) era un uomo di irruente e sregolato talento. Di lui ci rimane un’opera e un dubbio. L’opera è la Tragedia spagnola che costituì il più grande successo di cassetta dell’intero periodo elisabettiano e che, susci-
tando invidia e pettegolezzi, fece fiorire uno sciame di preziosi libelli che ci illuminano i retroscena di quel periodo e le figure degli artisti del tempo, Shakespeare compreso. La Tragedia spagnola è colma di orrori e nell’intreccio e nei caratteri supera le frenesie di Seneca. Ma vi è anche il personaggio di Hieronimo, dubbioso e meditativo, continuamente influenzato dagli avvenimenti, che supera il «tutto d’un pezzo» di Marlowe; vi è una «tragedia dentro la tragedia» che unita al carattere di Hieronimo ci fa sorgere dinanzi un presentimento di Amleto. E il dubbio è che da vari accenni sembra che Kyd abbia davvero scritto un Arz/eto, alcuni frammenti del quale sarebbero stati inseriti da Shakespeare nel prizzo testo di Arz/eto. E ancora adesso arde la caccia fra la polvere delle biblioteche e degli archivi pubblici e privati inglesi per scoprire questo «Ur-Hamlet» di Kyd.
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GLI APOCRIFI SHAKESPEARIANI
Sul finire del I secolo e durante tutto il II la nascente Chiesa cristiana si trovò posta dinanzi a un singolare problema: da ogni parte sbucavano Vangeli, Epistole, raccolte di testi di Cristo. Tutti pieni di sincero fervore, alcuni di alto valore artistico (l’Evangelo secondo San Giacomo, per esempio) essi differivano grandemente fra loro in quanto a dottrina teologica. Per non trovarsi con un «Credo» irto di contraddizioni la Chiesa fu costretta a «scegliere». Cioè a fissare quali di questi documenti dovessero considerarsi genuini, quali altri, benché ispirati ad elevato senso religioso, dovessero essere conside-
rati apocrifi. Chiunque abbia letto qualcuno di questi Apocrifi dovrà convenire alla grande oculatezza con la quale la scelta fu fatta: gli scritti apocrifi sono spesso molto elevati e fervorosi. Quelli canonici sono «un’altra cosa». Gli Apocrifi sono adesso considerati pasto da studiosi o de-
lizia di estetizzanti. Con la dottrina cristiana non hanno più niente in comune, benché parecchie delle storie in
essi narrate siano passate nella tradizione (per esempio la presenza del bue e dell’asino nella stalla di Betlemme,
che non è attestata da alcun libro canonico ma che dagli Apocrifi è passata in tutta la pittura cristiana, in ogni
Presepio, e fino ad ieri ispirò i bellissimi — ma davvero un po’ prolissi — versi di Péguy). Gli apocrifi shakespeariani cominciarono ad esset pubblicati durante la vita stessa di Shakespeare. Locrine, un tragedione senechiano di scarsissimo valore, venne stampato nel 1595. La vita di Sir John Oldcastle (1600);
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La vita di Lord Cromwell (1602); Il prodigio di Londra (1605); Il Puritano (1607); Una tragedia nello Yorkshire (1608): Pericle (1609).
Nel 1619 due editori senza scrupoli, Jaggard e Pavier, pubblicarono una «edizione delle opere complete di Shakespeare» che conteneva alcune opere genuine e molte opere spurie. Ma gli amici di Shakespeare vegliavano e per reazione decisero (fortunatamente) di procedere alla raccolta dei testi esistenti, pubblicati o no, e di
stamparli in un unico volume con prefazione di Ben Jonson. Questi due valentuomini (due attori, Heming e
Condell) pubblicarono nel 1623 il famoso folio che ha salvato venti delle trentasette opere di Shakespeare e fra queste opere come Grulio Cesare, Come vi pare, Dodicesima notte, Misura per misura, Macbeth, Antonio e Cleopatra, La Tempesta (per tacere di altre minori) che, senza l’affettuosa devozione dei due editori, avrerzzzo perso per sempre. Dico per sempre perché di queste venti opere, che non furono stampate mai prima del folio, non si è fino ad oggi mai trovata una traccia. La mente inorridisce.
Il folio del 1623 ha stabilito il canone shakespeariano che rimane ancora immutato, financo nell'ordine di presentazione delle opere. Le esplicite dichiarazioni degli editori e anche il fatto che il Pericle (dato prima come opera spuria) vi fosse incluso provano la scrupolosità di questi due poveri attori per i quali il termine di benemeriti è davvero insufficiente.
Ma con il folio non si chiude la storia degli apocrifi. Durante tutto il Seicento editori troppo entusiasti pubblicarono dei drammi attribuendone la paternità a Shakespeare. i Sarebbe tedioso fare la pes di queste opere, che sono quarantadue. Essaè stata fatta con sommo rigore critico da Tucker, del quale posseggo il volume. Egli, che è il
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più autorizzato a farlo, respinge qualsiasi attribuzione che non si trovi nel folio. E con lui la stragrande maggioranza degli altri studiosi. Di queste quarantadue opere falsamente attribuite a Shakespeare, trentotto o non valgono niente o contengono soltanto poche scene condotte con rigore.
Le rimanenti quattro sono opere di prim’ordine. Esse sono: Arden of Feversham, A Yorkshire Tragedy, The Two Noble Kinsmen, The Merry Devil of Edmonton. Le prime due sono delle «tragedie domestiche», cioè dei fatti di cronaca nera realmente avvenuti e drammatizzati. Un genere al quale Shakespeare non si è mai accostato nelle sue opere canoniche. Esse sono solidamente costruite, con dei personaggi
ben vivi e ben penetrati, con un diffuso senso di fatalità e di tetraggine reso in modo allucinante. A me (ultimo fra gli ultimissimi) sembrano nella maniera di Heywood, il che non è poco. Ma, come l’aranciata S. Pellegrino, Shakespeare... è un’altra cosa. Manca in queste due tragedie lo slancio, la magnificenza del linguaggio, l’abbandono, il lirismo, il nascosto sorriso che sentiamo in
Shakespeare fin nelle sue scene più nere. E così sia detto del Merry Devil e dei Two Noble Kinsmen. Piene di spirito, vivacissime, divertenti, indiavolate, negromantiche e tenere. Ma lo charme manca, manca
(diciamolo per amor di simmetria) la nascosta lacrima che Shakespeare ha nelle sue scene più comiche. Sono tutte e quattro opere di altissimo talento; non di genio.
AUTORI DI TEATRO CONTEMPORANEI E POSTERIORI A SHAKESPEARE
Prima di procedere a parlare di molti altri artisti, alcuni dei quali grandi, desidererei accennare a un fatto che può dare un’esatta idea del fervore per il teatro e anche dei vasti interessi che al teatro erano legati sotto il regno di Elisabetta. Verso il 1597 o il 1598 Philip Henslowe, niente affatto letterato ma acuto uomo di affari, fondò una specie di cooperativa di autori teatrali che aveva per scopo di scrivere drammi in collaborazione. E ci sono pervenuti i suoi registri contabili fino al 1603. Durante questo periodo vennero pagati ventisette autori drammatici come autori singoli di drammi e commedie o, molto più frequentemente, quali collaboratori fra loro. Di questi, dieci ci hanno lasciato soltanto il loro nome; sei sono autori di prim'ordine (Jonson, Dekker, Chapman, Heywood, Middleton e Webster) che quasi tutti in seguito dimostrarono la loro avversione per la combinazione Henslowe non permettendo che le loro opere di quel periodo venissero ristampate. Di essi parleremo in seguito.
Rimane il gruppo di quelli che potremo chiamare «gli elisabettiani minori». Di essi il principale è Anthony Munday, che visse quasi un secolo (+ 1633) e che ebbe una vita quanto mai operosa e variata: fu libraio, pessimo attore, polemista anticattolico, traduttore, autore (o per meglio dire falsificatore) di ballate e inoltre «poeta della City», cioè incaricato di immaginare e predisporre le mascherate per
l'annuale cavalcata del Lord Mayor di Londra. Queste
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variegate attività attirarono su di lui nugoli di libelli e di poemi satirici ai quali rispondeva con virulenza. Le sue opere teatrali rimaste non sono molte: due drammi su Robin Hood, un dramma di argomento italiano, Fedele e Fortunio, e Il più debole va al muro (cioè
si rovina). Chi li ha letti dice che sembrano un disegno a matita, semicancellato, di un quadro che rappresentasse un episodio dei drammi di Shakespeare. Modo pittoresco di dire che vi sono vaghi accenti di sentimento shakespeariano. Henry Chettle pare sia stato molto fecondo, ma di lui rimangono due opere poco buone. Richard Hathway (il nome ci fa drizzare l’orecchio) non ci ha lasciato che frammenti informi e così pure Michael Drayton, che fu per altro uno dei più grandi lirici elisabettiani e del quale ci occuperemo in seguito.
Così avremmo terminato questa tediosa rassegna dei «minori», anzi dei «minimi» elisabettiani e potremmo lanciarci verso più sugose prede se non tenessi a dire qualcosa di Fulke Greville. Era questi un gran signore, che ricoprì importantissime cariche politiche sotto Giacomo I. Lontano da qualsiasi ambizione letteraria, di-
staccato da qualsiasi «scuola», egli tenne a tramandare ai posteri la sua esperienza politica in due stranissime tragedie (che ho lette) di argomento orientale (Mustapha e Alabam) ma che sono una rigida imitazione di Euripide, imbottite di allusioni contemporanee. I suoi cori, impettiti, oracolari, strani fanno un effetto fantomale. Il pensiero è altissimo, e si sente vibrare dietro una espressione quanto mai inadeguata.
I «GRANDI» MINORI
Abbiamo di già incontrato George Chapman (i 1634) quale il poeta rivale di Shakespeare nel favore del giovane conte. Egli era un uomo brillante, elegante, coltissimo e versatile. Poeta vero, ma drammaturgo mediocre.
Di lui sopravvivono due tragedie su Bussy d’Amboise, e una sulla morte del maresciallo di Francia Duca di Biron. Sono piuttosto poemi epici che drammatici, pieni di elevate descrizioni e retoriche arringhe. La vera gloria di Chapman risiede nella magistrale traduzione di tutte le opere di Omero, traduzione che ancor oggi è la più poetica fra quelle inglesi; e nei magnifici, accorati versi che egli scrisse per conchiudere l’Ero e Leandro di Marlowe, rimasto incompiuto. «The
proud full sail of his great verse» disse Shakespeare. E lo caricaturò quale Oloferne nelle Pere d’anzor perdute e pare scrivesse il Troz/o e Cressida per sfottere il traduttore di Omero. Ma sarà vero? John Marston (# 1634), che doveva morire quale parroco (anglicano) in campagna, mi riesce una delle figure più simpatiche, forse perché fu ardente e costante avversario di Ben Jonson. Durante sette anni i due poeti si scambiarono satire, commedie burlesche (e atroci ingiurie). Il talento di Marston fu soprattutto satirico. The Scourge of Villanie, What you Will e Parasitaster sono ai nostri giorni quasi incomprensibili per le migliaia di allusioni delle quali formicolano. Ma si sente che le frustate dovevano lasciare il segno. Dopo aver tanto battagliato Marston e Jonson fecero
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improvvisamente alleanza e scrissero insieme a Chapman Eastward Ho, una spietata e divertentissima satira degli scozzesi bisognosi e avari piombati nell’Inghilterra al seguito del nuovo Re, Giacomo. Ma finirono male: Giacomo li fece cacciare in prigione e minacciò loro di far tagliare le orecchie e il naso, come si faceva ai calun-
niatori. Uscito dal carcere Marston scrisse una tragedia regolare, Sophonisba, che contiene versi severi e altissimi. E poi cominciò un’altra commedia satirica, The Insatiate Countess, i cui primi due atti (i soli scritti) sono
quanto di meglio egli abbia fatto. Ma a questo punto la grazia lo toccò ed entrò negli ordini. Molta vivacità comunicativa, una mirabile facilità a sci-
volare dal verso alla prosa e dalla prosa al verso, sono le principali caratteristiche di Thomas Middleton (+ 1627). Autore spesso licenzioso, mai volgare. La più ardita delle sue commedie, I cinque amanti, è piena di sentimento umano e di tenerezza (la ho letta). Le sue opere danno un senso di «critica della vita» più che di vita in azione; e talvolta raggiunge la crudeltà come nella Casta ragazza di Cheapside. Scrisse poi molte opere in collaborazione con William Rowley (La vecchia legge, La zingara spagnola). Questi nelle opere scritte da solo si dimostra spesso grande poeta: nella Lussuria perde tutto vi sono scene veementi di grande passionalità. E ne La nuova meraviglia ci dà dei ritratti meravigliosi, balzachiani, di uomini d’affari,
meschini e ardenti, con piccole vanità e larghe vedute. Ma il capolavoro di Middleton è la sua ultima opera,
Una partita a scacchi, nella quale l’opposizione popolare alla Spagna assume tinte di umorismo epico e costituisce, dice Swinburne, «la sola opera aristofanesca della letteratura inglese».
Ad un piano ancora più alto saliamo con Thomas Heywood ( 1650), autore di straordinaria fecondità e
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di spirito umano e caritatevole. Egli è uno specialista del dramma domestico e in questo genere egli scrisse quello che è il suo capolavoro e una delle massime opere del teatro elisabettiano, Una donna uccisa con buone manie-
re. Una tragedia «intimista», senza spargimento di sangue, con una donna colpevole ma buona e un marito crudele ma non spietato, mantenuta in un’atmosfera gri-
gia mediante parole efficaci ma senza rilievo. In essa trovano la loro perfetta espressione la sincerità candida e la semplice carità che, in modi meno felici, traspaiono nelle altre opere di Heywood. Essa è del 1607, l’anno all’incirca di Otello, del quale essa è la perfetta antitesi. Come tutto il teatro di Heywood è l’antitesi di quella larghissima parte del teatro elisabettiano, sfrenato, violento e
crudele. Altre sue opere sono The Fair Maid of the Exchange, The Royal King and the Loyal Subject, The Fair Maid of the West e Fortune by Land and Sea, nessuna delle quali è eminente ma nessuna delle quali è spregevole. Tutte si distinguono per lo spirito caritatevole dell’autore, e in molte di esse si nota «the tang of the sea» (l’odore del mare) al quale Heywood, di famiglia di marinai, dovette essere affezionato. I nomi di Francis Beaumont ( 1616) e John Fletcher (+ 1625) vanno in giro nelle storie letterarie sempre ac-
coppiati, come quelli di due costanti collaboratori. Ciò è una delle perniciose conseguenze del disordine editoriale del Seicento che pubblicava «opere complete» senza indagini e senza scrupoli pur di far quattrini (il folio di Shakespeare è l’unica felicissima eccezione in quanto esso è garantito dalle firme di Ben Jonson e degli «editori» — nel senso inglese di persone a cura delle quali l'edizione è fatta). Della cinquantina di opere date come frutto della collaborazione dei due autori, la critica moderna ne accetta soltanto otto; altre due sono del solo Beaumont; sei
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del solo Fletcher; e le rimanenti sono dovute o a scrittori
ignoti o a una collaborazione Fletcher-Massinger. Del binomio famoso (Beaumont e Fletcher) la prima parte esprime maggiore invenzione, miglior studio di caratteri e fermezza di mano. La seconda (quella di Fletcher) un maggior senso drammatico e una grande floridezza di versificazione. Il fatto è che Beaumont (che morì molto giovane) produsse da solo un autentico capolavoro (I/ Cavaliere del pestello fiammeggiante), mentre Fletcher da solo scrisse in modo popolaresco ed esagerato (con numerosi versi zoppi). In collaborazione con migliori ingegni, però, Fletcher diede la sua misura
di brio, avvedutezza teatrale e scintillio di espressione, sia quando realmente collaborò con Beaumont, come più tardi quando si divideva il lavoro con Massinger. Esaminiamoli un po’ particolarmente (posseggo e ho letto il teatro «detto» di Beaumont e Fletcher). Opere del solo Beaumont: I/ Misogino e Il Cavaliere del pestello fiammeggiante (The Woman Hater e The Knight of the Burning Pestle). Il Misogino è una eccellente commedia di carattere, che è centrata attorno al tipo del misogino, studiato in modo brillante e spassoso; I/ Cavaliere del pestello fiammeggiante è una trasposizione in Inghilterra del Don Chisciotte: un garzone droghiere percorre il paese cercando di raddrizzare i torti e di salvare le ragazze in pericolo; e intanto non si cura della
sua bottega che fallisce e della sua fidanzata che vien sedotta da un altro. Ad ogni scena nella quale si narrano le gesta svagate ed eroicomiche del protagonista, scritte con un brio indiavolato, ne segue un’altra nella quale si narra la progressiva decadenza dei suoi affari e della felicità che lo avrebbe atteso, redatta al contrario in termini di commovente umiltà e rassegnazione. Il finale è ottimista e tutto vien salvato alla fine; l’ultimo atto ci mostra la bottega tirata su di nuovo; l’eroe è assente; si sente soltanto nel retrobottega il rumore che egli fa «pestando
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chiodi di garofano e noci moscate» e la deliziosa fidanzata dice «qui, così, c'è finalmente un buon profumo». Un capolavoro. E anche un documento storico di prim'ordine che ci restituisce con insuperabile vivacità la vita popolare elisabettiana. Delle opere composte in collaborazione con Fletcher occorre non trascurare La pastorella fedele che è opera di vera poesia per quanto lo permetta il genere (a me, personalmente, odioso) e che ha avuto l'onore di essere imitata (e di gran lunga superata) nel Corzus di Milton. La tragedia della fanciulla è reputata essere la miglior tragedia uscita dalla collaborazione. Certo i due personaggi di Aspatia ed Evadne sono trattati con severa delicatezza e vi corre qua e là un ricordo delle mirabili ire di Shakespeare. Come anche buona è la tragedia Re e ron Re, senonché il personaggio di Bessus è una troppo flagrante (e troppo inferiore) imitazione di quello di Falstaff; e vi è un morboso insistere su temi incestuosi.
Delle opere di Fletcher da solo sono eccellenti commedie The Chances e soprattutto The Wild-Goose Chase che è una delle commedie più divertenti che abbia letto, con un intreccio originalissimo e un dialogo di prim'ordine. E nel Borduca questo artigiano di talento trova inaspettatamente alcuni versi quasi degni di Shakespeare. Ma siccome non l’ho inteso dire da nessuno altro deve trattarsi di una mia illusione. E qui si potrebbe cessare di parlare di Beaumont e Fletcher se non occorresse considerare per un po’ ciò che essi rappresentano nell’insieme del teatro elisabettiano. Essi sono (e sarebbe più equo dire «lui [Fletcher] è», perché Beaumont morì presto e finché visse si dimostrò puro artista) il sintomo della decadenza. Con i loro intrecci perfettamente congegnati, con i loro personaggi
che colpiscono la fantasia ma non il cuore, essi sono paragonabili a Scribe e a Sardou nel teatro francese
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dell’Ottocento. Essi corrono troppo sfacciatamente dietro all’applauso e al successo: e vi riuscirono perché durante il Sei e Settecento la loro fama superò di molto quella di Jonson e di Marlowe e controbilanciò quella dello stesso Shakespeare. Occorre dire che la maggior loro produzione si ebbe sotto il regno di Giacomo I; e che, scomparsa la grande Gloriana, il clima sociale inglese aveva notevolmente perso di tono. Il Re, quasi nano, negromante, superstizioso,
troppo attorniato da belli e viziosi giovincelli (dei quali Van Dyck ci ha lasciato i ritratti, dipinti con disgustata maestria), assediato dai suoi scozzesi, rozzi com'erano al-
lora e avidi come sono anche adesso, faceva una magra figura; e il pubblico del teatro non voleva faticare a seguire voli troppo alti; voleva dei romanzi gialli sceneggiati. La tragedia stava per divenire opera. Migliore tempra era quella di Philip Massinger (7 1640). Non che egli ritornasse al vero dramma: non aveva tempra di autentico poeta e come Fletcher corre dietro ai desideri del pubblico, con opere che stimolavano i sensi e con atroci scene di torture in esse, perfettamente
adatte a quel triste pubblico. Però mostrava, ideologicamente, un nobile spirito d’indipendenza. Nel suo dramma I/ rinnegato egli impernia l’azione su un gesuita che si dimostra benefico, amico dei poveri e funziona da deus ex machina. È necessario ricordare quale «ba-bau» rappresentasse per gli elisabettiani il gesuita, i supplizi veramente inumani ai quali venivano sottoposti durante la loro esecuzione quelli di essi che sbarcarono in Inghilterra, la vastissima letteratura di obbrobri e di calunnie che circolava, per apprezzare al suo giusto valore l’equanimità di Massinger. (È vero che la scena si svolge non in Inghilterra ma a Tunisi.) E di eguale indipendenza di spirito fanno testimonianza parecchie scene delle sue pur sadistiche e licenziose tragedie.
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Basterà citare I/ combattimento innaturale, inzuppata di sangue e colma di versi incestuosi; il Duca di Milano,
di una violenza morbosa. Vi sono anche alcune commedie, Ur nuovo modo per
pagare i vecchi debiti e La Madama di Città, che, rimodernate nel linguaggio e nelle situazioni, scomparvero dalle scene inglesi non più di cinquant'anni fa; e non è detto che non abbiano dato lo spunto ad alcune farse dell’Ottocento italiano. E spesso Massinger fa della bella eloquenza perfettamente connaturata ai suoi frenetici personaggi.
Quello della «tragedia di vendetta» è uno dei filoni più costanti dell’ispirazione elisabettiana. Come questo motivo, iniziato da Kyd nella sua Tragedia spagnola, sia sboccato nell’Arz/eto che è una tragedia di vendetta e nella Terzpesta che lo è anch’essa per quanto sublimata, costituirebbe motivo attraentissimo di uno studio che avrei in mente di compiere. Ma il fiorire più impetuoso della «tragedia di vendetta» si ha verso la fine dell’era elisabettiana, con l’opera di due grandi e misteriosi scrittori, Cyril Tourneur (+ 1626) e John Webster (f 1625). Della loro vita non si conosce nulla tranne la data, incerta, della morte. E ciascuno di essi ci ha lasciato due sole
opere, due «tragedie di vendetta», due capolavori. Le due tragedie di Tourneur sono: La tragedia del vendicatore e La tragedia dell’ateo, una del 1607 e una del 1611. In esse la tragedia di vendetta subisce una evoluzione: nella prima le speranze del vendicatore sono eluse all’ultimissimo istante; nella seconda, benché tutta
imperniata sull’idea di vendetta, questa non è più considerata un dovere e la virtù del perdono è esaltata in versi di luminosa bellezza. Ancor più potenti sono le due tragedie di Webster, ambedue di argomento italiano (l’Italia era la patria della «vendetta» e del delitto raffinato e «bello»): I/ diavolo
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bianco e La Duchessa di Malfi (Amalfi). Opere di prodigiosa intensità drammatica, veri e propri film gialli, | aventi per regista un gran poeta. La sontuosità del verso,
nero come l’ebano e rosso come il sangue, la tensione ininterrotta, le bellissime tragiche liriche, ne fanno due gemme sanguigne della letteratura inglese. Ambedue estratte da delitti realmente avvenuti in Italia (il primo dei quali doveva pure essere argomento di una mirabile novella di Stendhal), esse ingigantiscono i fatti ed i per-
sonaggi, li tipizzano e danno loro la grandezza del mito. E ambedue si chiudono con una nota di umana pietà, dopo tanto sangue compiaciutamente sparso, che ha riscontro soltanto in Shakespeare e in Heywood. Al suo tramonto il teatro elisabettiano ci ha lasciato queste quattro tragedie sanguinosissime e bellissime. Ma esse non sono ancora le ultime di questa lussureggiante epoca teatrale. John Ford (+ 1639?) ci ha dato poche opere, una delle quali pari a qualsiasi altra che non sia di Shakespeare: Peccato fosse una sgualdrina (1633). In essa l’urgere di una passione mostruosa ci è fatto sentire in modo impressionante, ed i versi asciutti, di una poeticissima pro-
saicità, accompagnano in ogni loro meandro i desideri e le azioni dei due protagonisti. Un capolavoro di tecnica, un capolavoro di contenuta poesia. Grande tecnico anche ma minor poeta James Shirley ($ 1666) che vien considerato l’ultimo dei drammaturghi elisabettiani. Perì nel grande incendio di Londra del 1666, che dovrà fornire argomento a Defoe per un capolavoro.* Scrisse due tragedie, il Cardinale e il Traditore,
che non mancano di vigore. Ed alcune commedie, I truc* Il capolavoro di Defoe A Journal of the Plague Year descrive in realtà la grande epidemia di peste che colpì Londra nel 1665.
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chi di amore, La bella spiritosa, L’impostura, Il giovane ammiraglio, che hanno vivacità e spirito. Artista corretto e, eccezionalmente, morale, chiude in tono sommesso e
dignitoso la sinfonia indiavolata del teatro elisabettiano. Quattro parole di riassunto e potremo passare ai lirici.
UN PO’ D'ORDINE
Lo sviluppo del teatro elisabettiano è tanto tumultuoso e ben nutrito che dopo un così lungo discorso è possibile che si sia perduto il disegno complessivo. Anzitutto bisogna dissipare un errore di prospettiva: la lunghezza dell’esposizione può indurre a credere che si tratti di un periodo lungo. Non è vero: la Tragedia spagnola di Kyd è del 1588, come il Tarzerlano di Marlowe. Con queste due opere si fa iniziare il periodo elisabettiano. Peccato fosse una sgualdrina, l’ultima grande tragedia elisabettiana, è del 1633: quindi in quarantacinque anni è compiuto tutto il ciclo di questo teatro, se se ne lasciano fuori le frange anteriori di Lyly e posteriori di Shirley. La verità è che tutte le grandi opere sono contemporanee. Vediamo un po’ di date: Tarzerlano e la Tragedia spagnola del 1588, come abbiamo detto. Sono cronologicamente un po’ sfasate. Ma tutti gli altri drammi di prim'ordine sono stati scritti durante il periodo di attività di Shakespeare, cominciando dal Doctor Faust di Marlowe che è del 1592, contemporaneo alla Comedia degli errori, e terminando con la Duchessa di Malfi di Webster che è del 1613, un anno dopo la Terpesta. Soltanto il capolavoro di Ford rimane fuori da questo schema. Da ciò si può desumere come sia puramente didattica la distinzione fra drammaturghi precedenti e drammaturghi posteriori a Shakespeare. Il dramma elisabettiano non subì una evoluzione, ma fu una esplosione. I massimi gradi di temperatura raggiunti dall’esplosione sono Shakespeare, Marlowe e Ben Jonson. Gli al-
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tri produssero opere financo superiori alle peggiori di Shakespeare e alle migliori di Marlowe e Jonson. Ma non furono in sé artisti altrettanto grandi se vogliamo considerare prova della grandezza totale di un artista una certa omogeneità e continuità di opere di prim’ordine. Quasi tutti uomini di vero, di straordinario talento e
foga. L'ispirazione veramente geniale si posò sul loro capo, e non di tutti, a intervalli.
Quali sono, secondo me, le opere geniali di questi non geniali poeti? Poche. Però sufficienti, se teniamo sempre presente che contemporaneamente scrivevano Shakespeare, Marlowe e Jonson, a formare la più grande successione di capolavori del mondo. Una donna uccisa con le buone maniere di Heywood; Arden di Feversham di Ignoto; Il
cavaliere del pestello fiammeggiante di Beaumont; Il rinnegato di Massinger, le due tragedie di Tourneur e le due di Webster; Peccato fosse una sgualdina di Ford. Nove opere in tutto, alle quali aggiungerei la mia odalisca segreta Bonduca. Dieci in tutto, diciamo. Dieci, le
trentasette di Shakespeare (mettiamocele tutte), quattro di Marlowe e sei di Jonson. Cinquantasette. E le opere di teatro scritte in quel periodo dovrebbero essere almeno duemila. Ognuna delle altre millenovecentoquarantatre rappresenta una speranza di gloria delusa. E orribile-il pen-
sarci.
LA LIRICA ELISABETTIANA
Il più grande lirico elisabettiano è stato Shakespeare; come fu il più grande prosatore. Ciò detto, passiamo ad altro.
Per parlare della lirica elisabettiana occorrerà, dapprima, rifarsi molto indietro. Arrivare al regno di Enrico VIII durante il quale di già troviamo ad aspettarci un gruppetto di poeti, squisiti. Tutti appartenenti alla classe elevata, tutti dotati di grande cultura, tutti (meno
uno) avendo compiuto i loro studi in università italiane (Padova in primo luogo, e Bologna) essi introdussero in Inghilterra le forme colte dell’arte italiana e i ritmi e la prosodia di Petrarca. Sappiamo, noi, quanto deleteria fosse, in Italia, l'influenza di questo grandissimo poeta e come essa uccidesse la lirica italiana nel Quattrocento e nel Cinquecento e nel Seicento e nella prima metà del Settecento (una di quelle «uccisioni» di generi letterari, completa, assoluta, sino al funerale e alla putrefazione — questo fu il Seicento italiano — quali solo si riscontrano nella nostra davvero strana letteratura). Per fortuna Petrarca non uccise nulla in Inghilterra; anzi ripulì, civilizzò, deterse il soverchio sapore popolaresco della letteratura precedente, e fornì forme stabili nelle quali l’ingenuo senso politico inglese si rassestò e giunse a vera compattezza di arte. Vedremo, traducendo alcune delle liriche «enriciane», quanta sensualità, quanto colore e quanta musica
può essere contenuta nella imitazione petrarchesca quando gli imitatori siano dei veri poeti.
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Alla testa del gruppo (non per colore poetico, ma per diritto di nascita) troviamo il Re in persona. In versi non privi di grazia egli, inaspettatamente, ci canta le lodi della costanza amorosa. Che cosa intendesse per «costanza amorosa» quel simpaticone che divorziò da tre mogli e ne fece decapitare due, noi non sappiamo. Il fatto è che i sonetti ci sono, e abbastanza ben rigirati.
Ma il vero re di questi poeti è Sir Thomas Wyatt che fu soldato, diplomatico e uomo di corte eminente, e del-
la cui simpatica e leale faccia ci ha lasciato magistrale riproduzione un disegno di Holbein. Egli fu davvero eccellente poeta, di una freschezza d’ispirazione quale non se ne trova per esempio in Italia fra Petrarca e Metastasio (e il tempo è lungo). Versi da gran signore dilettante, siamo d’accordo; scorretti e un po’ impacciati. Ma vivaci, odorosi di aromi terragni e boschivi, adorni di una
nobile familiarità e di gaia sensualità. Chi li ha letti una volta non potrà più dimenticarli; non potrà dimenticare il suo Appello serio ad un'amante cattiva perché non mi abbandoni con le sue strofe senarie conchiudentesi ognuna con una invocazione familiare e giovanissima. Non potrà dimenticare la Revoca, con le strofe agilissime a sette versi, che si chiudono alla fine con una adora-
bile trovata verbale. Ricorderà sempre la tenerezza sorniona della canzone A/ w20 liuto e soprattutto ricorderà il suo capolavoro, quei ventuno esametri maliziosi, sen-
suali, e di inusitata vena melodica nei quali il poeta si duole di non esser più perseguitato dalle ragazze come pare lo fosse prima. Un diamante di purissima acqua. (Leggerlo.) Ve lo figurate voi che cosa avrebbe scritto, su un tale soggetto, un nostro cinquecentista, il Bembo per esempio 0, peggio, il Trissino o magari il Tasso? Che profluvio di mitologia, quanti «seni di alabastro», che «mani ferali del Tempo», che sfoggio di vanitosa erudizione?
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Qui abbiamo invece una breve saporosa elegia, ricca di sentimento e di humour, quasi senza sentimenti generici e narrante in modo icastico un dato fatto preciso e significativo. Più gran signore ancora di Sir Thomas Wyatt, Henry Howard, Earl of Surrey, fu però assai meno dilettante-
sco: i suoi versi scorrono sempre, le strofe fluiscono eleganti e ben tornite. A me sembra più freddo e compassato di Sir Thomas Wyatt, ma egli passa per il maggiore dei poeti «enriciani» e quindi il mio torto è evidente. Per altro, seppure secondo me inferiore a Wyatt, Surrey è un poeta delizioso: le sue descrizioni di primavere fiorite, le sue tragicomiche disperazioni in occasione di un viaggio marittimo della sua bella, sono fresche e saporose (leggerle); soltanto sembrerebbero un po’ studiate se non fossero infuse di un humour discreto. Surrey morì a soli trentun anni, decapitato; in occasione di quelle zampate leonine che il «simpaticone» distribuiva, senza troppo criterio, a chi gli stava vicino. Le opere di questi due poeti ci sono giunte soltanto attraverso la Tottel’s Miscellany, una preziosa antologia della poesia del passato che un pubblicista fece stampare nel 1557, un anno prima cioè dell’accesso al trono di Elisabetta. La Miscellanea contiene anche delle poesie di Grimald, Lord Vaux e Somerset, oltre a più di cento
poemi detti da Tottel medesimo «di incerto autore». Quasi tutte queste opere sono di secondo ordine e più antiche di Wyatt e Surrey. La tradizione delle antologie sorse presto e dura ancora in Inghilterra: il Golden Treasury di Palgrave si ristampa continuamente, e l’Università di Oxford ne ha
pubblicato una vasta collezione. Se adesso le antologie servono a scopi culturali (sono tanto vaste da permettere di conservare poeti le cui opere sono introvabili o
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quelli che fra cento poesie ne hanno soltanto una che ci tocchi ancora il cuore) nell’epoca elisabettiana esse ebbero il merito di salvare, letteralmente, le opere di molti
autori che in quei tempi di straordinaria trascuratezza sarebbero di certo scomparse. Oltre alla Tottel's Miscellany furono pubblicate (sempre nel periodo pre-elisabettiano) altre raccolte di liriche, fra le quali il Paradiso di graziose trovate (1576), compilazione di Richard Edwards che era poeta, e poeta ispirato, anche lui; anzi la poesia di gran lunga migliore della raccolta è proprio sua: si tratta di un poemetto in ottave a ri-
me accoppiate nel quale il poeta evoca gli esempi di incostanza di amanti e di amici con un’accuratezza veramente
commovente posta in rilievo dal metro malinconico e un po’ greve e dall’uso quanto mai evocatore di parole dimesse (sempre lo stesso pregio). (Leggerla.) Vi sono altre due antologie, una di Clement Robinson con dei versi nei quali troviamo la «fonte» dell’interpretazione dei nomi floreali che Ofelia fa nel IV atto di Arzleto; e l’altra, Lo specchio dei magistrati, che c’interessa come transizione fra le cronache e le «storie» che furono una gloria del teatro elisabettiano. In esso si narrano tutti gli eventi tragici che hanno portato alla detronizzazione dei re dalla più remota antichità a Riccardo III George Gascoigne (probabilmente un discendente di quel magistrato maltrattato da Sir John nell’Enrico IV) morì nel 1577. Egli fu una individualità assai originale. Benché scrivesse versi tutta la vita, teneva a professarsi non-letterato e il suo nome nei libri è sempre seguito dalla menzione «per professione guerriero in difesa della verità divina». Era sprovvisto di talento ma dotato di un grande senso di attualità e a lui si devono la prima novella in prosa di vita moderna, la prima commedia in prosa, la prima traduzione in versi di una tragedia italiana, la prima sati-
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ra in forma oraziana, il primo rzasque e il primo trattato di arte poetica. Tutto mal fatto. Ciò che vi è di migliore in lui si ritrova in alcune brevi liriche, dove la forma stessa adottata pone un freno alla sua terribile prolissità che è il suo principale difetto. (Leggerne una.)
SPENSER
Quello di Edmund Spenser è il più grande nome di poeta tra Chaucer e Marlowe. Membro di un ramo impoverito della grande famiglia degli Spenser, il poeta subì una profonda influenza dai suoi studi a Cambridge. La prima forma di questa influenza fu quella data da Gabriel Harvey, il profondo e ardente controversialista, che mantenne con lui una ele-
vata corrispondenza che illumina il magnifico affermarsi in Inghilterra del Rinascimento italiano. La seconda fu quella di un «puritanesimo» raffinato che era allora assai in voga a Cambridge e che, in Spenser, fu piuttosto manifestazione di disdegno verso la carnalità e la rozzezza che avevano tanta parte nella civiltà elisabettiana. La terza fu quella di Platone, del quale egli fu traduttore elegantissimo. Del vero Platone, quello del Tzrzeo e del Strzposio, e non di quel neo-platonismo cristianizzato che proveniva dall’Italia e che venne adottato dai primi Riformatori inglesi; contro questo platonismo bastardo egli insorse sempre con quanta vigoria polemica poteva permettersi il suo spirito supremamente raffinato. Il vero platonismo, l’assorbimento dell'individuo nel seno delle Eterne Idee, è il substrato dei suoi due (a mio
avviso) migliori poemi: il Protbalamzion e l Epithalamion, che rivestono i più elevati concetti di versi la cui musicalità è insuperata. (Leggerli.) Essi diedero l’avvio a quegli altri poemi che anch'essi non scherzano: l’Endyrzion di Keats, e l’Epipsychidion e lAdonais di Shelley.
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Open the temple gates unto my love, Open them wide that she may enter in...
Mai violoncelli hanno suonato più dolcemente di così. Perché è appunto la musicalità la caratteristica più evidente di Spenser; più che un poeta egli è un musicista che adopera parole. Musicista a tal punto che si creò da sé una lingua raffinatissima e popolare, e anche i metri, la cosiddetta «strofa spenseriana» che gli permetteva di soddisfare la sua insaziabile sete di musica. To ne sono pazzo. Ma i due poemi nominati non passano per i maggiori
di Spenser. Quelli che sono considerati la sua gloria sono i due lunghi poemi epici (nel senso che narrano, non nel senso guerriero) The Sbepheard's Calender e soprattutto The Faerie Queen (1590). Lungi da me il dire che valgono meno dei due primi. Sono dei capolavori ed è proprio in essi che le strofe spenseriane incantano e avvincono i cuori come e più di Mozart. Ma all’altero platonismo dei due Epitalarzi egli volle sostituire qui delle oscure allegorie anche politiche. Se si considerano come raccolta di frammenti politici sono opere di primissimo ordine; ma non bisogna troppo addentrarvisi; e allora si scopre che la fata Gloriana è Elisabetta, la fata cattiva Duessa è Maria Stuarda; e queste due eminenti ma poco fatate signore ribassano di colpo l’entusiasmo poetico. Poiché queste insufficienti conversazioni hanno per scopo d’indicare ciò che vi è di bello nella letteratura inglese, vorrei consigliare di leggere per intero, di leggere più volte, di leggere instancabilmente il Prothalamion e l'Epithalamion; di leggere larghi estratti dello Shepheard's | Calendar e di leggere moltissime strofe separate della Faerie Queen ma di evitare di leggerne il complesso, di seguireil suo intreccio, al fine di conservare intatta l’impressio-
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ne di supremo artista della parola che è giusto che Spenser ci dia. Egli fu quasi accoppato in una rivolta di contadini in Irlanda, e morì, poco dopo il fattaccio, a Londra.
È certo una delle glorie maggiori della poesia inglese, benché da qualche tempo gli si voglia togliere il primato di lirico elisabettiano a favore di Donne. E la sua influenza è stata, ed è, incalcolabile.
A questo punto le storie letterarie inglesi trattano di Sir Philip Sidney e di Sir Walter Raleigh. Io non lo farò. Essi sono di suprema importanza per la storia del costume inglese più che per la storia della letteratura. Il primo, amicissimo di Spenser, scrisse un notevole romanzo, Arcadia, del quale ci occuperemo quando si parlerà della prosa elisabettiana; ma vale soprattutto quale tipo del gentiluomo di quei tempi, valoroso soldato, diplomatico esperto e uomo di alto e nobile sentire. Dei suoi atti di altruismo e di coraggio sono piene le memorie dei bambini inglesi. Scrisse delle graziose liriche. Il secondo è il tipo più energico del conquistador anglosassone, che è sempre (anche adesso) foderato di un poeta. Può essere reputato il fondatore di quelle colonie inglesi che divennero poi gli Stati Uniti. Uomo di prim'ordine, perì sul patibolo. Aveva inclinazioni e gusti letterari (scrisse una Storia Universale).
co,
THOMAS CAMPION
Thomas Campion è un tipo che presenta un grande interesse: vero uomo del Rinascimento, egli ci appare come uomo che eccelse in tre professioni: quella di poeta, quella di musicista e quella di medico. Scrisse anche dei versi latini e tutto un trattato di arte poetica apparso nel 1602 e che è interamente dedicato a combattere l’uso della rima nella poesia inglese. Sembra quasi superfluo aggiungere che quasi tutti i suoi versi e la totalità dei suoi migliori sono bellamente e riccamente rimati. Come medico la sua carriera fu brillante ma sventuratamente fu troncata da una brutta storia che gli capitò quando fu implicato in un processo per avvelenamento, nel corso del quale la colpevole, che aveva avvelenato diciassette persone (marito, padre, madre, sorelle, fratelli, cugini, zii e due cani) asserì che era stato il suo medico, Campion, a fornirle il veleno. Pare che riuscisse a provare la sua buona fede; ma fu assolto con formula
dubitativa. Meno venefiche dovevano essere le sue musiche, e so-
prattutto il suo trattato di contrappunto che continuò ad essere in uso sino al Settecento. Salutari e addirittura tonicizzanti sono invece i suoi versi che sono racchiusi in cinque Books of Ayres pubblicati dal 1601 al 1617. Sono una serie di numerosissimi poemi brevi, fatti per essere cantati su musiche dello stesso autore, e che trattano tutti i temi, da quelli più morali a quelli più libertini. La loro varietà ritmica è notevolissima ma soprattutto la lingua e le immagini sono incantevoli.
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Vi si respira la più pura grazia elisabettiana e quei subitanei passaggi dal linguaggio nobile a quello popolaresco che costituiscono il pregio supremo di questa lirica. Si va
dall’aggraziata mestizia del principio di una lirica alla giocondità aperta e campagnola o all’umorismo mitologico di un’altra, e tutt’un tratto dei versi pensosi: «Thou are not sweet, though made of pure delight». Ma si vede che la sua ispirazione non era di lunga durata; i due ultimi Books of Ayres sono di qualità nettamente inferiore ai primi e si perdono in concettismi e cincischiature poco decorose. Rimane però un eccellente poeta, pieno di go nei suoi buoni momenti e che ci lascia uno dei migliori ricordi (dopo i grandi, s'intende) di quella lirica elisabettiana che è così stranamente diversa dal sentimento dei grandi drammaturghi.
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ALTRI POETI LIRICI
William Drummond of Hawthornden è notevole, oltre
che per i suoi meriti intrinseci, per esser stato il primo scozzese che abbia lasciato traccia di sé nelle lettere inglesi (1585-1649). Cominciò a scrivere tardi e forse per questo, allevato nel clima men buono del regno di Giacomo, il suo verso si compiace in piccole antitesi e senti-
menti meschinelli. E anche come scozzese (accusato allora di conoscere male la lingua) adotta un linguaggio aulico e pomposetto, rinunziando così a una delle più sicure grazie degli altri lirici. Non sempre, però, è mediocre: un suo sonetto all’usi-
gnolo non è privo di pregi. Anche Michael Drayton è un buon poeta, con le sue buone limitazioni: è, non si sa bene perché, supremamente noioso. Appare in lui l’uso troppo frequente di una mitologia non vivificata da un sentimento urgente; le sue poesie patriottiche sono di stupefacente prolissità ma quella sulla battaglia di Agincourt che tratta lo stesso argomento dell’Exrico V di Shakespeare è di grande utilità per noi: c'insegna la differenza che corre fra un grande poeta come Shakespeare e un’onesta mediocrità come Drayton e conferma (per me) la mia opinione della grande utilità che si ritrae dalla lettura dei cattivi poeti e dei cattivi romanzi quale incitamento ad amare i buoni. Per restare a casa nostra, vi consiglierei di leggere (durante un'ora) la Margherita Pusterla e le odi di Monti e di passare subito dopo ai Prorzessi Sposi e a Foscolo. Vi accorgerete che quelle pagine sulle quali passiamo
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con benevolo compiacimento annoiato sono in realtà dei miracoli. Con Sir Henry Wotton ritorniamo a quei poeti senza talento che però ebbero, un istante, la Grazia. Wotton la ebbe tre volte, per brevissimo tempo ogni volta; ma la ebbe completa. Il suo madrigale di venti versi You 72ea-
ner beauties of the night è squisitamente perfetto, degno di Carew. I suoi ventiquattro versi su «Una vita felice» respirano una semplice e forte umanità; ma il suo capolavoro è un epitaffio di due versi; il solo epitaffio che io
conosca nel quale si sia riusciti a introdurre dell’humour pur mantenendolo rispettoso e commovente. Di nuovo incontriamo, fra i lirici, la strana figura di Fulke Greville, Lord Brooke; e lo incontriamo sempre
singolare, impappinato, tongue-tied, ed eminentemente poetico in sé. Di questo fantomatico personaggio la cosa
più bella è (ancora una volta) il suo epitaffio, scritto da se stesso: Fulke Greville — Servant to Queene Elisabeth Conceller to King James Frend to Sir Philip Sidney Trophaeum Peccati
che in quattro righe ci dice la sua leggendaria devozione a Elisabetta, il suo (celato) disprezzo per Giacomo I, l'orgoglio di essere stato l’amico di un grand’uomo, e l’autocoscienza dei propri peccati che furono grandissimi. E l’orgoglio si erige in trofeo.
ISONG BOOKS
Grande sarebbe, oggi, la nostra sorpresa se qualcuno dicesse che le migliori liriche del 1953 bisogna cercarle non nella raccolta di Montale o di Ungaretti ma nei foglietti di canzoni di Piedigrotta che gli organini vanno vendendo per le strade. Eppure per la lirica elisabettiana è proprio così. Le due più grandi liriche del tempo non si trovano fra i vari Drummond, Wotton o Carew. Esse sono contenute in
uno degli innumerevoli Books of Ayres che si andavano vendendo (ne conosciamo il prezzo) a tre pence, «not far from Blackfriars». Una è di quel Thomas Nashe che abbiamo già incontrato quale drammaturgo minore e polemista (* 1601). Non ha titolo ma è il lamento di una donna che sta per morire in tempo di pestilenza. Argomento raccapricciante, come si vede; ma trattato con tale delicato impeto, con una così sottile eerzzess, con un senso tale del ritmo da
farne un rasserenante capolavoro. E quel ritornello di due versi, uno pienamente terreno, il secondo di speranza in Dio è indimenticabile. La seconda è di Thomas Ford, da non confondersi
col drammaturgo John, un autore del quale conosciamo soltanto un’altra poesia, carina ma di tutt'altra qualità. Questa è una specie di elegia, o per meglio dire un «contrasto» nel quale si sente soltanto la voce dell’uomo e quella della donna s’indovina (una conversazione telefonica a teatro). Il poeta ha scelto una sfumatura psi-
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cologica inconsueta: quella del momento in cui si cerca di evitare un dissidio che non è ancora scoppiato. Anche il metro adoperato è raro: è il lungo verso di sedici sillabe così difficile da esser maneggiato in inglese. Il risultato è di qualità eccezionale: la sorda passionalità mascherata dall’humour, il tono, per questo, or grave (pensate al primo verso di andatura quasi religiosa) ora disinvolto; la chiusa che riafferma un amore, senza che dall’altra parte del telefono giunga una risposta. Ho sempre desiderato di sentirla recitare da un buon
attore, appunto davanti a un telefono. (Si potrà dire che questo mio è un desiderio ridicolo e poco serio; non lo credo; esso dimostra ad ogni modo la perennità del momento colto da Ford, la sua duratura felicità di espressione se esso può suscitare sia pure in un incompetente il desiderio di sentir esprimere questi versi eternamente giovani così come li esprimerebbe un giovane di oggi.) I Song Books (che uscirono a dozzine durante il regno di Elisabetta) hanno una media di buone produzioni superiore a quella delle raccolte ufficiali di poesie. E, in miniatura, la riproduzione della maggior lotta fra Ur: versity Wits e uomini del teatro di Southwark.
JOHN DONNE
Reso esperto dall’errore commesso nel trattare Shakespeare prima degli altri drammaturghi, avevo deciso di trattare John Donne in coda agli altri lirici del suo tempo. E ciò per riguardo ai lirici minori che sarebbero stati sommersi nell’ombra proiettata da questa grande e misteriosa figura. La sua vita è intensa e strana, non già come quella di Marlowe e di tanti altri suoi contemporanei, ma di una stranezza interiore, colma di subitanei ravvedimenti e di
crisi intime. Nato, pare, nel 1571, proveniva da famiglia cattolica e d’intellettuali: era nipote di John Heywood, quel poeta drammatico cui accennavamo che era morto in esilio in Francia, e parente non lontano del grande
Thomas More. Fu educato nella religione cattolica ma a venti anni si accostò all’anglicanesimo portando però con sé tenaci ricordi cattolici che affioravano in tutte le sue opere. Entrò a Oxford e vi studiò e fece bagordi, entrambi con la passione e intensità della sua natura. Alla uscita dell’Università si arruolò soldato e prese parte a quelle drammatiche spedizioni di Essex a Cadice e alle Azzorre che dovevano finire così male (1597). Un biografo contemporaneo dice che «combatteva con la triste furia di un dannato». Durante la seconda di queste spedizioni si legò di amicizia con il giovane Thomas Egerton, figlio del Guardasigilli, e al ritorno diventò segretario di questo uomo di stato. La sua carriera che prometteva bene venne spezzata perché gli venne in testa di sposare segretamente la nipote del grande uomo, Anna. Apriti cie-
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lo: fu subito licenziato e cacciato per qualche tempo in prigione. Mentre era segretario aveva viaggiato parecchio, con incarichi ufficiali, in Italia e in Spagna; e ne conobbe assai bene le letterature, il che traluce nelle sue opere senza che però mai vi si scorga l'influenza di un particolare scrittore. Dopo il suo licenziamento conobbe la vita miserabile dello scrittore che vive dei sussidi dei potenti: scriveva odi funebri per la morte di persone che non aveva mai conosciute, redigeva dei trattatelli anti-cattolici e scrisse un opuscolo di funebre e ornatissima prosa, il Biotharatos, nel quale si sforza di provare con argomenti religiosi non essere il suicidio quel grande peccato che tutti i teologi condannano. Fin dal 1607 pensava di prendere gli ordini sacri (anglicani) ma la vita irregolarissima che conduceva (della quale ci restano numerose, e indecenti, tracce nella sua
opera) glielo vietava. Nel 1615 si decise. La sua carriera ecclesiastica fu rapida: le sue straordinarie facoltà di oratore sacro e le sue infinite conoscenze teologiche gli fecero fare passi da gigante. Nel 1621 fu fatto Decano della Cattedrale di San Paolo a Londra, e certo avrebbe raggiunto il vescovado se nel 1631 non si fosse gravemente ammalato. Un giorno volle alzarsi, salì sul pulpito e pronunziò la propria orazione funebre. Due ore dopo, infatti, se ne morì. La sua tombaè a San Paolo, a sinistra della crociera.
Lo si vede sorgere dalla tomba avvolto nel sudario. Una cosa di una eeriness fuori dal comune. La sua opera mantiene e supera le promesse contenute in questa agitata vita, passionale, solitaria ed erudita,
perpetuamente ossessionata dalla idea della morte. Dei grandi poeti metafisici egli è il secondo, dopo Dante. Possedeva in sommo grado la qualità, essenzialmente cattolica, di rendere visibile il metafisico mediante gli oggetti terreni. E benché poeta fondamentalmente reli-
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gioso appaiono in lui frequenti sprazzi di anarchismo intellettuale, talvolta spaventevoli, come per esempio nel Poema satirico: le vie dell’anima, pubblicato nel 1601, che cerca di estendere la catena della metempsicosi da-
gli animali ai vegetali e si studia di rintracciare gli avatars del pomo mangiato da Eva. Fortunatamente non procede più in là di Temech, sorella di Caino, «quel Caino che per primo odiò». E su un elogio del fratricida di una violenza, di un disprezzo e di uno scetticismo byroniano, il poema si chiude. Come si vede siamo lontani da Sir Henry Wotton e da Spenser. Mi dispiace per voi, ma a me riuscirà molto gradevole riordinare qui i miei ricordi delle letture che durante anni ho fatto di questo ambiguo e attraentissimo poeta. Se volete possiamo saltare e passare alla prosa. Quali sono queste opere: canzoni e sonetti, epigrammi, elegie, epitalami, satire, lettere a differenti personaggi, elegie funebri, Le vie dell'anima (del quale abbiamo già parlato), poemi teologici. Inoltre come prosa vi sono i famosi Serzzoni che gli assegnano un posto di prim’ordine fra gli oratori sacri, e qualche trattato teologico fra i
quali il Biotbanatos del quale parlammo. Tutto in uno stile trascurato, violento e caldo di un fuoco interiore, non si sa se divino o infernale. I Sonnets and Songs sono una serie di poemi di forma irregolare e il nostro Donne battezza «sonetto» qualsiasi poesia di quattordici versi anche se divisi in due strofe di sette. Sono cinquantotto poesie. E rileggendole adesso nel mio vecchio libro mi accorgo che non ve ne è una sola che non sia segnata a fianco a matita. E giustamente. Non ve ne è una sola di second’ordine, come non ve ne è nessuna perfetta. Tutte sono colme di insolenza, di cinismo, di aspra carnalità, tutte «se la prendono» con
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qualche cosa: in quella sul «levar del sole», che in principio può sorprendere per la sua tenerezza, ci si accorge che il poeta, non avendo altro sottomano, insolentisce il
sole. Sono un indiscutibile capolavoro nel quale fra descrizioni di abbracciamenti e brutalissimi giochi di parole sull’infedeltà femminile (e maschile) circola onnipresente, mascherata in mille modi, la Morte. Nel rileggerle vi noto una scarsezza (non una assenza) di bei versi, cioè
di versi torniti, lucidati e significativi per se stessi; e invece una nascosta armonia di ogni singola composizione. Il che, insieme all’humour sempre bizzarro e alle
personalissime disposizioni dello spirito dell’autore, ne fanno uno dei più notevoli insiemi di poemi della lirica inglese. Gli Epitalami, che sono tre, sono assai mediocri. Evidentemente scritti su ordinazione, ed evidentemente pure, in gioventù, sono colmi di arguzie, di concettuzzi e di
velate (e non velate) porcheriole. Le Elegie ci mostrano un Donne più disteso di quello che si rivela nelle Canzoni e nei Sonetti. È difficile stabilire la cronologia dei versi di Donne perché essi vennero tutti (tranne quattro poesie) pubblicati in blocco dal figlio dopo la sua morte: ma ad occhio e croce esse debbono essere posteriori alle Canzoni. Sono certamente anteriori (almeno lo spero) al suo ingresso negli ordini sacri. Debbono appartenere a quel periodo misero della vita di Donne nel quale egli doveva vivere facendo il «bello spirito» presso i suoi protettori. E poiché testimoniano di una certa serenità mi arrischio a far l’ipotesi che questa vita di bohème si confacesse più alla sua calma spirituale di quanto non facessero le cariche di stato e le dignità prelatizie. Sia come sia, nelle elegie troviamo per la prima volta un canto spiegato come nella IX (E/egia autunnale) nella quale, pur tra ironie amare, brillano coppie di versi che hanno lo splendore di quelli dei Sonetti shakespeariani e
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una sorta di spezzatura di ritmo di commovente e originale effetto; oppure quella strana E/egia del profumo che è ben più una satira che un’elegia e ci mostra Donne nel suo meglio, ironico, sensuale, e, contro nostra voglia, at-
tirante. O ancora nelle molte di un così strano libertinaggio, nelle quali la donna è mostrata addirittura senza anima, e appunto per questo idolatrata. Occorre leggerle tutte e venti se si vuole avere la vera immagine di Donne, intendo dire la vera immagine di uno dei Donne, di quell’uomo lussurioso e disperato che riusciva a convivere con l’altro Donne, il severo teologo che doveva scrivere i più austeri sermoni e alcune delle migliori liriche religiose di quella letteratura inglese che di poeti mistici sarà così ricca.
Mistici, ho detto. Ed ho sbagliato. Tra i poeti religiosi Donne ha il suo posto, eminente. Fra i mistici, no. Il ra-
pimento in Dio di Crashaw, l'abbandono fiducioso non già alla Misericordia ma alla Volontà divina (quale essa sia) di Milton, l’anelante sforzo di Blake per penetrare l’Essenza Divina gli mancano: egli esalta con sontuosa eloquenza i meriti di Dio, lo ama come benefattore, ma
non gli si abbandona. Egli non ha padrone. Unica sovrana di questo altissimo spirito è la Morte. Da quanto vo dicendo si capirà quale interesse presentino i Divine Poems (Poemi teologici) di Donne e gli altri poemi religiosi. È quasi inutile citare e invogliare alla lettura; Donne
dev'esser letto per intero, o, per lo meno, per raccolte intere: nell’insieme il suo estro disordinato assume una apparenza di ordine, le varie parti si equilibrano, e si finisce con l’aver dinanzi una architettura di stile borromiano, con campanili attorcigliati e strane finestre sospese, si direbbe, nel vuoto. E soprattutto con immensi,
illimitati, echeggianti sotterranei nei quali sembra udire un rombo di acque furiose; acque che, possiamo soltanto sperarlo, non sono quelle del Flegetonte. Figura er-
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metica nel cui scarpino di prelato sembra talvolta di scorgere un piede caprino, lo si può paragonare forse a un Verlaine più virile, un Verlaine che fosse più realmente peccatore e più realmente pentito.
LA PROSA ELISABETTIANA
L’Elisabettiana fu anche una grande era per la prosa inglese. Mentre però la poesia doveva di botto salire in essa alle più alte cime, la prosa segue un cammino più circospetto e non fiorisce del tutto in Inghilterra che nella seconda metà del Seicento. Nel tardo periodo elisabettiano abbiamo un grande prosatore, Francis Bacon, la cui insuperata importanza
esula tuttavia da una storia della letteratura per rientrare in quella della filosofia. Prima di lui e insieme a lui abbiamo un numero notevole di eccellenti ed aggraziati prosatori. Non si può negare però che il Cinquecento inglese non presenta figure di prosatori da poter eguagliare il francese Montaigne o il nostro Machiavelli. Machiavelli. Nome che riveste una importanza di prim'ordine nella storia della prosa (e non solo della prosa) inglese. Il segretario fiorentino cristallizzò intorno a sé tutti i sospetti, tutte le ire, tutti itimori anche di questo popolo giovane e che vide in lui l’incarnazione di tutta una civiltà invecchiata che non poteva essere che nemica. Ho già detto che nel Quattrocento mancava ancora il Nemico al completo sbocciare della letteratura inglese: sotto Elisabetta il Nemico si trovò: Niccolò Machiavelli. La leggenda che si formò intorno a lui ne falsò completamente la figura: ne fece un campione della monarchia spagnola e della Curia Romana (ed era invece il difensore della Repubblica Fiorentina e l’autore della Mandragola), lo caricò non solo dei suoi reali «peccati» ideologici, ma anche di quelli ben più effettivi dei Borgia e di
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Filippo II; si trasformò questo costumatissimo uomo in un mostro di sregolatezza e di lussuria; si arrivò a tal punto, insomma, da creare il nomigolo di «old Nick», il vecchio Nicolino, per designare il Demonio; modo di dire che sopravvive ancora nella lingua inglese, e Nic-
colò Machiavelli compare in persona, maestro di crudeltà, nel prologo dell’Ebreo di Malta di Marlowe. Il bello è che il Principe venne tradotto in inglese soltanto nel 1640, quando già la furia anti-machiavellica era in decrescenza. Intanto dei pazienti eruditi hanno spulciato più di trecento citazioni ed allusioni a questa opera nel teatro elisabettiano di parecchio anteriore a questa data. La spiegazione è duplice: anzitutto che molti inglesi leggevano Machiavelli nel testo, la conoscenza dell’italiano essendo diffusissima allora e quasi d’obbligo per ogni persona con aspirazioni culturali; e dopo, che circolava largamente in Inghilterra la traduzione di uno scritto francese dell’ugonotto Innocent Gentillet, intitolato L’Ant-Machiavello, che riportava
numerose citazioni del Prizcipe condite da innumerevoli illazioni ed adornamenti. L'Arte della guerra invece e le Storie fiorentine furono tradotte assai più presto, rispettivamente nel 1560 e nel 1592. D'altra parte consta che il Principe era il libro preferito di Thomas Cromwell e dei grandi uomini di stato elisabettiani Cecil e Leicester, i quali lo studiavano, lo apprezzavano e lo traducevano in pratica, sempre tacendo. Nel che mettevano il loro profondo senso politico: Machiavelli è autore che si può, e forse si deve, seguire in politica, ma a patto di rinnegarlo pubblicamente, se no non si è più machiavellici. Federico II di Prussia lo ebbe sempre a maestro, e appunto per questo scrisse l'A Machiavelli. Era riservato al nostro Mussolini il dettare una tesi di laurea su Machiavelli, ottenendo l’effetto di
svegliare tutti i sospetti.
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Ma, Belzebù a parte, l'Inghilterra elisabettiana è stata una formidabile traduttrice. Tutta la letteratura greca, tutta la latina, le opere più notevoli della letteratura italiana, francese e spagnola vennero tradotte in quegli anni, alcune in modo perfetto. La traduzione dell'Iliade di Chapman è una grande opera poetica inglese, e quella dell’Odissea, anche di Chapman, le è inferiore soltanto
perché il traduttore volle impiegare un metro a rime baciate che rallenta singolarmente il potente flusso omerico. A questo fervore di traduzioni prese parte anche la Regina, buona umanista, che tradusse in prosa dal greco due orazioni di Isocrate e dall’italiano otto canti del Fyrioso in esatte e smorte ottave con la medesima disposizione ritmica dell’originale. Vi furono in quegli anni due traduzioni della Gerusalemzzie Liberata (1594 e 1600); il Lazarillo de Tormes fu tradotto alla fine del 1586 e il Don Chisciotte nel 1612. Dante era totalmente sconosciuto.
Tre, oltre a Chapman, sono i traduttori che hanno valore quali artisti inglesi. Il primo di essi è Sir Thomas North che nel 1579 pubblicò la sua traduzione delle Vite parallele di Plutarco. Egli non conosceva il greco e si contentò di tradurre dal francese la celebre versione di Amyot. Ma egli infuse nuova vita al vecchio testo e creò un’opera eccezionale, una «suite con variazioni» su temi
greci e romani, redatta in una prosa magistrale, egualmente lontana dalla frigidità e dalla eccentricità. Shakespeare la giudicò degna di essere trasportata di peso nel suo Giulio Cesare, nell’Antonio e Cleopatra e nel Coriolano e ciò è un grande elogio. Grande umanista invece e profondo conoscitore del greco e del latino fu Philemon Holland che tradusse le Opere morali di Plutarco, i Di4loghi di Platone, le Storie di Livio e inoltre tutto Svetonio e tutto Plinio, in una
prosa di tale limpidità e modernità che le sue traduzioni
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sono ancora le più ristampate in Inghilterra con la sola correzione dell’ortografia. Un posto di riguardo fra i traduttori merita Giovanni Florio (+ 1625), un calabrese di nascita, che tradusse i Saggi di Montaigne e che stampò nel 1598 una specie di strano dizionario,
A World of Words, che pare sia diver-
tentissimo per le strane cervellotiche etimologie che egli escogita. A noi Giovanni Florio deve essere particolarmente caro perché è alla sua opera che dobbiamo di avere una delle cinque firme autografe di Shakespeare, che è bellamente esposta alla Biblioteca del British Museum, scritta appunto sul frontespizio della traduzione di Montaigne fatta dal Florio.
LA BIBBIA
L'importanza di tutte le traduzioni cui ho accennato è meschina se paragonata con l’influsso avuto dalla traduzione completa della Bibbia. Fin dalla metà del Trecento vi erano state in Inghilterra le due traduzioni della Bibbia di Wyclif, condotte sulla Vulgata. Verso il 1530 Tindale, il sapiente riformatore (che finì bruciato vivo dagli spagnoli), aveva tradotto i Vangeli dal testo greco. Ma essendo la Bibbia diventata arma di battaglia fra anglicani e cattolici, fra presbiteriani e anglicani, si sentì il bisogno di una traduzione diretta dal testo ebraico. Essa fu compiuta dal 1606 al 1611 da una commissione di dotti, che adottò
per i Vangeli la traduzione di Tindale. Questa versione, che è chiamata The Authorized Verson, è quella ufficialmente ammessa in tutte le chiese di lingua inglese, siano esse anglicane, presbiteriane, meto-
diste, battiste o quacchere o delle miriadi di altre sfumature, in Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canadà, Nuo-
va Zelanda. Essa è il libro del quale si sono fatte più copie al mondo (superano i sette milioni) e da essa sono state fatte tutte le versioni che la «Bible Society» ha curato, nelle più remote lingue del mondo e nei dialetti più primitivi dell’Africa centrale e del deserto australiano. È un’opera di prosa magistrale, severa e dignitosa ma nella quale, nella migliore tradizione elisabettiana, non mancano parti di lingua ingenua e quasi villereccia. L’influenza di questa versione sulle lettere inglesi (e sul carattere inglese) è illimitata. Presente per secoli in ogni famiglia, letta ad alta voce ogni sabato sera presso il fo-
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Letteratura inglese
colare, libro di testo nelle scuole, collocata ancora ades-
so sul tavolino da notte in ogni albergo della provincia, il suo stile è penetrato in ogni poro dei libri inglesi che la seguirono. Gli «ebraismi» nell’inglese sono frequenti; e il lettore inesperto di romanzi inglesi, anche gialli, è talvolta sorpreso da certi giri di frase e da certi costrutti sintattici e li attribuisce ad originalità dell'autore, mentre non sono che ricordi dell’Ecclesiaste o vezzi stilistici di Isaia.
I PROSATORI ORIGINALI
Il più antico dei prosatori «d’arte» elisabettiani è stato quel John Lyly ($ 1606) che abbiamo di già incontrato fra i drammaturghi «universitari». Qui lo ritroviamo con i suoi pregi (cultura, coscienza artistica) e con i suoi grandi difetti (manierismo, gusto della parola per la parola, concettosità tutta esteriore); nondimeno è suo il
merito di aver scritto il primo romanzo inglese. Questo fu Euphues (1578) che fu seguito due anni dopo da Euphues and his England. Dallo stile pieno di sorprese, di giochi di parole di questo romanzo (pastorale, è superfluo dirlo) si è formata in inglese la parola eupbuism che equivale al nostro «marinismo» e al calunnioso modo di dire «gongorismo». Di molto maggior valore artistico è l’Arcadia di Sir Philip Sidney (1590); ispirato all’opera omonima di Sannazzaro, il romanzo è adorno di canzoni bellissime, e di mediocri imitazioni delle nostre ottave e terzine. Ma le pagine di prosa sono delle vere «prose d’arte» come si direbbe oggi, fredde sì, un po’ troppo farcite di concetti, ma musicali e gradevoli. Il disegno dei caratteri, le doti di osservazione sono nulle.
Paragonati con questi due scrittori super-colti, Greene e Nashe fanno figura di bohèrziens. Greene diceva di se stesso che aveva spirito (25%) inviato dal cielo e vizi inviati dall'inferno. La verità è che il Pardosto e il Perimedes del primo (1588-1589) e il Viaggiatore sfortunato del
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secondo (1594) cominciano ad avere un certo piglio «realista» che oggi ci seduce. Thomas Dekker, benché non abbia scritto veri e pro-
pri romanzi, può passare fra i narratori perché negli innumerevoli libelli che scrisse inserisce con buona grazia e spirito vivaci schizzi della vita quotidiana. Egli è inoltre notevole per aver introdotto due nuovi «temi» nella letteratura inglese. Il primo, quello della compassione e dell'amore per gli animali (la frase corrente in inglese «our dumb friends» è stata coniata da lui) in un suo famoso libello contro il bear-baiting, cioè dei combattimenti fra orsi (incatenati) e cani per le strade; il secondo non può dirsi invenzione di un tema ma inizio di tradizione, cioè quella, inglesissima, dello scrittore che con la sua opera influisce sulla legislazione. La legge parlamentare che nel 1638 vietò il bear-bazting fa esplicito riferimento all’opera di Dekker. Tradizione che fu poi luminosamente seguita: e tutti sappiamo come l’Areopagitica di Milton influì sulla legislazione per la stampa, come il David Copperfield e la Little Dorrit di Dickens operarono per la regolamentazione del lavoro dei bambini e l’abolizione della prigione per debiti, quale parte avesse la Beecher-Stowe nell’abolizione della schiavitù dei neri, e come la denuncia fatta da Wilde degli orrori delle prigioni portasse alla riforma del sistema carcerario. Abbiamo già accennato all’importanza dell’opera di Francis Bacon; qui ci resterà solo da dire come egli nelle opere che scrisse in inglese si ponga come il più grande
dei prosatori elisabettiani (dopo Shakespeare). I suoi Saggi pieni di saggezza sorridente sono dei veri e propri
capolavori per il pensiero e la forma leggera e colorita. Valgono quelli di Montaigne; e inoltre iniziano una grande tradizione perpetuatasi sino ai nostri giorni attraverso i grossi nomi di Addison, Lamb, Chesterton,
Le origini - Chaucer - Gli elisabettiani
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Beerbohm e Belloc.
Non sarebbe giusto chiudere senza aver fatto cenno di Richard Hakluyt, che dedicò la sua vita alla raccolta
delle tradizioni marinare inglesi e al racconto dei vari viaggi di scoperta. E qui si chiudono le nostre conversazioni tanto sulla prosa quanto sull’epoca elisabettiana in genere. Quattro parole di sintesi e, dopo, ci rivedremo in pieno periodo rivoluzionario e puritano.
SINTESI SUPERFLUA PER UNA NECESSARIA CONCLUSIONE
In fondo non c’è molto da dire. Il teatro è l’espressione suprema dell’arte elisabettiana e quel che ho detto come | conclusione alla modestissima mia esposizione di quel teatro serve benissimo per tutto quanto il periodo. Frutto di una lenta incubazione, portata al mondo da due fattori, uno esterno, il Rinascimento, l’altro interno, la Riforma, favorita nella nascita dal clima storico fatto di speranze e di lotte, la letteratura elisabettiana esplode, letteralmente, e si consuma in meno di cinquanta anni. Mai si vide né nell’età di Pericle, né in quella di Dante, mai si vedrà dopo né a Weimar né a Parigi una tal quan-
tità di personalità geniali in così breve lasso di tempo. Tutte le opere elisabettiane sono opere tese; intendo dire uscite vibranti da una mente irrequieta. Come letteratura serena non vedo davvero che gli Epitalami di Spenser. Letteratura che si adorna del nome supremo di Shakespeare; ma che brilla di altre gemme che sono secondarie soltanto per la presenza di questo Koh-i-noor. Ripensiamoci; e rivediamoli un momento questi «bards of passion and of mirth»: Marlowe, Jonson, Haywood, Ford, Tourneur, Webster; e fra i lirici Wotton, Wyatt,
Spenser e Donne; e fra i prosatori Dekker e Bacon. E gli anonimi, gli autori dell’Arden of Feversham e di tante canzoni; e i minori ma tanto valorosi Massinger, Beau-
mont, Fletcher, Surrey, Lyly, Greene e Nashe. E North,
Holland e Tindale. Letteratura omogenea (un rigo scritto da un elisabettiano si riconoscerebbe come tale anche tradotto in ci-
Le origini - Chaucer - Gli elisabettiani
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nese); ma anche letteratura sfumata, evolventesi pur nel
suo periodo limitato. Letteratura che ha affrontato tutti i temi, letteratura
impavida che ha saputo darci il Sogno di mezza estate e la Duchessa di Malfi, i mazzi di fiori di Wyatt e le spine di Donne, Falstaff e Arzleto, i tuoni di Re Lear e le armonie celestiali dei Soze di Shakespeare, l’incesto di Ford e l’amore di Giulietta. La letteratura inglese continuerà dopo con non diminuito impeto e continua in questo momento a fiorire
non fosse che con Fry e Eliot, Greene e Huxley. Ma quando Johnson chiama l'Inghilterra «un nido di usignoli canori» il nostro pensiero va per primo al canto immortale che durante cinquanta anni si elevò fra il sangue e la controversia del grande Regno. TO THE HAPPY FEW
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Parte seconda
L’ETÀ PURITAN A - LA RESTAURAZIONE L’ETÀ POLEMICA (20 gennaio — 27 febbraio 1954)
L’ETÀ PURITANA - LA RESTAURAZIONE Un po’ di storia politica
Al chiudersi dell’età elisabettiana (e in questo termine, come abbiamo detto, mi piace comprendere il regno di Giacomo I e gran parte di quello di Carlo I) la situazione del Regno di Inghilterra e Scozia si presenta assai complicata. L'Inghilterra è ancora un paese di second’ordine in Europa; la sua vittoria sulla Spagna è stata puramente difensiva; la flotta che aveva reso possibile questo successo era di piccole dimensioni, non solo, ma formata da navi mercantili che, cessato il perico-
lo, ritornarono in fretta al loro z07 pacifico commercio. L'esercito non esisteva, o per meglio dire era ancora
formato, sul tipo feudale, di uomini raccozzati alla meglio che si sbandavano automaticamente alla fine di ogni singola campagna di guerra. Le colonie si riassumevano in poche isole del Mare Caraibico strappate alla Spagna e il cui possesso non era sanzionato da alcun trattato: briciole in se stesse, atomi se paragonate all’Impero spagnolo e ai vasti e ricchi possedimenti francesi e | portoghesi. L’orgoglio britannico doveva contentarsi del titolo di «Re di Francia» che essi portavano senza che a ciò peraltro corrispondesse il potere di nominare ‘sia pure un caporale nell’esercito francese. Durante la tragica Guerra dei Trent'Anni che, sotto Giacomo e Carlo, insanguinava l'Europa, l’Inghilterra ebbe una parte di men che terz’ordine; l'Europa dei trattati di
'Westfalia si formò al di fuori di ogni influenza inglese. Questo fenomeno d’impotenza da parte di un popolo ‘che conosciamo ambiziosissimo, che sappiamo ricco di
‘soldi e di capacità intellettuali, era dovuto solo allo stato
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di equilibrio instabile nel quale si trovava la sua situazione interna. L’instabilità era dovuta al regime di sapienti compromessi che vigeva da quasi un secolo. Compromesso religioso anzitutto: Enrico VIII era sfuggito ai guai peggiori nel periodo della Riforma creando quella
Chiesa anglicana che era (ed è ancora) il massimo capolavoro del «doppiogioco». Cattolica nei dogmi e nel rito (parlo beninteso della Chiesa dei Tudor e dei primi Stuardi), riformata nella sua assoluta separazione da Roma e nella sua intima unione col potere civile, essa manteneva una rigida posizione «centrista» e perseguitava
con eguale gusto i cattolici d'Irlanda e i presbiteriani d’Inghilterra. Provvista di grandi ricchezze (la Corona aveva restituito ad essa quanto era sfuggito del patrimonio ecclesiastico alle razzie dei nobili e dei comuni) era guidata da uomini di primo piano che s’intendevano così bene nell’arte di dare un colpo a destra e uno a sinistra che ancora a noi rimane il dubbio se classificare cattolici o presbiteriani alcuni dei suoi più eminenti prelati. Compromesso politico, anche: il paese era orgoglioso del suo sistema parlamentare che vigeva da secoli. Benché questo sistema fosse allora, tanto per la forza della Corona che per l’inefficienza dei sistemi elettorali, una caricatura di quello attuale, esso pur non aveva perduto il nocciolo di ogni sistema rappresentativo: il diritto di votar le imposte e quello di controllare le spese. Di fronte al potere parlamentare stava la Corona. Più sensibile del Parlamento ai latenti desideri di potenza del paese essa cercava di limare le unghie ai parlamentari, di svincolarsi dal controllo delle spese per poter meglio sorvegliare una politica di espansione. Il compito fu facile, i compromessi agevoli finché regnarono figure prestigiose e duttili come Enrico VIII ed Elisabetta. Poi durante i regni di Giacomo e di Carlo le cose presero tanto in materia religiosa che politica un altro aspetto. La borghesia inglese, ricca e potente nelle città,
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confluiva lentamente verso il calvinismo, Mecca di tutte
le borghesie industriali. Questo movimento doveva ricevere nuovo impulso dalla unione con la Scozia profondamente e totalmente presbiteriana nella quale il tentativo d’introdurre la Chiesa-compromesso fallì quasi completamente. Questa borghesia, attraverso il suo calvinismo e il suo desiderio di imposte leggere, rafforzò singolarmente la forza dei parlamentari. Contemporaneamente una evoluzione in senso opposto andava compiendosi negli ambienti del potere esecutivo, Corona e nobiltà terriera. Giacomo I e Carlo I furono dei sovrani mediocri. Quasi deforme il primo, dotato di spirito acutissimo ma privo di senso pratico («the King who never said a foolish thing, and never did a wise») alternava periodi di
abulia durante i quali si occupava di studi demonologici (redatti in bellissima lingua) e di carezze ai suoi favoriti, con periodi di attività morbosa e sempre mal indirizzata. Carlo I aveva invece il bello e nobile aspetto che ci è stato tramandato da Van Dyck e fu uno di quei re virtuosi e amanti della famiglia che sono generalmente la rovina della dinastia e di se stessi. Provvisto per altro di una indubbia falsità e di una tendenza all’intrigo che la sua sconfitta finale impedisce di perdonare. Ma la suprema dignità con la quale subì il processo e il gelido coraggio col quale incontrò la morte ce lo fanno degno di rispetto, così come esaltarono Marvell, il poeta puritano, che espresse la sua ammirazione nell’ode famosa. Il fondo della questione, per ambedue questi re, con-
siste nell’equivoco nel quale vissero. Giacomo era uno “ In realtà la frase citata, tratta da The King's Epitaph di John Wilmot, Earl of Rochester, si riferisce a Carlo II:
Here lies a great and mighty King Whose pronzise none relies on; He never saîd a foolish thing Nor ever did a wise one.
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scozzese, educato alla diffidenza verso gl’inglesi, figlio di quella Maria Stuarda che la stessa Elisabetta, che lo aveva preceduto sul trono, aveva fatto giustiziare. Carlo I, più inglese, inclinava però maggiormente del padre verso il cattolicesimo, inclinazione che venne in seguito potentemente rafforzata dalla amatissima moglie, Enrichetta di Francia. A Whitehall, palazzo reale, si celebra-
va la Messa (per la Regina, beninteso, e il suo seguito francese)! Ma ciò eccitava le ire dei presbiteriani che si sentivano offesi nel loro senso religioso e ancor più in quello, gelosissimo, della assoluta indipendenza nazionale. La Corona e il paese si erano incamminati su vie divergenti. Il delicato equilibrio del compromesso si alterò sempre più finché uno dei piatti della bilancia venne a precipitare.
LA «RIVOLUZIONE» INGLESE
A prima vista la «Rivoluzione» inglese presenta un perfetto parallelo con quella che doveva scoppiare in Francia centocinquanta anni dopo. Un Parlamento in rivolta contro il sovrano, una guerra civile, il processo e l’esecuzione capitale del Re sconfitto, una dittatura militare che s’impadronisce del potere e, dopo il ritorno dell’erede al trono, la Restaurazione monarchica. Considerando lo svolgersi degli avvenimenti un po’
più da vicino ci si accorge di già delle differenze notevolissime. Considerando, come si deve, lo svolgimento ideologico ci si accorge addirittura che una rivoluzione non vi fu affatto. La cosiddetta «Rivoluzione» inglese fu al contrario un movimento
contro-rivoluzionario, una forte e
sanguinosa reazione della nazione contro il modernismo e le innovazioni che il Re intendeva introdurre nella costituzione politica del paese. Giacomo I con circospezione, Carlo I più apertamente avevano l'intenzione di adottare in Inghilterra i sistemi «moderni» (per allora) di maggiore concentrazione del potere, di divenire sovrani assoluti così come lo erano divenuti, con risultati ottimi per quel che riguardava la potenza nazionale, i Re di Spagna e di Francia. Il paese, abituato alle forme parlamentari, si rifiutò di seguire per questa via l’avventuroso sovrano. Il Re troppo «progressista» (questo aggettivo applicato a chi voleva fondare l’assolutismo può sembrare strano oggi ma non lo era affatto nel 1642) venne combattuto, sconfitto, processato e giustiziato. Ma non venne vai deposto. Carlo I
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fu considerato legittimo sovrano e ricevette onori regali fino all'istante in cui depose «his comely head» sul ceppo. Del figlio venne «sospesa» la successione al trono. Gli sporadici tentativi di instaurare una repubblica vennero soppressi da Cromwell stesso con estremo rigore. Il tentativo di «parlamentarizzare» lo stato monarchico si sarebbe potuto credere riuscito. Senonché, come sempre avviene, il contagio ideologico aveva operato. E il Lord Protettore, Cromwell, chiuse il Parlamento e go-
vernò con energia spietata. Proprio quello che Carlo I avrebbe voluto fare, se avesse avuto di Cromwell le ca-
pacità intellettuali e il carattere indomabile. Ma anche a questo dominio il paese si ribellò e, morto Cromwell, il figlio di Carlo I risalì sul trono senza troppe scosse e senza alcun spargimento di sangue, impegnandosi però a rispettare ed aumentare le libertà parlamentari.
Le vicende successive non ci riguardano, per ora. Ci basti constatare che al 1660 (data della Restaurazione) il popolo inglese aveva potuto mantenere, solo in Europa, le due istituzioni alle quali teneva: la Monarchia e il Parlamento.
IPURITANI
Mi dispiace di dover così a lungo cedere al mio istinto e di parlare di storia politica. Ma non se ne può fare a meno. Per più di cento anni, fino press’a poco a Wordsworth, la letteratura inglese è una letteratura politica, una littérature engagée. Non vi è scrittore, eminente o no, che non mi-
liti o fra i Cavalieri o fra i Puritani prima, o dopo fra i Tories o i Whigs. Milton, Shaftesbury, Hyde, Clarendon, Addison, Steele, Swift, Defoe furono furiosamente «poli-
tici». E non si potrebbe apprezzare il significato estetico delle loro opere se non si conoscessero i presupposti ideologici. Prima apparizione di queste formazioni politiche è quella dei Puritani. Ancora adesso chi passeggi, un tramonto d’autunno, alla periferia di Londra, o addirittura nel centro delle città minori, la domenica, incontra strani cortei: in testa
uomini e donne in uniforme quasi militare, dopo, centinaia di cittadini, dimessi, depressi, con lo sguardo va-
cuo; fra essi talvolta signori ben messi e donne all’ultima moda; molti portano degli striscioni di tela con scritte cubitali: «We want God and God only», «We are waiting for the reign of the Saints», «Beware! the wrath of God is coming». In coda una banda, flebile come tutte le bande inglesi che anch’esse parlano sottovoce, suona inni religiosi, e ad un tratto tutti si mettono a cantare fra atroci stonature il nobile inno: And we shall build the New Jerusalem In England's green andpleasant land!
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Sono gli ultimi Puritani; e si farebbe male a ridere di loro. Quello del Puritanesimo è un concetto al quale non è facile agli italiani di accedere: ce lo vietano tanto le nostre qualità che i nostri difetti. Per noi i «Puritani» sono dei tenori e dei baritoni che fan piovere sulle nostre teste le perle delle melodie belliniane. Disgraziatamente i Puritani non erano artisti lirici e iloro canti non avevano nessun fascino sensuale. La figura di fra Girolamo è la sola italiana (cattolica, ché fra gli ignoti riformatori qualche virgulto puritano può notarsi) che possa darci una idea approssimativa di questa potente corrente religiosa. La politica dei compromessi è una bellissima cosa; è forse, anzi, la sola politica ragionevole che possa esistere. Non è possibile negare, però, che abbia un aspetto meschino e che le anime rigidamente credenti possano esserne turbate. Il compromesso religioso in Inghilterra, il più saggio e quindi il meno gradevole fra tutti, aveva offeso parecchie anime, le più rispettabili, appunto. La Chiesa anglicana mostrava un po’ troppo la sua intima essenza di istituzione statale, era troppo ondeggiante fra un cattolicesimo mal rinnegato e un protestantesimo ancor meno accettato. Questi vescovi che avevano moglie ma non la mostravano, questi servizi religiosi nei quali si poteva bruciare l'incenso ma non la mirra, questa eucaristia che era
dichiarata soltanto simbolica ma che intanto bisognava ricevere in ginocchio, non potevano non irritare chi vedeva nella Comunione dei fedeli qualcosa di diverso di un espediente politico. Inoltre la propaganda calvinista si fece, sotto Giacomo I, attiva e abile, aiutata dalla universale lettura della Bibbia che nella nuova versione andava po-
nendo i fedeli dinanzi a dubbi che la troppo ragionevole ed edulcorata teològia anglicana non riusciva a sciogliere. I fedeli andavano verso «sinistra», come si direbbe
oggi. Nel contempo la Chiesa anglicana andava verso destra.
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Il culto cattolico pubblico era vietato, ma sempre più frequentemente le autorità religiose fingevano d’ignorarne le celebrazioni formalmente private. I Gesuiti che sotto Elisabetta erano, legalmente, assimilati ai cani idrofobi, e, se denunziati, venivano sottoposti al più atroce dei supplizi escogitati da mente umana (quella impiccagione lenta accompagnata da sventramento e relativo avvolgimento delle budella su un rocchetto di legno via via che uscivano) sciamavano numerosi nell’Inghilterra, in incognito, certamente, ma quanto mai «attivisti». Il clero anglicano, che non diede mai luogo ad accuse di ordine morale, dava largo posto alle accuse di ordine religioso e si giunse a sospettare Laud, l’arcivescovo di Canterbury e capo della Chiesa, di essere un cripto-cattolico e di celebrare quotidianamente la Messa. Noi non sappiamo ancora se ciò fosse vero o no e
dobbiamo accontentarci di ammirare nei suoi sermoni la magnifica linea barocca della sua prosa che esprime con tanta maestà i concetti un po’ dolciastri della teologia anglicana. (Ne ho letti sei.) Di fronte a simili scandali ideologici, di fronte alla mi-
naccia del ritorno della «prostituta di Babilonia», molti fedeli cominciarono a staccarsi dalla Chiesa. Erano ancora pochi sotto Elisabetta e soggetto di facile scherno presso Shakespeare e Ben Jonson; essi diventarono legione verso il 1640. Ma non erano ancora i Puritani. Essi erano dei presbiteriani che rinnegavano bensì la Chiesa anglicana, si dichiaravano devoti calvinisti e non ammettevano autorità ecclesiastica superiore al parroco; ma ancora forma-
vano una Chiesa gerarchicamente conformata. Dal seno dei presbiteriani, per via di naturale selezione, sorsero i Puritani i quali, come qualsiasi movimento estremista, si affrettarono, quando ebbero il potere, a strozzare la Chiesa presbiteriana. Ma che cosa sono questi Puritani? Finora abbiamo
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parlato di ciò che essi non sono. Sappiamo che non sono anglicani né presbiteriani, sappiamo anche che non sono i fratelli di Amina e di Pollione. Sono dei cristiani non riuniti in una Chiesa, dei cre-
denti dallo spirito corto ma sincero che accoglievano una sola suprema istanza, quella della Sacra Scrittura, liberamente interpretata. Nessun sacerdote fra essi, neppure un laico incaricato di una qualsiasi funzione di culto. A turno uno dei fedeli legge un passo della Bibbia; egli stesso o un altro lo commenta ed aggiunge esortazioni morali. Poi la preghiera in comune e i canti dei quali abbiamo colti gli ultimi echi ai nostri giorni nelle vie di Newcastle o di Lincoln. Cristo è quasi assente nel culto puritano che gravita su Dio Padre; come pure in secondo piano si viene a trovare il Nuovo Testamento dinanzi al Vecchio e in ispecie dinanzi ai Libri Profetici. Ma quali ricordi ci risveglia quest’attitudine? Il ricordo ebraico. Questi Puritani compirono un balzo indietro di un millennio e mezzo e si riattaccarono direttamente alle credenze di Israele. A forza di modellarsi compiutamente sulla Bibbia ne assorbirono tutto: fede, leggi, usanze e in parte anche i nomi. Il loro governo, quello di Cromwell, richiamò in Inghilterra gli ebrei che da quattro secoli erano stati espulsi; Cromwell ricevette solennemente i capi della nuova comunità israelitica e s’indirizzò loro chiamandoli «Nostri Padri»; innumerevoli persone cambiarono i
loro pacifici nomi di Tommaso o di Enrico in quelli di Abramo e d’Isacco; Cooper ci racconta quale fosse la sua sorpresa quando la sua serva che si chiamava Jane gli venne ad annunziare che da ora in poi aveva deciso di chiamarsi Deborah, e come buffo fosse udire una ma-
dre rimproverare un Melchisedacco di sei anni perché aveva dato uno scappellotto a un Matusalemme cinquenne. Quando Cromwell morì erano in preparazione
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leggi che imponevano il ritorno all’ebraismo per quanto riguardava lo stato matrimoniale. Ma vediamo un po’ quale fosse la loro morale. Essa derivava da una illimitata fede in Dio e da un terrore abietto dinanzi ad esso, quel Dio che non era più il misericordioso Dio cristiano ma l’implacabile Geova. Ogni piacere, ogni forma di bellezza erano opera del Demonio: perciò astinenza dal vino e dalla birra, l’adulterio punito di morte, la devastazione portata nelle chiese con l’abbattere qualsiasi statua e pittura per timore dell’idolatria. L’osservanza del riposo domenicale (chiamato il Sabbato, all’uso ebraico) spinto sino al parossismo: vietato di camminare per le strade se non per recarsi in chiesa, vietato il cucinare, vietato leggere se non la Bibbia, vietati i giochi infantili, vietata la pulizia personale. I teatri erano chiusi, le esibizioni di animali ammae-
strati vietate, sottoposte ad anatema le danze dei contadini, le barzellette condannate perché «deformazione
della favella che Dio ci ha dato al solo scopo di glorificarlo». Una cappa di piombo scese sull’Inghilterra che abbiamo conosciuto tanto vivace e spregiudicata nel periodo elisabettiano. Un tale stato di cose costituiva, naturalmente, un ter-
reno di elezione per gli ipocriti: bastava aver la testa rapata, vestirsi di grigio col panno più grossolano, «talk through one’s nose» e citare ad ogni piè sospinto il Deuteronomio e le profezie di Osea, per essere ammesso fra i «Santi», come si chiamavano da sé i Puritani.
Tante stravaganze però non riescono a renderci odiosi i Puritani. Forse perché appartengo a una famiglia di asceti e di mistici, ho una viva simpatia per tutti i fanatici, purché si tengano lontani da me. A me sembra che essi siano un indispensabile disinfettante della società: sono di gusto cattivo, fanno un pessimo odore ma senza di essi il marciume invaderebbe il mondo ed i raffinati scettici, gli illuminati tolleranti andrebbero a farsi frig-
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gere. Preferisco Robespierre al Maresciallo di Richelieu e, appunto, Oliviero Cromwell a Carlo IL
I meriti dei Puritani furono molti. Trent'anni dopo Marston Moor il visconte Lovelace (loro avversario) rabbrividiva ancora (lo raccontava a Dryden) ricordando quella grigia alba di novembre nella quale giunse al campo reale il solenne corale col quale i coraggiosi Puritani invocavano il loro tremendo Dio. E ricordava la carica ciclonica durante la quale ogni soldato di Cromwell gridava «Dio salvi la tua anima» prima di spaccare la testa a un nemico.
«I do not know whether it was God or another Person that was in them, but something there was, Sir John, I am quite sure.»
E il vecchio peccatore che aveva visto in azione i soldati di Geova si sentiva ancora rizzare i capelli sotto la parrucca. Questi stessi corazzieri accopparono in un giorno a Killarney settemila irlandesi (uomini, donne e bambini) «come avevano fatto gli israeliti di Ebenezer». Oltre al freddo coraggio, i Puritani fecero prova della più rigida onestà. Hyde, il grande finanziere realista, controllò dopo la Restaurazione tutta la contabilità del Protettorato. «I have not been able to trace a single farthing into anybody’s pocket.» Quando, avvenuta la Restaurazione, Carlo II mise in congedo senza assegni i cinquantamila formidabili Puritani del «New Model», l’esercito di Cromwell, non uno
di questi «santi» soldati si macchiò del benché minimo furto. Ed ebbero una qualità più grande di questa: lo stile. Ed è stato questo stile, questo character che ha lasciato una impronta indelebile sulla nazione inglese. Questa eredità puritana la abbiamo ritrovata ai nostri giorni in Sir Stafford Cripps e in Anewin Bevan. Essa è ancora la spina dorsale dell’Inghilterra; e forse dell'Europa.
MILTON
È certamente sorprendente che questo clima di forza, di follia religiosa e di austerità abbia potuto lasciar sopravvivere tre artisti, uno dei quali grandissimo, Milton, gli altri due più che notevoli, Marvell e Bunyan. Ma occorre dire che questi tre uomini, puritani fino al midollo delle loro ossa, diedero le loro prove maggiori quando il loro regime era caduto, sotto i venticelli pestilenziali ma miti della Restaurazione. O per lo meno due di essi, perche il Marvell compose le sue odi migliori in onore e sotto il dominio di Cromwell. John Milton nacque a Londra nel 1608 (cioè nel cuore della grande epoca elisabettiana) da una famiglia assai agiata. Il padre, uomo di grande cultura umanistica, fu il suo primo maestro nelle lingue classiche e nell’italiano e francese. Egli fece un po’ figura di fanciullo prodigio e scrisse fin dall’età di quindici anni versi greci e latini, sonetti italiani e francesi che erano tanto buoni che egli stesso (che fu sempre critico implacabile delle proprie opere — «for God bids us not to deform the gifts He has bestowed upon us») non reputò indegni di esser compresi nelle sue opere complete, riunite dopo la pubblicazione del suo capolavoro. Tutta la sua vita del resto egli fu un ammiratore fervente della letteratura italiana, di Petrarca in ispecie e massimamente di Dante. Paragonando questi grandi italiani ai grandi latini e greci egli accorda la palma ai due moderni dicendo che egli «prefers the two famous renowners of Beatrice and Laura who never write but honour of them to whom they de-
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vote their verse, displaying sublime and pure thoughts without transgression, though with somewhat less art». In questo passo tratto dalla sua giovanile Apology for Smectymnuus possono notarsi due argomenti: come, anzitutto, egli conservasse una leggera preferenza (quel «somewhat» è di commovente ritrosità) per il modo di esprimersi classico; in secondo e più importante luogo, come egli in gioventù aderisse al concetto dell'amore espresso nei duecentisti e trecentisti italiani, che vede la
donna quale guida dell’uomo verso la perfezione morale e che trionfa nella Divina Commedia. Come e quanto questa sua adesione dovesse mutare in seguito vedremo poi nel corso della sua vita e della sua opera. («He for God only, she for God in him».)
La sua conoscenza dell’italiano fu perfetta e ne diede prova frequentando a Firenze l'Accademia degli Svogliati e intervenendo in modo brillante nelle discussioni linguistiche senza mai esser riconosciuto per straniero.
E della sua conoscenza del latino testimoniano le note diplomatiche che egli scrisse per Cromwell durante il suo segretariato, che esprimono nelle volute più complesse del più sontuoso latino aulico i concetti frusti, sagaci e violenti del grande Protettore. Fu nel latino di Milton che la Curia Romana lesse la famosa minaccia di far risalire il Tevere a navi da guerra inglesi per bombardare il Vaticano se questi non avesse cessato di incorag-
giare le persecuzioni anti-protestanti del Duca di Savoia. Terminata questa digressione, ritorniamo alla vita di Milton che occorrerà seguire con una certa attenzione perché essa fu strettamente intrecciata alle sue opere che della sua esperienza spirituale sono uno specchio fedele. Terminati i suoi studi presso il padre (che fu anche buon musicista e che ha lasciato un nome in quella che fu la migliore — la sola — epoca della musica inglese, e che lasciò al figlio anche una non mediocre abilità di esecutore), Milton entrò al Christ’s College di Cambridge. A di-
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ciotto anni Milton a Cambridge si presenta già col carattere adamantino che è congiunto al suo nome: impressionabile, emozionale, completamente introvertito, ubbria-
co di assoluto e ferreamente deciso a non sottomettersi ad alcuna autorità della quale la sua coscienza non gli avesse dimostrato la giustizia. Beffeggiato dapprima dai compagni, chiamato da essi «the Lady of Christ’s» tanto per la bellezza personale che per la scontrosa castità della sua vita, in continuo conflitto con le autorità universita-
rie, la fermezza del carattere e la straordinaria erudizione
finirono con l’imporsi ai camerati ed ai suoi maestri e uscì dall’Università con la triplice laurea in lettere, filosofia e teologia, ottenute ciascuna con i massimi onori. Dopo si
ritirò in una casa di campagna a Horton, presso Windsor, dove rimase altri sei anni e terminò la sua preparazione
letteraria e religiosa. Di questo lungo periodo di vita studiosa conservò tracce incancellabili e non tutte felici: egli si abituò a vivere lontano dagli uomini e quindi a considerarli non come fatti di argilla ma come puri spiriti. Da ciò la nobiltà estrema ed anche la grande asciuttezza dei suoi versi. Da ciò la sua mancanza di humour che lo rende unico fra gli scrittori inglesi grandi e piccini. Dopo il soggiorno a Horton fece un lungo viaggio in Italia. Le sue impressioni sul nostro paese furono assai varie: gli piacque la cucina milanese, Venezia gli diede quella vertigine mortale che essa esercita su tanti grandi spiriti (Voltaire, Musset, Wagner, Barrès e Mann): «vorrei morire qui ed essere sepolto sotto il velluto verde di questi canali»; inaspettata vena romantica nel superclassico Milton. Firenze gli piacque oltre ogni dire e vi rimase a lungo: la serenità dell’architettura si confaceva al suo spirito rigido e frequentava la villa di Arcetri dove nel vecchio Galilei trovava un’anima sorella in grandezza ed in insaziabile sete di libertà. Frequentava le Accademie letterarie e non si offese neppure per i detestabili
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e volgari versi che un letteratucolo, il Malatesti, gli dedicò per schernire la severità dei suoi costumi. Andò anche a Roma e mentre fu soggiogato dalla maestà delle rovine, fu nauseato dallo spettacolo della corruzione ecclesiastica («così come i cani, i Papi orina-
no indulgenze ad ogni cantone»); stava per partire per la Sicilia (per la quale la curiosità sua si rivela in molte lettere) quando l’aggravarsi della situazione politica inglese lo richiamò in patria dove giunse nel 1639. Aveva trentun anni. Le sue convinzioni puritane si erano andate sempre
più approfondendo ed egli non voleva restare lontano dalla lotta che i suoi compagni di fede intraprendevano «affinché una buona volta il regno di Dio si affermi sulla terra sanguinosa». Non era ancora «ubbriacato di Dio», come egli stesso disse più tardi, ma la rigidissima convinzione morale gl’imponeva di lottare. Si occupò anzitutto come pubblicista. E scrisse il primo dei suoi famosi trattatelli: La riforma della disciplina ecclesiastica in Inghilterra (1641), nel quale di già si mostra l’aspro vigore polemico che ci sorprende sempre nell'opera pubblicistica di Milton e che sta a mostrare quanto fuoco covasse sotto la rigida disciplina della sua vita e della sua arte. In quel torno di anni prese moglie; una ragazza di diciassette anni, Mary Powell, di una famiglia di monar-
chici dell’Oxfordshire. Dopo sei settimane di matrimonio la giovane sposa lasciò il marito e ritornò a casa sua. Su questo episodio coniugale si è scatenata l’ira dei nemici di Milton. Certamente la vita non doveva essere allegra nella casa del puritano per una donna così giovane; ma da questo ad accusare Milton di crudeltà, di perversioni sessuali, ci corre. Soprattutto si dimentica il fatto che la moglie dopo un anno ritornò dal marito, che essi ebbero insieme tre figli e che il poeta generosamente aiutò e ricoverò la famiglia Powell mentre questa era
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perseguitata per ragioni politiche. Del resto, dopo la morte della povera piccola Powell, Milton si risposò due altre volte; senza scandali né fughe. Si inizia adesso la grande epoca di Milton, quella che poi si trasformerà in leggenda: i suoi occhi si spengono, nel 1652 la cecità è completa. Contemporaneamente l’amore divino aumenta l’ardore nel suo petto. Amore divino che presso un cattolico si sarebbe espresso in cilici, battiture e penitenze; sfoghi, manifestazioni che la se-
verità della dottrina puritana vietava. Le visioni celestiali che, qualche tempo prima, rapivano Teresa di Avila e Ignazio di Loyola, non vi erano per consolare l’assetato di Dio; e se vi fossero state sarebbero state respinte, con-
siderate forme di quintessenziale idolatria. La fede, la tremenda fede puritana senza volto, senza carezza, stavo
per dire senza speranza, doveva rimanere chiusa nel petto, rifiutarsi qualsiasi adornamento di liturgia, doveva rodere il fegato come l’avvoltoio di Prometeo. «Hence, vain deluding joys!» E insieme alla fede il timore, timore di questo Dio invisibile, di questo Dio dai disegni altissimi ma occulti, timore di esser fin dalla nascita compreso nella lista dei reprobi, timore di non interpretare bene il Verbo divino, timore della Morte, ingresso ai cupi az-
zardi di oltretomba. Erano per l'Inghilterra giorni di battaglia. Milton sentiva di essere nella possibilità di aiutare questo formidabile sforzo diretto ad instaurare il regno di Dio negli uomini. La sua cecità gl’impediva di entrare nell’esercito: la sua mente e la sua cultura gli aprirono le porte degli uffici di Cromwell. Fu nominato «segretario per le lettere latine»; cioè a lui toccava redigere in latino, che era ancora la lingua della diplomazia, le imperiose note di-
plomatiche che Cromwell indirizzava ai nemici (non dell'Inghilterra, cibò!) ma di Dio. Secondato da Marvell che era il suo sostituto, egli si dedicò febbrilmente al suo
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compito pur continuando a pubblicare i suoi libelli, che sono la gloria della prosa inglese polemica. Poi, morto Cromwell, ritornò il Re. Persecuzioni,
confische, l'incendio della sua vecchia casa. Lo spettacolo davvero indecente che la nuova Corte presentava al mondo con la sua licenziosità e il suo servilismo verso l’altera Francia di Luigi XIV, diede al poeta ormai vecchio il senso della sconfitta. I Santi erano stati sconfitti: Belial trionfava. E dal dolore uscirono le sue opere maggiori: alcuni dei sonetti, il Paradiso perduto, il Paradiso riconquistato, il dramma lirico Sarzson Agonistes, opere tutte che trattano di eroi caduti, di Titani che gli Dei
hanno abbandonato. Opere di orgoglio smisurato che, attraverso una tecnica di versificazione stupefacente, esprimono la desolazione dei grandi ideali sepolti. Milton è morto a Londra nel 1674. La sua salma sepolta in un cimitero di Cripplegate venne dispersa e perduta. Anche il numero due della poesia inglese manca all'Abbazia di Westminster. Le opere
Milton ha superato il momento della sua massima gloria. Il nostro tempo corre dietro alla immediatezza di espressione, rifugge dalla emozione religiosa, non conosce più il metodo del perfezionamento tecnico. Milton appare lontano, assai più degli elisabettiani, quasi quanto Dante. Deplorevole oblio, perché Milton è invece vicinissi-
mo a noi appunto nel continuo rovello interiore e dovrebbe sempre essere vicino a chi ricerchi un maggiore approfondimento, a chi voglia imbastire un dialogo fra il proprio intelletto e la propria sensibilità. Ma le sue opere son là; e un giorno, forse non lontano, quando l’urto formidabile fra due concezioni di vita, che adesso
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ci travaglia, sarà concluso, la parte perduta ritroverà, per esempio, nel Sarzsor Agonistes, l’alto lamento, la digni-
tosa espressione del suo dolore. Egli rimane e rimarrà il grande maestro degli sconfitti. E sconfitti, tutti, saremo. «And when at last, defeated in His wars...» La sua opera è quasi ignota in Italia. Per noi Milton è un vecchio sereno signore, asciutto nella eleganza sobria della sua veste puritana, che, cieco, detta versi roboanti
alle sue figlie, delicate fanciulle dalle lunghe trecce d’oro. Ne abbiamo quasi estratto un quartetto di melodramma. Per fortuna la sua opera non si è prestata ai travestimenti del teatro lirico; e non c’è stata barba di li-
brettista che abbia potuto trarre cabalette dal Satana o dal Sansone miltoniano. A dir il vero egli è, alla lettura, assai più difficile che Shakespeare. Vi è una tale densità di pensiero, una tale
ricerca di concisione che occorre davvero una solida conoscenza della lingua per superare, con la fulmineità che l'emozione estetica esige, la lampeggiante oscurità del testo. Si può tranquillamente dire che il Papi non vi è minimamente riuscito. La sua opera è immensa. Dovrò perciò rinunciare ad accennare partitamente ad ogni sua espressione. Farò
un elenco delle opere minori e mi fermerò un po’ più a lungo sulle opere maggiori, anche perché temo di annoiare il pubblico. Milton è una persona seria e una persona per bene: cioè un seccatore.
Anzitutto parliamo delle sue opere zox inglesi. Milton scrisse innumerevoli poesie latine (Sy/vae ed elegie varie) delle quali si dice gran bene ma che non sono in grado di giudicare, tanto più che, come avviene di tutte le poesie latine scritte da moderni, esse sono assai più
difficili a comprendersi di Virgilio o Catullo. I sonetti italiani sono cinque, uno dei quali dedicato a ' Carlo Diodati, il riformatore italiano, esule in Inghilterra, al quale dobbiamo la bella versione protestante ita-
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liana della Bibbia.° Benché Milton tenesse a questi suoi componimenti, essi sono assai mediocri, impacciati, e,
che il Cielo mi perdoni, talvolta anche zoppicanti. Spigolandoli con cura si può trovare qualche verso non brutto («e il bel Tamigi cangiò col bell’Arno» e anche «finché l’alba rivien, colma di rose» benché la prosodia sia stata un po’ corretta da me); il migliore è quel componimento detto Canzoze ma che canzone non è, e neppur sonetto perché ha quindici versi, che è sciolto d’andatura e grazioso come concetto, ma il cui quindicesimo verso è irrimediabilmente storpio. Tra le altre opere secondarie vi è un poemetto sulla Natività di Cristo, opera giovanile gradevole ma zuccherata, un bel poemetto su Shakespeare un po’ concettoso ma pieno di giusta riverenza e ornato di un bellissimo verso finale, e un poema Scritto dopo aver inteso una musica solenne che contiene il germe, e forse più che questo, dei due magnifici pezzi di Dryden sulla musica. Handel lo ha musicato. Fra le opere minori io, per conto mio, includo il Co-
mus, benché goda di tanta fama. Fa parte di un 72a4sk, cioè di quelle composizioni miste di danza, canto e recitazione che erano tanto di moda presso le famiglie patrizie in quei tempi. Ben Jonson e Spenser ce ne hanno lasciato esemplari famosi. Erano una specie di «rivista» di alto bordo. Il Cous fu rappresentato nel castello di Ludlow nel Worcestershire, ed era stato ordinato dal
conte di Bridgewater nel 1634 a Milton ancora giovane e scarsamente puritano. La forma è impeccabile, il contenuto pastorale e scipito. Bisogna dire che l’idea del conte di Bridgewater di * Tomasi confonde Charles Diodati, figlio di un protestante italiano esule in Inghilterra, intimo amico e compagno di studi di Milton e dedicatario di alcune sue opere, con Giovanni Diodati, figlio di un protestante italiano esule in Svizzera, professore di teologia a Ginevra, noto per la sua traduzione della Bibbia in italiano e francese.
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chiamare Milton a comporre brani di rivista era bislacca, o tale sembra a noi. Pensate a Macario che commis-
siona una rivista a padre Lombardi. Le opere in prosa di Milton sono numerosissime, alcune di prim’ordine. Di queste sole ci occuperemo facendo notare come in tutte sia presente uno straordinario vigore
polemico e una forma splendente e commovente. L’Areopagitica è una nobilissima orazione in difesa della libertà di stampa, indirizzata alla Commissione di Censura. È uno dei muri maestri del liberalismo e brilla di uno splendore formale insorpassabile. Mentre si stava preparando il giudizio contro Carlo I, Milton scrisse il Diritto dei Re e dei Magistrati, aspra requisitoria contro il Sovrano, e su questa sua tesi della responsabilità dei Re di fronte al popolo insistette con accresciuto vigore quando, dopo la morte di Carlo I, circolò in Inghilterra un opuscolo, Ezkor Basilké, VImmagine Regale, che si volle allora scritto dallo stesso Re durante la sua prigionia. Contro questo opuscolo Milton fulminò il suo famoso Ezkoroklastes, seguito dalla Pro Populo Anglicano Defensio e dalla Defensio Secunda; opere di assoluto prim'ordine nelle quali sono nobilmente fusi i due sentimenti di rispetto personale per il Sovrano giustiziato, e di appassionata difesa delle ragioni che portarono alla condanna. Ma passiamo alle grandi opere di poesia. Opere maggiori Esse consistono del Lycidas, dei due poemetti L’A/le-
gro e Il Penseroso, dei numerosi Sonetti, fra i maggiori che siano stati scritti, e finalmente del Paradiso perduto e Samson Agonistes, le due opere della sua vecchiaia indomabilmente disperata. Nel 1638 Edward King, un erudito amico di Milton,
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annegò nel Mare d’Irlanda. L’anno seguente Milton compose questa elegia funeraria che è il primo dei quattro grandi poemi funebri in lingua inglese: gli altri sono l’Adonais di Shelley composto per la morte di Keats, l'Ir Memoriam di Tennyson, e la serie di poemi in morte di Lincoln di Walt Whitman. Ciascuno a suo modo un vertice, ma il Lycidas è il maggiore. La severa castigatezza della forma, l'armonia dei versi perfetti, le immagini boscherecce e marine, gl’intervalli polemici sono fusi in modo prodigioso. A Milton soltanto è stato dato di trasformare interiormente, pur mantenendone intatta la venustà formale, l’Egloga virgiliana. A rileggerlo in questa occasione dopo non pochi anni mi sono tornatele lacrime agli occhi; non già per la sorte del povero Edward King, del quale confesso m'importa poco, ma perla mera bellezza del verso, per quel senso di «fine raggiunto» senza sforzo apparente, di compiuta perfezione. È uno dei rari poemi (ha circa duecento versi) completamente perfetti ch'io conosca (una diecina, non più). Bisogna leggerlo. L’Allegro e Il Penseroso sono due poemetti gemelli, nel primo dei quali Milton si dichiara inaspettatamente disposto a vivere in perpetua allegria; e nel secondo enumera ed apprezza i pregi della meditazione solitaria e della malinconia. Potrebbe a prima vista sembrare che si tratti di quei poemi ironici ed antitetici dei quali i nostri infelici Secentisti ci hanno lasciato così disgustosi esemplari: il sonetto in lode della Donna Bruna seguito da quello in lode della Bionda, quello che esalta le donne formose contrapposto a quello che stravede per le smilze. Si tratta invece di due alti poemi ambedue di ovvia sincerità nei quali lo splendore del verso gareggia con il gusto squisito delle immagini. Due portenti. Veniamo adesso ai Sonetti. Tutti quelli scritti dopo il 1646 sono di prim'ordine. Ma son troppo numerosi perché si possano trattare separatamente (Milton è, si sa, un
seccatore). Parleremo soltanto dei tre supremi.
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Il primo si intitola Sul recente massacro in Piemonte ed è una furibonda protesta contro le persecuzioni antivaldesi. Esso è quasi tutto perfetto, con degli enjarzbements che sono un prodigio, interamente avvampato di sdegno. Ma ciò che lo distingue da ogni altro sonetto di Milton e di molti altri è il primo verso, la «partenza» che nelle prime quattro sillabe ci trasporta già in un clima di passione e di vendetta divina. Vi sono delle «partenze» eguali a questa ed è inutile citarle tanto sono note; questa è la prima inter pares. Il sonetto che segue (Wherx I consider how my light is spent) è in una vena completamente diversa. È una severa meditazione sulla sua sventura e sulla relazione di Milton con Dio. Un dialogo di straordinaria intensità pur nella forma volutamente sobria. Con degli scoppi improvvisi e brevissimi di commozione. «His State is Kingly.» Il capolavoro della poesia puritana. L'ultimo (che è anche l’ultima opera di Milton, scritta
poche settimane prima della morte) è dedicato alla moglie morta. È una visione in bianco e nero di una delicatezza di tocco, di un pudore di espressione che ne fanno un’opera incomparabile. Ma bisogna leggerli. Fin dalla sua gioventù Milton meditava di scrivere un grande poema epico, e le sue lettere ci mostrano che il soggetto al quale pensava era il ciclo arturiano. Ma i grandiosi avvenimenti politici e la viva parte che egli vi prese gl’impedirono di compiere il suo desiderio. Quando con la Restaurazione si ebbe la calma, tutto era cambiato: la
battaglia del Puritanesimo era stata combattuta e perduta, Milton non era più il poeta dotto che poteva misurarsi con le vecchie leggende inglesi: era un Titano vinto (diremo un Angelo caduto?) e doveva trovare espressione degna dell’altezza del suo cervello. E fu il Paradiso perduto. Sappiamo che esso venne pubblicato nel 1667 e che una seconda edizione con l'aggiunta di due canti appar-
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ve nel 1674, pochi mesi prima della morte del poeta. Ma quando egli cominciasse a scriverlo non sappiamo. Si son cercate (e trovate) tutte le fonti del poema: fonti ebraiche, italiane, anglosassoni ed olandesi. La vera fonte sgorgò dall’orgoglio ferito a morte del poeta, dall’umiliazione della buona battaglia perduta. Tutto il poema è di altissima ispirazione: ma il sangue circola, splendente, soltanto nei primi due canti: i canti della rivolta e della sconfitta di Satana. Pochi credono ormai ad un inferno materiale e ad un diavolo personale: ma la dottrina essenziale del poema è eterna. Le aspirazioni, le sconfitte, i conflitti col male rimangono qualunque sia la teologiao l’assenza di teologia. La vita di ogni uomo è la storia di un paradiso cercato e perduto. Quel che è di Milton solo è l'orgoglio della sconfitta, la fierezza di aver combattuto per una causa universale. Satana di Milton rimane la più tragica immagine romantica a paragone
della quale i Lara, i Manfredi, i Karl Moor, i Sorel e gli Innominati (primo periodo), con i loro piccoli incesti e meschine ruberie e ambizioni, sembrano dei ragazzini maleducati. Un manto di fuoco e di azzurro avvolge la magnifica vicenda dell’Arcangelo che volle essere Dio. Non credo che si possa dire di conoscere il fondo dell’ambizione umana e l’infinita tristezza della sua predestinata sconfitta se non si conoscono a fondo almeno i primi due canti del Paradiso perduto. E nel leggerlo si tenga presente che sotto il velo della allegoria si può scorgere il volto del grande cieco, temerario e vinto. Nel 1671 Milton pubblicava un nuovo più breve poema: il Paradiso riconquistato, che si può con calma iscrivere fra le sue opere minori; il suo soggetto è la Passione di Cristo e le possibilità aperte all’uomo di riconquistare la salvezza mediante l’olocausto di Cristo. La Passione non portava fortuna all’attività artistica miltoniana: di già in gioventù una sua Ode sulla morte di Cristo si era distinta per la freddezza e quasi l’indifferen-
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za con la quale il poeta adoperava il verso. Lo stesso può dirsi di questo Paradiso riconquistato pur con l’abilità tecnica immensamente superiore acquistata da Milton. La verità è che ai Puritani la questione della Redenzione non stava a cuore: il loro era un dialogo tra Creatore e creatura senza intermediari anche divini. In una lettera molto anteriore Milton lo dice: «Nessuno come noi ha rispettato la solenne solitudine dell’anima». Non era una dottrina di donnaccole che cercano innumerevoli mediatori per salvare l’animaccia. Era una credenza per anime eroiche che volevano vedersela a quattr’occhi con Dio Padre. «They boxed with God», come dice l’irriverente ma acuto Butler. Ben altra altezza è invece raggiunta dal Sarzson Agonistes pubblicato nello stesso anno. Sotto la trasparente maschera di Sansone, Milton, come lui campione di
Dio, come lui cieco, come lui schiavo degli empi esala il suo dolore e la sua fierezza. In infinite grandiose variazioni sul tema della cecità egli la trasmuta in abbandono della Grazia, in un rinnegamento da parte di Dio dei suoi campioni. Ma egli, Sansone, rimane fedele e con-
cluderà la sua vita con un supremo sacrificio di se stesso che annienterà anche l’idolo Dagone (che era poi il libertino ma gradevole Carlo II). I lunghi lamenti di Sansone, i suoi colloqui accesi con il padre, con Dalila e con
il falso amico sono dei capolavori assoluti come lo sono i cori che esprimono con quadrata violenza il disappunto, il dolore e la mai spenta fede del popolo di Israele. Mai spenta fede. E con questa opera di singolare po: tenza si chiude la vita di questo grandissimo poeta, ori goglioso e schivo. «Defeated in His wars.» Ma Milton è, si sa, un seccatore. Prova ne sia che i suoi i massimi lavori sono due epicedi: uno, il Lycidas, quello di run amico, l’altro, il Sarzson Agonistes, della propria con‘ cezione del mondo.
GLI ALTRI DUE PURITANI: MARVELL E BUNYAN
Andrew Marvell rappresenta un tipo attenuato di puritano. Nato nel 1621 e morto nel 1678, figlio di un pastore dello Yorkshire, egli compì, come Milton, gli studi più brillanti e viaggiò lungamente in Europa. Dopo i suoi viaggi risiedette lungamente come precettore nella famosa Nunappleton, la residenza di Fairfax. Fu assistente di Milton nella sua attività diplomatica. Membro del Parlamento, vi svolse una serrata e nobile attività in
difesa dei suoi correligionari, fu incaricato di missioni diplomatiche all’estero. Di indubbia fede puritana egli possedette tuttavia un carattere meno bronzeo di quello di Milton, una sorta di duttilità che gli permise di continuare a servire il paese anche quando il regime puritano fu crollato; senza tuttavia mai rinnegare i suoi principi, anzi proclamandoli altamente. Gli opuscoli che, sotto Îa Restaurazione, venne pubblicando in difesa dei Puritani
e a scorno del corrotto clero anglicano dell’epoca sono di modello di quei Zbe/s (dall'inglese esula il senso peggiorativo che la parola «libello» ha in italiano) che, come abbiamo visto fin dall'età elisabettiana, hanno costituito e costituiscono anche oggi una caratteristica della letteratura inglese. Amico devoto di Milton anche e soprattutto durante gli anni sventurati egli rimane una nobile figura. Ma a noi interessano in primo luogo le sue liriche. Egli introdusse in Inghilterra i metri oraziani e mediante essi raggiunse effetti estetici di prim'ordine. Se si facesse (come del resto si fa continuamente) una raccolta delle
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più pure liriche inglesi le sue poesie vi avrebbero una parte cospicua.
La più famosa di esse è la sua Ode a Cromwell al suo ritorno dall'Irlanda. Essa, scritta e pubblicata nel 1653, è
non soltanto una magnifica ode ma una nobile azione. Indirizzata a Cromwell, il regicida, essa contiene delle strofe magnifiche in onore del Sovrano giustiziato, strofe che ne hanno per sempre fissato la figura umana (non politica) nella immaginazione popolare. Di eguale bellezza e di eguale nobiltà è l’ode Le Berzzude, nella quale i pericoli e gli sconforti degli esuli Puritani deportati in quelle lontanissime isole sono trasfigurati in azioni di ringraziamento per il Signore che li ha voluti salvi, per servirlo ancora, al di là di tutti i nemici. Egli risplende anche quale poeta dei campi, quale descrittore di quelle campagne inglesi dove, forse, il genere pastorale trova una espressione meno artificiosa che da noi. In molte di esse egli apre la strada ai madrigalisti inglesi della cui compiuta eleganza dovremo occuparci in seguito. Dovremo adesso parlare un po’ di John Bunyan (1622-1688) benché egli ci abbia lasciato una sola opera, in prosa, il Pi/gré's Progress. Con lui incontriamo un altro tipo di puritano, l’uomo senza cultura. Figlio di uno stagnino, stagnino egli stesso, fu tenacemente devoto alla propria fede per la quale, dopo la Restaurazione, patì dodici anni di prigione. Uscitone, errò per parecchi anni nella più profonda miseria finché la sua incorruttibile fede lo fece eleggere pastore di una piccola comunità di non-conformisti. Là egli scrisse la sua allegoria della vita del credente che attraverso le insidie, i pericoli e le tentazioni della vita raggiunge infine la città celeste, «the new Jerusalem». Dotato di una profonda conoscenza della Bibbia, ma della Bibbia soltanto, Bunyan ha scritto
un libro sorprendente che è una delle opere che più sono stampate nel mondo. Nessuna casa inglese o ameri-
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cana ne è priva. Scritto in uno stile semplice e colorito, è una delle pochissime allegorie che raggiunga la vera arte e vi si mantenga. È uno dei tanti libri la cui lettura mancava a Mussolini, la tenacia di Christian e la sua testarda
intrepidità gli avrebbero rivelato sul popolo inglese ben più che i rapporti degli ambasciatori.
e
I POETI SACRI
L'emozione religiosa non restò in questo periodo confinata, come potrebbe credersi, fra i Puritani. Negli anni dal 1630 circa al 1670 troviamo in Inghilterra tutta una pleiade di grandi poeti religiosi non Puritani. Essi non formano in nessun senso una «scuola»: sono relativamente distanziati nel tempo, appartengono tanto alla Chiesa cattolica che a quella anglicana, la loro ispirazione si riveste delle singole sfumature religiose. Non è una scuola, è l’espressione spontanea della religiosità individuale in questa vivissima Inghilterra post-elisabettiana. Per quanto frughi nella mia testa non so credere alla letteratura che abbia prodotto altrettanti poeti religiosi di tale eccellenza, tranne la Spagna del Siglo de Oro. Questi «poeti sacri» sono quattro, tutti eminenti:
George Herbert, Richard Crashaw, Henry Vaughan, Thomas Traherne. Oltre a loro ve ne sono due minori (Habington e Quarles) dei quali la ristrettezza di queste note impedisce di parlare. George Herbert (1593-1633) è non il maggiore, a mio avviso, ma il più apprezzato fra essi. Occorre dire che egli beneficia di una doppia fama, soggettiva ed obbiettiva: la prima nel suo indiscutibile valore poetico, la seconda consiste nell’esser egli stato «biografato» da Izaak Walton, un delizioso scrittore che redasse cinque biografie in stile di una semplicità e di una grazia tali che esse sono ancora molto lette in Inghilterra, dopo trecento anni. Il bello si è che Walton non accenna neppure al fatto che il suo modello e amico sia stato poeta, e che poeta. Omissione
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tipicamente inglese. Walton si occupa soltanto della vita di studente e della carriera ecclesiastica (anglicana) di Herbert e ne esalta le virtù (notevoli certo ma non eroiche: l’eroismo in quegli anni era dall’altra parte: dalla parte cattolica e da quella puritana). Egli riesce a disegnarci in cinquanta pagine la figura pacata, mite, arguta del poeta, gran signore di nascita e ottimo curato di una parrocchia rurale. Ma di Walton parleremo più a lungo dopo. Dunque George Herbert nacque nella antichissima e potente famiglia dei conti di Powis, nel castello di Powis a Montgomery, a due passi dal Galles. Io ho abitato parecchie volte nel castello di Powis e lì mi hanno mostrato i manoscritti del poeta e molti suoi ricordi. Dopo aver compiuto studi quanto mai brillanti a Cambridge, il giovane Herbert condusse durante qualche anno una vita movimentata a Londra, fu toccato dalla vocazione, entrò
nella Chiesa e divenne presto curato di una parrocchia rurale. Doveva occupare questo posto durante solo tre anni, fino alla sua morte prematura. Ma questi brevi anni furono sufficienti a far spiccare le sue virtù di carità e di mitezza e godé fama di santo, di un santo anglicano beninteso, cioè di una santità juste-mz2/7eu, comoda, confortevole, senza digiuni e cilici, con larghi redditi,
mute di cani e copiosa selvaggina. Nessuna sua poesia fu pubblicata durante la sua vita e soltanto al letto di morte inviò i suoi manoscritti ad un amico, Nicholas Ferrar, che li pubblicò a tre riprese con i titoli di The Terzple, Sacred Poems e Private Ejaculations. Essi sono tutti e tre di eguale valore e contengono
molti componimenti di valore eccelso, distinti soprattutto da una analisi delicatissima dei movimenti più intimi di un cuore credente. Ma quale fondamentale differenza passi fra la fede anglicana e quella cattolica in fatto di «calore» di espressione si può agevolmente notare paragonando le poesie dialogate di Herbert che parlano di colloqui fra l’anima peccatrice e il Salvatore con le altre
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famose di Verlaine che sono la trasfigurazione del colloquio mistico fra l’anima e Dio. Il fuoco e l’irruenza di queste ultime contrastano ben fottemente con il «tepore» (per meglio dire la «tiepidezza») e la ostentata «buona educazione» dei dialoghi di Herbert. Nei suoi limiti ristretti (teologici) Herbert rimane un gradevole ed ispirato poeta.
In un’altra temperie religiosa e, secondo me, anche artistica ci troviamo con le poesie di Henry Crashaw. Questi, figlio di un pastore anglicano, si volse al cattolicesimo, trovò la vita impossibile in Inghilterra, andò in Francia da dove, trovandosi in miserrime condizioni economiche
e di salute, fu mediante una colletta fra amici spedito a Roma, dove, poco dopo il suo arrivo, morì (1612-1649). Passare da Herbert a Crashaw è come passare dalla tranquilla preghiera di un’anima bennata, in un oratorio debitamente imbottito e riscaldato, alla estasi di una
Santa Teresa nella sua dura cella. E non a caso parlo di Santa Teresa, perché Crashaw fu un devoto di questa
ammirevole santa che era stata canonizzata di recente (1622) ed a lei sono dedicate due delle sue più infuocate poesie: Hyrzn in the Honour and Name ofthe Admirable Saint Teresa e The Flaming Heart, upon the Book and Picture of the Seraphical Saint Teresa; in esse le immagini più accese, le espressioni più struggenti di amore divino sono espresse nel linguaggio più ardito, subitaneamente raddolcito in espressioni «colloquiali» e adorno talvolta di gustose punte secentesche che bastano a determinarne l’epoca senza mai scivolare nella scioccaggine. Ma occorrerebbe leggere tutte le poesie di questo grande artista che possiede, oltre tutto, la serietà e l’ardore che
sono tipici dei cattolici inglesi anche oggi. Crashaw era morto da pochi mesi quando venne pubblicato il volume Sé/ex scintillans, poemi religiosi di Henry
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Vaughan (1622-1695). Vaughan, nato anch'egli quasi nel Galles, aveva condotto una vita gaudente e spendereccia a Londra dove si era accodato giovanissimo al seguito di Ben Jonson, «the tribe of Ben», come la si chiamava. Di
quegli anni di laicità rimangono tracce poetiche di scarsissimo valore in un suo volume di Poerzi. Egli venne convertito alla vita religiosa (anglicana) dall’esempio del suo compaesano Herbert. E di Herbert egli ha la dolcezza di espressione e l’estrema semplicità di stile. Doveva però possedere una maggiore robustezza di fede perché alcuni suoi poemi (non tutti) ci fanno davvero sentire un brivido di soprannaturale. Pare che egli possegga anche il diritto a un altro genere di fama, quella di sapiente alchimista e di esoterista illustre. Ma i segreti di queste sue attività che furono rivelati nel suo libro Olor Iscanus non sono accessibili a me perché Olor Iscanus, comperato da Lucio Piccolo a gran prezzo in un’asta libraria a Londra, è sepolto negli ipogei di Capo d'Orlando.
Al principio di questo secolo la poesia religiosa inglese venne inaspettatamente ad arricchirsi per la scoperta della migliore opera di Thomas Traherne (1620-1674) che non era mai stata pubblicata prima. Anch’egli quasigallese come Herbert e Vaughan, fu anch'egli pastore anglicano. Mentre le opere da lui stesso pubblicate (Contemplation of the Mercies of God) sono appena al di là della mediocrità, i suoi Poerzs e le sue Centuries of Meditations ci dimostrano un’anima fervidamente convinta e un talento poetico indiscutibile che riesce a brillare attraverso qualche imperizia tecnica. Francis Quarles, benché inferiore ad ognuno degli altri quattro poeti sacri, è quello che gode di maggior popolarità. Forse perché possiede dell’humour, cosa della quale i poeti sacri, in genere, sono alquanto sprovvisti.
ALTRI POETI LIRICI E POPOLARI
Noi chiamiamo Realisti e Puritani i due grandi partiti (progressista il primo, come abbiamo visto, conservatore il secondo) che si affrontarono durante la guerra civile inglese. Ma per i contemporanei essi erano i «Cavaliers» e i «Roundheads», così chiamati perché i Puritani avevano in orrore come effeminati i lunghi capelli fluenti sulle spalle che la moda (francese) imponeva agli uomini, e si facevano rapare la testa a zero. I poeti Roundheads li conosciamo. Ci resta da avvicinare i poeti Cavaliers che stanno ai loro antipodi. Quel che la Bibbia era per i Roundheads, Orazio e Anacreonte erano per i Cavaliers. Alla corte di Carlo I e, dopo, nei fastosi accampamenti dell’esercito realista, si sparse un fiume di poesia muschiata, galante, frusciante di seta che doveva seriamente «stink in the nostrils» dei Puritani. Erano poesie tutte quante atteggiate al modo di canzoni, quasi tutte di perfettissima elaborazione tecnica; siamo lontani, certo, dal dramma spirituale di Milton e anche dallo struggimento mistico di Crashaw, ma molte di esse sono poesie di rango elevatissimo: con questi poeti si inizia, e talvolta culmina, la serie dei ma-
drigalisti inglesi che ci rendono quasi palpabili le grazie della vita godereccia del Sei e Settecento. Cosa può esserci di più godibile, di più sensualmente attraente di questi tre versi: As in her silks my Celia goes Then, then, methinks, how sweetly flows
The liquefaction of ber clothes...
vin?
Letteratura inglese
Li ho letti in un articolo di critica, ho dimenticato il nome del poeta e malgrado le ricerche non ho potuto riacchiapparlo. Ma l’immagine della bella donna nel suo fruscio di sete pesanti mi è rimasta presente e sempre
penso ad essa guardando il famoso ritratto di Van Dyck. Di questi poeti il massimo è Robert Herrick (15911674), che fu fedele servitore del Re, per lui combatté in
guerra e fu in prigione e, dopo i guai, brillò alla corte di Carlo II. Egli è un lirico Cavalier, ma ancora assai vicino
agli elisabettiani; e il buon profumo agreste della lirica dei Song Books si ritrova nella sua Hesperides. Egli è quanto mai lontano dallo spirito metafisico e dalla perversità di Donne. Si occupa di belle donne e di buon vino, ma è ancora vicino ai fiori selvaggi, alle brusche benigne burrasche sui campi, e questo suo mondo sa esprimere con maestria.
Accanto a lui si può porre Thomas Carew (15981638) che è invece del tutto uomo di città e di corte. Meno raffinato artista, più apertamente sensuale, egli ha scritto però poemi di raffinata eleganza come il madrigale Ask ze no more, che è davvero un incanto, o fran-
camente sensuali come The Rapture, che si conchiude con dei versi ironici e sboccati e pur composti con raffinatezza. Anche gli epitaffi sono notevoli sempre per la stessa eleganza. Con Sir John Suckling (1609-1642) e Richard Lovelace ci troviamo a un gradino più basso. Sono in fondo due dilettanti di talento, che scrivevano madrigali non per fare dell’arte ma realmente per sedurre le signore. Nei loro versi brilla più spesso il 17/ che la qualità. Non sempre: talvolta il wif e l’arte si uniscono e ne vengon fuori cose deliziose.
L'età puritana - La Restaurazione - L’età polemica
T6)
Non si può conchiudere questa troppo breve rassegna senza parlare di Edmund Waller (1608-1687) e di . Abraham Cowley (1618-1667). Sembra impossibile, ma in una epoca letteraria che può vantarsi di Milton, Herbert, Crashaw, Herrick e Carew, Waller e Cowley ebbero alternativamente fama di essere i maggiori poeti. Grandi poeti non sono, proprio per niente. Ma sono
poeti importanti perché innovatori del ritmo e della prosodia e perché la loro stessa esageratissima fama invogliò altri della generazione seguente a servirsi dei loro ritrovati tecnici infondendo loro un maggior fiato poetico.
Senza Waller, Butler non ché Waller fu l’inventore di the couplet, cioè dei distici suoi più ispirati successori) in Inghilterra vien chiamata
sarebbe stato possibile. Perquel che gl’inglesi chiamano rimati 44, metro che lui (e i trovarono ideali per ciò che «l’epica leggera».
The relish of the Muse consists in rbyme: One verse must meet another like a chime.
Ecco un tipico couplet. Forma prosodica che ha i suoi meriti e che si adatta assai bene alla satira che per un secolo avrà tanta importanza nella poesia inglese. Ma che è accompagnata da un grave inconveniente in quanto costringe l’autore ad un costante sfoggio di wi, di motti di spirito; si vengono a costituire dei poemi, talvolta di grossa mole, tutti formati di tredicesimi e quattordicesimi versi di sonetti; e anche, come spesso avviene, quan-
do il wit c'è costantemente l’attenzione del lettore si svia e si stanca. (Questa della prolissità nel dire cose spiritose è una menda della letteratura inglese e non solo di quella poetica. Ne ho già fatto cenno a proposito di Ben Jonson, ma anche in Shakespeare ne traluce un barlume. In Sheridan poi essa si riafferma in pieno, macchia molte pagine dei grandi romanzi di Meredith, infastidisce nelle commedie di Wilde e rende quasi illeggibili molti dei
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saggi di Chesterton e di Guedalla. E bisogna notare che in ciascuno di questi autori il motto di spirito è davvero bello, ben trovato e ben detto. Ma le perle son tante che si possono scambiare per ghiaia. In Guedalla ve ne è una letteralmente ad ogni rigo. E la mente si stanca come si stancano gli occhi ai fuochi d’artifizio.)
Sir John Denham e Sir William D’Avenant sono gli epigoni di questi due noiosi magnati.
Pi
LA LETTERATURA CHE NON È ARTE
Accanto alla letteratura vera, alla letteratura che è o vuol essere arte, è sempre esistita e sempre esisterà un’altra
produzione di libri che chiamiamo letteraria perché scritta con le lettere dell’alfabeto. Essa è d’interesse assolutamente negativo per chi s’interessi alla letteratura vera essendo essa un rimpicciolimento, una specie di miniatura sfocata dei grandi modelli (o forse essendo le grandi opere la quintessenza, l’espressione raggiunta di quei sentimenti che i non-letterati non hanno saputo estrinsecare). Ma per chi s’interessi alla storia l’interesse che essa presenta è primario: essa permette di osservare in quale modo le grandi idee passino alla conoscenza universale, ci dà la visione e l’odore del secolo nel quale esse nacquero; Shakespeare, Dante, Baudelaire e tanti
altri anche di molto minori ci fanno respirare i profumi dell’Elisio. Sventuratamente questa pseudo-letteratura, se è di facilissimo accesso per i nostri tempi e per quelli che immediatamente ci precedettero, diviene quasi irraggiungibile per ciò che riguarda i secoli più lontani: ognuno di noi può conoscere Liala e con lievi sforzi può procurarsi Mastriani e Valera. Ma chi ha letto le opere del canonico Buttà, le raccolte del Poltoramza Pittoresco che gli avrebbero insufflato lo spirito del tempo borbonico? E domani chi vorrà conoscere ciò che «si» pensava (il «si» esprime i bottegai, i ferrovieri, gli uscieri e le cassiere) sotto il Ventennio fascista, leggerà Giovanni Gentile e avrà torto: deve leggere i trafiletti di «Farinata» e i Canti
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dell'Impero di Nino d’Aroma («quando battemmo Ras Mulaghietà»). Per conto mio, pazienza, cattivo gusto e stomaco for-
te aiutanti, ho letto molta di questa roba: ho letto Sabatini, Michele Neraco, George Ohnet, Liala, Pitigrilli, Arnaldo Mussolini, William Le Queux, Williamson, Bertha Ruck, Motta, Alessio Tolstoi, De Amicis, Zuccoli, Paolieri, Cantù, Guy Chantepleure, William Boothby, e innumerevoli altri. Con incommensurabili vantaggi di carattere storico e con (indiretto) godimento estetico. Sgrammaticati, illogici, isterici, ignoranti, fatui, snob, pietosi insomma, essi sono il ritratto di Demos, nostro
sovrano e padrone. Occorre conoscerli. Disgraziatamente tanto gli storiografi politici che quelli letterari hanno trascurato questa dilettosissima diramazione dei loro studi. Ed io non conosco che George Delvan che abbia pubblicato due grossi inestimabili volumi, Les lectures du peuple francais de 1850 à 1910, che ci mostrano i Renan in sessantaquattresimo, le caricature di Flaubert, gli scimmiottatori di France e i fratelli poveri di Péguy; i veri fornitori di spiritualità del popolo francese.
È una divagazione che è durata troppo; chiedo scusa e non lo farò più. Il mio intento era di dire che esiste, anche nel periodo della Rivoluzione inglese e della Restaurazione, una produzione stampata di questa storia: che di essa è stata fatta una raccolta di parecchie migliaia di pezzi da Lord Colebrooke, che per la benevolenza di quell’eccellente vecchio signore ho avuto la fortuna di spigolarvi dentro durante numerose visite alla sua biblioteca. Si tratta di romanzi, romanzetti e romanzacci realisti nei quali si ve-
de Cromwell dissetarsi con sangue umano, Fairfax stupratore di verginelle e Milton (Milton!) intascatore di grosse mance; e per converso opericciole puritane nelle
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quali con biblica perspicuità e chiarezza di termini si accusano Carlo I, Strafford e Prince Rupert di equivalenti abomini. Foglietti volanti (broadsides) con madrigali alla maniera di Suckling manifatturati con nauseabonda sdolcinatezza e versificazione traballante; fascicoletti di prediche morali nei quali le arguzie metafisiche di Donne e la solenne ira di Laud divengono sofismi inconcludenti ed esplosioni di becero furore. Opere di pubblicisti affamati che probabilmente scrivevano per ambedue i partiti, stampate alla macchia; fiori di quella pepiniera di polemisti di quarto ordine che fiorì in quell'epoca e dalla quale poi, a forza di talento, dovevano uscire i grandi nomi di Defoe e Swift. Ho preso allora numerosi appunti dei quali sopravvivono adesso soltanto due fogli; in essi trovo i nomi di Kynaston, Hall, Flecknoe, Felltham, Cleveland e Ben-
lowes. Ma la parte maggiore di questi scritti di sub-letteratura è anonima.
Eppure. Eppure ecco un verso deliziosamente barocco che viene a galla nella mia memoria; è di Benlowes e
ricordo che fa parte di una satira altrettanto lunga quanto mediocre. Eccolo: War bas our lukewarm claret broach'd with spears.
Forse è l’unica delizia letteraria in questo mare di delizie storiche.
IL TEATRO
In gran parte per colpa della situazione politica, in parte minore per il criterio adottato di estendere al principio del regno di Carlo I la denominazione di «teatro elisabettiano», l'epoca della quale abbiamo trattato è quanto mai povera di produzione teatrale. Già dal principio del regno di Elisabetta i Puritani avevano attaccato con la massima virulenza il teatro. Allora però essi erano pochi e discreditati. Ma quando Giacomo I prese sotto la sua diretta protezione le compagnie drammatiche, Corte e Scena divennero un tutto unico
agli occhi degli oppositori; con la caduta dell’una cadde l’altra. William Prynne, il focoso (e stupido) propagandista puritano, scatenò un furioso attacco moralistico
contro il teatro, usando come argomento principale il fatto che nella Bibbia non si fa cenno di rappresentazioni teatrali. Vi furono dei difensori, ma isolati e deboli. Il 2 settembre 1642 fu ordinata la chiusura di tutti i teatri; non solo, ma si comminava la pena di dieci colpi di frusta per ogni attore che continuava a recitare e di cinque
sterline di multa per ogni spettatore. Il colpo era mortale, nell’intenzione. Non lo fu del tutto nei fatti. Anzitutto erano proibite le recite pubbliche, ma non quelle in case private. E inoltre la vendita di libri contenenti opere teatrali era permessa. Inoltre ancora erano permesse, fuori delle città, le recite di 4r0//s, cioè di farse. Tipica contraddizione dittatoriale che vietava il meglio e autorizzava il peggio. Vedremo gli effetti di queste limitazioni alle restrizioni. Però (tranne una breve ma brillante ripresa durante la Restaurazione)
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TRIS)
l’arte creativa teatrale appassì. Grandi attori, grandissimo favore di pubblico ma nessun autore di prim'ordine per due secoli, tranne Goldsmith.e Sheridan. Il teatro inglese rimase in letargo sino alla fine del secolo XIX; poi con Wilde, Shaw, Coward e adesso con
Eliot e Fry ha ritrovato la sua vena migliore e nel XX secolo si presenta come il più ricco di talenti in Europa.
LA PROSA
Il compito di parlare della prosa inglese è stato abbastanza facile riguardo al periodo elisabettiano; ma adesso va diventando (e in modo sempre crescente) superiore alle mie possibilità. Senza neppur voler accennare alla prosa politica che, come è chiaro, dilaga in Inghilterra con il periodo turbolento 1642-1660, la quantità di prosa stampata aumenta in modo pauroso durante la Restaurazione e diviene schiacciante col crescere della prosperità e della libertà di stampa nel Settecento. Sorgono i grandi sistemi filosofici: opere in prosa; si instaura e si affina la controversia religiosa (fra cattolici e protestanti, fra anglicani e presbiteriani, fra questi ultimi e metodisti): opere in prosa. Si afferma il giornalismo sia come comunicazione di notizie che come relazioni sullo stato economico e politico inglese ed estero. Spunta il desiderio della storiografia: opere in prosa. Si elaborano i grandi sistemi scientifici newtoniani: opere in prosa. L’attenzione si volge alle pratiche pedagogiche: opere in prosa. I viaggiatori inglesi sciamano nel Grand Tour su tutta l'Europa e specialmente in Italia: opere in prosa. Si forma la critica della letteratura e dei costumi: opere in
prosa. Opere in prosa delle quali molte hanno un’importanza di prim'ordine per la cultura inglese e per quella europea. A me però manca la competenza e a voi il tempo
per occuparci di tutte queste opere. Dovremo limitarci a parlare soltanto di quelle opere che abbiano un valore estetico, di qualunque argomento esse trattino, ma non delle altre. Quindi se alla fine di queste letture non avre-
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te udito parlare di Hobbes o di Adam Smith non avrete rimproveri da farmi: siete stati avvertiti in precedenza. Di questi scrittori che hanno-fatto opera di fantasia poetica con la loro prosa ne troviamo tre in questo periodo. Anzitutto Milton. Grande artista del verso egli è altrettanto grande artista della prosa. Rileggendo la sua Areopagitica qualche giorno fa sono rimasto soggiogato
dall'andamento solenne di quel discorso nel quale ogni argomento è avvolto in una immagine splendente. Ma di Milton abbiamo già parlato a suo luogo. Sir Thomas Browne era un medico, nato a Londra e residente a Norwich (1605-1682), dove ho visto la sua
deliziosa casetta con la biblioteca e i mobili che hanno appartenuto a quest'uomo dallo spirito sorridente, acuto, e disilluso. Realista e anglicano nel cuore, si astenne però da qualsiasi manifestazione politica durante i torbidi e riuscì a non esser molestato. Carlo II al suo ritorno lo fece «Knight». A lunghi intervalli pubblicava dei libri che sono rimasti tutti celebri. Religio Medici dovrebbe essere un saggio sulla possibilità di conciliare la religione con la scienza. In realtà è costituito da una serie di saggi sui più svariati soggetti, tutti pervasi da un sorridente scetticismo, da una bonaria accettazione dei guai del mondo e
facenti mostra della più deliziosa forma di erudizione, l’erudizione inutile. Sarebbe troppo dire che sono fratelli degli Essazis di Montaigne. Si può piuttosto affermare che sono i saggi che avrebbe potuto scrivere Monsieur Bergeret. Dopo scrisse un libro su... I/ seppellimento dei cadaveri nelle urne che malgrado il titolo macabro è tutto un sorriso. La comprensione, i dubbi, il compatimento,
queste virtù in sordina, trovano in Browne un orchestratore di prim'ordine: esse cessano di prosperare nell’om-
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bra e splendono al sole. Sono delle violette divenute girasoli, pur conservando i loro tenui colori e il profumo delicato. Bisogna leggerlo per credervi. E nel trattatello sul Giardino di Ciro, ove dai più minuti accenni l’adorabile Sir Thomas si sforza di ricostruire nella mente quali fossero i giardini degli antichi, egli nelle innumerevoli divagazioni ci mostra un’anima di tale delicatezza, uno stile di così profumata sontuosità da far restare trasecolati. Sir Thomas era evidentemente un grandissimo poeta che la vita in provincia e la sua stessa professione volsero alla prosa, nella quale egli profuse l'enorme massa di senso poetico che aveva in sé. Nessuno ha mai dato più splendida forma ai più penetranti dubbi.
IZAAK WALTON
A Londra vi è una strada, St James's street, che è quasi
interamente occupata da negozi di lusso per uomini. Cravatte, scarpe, mazze da polo e da golf ornano le vetrine di negozietti minuscoli ma nei quali la qualità degli articoli in vendita è stata esaminata con la stessa scrupolosa cura con la quale un poeta esamina le liriche che possono ornare la sua raccolta. Fucili da caccia supremi, per tutte le cacce da quella al tordo a quella dell’elefante; cartucce di qualsiasi sorta, da quelle leggerissime per uccidere l’uccello senza deteriorarne le piume a quelle triplamente blindate per fulminare un rinoceronte che se la prenda con voi personalmente. Tabacchi di ogni sorta e paese, dal rude toscano nostro a certi sigari delle Filippine che odorano di ananassi, sigarette turche, egiziane, armene, afgane, russe, indocinesi, peruviane e au-
straliane; sigarette il cui tabacco macerò nell’olio di rose e sigarette che dopo essere state confezionate hanno giaciuto per un anno in cantine nelle quali si conservava il merluzzo secco; sigarette con zafferano, con cinnamomo e con incenso; sigarette rosse, nere e gialle; sigarette al
whisky e sigarette al pacciulì. Pipe di radica, di schiuma, di ambra, di avorio, antiche e moderne, lisce e scolpite,
tonde, cubiche, a forma di pomodoro o di piramide, pipe diritte, pipe ricurve in giù e pipe ricurve in su, bocchini di qualsiasi sorta, da quelli in foglia di Manilla che rendono gelido il fumo a quelli scavati nelle ossa dei morti che rendono gelida l’anima. Accendisigari a benzina, a gas, elettrici e, adesso, suppongo, ad energia atomica; accendisigari di oro, di argento, di platino, di ac-
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ciaio, di giada e di legno; a molla, a rotella, a pistone, a
leva, con pietra focaia proveniente dal Tibet, accendisigari che non si spengono finché il vento non superi i centoventicinque chilometri orari, accendisigari con orologi e accendisigari con bussola, accendisigari che emettono sordi boati nelle vostre tasche per avvertirvi che la benzina sta per finire. E le benzine! Incolori, rosse, verdi, amaranto e gialle. Benzine a rapidissima accensione e benzine a ritardamento, benzine profumate all’origano, alla « peau d’Espagne» e al Chanel 22; ed anche benzine particolarmente puzzolenti che servono per allontanare i seccatori.
Vi sono i negozi di liquori, i negozi di bastoni, i negozi di cani. Tutto su un tono di raffinata eleganza. Al più composto degli uomini gira un po’ la testa. I prezzi sono
in ghinee. Ma ci sono anche i negozi di articoli di pesca. Di pesca all’amo, sport nobilissimo e combattivo (pescano all’amo anche i tonni) molto praticato nei mari, nei fiumi, nei laghi, nei torrenti e nei ruscelli inglesi. Questi negozi sono ricolmi al di dentro di ami, canne, esche, lenze, rotelle, barilotti e quanto mai l’uomo ha immaginato
per ingannare e distruggere quelle innocentissime bestie. Ma la vetrina, castamente drappeggiata in velluto color avorio, esibisce soltanto un libro, uno smilzo libriccino rilegato in marocchino verde: The Corzpleat Angler, il pescatore compiuto, di Izaak Walton (finalmente ci siamo arrivati). Izaak Walton (1593-1683) è nello stesso tempo uno dei più solidi classici della letteratura inglese e uno degli scrittori più letti anche ai nostri giorni. In novanta anni
di vita non produsse che due scarni volumetti, cento pagine complessive: ma la sua fama e stante popolarità sono dovute al fatto che egli glese degli inglesi: l’inglese tipo. (Oltre eccellente stilista.)
di un seila sua coè il più inad essere
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Anzitutto egli fu «a scholar and a sportsman»: uno dei suoi libri è quel tale sulla pesca all’amo, l’altro è costituito da cinque brevi biografie d’illustri uomini da lui conosciuti (cosa intendesse lui per «conoscere» gli uomini vedremo in seguito). Duplicità di talenti che è un’irrefragabile bisogno inglese, paese nel quale uno studente, poniamo, di Cambridge che eccella nella composizione di versi greci è moralmente squalificato se a queste sue prodezze umanistiche non aggiunga equivalenti prodezze nel canottaggio o nel pugilato. Walton è 4 #ripos in ambedue le attitudini. (Su Milton pesa un’ombra inespressa, forse inconscia, perché ai suoi mai più ripetuti trionfi accademici nelle lingue antiche non risulta abbiano mai corrisposto eguali successi nei games.) A parte questo, The Cormpleat Angler è un libro pieno di sapore e di humour. Alle più minuziose avventure sul modo di preparare le esche e di accorciare le canne, si mescolano le più ridenti descrizioni di fiumi e laghi; tipi di pescatori dilettanti e professionisti sono delineati con la più sorridente benevolenza; le ampie bevute nelle ac-
coglienti locande, dopo la pesca, sono narrate con umorismo non indegno di Shakespeare prima o di Dickens poi; e i più saggi (diciamo pure i più elevati) consigli di fair play, di equanimità verso i pescatori rivali e verso i pesci stessi (ai quali occorre sempre dare il modo di «combattere» a loro agio) sono dispensati con una improvvisa solennità di tono che fa comprendere quanto ciò stesse a cuore al buon Walton. Questa materia ha
prodotto lo stile più gradevole, più «anglicano» che si possa immaginare: tutto in understatements, in mezze-
tinte, somigliante a un acquarello di Rowley. Bisogna avere un palato addestrato per comprendere di quanti ingredienti sottili sia composta questa salsa che si accompagna assai bene appunto al gusto in penombra delle trote e dei salmoni dei laghi.
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Precisamente uguale è il trattamento che Walton adopera nelle sue Vize. Invece che di tinche e di carpioni si tratta di uomini, di uomini veramente illustri, quali
Donne e Herbert. Ma di ciò a Walton non importa nulla: essi non sono per lui grandi poeti; sono «gentlemen and friends» e questo conta molto di più. Nella biografia di Donne si parla soltanto della sua vita di ecclesiastico e dei suoi sermoni: che egli sia stato uno dei più grandi lirici inglesi non è neppure accennato. Nella Vita di Herbert si parla a lungo in modo affascinante di come aiutasse un carrettiere a disincagliare dal fango il carro e di quante paia di calze distribuisse ai poveri della sua parrocchia; Walton ignora (o fa finta di ignorare) che Herbert era uno dei più grandi poeti religiosi del suo tempo. Insomma Walton è l’anti-Plutarco. Delizioso anglicismo, specchio fedele di quel singolarissimo paese nel quale si possono passare settimane in quotidiana consuetudine con un vecchio signore prima di apprendere che egli è un illustre ammiraglio o (come è capitato a me con Lord Haldane) un ex viceré delle Indie. Walton, si capisce, non è Shakespeare, né Donne, né
Milton. Non ha niente che si possa paragonare (in intensità) a Dickens o a Browning. Ma se si vuol conoscere «l’Inglese» allo stato puro val meglio conoscere lui ed ignorare gli altri. (Né Hitler né Mussolini, ripeto, lo avevano letto.)
Questi sono i tre massimi rappresentanti della prosa
inglese della prima Restaurazione. Ma avrei rimorso di non accennare alle bellissime lettere di Oliver Cromwell (così amorosamente raccolte e commentate da Carlyle nel suo libro illustre) nelle quali quel grandissimo uomo ci si mostra tutto nella sua energia, nei suoi capricci e
nel suo asciutto humour puritano.
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E se si avesse molto tempo a disposizione bisognerebbe gettare più che un fuggevole sguardo sullo stranissimo Thomas Urquhart, uno scozzese della più pura acqua che immaginò di scrivere la storia della propria famiglia dai tempi più remoti (da Sem, figlio di Noè). Non vi è profeta ebraico, artista greco, legionario romano, pirata vichingo, monaco benedettino, feudatario normanno che non sia un Urquhart; e le loro vite sono narrate con un lusso di particolari e un entusiasmo che lasciano trasparire l'intimo scetticismo dello scrittore. Un grande libro poco noto; una vera delizia per buongustai. (L’ho letto.)
L’ETÀ DI DRYDEN
Debbo cominciare col confessarvi un altro errore. Avevo pensato di trattare come un tutto compatto l'età della Rivoluzione e quella della Restaurazione sino al 1688. Ciò invece è impossibile. Vi è ancora una certa omogeneità di aspetti fra la Rivoluzione e l’inizio della Restaurazione; i protagonisti letterari sono gli stessi, identici sono i motivi dialettici. Basti, per tutti, pensare a Milton. Ma con l’avvento al trono di Giacomo II (e forse anche prima durante gli ultimi anni del regno di Carlo II) ci si accorge che il clima è interamente mutato: i grandi nomi dell’età rivoluzionaria (continuiamo a chiamarla così per comodo) sono scomparsi dalla scena, i problemi artistici e politici (e in questa epoca i due termini sono identici) che si pongono sono mutati: l'Inghilterra subisce per la prima volta nella sua storia una forte influenza straniera non soltanto politica ma intellettuale: attraverso la ventosa Manica giungono a Dover belle donne, bei franchi d’oro e begli esempi di arte classica che la Francia di Luigi XIV invia al frivolo Re per assoggettare l’Inghilterra al suo disegno di egemonia europea. E se da un canto quello spendaccione libertino di Carlo II accoglie e valorizza i doni, se alcuni dei più nobili ingegni inglesi si lasciano sedurre dalle modulate raffinatezze di Racine e Boileau, si comincia d’altra parte a cristallizzare quella resistenza nazionale e religiosa che in brevissimo volgere di anni porterà alla rivoluzione nel 1688; movimento che, benché assai meno sanguinoso e drammatico di quello del 1642, merita davvero il nome di rivoluzione che il precedente usa abusivamente.
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Quindi per ottenere quella quantità di chiarezza che è possibile raggiungere in queste confusissime annotazioni, mi vedo costretto a parlare di una «età di Dryden» come di qualcosa di distinto dal periodo precedente. Uno dei caratteri peculiari della storia letteraria inglese è quello del prevalere di una data personalità letteraria su tutte le altre contemporanee. Del formarsi di una sorta di dittatura letteraria. E ciò non significa affatto che il più grande poeta o romanziere aggioghi alle proprie vedute i minori seguaci; significa invece che ad un certo punto una data personalità di scrittore (anche di secondo ordine) mercé la lunghezza della sua vita, mercé il prestigio acquistato, mercé anche le sue relazioni politiche, si presenta quale formatrice ed egemone dell’età sua. Così non si può dire che esista una «età di Shakespeare», ma una «età di Ben Jonson»; esiste invece una «età
di Milton» nella quale autorità e merito coincidono, come coincidono in questa «età di Dryden» della quale stiamo per parlare. Ma in seguito l’«età di Addison» e quella di Samuel Johnson vedono disgiunte le cariche, per così dire, di dittatore e grande letterato. Con la fine del secolo XVIII questo gioco delle età cessa di esser così chiaro; benché in fondo in fondo non
sarebbe errato parlare di una «età di Scott» per gli anni 1810-1830 e di una «età di Tennyson» per gli anni 1860. Ma sarebbe occuparsi un po’ di giochi di parole.
DRYDEN
Il teatro congelato. Dryden lasciò la sua originale impronta barocca nella lirica, nella prosa, nell'opera critica. Ma soprattutto nell’effimera mabrillante rinascenza del teatro sotto la Restaurazione. È necessario quindi guardare un po’ cosa era rimasto del grande teatro inglese sotto la raffica puritana, prima di esaminare l’opera di Dryden. Come abbiamo visto, sotto il regime di Cromwell non era vietata la pubblicazione per stampa delle opere teatrali. Risulta infatti che il famoso folio di Shakespeare, l’altro folto delle opere di Ben Jonson, vennero largamente diffusi nei periodi più rigidi del regime puritano; non soltanto, ma nel 1647 venne pubblicata la raccolta completa delle opere di Beaumont e Fletcher. La rappresentazione di farse in campagna era permessa: e così abbiamo notizia di dro//s tratti dalle opere di Shakespeare. Una estratta dal Sogno di una notte di mezza estate, una derivata dalle Gase Comari e financo una parodia di Amleto. Le recite private non erano proibite. Si rappresentavano dei 7asks in quelle delle grandi case che non erano state devastate dalla guerra civile. Ma il fatto più importante è che, dopo quattordici anni di rigore, nel 1656 Oliviero Cromwell autorizzò le recite di opere teatrali «purché accompagnate da musica la quale ha un effetto purificatore sulle immondizie rappresentate in scena». Con questa poco lusinghiera motivazione nacque il melodramma inglese, destinato del resto a sorte ingloriosa. Così nel 1656 stesso vennero rappresentate due ope-
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re: I/ trattenimento a Rutland House e l’Assedio di Rodi, composte di lunghi recitativi e di intermezzi orchestrali. Il tutto di Sir William D’Avenanit. Il testo si è perduto ma la musica ci è giunta. Queste due opere il cui valore artistico sembra forse nullo sono importanti per due ragioni: sono le prime opere di teatro inglese in cui si sia usato lo scenario, e sono anche le prime alle quali abbiano partecipato delle attrici inglesi. (È superfluo ripetere che il teatro elisabettiano faceva recitare le parti femminili ai ragazzi; e che di attrici femmine si erano viste soltanto delle francesi che vennero sotto Elisabetta a recitare drammi francesi.) Il teatro si disgela. La Restaurazione aprì immediatamente i teatri. Carlo II e le persone che lo avevano seguito nell’emigrazione avevano continuato in Francia a frequentare i teatri; e così la Corte formò due compagnie teatrali a capo delle quali furono rispettivamente il D’Avenant e Thomas Killigrew. L’attività iniziale di questi due complessi fu di commovente goffaggine: D’Avenant, a corto di commedie nuove, trovava però i vecchi drammi troppo «rudi» («la politesse francaise» si era introdotta in Inghilterra insieme con la monarchia restaurata) quindi si diede a «rifare» Shakespeare. Si rappresentarono così Rorzeo e Giulietta trasformata in commedia a lieto fine, Macbeth con cambiamenti, miglioramenti, aggiunte e nuove canzoni,
Misura per misura chiamata la Legge contro gli innamorati alla quale vennero aggiunti i personaggi brillanti di Beatrice e Benedick, ritagliati fuori dal Molto rumore per nulla. Vi erano però degli eccellenti attori e Pepys parla con entusiasmo dell’interpretazione di Amleto fatta da Betterton. Come è naturale, vi fu nei primissimi anni un diluvio di commedie satiriche contro i Puritani, nessuna delle
quali raggiunse il minimo livello di arte.
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Un altro segno della decadenza (o per meglio dire della paralisi) del teatro inglese furono le innumerevoli imitazioni del teatro spagnolo. George Digby, che era stato ambasciatore in Spagna, ha lasciato molte traduzioni e rifacimenti da opere di Calderén e Lope de Vega. Altra fonte di imitazione fu il teatro francese, imita-
zioni di Molière assai grossolane nelle quali i modi venivano imitati ma il genio sfuggiva.
Ma questo carnevale di cattive commedie e di pessime imitazioni durò poco, quattro o cinque anni. Nel 1665 infatti appaiono i primi scrittori originali, appare
soprattutto il buon gusto di Dryden. Si inizia la primavera fugace dello splendente e malizioso teatro della Restaurazione. Il teatro rifiorisce. Questa rinascita del teatro ha dei caratteri particolari. Anzitutto il prevalere della commedia sul dramma: di fronte a cinque o sei autori di commedie (parlo, s'intende, soltanto dei migliori) non trovo che un autore tragico, Otway, se non si voglia contare Dryden che sfugge alla classifica. In secondo luogo la licenziosità. Questa licenziosità fa ancora inorridire i buoni britanni che soltanto adesso si sono decisi a parlare come si merita di questa epoca tan-
to notevole del loro teatro. Cinquanta anni fa Wycherley, Congreve, Vanbrugh e Farquhar erano autori dei quali si parlava sottovoce e soltanto «fra uomini». Io, ciò si sa, sono non soltanto dotato di cattivo gusto,
ma di perversità morale, basti dire che non riconosco l’unghia del Diavolo nel Rouge et Notr. Così fatto, non riesco a vedere nulla di ovviazzente immorale in queste commedie — e ancora meno dovevano fiutarvi il Diavolo gli spettatori della Restaurazione ai quali la dissolutissima Corte offriva ben altri spettacoli licenziosi. Però vi è in questi autori qualcosa di peggio che non è stato avvertito dalla maggior parte della critica: una fon-
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damentale assenza di senso morale, una indifferenza
sorridente verso i problemi etici che appare in trasparenza sotto la rabescata calligrafia dei motti di spirito. L’esagerazione puritana aveva prodotto i suoi effetti. Proprio l’opposto degli elisabettiani. Una terza caratteristica comune a tutti questi comme-
diografi è la loro noncuranza tecnica: non per quello che riguarda la scrittura che è sfaccettata, briosa, luminosa,
ma riguardo alla costruzione dell’intreccio drammatico che riesce spesso quasi incomprensibile tanto esso è inutilmente complicato e deficientemente posto in luce. Più che commedie da assaporare nel loro complesso sono una successione di scene maliziose ed acute, piene di un humour senza cuore che, a lettura fatta, lasciano la boc-
ca amara. Arte eminentemente aristocratica, fatta per un pub-
blico intelligente, amorale ed esperto di ogni raffinatezza e di ogni vizio. Siamo lontani dagli onesti pirati e dalle caste donne di malaffare del «Globe». Occorre dire subito che Dryden non partecipa a queste caratteristiche. John Dryden (1631-1700), nato a Londra, compì i suoi studi universitari a Cambridge. Il fatto strano riguardo a questi studi è che egli non si riferisce mai a Cambridge nelle sue opere, mentre rivolge una delle sue odi più studiate ad Oxford. Il che costituiva (e costituisce) uno scandalo, che si può del resto spiegare pensando che temperamento meno accademico è difficile trovare. A poco più di venti anni si stabilisce di nuovo a Londra e da allora conduce con somma dignità la vita dell’uomo di lettere. Lo troviamo sempre all’inizio di ogni movimento letterario o teatrale, pronto ad estrarre la sintesi di ogni movimento spirituale od estetico con una rettitudine e libertà di giudizio non frequenti nella polemica delle Restaurazione.
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Non era uomo «da tavolino». Quasi tutte le sue poesie (che pur eccellono in primo luogo per la levigatezza e accuratezza del verso) furono poesie di occasione e composte al suo tavolo del Wills Coffee-House che ancora esiste in Cheapside. Si direbbe che il suo estro avesse bisogno di una spinta esteriore per funzionare. Cominciò con una Ode sulla morte di Cromwell che ce lo mostra già in pieno possesso della delicatissima tecnica del couplet di decasillabi. A questo genere si ricollega il famoso poema Arnus Mtrabilis 1666, nel quale viene esaltata in termini d’incomparabile ricchezza barocca una effimera vittoria navale sugli olandesi. Intanto, scontento dell’andazzo imitativo degli spagnoli e dei francesi che era prevalso sulle scene inglesi, Dryden si provò alla commedia con scarso successo. Il suo W/d Gallant e il Marriage à la Mode pare valgano pochino. Ma nel 1664 con le Rival Ladies egli trovò la sua strada che era poi quella cui conduceva la lussureggiante cultura barocca: quella della tragi-commedia. I tempi erano ben mutati dalla semplicità e povertà della scena elisabettiana: il pubblico esigeva messe in scena sontuose, prospettive stupefacenti. E il testo non doveva scapitare di fronte a tanta fittizia meraviglia, anzi doveva ad essa intonarsi ed ornare ancor più lo spettacolo con rime amma-
lianti e ritmi sorprendenti. Si creavano dei facsimile di opere liriche nelle quali al musicista si sostituiva il poeta. Opere d’arte di una difficoltà di esecuzione immensa; lo
sdrucciolare verso la vuota retorica e il vuoto fasto verbale era facilissimo; e sdrucciolarono in Francia Quinault e Pradon, in Italia gl’ignoti versificatori che tentarono di
animare con parole la scenografia dei fratelli Bibbiena. Dryden invece fu l’uomo adatto alla bisogna. Egli riuscì a fare di queste recite che partecipavano della tragedia, della pantomima e della farsa delle opere d’arte autentiche.
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Come abbiamo detto egli esordì in questo genere con le Rival Ladies; ancor maggiori possibilità spettacolari gli furono offerte dalla Indian Queen (1664) che fu sei guita dall’Indian Emperor (1665). Rivoltosi ai soggetti ‘ esotici che gli davano agio di spaziare senza limiti oltre la gabbia delle convenzioni, nel 1670 fece rappresentare ila Conquest of Granada e dopo ancora Aureng-Zebe. |Londra impazzì: della Conquest of Granada furono date : settantatre rappresentazioni consecutive. Dryden fu ele‘vato alla carica di Poeta Laureato. Queste opere avrebbero in sé tutte le premesse per i essere degli orrori: le passioni sono sfrenate, non nel : senso in cui chiamiamo sfrenati i personaggi di Webster io Re Lear i quali dopo tutto agiscono con sentimenti i universali, ma sfrenati nel senso di illimitati, di enormi
navi disancorate che errano sotto il soffio di passioni ciiclopiche. Ragazze si gettano nei vulcani, Aureng-Zebe i dona a una vezzosa mendicante duerzila elefanti carichi | di pietre preziose, re si suicidano ingoiando rubini puri i misti a lacrime di coccodrillo, un valoroso soldato ucci-
ide trecento nemici da solo e armato di una spada «fit for |boys», naufraghi su di una zattera si salvano tessendo i «capelli delle donne e facendone vele, Montezuma, impeiratore del Messico, ha una tigre per concubina, filtri magici trasformano vecchie in giovani, uomini in donne,
‘donne in uomini, pecore in leonesse; spagnoli pongono prigionieri aztechi a rosolare sulle graticole, i quali aztechi poi, a mezza cottura, si alzano e pongono a rosolare
gli spagnoli. Ma questi drammi sono belli. La ricchezza di ritmi, la sontuosità di espressione, il
vero sentimento che lampeggia misto a queste nuvole di scempiaggini, travestono di poesia i ridicoli argomenti. So che non ci credete ma è così. Non posso leggervi dei
brani perché le mie plays di Dryden sono andate distrut-
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te, ma vi assicuro, per esempio, che quando Dryden prende a descrivere le capigliature femminili che dovranno diventare vele, tira fuori certi colori, si attarda in
certi ricordi di carezze ricevute da quei capelli, che compie una vera e propria e bellissima lirica amorosa. Del resto le stravaganze più folli sono immancabilmente redente dall’humour. Nella scena del mutuo rosolamento ispano-azteco a un certo punto un messicano dice: «Le bistecche sono diventate cuochi, e i cuochi bi- .
stecche». Credo che l'elemento che salvi le commedie eroiche di Dryden sia la grazia, una grazia fatta di levità che riesce ad alleggerire la dizione pur nei ripugnanti argomenti che abbiamo esposti. Di minori scuse hanno bisogno i suoi rifacimenti shakespeariani. Ciò può sembrare assurdo, ma è così. Pochi letterati inglesi sono stati più «adoranti» di Dryden nei confronti di Shakespeare. Eppure egli ha voluto «rifare» tre opere di Uncle Bill: La Tempesta, Antonio e Cleopatra, Troilo e Cressida. Non vi è nessun desiderio
di correggere, non vi è la pretesa di migliorare. Dryden, nelle prefazioni preposte ad ogni suo lavoro, lo dichiara apertamente: egli ha voluto servirsi soltanto della trama e del taglio della scena, ogni singolo verso è suo, di Dryden. «A me è sembrato che un argomento che abbia attratto l’attenzione e acceso gli impareggiabili fuochi dell’estro poetico di Shakespeare abbia già ricevuto un certificato di salute. Ed ho voluto provarmi anch'io in questi argomenti più per provare la valentia del maestro che per mostrare i progressi del discepolo. E sarò ben lieto se riuscirò a sembrare il nanerottolo deforme che regge lo strascico di quella splendente regina.» Nel Troilo e Cressida (1679) non ha neppure potuto soddisfare questa modesta ambizione. Edulcorata, imbellettata, castrata, la tremenda commedia shakespearia-
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na ha perso i suoi connotati. È una porcheria senza scu-
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santi. Mala Tempesta è già meglio. La trasposizione del sentimento di Shakespeare in linguaggio e modi di corte seicenteschi è quasi del tutto riuscita. Il suo Antonio e Cleopatra (All for Love; or the World Well Lost) è una bellissima cosa. I versi di Dryden sono altrettanto voluttuosi di quelli del prototipo ma di una voluttà diversa, imparruccata e un po’ perversa. Tutto ciò che un poeta di corte e uno scrittore erudito di quasi un secolo dopo poteva tirare da quella favola è stato raggiunto. Il Pollaiolo, Rubens e von Stuck, ognuno in se-
coli diversi, dipinsero un «giudizio di Paride». Tre quadri, tre secoli, tre visioni del mondo.
Ma anche tre
capolavori. Delle liriche di Dryden abbiamo di già un po’ parlato. Occorre adesso dire delle due Canzate in onore di S. Cecilia che sono tra le cose più straordinarie della poesia inglese. Come i Quartetti di Eliot esse sono trattate da musicista oltre che da poeta. E le immagini si sposano al ritmo in modo quanto mai gustoso. Assai bella e mantenuta su corde gravi è Ode in m0rte di Anne Killigrew. Sir Thomas Browne aveva scritto la Religio Medici in magnifica prosa. Dryden ha voluto scrivere la Religio Laici in versi. In bei versi, sonanti, torniti e di elevato
sentire. Ma quest'opera, che ha tanta importanza nella controversia fra anglicani e presbiteriani, è di una noia senza paragoni.
Migliore è il lunghissimo poema satirico The Hind and the Panther. Troppe allegorie, troppi simboli, troppi concetti; ma frequenti versi veramente poetici, frequenti
frecciate ben aguzze e che dovevano fare un gran male a chi le riceveva. Lo ho riletto 4/70 e non è stato un lavoro da poco. Perché un po’ noiosetto lo è davvero. L'ideale
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delle satire in versi è l’epigramma. In più di sei versi il poeta riesce solo a prendere in giro se stesso. Le opere in prosa di Dryden sono quelle che mag-
giormente gli conferiscono il rifiorire di reputazione del quale egli gode. Egli era un grande critico. Completamente estraneo a qualsiasi teorizzare, egli si lasciava guidare unicamente dal suo gusto, che era infallibile. Gli piaceva tutto ciò che aveva allora un vero valore e detestava tutto ciò che era di terz’ordine. In opposizione al gusto del suo tempo amava le vecchie ballate, amava — Chaucer, amava Piers the Plowman. Della sua ammirazione per il teatro elisabettiano abbiamo già detto; fu un
devoto amico di Milton mentre era pericoloso esserlo. E di questi suoi amori e di queste sue avversioni egli dà sempre le ragioni più buone e convincenti, le ragioni estetiche. E se egli elogia un autore ai nostri giorni igno-
to (Flecknoe, per esempio) si può esser sicuri che, dopo aver rintracciato le opere di questo, ci si accorgerà che aveva veramente qualcosa di notevole. Si deve al buon gusto e all’erudizione di Dryden se il pubblico inglese è sfuggito a quella piaga che ha afflitto i francesi che sino a Sainte-Beuve ignoravano Ronsard e sino a Gide Maurice Scève, e gli italiani che han dovuto riscoprire il Dolce Stil Nuovo. Non esistono opere critiche di Dryden: le sue idee estetiche erano da lui esposte nelle innumerevoli prefazioni che scriveva per opere sue e di altri. Esse furono raccolte alla fine del Settecento e nel 1906 George Saintsbury ne pubblicò la magnifica edizione in sei volumi che avevo e che ahimè! non ho più.
BUTLER
Samuel Butler (1613-1680) è il più noto dei satirici inglesi. Divenuto, durante la guerra civile, segretario del
colonnello puritano Sir Samuel Luke, egli poté vedere da vicino l'ipocrisia e l'assenza di scrupoli che si nascondevano sotto le rigide maniere e l’affettata gravità di molti di quei «santi». Risulta che durante tutto il tempo del suo servizio egli prese appunti che anche illustrò con spiritose caricature che ci sono rimaste.
Nel 1663 pubblicò la prima parte del suo Hudibras, e successivamente, a qualche anno di distanza, la seconda
e la terza. È un poema satirico nel quale ad un accesissimo spirito di osservazione critica si aggiunge un forte
senso di umorismo e una consumata facoltà per verseggiare in modo comico. Il poema, che nell’andamento e nella sorridente cattiveria rassomiglia alle Arzzze meorte (e risulta che Gogol’ conoscesse bene Butler), ci mostra
il rovescio della tappezzeria puritana della quale Milton e Bunyan ci hanno mostrato l’edificante disegno. Sotto la doppia influenza di Cervantes e di Rabelais, il poema ci mostra tutto quanto di piccino, di gretto, di truffaldino (spiritualmente) poteva nascondersi sotto l’austerità dei Roundheads. Il che non detrae minimamente dalla nobiltà dell'ideale che i Puritani perseguivano. Opera pienamente riuscita, molta parte della quale è passata in patrimonio perenne, essa è noiosa per il suo genere stesso e anche perché, irta di allusioni a fatti effimeri, risulta in buona parte di difficoltosa lettura.
IL TEATRO DELLA RESTAURAZIONE
Il teatro inglese della Restaurazione non è consistito unicamente nelle commedie eroiche di Dryden o di altri. suoi imitatori che non vale la pena di menzionare (è intuitivo che in quel genere si discende presto a un livello bassissimo quando manchi il soffio poetico). Abbiamo visto che vi fu buon numero di drammi e di commedie che furono più o meno riuscite imitazioni dei teatri spagnoli e francesi. Ma vi fu anche una vivace fioritura di commedie schiettamente nazionali, di uno stile marcatamente indi-
viduabile, che costituiscono anzi l’unica oasi poetica del teatro inglese dai tempi di Elisabetta sino a Oscar Wilde, con la sola eccezione di Sheridan. Questo teatro di commedia è basato sulla produzione di quattro autori. William Wycherley (1640-1715) è il più anziano di essi. Educato in Francia, egli vi fece il proprio tirocinio di commediografo e di ciò si avvertono le tracce nelle sue opere, benché non sia il caso di parlare di imitazioni di opere francesi. Malgrado la lunghezza della sua vita (egli frequentò da giovane la casa di Milton, fu poi amico di Pope, il che fa anche uno strano effetto) la sua attività di commediografo è racchiusa in cinque anni: la sua prima commedia (Love în a Wood) è del 1671 mentre l’ultima (The Plain Dealer) è del 1676. Fra queste due furono rappresentate The Genzlemzan . Dancing-master e The Country Wife. Quest'ultima è la più conosciuta ma non la migliore delle sue commedie; la più «divertente». Per gl’inglesi essa rappresenta il
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massimo dell’indecenza: rappresentata (con tagli lunghissimi) durante tutto il Settecento e fino al 1820, essa | scompare dalle scene e dalle conversazioni durante il neopuritanesimo vittoriano. Adesso si ritorna a rappresentare sempre con tagli ma meno drastici. A zoz (o per meglio dire a 722) essa sembra quasi adatta ad esser rappresentata in un teatrino di educandato femminile. Si tratta della storia di un signore (del quale ho dimenticato il nome) che, nuovo arrivato in Inghilterra, sparge la voce (falsa) che egli ha subito in guerra una mutilazione tale da farlo porre in congedo assoluto tanto dall’esercito di Sua Maestà che da quello del dio Cupido. Poiché è ricco, affascinante e di belle maniere i mariti sono contentissimi di aver trovato un «cavalier servente» che farà fare buona figura alle loro mogli senza presentare alcun pericolo per il loro «onore». Naturalmente la sua invenzione gli permette di combinarne di tutti i colori e in particolare con la moglie del signor Pinchwife che era tutto contento di aver trovato una moglie proveniente da una famiglia campagnola, ingenua quindi e non corrotta dalla vita cittadina. Questa trama (che è stata di recente utilizzata da Totò in un film assai volgare) è complicata da vari altri elementi, e non si può dire che sia di gusto sopraffino. Ma Wycherley la ha rivestita di una tal somma di osservazioni ciniche, di trovate spassose e di un dialogo acutissimo che ne ha fatto un’opera fuori dal comune; io non la ho mai sentita a teatro e sono quasi vent'anni che non la
leggo, ma ricordo bene che ridevo da solo quando l’ho letta; in particolare c'è una servetta, la sola persona che conosca per esperienza quanto sia integro il protagoni-
sta, che è disegnata con un umorismo finissimo. E con duro sarcasmo sono tratteggiate le figure dei mariti che in fondo sospettavano tutto ma che erano ben lieti di sbarazzarsi delle mogli per correr dietro ad altre donne, e che alla fine fingono ancora di credere che non sia suc-
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cesso niente. Sono queste scene dei mariti che rialzano il tono della commedia e v'instillano quelle gocce di amaro senza le quali non vi è opera d’arte. Tutto su questo tono di accorato disprezzo è il Plain Dealer (L'uomo corretto) che narra le tristi vicende di un uomo troppo fiducioso e corretto, tradito e dalla fidanzata e dal suo migliore amico. L'intreccio è enfatico ma vi si respira un senso poetico prodotto dalla dissonanza fra le convizioni elevate di un uomo e il mondo gaudente, leggero e ingannatore nel quale vive. In fondo è il soggetto del Mzsantropo trasportato in Inghilterra e calato di tono. La altezzose sfuriate dell’«homme aux rubans verts» sono trasformate in piccole frasi, asciutte e umoristiche che rendono assai bene il carattere intimamente disperato del protagonista. Vi è un personaggio femminile travestito da paggio che ci ricorda la nostra cara Viola-Cesario di Shakespeare. Le altre due commedie non sono mai riuscito a procurarmele e perciò non ne parlerò. Ma pare che valgano meno. William Congreve (1670-1729) è il migliore di questi commediografi. Nato a Leeds, egli passò però quasi tutta la sua giovinezza in Irlanda, dove fu compagno di
scuola del grande Swift. Anch’egli, come Wycherley, non fu molto fecondo: si hanno di lui The Old Bachelor, The Double Dealer, Love for Love, The Mourning Bride e
infine The Way of the World, il suo capolavoro. Uomo di impareggiabile pigrizia, non si diede mai la minima pena per costruire decentemente le sue commedie: questo fu il solo dono che manchi alle sue commedie, che sono talmente male imbastite da potersi apprezzare soltanto se considerate scena per scena senza annettere alcuna importanza all’intreccio che è quasi incomprensibile. Ma tutte le altre doti dell’artista egli le possedette: l'osservazione acerrima, lo spirito inesauribile e mai vol-
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gare, l’arte di trovare di quelle battute brevi che illuminano le situazioni e i caratteri, una poeticità diffusa e una certa malinconia soffusa anche nei momenti più vivaci. Ho letto tutte le sue opere; il volume del suo teatro è sventuratamente scomparso durante i bombardamenti. Ma conservo un affascinante ricordo di una rappresentazione di The Way of the World alla quale ho assistito nel 1931. Era una rappresentazione privata offerta da Sir Algernon D’Arcy nel bel teatro settecentesco della sua villa di Raspberry Hill, a una cinquantina di chilometri da Londra. Vi erano circa cento invitati, quasi tutti uomini fra i quali brillavano una diecina di signore, «the fastest of Mayfair». Ci recammo a Raspberry Hill in macchina, arrivandovi a mezzogiorno. Dopo una sontuosa colazione lo spettacolo cominciò alle tre. E fu una delizia: le parti principali erano recitate da attori professionali di primissimo ordine, quelle secondarie da graziosissime signore. L'ambiente nel quale si svolge la commedia è del più grande lusso al quale davano risalto i magnifici mobili antichi di D’Arcy e gli splendidi costumi autentici. Ricordo vagamente che si tratta di amori contrastati di Millamant e di Mirabell e di una eredità di una vecchia zia che essi cercano di carpire per poter sposarsi. Ma ricordo nettamente il piacere continuo prodotto da quell’incessante scoppiettio di scherzi, di wittcism, di tempo in tempo interrotti e valorizzati da poetici intermezzi e da sognanti episodi. Alle sette era finito e ci sedemmo in giardino a un pranzo servito in piatti d’argento con le tradizionali ostriche, i nidi di rondine,
il salmone, le grouses e i fagiani. Il padrone di casa, che aveva interpretato la parte di un cameriere, sedeva a ca-
po tavola nella sua sontuosa livrea verde e oro e a testa incipriata. Ciò detto non bisogna tacere che Congreve è il più
immorale di tutti questi autori. Non già che le scene che scrive siano particolarmente scabrose, ma la sua indiffe-
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renza in fatto di valori etici sbalordisce. Vi è nei personaggi una tale brama di piacere, una tale assenza di scrupoli, un tale cinismo nell’elegantissimo linguaggio da far quasi comprendere il bando al quale fu per tanto tempo posto dai «benpensanti». In perfetto contrasto con quella di Congreve, uomo di lettere, è la figura di Sir John Vanbrugh (1664-1724) che uomo di lettere non fu proprio per niente. Era un . architetto, e un grande architetto del quale sono visibili nobili opere. E scriveva per divertirsi. La sua prima opera, Virtue in Danger, è una specie di farsa, vivacissima,
con personaggi disegnati a grandi tratti e servi dalle peripezie comiche. L’opera seguente è la sua migliore, The Provoked Wife, nella quale rimane inobliabile il vi//azr, il personaggio cattivo, Sir John Brute, primo ritratto che possediamo dell’uomo di mondo, egoista, libertino, erudito e completamente amorale. Di Sir John Brute è ovvia derivazione il Sir Pitt Crawley di Varzty Fatr di Thackeray, con la notevole differenza tuttavia del punto di vista: in Thackeray si esprime la più violenta condanna della condotta di quel messere, mentre Vanbrugh, fedele allo spirito del suo tempo, lo dipinge senza ira, con distacco assoluto, e magari anche con un pizzico di celata simpatia.
Dopo questa commedia Vanbrugh, assorbito dalla sua attività architettonica, rimase un lungo tempo senza scrivere nulla. Alla fine della sua vita cominciò a comporre A Journey to London, che la morte gli impedì di finire. Quel che ce ne rimane è gustosissimo: si tratta di un gruppo di provinciali che decide di fare un viaggio a Londra e delle lepide avventure che essi incontrano nelle osterie e sulle, strade che vi conducono. Soggetto e punto di vista tipicamente inglese: un soggetto simile aveva di già trattato Chaucer, trecento anni prima, in
questo stesso genere Fielding e Dickens dovevano toc-
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care il culmine della loro vita, e ancora ai nostri giorni Priestley, per esempio, ci ritrae questi viaggi confortevo-
li e comici con il suo graziosissimo humour. Al medesimo tema, alla vita ridanciana delle taverne e
delle grandi strade è dedicata l’opera migliore del quarto grande autore di commedie della Restaurazione, George Farquhar (1678-1707), un irlandese pieno del brio e dello spirito che risiedono nel sangue celtico. Lo stile di Farquhar ci appare un po’ grossolano nelle sue prime commedie, Love and a Bottle e The Constant Couple. Siamo ben lontani dalla raffinatezza di espressione di Congreve! Ma le sue due ultime commedie, The Recruiting Officer e soprattutto The Beaux' Stratagerm, mostrano un rapido progresso e ci fanno rimpiangere la morte a ventinove anni di questo gioioso e promettente scrittore.
Questi sono i quattro «grandi» della commedia della Restaurazione, che riuscirono a creare un teatro spregiudicato, vivacissimo, raffinato, che adesso, dileguatosi il neopuritanesimo vittoriano, sono rappresentati e ap-
prezzati: dal rango di autori «sous le manteau» sono saliti a quello di «classici», promozione che Wycherley e Congreve, per lo meno, meritano ampiamente. Accanto
a loro vi sono,
va da sé, autori minori:
Shadwell, D’Urfey e Colley Cibber, che non conosco affatto e che sembra valgano poco. D’Urfey scrisse un drammone su Masaniello, iniziando così quella vena d’interessamento per il lazzarone che si trova a intervalli in tutta la letteratura inglese; vena alla quale l’intrinseca volgarità del soggetto ha sempre impedito di produrre checché sia di notevole (penso al Mas'Arzello di Houghton che è una delle più solenni birbonate che abbia mai letto e che un momento, nel 1910 o giù di lì, fece furore).
IL DRAMMA DELLA RESTAURAZIONE
Accanto agli scrittori allegri, accanto agli «spettacoli» poetici di Dryden, si continuavano a produrre drammi. Mala naturale volontà di distrazione dopo i drammi politici unita alla corruzione dell’epoca allontanava il pubblico dagli argomenti tristi. E così la produzione teatrale di drammi è in quest'epoca a un livello notevolmente inferiore a quello della commedia. Si perpetrarono parecchie tragedie di argomento classico sul modello francese, ma questo genere (che era di già stato tentato da Ben Jonson)
era talmente estraneo alla mentalità ed alla cultura inglese, che le «tragedie» non attirarono gli autori di talento e non riscossero nessun favore presso il publico. Miglior successo incontravano dei drammoni movimentati, sanguinosi e lacrimosi nei quali l’impeto e la passione dei grandi elisabettiani erano diventati mestiere. Arte, niente.
Tranne una eccezione, una gloriosa eccezione, quella
di Thomas Otway (1652-1685). Questo elisabettiano ritardatario ha scritto un solo dramma che valga la pena di ricordare, ma questo è un capolavoro, degno di stare, per grandezza di concezione ed eloquenza di versi, alla pari con Heywood o con Ford. Vernice Preserved, co-
struito attorno a un racconto semi-storico dell’abate di Saint-Réal, fu rappresentato nel 1682 e continuò ad esser sulle scene sino alla metà dell'Ottocento. Belvidera, la protagonista, è un magnifico e poetico personaggio
che ha offerto durante duecento anni la possibilità di brillare alle maggiori attrici inglesi.
I POETI DI CORTE
Attorno ai due Re della Restaurazione, ma soprattutto attorno a Carlo II, si adunò una cerchia di giovanotti, generalmente dei nobili, che, letterariamente dotati, vengono chiamati i «poeti di Corte». Essi sono rappre-
sentanti tipici della loro epoca: si direbbero dei personaggi di Congreve incarnati; la verità è che essi furono i modelli dai quali icommediografi ritrassero i loro Mirabell e i loro Sir John Brute. Vi è attorno ad essi l’atmosfera acidula dei «dopoguerra». Essi rappresentano la reazione di una parte dell’opinione pubblica al Puritanesimo. Colti, spiritosi, valorosi soldati o marinai quando se ne presentava l’occasione, erano d’altra parte privi di scrupoli, libertini, corrotti, pronti a qualsiasi furfante-
ria per procurarsi una donna o un sacchetto di sterline. La Corte contemporanea di Luigi XIV era, al confronto, (al solo confronto), un’abbazia benedettina. Gli adulteri, le seduzioni di ragazze, i duelli, le scrocconerie, i
mandati di omicidio, le beffe crudeli, gl’intrighi di ogni sorta che commisero questi «poeti di Corte» sono raccontati e documentati nel grande libro di Bryan sullo «stato morale della Restaurazione», un grande libro.
Durante l’anno 1672 furono trovati nel palazzo reale di Whitehall diciotto feti nascosti sotto i divani o malamente seppelliti nei grandi vasi per fiori. Feti o non feti, John Wilmot,
Earl of Rochester
(1647-1680) fu un notevolissimo poeta. Aveva una vena
ugualmente felice per la lirica e per la satira. La satira è feroce, tanto più se si pensi che era sempre accompagnata da un duello o da una bastonatura. La lirica è dol-
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cissima di espressione, frusciante di seta, ma contenente un fondo di cinismo e di amoralità che spaventa.
Inferiori a lui come poeti, ma suoi degni compagni di stravizi furono Charles Sackville (che però ci ha lasciato un delizioso poemetto, To all you Ladies now at Land) e il Duke of Buckingham, terzo di quella dinastia di bellissimi, elegantissimi e infami favoriti. Ma possiamo perdonare alla Restaurazione i suoi poeti di Corte. Essa ha dato al mondo Purcell, Newton e Wren. E il solo nome di Dryden basterebbe a renderla illustre.
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LA PROSA
Fedele a quanto ho detto, non vi dirò niente di Hobbes e Newton, che furono grandi prosatori ma che appartengono più alla filosofia e alla matematica che alla letteratura. Ma durante la Restaurazione vi furono due scrittori che hanno un vero valore di arte. Il bello è che questi due scrittori erano totalmente ignorati dai loro contemporanei e che le loro opere furono scoperte al principio dell’Ottocento. Essi sono due autobiografi. L’autobiografia ha avuto frutti magnifici in tutte le letterature: in Italia con Cellini, Alfieri e Gozzi; in Francia con Monluc, Saint-Simon e Rousseau; in Germania
con Goethe. Ma ciascuno di questi grandi scrittori ci si presenta travestito da sé medesimo: ciascuno di essi vuole o scusarsi, o glorificarsi o magari infamarsi (come Rousseau). Monluc si atteggia a guerriero indomabile e intransigente, Saint-Simon, il solo vero precursore di Proust, narrandoci la propria vita, ci trasporta in modo allucinante fra gli ori e gli orpelli di Versailles, Cellini tiene a mostrarsi artista e bravaccio, Goethe mescola
fantasia e realtà. L’uomo, il semplice uomo qualsiasi, guardato senza esaltazione e senza disprezzo, ci è mostrato da un solo autobiografo: Samuel Pepys. Nel 1812 uno studioso inglese, John Smith, compiendo delle ricerche nella biblioteca del Magdalene College di Cambridge, trovò sei grossi volumi manoscritti in cifra. Con la pazienza di un certosino egli riuscì, in parecchi anni di lavoro, a decifrarli, e ne venne fuori che si
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trattava di un diario abbracciante gli anni 1660-1669, scritto da un certo signor Samuel Pepys. Non era il nome di un ignoto: si trattava di un alto impiegato dell’ Ammiragliato (noi diremmo direttore generale al ministero della Marina), spesso citato in memorie e documenti del suo tempo come buon musicista, appassionato di teatro e persona integerrima.
Egli cominciò a scrivere il proprio diario alla fine del 1659 e lo interruppe nel 1669 perché divenne cieco, e il diario non era di natura tale da poter essere dettato. In questo Diario non vi è la minima traccia di autoe-
saltazione: anzi egli quasi non parla del proprio lavoro che fu notevolissimo, al punto che egli viene considerato come uno dei fondatori della Marina Britannica. Vi si parla di musica e di teatro, ma poco e sempre con moderazione. Ma allora che cosa c'è di notevole? L'elemento eccezionale, anzi unico, è che Pepys si guardava dal di fuori, tale e quale come uno scrittore quando guarda un suo personaggio. L'effetto è sbalorditivo. Nulla è taciuto. I più segreti pensieri, le fantasie più sciocche, le azioni più meschine, le innumerevoli scioc-
chezze che ognuno di noi commette tutti i giorni sono esposte con la massima semplicità.
Egli racconta come sospettasse il tradimento della moglie, come poi si ravvedesse; come la moglielo sorprendesse a letto con la cameriera e come lo bastonasse; racconta come sua madre, ammalata, gli inviasse a chie-
dere una bottiglia di vino ed egli gliene mandasse apposta una di vino inacidito perché non voleva privarsi di quello buono; sappiamo che egli andava in chiesa per pizzicare le ragazze e che queste spesso si difendevano pungendolo con degli spilli. Tutto ciò (che è soltanto la millesima parte di quel che si trova in quei densi volumi) è narrato con la freddezza e la noncuranza con la quale un meteorologo annota le variazioni del barometro: il si-
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gnor Pepys vedeva il signor Pepys compiere le proprie evoluzioni dinanzi a lui; e le consegnava sulla carta. Vi è un’altra cosa da far notare, e che può esser oggetto di riflessioni gravi: questo diario che presenta un così alto interesse umano
e, in un certo senso, lettera-
rio, e che inoltre è lo specchio di un uomo niente affatto vizioso, anzi, la cui rettitudine è al di sopra della co-
mune media, è impubblicabile nel suo testo completo. Non se ne stampano che dei brani; col diminuire della pruderie vittoriana, questi brani sono sempre più vasti; ma un quinto almeno dell’opera non è stato stampato e, a quanto pare, non potrà esserlo mai, e in nessuna nazione.
Interroghiamoci un po’ noi stessi: potrebbero essere stampati /ut/7i fatti e tutti i pensieri nostri, non dico di nove anni ma di nove giorni?
Di grande interesse ma simile a tutti gli altri diari o libri di memorie è il Diario di John Evelyn (1620-1706). Anch’egli alto funzionario, fu grande amico del nostro Pepys sul conto del quale narra parecchie storielle rigorosamente controllabili nel diario dell'amico. Una volta Evelyn narra come Pepys fra amici fosse molto brillante
e facesse ridere tutti raccontando storielle sugli impiegati del ministero; e attribuisce questa inattesa vivacità del taciturno Pepys al desiderio di farsi valere presso un suo superiore che era presente alla riunione. Alla medesima data Pepys annota: «Ho parlato e scherzato molto oggi mentre bevevamo insieme ad amici; ho fatto questo perché speravo di essere invitato a pranzo da William Danby (un suo inferiore) la cui moglie si è lasciata pizzicare da me senza protestare, e volevo vedere se questo pranzo avesse potuto condurre a qualcosa di positivo». A consolazione dei miei uditori posso aggiungere che dieci giorni dopo l’invito arrivò, ma Pepys trovò la cucina pessima e la signora troppo riservata, «cosicché vo-
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Letteratura inglese
glio che mi spuntino le corna (una sua espressione favorita) se rimetterò più il piede in quella casa». Il Diario di Evelyn è di grande interesse per quanto riguarda il grande incendio e la peste, i due grandi avvenimenti londinesi del periodo. Il contegno tanto di Evelyn che di Pepys in queste tremende evenienze fu esemplare: «Stamani ho visto arrivare Pepys in ufficio, lindo e ben pettinato come sempre; mi dice che ha passato la notte a gettar secchi d’acqua sul tetto della casa perché non bruciasse, ma che al mattino gli affari dell’ Ammiragliato diventano più importanti». Il Diario di Evelyn comprende sessanta anni della sua vita. Ed è nondimeno lungo un quarto di quello di Pepys che ne comprende soltanto nove. Dopo aver parlato di questi due esimi scrittori, stimo aver completato i miei ricordi di lettura sull’epoca della Rivoluzione e Restaurazione. Ma quante cose mancano: manca la grande prosa di Hyde e di Shaftesbury; manca qualsiasi accenno alle vivacissime Mémoires du Comte de Grammont,
dall’inglese Anthony Hamilton; manca di Locke; manca soprattutto quanto si del movimento quacchero verso cui mi patia per i fanatici (a distanza di tempo
scritte
financo il nome riferisce all’inizio attira la mia sime di luogo).
Ma se ne avessimo parlato avrei da un canto mostrato
la mia sovrana incompetenza, dall’altro vi avrei annoiato, dato che siete soltanto alla ricerca della sovrastruttura estetica.
Del resto troverò modo di annoiarvi lo stesso perché occorre per un po’ parlare di storia politica senza una conoscenza della quale la storia letteraria inglese del Settecento, così intimamente polemica e tanto legata alle vicende politiche, rimarrebbe oscura. E occorrerà inoltre discorrere un po’ delle origini della stampa in Inghilterra, poiché la letteratura inglese
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dell’età georgiana è in gran parte apparsa sui giornali e perché giornalisti, in fondo, furono Addison, Defoe,
Swift e Johnson, i suoi rappresentanti più illustri. Se questo fosse un libro vi inviterei a saltar qualche pagina. Poiché si tratta di lettura, non posso che raccomandarvi di addormentarvi per un po. Vi avvertirò quando bisognerà che vi risvegliate.
DIFFICOLTÀ E MISERIE DI UNA RESTAURAZIONE
Nel 1660 il ritorno sul trono di Carlo II, figlio del giustiziato Carlo I, fu pacifico e desiderato dall’immensa maggioranza della nazione come un avvenimento che «andava da sé». Questa medesima nazione aveva, prima,
sostenuto i Puritani per sbarrare la strada alla rivoluzione che la monarchia voleva promuovere; ma si accorse che al posto di un sovrano mediocre aveva innalzato al potere un uomo di acciaio, Cromwell, che si diede immediatamente da fare per attuare proprio quelle riforme che Carlo I aveva tentato. Il Parlamento fu sciolto e mandato a casa; la tassazione infierì, la Chiesa anglicana
venne soppressa. Un controllo rigidissimo sulle opinioni e sulla vita privata venne istituito; le strade erano piene di militari. Finché Cromwell visse, con la sua forte personalità, il prestigio avvolse l’Inghilterra quale propugnatrice della causa del protestantesimo; le cose andarono avanti, aiutate anche da un regime di terrore che
Cromwell si affrettò ad istituire. (Terrore da popolo flemmatico, si capisce, che non ha niente in comune con
il Terrore francese o russo: parecchie ammende, qualche anno di prigione, poche esecuzioni capitali.) Anche la conquista dell'Irlanda cattolica ebbe un buon effetto e le incredibili atrocità che vi si commisero un effetto ancor migliore. Ma con la morte di Cromwell (1659) tutto crollò. Una congiura militare mise fine al Protettorato e in una bella giornata del giugno 1660 Carlo II sbarcò a Dover, come se nulla fosse stato. Scampanio, offerta di pane e sale, acclamazioni senza limite. Quel Re che era stato allonta-
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nato come eversore delle libertà pubbliche ritornava come garante di quelle stesse libertà contro i «bad boys», contro i ragazzacci puritani.
Le pene contro i regicidi furono miti, quasi del tutto formali benché impressionanti: il cadavere di Cromwell fu disseppellito e appeso a una forca. Dopo di che una amnistia generale placò tutto. La Chiesa anglicana fu ristabilita nei suoi diritti e nei suoi benefizi, il Parlamento riconvocato. È tutto fu «come prima». Apparentemente, si capisce. Carlo II era un tipo assai strano. Dal nonno francese, Enrico IV, aveva ereditato, oltre che la carnagione abbronzata, lo spirito e la facoltà di intrigo; ma non la devozione allo stato e l’inesauribile dinamismo. Completa-
mente indifferente a tutto ciò che non fosse il suo piacere personale, «tirava a campare», il che, per caso, non era una cattiva politica. Se il Parlamento non aveva soldi per i suoi bagordi, egli tranquillamente si faceva sussidiare dal cugino Luigi XIV. Questi, a forza di milioni e di graziose francesine spedite al re (Luisa di Kéroualle), era riuscito a trasformare l’Inghilterra in una specie di protettorato francese. Carlo II impegnò il paese in guerre disastrose che potevano giovare soltanto a
Luigi XIV; la flotta olandese risalì il Tamigi e venne a bombardare Greenwich a venti chilometri dalla City. Il popolo era, va da sé, alquanto disilluso: era stato sì vessato dalla soverchia austerità puritana, ma l’incredi-
bile corruzione della Corte gli dava egualmente ai nervi; e lo stato di soggezione alla Francia non soltanto lo umiliava ma gli faceva presentire un ritorno dell’influenza cattolica. Inoltre dei guai, per così dire, privati lo colpivano a ripetizione: metà di Londra (una Londra ancora di legno) fu distrutta da un incendio e una terribile pe-
stilenza uccise migliaia di cittadini. Ma a tutti questi guai il buonumore e la duttilità del Re sapevano porre rimedio: talvolta per placare gli spiri-
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ti si inventava un complotto cattolico (inesistente) e si
mandava qualcuno al patibolo: gioia dei protestanti. Tal altra volta si giungeva a dichiarare una breve guerricciola alla Francia: gioia dei nazionalisti; una terza volta, in un momento di difficoltà economiche, il Re pranzava in
pubblico mangiando solo agnello bollito e pane: gioia dei contribuenti. Una quarta volta si faceva diffondere la voce che il Re si era convertito al cattolicesimo: gioia dei cattolici. Certamente questo gioco di bussolotti non poteva durare a lungo: durò però quanto la vita di Carlo II. Quando questi morì (e morì chiedendo perdono agli astanti di aver avuto un’agonia tanto lunga e noiosa per loro), poiché non aveva figli, gli succedette il fratello Giacomo II. Allora la musica cambiò. Giacomo II era, dal punto di vista privato, una persona per bene; era un cattolico
fervente, benché segreto, ed era un anti-parlamentare convinto.
Figura assai complessa questa di Giacomo II: noi lo vediamo sempre come lo dipinse Van Dyck, un bel bambinone grasso e roseo che si stringe al petto un’arancia. In
realtà era un uomo alto e magro, dall’aspetto distinto. Dopo una giovinezza passata in esilio e durante la quale i suoi disordini di condotta eguagliarono quelli del fratello (di suoi figli naturali è piena la storia inglese come quella francese) egli si convertì alla religione cattolica, pur mantenendo il più rigoroso segreto su questa conversione. Ritornato in Inghilterra col fratello, fu, come duca di York, il creatore della potenza navale inglese dimostrando notevoli qualità di organizzatore e di amministratore. Dimostrando però anche una singolare propensione ad assistere alle torture che s’infliggevano ai sospetti di delitti politici. Comunque sia, egli, salendo al trono, aveva un programma ben netto: con una serie di provvedimenti parziali distruggere la Chiesa anglicana, sostituirvi quella
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cattolica e modificare la prassi, se non il sistema parlamentare in modo da rendersi assoluto. In questi disegni egli aveva la piena solidarietà della allora strapotente Francia e l'appoggio dei suoi sudditi irlandesi. Il suo regno di pochi anni fu una serie di crisi: un figlio naturale del defunto Carlo II, il duca di Monmouth,
sbarcò in Inghilterra, e tentò di sollevare il popolo contro il Re; fu sconfitto, processato e decapitato. Ma il paese, che si era sollevato in difesa del Re legittimo, fu impietosito dalla giovinezza della vittima e indignato per la parzialità mostrata da alcuni giudici contro i seguaci di Monmouth. Il nome di Jeffreys è ancor oggi sinonimo in Inghilterra di magistrato corrotto e crudele. L'avventura di Monmouth si chiuse in passivo per la Corona. Giacomo, poi, volle imporre ai vescovi anglicani la prestazione di un giuramento che conteneva in sé qualche formula cattolica. Quasi tutti si ribellarono e cinque furono processati e deferiti alla Camera dei Lords per essere giudicati. La Camera li assolse. Il Re era perduto. La Chiesa anglicana, la borghesia, l’esercito e la parte più illuminata della nobiltà si pose contro di lui. Si chiamò in Inghilterra lo Statolder dei Paesi Bassi, Guglielmo d'Orange, e gli venne offerta la corona in congiunzione con la moglie Maria, figlia di Giacomo II, per salvare un po’ la legittimità della cosa. L'esercito (sobillato da Churchill) abbandonò il Re che dovette fuggire e riparare in Francia. Quella che gl’inglesi chiamano «la gloriosa rivoluzione» del 1688 si era compiuta quasi senza spargimento di
sangue. Guerre senza fine dovette sostenere l'Inghilterra contro Luigi XIV che sosteneva con le armi i diritti di Giacomo II; l'Irlanda si rivoltò e accolse trionfalmente il Re
che vi sbarcò. Ma la vittoria navale della Hogue contro i francesi e quella terrestre della Boyne contro i franco-irlandesi misero fine ai tentativi esterni.
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Restarono in Inghilterra i due partiti: Tories (conservatori) e Whigs (liberali) che durante tutto il Settecento combatterono la più vivace lotta in Parlamento e sulla stampa. E a questa lotta presero parte, senza eccezione, tutti gli scrittori inglesi, prosatori o poeti che fossero, sino ai primi dell'Ottocento. La letteratura inglese del Settecento è letteratura engagée.
L’enorme sviluppo preso in quel periodo dal giornalismo, in seguito alla libertà completa di stampa, rende
necessario un rapido esame del nascere e della crescita del giornalismo inglese.
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II GIORNALISMO SINO
AL 1750
I giornali inglesi ebbero il loro inizio nelle ambasciate. Sotto Elisabetta si permise di pubblicare ogni tanto i rapporti degli ambasciatori e le notizie che essi inviavano delle guerre che si svolgevano all’estero. Essi furono insomma d'iniziativa statale. Ma ben presto dei privati si provarono a far stampare le lettere che essi ricevevano dai loro corrispondenti. A queste lettere gli editori aggiungevano spesso i loro commenti, antenati dei nostri articoli di fondo. A questo punto le cose si guastarono: il Governo impose che i «fogli di notizie» fossero sottoposti alla censura preventiva. Allora si ricorse all’espediente di farli stampare in Olanda e d’importarli clandestinamente in Inghilterra. La Rivoluzione poi diede maggior diffusione, non maggior libertà alla stampa. Bisogna dire che il partito puritano può vantarsi di aver dato il via a una massa enorme di stampati politici, alcuni stampati periodicamente, come The Diurnall Occurences, le cui faziosità,
acrimonia e fanatismo sono davvero notevoli. Famoso tra i giornalisti di questo periodo è rimasto Henry Walker, che fu quel che si dice un «tipaccio» pronto a mutar opinione secondo le fortune politiche e, per di più, quasi del tutto illetterato. Intanto i suoi articoli, pur conservando tutta la bassezza del loro contenuto, sono scritti in ottima e talvolta elegante lingua. Come avveniva ciò? Era la censura che li correggeva anche nella forma; e il bello si è che i censori erano in massima parte dei dotti pastori anglicani che, privati dei loro benefizi
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ecclesiastici dai Puritani, avevano dovuto adattarsi per vivere a fare i censori. La stampa Cavalier, clandestina, era, dal punto di vista di coerenza e moralità politica, alquanto migliore. Sul finire del Protettorato, venne data l’autorizzazione (la prima ufficiale) a pubblicare dei periodici bisettimanali: «The Parliamentary Intelligencer» e il «Mercurius Publicus», i cui primi numeri apparvero il 26 dicembre 1659. Essi erano editi da Henry Muddiman, che figura così come il più antico giornalista inglese. Nel 1665 egli stesso fondò la «London Gazette», settimanale che esiste ancora. Poiché la censura vigeva soltanto per ciò che si stampava, Muddiman ebbe l’idea di fare un
giornale manoscritto. Gli abbonati pagavano cinque sterline l’anno (somma enorme per l’epoca) e ricevevano una volta la settimana una grossa lettera di parecchi foglietti, contenente notizie d’ogni genere. Per una di quelle strane (e salutari) assurdità della vita inglese, il Re concesse la franchigia postale a queste lettere che erano redatte al solo scopo di contravvenire alla legge sulla censura. Alla diffusione delle notizie contribuì molto la creazione dei «caffè» che sotto la Restaurazione si diffusero in Inghilterra. Con i mutamenti politici del 1688 la stampa divenne libera e prese subito uno sviluppo straordinario sotto forma di quotidiani o settimanali, come pure sotto forma di riviste letterarie, tutte, però, co-
me sempre in quel periodo, a forte tinta politica. A queste riviste contribuirono tutti gli scrittori inglesi del tempo, ciascuno in rappresentanza del proprio partito. E ciò si deve sempre tenere a mente.
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DANIEL DEFOE
La figura di questo grande scrittore ci accoglie sulla soglia di questa età polemica. Pubblicista insigne come egli fu, la sua attività giornalistica c’interessa soltanto in quanto ci spiega la sua conoscenza vasta e precisa di
persone di ogni classe sociale e delle loro condizioni di vita. Egli è il fondatore del romanzo inglese, intendo dire del grande romanzo, opera d’arte e specchio del tempo, quel romanzo che raccoglieva la tradizione del teatro elisabettiano e che l’ha conservata e la conserva ai nostri giorni. Perché il romanzo in Inghilterra già esisteva e ne abbiamo citato alcuni — deplorevoli — esempi. Non vorrei che quella mia frase iniziale («ci accoglie sulla soglia») risvegliasse involontariamente impressioni di signorilità. Daniel Defoe (1659-1731) fu tutta la vita un bisognoso giornalista. Nato a Londra, egli compì mediocri studi in una scuola presbiteriana e si avviò alla carriera commerciale, nella quale non riuscì. Si volse dopo al giornalismo, con tutto ciò che di avventuroso, incerto ed anche losco questa professione allora ammetteva. Vi si rivelò subito come un ingegno di prim'ordine. Ho letto il suo Saggio sui Progetti che è una mordente invettiva contro i programmi ministeriali, le promesse elettorali e i falsi stanziamenti di fondi che potrebbe, con modifiche solo di nomi, essere ristampato oggi validamente. Fece anche dei versi, violentemente polemici, e final-
mente stampò il suo Corze finirla con i Dissenzienti (religiosi), saggio nel quale propose con sottilissima ironia, e senza dirlo, che l’unico modo di liquidare l’incresciosa
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quistione era quello di «liquidare» i dissenzienti. L’ironia non fu compresa e il partito Tory levò alle stelle questa sua nuova recluta. La loro gioia fu di breve durata: | Defoe dichiarò presto che era un Whig e che nel suo | scritto aveva espresso non la propria opinione ma l’aspi- | razione segreta degli avversari. Fu querelato per calunnia, condannato e dovette stare per ventiquattr'ore esposto in berlina in una pubblica piazza (1702). Dopo di che andò in prigione. Ma il partito Whig venuto al _ potere lo liberò ed egli riprese la sua attività di pubblicista non senza aver scritto un Inzo alla berlina pieno di fuoco e di collera. Mi sarebbe impossibile seguirlo in quella che fu la sua carriera di giornalista e di agente segreto: conobbe alti e bassi, fu povero ed opulento, andò più volte in gattabuia. Nel 1717 si ritirò dalla vita politica e cominciò la sua carriera letteraria. Aveva quasi sessant'anni.
Pubblicò anzitutto una Relazione sulla apparizione di uno spettro nella casa della signora Bargrave, il giorno 8 settembre 1705. In essa vi è già tutto Defoe artista: il suo gusto di presentare le proprie opere come relazioni di fatti reali, il suo ricercare (e il suo trovare che è ben più difficile) il dettaglio minuto, il particolare significativo che dà apparenza di verità all’insieme, la conoscenza profonda delle abitudini, opinioni e manie del suo tempo. Il racconto dell’apparizione è condotto con rigore scientifico: sono esaminati i luoghi, i caratteri dei personaggi morti e vivi, l’attendibilità delle prove. La conclusione, a prima lettura, sembra favorevole alla realtà dell'apparizione. A una seconda lettura si cominciano a scorgere le fessure nel ragionamento dei testimoni, ci si accorge dei motivi di interesse di ciascuno di essi (appena adombrati) e tutta la storia della visione crolla nell’inconsistenza. Un’opera di sottilissima ironia che molte persone di nostra conoscenza farebbero bene a meditare. Nel 1719 venne pubblicata la prima parte del Robir-
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son Crusoe. E qui occorrerà fare una breve sosta non digressiva ma integrativa. Pochi sono i ragazzi del mondo intero che non abbiano letto Robirson. A dir il vero ne leggono sempre una specie di riassunto che condensa in duecento pagine un’opera quanto mai fitta di più che seicento facciate; ma tant'è, Robinson è indubbiamente
uno dei miti della gioventù mondiale. Ma un altro mito è quello di Gw/liver; un terzo quello di Pickwick; un quarto quello dell’Isol4 del tesoro. Quattro grandi scrittori inglesi, direte voi, si sono passati lo sfizio di scrivere libri per ragazzi. Niente affatto: tre di queste opere sono fra le più alte che uno scrittore abbia mai composto, una di esse, il Gu/liver, è la più tragica
espressione di disgusto verso l'umanità che scrittore misantropo abbia mai immaginato. Come mai allora, sia pure con i tagli e le abbreviazioni indispensabili, questi romanzi si sono adattati al pubblico infantile? È per l’innato gusto del fabulieren, per la semplicità della presentazione, per l’onnipresente humour, per queste tre ca-
ratteristiche-base della narrativa inglese che queste quattro opere posseggono un appeal, un richiamo davvero universale su chiunque sappia leggere, ad otto o ad ottanta anni. Di altre grandi opere che abbiano avuto in sé tante qualità di spontaneità da essere adottate dai ragazzi, io conosco soltanto il Dor Quichotte.
Va da sé che l’invenzione della trama del Robinson Crusoe non spetta a Defoe. Egli aveva letto la relazione di Alexander Selkirk, che davvero era rimasto per anni
su un’isola deserta. Defoe aveva la facoltà di guardare oggettivamente l’esperienza altrui; aveva una quasi sovrumana attitudine a raggruppare attorno ad un fatto
una folla di particolari impeccabilmente selezionati in modo da conferire vita a quello che era un arido schema di fatti. Aveva principalmente la facoltà poetica di trasformare in mito universale un fatto qualsiasi che eccitasse la sua immaginazione. Queste caratteristiche di
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Defoe scrittore non si smentiranno mai in nessuno dei suoi romanzi. Nel Robinson egli crea il mito del pioniere, dell’uomo che non si scoraggia, di una specie di moderno Ulisse solo contro la natura. Nel 1720 pubblica un altro romanzo: La vita e le avventure di Duncan Campbell, la storia di un prestigiatore sordomuto che lotta incessantemente contro la povertà e la disattenzione del mondo, un Robinson Crusoe insomma che debba superare non la solitudine ma il soverchio affollamento. Scritto con magistrale freddezza, asciutta relazione di fatti tristissimi, di delusioni, di di-
sperazioni, è un altro capolavoro. Un po’ più debole, in quanto non giunge a una caratterizzazione tanto possente, è il suo romanzo Merzotrs of a Cavalier, che è tuttavia un modello del racconto di
cappa e spada. E nel 1722 ecco i suoi più grandi capolavori, The Life, Adventures and Piracies of the Famous Captain Singleton e The Fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, una specie di dittico in un pannello del quale ci viene mostrato un tipo losco e crudele che pur conquista la nostra simpatia per l’indomabile energia con la quale supera le avventure più atroci e le situazioni più pericolose; nell’altro pannello ci vien presentata una donna anch'essa in lotta per la vita, anch'essa costretta ad usare tutte le armi lecite ed illecite per poter sopravvivere. Ritratto indimenticabile, di una completa tristezza, avente come sfondo la malavita londinese. In tutte queste opere Defoe ha trattato sempre lo stes-
so tema dell'individuo costretto a una lotta impari con la natura (o con la società, che è poi la stessa cosa) per la pura e semplice sua sopravvivenza; e ciò senza mai idealizzare (forse un poco nel Robirsor) l'individuo ma mostrandolo come un patetico groviglio di peccati e di colpe in lotta contro altri conglomerati simili («sinful
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Nature», la natura peccaminosa, è una espressione del Robinson alla quale si è prestata scarsa attenzione). Queste opere hanno anche il merito di mostrarci, per il medesimo fatto della opposizione dell'individuo, una società inglese già perfettamente formata, e come tale atta a schiacciare l’individuo non perfettamente armato. Mi sorprende come l’esistenzialismo non abbia eletto Daniel Defoe fra i suoi santi protettori. Nella sua opera seguente Defoe non descrive più l’uomo in lotta ma si rivolge all'osservazione del nemico dell’uomo: la natura. E la natura in una delle sue manifestazioni più irrazionali e crudeli: l'epidemia. Il suo Journal of the Plague Year è una tremenda descrizione della peste che devastò Londra nel 1665. In forma di diario, colmo di particolari significativi, pubblicato anonimo, esso fu a lungo scambiato per un vero diario. Il lento insinuarsi della moria, gli sforzi fatti per arginarla, il suo completo trionfo, la demoralizzazione che lascia, sono narrate con freddezza glaciale: è l'autopsia di una città. Non ci sono personaggi, o almeno essi non hanno
maggiore importanza delle formiche sotto la suola che le schiaccia. Non vi è dubbio che Camus conosca questa opera: la sua Peste ne è la trasposizione in termini attua-
li; il suo Etaz de siège un non riuscito tentativo di estrarne il significato astratto. Opera, questo Journal of the Plague Year, di superiore bellezza: questa subitanea trasposizione dell’attenzione del poeta dai combattenti alle armi è, nell’insieme dell’opera di Defoe, di una efficacia prodigiosa. Un ferito dell'ospedale che si mette a descrivere nei più minuti particolari meccanici e balistici il cannone che gli ha strappato le gambe. L’anno dopo Defoe ritornò alla osservazione dei combattenti: Roxara è la storia delle lotte (e del trionfo) di una cortigiana; Colonel Jacque quella delle lotte e non dello stesso trionfo di un soldataccio di ventura. Il primo è alquanto licenzioso e press’a poco introvabile in
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Letteratura inglese
Inghilterra. Tutti e due sono potenti «bollettini di guerra», di quella guerra incessante che tutti combattono. Dopo questi romanzi Defoe scrisse ancora opere po-
lemiche, teologiche (ha preceduto Papini con la sua Storia del Diavolo) e financo una specie di galateo (The Compleat English Gentleman); dopo di che se ne morì. La natura celebrò la propria stupida perché inevitabile vittoria. Se non ci fosse vicino a lui, nel tempo, l’altro grande pessimista, Jonathan Swift, non sarebbe esagerato dire che Defoe è lo scrittore inglese che, dopo Shakespeare, ha avuto il più tragico senso della vita.
N.B. Questa interpretazione dell’opera di Defoe è esclusivamente mia. La critica è rimasta cieca al contenuto tragico della sua opera e lo ritiene uno scrittore piacevole, arguto e privo di problemi.
Quindi state attenti se dovete parlare di lui.
STEELE E ADDISON
|Non certo da un punto di vista artistico ma da un sem| plice punto di vista sociale, Steele e Addison sono più i importanti di Defoe. Questi, come grande artista, tra: scende il suo tempo e la sua classe sociale. Steele e Addison, tanto minori in fatto di facoltà artistiche, rappreisentano
interamente,
senza possibilità di errore, la
|borghesia che con l’avvento di Guglielmo III aveva pre: so il predominio nella società inglese. Questa borghesia,
iin continuo accrescimento economico, era stata vessata
dalla austerità puritana e dopo scandalizzata dalla cori ruzione aristocratica della Restaurazione. Veniva a trovarsi così in una posizione juste-mzilieu: del Puritanesimo ‘aveva conservato soltanto una forte propensione al mo-
iralizzare e al far la lezione al prossimo; dagli elegantoni della Restaurazione aveva acquistato un certo culto della forma. E poiché era essa che, di fatto, regnava, trovava che tutto era per il meglio. Il suo dominio, con lievi re-
gressi e sfumature, doveva durare sino al 1945 e non è
‘detto che questa data ne segni davvero la fine. Steele e Addison furono le voci di questa fiorente borghesia.
Richard Steele (1672-1729) era un irlandese che fece il soldato dapprima e poi il pubblicista, che fu un poco di buono e un moralista, del resto privo d’ipocrisia in quanto egli stesso diceva di poter tanto meglio fustigare i peccati in quanto li conosceva tutti. Dapprincipio si dedicò al teatro dove con le commedie The Funeral
(1701), The Lying Lover e The Tender Husband colse
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grandi successi, del resto totalmente immeritati, ai nostri |
occhi almeno. Si tratta di lavori nei quali si dipinge quel | tanto di vizio che basti ad attirare il pubblico, e quel tan- | to di virtù sufficiente a mandarlo a letto con gli occhi ar- | rossati. Fanno parte di quelle centinaia di commedie e drammi del tempo che non riuscirono malgrado tutto a _ formare un «teatro». Nel 1709, però, trovò la sua via. Immaginò di pubblicare una rivista trisettimanale, «The Tatler», interamen-
te o quasi scritta da lui stesso. In essa si discutevano quistioni di morale spicciola, di buona educazione, di gusto, di cortesia. Per dare vivacità ai suoi scritti, però, Steele immaginò di creare vari personaggi che alternativamente esponevano le proprie idee e che andavano presentandosi al pubblico ciascuno con le proprie abitudini e manie. Il successo fu fulmineo. Queste dispense che erano una via di mezzo fra il romanzo a puntate e il saggio moralistico andarono a ruba; le rare copie che sono sopravvissute si vendono nelle librerie a una sterlina luna. Steele aveva del talento e i suoi personaggi, o piuttosto le sue «maschere», che incarnano ciascuno un carattere
immutabile, sono ancor oggi vivaci e soprattutto storicamente attraenti in quanto ci danno una rappresentazione gustosa di una classe che dopo aver acquistato il potere tende adesso a progredire nel gusto e nella competenza artistica. Bickerstaff, Pacolet e Jenny Distaff farebbero
buona figura in una commedia di costumi. La voga di un simile periodico era, però, fatale che durasse poco. Il 2 gennaio 1711 il «Tatler» cessò le sue pubblicazioni. Due mesi dopo uscì il primo numero dello «Spectator» di Addison.
Joseph Addison (1672-1719) assai più fortemente che Steele incarnò in sé la sua epoca. Buon gusto casalingo, morale decente ma non eroica, aspirazioni verso il pro-
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gresso temperate da rispetto per le tradizioni, patriottismo talmente cieco da divenire misconoscenza delle altre culture nazionali. Per Addison i francesi (i francesi di Voltaire e Beyle) erano «frog-eaters» e basta. Del resto erano ad un tempo cattolici e liberi pensatori: due ragioni per non esser considerati. Aveva ricevuto una buonissima educazione a Oxford ed aveva viaggiato per quattro anni sul Continente, in Francia, in Italia e Germania. Dei fermenti intellettuali
che si agitavano in molti di questi paesi non comprese assolutamente nulla e tutto ciò che ricavò dal suo viaggio fu un Dialogue upon the Usefulness of Ancient Medals. Ritornato in Inghilterra pubblicò un poemetto non brutto, The Carzpaign, dedicato a «Sua Grazia il duca di Malborough», tri- o quadrisavolo di Winston Churchill.
L’autore si schierava risolutamente con i Whigs. Dopo fece rappresentare una tragedia sul modello francese, Cato, che ebbe grande successo politico ma fu dimenticata subito. Nel 1711 cominciò la pubblicazione dello «Spectator» al quale è legata la sua fama. Era un foglio quotidiano, non conteneva notizie, ma
commenti sugli avvenimenti del giorno: ogni numero era costituito da una specie di racconto nel quale vari personaggi agiscono e discutono. Personaggi disegnati con suprema eleganza e colmi di humour. Sir Roger de Coverley, antico bellimbusto diventato adesso gentiluomo campagnolo; Will Honeycomb, elegante e spiritoso; il capitano Sentry, in ritiro e pacifico; e soprattutto Sir
Andrew Freeport, un grande commerciante di idee larghe e ardite, sono personaggi ancora vivi e citati ad ogni momento in Inghilterra. La vita quotidiana di ciascuno di essi è raccontata con un lusso di particolari, un’amorevolezza di osservazione che fanno spicco nella letteratura del tempo, ovunque immersa nell’astratto. La vera commedia dell’età Augustea (così, non si capisce perché, gli inglesi chiamano
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questo periodo) è stata scritta da Addison. E tutti questi | personaggi sono coerenti fra di loro, intendo dire che | essi si rivelano subito come appartenenti alla medesima epoca storica. Dalla descrizione dell'ambiente nel quale essi vivono si deduce facilmente la causa delle loro opinioni politiche: Sir Roger è pacifista perché la tranquillità gli permette di smerciare i suoi prodotti agricoli, Sir Andrew è sciovinista e guerrafondaio perché è un armatore e la guerra gli fa aumentare i profitti. Vi è di già — un’analisi del fattore economico e una interpretazione politica di esso. Lo stile è lucido, colloquiale ma elegante, fermamente fondato su solide basi umoristiche. Lo
stile è quello ideale per i saggisti. E infatti, con tutte le modifiche inevitabili, lo stile dei saggi inglesi fino ai nostri giorni, fino a Belloc, fino a Huxley, è quello di Addison. I numeri dello «Spectator» furono cinquecentocinque, adesso raccolti in quattro fitti volumi. Io ne ho letti
circa duecento, e mi bastano.
SWIFT
Jonathan Swift nacque a Dublino nel 1667. Egli non era però irlandese perché suo padre si era da poco trasferito in Irlanda dallo Yorkshire. D'altronde il signor Swift non era affatto il vero padre di Jonathan, che era stato procreato da Sir John Temple, un nobiluomo inglese che in quel tempo aveva una carica in Irlanda. Cosicché Jonathan Swift sarebbe di fatto fratello di Sir William Temple, diplomatico illustre e buon scrittore. Il padre putativo morì prima che lui nascesse, e la madre se ne ritornò dai suoi in Inghilterra, lasciando il
bambino affidato a uno zio. Cosicché Swift crebbe senza padre e senza madre, il che può dar adito a spiegare molte delle stranezze della sua vita e delle sue opere. Fu educato al Trinity College di Dublino dove il curriculum di studi era ottimo, e non si capisce troppo perché egli in seguito accusasse lo zio di averlo «educato come
un cane». Presto però questo zio morì e Swift rimase senza risorse. Dovette andare a vivere nella casa dei Temple, non lontano da Londra. Modo di vivere quanto mai ambiguo e sgradevole, perché tanto il padre (effettivo) che il fratello, benché pieni di buona volontà, lo trattavano
inevitabilmente come un intruso. Questo lungo soggiorno presso una famiglia tanto politicante e attiva fu però di grande utilità a Swift che venne a conoscere tutti gli ingranaggi segreti della politica del suo tempo. Ma nel 1694, infastidito del fatto che i Temple non gli avevano trovato una sistemazione politica, egli prese la sola decisione possibile: si fece prete (anglicano) e ottenne una
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parrocchia, di nuovo in Irlanda. Essere pastore anglicano in Irlanda non è, neppure adesso, gradevole. Nel 1700 era semplicemente infernale. Di anglicani nella parrocchia di Swift ce n’erano sei, lui compreso. E le altre duemila persone del villaggio li evitavano, dice Swift, come «se fossimo stati degli sbirri rognosi». Terza ragione di solitudine in questa infelicissima vita. Ma una di questi sei anglicani della parrocchia era una ragazza di venti anni, anch'essa figlia di un Temple, che venne a vivere presso Swift perché pazzamente innamorata di lui: essa viveva in una casa separata e sorvegliata da una vedova, Mrs Dingley, che pare fosse anche lei una Temple naturale. Famiglia, questa dei Temple, quanto mai prolifica. Questi anni con la giovane Esther rimasero, pare,
sempre platonici e la ragazza, sotto il nome di Stella, è divenuta una delle eroine della letteratura inglese. Intanto un certo numero di scritti su quistioni religiose e politiche attirarono su Swift l’attenzione del suo partito; egli se ne andò a vivere a Londra, lasciando Stella in Irlanda, e si tuffò nella lotta politica parteggiando con i Tories, al cui partito il suo formidabile ingegno e la sua selvaggia irruenza polemica procurarono grandi vantaggi. Swift fece carriera nella Chiesa e benché dei dubbi sorgessero sulla sua ortodossia (pare lo si sospettasse, a buon diritto, di ateismo) egli ottenne un posto eminente nella gerarchia anglicana: quello di decano della cattedrale di Dublino. Quindi nel 1714 eccolo di nuovo in Irlanda. Allora avvenne un dramma: un’altra fanciulla ventenne, anche lei una Esther, si era follemente invaghita di lui a Londra. Quando egli se ne ritornò in Irlanda, essa lo seguì. E possediamo ancora il carteggio, straziante, fra Swift, Stella e la Esther numero due, che è chiamata
Vanessa. Ciascuna delle donne pretendeva di aver diritto a Swift; egli cercava di destreggiarsi fra le due e vi riuscì durante degli anni. Ma a un certo punto scoppiò una
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tragedia: Vanessa morì dal giorno all’indomani e se si sia trattato di suicidio o di omicidio e da parte di chi, se di | Swift o di Stella, è cosa che non si saprà mai. Certo è che dopo la morte di Vanessa morì anche Stella e Swift, colpito da una malattia al cervello, preci-
pitò nella demenza e morì nel 1745. Lo straordinario spirito di lui e la sua pertinace difesa degli interessi irlandesi lo avevano reso incredibilmente popolare e il giorno della sua morte la città intera fu parata a lutto. Ho voluto infastidirvi un po’ con la narrazione della vita di Swift anzitutto perché essa costituisce uno dei grandi miti della letteratura inglese, che ne è pur così ricca (i Sonetti di Shakespeare, la cecità di Milton, le stravaganze di Byron e i complicatissimi amori di Shelley) e se vi addentrerete un po’ nella lettura degli autori inglesi troverete continui riferimenti a Swift, Stella e Vanessa; e poi anche (e soprattutto) perché una vita così intimamente tragica fornisce la chiave per meglio comprendere l’opera magnifica ma fosca di questo che è stato il più grande dei misantropi. Anzitutto tutte le sue opere furono pubblicate sotto il ‘velo dell’anonimato. E, benché sembri impossibile, sol-
tanto una trentina di anni fa esse furono criticamente raccolte e pubblicate in una edizione completa. Tutta la sua opera (come tutte quelle del suo tempo) è polemica. Ma a Swift soltanto è stato concesso di elevare a un significato universale i suoi attacchi personali. Se Swift inveisce contro un letterato mediocre o un politicante corrotto, il lettore si trova dinanzi non meschine
persone dimenticate ma tutti gli sciocchi o tutti i mascalzoni del mondo, tale è la magia dello stile, ampiezza della visione, la grande poesia amara che si esprimeva da quel cervello ammalato e da quel cuore ulcerato. Soltanto Voltaire (e soltanto nel Candido) e Diderot (e soltanto nel Nevey de Ramzeau) sono giunti attraverso un fatto particolare a una così comprensiva denunzia
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universale; e in essi manca ancora quello sfondo di nube temporalesca che incornicia tutta l’opera di Swift. La sua prima opera, The Tale of a Tub (1704), lo mostra già in pieno possesso dei suoi straordinari poteri. È una satira contro i dissensi religiosi inglesi: e anglicani, presbiteriani e cattolici vi ricevono piena misura di terrificanti staffilate, che si interrompono solo per permettere a Swift di frustare altre nequizie. Vi è tutto Swift: la sua potenza intellettuale, la sua capacità di ridurre all’essenziale le più complesse opinioni e di mostrarne il ridicolo, la sua coltivatissima ironia, il suo scherno selvaggio, la sua immensa vitalità, il suo terrificante humour, la sua commovente implicita poesia.
Quasi insieme al Tale of a Tub venne pubblicato The Full and True Account of the Battle Fought Last Friday between the Ancient and the Modern Books în St James's Library. Questa volta tocca ai letterati di sfilare davanti ai giudici. E tutti, antichi e moderni, ne escono con i segni della frusta. Quando dico tutti, intendo dire tutti i
cattivi letterati, perché per i buoni egli ha delle espressioni commoventi (chiama Dante «il mio iracondo gemello» e Shakespeare «l’usignolo insanguinato»). Ma i perdenti, poi, vengono trascinati nel fango (eufemismo). A questo seguirono parecchi scritti polemici su quistioni religiose, scritti con insuperato spirito ma dimostranti una assai scarsa e, a ogni modo, assai formale ortodossia. Da questa stessa ortodossia esula completamente A Project for the Advancement of Religion, nel quale, non si sa se polemicamente o sul serio, propone
l’«autosuggestione» come unico mezzo per far sviluppare il sentimento religioso; è un approfondimento del pensiero di Pascal, una esasperazione del famoso «pari», trattato con un lusso di argomentazioni,
con
una verve di esposizione e con un tale cinismo da metterlo, malgrado il titolo, fra i classici della letteratura antireligiosa.
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Adesso siamo giunti al capolavoro di Swift, a quei Viaggi di Gulliver che sono senza dubbio il più crudele libro che sia mai stato scritto. Credo sia superfluo riassumerlo: è certo che voi tutti l’avete letto. Ma l’avete letto tutto? Oppure vi siete fermati al paese dei Lillipuziani e al paese dei Giganti? Forse avrete creduto che si tratti di spiritose invenzioni destinate a far passare un'ora di ozio. Il fatto è che i Viaggi di Gulliver sono un libro minuziosamente congegnato: dapprima ci vengono
mostrate e criticate tutte le attività sociali dell’uomo: la politica, l’esercito, la marina, le Corti, l'economia, le guerre e le paci, le lotte religiose e financo l’urbanistica, e Swift si diverte a mostrarne la vanità e l’estremo ridicolo mostrandocele rimpiccolite e per così dire viste
dall’alto... come le vedrebbe Dio. Questo è il regno di Lilliput, questi sono i regni di tutta la terra. Così dall’alto della montagna dovette vederli Cristo; per questo li disdegnò. Nel paese di Brobdingnag, il paese dei giganti, non solo cambia il punto di vista ma cambia il bersaglio: è l'organismo dell’uomo, è la sua presunta bellezza, la nobiltà del suo aspetto «a somiglianza di Dio» che viene attaccata. Tutti i suoi organi sono visti da vicino, ingran-
diti a dismisura: l’occhio è una specie di stagno colmo di un’acqua gelatinosa, la bocca una spaventosa caverna maleodorante, e così via. Visti da lontano gli uomini sono giocattoli presuntuosi, visti da vicino grosse macchi-
ne piene di difetti e di fetori. Ma l’uomo può ancora rifugiarsi nel suo intelletto, nelle sue facoltà astratte, nelle sue creazioni scientifiche
e artistiche. Un breve viaggio nell’isola volante di Laputa ci mostrerà a cosa approdino queste attività astratte, a
quali storture, a quali orrori. È questa la parte più attuale del libro, questa in cui ci si mostrano gli scienziati, i
musicisti miserabili schiavi del loro sapere, affannati nella ricerca del nuovo e dell’utile, sempre fiduciosi, sem-
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pre delusi. E si conchiude, se non erro, col grottesco quadro dei chimici che, fra il luridume e il puzzo, si sforzano di ricavare, dagli escrementi, nuovi elementi per la nutrizione. Avete letto il Viaggio a Laputa? Vi è ancora però un estremo rifugio per l'orgoglio umano: quello della sua credenza o speranza dell’immortalità. Vediamo un po’ anche questa da vicino. Osserviamo questo strano paese nel quale ogni tanto nascono dei bambini che, da un segno rosso sulla fronte (la Grazia?), si riconoscono come predestinati
a non mori-
re. Non vi è catastrofe peggiore e a buon diritto il popolo prende il lutto quando nasce uno di questi «Struldbrugs». Essi non possono morire ma, come gli altri, sono ammalati, come gli altri invecchiano, come gli altri soffrono. Hanno cento anni, duecento anni, mille anni, diecimila anni, sono delle indescrivibili larve che non ra-
gionano, non ricordano, soltanto soffrono. Degli eletti, o dei dannati? Conoscete l'episodio degli Struldbrugs? Nell'ultima parte, quella del paese degli Houyhnhnms, Swift arriva al cuore del problema: considera l’uomo in sé, fuori della società, astraendo dalla scienza,
dalla fisiologia, dalla religione: l’uomo come pura esistenza: essi sono men che dei bruti, nascosti nelle fore-
ste, disprezzati e temuti dai «nobili cavalli» che' signoreggiano il paese e vi fanno regnare l’ordine e la giustizia. Sono gli Yahoos, nei quali Gulliver è costretto, con ribrezzo, a riconoscere i propri fratelli, crudeli, ineducabili, ributtanti. E il libro si chiude con una pagina che fa rabbrividire, quella in cui Gulliver ritornato a casa, in famiglia, deve pranzare discosto dalla moglie e dai figli, il cui odore gli ricorda quello degli immondi e stomachevoli Yahoos. Conoscete il Viaggio al paese degli Yahoos? Come il suo «iracondo gemello», Swift ha compiuto
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un grande viaggio; ma il punto di arrivo è il ribrezzo e la idisperazione assoluta. Scritto in uno stile che disdegna qualsiasi belletto, come un rapporto scientifico, con un’ira e un pianto affiorante da ogni frase scarna, i Viaggi di Gulliver sono uno dei libri maestri dell'umanità. Dopo il Gulliver Swift, prima di sprofondare nella pazzia, scrisse parecchi opuscoli, quasi tutti in difesa degli irlandesi, veri Yahoos spadroneggiati dai «nobili cavalli» inglesi. Tutti opuscoli pieni della consueta intellivente irruenza e di una commovente comprensione dei
Holori umani. Ma uno di questi opuscoli è in particolare notevole e famoso, il Modest Proposal, nel quale si sugzerisce, come rimedio alla perenne crisi irlandese e alle ricorrenti carestie, la vendita dei bambini fino a tre anni
che, con apposita nutrizione e speciali ricette culinarie, fornirebbero un cibo prelibato alla tavola dei ricchi mercanti inglesi. Swift scrisse anche dei versi che hanno tutti i meriti Helle sue opere in prosa, ma che poesia non sono. Notevole fra queste la sua ode Sulla morte del Dr Swift (1731) che è un miscuglio di ironia, di egotismo e Hi pathos.
Con questo abbiamo concluso la rassegna dei grandi prosatori dell'età di Addison. Essi sono i veri poeti di questa età. Due di essi, Defoe e Swift, sono fra i più zrandi. Passando adesso ai poeti «in rima» ricadiamo nella rosa.
ALEXANDER POPE
Questo poeta, nato nel 1688 e morto nel 1744, rappre-
senta tanto quanto Addison l’affermarsi dello spirito borghese nella letteratura. Uomo di grandissimo ingegno e di consumata perizia tecnica (i suoi versi, se consi.
derati soltanto come sapiente unione di sillabe e di suoni, sono fra i più belli inglesi), non fu vero poeta perché l’età sua era età artigianalmente costruttiva, capitalistica.
mente imperialista, e che alla sua poesia trovava espres: sione nella asciutta prosa di Swift e di Defoe. Pope è il fiore supremo del classicismo. Se per poesie si vuole intendere limitazione degli antichi (imitazione nello spirito, beninteso, non nella materia), il cultc esclusivo della forma, la faticosa vittoria sulle difficoltà
della tecnica, egli fu grande poeta. Se invece si vuol in tendere come poesia un approfondimento intimo, la ri cerca di un modo personale di espressione, la facoltà d rendere universale un brivido individuale, egli non lo fi affatto. Egli è la riprova di ciò che ho detto a proposito d Ben Jonson: che in definitiva fu la tendenza classica chi ebbe il sopravvento. Alla tendenza classica dovetteri
sottomettersi, durante il Settecento, anche i drammi d
Shakespeare che bellamente castrati e pettinati si pre sentavano al colto pubblico e all’inclita guarnigione i cinque atti, cinque scene e cinque personaggi. Quest
segno del classicismo, che non nocque affatto, come ab biamo visto e vedremo, alla produzione in prosa, mut viso alla poesia; e occorrerà aspettare ancora cinquant
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anni perché con Blake si rifaccia della poesia così come si intende adesso. Pope nacque con un doppio handicap: quello di esser cattolico e quello di essere deforme. La sua confessione religiosa gli precluse qualsiasi carriera, la sua deformità gli negò qualsiasi amore. Ma egli a forza di pertinacia, di lavoro e di ws finì col crearsi una posizione di prim’ordine nel mondo letterario e nei salotti, due entità che allora, in Inghilterra come in Francia, si identificavano. Aveva, del resto, il dente avvelenato e i cagnetti che tentavano di avvicinarsi al botolo ringhioso dovevano allontanarsi con le orecchie lacerate e la coda fra le gambe.
Tipico per la sua personalità è il fatto che una delle sue prime opere fosse un poema, Essay on Criticism, del 1711, che è poi una Ars Poetica. La maggior parte di ciò che vi è detto son luoghi comuni ma un innegabile talento di Pope per il conio di aforismi rende questi luoghi comuni memorabili. L’anno dopo viene pubblicato The Rape of the Lock che è l’opera più nota di Pope e che, se vogliamo per un momento dimenticare cosa sia la grande poesia, possiamo chiamare un delizioso capolavoro. La filigrana aggraziatissima della strofa si conviene molto bene all’estrema tenuità del soggetto. Se la cipria, le mouches, i cicisbei, i cagnolini, lo zibetto e i mobili rococò possono esser materia di poesia, questa poesia è perfetta. Essa
è stata del resto lungamente imitata e influenze dirette di essa si possono notare nelle parti migliori del Giorno pariniano e financo nelle Fétes galantes di Verlaine. Il bello è che la trama del poema è tratta da un avvenimento reale di quel tempo. Dopo The Rape of the Lock, Pope poteva considerarsi affermato nei circoli letterari londinesi. Egli era «il poeta». E ciò fu la sua perdita. Il rimanente della sua vita si consumò a scrivere satire contro chi pretendeva toglier-
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gli dal capo incipriato quella corona fittizia, e a scrivere poesie «serie» per mantenere il primato.
Alla sua vena (diciamo pure alla sua necessità) satirica appartengono la Durciad (come se si dicesse la Scimuniteide), violento attacco contro Theobald, Philips e Den-
nis; e il Marinus Scriblerus. Ai poemi «seri» appartengono anzitutto le versioni dell'Iliade e dell’Odissea, che con i poemi omerici hanno scarse relazioni, ma che in se
stessi possono andare. E numerose Epzstole indirizzate a varie signore. Non vorrei che da questa mia noncuranza traeste l'opinione che non vi è niente di buono in esse: la forma (intendo dire la prosodia, le rime) è sempre perfetta; lo spirito ora caustico ora delicatamente galante vi abbonda; molti
versi in forma di aforismi sono notevoli; si potrebbe compilare una raccolta di rzaxz77es di Pope. Ma questo è tutto. La fama di questo poeta fu immensa durante il Settecento; essa travolse quella di Milton e oscurò financo Shakespeare. Ancora ai primi dell'Ottocento Byron, che differiva profondamente da Pope, stravedeva per lui; dopo, calò il silenzio. E solo di recente un libro polemico della Sitwell ha riacceso un vespaio attorno a questo poeta, o, per meglio dire, attorno a questo uomo di spirito che scriveva in versi.
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POETI MINORI
Rincresce di porre Matthew Prior (1664-1721) fra i poeti minori. Io, personalmente (e non occorre dirlo, come
sempre, erratamente) lo preferisco a Pope. Riconosco che è meno rappresentativo, che incarna in modo meno spiccato il suo tempo; appunto per questo lo stimo di più. A me sembra alquanto più vero poeta di Pope e altrettanto aggraziato.
Egli era nato da povera famiglia; ma il suo precoce talento poetico lo mise in luce presto e gli fece ottenere un posto insperato: quello di addetto alla grande ambasciata di Sir William Temple nei Paesi Bassi. Qui ebbe un colpo di fortuna: il formidabile Sir William si ammalò; andò migliorando e poi ebbe una ricaduta; e così via fra miglioramenti e peggioramenti rimase impotente e inat-
tivo, ruggente nel suo letto. E Prior ebbe agio di mettersi in valore al suo posto; conferiva con Guglielmo d’Orange, si spingeva avanti, rimestava quanto voleva. E quando Sir William si decise a guarire la fortuna di Prior era fatta. Quel che non si sapeva finora e che adesso risulta da documenti ritrovati all’Aja è che l’eccellente poeta, mentre curava amorevolmente il suo capo, aveva cura di versare nelle pozioni medicamentose dei purganti o del bismuto, a settimane alternate, in modo che il povero Sir William, afflitto da crisi successive di “ Prior ottenne l’incarico all’Aja nel 1690. In quell’anno l’ambasciatore inglese nei Paesi Bassi era Lord Dursley, al quale si riferi-
sce l’aneddoto della malattia che assicurò la fortuna del giovane poeta. Sir William Temple era stato ambasciatore all’Aja nel 1668 e dal 1674 al 1679.
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diarrea e di stitichezza, tardava a guarire quel tanto che poteva riuscir utile a Prior per consolidare la propria posizione. È un episodio molieresco che io, almeno, ammiro
senza riserve e che, per così dire, profuma di sé tutta la susseguente opera di Prior.
Quest'opera è (sempre nei limiti, ristretti, del proprio tempo di fioritura) deliziosa. Vi è un poemetto scritto appunto all’ Aja, durante le intelligenti cure al proprio ambasciatore, The Secretary, composto in versi svelti e scorrevoli che descrivono la gioia di Prior, libero per due giorni dalle cure di ufficio, che si reca in campagna per una vacanza insieme a una ragazza. Bisogna aver co-
nosciuto la stessa sensazione in occasione di qualche licenza da militare per apprezzare la giustezza di osservazione e la felicità di espressione. Ma vi sono molti altri componimenti poetici di Prior, le solite liriche galanti, molto ben rigirate e maliziose, e alcuni squisiti versi dedicati a dei bimbi dei quali Prior era grande amico. Non debbo dimenticare di dire che Prior fu tutta la sua vita protetto e sostenuto da Sir William Temple che gli fu sempre riconoscente per le cure ricevute durante la sua infermità all’Aja.
John Gay è noto soprattutto per le sue favole che però rimangono ben lungi dalla raffinata semplicità di La Fontaine e dalla bonaria popolaresca maniera di Krylov. Però di lui esiste un poemetto di arguta malizia che è divertente dalla prima all'ultima delle sue scorrevoli ottave: Mr Pope's Welcome from Greece, paese dove, del resto, Pope non andò mai.
Ve ne sono altri ma è superfluo ricordarli (intendo parlare di poeti).
ALTRI SCRITTORI
' Ve ne sono molti, e notevoli. Storici, scrittori politici, i autori di memorie, filosofi illustri.
Non ci riguardano.
L’ETÀ DI JOHNSON Ancora storia (ma è l’ultima volta)
Il periodo del quale parleremo adesso ha un’importanza primaria tanto in politica interna che estera. In politica interna esso segna lo scacco dei tentativi di ritorno degli Stuards, il completo asservimento dell’Irlanda, la costituzione dei governi di Gabinetto, l’inizio
dell’era industriale. In politica estera, spacciata la Spagna, contenute le velleità egemoniche francesi, fondato e ingrandito l’impero coloniale, l'Inghilterra si avvia nettamente verso quella egemonia mondiale che doveva durare più di un secolo. I problemi della successione al trono furono assai complessi al principio di questo periodo (1688-1789). Deposto Giacomo II, venne chiamata al trono la di lui figlia Mary che aveva sposato Guglielmo d’Orange: abbiamo così il regno di William the Third e di Mary. Ma la coppia non ebbe figlioli. E alla loro morte accesse al trono Anna, sorella di Mary. Cosicché quando essa stessa morì, vedova anch'essa senza figli, la successione al trono inglese fece un salto prodigioso e che avrebbe potuto essere un salto mortale: venne chiamato Giorgio I, elettore di Hannover, che aveva per nonna una figlia di Giacomo I e che era solidamente protestante.
Questa successione provocò una grave crisi: il nipote di Giacomo II, che era l’innegabile erede al trono, sbarcò per due volte in Scozia e, alla testa degli Highlanders, si avanzò una volta sino al centro dell’Inghilterra. Ma fu sanguinosamente sconfitto a Culloden (1746). Dopo di che del «bonnie Prince Charles» non si parlò
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più che per vantarne la straordinaria avvenenza e il fascino che aveva esercitato sulle ragazze scozzesi. Il guaio (o la fortuna) era che Giorgio I, come il figlio Giorgio II, erano completamente tedeschi, ignoravano l'inglese ed avevano la testa piena di ricordi del loro beneamato Hannover nel quale ritornavano spesso. Cosicché, per la carenza del sovrano e la sua assoluta impossibilità ad imparare la lingua dei propri sudditi, la reale direzione degli affari si trasferì nelle mani del Prime Minister e, attraverso lui, del Parlamento.
Il Parlamento, però, non era più quello gretto ed economo del tempo di Carlo I e di Carlo II. La camera dei Comuni, formata da un ceto borghese in rapida ascesa, non desiderava che «the enlargement of trade» e senza batter ciglio votava enormi tassazioni per gli armamenti navali. La ricchezza continuamente crescente del paese rendeva possibili le enormi spese. Mediante queste spese, alla pace di Utrecht la Gran Bretagna appare di già come la principale potenza mondiale. Gli anni successivi e le ulteriori guerre contro la Francia le fanno acquistare il Canada e «les établissements» francesi in India. Si crea la formidabile «East-India Company» che aveva a sua disposizione eserciti e diplomazia e che, successivamente, utilizzando il talento
di Clive e di Warren Hastings, doveva provvedere al dominio sull’intera penisola indiana. Venne occupata Gibilterra che fu poi vittoriosamente difesa contro tre assedi franco-spagnoli. Reynolds ci ha trasmesso il ritratto di Lord Howe che stringe al petto le chiavi della città conquistata. Nell’ultimo terzo del secolo però questa espansione
subì un grave momento d’arresto: le colonie inglesi del Nord America si ribellarono e, con l’aiuto francese, riu-
scirono ad ottenere la propria indipendenza. Ma la crisi venne superata. Giorgio III (che era, finalmente, completamente inglese) portava la maggior re-
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sponsabilità della catastrofe americana. Fortunatamente egli era soggetto a crisi intermittenti di alienazione mentale: cosicché si dovette nominare un Reggente e gli affari politici ritornarono nelle mani dei Primi Ministri, molti dei quali furono dei geni politici. Fortunatamente anche scoppiò la Rivoluzione francese: e l'Inghilterra ne fu la più costante ed acerrima nemica, tanto più che essa aveva di già realizzato in sé le aspirazioni essenziali di questa rivoluzione. Corse dei pericoli gravissimi, specialmente quando il dinamismo rivoluzionario si fu incarnato in Napoleone: ma le illimitate possibilità della sterlina di finanziare Austria, Prussia, Russia e Spagna, il
talento militare di Nelson e di Wellington, le permisero di superare l’azzardo mortale (la Gaskell ci racconta come nei piccoli borghi inglesi la gente si svegliava la notte e credeva udire il calpestio delle truppe francesi) e, ancora rinforzata, nel 1815 essa si adagiava, in una relativa calma, a godere i frutti della sua egemonia mondiale che doveva durare fino al 1939. Scusate, e finiamola.
e
IL TEATRO AUGUSTEO
È difficile dire se nel Settecento ci fosse o no un teatro inglese. Tranne due autori, esso non presenta nessuna ‘opera originale, e quindi si dovrebbe dire che non c'è. Intanto dal punto di vista esteriore il teatro fu attivis:simo. Le sale di spettacolo erano numerose, gli attori ec‘cellenti, la produzione abbondante. Ma vi era, appunto, il fenomeno del divismo: la gente andava a teatro non ‘per ascoltare tale commedia o tal dramma, ma per sentir ‘recitare Garrick o Mrs Siddons: sintomo tipico dei mo‘menti di decadenza teatrale. I nostri padri, al momento della ritardata morte del melodramma, non andavano a
sentire Bellini o Verdi (dei quali è da presumere avessero piene le tasche) ma ad aspettare il do di petto di Tamagno e i (pare) insuperabili falsetti di Bonci. Il repertorio era costituito o da sacrileghi rimaneggiamenti di Shakespeare e di Fletcher, o da commedie sentimentali e lacrimose; segno però del costante favore e del prestigio di cui godeva il teatro è il fatto che non vi è un autore del Settecento che non sia passato al teatro; fimanco il Dr Johnson scrisse la sua brava commedia e per chi lo conosce ciò fa l’effetto che farebbe a tutti sapere che Benedetto Croce è l’autore di Tristi azzori o Giovanni Gentile quello di Rorzanticismo. Due uomini però, come abbiamo detto, riuscirono a realizzare delle vere commedie, a dire una parola nuova;
e ne sono stati compensati col perdurare del consenso attorno alle loro opere che, evidentemente, erano salite nella sfera della stabilità e ci parlano ancora adesso.
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Il primo di questi due autori è l’illustre Oliver Goldsmith, del quale dovremo ampiamente occuparci tanto per le sue poesie quanto per il suo romanzo. In gioventù aveva scritto una tragedia di soggetto romano e sul modello di quelle di Voltaire. Fortunatamente essa è andata perduta. Nel 1767 egli scrisse una commedia, The GoodNatured Man, che ebbe un certo successo ma che non è
rimasta viva e che (del resto) non ho letto. Ma nel 1773 la rappresentazione di She Stoops to Conquer fu un vero trionfo e da allora questa arguta, divertente, fine commedia è rimasta perpetuamente sulla scena inglese. Oltre alla straordinaria vivacità del dialogo vi si nota la freschezza e il senso di «pulizia» che è parte tanto cara del talento di Goldsmith nelle altre sue opere. Commediografo più compiuto fu Richard Sheridan (1751-1816), la cui attività principale per altro fu la politica. Irlandese di buona razza, egli ebbe tutti i vizi e tutte le qualità (adorabili) dei suoi compaesani: disordinato, pigro, spendaccione, era nello stesso tempo pieno di cuore, incredibilmente spiritoso, e fu anche uno dei
quattro o cinque maggiori oratori del Parlamento inglese che proprio in quegli anni conosceva l’età dell’oro della eloquenza. Fu anche ministro e confidente del Principe Reggente. Una vita turbolenta, piena di romanticismo e traversata da lampeggiamenti di genio che mostra come il «fenomeno Mirabeau» fosse più un prodotto dei tempi che del temperamento individuale. Tutte le sue opere per il teatro appartengono alla sua gioventù. La prima fu la commedia The Rivals (1775), il cui intreccio è preso di peso da opere altrui anteriori, ma che è interamente vivificata dal brio dell’autore. È una commedia tutta di superficie, interamente immersa nel mondo della scena e nello stesso tempo fedele al mondo reale. Dopo vennero St Patrick’s Day e The Duenna, delle
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‘quali, a quanto ho letto, è inutile parlare. Ma nel 1777 ‘ecco il capolavoro, The School for Scandal, che non ha | più lasciato il repertorio dal tempo della sua rappresentazione. Rassomiglia molto alle commedie di Congreve ‘con una miglior tenuta morale. Commedia essenziali mente di dialogo e di caratteri, è quasi impossibile (e sai rebbe del resto inutile) narrarne l’intreccio. Bisogna seni tirla recitare da attori non per forza di prim’ordine ma : con la lingua ben sciolta e abituati allo stile del Settecen-
i fo, messa in scena, come si usa nei buoni teatri di Lon-
i dra, con mobili autentici del tempo, per avere l’impres‘sione di potente grazia che essa può dare. Alla lettura i riesce pesante per quel difetto al quale ho già accennato: Ilo scoppiettio troppo fitto e continuato dei motti di spirito. «Toujours perdrix.» Ma alla recita tutto questo si ifonda in un insieme di felice giocondità e quando gli ati tori, secondo il costume del Settecento, si presentano al-
la ribalta per congedarsi, si sente sempre qualche spetta-
itore, ubriaco
del vino forte e fine che l’autore ha
dispensato per due ore, gridare «Sheridan is a great fellow» o qualcosa di simile. Io lo ho sentito una volta, ma ‘mi si dice che ciò avvenga quasi sempre. Abbiamo più di una volta parlato della intima perversità del Settecento. Essa si mostra assai meno in Inghil-
terra che in Francia. Non che essa manchi del tutto, e
parlando dei romanzieri avrò occasione di occuparmene. Ma alla profondità di Sade e di Laclos non si arriva. La grande epoca della perversità inglese è la Restaurazione; un'epoca un po’ minore è la Reggenza, dal 1800 al 1825. Ma, in generale, la perversità inglese è piuttosto radicata nella piccola borghesia confinante con il proletariato, dove avvenivano (e avvengono) cose incredibili. Nel mondo dei letterati è piuttosto affettazione, una specie di reazione al sempre incombente puritanesimo. Le storielle salaci che mi si raccontavano dopo i pranzi, quando le signore sono andate via, avevano la graziosa
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ingenuità delle barzellette dei nostri studenti ginnasiali, senza paragone con le azioni (non parlo nemmeno delle storielle) del più morigerato italiano, francese, tedesco 0
russo. Forse mi prendevano in giro. Ma non lo credo; vi era troppa uniformità in troppe cose diverse. L’ultima commedia di Sheridan, The Critic (1779), è
una divertente ma superficiale satira sugli ambienti teatrali. Troppo piena di allusioni effimere per poter essere pienamente gustata; ma il secondo atto, che rappresenta la parodia di uno dei drammoni del tempo, è ancora vivissimo.
Con questo Critic si chiude di nuovo il sipario sul teatro inglese. Quasi l’intero Ottocento è un deserto per la poesia teatrale; occorrerà addirittura aspettare gli anni Novanta con Wilde e Shaw per poter udire qualcosa di decente. Ma da allora, cioè da sessant'anni, non ha ces-
sato di fiorire. Durante tutto il Settecento e l’Ottocento lo scrittore che aveva ingegno e volontà di approfondire caratteri, di scavare nell’interno o anche soltanto di «hold the mirror up to nature» ricorreva al romanzo. E in tutte le letterature si può notare come romanzo e teatro non fioriscano
mai insieme. Il serbatoio d’acqua è lo stesso e quando si apre un rubinetto, l’altro non sputa fuori che goccioline,
(Questo è stato scritto troppo di getto; «il faudrait nuancer».)
Pi
IROMANZIERI
Essi dominano il panorama letterario fino al 1780; sono parecchi e di prim'ordine, e intorno ai grandi ve ne sono moltissimi di secondo ordine, 24077; segno infallibile del rigoglio di un genere letterario, come abbiamo visto per gli elisabettiani. I grandi sono cinque: Richardson, Fielding, Smollett, Sterne e Goldsmith. E di essi occorrerà parlare uno per uno. Dunque, pazienza.
SAMUEL RICHARDSON
Abbiamo di già incontrato dei romanzieri inglesi: Defoe e Swift, grandissimi nomi. Ma a voler un po’ essere attenti ci si potrà chiedere se questi fossero davvero dei romanzieri. Per Swift rispondere negativamente è facile: il Gulliver è una prodigiosa ricerca nelle profondità della miseria umana, una esplosione di misantropia dolorosa; non basta a farne un romanzo la tenuissima parola che gli fa da impalcatura: non vi è contrasto di caratteri (anzi non vi sono addirittura caratteri), non vi è ambiente. Ma Defoe: nelle sue opere vi sono dei caratteri e vi è l’ambiente. Ma l’urto tragico non vi è o, per meglio dire, vi è soltanto l’urto di un personaggio non contro gli altri uomini ma contro la malignità, l’inesorabilità della natu-
ra o della società. Sono narrazioni di duelli, non dialettica di passioni fra uomini. Se vogliamo ammettere questo, Richardson ci si presenterà come il primo romanziere inglese, il primo insomma che abbia scritto tragedie in cinque volumi invece che in cinque atti. Samuel Richardson (1689-1751) non era scrittore di professione: era un tipografo e non scrisse assolutamen-
te nulla fino all’età di cinquant'anni. Eppure questo modesto industriale doveva lasciare un segno profondissimo nella letteratura del suo paese e in quella francese, tedesca e italiana. Egli si mise a scrivere quasi per caso: un amico, anche
lui tipografo, lo aveva informato che dalla provincia ve-
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rnivano frequentemente richieste per un libro di lettere ‘bell’e fatte alle quali gli illetterati potessero ricorrere (quando fossero costretti a scrivere cose di una certa importanza e complessità. Per divertirsi Richardson comipose questo libro e divagando un po’ dal tema iniziale vi iinserì anche una lettera di una servetta troppo carina ‘che espone ai suoi genitori i pericoli che corre la sua \virtù nella casa dei padroni. Compiuto il lavoro, Ri‘chardson si accorse che sapeva scriver bene. La lettera ‘della servetta virtuosa continuò a frullargli in testa e l’anno dopo (1740) pubblicò Pazzela, or Virtue Rewar‘ded, primo romanzo epistolare di tutte le letterature, che imarra appunto la storia di una graziosa e bella fantesca la cui virtù, insidiata dapprima dall’intraprendenza del giovane padrone, trionfa infine e costringe il giovanotto al matrimonio. Pazzela non è certo un capolavoro: la sua prolissità dà talvolta la vertigine. Essa è il principale difetto di Richardson ed è soltanto superata dal sottoscritto. Inoltre Pamela ostenta un po’ troppo la propria virtù che del resto non è del tutto disinteressata. Ma i personaggi sono molto vivi, tutti, e si sviluppano autonomi anche al di fuori dei preconcetti moralistici del loro autore.
Sia come sia, il successo di Parzela fu ciclonico. Si ve-
de che vi era un immenso pubblico che inconsciamente aspettava il romanzo. Si fondò così la fortuna del romanzo epistolare, che ha avuto tanti illustri cultori, da Rousseau a Laclos, a Goethe. E benché adesso lo si trovi innaturale e macchinoso, Hervieu ce ne ha dato un sag-
gio illustre nel Peints par eux-mémes e pochi anni fa Piovene ha dovuto a questa forma il suo migliore (e unico) successo. Ed è da Richardson che Goldoni ha tratto il
tema della sua Parzela nubile, che è una delle sue cose migliori. Otto anni dopo Richardson pubblicò Clarissa, or the History of a Young Lady, che è davvero un bel romanzo.
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Letteratura inglese
L’ho letto molto tempo fa, una sola volta. Non posso dire che sia precisamente divertente e le lungaggini, le dissertazioni moralistiche su fatti ovvi sono penose. Ma,
detto questo, i caratteri sono ben più nettamente disegnati che nella Parzela, a tal punto che son rimasti e rimangono proverbiali: Lovelace in Inghilterra, in Francia (e in Russia) designa fino ai nostri giorni il libertino crudele e privo di scrupoli. Anche l’ambiente è ben definito e attraverso la nebbia della prolissità si scorge una Londra di prosseneti, case di malaffare (e anche di brave persone) che può aver dato ispirazione alle acqueforti di Hogarth. È in questa C/arissa che si nota un po’ la coda della cattiveria settecentesca, come la si noterà poi nel Tom
Jones. Ma siamo ancora lontani, molto, dalle Liazsors dange-
reuses. Ancora parecchi anni dopo Richardson pubblicò The History of Sir Charles Grandison. L'autore, evidentemente pentito di aver fatto fare tanta brutta figura agli uomini nei suoi libri precedenti, si è proposto di mostrarci il modello delle persone per bene su Sir Charles. Il libro, che non manca delle connate qualità di Richardson, ebbe un immenso successo che durò fino ai primi dell'Ottocento. Jane Austen, alla quale non si potrà negare il rigore dell’arte e la penetrazione psicologica, lo lodava altamente. Ma è da notare che si guardò bene dall’imitarne la maniera nei propri romanzi, che sono scarni, concisi e non lacrimogeni. Ai nostri giorni, mentre Pamela e Clarissa possono leggersi con profitto se non con piacere, Grandison è caduto nel baratro della illeggibilità. Io sono una delle cinque o sei persone in Europa, credo, che abbia avuto la costanza di terminarlo. Mi ci son voluti due mesi perché occorre prenderlo a piccole dosi. Ciò mi sarà contato nella valle di Giosafat. Il guaio per Grardison, e in genere per tutta l’opera di
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Richardson, è che egli credeva che il moralista avesse più importanza dell’artista. E così egli annegò l’artista originale che era (la sua lingua, per esempio, familiare e fresca è squisita) dentro i fiumi di saliva del pensatore originale che credeva di essere non essendolo. La sua influenza fu enorme. E toccò i talenti più dissimili dal suo: ho già detto di Jane Austen; si potrebbe citare Diderot che nel suo Elogio di Richardson lo presenta come un grande spirito creatore. Diderot! l’uomo più libero dalla moralità convenzionale che abbia mai scritto! Non importa. Il romanzo inglese era creato.
HENRY FIELDING
Henry Fielding (1707-1754) nacque da una buona landed gentry. Tuttavia le sue origini personali sono oscure; sem-
bra che fosse in realtà figlio di un arciduca d'Austria. Il che rende saporosa la frase di Gibbon, che la gloria di Fielding sopravviverà all’Escorial e all’aquila bicipite. E del resto così fu: l’Escorial è un museo, e l'impero asburgico un ricordo. Tor Jones non è stato sfiorato dai secoli. Asburgo o no, egli cominciò la sua vita come scrittore per teatro e scrisse le solite commedie insipide del suo tempo e i soliti adattamenti di Molière al gusto (e alla pruderie) britannica. Pare che vi sia qualcosa di lui, delle parodie di insulsi drammoni contemporanei, che non sia male. Ma sarà in ogni caso roba d’occasione e di second’ordine. Fu anche impresario poco fortunato e giornalista sul tipo di Addison. Ma la sua vita sarebbe trascorsa in questi oscuri lavori se la pubblicazione della Pamela non l’avesse fatto montare in furia. Il sentimentalismo e l’inzuccheramento di questo libro, il suo moralizzare a ogni costo andarono di contro pelo a Fielding, che, non meno moralista di Richardson, parteggiava, come Swift, per la morale della frusta e non quella degli zuccherini. Cosicché un anno dopo Pazzela egli pubblicò il suo primo romanzo, The Hystory of the Adventures of Joseph Andrews, che comincia col descrivere in modo umoristico i pericoli che corre la virtù di un giovane domestico insidiato dalla sua anziana padrona,
Lady Booby. Lo spunto era buono ma tenue; Fielding era però un vero artista e gli successe l’identico fatto che quarant'anni dopo doveva succedere a Dickens durante la composizione di Pickwick; i personaggi gli presero la mano e continuarono a vivere per loro conto, al di là
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delle intenzioni originarie dell’autore. Lady Booby scompare e Joseph Andrews scivola in secondo piano; e tutta l’attenzione dell’autore è concentrata sul ridicolo e commovente clergyman, Parson Adams. Ancora inesperto, il libro è già di parecchi gradini superiore alla produzione richardsoniana. È, più che leggibile, dilettevole: la forma epistolare è bandita e il racconto si svolge scorrevole come quello di Cervantes sotto il cui patronato il romanzo è significativamente posto.
Non vorrei dimenticare di dire che, fierissimo oppositore dell’arte di Richardson, Fielding fu affettuoso amico dell’autore di Parzela; e, trionfo della buona educazione, si videro quotidianamente per degli anni, senza mai far parola delle loro polemiche scritte. Nel 1743 Fielding pubblicò un volume di Miscellanee. Una di queste è una lunga novella, The Life of Mr Jonathan Wild the Great, nel quale la fiamma della sua ironia brucia con impeto. È una satira della «grandezza», della falsa e anche della vera. Libro di «haut goùt» la cui lettura, ai nostri tempi ammalati di «grandezza», riesce financo sgradevole. Nel 1749 abbiamo il capolavoro: The History of Tom Jones, a Foundling. Le espansioni moralistiche vi sono, non potevano allora non esserci: ma Fielding le ha non soltanto ridotte a una frazione di quelle di Richardson, ma le ha racchiuse in brevi saggi che precedono le dodici grandi parti in cui il romanzo è suddiviso. E questo divide con Pickwick e Guerra e pace il grande merito di essere uno dei più lunghi romanzi esistenti e uno di quelli che si vorrebbe durassero sempre. E ciò non certo per il volgare interesse di intreccio ma per la sensazione che essi danno di immersione in un altro più lucido e più luminoso mondo. Qui siamo immersi nel Settecento inglese e ne conosciamo le città e le campagne, le taverne e le riserve di caccia, la pompa un po’ grossolana ancora dei castelli e l'incredibile povertà dei
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Letteratura inglese
contadini. Qui incontriamo pedagoghi imbroglioni, signorotti collerici, contadinelle scostumate e vecchie si-
gnorine ipocrite. Tutto un mondo dilettevole e bonario che Richardson aveva intuito ma non espresso. Il protagonista, buon ragazzo niente affatto virtuoso e Sofia, virtuosa ma non noiosa e vivacissima figliola. I personaggi vi formicolano e gli episodi si accavalcano: passano dinanzi ai nostri occhi i più gustosi acquarelli delle campagne, dei salotti e delle locande inglesi. Un grandissimo libro che al lettore attento si svelerà ricco di poesia e ricco anche di utilissima esperienza, pieno del resto di pagine realistiche che Zola non avrebbe disdegnato e che mostrano sì la famosa cattiveria settecentesca ma anche di quanto Fielding fosse superiore alla sua epoca. Egli fu il padre spirituale di Dickens. Ma non gli occorre di esser ricordato per ciò che derivò da lui: egli è ciò che è e gli basta. Leggetelo.
Fu tale la fama che Fielding si acquisì con il Torz Jones che egli venne nominato... magistrato. Ufficio che, del resto, adempì nel modo più dignitoso e degno di una natura come la sua, virtuosa ma nelle grandi linee, esente da ogni ipocrisia e meschinità, condiscendente verso le piccole debolezze e le umane follie. Nel 1751 pubblicò Arzelia, l’ultimo suo romanzo, che
è nettamente inferiore tanto a Jonathan Wild che a Tom Jones, però commovente perché lascia intravedere un Fielding commosso, il che non era prevedibile.
Ma la sua salute declinava (tbc) e con le idee medicali del tempo gli venne ordinato di dimorare in un luogo caldo; cosicché partì per Lisbona dove, immediatamente, la tbc lo uccise. Ed è sepolto lì. Durante il viaggio per mare ebbe tempo di scrivere A Journal of a Voyage to Lisbon, che è un monumento di arguzia, di bonarietà e di comprensione.
TOBIAS SMOLLETT
[Tobias Smollett nacque in Scozia nel 1721; venuto a Londra a studiare medicina, si dedicò invece al teatro e
scrisse una tragedia, I/ Regicida, che tutti i capocomici rifiutarono con caparbietà. E ciò gli dovette causare un vivo dolore perché ne parla ancora con rincrescimento nella sua ultima lettera rimastaci, scritta trent'anni dopo
il fatto.
Ma diventò chirurgo della Marina e fu spedito nelle colonie inglesi dell'America centrale dove rimase otto anni, acquistando una esperienza della vita marinara che si rivelò poi nei suoi romanzi. Ritornato in patria pubblicò The Adventures of Roderick Random (1748). Se Fielding aveva posto la sua prima opera sotto il patronato di Cervantes, lo Smollett pone la propria sin dal principio sotto il segno di Lesage; e a buona ragione perchéi suoi romanzi sono di fatto dei romanzi picareschi. Personalità arrogante e poco simpatica, d’altra parte buon conoscitore degli usi marinari e militari, Smollett ha dipinto se stesso e la sua vita nei suoi interessanti ma an-
ch’essi poco simpatici romanzi: Roderick Random e Peregrine Pickle descrivono ambedue di terra e di mare, mprese di crudeltà, di raggiro e di truffa, narrate senza a tragicità implicita nei veri romanzi picareschi spagnoi, ma con una malcelata compiacenza verso i lerci eroi. Si resta trasecolati e sorpresi della quantità di dolore isico che gli inglesi del Settecento potevano sopportare come i russi adesso) e ciò mostra come fosse ancora sotile lo strato di civiltà personale inglese. Cinquanta anni lopo le opere della Austen ci mostreranno un quadro
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Letteratura inglese
mutato, e ottanta anni dopo i romanzi di Marryat (che si svolgono in un clima simile a quello di Smollett) ne saranno la riprova. Ma lo humour salva molto nelle opere di Smollett: alcuni suoi personaggi comici sono indimenticabili e qualche scena fa ridere da solo il lettore più accigliato. È per questo che il miglior romanzo di Smollett a me sembra l’ultimo, The Expedition of Humphrey Clinker,
picaresco anche lui ma scritto in tempo di scherzo, con gli inevitabili bricconi ma anche con esilaranti e care figure. Smollett si invischiò in penose polemiche con Fielding, nelle quali non fece bella figura; e con la direzione delle acque termali di Bath, che pare abbia ricattato nella sua duplice qualità di medico e di scrittore, nelle quali la figura fatta fu addirittura pessima. Malgrado ciò fu nominato console a Livorno. Vi andò e, come era da attendersi, l’acqua pestilenziale di quella città gli comunicò un bel tifo che lo inviò ben prestc all’altro mondo (1771).
e
LAURENCE STERNE
Laurence Sterne (1713-1768) è un autore la cui fama ha subito da una quarantina d’anni un notevole mutamento. E oggi ne sta subendo un altro in senso opposto. Segno, per lo meno, che è un autore che ha qualcosa da dirci, sia pure come contraddittore. Sino al 1900 Sterne era considerato uno dei massimi scrittori inglesi: Gosse e Henley non la finivano più di esaltarne lo spirito, la finezza di osservazione, la perfezione stilistica. E prima ancora Ugo Foscolo lo traduceva e lo imitava (ambedue cose assai male, ché Foscolo,
grande poeta, mancava proprio dell’humour e della levità sterniana e il suo Didimo Chierico mi ricorda sempre gli ippopotami di Disney che intrecciano carole nella Danza delle ore; e sì che Sterne non è Ponchielli!).
Era quello il periodo (fra il 1880 e il 1890) nel quale Fielding era trascurato in Inghilterra e completamente ignorato in Italia, nel quale Dickens era considerato un divertente mattacchione in patria e all’estero era soltanto un nome (del resto a buona ragione poiché egli è completamente intraducibile, come i veri poeti). Al posto dei due colossi si era seduto Sterne; non un nano, certamente, ma un uomo di media statura.
Poi venne la caduta, rapida e completa: verso il 1910 la polvere del disprezzo inghiottiva Sterne sino alle orecchie. Senza cuore, senza moralità, senza costruzione,
senza nerboruto stile. Nella storia della letteratura di Davidson è relegato in nota! (1912) Subito dopo la prima guerra mondiale il Surrealismo cominciò ad espandersi; e si venne a scoprire che il re-
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verendo Sterne era stato un surrealista senza che lo sapesse. Quei passaggi da un argomento all’altro basati soltanto su una associazione di idee, che delizia! quella vita di
Tristam Shandy che si arresta, quasi, al concepimento di lui, che intuizione! E così via di seguito. Queste, si capi-
sce, erano le opinioni di una ristretta cerchia di persone; il grosso del pubblico continuava ad avere l'opinione del 1910.
Freud sostiene che ogni bambino dalla nascita all’età di sei o sette anni ripercorre tutto il cammino della civiltà umana, dalle caverne preistoriche allo splendore dell’età di Pericle. Così, in miniatura di fronte ai grandi movimenti letterari, anch'io ho percorso queste varie fasi. Il secondo libro inglese che abbia letto è stato A Sentimental Journey; quale fosse il criterio pedagogico che incitò a questo la mia governante non so dire. Ma il libro, per la sua aria svagata, per la sua (apparente) bonomia, per il suo innegabile buon umore mi piacque. Più tardi lo rilessi e mi piacque ancora di più: il velo della bonomia cominciava a sollevarsi. Il Tristazz Sharndy l'ho letto più tardi: e poiché avevo letto prima il Didizzo Chierico, l'originale mi sembrò un capolavoro di leggerezza a paragone di esso. Ma l’entusiasmo si era affievolito: siamo sempre figli del nostro Zeitgeist. Dopo la guerra (la prima, si capisce) li rilessi ancora: delusione completa: leggevo di già Proust e Gide, e Sterne doveva sembrarmi acquetta rosata. Ho riletto i due libri adesso e mi sono accorto che avevo torto: Sterne è molto più sottile e penetrante che non possa pensare il lettore disattento. La sua svagatezza è tutta apparente, come la sua bonomia. Egli mi appare adesso come uno dei più dissimulati rappresentanti della «cattiveria» settecentesca. Poco si sa della sua vita. E quel poco che se ne cono-
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| sce non gli fa onore. Fu tutta la vita pastore anglicano; | viaggiò, scrisse e morì nel 1768. Scrisse innumerevoli sermoni (che non ho letto) e due soli libri: il Sentimental Journey e Tristam Shandy. Gradevoli sono senza dubbio e anche solidi, se per solidità si assume, come si fa adesso, la mancanza di piano costruttivo. Le divagazioni moralistiche sono numerose ma, condite da sale attico come sono, possono anche di-
vertire. Ma se si riconnettono episodi della sua vita con episodi dei suoi libri, si ha qualche volta la sensazione, leggendolo, di aver fra le mani un nodo di vipere. Ma forse esagero. In ogni caso bisogna leggerlo. Il pathos di Dickens, che è talvolta insopportabile, è sincero. La sentimentalità di Sterne fa impallidire perché si sente che è falsa. Che cosa si nasconde dietro quel viso lungo e arguto, dietro quelle impeccabili buone maniere, dietro a quel cuoricino così pronto a commuoversi? Forse il «divino» Marchese? Ma gli scrittori inglesi (e Sterne in grado massimo) hanno sempre una valvola di sicurezza: l’humour. È una salsa così saporosa che fa inghiottire tutto, magari anche quel tal groviglio di vipere. Vi sono anche parecchie lettere di Sterne: che strane lettere! Lisce lisce, ironiche, compite con soltanto di ra-
do una zaffata di pessimo odore. E subito dopo ritornano le belle maniere, le galanterie, gli scherzi urbanissimi. «A parson and a gentleman», come egli stesso diceva.
OLIVER GOLDSMITH
Con Goldsmith, quinto e ultimo dei maggiori romanzieri del nostro periodo, ci troviamo davvero davanti a un cuor d’oro. E possiamo riposarci dai dubbi e dai sospetti che ci hanno ingombrato la mente a proposito di Sterne. Abbiamo di già parlato di lui quale commediografo; riparleremo di lui come poeta. Qui non ci occuperemo che della sua vita, oltremodo simpatica, e del suo unico romanzo, anche lui simpati-
cone. Nacque non si sa bene dove, né precisamente quando, ma in Irlanda e verso il 1728. Entrò al Trinity College a Dublino ma gli venne rifiutato, alla fine degli studi, l’in-
gresso nella Chiesa. Studiò durante un anno medicina, poi intraprese un giro per tutta l'Europa, senza un soldo in tasca. Cosa facesse non si sa perché non lasciò nulla di scritto sul viaggio. Si è scoperto di recente che fu in prigione per tre giorni a Mantova per non aver pagato il con-
to in un albergo. Ma al suo ritorno in patria asseriva di aver conquistato un dottorato in medicina, non si sa dove. «Ma non ho mai avuto dei pazienti, il che è tanto me-
glio perché non avrebbero potuto sopravvivere.» Si die. de a far traduzioni e a scrivere nelle gazzette letterarie. S: rese noto a poco a poco con le sue poesie. Nel 1766 pub. blicò il suo Vicar of Wakefield, il cui successo fu medio: cre sul momento, ma diventò poi internazionale e conti. nua sempre. Se vi è un libro che ha il diritto di essere chiamate «buono» è questo. Buono senza smancerie, buono senz:
debolezza. Sotto la storia semplicissima dei guai di ur
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pastore rovinato, si sviluppa lentamente una grande tragedia che la forza d’animo e la mansuetudine permettono di superare. Tutto vi è originale, tutto vi è veramente Goldsmith: la sincerità di Goldsmith, la filosofia di Goldsmith, il cuore, la grazia, l’umanità di Goldsmith.
La parola «idillio» ci dispiace adesso perché vi si riconnette una idea di affettazione e di smanceria. Mettiamo al bando queste idee, e chiamiamo The Vicar of Wakefield un idillio perfetto. Non vorrei sembrare retorico e finire con un «leggetelo» a grossi caratteri. Mi accontento di averlo scritto in
minuscole. Poco dopo, fece rappresentare She Stoops to Conquer. E a quarantotto anni morì proprio mentre la sua arte si
affinava sempre. Un gran peccato.
ROMANZIERI MINORI
Ce ne sono molti di romanzieri in questo tempo; la vena scoperta da Richardson era ricca e fu molto sfruttata. Mi trovo un po’ a disagio perché di questi molti romanzieri, che sono alcuni di valore, altri interessanti per
l’adito che hanno dato a successivi sviluppi, io ne conosco personalmente soltanto due. Mi sarebbe facile prendere una storia della letteratura ed elencare i nomi di una ventina di essi. Ma allora non si tratterebbe più di ricordi di letture. Quindi dovete contentarvi di due. Il primo, anzi la prima, è Francis Burney, che, nata nel 1753 e morta a ottantasette anni nel 1840, effettua un col-
legamento fra Swift e Dickens vedendo nascere, fiorire e morire Blake, Wordsworth, Byron, Shelley e Keats. Oc-
corre dire che non vale nessuno di questi? Il fatto che è sopravvissuta a loro lo testimonia a sufficienza. Di lei sono rimaste vive due opere, una che conosco e l’altra che ignoro. Evelina è un graziosissimo romanzo, pieno di movimento e di buon umore, e alcuni personaggi grotteschi visti con affetto ci danno un presentimento di Dickens. Evelina fu la sua prima opera. Le altre valgono assai meno. Pare che l’ultima, The Wanderer, sia di una
noia tale che le mosche che vi si posano sopra cadono stecchite, almeno così dice Macaulay. L’altra opera di valore della Burney è il suo Dyarz0, che scrisse mentre era al servizio della Regina Carlotta. Sembra che sia di una vivacità e di una varietà di toni notevolissima. Almeno così dice l’acutissimo Macaulay. Ma io non l’ho mai potuto capitare.
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Ma oltre che per la sua Evelina la Burney merita di essere ricordata come la più antica delle romanziere inglesi donne e perché iniziò così una tradizione che dura ancora e che, con i nomi di Jane Austen, le sorelle Bronté,
la Gaskell, George Eliot, Virginia Woolf e la Bowen ha dato alla letteratura inglese due dei suoi nomi di assoluto primo piano e parecchi altri notevolissimi. Un iniziatore anche lui fu Horace Walpole, il cui romanzo The Castle of Otranto non vale una cicca. Ma
aprì parecchie vie: quella del romanzo storico, che doveva portare a Scott e a Herry Esmond di Thackeray; quella del romanzo del soprannaturale, che sbocciò poi in Poe; quella del romanzo di terrore, che con la Godwin prima e con alcune opere di Henry James doveva segnare una caratteristica degli inglesi. Come vi ho detto vi sono altri autori; e pare che Mackenzie e Henry Brooke meriterebbero di esser conosciuti.
Jo non li ho nella mia collezione e non so che farci.
SAMUEL JOHNSON
Ho dato alla presente parte di queste letture il nome di «età di Johnson». E questo nome non l'ho inventato io ma è quello che vien comunemente dato a questo periodo. Adesso bisogna che vi spieghi perché Johnson merita quest’onore. E questo non è facile da spiegare. Come molte cose dell’Inghilterra, il paese che meno è regolato dalla logica, bisogna intuirlo. Ogni inglese colto lo ha intuito, per così dire, dalla nascita; io ci sono riuscito dopo molta fatica. Sarà bello se riuscirò a forza di spiegazioni a renderlo chiaro a voi. Comincio col dire che la denominazione è esatta anzi è doppiamente esatta, e forse tri-
plamente. Una ragione è intrinseca a Johnson stesso; le altre due sono estrinseche e le esporremo dopo. Aggiungerò che capire le ragioni della grande fama di Johnson è importante perché Johnson è l'Inghilterra e comprendere lui è come prendere una scorciatoia per conoscere la sua patria (o forse la sua figlia). Johnson era un uomo della più alta cultura, di una di
quelle culture che in qualsiasi altro paese impongono l'adesione a una filosofia. La filosofia di Johnson non esiste. Era un puro empirico. Primo punto. La cultura di Johnson era esclusivamente di provenienza o classica o inglese. Gli altri paesi per lui non esistevano. E ciò non per spirito nazionalistico (è stato lui a
postulare che «il patriottismo spesso è l’ultimo asilo dei mascalzoni») ma per assoluta e innata impossibilità di conoscere qualsiasi altra forma che non la forma inglese. Secondo punto. Egli non apparteneva a nessuna confessione. Non
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aveva messo piede in nessuna chiesa «since my mother dragged me there by an ear». Ogni sera, prima di andare a dormire, e ogni mattina s’inginocchiava in camicia dinanzi al letto e diceva le preghiere. E soleva giustificare le sue azioni riferendosi al tale o tal altro passo della Bibbia. Johnson era un uomo religioso. Terzo punto. Era pieno zeppo di humour. Di un humour collerico, intransigente, talvolta volgare, alla Swift. Quarto punto. Johnson era nato a Lichfield, torva cittadina industriale dei Midlands, e visse per cinquant’anni in Cheapside, nel centro del cuore della City che è a sua volta il nocciolo della (già allora) immensa Londra. Ma ogni domenica si recava in campagna, faceva colazione sull’erba e ritornava a casa con un mazzo di fiori di campo. Ogni inglese è, come lui, un campagnolo in esilio anche se vive al centro di chilometri quadrati di fabbricati. Quinto punto. Mentre era impegnato con un editore per la pubblicazione delle sue Lives of the English Poets non volle riconsegnare le bozze di stampa (e si contentò di pagare una forte penale) prima di aver ricevuto dalla provincia alcune notizie insignificanti circa la vita di un oscuro poeta. Un'altra volta si alzò nel cuore della notte per andare in tipografia e correggere la punteggiatura di un articolo. Scrupolo non di giustizia ma di un uomo che tiene a far bene il proprio mestiere. Sesto punto. Johnson faceva ogni mattina, alle cinque, un bagno freddo. E cambiava di camicia ogni giorno (di lui si sa tutto e dirò poi perché). Ma le sue scarpe erano lucidate di rado e aveva spesso le unghie nere. Il fondo contava più dell'apparenza. Settimo punto. Una sera fu assalito da ladri che lo derubarono e lo bastonarono al punto di fargli perdere tre denti e di rompergli due costole. Agli amici che vennero a visitarlo disse che si sorprendeva di tante premure perché infine non si era trattato che di uno scambio di opinioni un po’
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vivace. (Uno di noi avrebbe detto «M’ammazzaru».) Un'altra volta fu ricevuto dal Re che in riconoscimento dei suoi meriti gli diede una tabacchiera tempestata di brillanti. Al caffè l’indomani disse che il Re era stato tanto gentile: «mi ha dato modo di fiutare il tabacco». Understatement. Ottavo punto. è Potrei continuare. Ma sarebbe inutile. E dalla fusione, dalla mutua esaltazione di queste e di molte altre caratteristiche inglesi che si è formato il carattere di Johnson: un esempio, dieci esempi, cento esempi non basterebbero se non si pensasse al fatto straordinario che è stato l’incontro, la fusione di queste tipizzazioni nazionali in un uomo, per altri versi, tanto notevole.
Dante, per dirne uno, è stato un buon esemplare d’italiano: egli possedeva molte caratteristiche di tutti noi: il culto della forma, l’espressione icastica, la faziosità, la povertà, il «fuoriuscitismo». Immaginate adesso che sa-
pessimo in modo irrefragabile che egli fosse anche chiacchierone, donnaiolo e doppio-giochista: egli non sarebbe più il signor Dante Alighieri, sarebbe l’Italia. Così il nostro letterato ha cessato di essere il signor Samuel Johnson per diventare il signor John Bull. Molti prima di lui avevano posseduto due o tre o dieci di queste peculiarità inglesi: nessuno né prima né dopo le ha possedute tutte. O, perlomeno, nessuno lo ha saputo. E qui arriviamo alla ragione estrinseca della fama di Johnson. Viveva allora in Inghilterra James Boswell, uno strano tipo di scozzese, per metà uomo di lettere, per metà facente parte di quello straordinario reggimento di avventurieri che invase l'Europa sul finire del Settecento (e l’Italia vi contribuì largamente con i suoi Gorani, i suoi
Casanova e i suoi Cagliostro). Questo bel tomo si prese per Johnson di un affetto, di una devozione senza limiti. Lo vedeva ogni giorno della sua vita e per molte ore;
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quando lo lasciava scriveva minutamente tutto ciò che Johnson aveva detto e fatto. E dopo la morte di lui pubblicò la sua biografia, enorme opera metà piramide metà conti di lavandaia, che costituisce nel suo insieme la mi-
gliore biografia che sia stata scritta. Ho avuto ragione di dire piramide perché in essa Johnson è custodito come uno di quei cadaveri egiziani cui si volevano dare tutti gli attributi della vita. Più fine di Eckermann, Boswell stesso si tiene in disparte: e abbiamo il piacere di sentire la voce di Johnson quasi in una registrazione fonografica, di conoscere i suoi sarcasmi, di apprezzare la sicurezza dei suoi giudizi. E attorno a lui la folla pittoresca dei letterati del tempo sono, altezzosi gli uni, famelici gli altri, tutti sottomessi al cipiglio del Maestro. Questo per la parte piramide. Per la parte lavandaia, ci è dato conoscere le abitudini personali, le manie, i gusti gastronomici, il modo di vestire del biografato, con una tale folla di particolari che l'illusione della vita diviene prepotente. The Life of Dr Johnson è uno dei libri-chiave della letteratura inglese. Johnson ha avuto la sorte straordinaria non soltanto di incarnare il suo paese ma anche quella di essere il «meno... morto» degli uomini. A ciò si aggiunga la seconda ragione estrinseca: l’ammirevole ritratto fattogli da Reynolds che ce lo rende palpitante e vivo nella sua bruttezza, nei suoi bitorzoli, negli occhi seri da cane intelligente. Recentemente sono stati scoperti e pubblicati i diari di Boswell scritti prima che egli conoscesse Johnson: sono anche essi di una sincerità assoluta e ci danno in un paio di volumi un quadro dell’epoca quale altrimenti si otterrebbe solo dalla consultazione di centinaia di documenti. Si diceva, prima, che Boswell senza Johnson sarebbe stato niente. Forse, allora, era vero. Ad ogni modo John-
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son senza Boswell sarebbe stato assai meno di quello che è. Le opere diJohnson Ma, direte voi, che cosa ha scritto questo benedetto uomo per meritarsi una tale autorità da vivo, una tale so-
pravvivenza dopo che era morto? Noi non lo avevamo mai sentito nominare.
Ha scritto moltissimo. Poco di valore. Parecchio di utile. Ha soprattutto però esercitato la critica che in quei tempi era la più immediata ed efficace: la critica parlata. Socrate non ha scritto addirittura nulla. Però parlava, insegnava, influiva su una cerchia ristretta ma che conteneva l’avvenire. Le sue opere principali sono A Dictionary of the English Language (1755) e le Lives of the English Poets. Il Dictionary, che costituisce, con quasi cento anni di anticipo, l'equivalente del nostro Tommaseo e del Littré
francese, è il primo che abbia introdotto la citazione di brani di grandi autori per chiarire il senso dei vocaboli. Egli ci si mostra non soltanto quale filologo di grande valore ma quale esperto scrittore, avvezzo a cogliere le ombre di differenze nel senso delle parole. Naturalmente l'inglese ha compiuto da allora grandi variazioni, ma per le parole anteriori o contemporanee a Johnson il suo valore rimane intero. Le Lives of the English Poets sono un’opera monumentale in dieci volumi nella quale ad ogni raccolta di poesie di ogni singolo autore è premessa una vita appositamente scritta. La ho scovata in una libreria antiquaria di Torino, comprata a caro prezzo e totalmente perduta nei bombardamenti. L’onestà di Johnson traspare ad ogni pagina; i suoi giudizi sono sempre giusti, tranne nel caso di Milton che detestava per ragioni politiche.
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Vi è un poetucolo, Edmund Allen, del quale nella
biografia confessa che c’è ben poco da ricordare. «Ma poiché non voglio che la sua ombra si allontani senza che un po’ di fama le illumini l’oscura strada, voglio riportare questo sonetto, omaggio alla sua anima solitaria.»
Oltre a queste due colossali opere Johnson scrisse una relazione di un viaggio in Scozia, innumerevoli bellissimi saggi e una specie di romanzetto filosofico che ha per scena l’Abissinia (verso la quale ebbe sempre una strana considerazione), Rasselas, che è delizioso e che
posseggo ancora. Scrisse anche dei versi, alla Boileau. Un poema satirico, London, e un altro moralizzante, man Wishes, che non sono poi tanto opere di critica fra le quali notevole vecchio dramma inglese e di attacco
The Vanity of Humale. E moltissime quella in difesa del alle unità aristoteliche, che è stato plagiato dai romantici francesi (eufemi-
smo per non dire Victor Hugo) quando, sessanta anni
dopo, vollero creare il nuovo teatro.
LA POESIA
Sicuro, ci sono anche i poeti. Quasi lo dimenticavo. Bisognerà parlarne perché due lo meritano, e gli altri lo meritano anche loro, non per se stessi, ma in omaggio
agli Shakespeare, Milton e Crashaw che li hanno preceduti, e ai Blake, Wordsworth e Byron che li seguiranno da vicino. Una certa solidarietà c'è anche in letteratura,
e i piccini è giusto che ricevano un po’ di luce dai grandi che ne hanno a sazietà.
Thomas Gray (1716-1771), per altro, può brillare di luce propria. Egli è uno di quei poeti raffinatissimi e sensibili che hanno scritto poco e pubblicato ancor meno, ma le cui opere restano per il diletto dei pochi buongustai. Una specie di Mallarmé, niente affatto per il genere della sua poesia, ma per la scarsezza della produzione e la vita appartata. Nato a Londra da un padre dispotico e assai ricco,
egli compì i soliti studi nei quali eccellette e viaggiò poi a lungo nel Continente in compagnia di Horace Walpole, figlio del Prime Minister, autore del Castle of Otran-
to. Poco dopo il suo ritorno il padre morì e lui si trovò del tutto rovinato. Si ritirò a Cambridge, sua città uni-
versitaria, dove visse poveramente dando lezioni e componendo a lunghi intervalli i suoi poemi. Molti poeti sopravvivono perché da una informe massa di loro prodotti si possono estrarre alcune gemme. Gray ci ha dato poche gemme, senza alcuna scoria. La sua Elegy in a Country Churchyard, le sue odi pindariche, alcuni altri brevi poemi sono perfetti. Il senso
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della natura tutto moderno si unisce in lui a una purità di espressione che aveva raggiunto attraverso un lungo studio dei classici. Modesto, ispirato e sapientissimo verseggiatore, egli resta una delle più nobili figure di poeta che si conoscano.
Il secondo poeta di valore è il nostro caro Oliver Goldsmith che troviamo ovunque sempre in prima fila e sempre prodigo della sua attirante personalità. Di lui basterà ricordare due poemetti, The Deserted Village e The Haunch of Venison, che, in generi completamente opposti, ci mostrano quanto reale talento fosse contenuto in quell’ottimo uomo. The Deserted Village è, secondo la moda dei suoi tempi, una elegia su un villaggio che i suoi abitanti hanno abbandonato attirati da un maggiore lucro nelle fabbriche cittadine. Il soggetto può
sembrare scipito ma alla lettura si vede quanto Goldsmith lo avesse intimamente sentito e come egli abbia saputo ricavare poetici effetti di chiaroscuro contenuti in versi affettuosi di grande bellezza. A parte il suo valore artistico, questo poemetto (che è del 1770) ci fa vedere quanto già allora fosse progredita l’industrializzazione inglese che doveva poi, per singolare contraccolpo, contribuire tanto alla singolare bellezza del paesaggio. The Haunch of Venison è anch'essa elaborata su di un soggetto molto tenue: il ringraziamento per un regalo di selvaggina ricevuto dal poeta. Vivacissimo «scherzo» sul quale versi ben foggiati e pieni di colore evocano la selva e la caccia, la cucina, la tavola e la cantina. Ancora una
prova di quella concretezza d'ispirazione che è bella caratteristica della poesia inglese (financo nel Settecento!) e che è così rara in qualche altra letteratura. Di Edward Young, poeta minore, molto minore, oc-
corre però parlare perché la sua, immeritata, celebrità fu di portata europea e conta la sua influenza su tutti i poe-
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ti neo-classici e romantici. Pigault-Lebrun, Kotzebue, il
nostro Pindemonte e il nostro Monti sarebbero stati diversi se Young non avesse perpetrato le sue Nozz7, illeggibili adesso. Financo Foscolo lo ammirò e se ne ispirò e qualche cosetta di lui può rintracciarsi fino a De Musset. Gli altri poeti dell’epoca mi sono noti soltanto attraverso antologie. Apritene una e ne saprete quanto me.
GIBBON
Conosco la vostra avversione per la storia e apprezzo l’orgoglio che ve la ispira, orgoglio di una generazione che si crede «Dieu de lui-méme, unique et sans aieul» e teme di dover constatare attraverso la storia a qual punto sia invece condizionata, pre-fabbricata, a tema obbligato, rinchiusa come tutti nel determinismo sociale, eco-
nomico e classista. Però l’assunto stesso accettato come base di queste letture, quello cioè di indicarvi alcune figure di artisti, vi
costringerà ad ascoltare brevi parole su Edward Gibbon (1737-1794) che artista e artista grande fu benché anche erudito e storico sommo. Questo uomo ricco, che passò attraverso la confessione cattolica, anglicana e calvinista,
finì col diventare un materialista convinto e uno dei campioni dell’Illuminismo inglese. Visse quasi sempre in Svizzera, ma durante le guerre della Rivoluzione francese ritornò in patria e diventò colonnello, il che doveva essere uno spettacolo notevole. Scrisse un solo libro, ma oceanico: The Decline and
Fall of the Roman Empire, che è uno dei più grandi monumenti della prosa inglese. Pervaso da un rispettoso ma implacabile spirito anticristiano, egli descrive con
commossa partecipazione quel tragico crollo di una civiltà in una prosa che ha il movimento e il colore di una ballata scozzese. Benché costruito sulle più solide (per il tempo) basi scientifiche, l’opera è naturalmente invecchiata nella documentazione, ma le sue conclusioni ri-
mangono intatte e ad esse ha dato omaggio Rostovtzeff, di recente, dicendo che «la storia di Gibbon rimane un
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modello di metodo storico e di fortunata felicità nel risultato delle indagini». Ma per ciò che ci interessa rimane anche intatto, e lo rimarrà sempre, il magnifico e solenne sweep, il ritmo di quella prosa magistrale.
Appendice
L’OSSIANESIMO E MACPHERSON
Pongo in appendice queste brevi notizie sull’Ossianesimo perché esse sono interamente estratte da una storia letteraria e non risultano da mie conoscenze dirette su questo singolare movimento letterario. Poiché è inteso che qui si raccolgono soltanto ricordi di letture avrei potuto esimermi dal parlarvene, ma poiché d’altra parte si è venuto formando un corpus relativamente completo di letture su una parte della letteratura inglese, mi sembra peccato che, per eccessivo scrupolo, venga a mancare un accenno a questo movimento che, se fu nullo in se stesso in quanto a valore estetico e frutto di un’abile impostura, non mancò tuttavia di influire, brevemente ma intensamente, non soltanto sulla letteratura inglese ma su tutta quella europea.
James Macpherson (1736-1796) era uno scozzese che aveva compiuto buoni studi e che era molto ambizioso. Faceva parte di un circolo di amici che s’interessava di ciò che ancora sopravviveva, in Irlanda e in Scozia, dell’anti-
ca letteratura celtica in lingua gaelica sia fra il popolo sia in vecchi manoscritti. Ciò che sopravviveva era poco: alcuni nomi di eroi leggendari (Cuchulain, Fingal) e uno schematizzato racconto delle loro gesta. Su questo fondo autentico Macpherson compose due lunghi poemi, il Fixgaleil Temzora, scritti in uno stile ampolloso e pieno di reminiscenze bibliche, che egli dette come tradotti dal gaelico e dei quali promise di pubblicare il testo. Il che, naturalmente, non avvenne mai. Egli fu bensì attaccato e smascherato da dotti irlandesi e da scettici inglesi, primo fra questi il Dr Johnson, ma le proteste non ebbero effetto che in una ristretta cerchia, e il grosso pubblico, felice di
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aver trovato una nuova mitologia di origini tanto vicine, impazzì. Fingal fu posto accanto a Omero, le traduzioni francesi, italiane, tedesche e financo russe fioccarono.
Goethe ne fu esaltato e Napoleone volle dipinto un quadro da Girardet nel quale si vedevano i suoi soldati accolti da Fingal nel cielo degli eroi. Poi nel 1820 circa tutto ciò passò di colpo: o che la notizia della mistificazione fosse penetrata o che quei nuovi Dei finissero col mostrare la cartapesta della quale erano fabbricati. Il fatto è che Macpherson aveva trovato il momento buono per creare i suoi eroi: in Inghilterra s'iniziava la reazione al classicismo e l’albero romantico mostrava le prime foglie: occorreva una mitologia di transizione che liberasse gli spiriti da quella ellenica. Nel 1820 il romanticismo era già abbastanza solido per fare a meno di qualsiasi mitologia. I temi di Cuchulain e di Fingal furono ripresi più di un secolo dopo dal movimento del «Celtic Twilight», ma come canovaccio sul quale ricamare poemi originali. Yeats è il più grande rappresentante di questa corrente. Fra gli impostori letterari merita un posto a parte Thomas Chatterton (1752-1770). Questo infelice giovane che la miseria spinse al suicidio a diciott’anni ha un duplice aspetto: quello di poeta originale che scrisse versi non illustri ma sentiti e quello di impostore (d’altronde innocuo) che asserì d’aver scoperto le opere di Rowley, poeta che sarebbe vissuto prima di Chaucer; pubblicò queste poesie che sono notevoli per la conoscenza della vecchia lingua e dei vecchi metri. A differenza di Macpherson, Chatterton era un vero poeta che si sarebbe fatto una fama da sé e avrebbe dimenticato le sue giovanili astuzie. La sua fama sopravvive soltanto perché Vigny lo scelse quale simbolo della poesia perseguitata nel suo famoso dramma romantico che si chiama appunto Chatterton.
Parte terza
I GRANDI IRREQUIETI (1 marzo — 5 giugno 1954)
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Grande è stata la tentazione di intitolare questa parte «L'età vittoriana», come infatti essa si intitola nella maggior parte dei testi. Ma ciò con la riflessione mi è sembrato poco esatto, anzitutto per esteriori ragioni crono-
logiche: i grandi artisti di questo periodo (e furono molti e molto grandi) sono tutti scomparsi prima che Vittoria, giovinetta, salisse al trono. Ma in particolare perché gli artisti di questo periodo mi sembrano agli antipodi dei grandi scrittori vittoriani che, tutti, furono immersi in
un conformismo morale e politico, in una obbedienza alla prassi la quale, essendo liberale e larga, non compromise il loro slancio creatore ma conferì certamente ad esso un senso di liscio, di ben tornito, una certa s724gness visibile a distanza. Invece i grandi poeti, i grandi prosatori dell’epoca che stiamo per abbordare, dal 1780, circa, al 1830, tutto sono meno che conformisti; vi è in essi un fermento, un senso di irrequietezza, certe
manifestazioni di insofferenza morale e politica unita a tenaci e vittoriosi tentativi di rinnovamento artistico che non ritroveremo più per altri sessant’anni.
Questa epoca così feconda mi sembra sarà ben caratterizzata dal nome di «grandi irrequieti». Parlando di irrequieti il pensiero si rivolge dapprima a Byron e Shelley, la cui breve vita fu un avvicendarsi di tempeste tali che la loro biografia sarebbe di sommo interesse anche se fossero stati semplici bottegai invece dei grandissimi poeti che furono. Ma anche negli altri scrittori la cui vita
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offre minori scandali pubblici si nota una agitazione interiore, un bisogno di bruciare il vecchio per sostituirlo con una personale originalità. Non vi sono adulteri, incesti, figli naturali, clamorose fughe nella vita di Blake, Scott, Keats, Coleridge e De Quincey; ma un rovello interiore, un senso di inappagamento che non solo si tra-
duce nella loro arte ma che per molti, per troppi, di essi si traduce in un abbandono alle oscure attrazioni degli stupefacenti. Generazione sommamente dotata, generazione sommamente punita.
A che cosa fu dovuto questo senso di irrequietezza? Sarebbe facile rispondere: alla Rivoluzione francese, che si svolse appunto durante la vita di questi artisti. No e sì. No. La Rivoluzione francese non intaccò minimamente il fondo della nazione inglese. I principali postulati di essa erano di già stati raggiunti in Inghilterra, quelli che ancora mancavano erano così chiaramente in via di realizzazione da non giustificare nessuna azione violenta, e men che mai da parte di un popolo tanto nemico della violenza politica. La Rivoluzione francese impegnò l’Inghilterra in una guerra durata venti anni, condotta con consumata perizia politica e somma imperizia militare. Dopo anni di brancolamenti nel buio strategico, si finirono col trovare i capi adatti e in due o tre anni la vittoria fu raggiunta. Ma all’interno la situazione fu perfettamente calma. Si agitavano sì grandi problemi, quello dell’abolizione della schiavitù nelle colonie, quello della riforma elettorale, quello del rigetto dei dazi protettori sul grano: l’enumerazione stessa delle questioni in corso ne fa comprendere il carattere legalitario. Dopo Waterloo si aprì un periodo di agitazioni (agitazioni all’inglese, con un totale di due morti e di una cinquantina di feriti in diciotto anni) dovute al fatto che ai problemi suindicati si aggiunse quello della emancipazione civile dei cattolici che veramente agitava le masse: ma nel 1852 tutto era
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stato risolto nel senso più liberale con qualche votazione al Parlamento e una serie di negoziati fra i partiti, e l’Inghilterra entrò nei suoi sessanta anni di pace vittoriana. La verità è che a creare nei circoli intellettuali l’innegabile esistenza di uno stato di irrequietezza furono due correnti di idee. La prima e meno importante delle due fu la dottrina babuvista, che, introdotta in Inghilterra
con le dovute attenuazioni, agitò un ristretto gruppo di intellettuali, fra i quali la famiglia Godwin che si riallacciava tanto a Byron come a Shelley per mezzo di complicati amori dell’uno e dell’altro. La seconda, e maggiore, fu il Romanticismo, che, coerentemente, non prese in Inghilterra le forme violente che assunse prima in Germania e dopo in Francia, ma circolò nelle menti inglesi con l'andatura lenta e dimessa delle malattie croniche, eccitando capolavori e rovinando vite, proprio al contrario che in Germania e in Francia dove i due grandi romantici, Goethe e Hugo, fecero
chiassate in gioventù e finirono a ottant'anni la loro vita nello stato sereno di semidei. Date queste premesse mi consentirete che vi parli
brevemente, prima che dei grandi poeti, dei grandi pensatori politici che condizionarono e la vita e le opere degli artisti.
I PADRI DELL’IRREQUIETEZZA
Primo posto fra questi agitatori della coscienza pubblica merita Edmund Burke (1729-1797) non soltanto per la posizione politica assunta (che a noi, adesso, sembra ori-
ginale ma allora era comunissima), ma per le sue eminenti qualificazioni letterarie. Irlandese, ma non cattolico, egli entrò nel Parlamento dove la sua potente oratoria lo pose in primo piano. Divenne anche segretario di stato ma la sua costante combattività per le cause
più nobili (e quindi più sgradite) gli impedì di salire ai culmini della gerarchia politica. Fu, negli anni del separatismo degli stati americani, un eloquente difensore della moderazione verso gli insorti e dei tentativi per tenere unite le Colonie del NordAmerica alla madrepatria mediante le concessioni e la benevolenza. S’impegnò in numerosi dibattiti circa la miseria in Irlanda e i mezzi per porvi riparo; ma la sua vera origina-
lità di pensiero si manifesta nella serie di discorsi (molti dei quali scritti soltanto e non pronunziati) sugli avvenimenti della Rivoluzione francese. Avversario accanito ma non cieco della Rivoluzione, egli espose in una prosa di altissimo stile tutto quanto era possibile argomentare contro di essa, che non era poco, dal punto di vista inglese. E i tre quarti degli argomenti contro-rivoluzionari che ritroveremo sotto la penna di Monaldo Leopardi, di Solaro della Margarita, del principe di Canosa e anche di Charles Maurras erano già stati usati, con splendore di forma, da Burke. Questi argomenti, validi dal punto di vista umanitario, ci sembrano adesso fiacchi se consi-
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derati politicamente: tutti, meno uno. Quello che Burke rivolge contro il dottrinarismo introdotto nella politica, contro le costituzioni elaborate su sistemi filosofici, a favore della lenta e naturale evoluzione dei fatti sociali e politici, della quale l'Inghilterra di allora e di oggi è così splendido esempio. Dalla sponda opposta, quella dei dottrinari di sinistra, gli risponde e gli fa da contrappeso la patetica famiglia dei Godwin. Il marito, William Godwin (17561836), è una figura commovente di fanatico sincero ma poco intelligente. Dopo parecchi libelli oscuri, pubblicò nel 1793 un opuscolo incendiario, Political Justice, la cui influenza su Byron e Shelley fu enorme. Esso sosteneva le tesi più ardite dei rivoluzionari francesi e considerava come irraggiungibile la giustizia politica priva dell’eguaglianza economica. Scrisse anche dei romanzi politici a tesi (Caleb Williams e St Leon) che valgono quanto possono valere dei romanzi a tesi e per di più politici. Uomo di assoluta probità e di sincere convinzioni, egli sposò Mary Wollstonecraft, più nota come Mary Godwin, che valeva, intellettualmente, assai più
di lui. Nel 1792 essa pubblicò la sua Vindication of the Rights of Woman, prima opera femminista che rivendicava l'assoluta parità fra uomini e donne. La povera Mary Wollstonecraft aveva tentato di mettere in opera le sue teorie: aveva contratto un «non-matrimonio», come essa diceva, con un americano, Imlay;
nacque una figlia, Mary, della quale dovremo riparlare a lungo. Ma la povera e generosa madre morì nel parto, non senza aver scritto un altro libro, Thoughts on the
Education of Daughters, nel quale invocava la creazione “ La figlia che Mary Wollstonecraft ebbe da Imlay si chiamava in realtà Fanny. La scrittrice morì nel dare alla luce la figlia di Godwin, Mary (la futura moglie di Shelley).
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di collegi misti di ragazzi e ragazze con incoraggiamento a tutte le possibili conseguenze. Di essa il marito Godwin ci ha lasciato un commovente ritratto che la mostra in tutta la sua bontà e in tutta la sua stravaganza e che costituisce la sola parte sopravvissuta del St Leor. Delle avventure delle figlie e figliastre di questa notevole coppia non avremo che troppo da parlare in seguito.
Di tre altri agitatori dovremo ancora parlare prima di poter riposarci nella compagnia dei tre grandi poeti, tutti più o meno ispirati da loro. Thomas Paine (+ 1809), discepolo di Godwin, con-
dusse una polemica altrettanto vigorosa quanto volgare contro le idee di Burke. La sua importanza sul pensiero americano è grande; egli visse a lungo negli Stati Uniti e fu il più attivo propugnatore della totale separazione delle Colonie dal Regno. Le sue opere principali, Comzzzzon Sense, The Rights of Man, The Age of Reason, sono vigorose e la loro conoscenza è indispensabile (per quanto penosa) a chi voglia conoscere le fondamenta della democrazia americana. In esse si trovano idee che si sono realizzate di recente: la riforma parlamentare, il suffragio universale, le pensioni per la vecchiaia e l'imposta progressiva sul reddito. i
Molto più originale e molto più memorabile fu William Cobbett (+ 1835), assolutamente privo della bile che sfigura le opere di Paine; fu un generoso e instancabile combattente contro ogni forma di oppressione e di ingiustizia; fu per parecchie volte imprigionato, una volta per due anni, per aver violentemente protestato contro l’abitudine di infliggere ai militari la pena della frusta, e le sue Rural Rides (1830) descrivono le condizioni
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del contadino inglese con comprensione per tutti i ceti e con grande irruenza di stile. Egli può essere considerato il padre del laburismo inglese. Più utopistico, benché convintissimo di avere i piedi piantati nel più solido terreno, fu Jeremy Bentham (7 1832), il creatore dell’«Utilitarismo». Le sue teorie giuridiche ed economiche possono anche essere accettabili: egli sostiene che tutta l’attività umana è rivolta all’utilità, alla sfruttabilità delle situazioni. Al di fuori di essa nulla più può esistere se non retorica e falsità. Cosicché egli può essere considerato l’antecessore tanto del comunismo che del titanismo industriale. Dove le idee di Bentham diventano assurde è quando egli vuole applicare le sue teorie utilitarie alla religione, all’arte e alla filosofia. Di queste discipline egli era totalmente ignorante e gli strafalcioni, le proposte incongruenti non si possono contare. Sua è l’espressione, che
doveva poi essere così largamente usata presso i rivoluzionari russi, che «un paio di stivali val di più della Madonna Sistina di Raffaello». Del resto polemista rigoroso e, in economia, vera-
mente competente. Questi cenni sono troppo brevi per far comprendere l’importanza, specie attuale, di questi pensatori; ma per il nostro scopo puramente letterario, basterà essere riusciti a dare una vaga delineazione delle teorie alle quali aderirono o che combatterono i giovani scrittori del 1780-1830. Esse hanno in Inghilterra la medesima importanza che il «Saint-Simonisme» ebbe un po’ dopo in Francia; nell’uno e nell’altro caso non vi fu, si può dire,
giovane intellettuale che non abbia partecipato a questo movimento. Era quindi indispensabile ricordarlo.
I POETI
È di nuovo con i poeti che inizieremo le nostre letture su questo periodo della letteratura inglese. L'attività poetica che s’incarnò nel teatro al tempo di Elisabetta, nei grandi lirici religiosi sotto la Restaurazio-
ne, di nuovo nel teatro durante la seconda parte del periodo precedente, nei romanzi di Defoe, Swift, Fielding e Goldsmith nel Settecento, ritorna adesso alla sua forma pura, alla lirica. Blake, Byron, Wordsworth, Shelley, Keats, Landor, Coleridge trovarono nella lirica la loro
forma perfetta, qualunque altra forma di espressione abbiano talvolta tentato, e spesso con risultati magnifici. L’«età della irrequietezza» è una grande età lirica. Grandi lirici troveremo anche fra i Vittoriani veri e propri, però una notevole parte del dinamismo poetico s’indirizzò al romanzo. Ma l'elenco di questi poeti si apre con un nome, minore, che può sembrare un poeta ancora della scuola settecentesca ma nei quale affiorano di già i segni «d’un frisson nouveau».
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WILLIAM COWPER
Cowper (1731-1800) ebbe una vita attraversata da crisi di pazzia (pazzia nella quale doveva definitivamente sprofondare alla fine della vita) ma resa negli intervalli dolce e piacevole dalle molte amicizie femminili che riusciva a suscitare attorno a sé. Di lui ci restano poche opere: delle satire che sono infelici perché il suo temperamento dolce e molle mancava del tutto di quel minimo di fiele che è indispensabile a questa sorta di poesia; il suo capolavoro è The Task, una sorta di epica domestica nella quale ci mostra i salotti e i giardini di quel raffinatissimo Settecento sul tramonto. Opera squisita ma che si potrebbe dire apparentata con quelle di Pope, anch'egli abilissimo descrittore di mondanità eleganti, se non vi trasparisse un vigoroso senso della natura, una intima comunione con tutto il
mondo che lo attorniava che non è già più classico, nel quale si sente l’onnipresente (allora) influenza di JeanJacques, e che ad ogni modo sta agli antipodi dell’asciutto e spiritoso intellettualismo di Pope.
Che egli fosse in netta reazione alla poesia settecentesca è anche dimostrato dalla sua traduzione di Omero, noiosa e vacua, ma appunto perciò in perpetua opposi-
zione alla continuata piacevolezza della traduzione popiana. Due illustri traditori di Omero. Di grande interesse è il suo poema storico The Diverting History of John Gilpin, che è spassosissimo e, sotto la comicità della trama, pieno di quella estrema bontà e tenerezza che sono le più attraenti qualità di Cowper. Poco dopo la redazione di questo poema Mrs Unwin,
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l’ammirevole donna che aveva vissuto per venti anni col poeta, curandolo nelle sue crisi di pazzia e perdonandogli le numerose distrazioni verso le signore, morì. E il povero Cowper naufragò definitivamente in una dolce follia, non senza prima aver pubblicato The Castaway, poema nel quale più nettamente che altrove egli prelude all’arte di Byron (del Byron peggiore ma più caratteristico) con allucinate visioni di tempeste e con personaggi travolti da rimorsi per non si sa precisamente che cosa.
WILLIAM BLAKE
| Con Blake (1757-1827) accediamo finalmente alle più alte sfere della poesia, dalla quale per molte e molte pa| gine non scenderemo più. Blake è un poeta che da una parte si riallaccia direttamente a Milton, per la sua intensa fede religiosa, dall’altra è pienamente «moderno» per la sua forma di espressione e i vigorosi scorci e concentrazioni di immagini delle quali la sua poesia è colma. Orazio, il Dio del Settecento (e anche di Cowper) è dimenticato e non abbiamo altro che immediatezza di espressione, immediata fusione del fantasma poetico con la parola, senza schemi interposti. Ma parlando della religiosità di Blake occorre stare molto in guardia: da giovane egli può essere considerato un neo-puritano e si fonda ancora sulla Bibbia e concede magari qualche omaggio a Cristo. Ma con l'avanzare degli anni la sua eterodossia si accentua e in vecchiaia (il momento delle sue opere maggiori) egli è di già del tutto fuori del Cristianesimo; travolto dalla lettura di Plotino e dei grandi gnostici, ripudia la Bibbia, insulta il crudele Dio di Israele e si crea di sana pianta una nuova mitologia nella quale egli dà corpo alla sua concezione della vita, alla sua credenza nella assoluta identità del mondo
presente con quello passato e futuro. Blake è uno dei grandi veggenti che l’umanità abbia prodotto e se adesso egli sopravvive soltanto come artista ciò non fa onore al senso religioso e morale degli uomini. Ma delle sue idee avremo tempo di parlare dopo. Occorre dire adesso che i mezzi di espressione di
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Blake furono due: la poesia e la pittura. I suoi acquerelli e le sue acqueforti interpretano e spiegano le sue poesie e danno lo stesso senso di incubo non pauroso, di tentativo di esposizione del divino; chi li ha visti esposti nella tranquilla saletta della National Gallery non potrà più dimenticarli. Nacque a Londra, figlio di un fabbricante di calze. La famiglia era swedenborgiana, cioè fedele al grande mistico e esoterista svedese le cui dottrine egli succhiò col latte (letteralmente: la madre teneva strisce di carta con frasi di Swedenborg attorno ai capezzoli mentre il bambino succhiava). Da giovanissimo divenne apprendista di un incisore e fu incaricato di andare a copiare gli ornamenti gotici della Abbazia di Westminster e di altre cattedrali inglesi. E cadde sotto il potente influsso di quell’arte che si sforzava di tradurre nella pietra i più alti sogni degli uomini. L’arte gotica divenne per Blake giovinetto la suprema incarnazione del Vero; in contrapposto l’arte classica venne a rappresentare la Carne, il Male, l’Errore.
Provvisto di grandi idee, il giovane Blake non poteva evidentemente rimanere soddisfatto dell’insegnamento che gli venne impartito dalla Reale Accademia di Pittura. Il presidente era il buon Sir Joshua Reynolds, il più illustre dei pittori inglesi del tempo; egli si azzardò a dare a Blake alcuni consigli (giustissimi) sulla tecnica del disegno. Questo bastò perché Blake precipitasse Sir Joshua nel più profondo del proprio inferno e perché lo raffigurasse, qualche anno dopo, in atto di essere schiacciato da una colonna dorica brulicante di demoni in una acquaforte che l'eccellente Sir Joshua ebbe l’humour di comprare. Egli lasciò l Accademia dopo aver appreso ben poco (e l'inesperienza dei suoi pur magnifici disegni ne è la testimonianza) ma avendo acquistato l’amicizia di quel gruppo di giovani pittori (Fiissli, Flaxman,
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Barry) che dovevano poi essere i rinnovatori della pittura inglese. Nel 1783 venne pubblicato il suo primo volume di versi, Poetical Sketches, che contiene soltanto delle poesie scritte parecchi anni prima, quando Blake aveva dai quattordici ai venti anni. Mi dorrebbe di offuscare chicchessia, ma debbo dire che i Poetica! Sketches mi sem-
brano il più straordinario «primo libro» che sia mai stato stampato, con la sola eccezione delle Juverilia di Rimbaud. Queste liriche non sono soltanto originali nel loro pensiero, ma audaci nella loro forma e perfette nell’esecuzione. Basta pensare alla meraviglia che sono To the Evening Star, How Sweet I Roamed from Field to Field, My Silks and Fine Arrays e a To the Muses, con la sua memorabile ultima strofa, per convincersene.
Nel frattempo Blake aveva preso moglie: fedele alle sue teorie della preferibilità dell'innocenza al sapere aveva sposato una giovanissima operaia, analfabeta. La quale fu del resto una ottima moglie e, comprendendo col cuore che il marito era un genio, rinunziò sempre a conoscere qualsiasi sua opera. Il suo amico Flaxman, il pittore, lo condusse nella buona società dove era ben accolto per la sua modestia dei modi e lo splendore della conversazione. Ma se i salotti lo
amavano lui non amava i salotti e il loro incontro fu breve. A testimonianza di questo strano periodo di mondanità rimane l’opera Ar Island in the Moon — proprio l'effetto che gli faceva Mayfair — nella quale rende con straordinario senso di humour e di comprensione la vanità e la (per lui) stranezza di quel mondo. Di conversazioni così saugrenues e sorprendenti ne ritroveremo solo
nel Crotchet Castle di Peacock e la intenzione mestamente satirica del libro lo fa rassomigliare a Proust. Chissà se Blake, sottrattosi alle sue preoccupazioni esoteriche, non avesse potuto essere un grande romanziere? Non sarebbe però stato una maggior figura di quella che è.
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Nel 1789 appaiono i suoi Sorgs of Innocence, presto se-
guiti da una seconda edizione nella quale ad essi venivano fatti seguire i Songs of Experience. Con questi siamo di fronte alla massima opera poetica di Blake. Sono, i primi, i canti della fanciullezza innocente, non macchiata anco-
ra dalla degustazione del famoso pomo; i secondi, i canti cupi delle stesse persone giunte alla conoscenza del bene e del male. Importante, per penetrare il senso di queste liriche, ermetiche al massimo grado sotto la loro quasi infantile ingenuità di espressione, è considerare il sottotitolo della raccolta che è appunto Showing the Two Contrary States of tbe Human Soul. Tutta la poesia è intraducibile; ma la poesia di Blake lo è in modo assoluto, eda ciò si deve forse la quasi totale ignoranza nella quale giace il mondo non-anglosassone rispetto a un poeta che in patria è, se non popolare, largamente famoso e molti versi del quale hanno avuto la suprema diffamazione (o consacrazione: concetto blakiano) di passare, totalmente
incompresi, nella conversazione spicciola. Blake è in modo particolare intraducibile perché ogni sua parola in seno ad ogni verso, ogni verso in seno alla poesia, ogni poesia nell'insieme della raccolta, è posta in modo da suscitare echi multipli, rifrazioni d'immagini, corrispondenze arcane di senso. Non poesia ermetica nel senso comune, ché ciascuna poesia ha un senso lim-
pidissimo e infatti ogni scolaretto delle scuole elementari inglesi vi potrà ripetere «Tyger! Tyger! burning bright» oppure «And I am black, but Oh! my soul is white». Ma perché ogni poesia è carica di una realtà seconda (e in particolare le due, tremende, delle quali abbiamo citato un verso). È essenzialmente una poesia a
due piani attraverso la quale, in canti limpidissimi, si esprimono le più alte e conturbanti opinioni morali e religiose. Ma guardiamole un po’ da vicino. I Songs of Innocence si aprono con una introduzione nella quale l’appari-
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zione di un bambino incita il poeta a comporre i suoi ‘versi. Canti dell’innocenza dell’uomo dunque, voluti i dall’innocenza primordiale della natura. Tutta la poesia ié imperniata sulla parola «zufolo» (pipe in inglese) che i ritorna in quasi ogni verso e davvero sfiora chiunque i non abbia le orecchie (e l’anima) sorde a sentire un sen‘so di freschezza e di rinnovo primaverile. E questo è un | senso, compiuto e perfetto. Il secondo senso qui è quan‘to mai chiaro: è la natura innocente che invita l’uomo ad abbandonare scienza ed esperienza per tuffarsi in essa e uscirne guarito. Proprio negli stessi anni un altro grande uomo scriveva quasi le stesse cose: «In deinem Tau gesund mich baden». La seconda lirica (The Shepherd) presenta anch'essa l’aspetto di una vignetta pastorale: il ritmo ne è lento e i versi si seguono in una catena di tenerezza senza pari.
Ma chi è questo pastore la cui presenza rassicura il gregge? Lo saprete dopo, per ora vi basti sapere che non è il Buon Pastore cristiano. La terza lirica (una delle più belle) si presenta come una semplice e deliziosa visione di bambini che giocano su un prato; e i loro giochi si prolungano fino a sera, finché l’ombra discende sulla prateria. Gli ultimi due versi sono impressionanti nella loro estrema ed elementare semplicità. Attraverso i giochi la conoscenza comincia a discendere sugli innocenti e vi è il presagio di un guaio. Mai minaccia ancora lontana e vaga è stata espressa con maggiore leggerezza di tocco.
La quarta lirica (The Lamb) è un po’ inferiore ma è ugualmente significativa se si pone in rapporto con la bellissima The Tyger che verrà dopo. È il doppio aspetto della natura che già comincia a tentare il poeta. La quinta, The Little Black Boy, è una delle più lun-
ghe e più commoventi della raccolta. Potrebbe essere scelta quale manifesto anti-razzistico. Parla un fanciullo negro e si rivolge a un bambino inglese e ne implora l’af-
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fetto. Attraverso dei versi di incomparabile mitezza si finisce col conchiudere che un giorno «saremo tutti e due liberati dalle nuvole che ci circondano, tu dalla nuvola bianca, io dalla nera». Sentimentalità? Certamente no. Alto e nobile sentire, e come espresso!
The Blossom: che vien dopo colpisce per il contrasto di tono fra la prima e la seconda strofa. Le due raccolte non sono lunghe ma vi riuscirebbe tedioso se io esaminassi una per una tutte le loro poesie. Mi basti aver detto che quasi ogni poesia dei Sorgs of Innocence trova la sua contropartita, la sua trasposizione su un tono diverso nei Sorgs of Experience e che la loro «realtà seconda» si illumina vicendevolmente. Del resto occorre leggerle tutte perché ciascuna ci dà l’esperienza di una lirica che non ha equivalenti altrove, a quanto io possa sapere. Ma non posso fare a meno di indicare le più notevoli: Holy Thursday, che immette in modo tanto semplice il soprannaturale in una riunione di vecchi e di bimbi nello scenario umile e popolare di una festa a Londra; Night, dove si accenna già il tema blakiano
dell’asservimento della forza dell'innocenza e del rinvigorimento dell’innocenza mediante la forza; Infant Joy; la Introduction ai Songs of Experience di un così alto piglio profetico; Holy Thursday, che replica in tono tragico alla dolce serenità della poesia omonima della quale abbiamo parlato; la Nurse’s Sorg e soprattutto The Sick Rose, uno dei vertici della poesia di Blake e non di Blake, che nei soli otto versi ci dà, sotto immagini splendenti, la sensazione del peccato che incomincia a introdursi in un cuore; The Tyger, che, descrivendo con piglio fiabesco l’apparizione di una tigre in una foresta, si conchiude con un’alta proclamazione di gnosticismo e cioè che il Dio che ha creato il Male non può essere lo stesso che ha creato il mondo. Versi d’insolita energia fra i più belli di Blake e che danno una sensazione del Male come è difficile trovare altrove. My Pretty Rose
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Tree tanto amaro e sconsolato e l’altrettanto disperato
The Garden of Love. Ma mi accorgo che sto per citarli I tutti.
Dopo i Sorgs of Innocence e i Songs of Experience |Blake pubblicò il suo Marriage of Heaven and Hell, bre‘ve opera in prosa che contiene il succo delle sue teorie i mistiche. Tutti questi libri erano illustrati dall’autore : stesso mediante le sue potenti acqueforti e scritte nella | sua strana ortografia. Ma prima di parlare dei libri «profetici» di Blake occorre discorrere un poco della sua Weltanschauung. Il che non è facile. In aggiunta alla influenza di Swedenborg, alla quale ho già accennato, è importante il fatto che Blake, educato di già in una famiglia di esoteristi, non aveva le normali conoscenze religiose di un inglese; la Bibbia era conosciuta da lui imperfettamente, il che è eccezionale in quell’epoca. Inoltre le sue letture, a parte i poeti, erano tutte composte da trattati di Gnosticismo e Druidismo. Ora, il dualismo, l'essenziale separazione fra Bene e Male che fu, con sostanziali modifiche, assorbito da Blake,
è il nocciolo stesso dello Gnosticismo. Il Druidismo fu una strana tendenza religiosa sorta in Inghilterra alla fine del Settecento, che fu favorita dalla voga dell’Ossianesimo. Essa sosteneva che i Druidi, gli antichi sacerdoti britannici pre-romani (quelli della Norma; per parlare un linguaggio a voi caro) erano i depositari della verità religiosa direttamente impartita da Dio attraverso Noè, che dei Druidi sarebbe stato il fondato-
re. Sarebbero stati i Druidi ad insegnarla a Pitagora che, dopo, la rivelò ai Greci. Cosicché la verità autentica, rivelata direttamente da Dio, senza intermediari o Messia,
è nelle mani dei Druidi e quindi degli Inglesi. Questa verità è la seguente: ci sono due Dii. O per esser più precisi: vi è un solo Dio, onnipotente, onnisciente, tutto
bontà. Ma egli, appunto perché tanto incommensurabi-
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le, non poteva creare lui stesso, il che sarebbe stata una
limitazione. Della creazione del mondo incaricò un angelo, il Demiurgo. Questi, che era cattivo, introdusse il Male nella creazione. Egli, insomma, è Satana, Satana
creatore. E sostituitosi al vero Dio nel culto degli uomini, egli è il Geova degli Ebrei. Senonché Dio (il vero) inviò Cristo per lenire le pene degli uomini. Intreccio un po’ complicato e, a me pare però, l’unico
che viene a conciliare l’infinita bontà di Dio con l’innegabile esistenza del Male. Ma le conseguenze morali che ne trae Blake (e non i Druidi) sono nobilissime. Nella creazione vi è un fondo di Bene, le Essenze, la materia prima nella quale il Demiurgo non poteva avere azione: i prati, i bambini (Freud non era ancora nato). Ma l'innocenza negli adulti è pericolo: essa porta alla ossequiosa sottomissione a una religione che non è altro che un codice punitivo. L’Energia, invece, è tutta nel Male. Occorre che l’Ener-
gia si unisca all’Innocenza: il matrimonio del Cielo e dell'Inferno. Ma, fortunatamente per il suo talento poetico, Blake
era tutt'altro che un sistematico: le sue deduzioni erano associazioni di sentimenti, non di asciutta logica. Ciò lo portava a contraddizioni. Per esempio nella sua teoria si postulava che la separazione cristiana fra anima e corpo era falsa: tutto era anima, e il corpo non era che la parte visibile dell'anima e, come tale, degna di rispetto. Ma un bel giorno disse (e scrisse) che il corpo apparteneva a William Blake tanto quanto il fango delle sue scarpe. E allora? Tutte queste sue teorie sono racchiuse nei suoi «libri profetici» che andò via via pubblicando, sempre con lo stesso sistema, cioè non stampati ma incisi su rame da
lui stesso ed illustrati dalle sue magistrali stampe. Questi poemi profetici sono The Book of Los, The Book of Urizen, The Book of Ahania e Jerusalem. Si po-
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trebbe credere la loro lettura fastidiosa; invece quando
si sia riusciti, con poca fatica, ad impadronirsi dei significati dei vari nomi, ci si accorge che il poeta svolge e espone le sue teorie con maschia sicurezza e logica impeccabile, ornandole con straordinaria frequenza delle immagini più splendenti. Quando si sappia che Urizen è la ragione (e perciò anche il nome della legge restrittiva), Luvah la passione, Urthona lo spirito e Tharmas il corpo, tutto procede benissimo. Di carattere uguale sono gli altri tre canti, Arzerica, nel quale il poeta prende spavaldamente la parte degli insorti americani contro il proprio paese, Europa, che è una vibrante esaltazione della Rivoluzione francese, e in-
fine Milton, che richiede un più lungo discorso. Milton fu il rovello di Blake. Egli era troppo artista per odiarlo; nello stesso tempo come poteva fare ad amare chi era stato il devoto di Geova, il cattivo nemi-
co? Blake se la cavò con la massima ingegnosità, rivelata da una breve frase nel suo Marriage of Heaven and Hell che voglio citare per intero perché è rivelatrice e divertente: «La ragione per la quale Milton scriveva vincolato quando scriveva degli Angeli o di Dio, e in magnifica libertà quando trattava dei Diavoli o dell'Inferno, è perché egli era un vero poeta e del partito del Diavolo senza saperlo». Il che è eccellente critica estetica e profonda intuizione psicologica, se intesa cum grano salis. Nel poema Milton lo spirito del poeta, che nell’oltretomba ha conosciuto la verità, discende in Blake per ri-
parare il male che ha fatto alle anime con l'errore spirituale che fu il Paradiso perduto. Comunque si voglia giudicare il punto di partenza, rimane innegabile il fatto che i versi, se non di Milton stesso, sono degni di Milton. Durante questi ultimi anni di vita l’esistenza di Blake fu dura, sin quasi al limite della miseria. Vendeva di rado i suoi prodigiosi disegni e doveva guadagnarsi la vita
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incidendo lavori di altri e financo fabbricando carte da visita. La sua costante cortesia e la dignità sovrana che l’accompagnava non si smentirono mai e Coleridge ricorda che, invitato a pranzo da lui, gli venne offerto soltanto pane, burro e aringhe salate, ma che uscì da quella casa di povertà «sated with Beauty and as proud as if I had supped with King Solomon». In quel periodo scrisse anche alcune magnifiche liriche: lo straordinario England! awake!, che lui solo avrebbe potuto immaginare; il popolarissimo inno sulla «New Jerusalem» che apre il poema Mz/tor e che adesso è (chissà con quanto rammarico dello spirito di Blake) l’inno ufficiale dei Quaccheri” ed è una delle più vibranti poesie che esistano, e inoltre The Srzzle, The Land of
Dreams e molti altri che posseggono un tono che sarebbe vano cercare in altri poeti. Nel 1827, mentre era solo con la moglie, ebbe un at-
tacco di cuore, e mentre spirava cantava delle parole che la moglie disse bellissime ma delle quali essa ricordava soltanto tre: «Eternity is Beauty». Si direbbe quasi che le ultime parole siano state raccolte da Keats che le parafrasò nell’immortale verso iniziale del suo Endyrzion: «A thing of Beauty is a joy for ever». Mi dispiace per voi, ma desidero un po’ ritornare su un curioso aspetto dell’etica blakiana. Egli può esser considerato come un precursore di Nietzsche: la sua morale svincolata da ogni premessa religiosa ha spesso l’alterigia e la forma paradossale di quella del grande Federico. Sentite questa frase: Thy friendship oft bas made my heart to ache: Do be my Enemy — for Friendship's sake. )
* Questo poema è stato adottato quale inno ufficiale dalla National Federation of Women's Institutes e da numerose altre associazioni,
ma non risulta che sia diffuso presso i Quaccheri.
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Non parrebbe forse tradotta dal Jersezts vor Gut und Bose? E molti dei mirabili Proverbi dell'Inferno hanno il piglio altero ed arguto degli aforismi del filosofo di Basi-
lea. «Colui la cui faccia non emana luce non diventerà mai una stella.» «Ascolta il rimprovero dello sciocco. È una lode da Re.» «Tutto ciò che è possibile credere è una immagine della verità.» «È preferibile uccidere un neonato nella culla anziché coltivare desideri non compiuti.»
Leggete Blake, leggete The Songs of Innocence, leggete The Marriage of Heaven and Hell, leggete il Milton. Vi è pasto per una vita intera.
WORDSWORTH
Con William Wordsworth (1770-1850), quasi perfetto contemporaneo di Blake, veniamo a trovarci in un mondo completamente diverso. Alle brevi poesie che riescono a racchiudere un mondo in dodici o anche otto versi, si sostituisce un poeta di largo fiato che ha anche lui tutto un mondo da esprimere ma che ha bisogno di lasciar straripare, spesso, la sua ispirazione in lunghi poemi. Alle inquietudini metafisiche, alle angosce ultra-umane di Blake si sostituiscono approfondimenti interiori, assaporamenti della esperienza. Alla contemplazione della natura che Blake vedeva come un Dio può contemplare la sua opera, si oppone il modo con cui Wordsworth guarda il mondo, con l'occhio avido e appassionato del pittore, il che lo ha reso forse il più grande paesaggista in versi che vi sia stato. Rimasto orfano bambino, Wordsworth venne affidato alle cure dei nonni, persone oneste ma dure, che
pensarono di dargli un'educazione di prim’ordine consacrando a questa educazione tutto il patrimonio dell’orfano. In modo che questi, alla sua uscita da Oxford, si venne a trovare senza un soldo e decise di andare in Francia, che era (ed è ancora) il paradiso degli inglesi squattrinati. Lì egli si entusiasmò per la Rivoluzione francese ed aveva già deciso di domandare la cittadinanza della Repubblica e di iscriversi al partito girondino, quando la famiglia di una ragazza francese, Annette Vallon, che lui intendeva sposare, si oppose a questo suo proposito perché monarchica. Se si fosse iscritto ai Girondini sarebbe probabilmente perito du-
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rante il Terrore insieme ad André Chénier; ma la diffi-
coltà di pronuncia del suo nome avrebbe impedito che anche lui fosse tratto sulla nostra scena lirica.
Ad ogni modo, con una sveltezza che non ci aspetteremmo in lui, riuscì a sfuggire tanto alla ghigliottina che al matrimonio, e, piantando in asso la povera Annette e la figlioletta che aveva da lei avuto, ritornò in Inghilterra al principio del 1793. In Inghilterra si trovò subito in preda alle più grandi ristrettezze economiche e meditava il suicidio quando, proprio mentre stava insaponando la corda per impiccarsi, sentì battere alla porta della stamberga nella quale viveva: era un notaio che veniva ad annunziargli che, essendo morto un suo lontano cugino, egli era divenuto erede di tutte le sostanze di lui, novecento sterline an-
nue, il che era, per allora, una larga agiatezza. Acquistò una casa a Londra e una villa sui laghi dell'Inghilterra settentrionale, si sposò, non con la francese, e visse feli-
ce e contento fino ad ottant'anni, assistito nella sua vecchiaia dalla sorella Dorotea, ammirevole figura di donna che ha due meriti rispetto alla letteratura: quello di aver scritto una bella biografia del poeta e quello di esser stata causa di una delle più notevoli frasi critiche che siano a mia conoscenza: «Dorotea fu una vera anima di poeta alla quale mancò soltanto di aver scritto poesia». Vita apparentemente poco movimentata ma che è la
trama di ogni sua poesia. Infatti la poesia di Wordsworth è largamente autobiografica: non vi è però nessun accenno né all’abbandono della Annette, né all’insaponamento della corda. Sotto questa apparente serenità la sua vita fu un perpetuo dissidio: dissidio fra le sue idee largamente liberali e lo sdegno che il Terrore aveva ridestato in lui; dissidio fra le sue possibilità poetiche, di stampo prettamente classicistico, e l’insofferenza romantica al mondo che lo attorniava. Da queste sue contraddizioni interiori nacque un’opera non alternativa-
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mente romantica e classica (come per esempio avvenne
in Flaubert) ma che presenta un contenuto romantico avviluppato in una forma di classica castigatezza (come possiamo vedere in Stendhal). A questo strano e felice risultato contribuì molto la sua stretta amicizia con Coleridge. Non si trattò di una collaborazione, anzi fu una divisione di lavoro. Essi si comunicavano i soggetti che trovavano degni d’ispirarli: poi decidevano chi dovesse eseguirli. Coleridge, più fantasioso, teneva per sé i soggetti fantastici e soprannatu-
rali; Wordsworth quelli che richiedevano approfondimenti interiori, analisi psicologiche e descrizioni della vita comune. Può sembrare un metodo di lavoro controproducente; ma i fatti sono là, patenti: i poemi fantastici di Coleridge, elaborati su temi spesso trovati da Wordsworth, sono fra i più vigorosi che esistano. Le poesie intimiste di Wordsworth, spesso suggerite da Coleridge, sono dei capolavori. Che il metodo fosse (miracolosamente) buono è provato dal fatto che, dopo la morte prematura di Coleridge, Wordsworth si provò a trattare alcuni dei temi che avrebbe affidato a Coleridge, e fece fallimento completo. Wordsworth possiede due talenti in modo supremo: quello di versificatore, di tecnico del verso: i suoi versi hanno movenze, spezzature, ritmi fra i più belli della poesia inglese; il tutto, intendiamoci, in tono minore: sottilis-
sime fusioni di sfumature, mai i prodigiosi spennellamenti di Byron o di Shelley. Il verso rotondo, il verso da declamarsi non esiste per lui: è un susseguirsi di modulazioni, un discorso sommerso pieno di echi segreti. La seconda peculiarietà di Wordsworth è la sua facoltà di descrittore della natura. La famosa formula «le paysage comme état d’àme» sembra coniata su lui. Quel che Leopardi ha fatto in modo supremo nell’Infirito è ciò che continuamente avviene (in modo meno supremo) in Wordsworth. E anche questo in tono minore: i
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paesaggi sono evanescenti, ravvolti di tenui nebbie, con poco sole e senza tempeste: autentici paesaggi inglesi
esprimenti stati d'animo autenticamente inglesi. Turner, | che riesce a fare opera somma mostrandoci un arcobaleno slavato al di sopra di un grigio ruscello, è il fratello pittore di Wordsworth. Tutti conosciamo l'ode all’allodola di Shelley e sappiamo quale serie prodigiosa di grida di gioia e di abbaglianti visioni essa contenga. Esiste un’altra ode all’allodola di Wordsworth. Anch’essa è un capolavoro; ma due più dissimili opere sullo stesso soggetto è difficile immaginare: Shelley vede nell’allodola lo slancio verso la luce, il dionisiaco istinto del canto per il canto. Wordsworth, pur apprezzando l’impeto, si profonde nella pietà per il piccolo corpo inerme, per il nido lasciato senza difesa. I sonetti sono una delle maggiori riuscite del nostro poeta: egli ne supera con maestria le difficoltà e ne ha creato parecchi che sono opera di altissima poesia. Ma Wordsworth non è un poeta da leggersi per intero, come Blake o come Shelley e Keats. Talvolta la sua ispirazione cade; e la perdurante maestria tecnica si traduce in noia. Io personalmente, a rischio di anatemi, trovo The Recluse insopportabile. Ma alla formazione di un buon gusto, alla conoscenza della poesia inglese è indispensabile la lettura delle sue opere migliori. Esse sono, a mio meschino parere, The Prelude, l’impareggiabi-
le Tintern Abbey, She was a Phantom of Delight, i tre poemi su Yarrow, di assoluto prim'ordine, e l'Ode to Duty, nobilissima. Del resto si può fare a meno. Wordsworth, non ispirato che sia, è inferiore. Wordsworth quando era in vena era un grand’uomo. Del resto lo stesso succedeva a Dante e a Goethe.
COLERIDGE
Con la figura di Coleridge (1772-1834) ci si presenta il primo dei poeti inglesi la cui attività viene stroncata dai dissidi interni. Il poeta romantico, quando sia romantico sul serio, cioè viva il suo dramma e non si contenti di scriverlo sulla carta, spesso soccombe al fantasma da lui
stesso evocato. Così Holderlin, così più tardi Nerval e Baudelaire e Borel, così Pushkin e Lermontov, così,
sforzando un po’ la tesi, Leopardi. Coleridge è stato un poeta di forza d’ispirazione unica; e unico, benché diseguale, nel modo di concretare nel verso la sua ispirazione. Ma fu anche filosofo, critico eminente, teologo, moralista e conversatore appassionante. Sarebbe stato difficile che un uomo tanto dotato non avesse finito col disperdere le sue ricchezze, quand’anche avesse avuto la più ferma volontà. Coleridge, che nella volontà era ammalato, ci ha lasciato più di quanto era lecito aspettarsi.
Tranne qualche poesia della sua gioventù, egli non ha portato a compimento nulla di quel che aveva intrapreso. La sua fama, che è grande e meritata, riposa interamente su frammenti di opere. Figlio di un pastore anglicano, rimasto otfano giovanissimo ottenne una borsa di studio a Cambridge dove non si laureò malgrado il suo vivissimo impegno. Si arruolò in un reggimento di dragoni ma fu posto in riforma due mesi dopo. Insieme ad alcuni amici conosciuti a Cambridge sognò della formazione di uno stato comunistico ideale in America, la «Pantisocrazia». Terzo fallimento.
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Dopo, finalmente, un colpo di fortuna: la sua amicizia con Wordsworth e la collaborazione con lui della quale abbiamo parlato. E fu in quei sei anni che egli pubblicò | le sue poesie migliori. 1 Poi si sposò, assai male, con una donna che gliene fece di tutti i colori; del che la povera Sara Fricker dev'essere in parte scusata, perché Coleridge doveva essere il peggior marito immaginabile, in tutto degno di completare, con Byron e Shelley, la triade dei peggiori mariti del mondo. Separatosi dalla moglie si diede a fumar l’oppio; viags:ò in Germania, si inoltrò nella metafisica tedesca, co-
minciò ad alternare tratti di lucidità, durante i quali scriveva prose magistrali, con periodi di ebetudine, sino alla morte, avvenuta nel 1834.
I grandi poemi che ci restano di lui sono tre, uno solo dei quali compiuto. E sono la perfezione del genere ultraromantico. Ma non vorrei che questo aggettivo ultra-
romantico richiamasse alla vostra memoria le brutture di Uhland, di Carrer o di Espronceda, poesie nelle quali una immaginazione disordinata fluisce fangosa in versi mal congegnati e trascurati, e che valgono solo appunto per l’estro incontrollato del quale sono espressione. Nei poemi di Coleridge il soggetto è sì selvaggiamente romantico, ma l’espressione è talmente sorvegliata, i dettagli sono così squisitamente cesellati da far sparire qualsiasi sensazione di esagerazione e di bolsa enfaticità. The Ancient Mariner è una ballata nella quale un vecchio navigatore narra le sue avventure su una nave dispersa nei mari del Sud e che si trova sotto la maledizione divina per i peccati dell'equipaggio, simboleggiati dall’uccisione di un innocente albatros. Soggetto quanto mai romantico, come si vede, e che si presta a tutto lo
spiegamento di orrori e di macabro che quel tempo richiedeva. Ma il gusto personale di Coleridge e quello nazionale dell’understatement salvano tutto: e in versi di
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squisita melodia, fra aperture nostalgiche di paesaggi, quel che ci viene presentato è di fatti il dramma di un’anima. Questa ballata, specie nella prima redazione non appesantita dal commento marginale in prosa, è la più bella delle poesie fantastiche e basterebbe da sola a dare a Coleridge il posto di grande poeta. Coleridge stesso ci ha detto che la compose in una notte d’incubo, in un intervallo di lucidità fra una bevuta e l’altra di laudano, che era la morfina del tempo suo. Ma la cura minuziosa dei particolari, l’attenzione rivolta dal poeta a tutte le sfumature della prosodia, ci fanno dubitare di questa asserzione: l’idea del poema sarà nata così, fra un abbandono agli stupefacenti e l’altro, ma la elaborazione
poetica è di un artista perfettamente cosciente e padrone di tutte le possibilità offerte dalla lingua e dal ritmo. La popolarità di questa poesia è illimitata e artisti del calibro di Shelley, Browning e Swinburne vi accennano spesso come all’opera di un maestro loro. L'influenza di Coleridge su Edgar Poe è lampante, in tutta l’opera sua; e quella dell’ Ancient Mariner è particolarmente visibile nelle Avventure di Arthur Gordon Pym; e non intendo riferirmi alla quasi-identità del soggetto trattato ma alla straordinaria delicatezza di tocco e alla trasformazione delle orripilanti avventure in alto conflitto spirituale. L’Ancient Mariner (e il Gordon Pym) stanno ai racconti fantastici come i Fratelli Karamazov stanno ai comuni romanzi gialli. Come si è detto, questo poema è il solo compiuto che sia stato pubblicato da Coleridge, a parte brevi componimenti di valore relativo. Christabel non è compiuto: ci restano soltanto due dei quattro brevi canti nei quali doveva consistere. Ma, come avviene in ogni vera opera d’arte, la parte è uguale all'intero: la Venere di Cirene decapitata e monca delle braccia esalta la fantasia degli uomini. I poeti sono sempre i migliori critici dei loro pari. E
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Byron in due versi («I read the Christabe/ / Very well!») ha detto tutto ciò che si può dire su di esso: ammirazione incondizionata per la forma splendida, turbamento compiaciuto per il suo contenuto morale (ben eccezionale questo turbamento in Byron!). Si tratta di una ragazza che errando in un bosco, la notte, nei pressi del castello paterno, incontra una donna di straordinaria bellezza (Lady Geraldine) che, perseguitata, viene ricoverata nel castello. Ma questa donna è stregata, è un vampiro che introduce il peccato nell’anima della purissima Christabel. Argomento affine a quelli tante volte svolti dalle ballate scozzesi e, poco prima della redazione della Christabel, da Walter Scott nelle sue gloriose
ballate. Ma il brodo vale quanto il cuoco che lo prepara. E qui il cuoco è un insuperato maestro. La grazia dei particolari è squisita: basti ricordare quella foglia appassita che tremola sulla cima dell’albero, le decorazioni in legno del letto di Christabel, la descrizione dei cavalli umidi di schiuma. Il senso di eerzzess è potentissimo ma soltanto indicato con arte veramente suprema, la sensualità della scena è sconvolgente. E tutto, per esser preservato da una possibile putrefazione, è intriso dal sale dell’humour, sinistro come nei versi dedicati alla «mastiff bitch», maliziosamente tenero nella descrizione de-
gli attempati ardori di Sir Leoline. Il frammento è di tale squisitezza che sazia completamente e non lascia rimpianto per l’incompiutezza della storia, della quale del resto ci importa poco perché già i succhi poetici che vi potevano esser contenuti ne sono stati distillati (la esplicita ceriness e la velata sensualità). Un’altra meraviglia di Christabel è il suo metro (strofe di dieci versi a rime baciate, del resto variate da altri aggiustamenti) che è stato usato da Coleridge per la prima volta qui. Si vive davvero per un quarto d’ora nel mondo delle fate, fate che sono poi belle e sensuali donne.
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Ma una trama esiste in Christabel e nell’Ancient Mariner; se ne può, massacrandole, raccontare l'intreccio in cattiva prosa, come ho fatto.
Ciò riesce però improponibile per il Kubla Kbar che davvero è la poesia più poesia che esista, se per poesia si
vuole intendere un tessuto di immagini folgoranti e di sonorità. Sono una cinquantina di versi che descrivono un giardino magico orientale con sottintesi presagi di sventura. È una specie di poema di Valéry avanti lettera, uno di quei poemi nei quali non esiste il verso fiacco 0 indifferente e che lascia alla fine una sensazione di voluttuosa dolcezza, senza cagione e senza fine proprio come
dopo la contemplazione di un tappeto persiano o di un paravento di Coromandel. Emozione suscitata solo dai colori e dai suoni. E senza dubbio il capolavoro di Coleridge; è forse uno dei dieci poemi supremi (un giorno dovrò mettermi a contarli sul serio questi dieci poemi supremi: ho paura che siano molti di più). E necessario dire che occorre leggere, imbeversi e amare queste tre poesie di primissimo ordine? Qui potremmo cessare di parlare di Coleridge: vi sono altre poesie sue che contengono versi belli, ma è inutile guastarsi la bocca dopo aver bevuto alla coppa degli Dei. Ma occorre continuare un po’ per segnalare le magnifiche pagine in prosa che egli ha dedicato a Shakespeare, fra le più belle che gli siano state dedicate, e probante esempio dell’eccellenza della critica da poeta a poeta. Altre pagine notevolissime sono quelle dedicate all'amico Wordsworth.
BYRON
Adesso il mio assunto diviene pericoloso. Parlare, sia
pure nel consueto modo raffazzonato, di Byron non è facile; si può osare discorrere di Shakespeare o di Milton: essi sono talmente al di sopra dei loro contemporanei e il loro merito è così universalmente riconosciuto che può bastare il tramutarsi in una Guida del Touring per indicare ai viaggiatori i punti panoramici più famosi
o quelli egualmente belli se pur meno noti. Basta conoscere le loro opere per essere in grado di parlarne alla buona fra amici. Non si può far lo stesso con Byron. Egli fu un grande poeta ma la sua gloria, che fu, un momento, in competizione coi nomi massimi, è in sensibile eclissi e trovo ne-
cessario scernere in lui il buono dal mediocre per ridargli il suo posto che se non è, certo, fra gli Dei, non è
ancor più sicuramente fra i mediocri. Prima difficoltà. Byron per di più è un poeta che fa da perno alla letteratura moderna europea: sia che lo si stimi grande o piccino, è innegabile che la letteratura europea dopo di lui è totalmente diversa da quella che lo precedette. Appunto perché non del numero dei sommi egli incarna completamente il Romanticismo. Shakespeare supera gli Elisabettiani e Milton i Puritani. Byron è il Romanticismo travestito da uomo. Parlare di lui è parlare di tutta un'epoca. Seconda difficoltà. In terzo luogo Byron è uno di quei poeti (come Tasso, come Verlaine ai quali non somiglia per nulla) la cui vita è più importante delle opere: sintomi della stanchezza di un’epoca, fiori della decomposizione, le loro opere ri-
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mangono incomprensibili se non si conoscono le circostanze che le fecero nascere e nelle quali esse affondano le radici. Terza difficoltà. E conto sulla benevolenza dei miei uditori per avere la loro compassione sulle pagine che seguiranno, che saranno senza dubbio le peggiori fra tutte quelle passate e future. Il che non è dir poco. Byron: l’ambiente Premetto che quanto verrà detto sull'ambiente di Byron vale in pieno per Shelley e in buona parte per Blake, Keats e gli altri poeti. L’ambiente nel quale visse e che potentemente agì su Lord Byron era un ambiente di crisi, la crisi del mondo
feudale che cambiava pelle e diveniva il mondo industriale. L'Inghilterra perché aveva qualche decennio di anticipo, la Germania e l’Italia perché in ritardo di altrettanto non ne subirono lo scoppio violento come la Francia, ma ne patirono i sintomi e ne soffrirono le doglie della metamorfosi: l'Europa (e l’Inghilterra) del 1815 non è addirittura più quella del 1795. Ma gli altri paesi, per ora, non ci riguardano. Consideriamo soltanto l'Inghilterra. Anzitutto crisi economica che suscita e atteggia le altre. L'economia feudale, ancorata all’agricoltura, crolla
(a sentire gli agrari), si trasforma (a sentire la borghesia industriale). Un feudatario possessore di centomila acri di terreno (circa cinquantamila ettari) era il padrone della sua contea, al principio del Settecento. Egli imponeva i prezzi del grano e del legname, in intesa con i suoi pari; egli deteneva il potere politico mediante l’elezione al Parlamento dei suoi deputati; egli sussidiava le scuole, egli manteneva le strade. Suoi erano i mulini, sue le segherie, sua la polizia rurale. Le tasse che lo stato perce-
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piva provenivano quasi tutte da lui, la giustizia spicciola
la esercitava lui stesso. Adesso, sul finire del secolo, tutto andava mutando. La terra veniva considerata come cattivo investimento; essa rendeva al massimo il tre per cento, certi signori
della City che possedevano quattro pezzi di carta della East India Company o delle Midland Potteries esigevano fino al venti o al venticinque per cento. Insignificanti borghi come Liverpool, Manchester, Sheffield e Birmingham avevano impiantato telai meccanici, industrie metallurgiche, agenzie di navigazione, stavano diventando grandi città e di già sorpassavano di molto, come numero di abitanti e per importanza economica, le cittadine rurali nelle quali i proprietari fondiari trovavano prima il loro centro di azione. Adesso i diritti di dogana, le imposte sui manufatti si avviavano ad eguagliare il gettito delle imposte fondiarie, e corrispondentemente diminuiva l’importanza politica della gerry. Durante le guerre della Rivoluzione i grossi mercanti e i banchieri della City avevano donato allo stato otto vascelli di prima linea, dono che i proprietari terrieri non si sarebbero sognati di poter fare. Questo per la crisi economica. Ma vi era anche una crisi religiosa. Dalla metà del Settecento in poi numerosi pastori anglicani si allontanarono dalla Chiesa ufficiale. Questa si perdeva sempre più nello spirito di conformismo e di compromesso; inoltre
essa offriva uno spettacolo di corruzione: intendo dire corruzione nel senso che i numerosi benefizi ecclesiastici a disposizione della Corona e della nobiltà venivano conferiti sia a dei figli di famiglia, sia a dei «raccomandati» senza che troppo ci si preoccupasse delle qualifiche morali o culturali dei nominati. Fu allora che si creò la figura dell’bunting parson, del «parroco cacciatore», giovanotto di buona famiglia, esente da qualsiasi preoccupazione spirituale, che passava le sue giornate a caval-
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lo, occupato alla caccia alla volpe nelle terre della parrocchia. Molti di questi ecclesiastici non risiedevano neppure nelle loro case campagnole dove si facevano sostituire da altri da loro stessi stipendiati. Sotto l’impulso di Wesley numerosi pastori cominciarono a predicare per una riforma della Chiesa anglicana sia in senso gerarchico che in senso teologico. Nell’anima profondamente religiosa degli inglesi la loro predicazione ebbe un successo inaspettato. Espulsi dalla Chiesa ufficiale essi fondarono la nuova Chiesa metodista che allisgnò in modo prodigioso specie fra il nuovo proletariato industriale. Ma questa critica della Chiesa anglicana, se si risolse in un mutamento di fede nelle anime più semplici, si manifestò invece come un abbandono della fede presso le persone di maggior cultura. Si fondò a Londra un «Club degli Atei», i libelli antireligiosi si moltiplicarono. In questo ambiente di libero pensiero fu educato Byron. Questo per la crisi religiosa. Ma vi era anche una crisi politica. La dinastia degli Hannover aveva fornito due buoni Re (Giorgio I e Giorgio II), non nel senso che essi brillassero di speciali doti intellettuali, ma nel senso che, as-
solutamente estranei alla vita del loro regno, lasciarono fare ai loro Primi Ministri. Come si è già detto, si costi-
tuì così il Governo di Gabinetto. Con l’avvento al trono di Giorgio III, nato ed allevato in Inghilterra e totalmente inglese per mentalità, le cose mutarono. Non già, si capisce, che scomparisse il gover-
no parlamentare, ma l’influenza del Re si fece sentire. E non fu un'influenza felice. Onesto e quanto mai costumato, Giorgio III aveva però poche idee e queste poche erano grette: voleva vivere sul piede di casa, in certe occasio-
ni, e ciò era impossibile in un paese che era decisamente lanciato sulle vie dell’imperialismo; in certe altre evenienze, invece, intendeva affermare la supremazia britannica
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sulle colonie e questa sua opinione doveva costare all’Inghilterra il distacco dalle colonie del Nord-America. Poi, ad un tratto, il Re divenne pazzo. Intermittentemente dapprima, poi in modo continuo, si dovette rinchiuderlo nel castello di Windsor dove, lasciatosi crescere la barba, pascolava l’erba del prato o suonava musiche di Handel all’armonium. Si dovette istituire una reggenza e Reggente fu il figlio maggiore Principe di Galles. Le cose andarono di male in peggio. Il Re pazzo era amato dalla popolazione per la sua mitezza. Ma i suoi figli, otto maschi, erano quanto mai impopolari: quasi tutti bigami, avendo sposato in gioventù ragazze di sangue non reale (o attrici) e non essendo il loro matrimonio ratificato dal Re, si erano poi risposati con
principesse e avevano figli dal primo e dal secondo matrimonio. Attorno a loro erravano le più strane dicerie: uno era accusato di aver ucciso il proprio cameriere, l’altro era incolpato di stupri numerosi e variegati, un terzo
si diceva fosse l’amante della sorella, un quarto dimostrava verso i soldati un così feroce sadismo che si era dovuto esonerarlo dalle cariche militari. Tutti poi erano immersi nei debiti sino al collo e tutti erano in lite fra loro e contro il Reggente. Così il prestigio della monarchia decadeva e gli insulti al Reggente e ai suoi fratelli erano quotidiani per le strade e sulla stampa. Gravissime quistioni politiche si agitavano. Se sulla politica estera tutti eran d'accordo, lotte acerbe si svolgevano per la politica interna. Il partito liberale desiderava l’abolizione del dazio sul grano, misura che avrebbe ulteriormente impoverito la proprietà terriera, la riforma elettorale (in modo da dare una equa rappresentanza parlamentare alle nuove città industriali ed abolire invece vecchi collegi rurali alcuni dei quali avevano dieci elettori) e soprattutto la franchigia politica ai cattolici. Il paese era in subbuglio (subbuglio inglese, si capisce).
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Queste quistioni furono tutte risolte e il paese ritrovò fede nella sua costituzione ed entrò nella fiorente era vittoriana. Ma nel 1815 Byron si trovava ancora in un paese scontento, divenuto scettico e quasi irrispettoso. (Biso-
gnerebbe leggere il divertentissimo libro di Fulford sui «Royal Dukes» e l’opera magistrale di Halévy sull’Inghilterra del 1815.) A fianco di queste tre crisi, la crisi sociale dell’aristo-
crazia. Impoverita dalla rivoluzione industriale, l’aristocrazia continuava a vivere nel fasto, facendo debiti. E ogni tanto avvenivano dei cracks paurosi. Byron entrava nella società inglese sotto il segno della sfiducia, dell’ateismo, della ribellione, della povertà e
dell’orgoglio. Queste sono le componenti del suo tempo, della sua biografia e della sua opera. Byron: la vita Avevo in mente di parlare contemporaneamente della vita e della opera di Byron — due elementi che sono così strettamente congiunti. Ma essi sono congiunti sul mo-
do artistico: elementi importantissimi della biografia sono quasi assenti dall’opera; elementi che nella vita appaiono trascurabili assumono nella poesia di Byron un posto preponderante; di alcuni fatti egli operava la trasfigurazione artistica dopo poche ore; per altri dovranno passare degli anni. Occorrerebbe un potere di sintesi critica che mi manca. Ne risulterebbe una confusione senza pari, con continui ritorni indietro. Meglio narrare prima la vita che è di un interesse straordinario; e parlare poi delle opere, facendo qualche riferimento agli avvenimenti che le ispirarono. Sarà più lungo ma spero che risulti più chiaro. Intanto occorre cominciare... dai precedenti atavici.
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La famiglia di Byron era di origine normanna e venne in Inghilterra insieme con Guglielmo il Conquistatore. | Erano dello stesso ceppo dei duchi di Biron, francesi dal tragico destino, e, a quanto si dice, dei Biihren di Cur-
landia dal destino galante. Il motto dei due rami, inglese e francese, era identico ed era l’orgoglioso «Crede Biron». Possedevano dei vasti feudi nel Nottinghamshire e nel Lancashire. Un Lord Byron si distinse per il suo coraggio e la sua imprudenza durante la guerra civile: militando quale generale di cavalleria nell’esercito regio, ordinava sempre alla sua cavalleria di caricare, prematuramente. E fu la causa della perdita delle battaglie di Edgehill e di Marston Moor. Dopo una accanita difesa del proprio castello, Newstead Abbey, si rifugiò in Francia assieme al giovane Re che lo ricompensò dei servigi (o lo punì per le disfatte) diventando l’amante della moglie (anzi, precisa Pepys, essa fu la diciassettesima amante del Re). Un po’ più tardi un altro Lord Byron uccise un suo cugino in una rissa di ubbriachi. Fu processato dalla Camera e assolto a condizione di ritirarsi nelle sue terre. Lì egli commise mille stranezze, uccise un suo cocchiere,
organizzò finte guerre fra ragazzi nei viali del parco e si ubbriacò perennemente per diciotto anni di seguito. Quando egli morì il titolo passò al figlio di un fratello minore. Questo nuovo Lord aveva intrapreso la carriera di marina, ed era quel che da noi si chiama uno «iettatore». Fin da quando cominciò a navigare, da giovane ufficiale ricevette il nomignolo di «Captain Gale» perché dopo un paio d’ore dal suo imbarco su una nave qualsiasi si scatenava una tempesta da levare il pelo. Fece tre volte naufragio e due di queste volte fu lui il solo superstite dell’equipaggio. Uomo, però, di grande energia e coraggio fece carriera malgrado le sue attitudini iettatorie e nel 1764 fu incaricato di fare il giro del mondo al comando della sua nave, la Do/phin, allo scopo di sco-
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prire nuove terre nell’Oceania, allora ancora quasi inesplorata. Partito nell’agosto 1764 ritornò in Inghilterra diciotto mesi dopo, senza aver avuto una sola settimana di bel tempo durante il viaggio, come dice egli stesso nella sua relazione. Il fatto più strano di questa spedizione, però, fu che non venne scoperta nessuna terra, mentre sulla rotta percorsa le isole brulicavano. Al momento opportuno un banco di nebbia o un ammasso di nuvole nascondevano la preda. Così pare che Byron passasse a tre chilometri dal continente australiano senza vederlo. Divenuto ammiraglio ebbe l’incarico di comandare la squadra che doveva intercettare quella francese e impedirle di sbarcare rinforzi ai ribelli americani. Ma, al soli-
to, fu colto dalla tempesta, perdette due navi, tutte le altre furono danneggiate, e i francesi passarono. Qualche mese dopo diede battaglia e, fedele alle tradizioni di famiglia, attaccò troppo presto e fu causa della sola vittoria navale che mai i francesi abbiano riportato sugli inglesi. Dopo di che, lo misero a riposo. Questo marinaio scarognato ebbe due figli: il primogenito, John, fu il padre del poeta. Entrò nella carriera militare e vi commise tante stravaganze, contrasse tanti
debiti, combatté tanti duelli che venne chiamato «Mad Jack». A venti anni rapì una giovane signora, Lady Carmarthen. Il marito chiese il divorzio, i due fuggitivi si sposarono e nacque una figlia della quale udremo molte cose: Lady Augusta Byron. Poco dopo «Mad Jack» rimase vedovo e squattrinatissimo e si risposò con Cathe-
rine Gordon, di nobile famiglia scozzese. Anche la famiglia Gordon era una famiglia tragica: in ciascuna delle generazioni di essa vi era stato un minimo di due morti violente. Una ballata scozzese canta le gesta criminali di un Gordon che uccise cinque bambini allo scopo di ereditare dal loro padre. Fu, del resto, decapitato. Dal matrimonio di John, Lord Byron, detto «Mad
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Jack», e di Catherine Gordon, erede di un funesto sangue, nacque il 22 gennaio 1788 il nostro poeta, George
Gordon Lord Byron. Quando Byron nasceva la sua famiglia era quasi del tutto rovinata. Il padre aveva dissipato tutto il suo, quasi tutta quella che era stata la grande fortuna della moglie. Non restavano che quattromila sterline. La madre prese in affitto un appartamento modesto ad Aberdeen, nel nord della Scozia, si separò dal marito e andò a vivere lì,
assai modestamente, con il piccolo George. Questi sembrava avere ereditato la leggendaria bellezza dei Byron. Però quando fu venuto il momento di cominciare a camminare ci si accorse che era zoppo.
Bello e zoppo lo resterà sempre. Byron aveva soltanto tre anni quando suo padre morì, nel 1791, a Valenciennes, in Francia, dove si era rifugia-
to per sfuggire ai creditori. Il povero «Mad Jack» si trovava nella miseria più nera. Le sue ultime lettere sono tragiche: «Non ho più una camicia addosso e il mio unico vestito è a brandelli... Il macellaio e il fornaio si rifiutano di farmi credito». Sembra che si sia tolta la vita. Poco dopo un giovane cugino, erede del titolo (e del maggiorasco), veniva ucciso in Corsica. Il nostro George, anche lui miserabile, era divenuto erede di uno dei più grossi patrimoni dell'Inghilterra. Dico divenuto erede non nel senso che aveva ereditato ma nel senso che il maggiorasco sarebbe certamente venuto a lui al momento in cui il vecchio prozio sarebbe morto. Intanto Byron continuava a vivere nella povertà insieme alla madre ad Aberdeen. E da questa madre ereditariamente tarata e giustificatamente esacerbata riceveva la peggiore delle educazioni. Alternativamente adorato per la sua bellezza ed intelligenza o crudelmente schernito per la sua infermità, egli acquistò tutte le caratteristiche del bambino viziato, insieme a tutte le altre del
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bambino maltrattato. Combinazione abbastanza rara il cui precipitato chimico è l’uomo in ribellione. Quando George ebbe dieci anni il famoso prozio se ne morì. Dalla più profonda indigenza il bambino passò alla più opulenta ricchezza: dal miserabile /lat di Aberdeen a quella Newstead Abbey che ho visitato, immensa villa in campagna, sontuosa e artistica, circondata da un parco di mille ettari. Fu inviato subito a Harrow-on-the-Hill, che è, insie-
me a Eton, una delle migliori scuole inglesi e vi passò degli anni, strano a dirsi, felici. Egli aveva la facoltà innata di farsi degli amici e di restare a loro fedele; posse-
deva una incredibile facilità ad apprendere; era di temperamento battagliero ed ebbe quattordici fighfs con dei camerati dai quali uscì sempre onorevolmente; e malgrado la sua infermità diventò un eccellente cavaliere e un nuotatore famoso. Quando lasciò Harrow per andare all’Università di Cambridge fu accompagnato da un corteo di amici fino alla prima stazione di posta. A Cambridge, eguali successi: i pranzi che egli offriva agli amici, la sua eleganza nel vestire, la facilità con la
quale apprese l’arabo, il persiano e il greco moderno lo resero popolare. Nel 1807, un anno prima di lasciare l’Università, pubblicò il suo primo volume di versi, Fugztive Pieces, seguito immediatamente da Hours of Idleness. Il successo che questi versi ebbero fu immenso: ed è difficile comprenderne il perché in quanto queste sue raccolte contengono senza dubbio i peggiori versi che mai siano stati scritti da un grande poeta. Ma il pubblico fu affascinato da una parte dalla esistenza già romantica dell’autore, dall’altra da una certa scorrevolezza, da un impulso insito nel verso stesso che anche noi adesso, a centocinquanta anni di distanza, riusciamo ancora a scorgervi.
Uscito dall'Università, divenuto maggiorenne, si sta-
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bilì a Londra nel piccolo appartamento di Piccadilly 16, sulla facciata del quale si può ancora scorgere, sotto secoli di nerofumo, una lapide, e lì sembrò che per qualche mese egli volesse condurre la solita vita del «giovin signore»: amanti in quantità, parecchio vino, pranzetti
con amici e amiche, teatri. Ogni tanto il sangue leonino dei Byron si svegliava, però: quando fu ammesso alla Camera dei Lords, vi si recò in pompa magna, prestò giuramento e chiese subito la parola: e davanti all’assemblea trasecolata pronunziò, con voce melliflua, un breve discorso nel quale deplorava che in Inghilterra la nascita e la ricchezza potessero conferire dei diritti politici, chiese l'abolizione della Camera dei Lords e additò l'esempio della Francia nella quale, come diceva, «regna
un semplice ufficiale d’artiglieria». Depose sul banco della Presidenza un suo progetto di legge per l’abolizione della Camera dei Lords, e se ne andò.
Non vi rimise più piede. Dopo di che continuò la solita vita annunziando anzi agli amici che aveva rinunziato alle ubbie letterarie. Senonché un poco dopo la «Edinburgh Review», a quel tempo autorevole, pubblicò una stroncatura delle due raccolte di versi di Byron. Noi sappiamo come quei versi valessero poco e sappiamo pure che Byron, malgrado il successo ottenuto, non volesse più occuparsi di letteratura. Però, a rileggere questo articolo di Brougham, ci si sente ancora adesso irritati. Allusioni villane all’infermità di Byron, stupide dichiarazioni sull’impossibilità per un nobile di scrivere buona poesia, difetto di senso critico
che induceva appunto a biasimare quel che vi è di men cattivo nella raccolta, paragoni continui fra i grandi Dryden e Pope e l’opera di questo diciannovenne. Fu questo articolo a fare di Byron un poeta. Per fortuna abbiamo ancora la lettera di un amico che si recò a fargli visita proprio mentre Byron leggeva per la prima volta la rivista: «Egli era seduto accanto al caminetto ac-
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ceso e mentre leggeva batteva talmente forte con le pinzette contro i carboni ardenti che io dovevo ad ogni momento precipitarmi a spegnere le fiamme che le scintille facevano scaturire dal tappeto. Sudava freddo e le parole che gli venivano dalla bocca sfidano qualsiasi eufemismo. Finita la lettura egli gettò la rivista nel fuoco e sorvegliò attentamente che se ne fosse consumata fin l’ultima pagina. Fatto questo ridivenne calmissimo: con la consueta voce glaciale mi chiese scusa di avermi dato “such a hellish sight” ma mi pregò di andarmene e di avvertire gli altri amici che per tre giorni non desiderava veder nessuno. Ordinò al cameriere di comprargli un gallone (quattro litri!) di inchiostro e cento penne e si rinchiuse nello studio». Da quei tre giorni di solitudine e da quel «gallone» di inchiostro venne fuori la English Bards and Scotch Reviewers, la prima opera notevole di Byron nella quale egli fa mostra di stupefacenti progressi sulle due smilze raccolte pubblicate poco prima. Il fatto è che Byron fu indotto dalla rabbia a trovare la sua vera vena, che è quella della violenza ribelle mista allo scherno elegante.
In questa lunga invettiva non si sa davvero che cosa ammirare di più: la raffinata ironia, il signorile disprezzo, la violenta invettiva, il tutto espresso in versi di fattura raf-
finata. Quando Byron in seguito ritroverà questa vena produrrà dei capolavori; quando vorrà fare l’apocalittico — no. Byron fece stampare a grandi caratteri degli estratti della sua invettiva e li fece affiggere a Edinburgo e a Londra; ne distribuì copie gratuite a chiunque gliene richiedesse per lettera. «Les rieurs furent de son còté.» La satira era composta tanto abilmente che non poteva dar adito a nessuna querela per ingiuria. Quando si seppe che la direzione della rivista meditava una risposta, Byron pubblicò una seconda edizione preceduta da una dichiarazione nella quale avvertì che se fosse stato distur-
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bato ancora avrebbe scritto cose a paragone delle quali la sua invettiva sarebbe sembrata «rose-water for ladies’ eyes». La rivista se lo tenne per detto; perdette duecentodiciotto abbonati e fu sul punto di far fallimento. Ma superò il pericolo e vive ancor oggi, sempre acida, sempre retriva ma sempre autorevole. Quando, diciassette anni dopo, Byron incontrò la nobile morte che conosciamo, la «Edinburgh Review» pubblicò un trafiletto: «E scomparso un nostro grande nemico; preghiamo il Signore perché accolga il suo spirito senza tener conto dei cattivi versi che ha scritto». Morto il leone, l’asino ritornava a ragliare.
Ma negli English Bards and Scotch Reviewers vi è dell’altro; in più della bellezza intrinseca vi troviamo quel senso di sovrana giustizia e di buon gusto che sempre distinsero Byron fra i letterati inglesi suoi contemporanei: cattivi poeti allora famosi e oggi dimenticati vi so-
no gentilmente presi per il bavero; grandi uomini allora derisi ma le cui opere hanno resistito al tempo (Blake e Coleridge) sono esaltati. Si inizia quella nobile opera di illuminata comprensione che lo portò più tardi a difendere ad oltranza Shelley e Keats che la critica ufficiale martoriava.
Cessata questa polemica, Byron lasciò l’Inghilterra per compiere quel «Grand Tour» che era d’obbligo per i giovanotti inglesi. Ma nel 1809 il turismo non era facile: quel tale «tenente di artiglieria» era in guerra con l’Inghilterra e teneva sotto di sé Francia, Germania e
Italia. Non si potevano visitare che la Spagna e la Turchia. Abbiamo nominato i due paesi che saranno i «pallini» della susseguente letteratura romantica: Herzani e Ruy Blas, Les Orientales e il West-ostlicher Divan. I tre grandi temi topici furono imposti dal Blocco continentale e dai viaggi di Byron.
Partì insieme ad un amico, Hobhouse, che era archeologo, e seguito da un nugolo di servi, inglesi e tede-
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schi. Questo viaggio ci è noto nei minimi particolari: anzitutto per il Childe Harold che pubblicò al ritorno e che lo racconta con singolare esattezza; e dopo per le lettere tanto di Byron che di Hobhouse. Fu il grande avvenimento formativo del poeta. Dall’Inghilterra, sfuggendo agli incrociatori francesi, sbarcò a Lisbona. Lì si divertì un mondo: le portoghesi erano carine, i palazzi fastosi. Come egli dice con elegante noncuranza in una sua lettera, «sono stato l’amante di due o tre duchesse». Da Li-
sbona andarono per via di terra sino a Siviglia. Scrive: «La strada è una delle più attraenti che io conosca: ogni duecento metri si trova una croce per indicare che in quel punto è stato assassinato qualcuno; e spesso s'incontrano gendarmi che accompagnano alla forca rapinatori e spie condannate. E in ogni villaggio belle figliole dagli occhi neri vi gettano profumatissimi garofani. L’amore e la morte sono ad ogni passo». L’arte spagnola non era ancora apprezzata; ci voleva-
no le ruberie di Masséna e di Giuseppe Bonaparte perché i capolavori della pittura si spandessero attraverso l'Europa. Questo era imminente ma non ancora avvenuto. Per il momento la Spagna era ancora soltanto garofani, belle donne e galeotti. E benché in molte sue lettere Byron ci disegni delle specie di acqueforti di Goya, il suo disinteresse per l’arte nei paesi che attraversava è assoluto. Esempi ancor più probanti ci verranno incontro
ciù ima;
Da Siviglia a Cadice («la città brulica di belle figliole quanto Londra di vecchie zitelle») e da Cadice a Gibilterra la carovana prosegue il suo bizzarro viaggio. A Gibilterra s'imbarca per Malta, dove Byron si ferma a lungo. Così egli scrive: «Qui ho preso la dissenteria, delle lezioni di arabo e un’amante». L'amante era la moglie del governatore, Mrs Spencer Smith. «Essa ha dei grandi occhi da miope, il che riesce a conferirle un aspetto sentimentale.» Da Malta finiscono pur col ripartire e ve-
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e
| leggiano verso l'Adriatico: finalmente sbarcano a Santi Quaranta sulle coste albanesi. L'Albania era allora un paese sconosciuto e lontano quanto può esserlo oggi
| l'Afghanistan. Le sue montagne, i suoi contadini in gonnellino, i costumi fieri e violenti ricordarono a Byron la Scozia della sua infanzia, e se ne innamorò. A Janina incontrò e divenne amico di Alì Pascià, il governatore turco, che era già celebre per il coraggio e la crudeltà e che da Byron doveva vedersi confermata una fama durevole. Alì Pascià ha un’importanza notevole nella formazione (im-)morale di Byron: per la prima volta egli incontrava un uomo secondo il suo cuore, indipendente, intrepido, voluttuoso e al di sopra di qualsiasi legge morale. Il «puritain refoulé» ne fu affascinato; quando il Pascià gli disse che si vedeva subito che era di buona famiglia e che se n'era accorto dall’altezza della statura, dalla piccolezza delle orecchie e dalla bianchezza delle mani, l’entusia-
smo di quel fanciullone non ebbe limiti: in ogni lettera esalta la magnanimità, l’ardire e la generosità di quel capo-brigante, e racconta con compiaciuta meraviglia co-
me Alì Pascià fosse solito fare arrostire alla graticola i suoi nemici catturati e che «l’altra sera ha ordinato che si gettassero nel lago quindici donne del suo harem». Però dovette a un certo punto staccarsi «from this admirable gentleman». Il Pascià donò a Byron uno yatagar incrostato di turchesi, Byron si disobbligò regalandogli un fucile da caccia («l’unica differenza, tutta a mio svan-
taggio, è che lo yazagan è stato probabilmente rubato e il mio fucile pagato in belle sterline d’oro»). Byron e i suoi presero l’ardua strada montana verso la Grecia e Alì se
ne rimase a cucinare i suoi arrosti senza sapere che per
cinquant’anni ancora il suo nome sarebbe rimasto famoso in Occidente a causa di questa visita durata due settimane. La strada da Janina ad Atene era lunga e poco sicura ma piena di meraviglie. I briganti cavallereschi, i loro
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canti d’amore (che Byron si faceva tradurre e che diedero origine ad alcune delle sue liriche migliori), la bellezza e la estrema facilità delle loro donne, tutto era un piacere per Byron. Passarono dinanzi a una piccola città bianca, addormentata sulla riva di una grande laguna verde: Missolungi. Byron vi si fermò una notte. Quindici anni dopo doveva ritornarvi per morire. Videro in lontananza l’Elicona, visitarono le rovine di Delfi. I viaggiatori si sentirono commossi: «Su questa terra arida e pura
sono nate la libertà, l’eloquenza, la poesia, il rispetto del bello». Finalmente il giorno di Natale 1809, dopo aver cavalcato tutto il giorno attraverso grandi uliveti e magnifiche pinete, giunsero ad Atene. Era un villaggio, allora, con le case raggruppate attorno a una grande roccia: lAcropoli. «Vi sono più cani rognosi che persone.» Il Partenone però non entusiasmò Byron: trovava che rassomigliava troppo alla Mansion House di Londra. Ma quando vide i marinai di Lord Elgin scardinare a colpi di piccone le metope del tempio di Atena s’indignò contro gli inglesi: «Nazione di orgogliosi bottegai». Quel che gli piacque davvero fu la vita orientale, totpida e sensuale, di quella Atene, allora completamente turchizzata. Alloggiava presso una famiglia greca e divenne, va da sé, l'amante delle tre ragazze della casa, Te-
resa, Mariana e Katinka, la maggiore delle quali aveva quindici anni. Per loro compose delle deliziose liriche d’amore e di esse fece eseguire delle miniature da un pittore russo di passaggio. Delle poesie e delle miniature riparleremo in seguito. Eccitava i greci alla rivolta contro i turchi ma si recava a pranzo dal Pascià perché gli piaceva molto il pilaf di riso con i pistacchi. Finalmente se ne partì per l'Asia Minore, sazio di «baci, confetture e cimici» come egli dice. Da Atene, traversando l’Egeo, andò a Smirne: «Casette bianche, cipressi neri, odori di rose e di sterco». Lì finì
il secondo canto di Childe Harold: il primo lo aveva scrit-
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ito a Malta. Ma Byron, cuore romantico sotto una testa
‘ classica, non apprezzava al suo vero valore questo poema | che doveva essere la bomba atomica della letteratura eu| ropea. Gli sembrava un’opera fallita e, come vedremo in ‘ seguito, non lo voleva pubblicare. Andando poi da Smiri ne a Costantinopoli si fermò all’imboccatura dei Dardanelli, «stretto braccio che separa due continenti. Un mare ' veloce scorre fra due alte rive nude e terrose». Volle ripetere l'impresa di Leandro che attraversava lo stretto per raggiungere l'amata Ero. Vi riuscì lottando per tre ore contro le correnti. Poi disse sempre, da buon inglese, che di nessun suo successo poetico, politico o amatorio era | fiero quanto di questa impresa sportiva. A Costantinopoli, dove arrivò nel maggio 1810, con-
dusse una vita pigra e svagata. Fu ricevuto dal Sultano «sul cui volto brillano tutti i vizi fiacchi». Remava tutto il giorno sul Bosforo, «sospeso fra il cielo azzurro e l’acqua verde». Al solito sdegnava le opere d’arte: «Santa Sofia è una cattiva copia di San Paolo». Alla fine di luglio la carovana si sciolse: Hobhouse ritornò direttamente a Londra, Byron con due domestici si fermò di nuovo ad Atene. Lì alloggiò questa volta al convento cattolico dei Cappuccini; in questo convento vi era anche una scuola di ragazzi e Byron, che era stato così bene a Harrow, fu felice di rituffarsi per qualche settimana in un ambiente giovanile: organizzava gare di pugilato fra ragazzi cattolici e ragazzi ortodossi e li incitava gridando loro durante la lotta i più astrusi passi teologici del concilio di Nicea. Offriva grandi pranzi duranti i quali lui, astemio, si divertiva a far ubbriacare tanto il padre superiore dei Cappuccini chei dignitari turchi. Ragazzate, certo. Però a uno di quegli allievi dei Cappuccini Byron, in un testamento redatto allora, lasciava un legato di cinquanta sterline annue, somma enorme, allora.
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E fra una ragazzata e l’altra scriveva Hints from Horace e Minerva’s Curse, delle quali riparlerò dopo. Ripartì alla fine, si fermò di nuovo a Malta e nel luglio
1811, dopo due anni di assenza, ritornò in Inghilterra. Questo viaggio lo aveva trasformato, o per meglio dire lo aveva rivelato a se stesso. Aveva vissuto fra gente istintiva e sensuale che ignorava il concetto di «peccato»; come egli stesso dice, «dopo aver vissuto fra mao-
mettani, cattolici ortodossi ed essendo io stesso protestante, mi sono accorto che tutte le religioni sono
egualmente vere, cioè egualmente false». Aveva gustato i piaceri della prepotenza, del sentirsi superiore a tutti coloro che lo attorniavano. Con questo pericoloso carico di esplosivi morali sbarcò nella agitata Inghilterra della Reggenza. E dopo mezz'ora che si trovava in un albergo di Dover scrisse questo appunto che è la grande confessione sua, e nello stesso tempo il manifesto del Romanticismo: The great object of life is sensation — to feel that we exist, even though in pain. It is this «craving void» which drives us to gaming — to battle, to travel — to intemperate, but keenly felt, pursuits of any description, whose principal attraction îs the agitation inseparable from their accomplisbment.
Sua madre viveva a Newstead Abbey. Appena giunto a Londra le scrisse che fra dieci giorni sarebbe andato a vederla. Intanto si occupava delle sue opere letterarie. A Dallas, un amico, consegnò il manoscritto di Hixts from
Horace al quale teneva assai e lo pregò di provvedere subito alla sua pubblicazione. Dallas ricevette anche parecchie liriche e un grosso fascicolo che conteneva i due primi canti di Chi/de Harold: «Queste sono delle porcherie che ho scritto mentre viaggiavo; fanne quel che vuoi, ma non le far pubblicare». Dallas lesse il Chz/de Harold e rimase trasecolato. «Ma questo è quanto di migliore e di più originale è stato
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scritto da cinquant'anni!» «Sei un asino. Al mio ritorno da Newstead lo brucerò.» La mattina del giorno in cui doveva partire per rivedere la madre ricevette la notizia che essa era morta. Non era ammalata ma soltanto troppo pingue e un po” asmatica. Possedeva un orsacchiotto al quale voleva un gran bene e che stava nel suo salotto. Questo orsacchiotto si ammalò e morì: la signora ne fu disperata ma nel pomeriggio cominciava a rimettersi quando le portarono la nota di un tappezziere: 18 scellini e 4 pence. Essa si arrabbiò fuor di misura: le sembrava troppo caro. Tanto si arrabbiò che le venne un colpo apoplettico e la sera era morta. Byron arrivò in tempo soltanto per le ese-
quie della madre e dell’orso che ebbero luogo insieme. Due giorni dopo Matthews, il suo compagno di Cambridge preferito, uomo colto e brillante, moriva annegato. «L'Inghilterra si veste a lutto per ricevermi.» Pochi giorni dopo la morte della signora Byron, la sorellastra di Byron, quella Augusta che era nata dal primo matrimonio di «Mad Jack», venne a fargli visita di condoglianze a Newstead. Si trattenne lì dieci giorni. Byron ed essa non si erano quasi mai incontrati. Era sposata
con il colonnello Leigh ed era molto infelice: il marito giocatore e turfite la trascurava per le carte e i cavalli. Aveva ventotto anni ed aveva ereditato la bellezza tradizionale della famiglia: alta, sottile, con magnifici capelli auburn, rideva sempre, facendo brillare dei grandi occhi verdi e mostrando una bocca «strawberry-hued and scented». Del resto, di condotta leggera — anche questo eredità Byron. «È strano trovarsi sul piede d’intimità obbligatoria ed immediata con una giovane e bella signora che quasi non si conosceva», scrisse allora Byron a Dallas. Infatti. Quando essa ripartì Byron rimase due mesi solo a Newstead. Si annoiava, circondato com'era, nel suo stu-
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dio, da innumerevoli cani e dai collari di quelli morti. In quel tempo scrisse agli amici le sue lettere più significative: vi parlava di religione con sommo disprezzo, di letteratura con indifferenza, di amore con disgusto. Dallas lo assillava perché gli permettesse di pubblicare il Childe Harold. Finì con l’acconsentire ma rivolle il manoscritto per farvi alcune correzioni. Non ne fece che una, importante. Inserì nella quinta strofa questi versi: «He loved but one, / And that loved one, alas! could ne’er be his». Il suo ritorno a Londra coincise con la pubblicazione di Childe Harold. I lettori inglesi prima, quelli di tutta Europa poi, ne furono travolti. L’assoluta novità del tono, la sprezzante alterigia che ne sprizzava fuori, la poeticità di quei paesaggi esotici, non lasciavano respiro a chi lo leggeva. Byron divenne l’idolo della società inglese. Le sue eccentricità di condotta ne accrescevano il fa-
scino. Invitato a pranzo da Rogers, famoso elegantone che dava i trattenimenti più ricercati di Londra, rifiutò successivamente tutto quanto gli veniva offerto. «Non mangio che biscotti secchi e non bevo che gazzosa.» Proprio le due cose che non c'erano in casa. Si degnò poi di mangiare due patate bollite senza sale che con la forchetta schiacciò nel piatto dopo averle innaffiate di aceto. Un indiscreto gli presentò Brougham, l’autore del famoso articolo dell’«Edinburgh Review»: con l’indice gli diede un colpetto sul naso dicendogli: «Vecchio rimbambito, andate a farvi sculacciare». Brougham, offeso, lo sfidò a duello e ricevette una palla nella coscia. «Adesso è stato pagato tutto; sono pronto ad essere il suo amico.» E infatti lo diventarono. Qui incomincia il lungo capitolo degli amori di Byron. Capitolo che sarebbe divertentissimo ma veramente troppo lungo. Le sue amanti accertate furono, in quegli anni, ottantasette. È tutti amori complicati, tempestosi,
traversati da tuoni e inumiditi dalle lacrime delle abbandonate. Ma della sua relazione con Caroline Lamb oc-
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corre parlare perché ebbe importanza cruciale, diretta e indiretta, su tutta la vita del poeta. Caroline Lamb era la signora più in vista di Londra. Non bella ma straordinariamente piccante, spiritosa ed elegante. Diventò pazza per Byron ed egli, che era in quel momento l’amante della suocera di lei, la famosa Lady Melbourne, acconsentì, chiesta l'autorizzazione
ironica alla più vecchia (del resto aveva solo quarant’anni), a divenire l’amante della giovane. Mai vi fu relazione più tempestosa. Una notte la lasciò improvvisamente e quando lei gli chiese perché se ne andasse rispose che gli faceva ribrezzo giacere vicino a una donna adultera. Dopo qualche mese la piantò. Essa disperata andava alla ricerca di lui insieme alla suocera e al marito, lo aspettava sotto la pioggia dinanzi alla porta di casa, lo assalì con un coltello durante un ballo, fece incidere sui bottoni
delle livree «Ne crede Byron». Esasperato, Byron le scrisse una formale lettera di congedo che è una delle cose più insolenti che esistano. Vogliamo leggerla? Lady Caroline, I am no longer your lover, and since you force me to avow tt by your so unwomanly persecution, I shall tell you that I am now attached to a person whom it would be wrong to name. I will always gratefully remember the hours of pleasure you have given me and I shall go on being your friend if your Ladyship will give me permission. As a proof offriendship I offer you three advices: quit your vanity which is ridiculous; find somebody else for your absurd whims; and never bother any more about me. Your very obedient servant Byron."
Tutto ad un tratto Byron decise di prender moglie. E chi scelse? La nipote e figlioccia di Lady Lamb, Lady Anne Isabella Milbanke, una ragazza di diciotto anni,
seria, timida e impacciata. Era anche erudita e si occu* La lettera non è l'originale di Byron. Tomasi ha tradotto in inglese la versione francese che appare nella biografia di Byron di A. Maurois.
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pava di studi sulla densità della terra. Il disastro era inevitabile. Già l’indomani del matrimonio Byron scrisse ad un amico che, svegliandosi durante la notte nuziale e vedendo le cortine di seta rossa del letto illuminate dalla fiamma del caminetto, si era creduto nell’inferno.
Quindici mesi dopo Byron doveva lasciare l’Inghilterra e la moglie sotto il peso di uno scandalo senza precedenti. Che cosa era successo? Non è facile il dirlo con decenza. In poche parole, un mese dopo il matrimonio Byron aveva rivisto Augusta e ne era divenuto l'amante. Ed avevano avuto una figlia, Medora. Lady Byron lo apprese. Essa dovette trovare che vi era un limite anche alla densità della terra, si mise a fare il diavolo a quattro (ebbe però il buon gusto di non dire la verità: si dolse di altre infedeltà). Il fondo puritano inglese si risvegliò: Byron, oppresso sotto il peso dell’indignazione pubblica, scrisse le sue due più belle liriche, una dedicata alla moglie ed una ad Augusta, e se ne andò — per sempre. In dieci righe ho raccontato un dramma sul quale si sono scritte diecine di volumi e che è stato chiarito solo dieci anni fa da Charles Du Bos. Byron disse più tardi che non vi è al mondo niente di altrettanto ridicolo quanto la società inglese in uno dei suoi periodici accessi di moralità. Non aveva torto, e tanto meno lo aveva nel proprio caso: in primo luogo perché la società inglese della Reggenza, per una volta tanto in ritardo sui tempi, viveva sotto il regime morale della fine del Settecento in Francia, il regime di Sade e di Laclos, per intenderci. In se-
condo luogo perché essa ignorava le vere ragioni, quelle davvero scandalose, della separazione dei coniugi Byron. Vero è che, forse, lo sospettava. Nel maggio 1816 Byron lasciò l'Inghilterra, definiti-
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vamente. Gli ultimi giorni erano stati penosi: nella strada degli sconosciuti gli gridavano: «Vai via, Eliogabalo! Fuori di qui, Nerone!». La sua ex amante, Lady Jersey, avendo avuto l’imprudenza di invitarlo a un ballo, ebbe la sorpresa di vedere quasi tutti i suoi ospiti andarsene quando Byron entrò nel salotto. La Francia gli negò il passaporto; dovette girare dal Belgio, dalla Prussia per raggiungere la Svizzera. Era accompagnato da un medico italiano, Polidori, buona stupida persona che ci ha lasciato un diario del viaggio. Appena sbarcato ad Ostenda scrisse ad Augusta una lettera mezza infuocata, mezza scherzosa. Si fermò a Bruxelles, visitò il campo di Waterloo che già, meno di un anno dopo, non mostrava più tracce
della battaglia. Poi risalì la valle del Reno e si fermò a Ginevra. Sul registro dell’albergo scrisse: «Lord Byron — età: cento anni». A Ginevra s’incontrò con Shelley. Quest’altro esiliato, per lo meno suo pari in poesia, fu la seconda grande influenza intellettuale che Byron subisse. La prima fu
quella, inconsciamente esercitata, di Alì Pascià di Janina che col suo esempio gli additò le vie della crudeltà, del piacere, dell’Io stirneriano. La seconda, quella di Shelley, agì in senso opposto. Il militante ateismo shelleiano suscitò l'opposizione del suo animo, andò a risvegliare i vecchi ricordi della casetta di Aberdeen, le memorie delle prime, dimenticate, letture religiose. L’umanitarismo, il senso di generosa fraternità, di generoso abbandono che si diffondeva dalla parola (dalla parola soltanto) di questo affascinante Shelley agirono un po’ come una doccia fredda sul ribollente spirito di Byron proprio nel momento in cui questo spirito era più esasperato. Ne vedremo in seguito
le influenze sull’opera byroniana e anche sulla condotta della sua vita. Ma gl’influssi penetrano lentamente e, a
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dir il vero, il primo visibile effetto dell’incontro di questi due gruppi di esuli... fu una figlia naturale. Shelley aveva lasciato l'Inghilterra seguito da una frotta di donne, tutte amanti sue, oltre, si capisce, sua
moglie. Una sorella della moglie aveva di già avuto una relazione con Byron in Inghilterra; appena essa rincontrò in Svizzera il poeta le relazioni si riamnodarono e a tempo debito nacque una bambina cui fu imposto il nome di Allegra, che essa doveva poco giustificare durante la sua breve e tragica esistenza che terminò in un convento di Ravenna. I due poeti vissero vicino l’uno all’altro in Svizzera; si scambiarono fraternamente temi poetici e amanti. Fece-
ro lunghe escursioni nelle contrade più selvagge (allora) e Byron, pervaso dal sacro orrore delle selve e delle cascate, diede mano al suo Cazzo.
Visitarono entrambi Madame de Staél a Coppet e su di essa produssero una forte impressione. Lettera di Mme de Stagl: Le célèbre Lord Byron a été assez aîmable pour venir nous rendre visite; on ne saurait imaginer un aspect plus important, un
maintien plus poètique que le sien; avec cela de la tristesse cachée et la plus grande politesse du monde. Il était accompagné par un jeune bomme, un Mr Shelley, lui aussi de très bonne famille et ayant les meilleures manières; il m’a accompagnée dans un tour de notre cher jardin et ma parlé des fleurs avec un tel esprit d’observation et employant des images tellement justes que je ne seraîs point etonnée s'il ne devenait pas un poète lui-aussi.*
(Il poeta futuro della Sensiziva aveva mostrato le unghie.) Dalla Svizzera la carovana Byron-Shelley-amanti si trasportò in Italia: lago Maggiore, Genova, aumentata )
" La lettera di Mme de Staél sembrerebbe essere una invenzione di Tomasi o forse di un altro biografo da cui egli l'avrebbe riportata: non risulta difatti che Mme de Staél abbia mai incontrato Shelley.
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ed ingrossata da nuove aggiunte: quelle delle famiglie Leigh Hunt e Williams, famiglie di letterati anch'essi avversi al governo conservatore di Castlereagh. Leigh Hunt era un poeta di vaglia che ritroveremo nel seguito di queste letture. Byron andava perdendo la cupezza dei suoi primi mesi di esilio e signoreggiava quel piccolo popolo di poeti e di giovani donne, profondeva il suo molto denaro e, in complesso, si divertiva.
Questo primo periodo di cameratismo fra Byron e Shelley venne a finire quando il primo decise di stabilirsi a Venezia e Shelley ritornò per breve tempo in Inghilterra. Fastosamente alloggiato in uno dei palazzi Mocenigo Byron diede adito a tutti i suoi istinti: nuotava vestito nel Canal Grande e si divertiva ad emergere bruscamente a qualche centimetro dalle gondole che passavano, facendo spaventare le signore; cavalcava come un pazzo al Lido e nella villa di Mira che aveva preso in affitto; e seduceva donne a diecine, contesse e popolane, mogli di
generali austriaci e anche la figlia del becchino nel cimitero di Sant'Elena. Abbiamo una gustosa testimonianza sul prestigio galante del quale godeva in quell’epoca. Nel 1819 Schopenhauer si trovava a Venezia in compagnia di una giovane amica. Egli scrive: «Ci trovammo a passeggiare sulla spiaggia del Lido, io e Alina, quando sentimmo dietro di noi il trotto di due cavalli. Ci scansammo e davanti a noi passò Lord Byron insieme ad un amico. L’incredibile bellezza della sua persona, lo sguardo penetrante e voluttuoso che egli lanciò su Alina, il visibile effetto che quello sguardo ebbe sulla mia giovane amica, mi fecero comprendere che il tradimento era di già potenzialmente sicuro. E l'indomani mattina giudicai prudente cercar riparo a Padova». Delle innumerevoli amiche veneziane di quel periodo val la pena di ricordare soltanto Margherita Cogni, mo-
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glie di un fornaio. Essa aveva sedotto Byron un po’ per quella bellezza slanciata e dorata delle popolane veneziane, un po’ per l'estrema propensione che aveva a tirare il coltello dalle sue giarrettiere appena qualcuno non le andasse a genio. «Quando la sera rincasavo, le sue urla di gioia sembravano quelle di una tigre che ha ritrovato i suoi cuccioli.» Byron, come Montezuma, non detestava le tigri: ferito due volte da coltellate della Margherita, egli «fu più ammalato per le risate che per le ferite» e tollerava con divertita indulgenza le spaventevoli scenate che essa gli faceva, per gelosia, nei caffè di piazza San Marco e all’ingresso di palazzo Mocenigo «dinanzi a sciami di ragazzini ansiosi di vedere il sangue dell’inglese pazzo e della sua Fornarina», come egli scrisse in una lettera. Ad un tratto, la vita di Venezia gli venne a noia. E ritornò a Pisa a riunirsi con la tribù Shelley. Ma la sua
permanenza doveva esser breve. La tragica morte di Shelley doveva presto rompere il sodalizio. Quando il corpo del bellissimo annegato fu ributtato dalle onde sulla spiaggia di Viareggio, Byron vi accorse subito; fu lui che trasse dalle tasche del cadavere il volume di Sofocle che era stato l’ultima lettura di Shelley, furono Byron e Leigh Hunt che in quella afosa serata di agosto eressero sulla spiaggia un rogo di legno di alloro e di pino e restarono presenti finché il corpo fu ridotto in cenere. «In questo porto, allora spiaggia deserta, Lord Byron fece ardere su un rogo aromatico il corpo di un amico» dice la lapide murata a Viareggio, composta con la consueta e pervicace ignoranza dei nostri Municipi.
L’indomani mattina «con le mani ancora odorose di quel sacro incendio» Byron ripartì per Venezia.
Lì egli doveva incontrare Teresa Guiccioli e dare inizio a uno dei più stupefacenti miti della letteratura europea. Di Teresa Guiccioli si può dire soltanto che essa ebbe la disgrazia di sopravvivere troppo a lungo alla ragione
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stessa della propria celebrità. In modo che che ce ne sono giunte, riprodotte da tardivi ce la raffigurano ridicola e compresa di sé. | una sua lettera ci narra di averla incontrata
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le immagini osservatori, Stendhal in in un corri-
doio della Scala «petite femme grasse et blonde, assez
désagréable avec sa robe de soie verte qui recouvrait de facon ridicule des souliers en satin vert». I libri di me| morie sono pieni di aneddoti circa il suo secondo marito, il marchese di Boissy, che la presentava, orgoglioso, come «l’ancienne maîtresse de Lord Byron». Ma, al tempo dei suoi illustri amori, essa doveva esse-
re qualcosa di assai diverso. Diciassette anni, nata contessa Gamba, era relativamente colta e parlava francese,
«credeva di parlare inglese e di comprender il latino» (come scrive l’innamorato ma implacabile Byron), di carattere allegro e vivace e appassionata per la poesia di Dante. Era appena uscita dal convento che le avevano fatto sposare il conte Guiccioli, il più ricco proprietario della Romagna, che aveva più del triplo degli anni di lei. Il conte Guiccioli non è il personaggio meno strano di questo stranissimo terzetto: era un vedovo e correva con insistenza la voce che avesse avvelenato la sua prima moglie; si diceva pure che avesse ucciso un suo presunto rivale, un certo Manzoni; ma quest’ultimo fatto può sembrare impossibile a chi consideri il suo contegno più che remissivo di fronte alla relazione palese che Teresa ebbe per lungo tempo con Byron. La contessa era sposata da tre mesi quando incontrò il poeta in casa Benzoni, a Venezia. Quattro giorni dopo
egli la incontrò di nuovo e fece scivolare nella sua mano un biglietto contenente una infiammata dichiarazione d’amore. Due giorni ancora, ed essi furono amanti. Il primo effetto di questo amore fu che il marito si prese di una ardente amicizia per Byron. Lo invitò a ve-
nire a passare qualche tempo a Ravenna. Lui vi andò di filato, ma benché pregato con insistenza di alloggiare a
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palazzo Guiccioli, prese pudicamente alloggio in un’altra casa. Ma ogni giorno il conte veniva personalmente a
rilevarlo e in una grande vettura a quattro cavalli lo accompagnava in pompa magna dalla moglie. Questo riusciva a stupire anche il cinismo byroniano: «Si direbbe che io abbia corrotto il conte con l’oro britannico; la ve-
rità è che egli è di parecchie volte più ricco di me; e se mai sono io il suo debitore non fosse che per i quotidiani sontuosi pranzi che mi offre». Se i Guiccioli si spostavano, Byron era costretto (dal conte) a seguirli; così restarono due mesi a Bologna alloggiando nella stessa casa. Al ritorno a Ravenna, Byron, stanco di dover resi-
stere alle continue preghiere del conte, accettò l’ospitalità in un appartamento di palazzo Guiccioli. Passò a Ravenna gli anni 1822 e 1823. La città misteriosa, fulgente nell’oro delle sue basiliche, partecipe della nebbia luminosa di Venezia, piena di grandi e melanconici ricordi gli piaceva assai. E insieme alla dantofila Teresa andava spesso a inginocchiarsi sulla tomba di Dante. E sotto l’influenza di Dante, Teresa e del fratello
di lei, ardente patriota, s'infiammò anche lui per la libertà italiana, s’iscrisse alla società carbonara «Gli Americani», distribuì manifesti, organizzò complotti, importò armi dall’Inghilterra. Come sempre quando si trattava di affari pratici egli si mostrò mirabilmente lucido: le sue lettere di quegli anni contengono consigli perspicaci e realisti ai cospiratori emiliani che questi, più romantici di lui, si guardarono bene dal seguire. E gli sbirri pontifici tentarono di fargli la pelle, la notte, in una viuzza ravennate; ma il poeta, aiutato dal suo cane,
si difese bene e mandò due degli assalitori all’ospedale. Il Cardinal-Legato di Ravenna si trovava nel più grave imbarazzo: procedere contro Byron non poteva: erano proprio quelli i tempi nei quali l'Inghilterra tutelava a cannonate qualsiasi azione politica dei suoi sudditi. Intanto questo poeta con il suo talento, le sue carabine e le
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sue sterline poneva in grave pericolo il dominio pontificio in Ravenna. Come fare? L'ispirazione finalmente venne: Byron non poteva esser toccato, ma i Guiccioli
(che non avevano fatto niente) sì: un ordine di bando fu spiccato contro la coppia Guiccioli che se ne dovette andare «all’estero», cioè a Genova. Byron li seguì come un cagnolino ammaestrato; e la Romagna fu, per il momento, salva.
Genova, allora, era piena di profughi greci. Le popolazioni elleniche si erano, qualche anno prima, rivoltate contro i turchi: dopo alcuni effimeri successi i rivoltosi erano stati battuti e trattati con la brutalità solita degli Ottomani. Ma alcune città resistevano ancora e il loro eroismo, unito alla idea liberale che esse rappresentavano, infiammò i sentimenti di tutta l'Europa liberale. Comitati filo-ellenici si formarono in Inghilterra e Francia; dalla Grecia, dal Piemonte, dalla stessa Prussia giovani liberali partirono per aiutare i «clefti» a cacciar via i «Pascià». Il principe Mavrocordato, capo dei fuoriusciti greci, incitava Byron a dare l’appoggio del suo nome celeberrimo e della sua grande fortuna alla causa ellenica; il comitato di Londra, dimenticate le antiche beghe mo-
ralistiche, lo nominò suo rappresentante in Italia. Si fece balenare dinanzi alla sua mente la possibilità di ottenere la corona di Grecia una volta che questa, per sua opera, fosse liberata dagli oppressori. Byron si era, al tempo del suo primo viaggio, burlato dei greci moderni: «For Greece a sight, for Greeks a smile». Ma sotto la vernice della corruzione e del dandismo il suo cuore era un vero cuore di poeta: l’idea di poter riscattare dal servaggio i discendenti di Sofocle e di Platone infiammò Byron. Si votò anima e corpo alla causa greca: vendette tutto ciò che possedeva, acquistò armi e medicinali, noleggiò una nave, disse addio a Teresa e s'imbarcò. Giunse alle coste della Morea, si buttò dentro Misso-
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lungi assediata insieme a un pugno d’inglesi, d’italiani e di tedeschi; si batté con il solito temerario coraggio, ma soprattutto dovette anche combattere con le vanità, i puntigli, le rivalità dei greci, poco degni discendenti di Milziade. Le sue lettere di questo periodo sono splendide e commoventi: la delusione, il desiderio di continuare ad illudersi, la inattesa lucidità mentale, l'abilità diplomatica ne costituiscono la trama. Persuadendo, convincendo, corrompendo, combattendo, era sul punto di sor-
passare le rivalità levantine e le beghe meschinissime dei ribelli. Una «sacra unione» ellenica si profilava, la figura di Byron, purificatosi dagli scandali passati, giganteggiava sullo sfondo di quella bizzarra Europa del 1824. Ma la malaria perniciosa lo colse mentre stava per raggiungere la vittoria: il 19 aprile 1824 Byron moriva, nel momento in cui sulla città assediata e bombardata si scatenava un temporale. Fine in tutto degna di un grande poeta romantico. La notizia della sua morte percorse l'Europa come la folgore. In Inghilterra, nella parte migliore dell’Inghilterra voglio dire, la sensazione prevalente fu quella del rimorso. Tennyson, giovinetto, corse fuori di casa, appe-
na ricevuta la notizia, e andò ad incidere sulla scorza di una quercia le parole: «Byron, forgive us!»; Lamb scrisse che quella sera andò ad ubbriacarsi «perché dovevo dimenticare i peccati che, quale inglese, avevo commesso». Shelley e Keats però erano già morti, anch'essi vittime, ma ben pochi se ne erano accorti.
Ma l'Inghilterra ufficiale non si lasciò commuovere: fu rifiutata la sepoltura nella Abbazia di Westminster; la «Edinburgh Review», memore delle frustate ricevute,
pubblicò un articolo ignobile. Le tre donne che lo avevano veramente amato, la moglie, Augusta e Teresa Guiccioli gli sopravvissero a lungo.
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Hobhouse, un amico che lo aveva seguito in Grecia, giunse dopo un mese in Inghilterra: portava con sé un carico prezioso: il Dor Juan incompleto, le memorie autografe del poeta e una grande cassetta. Il Don Juan fu pubblicato, le memorie vennero bruciate alla presenza della vedova e di Augusta che non si salutarono e restarono immobili nelle loro gramaglie finché il fuoco non ebbe distrutte tutte le testimonianze dei loro errori. La cassetta venne aperta: conteneva più di trecento
miniature. Byron, uomo assai meticoloso, faceva dipingere il ritratto di tutti gli amici cui teneva, di tutte le donne che aveva amato. E ciascuna miniatura era racchiusa in una busta di marocchino: di marocchino verde per i ritratti di famiglia, di marocchino azzurro per i ritratti degli amici, di marocchino rosso per le amanti. Queste miniature sono ora esposte al museo Byron a Newstead. L’astuccio della miniatura di Augusta è verde, perché essa faceva parte della famiglia. Ma è foderato di rosso.
Byron: le opere Il problema che si pone in modo imperioso a chi voglia parlare delle opere di Byron è duplice: I) perché queste opere hanno avuto, quando furono pubblicate e per molti anni dopo, un effetto sulla letteratura mondiale che ha pochi altri paragoni; II) perché ad una gloria così rapidamente acquistata ha fatto seguito un disinteressamento così totale. La domanda è duplice, ma la risposta è unica: perché Byron si trovò, nella vita e nelle opere, ad incarnare il punto di vista romantico proprio nel momento in cui questo punto di vista si spandeva, dalla originaria cellula tedesca, in tutte le grandi letterature europee. Mutato
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l'orientamento del pensiero, le opere di Byron che incarnavano pienamente ma non superavano l’ideale romantico si trovarono ipso facto svalutate; a ciò contribuì anche la morte prematura del poeta, che non gli permise, come poterono fare Goethe e Hugo, di seguire l’andazzo dei tempi e di evolversi. Che l’ispirazione poetica di Byron fosse di assoluta originalità sarebbe difficile sostenere. Niente, in nessun campo, nemmeno i funghi, nasce come un fungo. Innumerevoli accenni, miriadi di brividi precursori fanno da preludio ad ogni grande opera, letteraria, politica © scientifica che sia. E noi chiamiamo creatore quell’ingegno che ha saputo soltanto dare la forma perfetta a ciò che prima era soltanto aspirazioni e tentativi velleitari. Ma queste che ho detto sono verità ovvie Sembrerebbe che si dovesse attribuire a Byron il merito di aver introdotto l’esotismo, il gusto dell'Oriente
nella poesia europea. Ma nella stessa letteratura inglese il Vathek di Beckford e il Rasselas di Johnson lo avevano di molto preceduto. Non parliamo poi della letteratura francese, dove, dal lontano Galland, nel diciassettesimo secolo, fino a Bernardin de Saint Pierre, a Buffon e a
Chateaubriand l'influsso esotico è stato tanto importante. E nella letteratura italiana basta citare i nomi di Algarotti e di Daniello Bartoli (e anche dell’abate Casti, cui Byron tanto deve). E avevo dimenticato il crudele Bajazet di Racine, autentica tragedia orientale nascosta sotto i versi composti e bene educati del secolo di Luigi XIV. Ma ciascuna di queste opere, o per scarsità di valore artistico, o perché, come il Bajazet, «mascherata», o perché rivolta ad altri fini, scientifici o religiosi (Buffon, Chateaubriand, Bartoli) era rimasta chiusa in se stessa e
non aveva suscitato scintille nella gran massa del pubblico. Per primo Byron fece dell’esotismo l’espressione di stati d'animo di rivolta, d’insofferenza, di disgusto verso
la società organizzata, e di colpo l'incendio si produsse.
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Come sempre avviene, quando una idea si incarna anche i grandi, rimasti timorosi dinnanzi ai conati, sono invo-
gliati a seguire il luminoso precursore, anche se minore di loro. Così Goethe scrisse il West-Ostlicher Divan, Hugo Les Orientales, Berchet i Profughi di Parga. Sotto la percossa byroniana ogni selce diede quel che poté: capolavori maggiori di quelli dell’incitatore, o modeste opericciuole. Un altro elemento della tematica di Byron, quello prettamente romantico dell’individuo disdegnoso, colpito da misteriose calamità, del ribelle ammirevole, del bandito sublime, aveva avuto, per restare nell’ambito
letterario inglese, un pre-echeggiamento illustre nel Castaway di Cowper. Ma in Byron per la prima volta questo tema non fu pura eccitazione letteraria, sfogo verbale non necessario (come i Réuber di Schiller) ma espressione di dolori reali, di sincera rivolta che tutta una vita doveva autenticare. Hertz, Branly, Augusto Righi e Popov si erano occupati delle onde elettromagnetiche e se ne erano serviti in laboratorio; Marconi però fu il primo che mediante esse . facesse vibrare un oggetto a trecento metri di distanza. E a buon diritto egli passa per l'inventore della radio. Rileggendo, in occasione di questi saggi, quasi tutte le opere di Byron, mi sono accorto di una ragione, contingente, della loro rapida perdita di popolarità: Byron, gonfio di sentimento romantico, fu però un prosodista, uno stilista settecentesco. Noi che nel 1954 siamo adusi a che ogni idea sbandierata per nuova si crei una sua forma volutamente originale (intendo parlare di forma non nel senso crociano, ma in quello più umile di verseggiatura, taglio di scene, sintassi) restiamo straniti nel vedere che Lara si esprime in strofe spenseriane e Caino in rigide ottave. Artefice perfetto del verso, Byron non previde che antidatava le sue opere; egli versò il vino nuovo nelle otri vecchie e le conseguenze furono danno-
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se alla sua fama. Dall’alto dei loro geni maggiori, né Goethe né Hugo commisero questo errore. Differentemente dai suoi contemporanei inglesi, Shelley e Keats, Byron non è poeta la cui opera sopravviverà intera; quando l’attuale generazione sarà discesa
nel «trabocchetto» montaliano, Byron sarà apprezzato al suo giusto valore, che è grande. Ma di lui sopravviverà un’antologia di trecento pagine che conterrà l’intero Don Juan, quasi tutto il Ch:/de Harold's Pilgrimage, una ventina di liriche e qualche brano del Lara, del Cazr, del Giaour. Niente sopravviverà dei drammi, niente della
Vision of Dante. Così purificato dalle sue pose, dalle sue sforzature, da quel che di tracotante insieme e di puerile vi è in tante sue opere, ciò che rimarrà sarà eguale ai più
grandi — ai più grandi della categoria, ben inteso. Noi però adesso dovremo esaminare partitamente ogni sua opera. Contro la mia naturale tendenza mi sforzerò di esser breve, ma saltare non si potrà perché di Byron anche le opere la cui sovrastruttura estetica è fallita sono opere importanti nella storia letteraria. Delle liriche raccolte sotto il titolo di Hours of Idle-
ness abbiamo di già un po’ parlato ed esse non meritano un più lungo discorso; della trionfale elegia English Bards and Scotch Reviewers abbiamo detto il bene che si merita; e del suo poema sulla poesia oraziana sarà meglio tacere. i Ma queste opere sono mere Juverilia. È con il viaggio di Byron in Oriente e con il Chz/de Harold che s’inizia la sua opera veramente originale. I primi due canti del Chz/de Harold's Pilgrimage furono pubblicati nel 1812. Il loro successo fu prodigioso. Per la prima volta il pubblico inglese lesse una narrazione nella quale l’artista era riconoscibile, per la prima volta udì parlare in versi di avvenimenti contemporanei, per la prima volta ascoltava un ritmo discorsivo, una musica maliziosa nella quale l’ironia, la tenerezza, il sen-
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so della vita e della morte erano mescolati e serviti dinanzi a lui, come un cocktail. Ma quel che fece l’impressione maggiore fu la personalità dell’autore quale traspariva da quelle strofe: s’intravedeva un essere sensibile al bello, ai grandi spettacoli della natura, alla bellezza
delle donne; ma nel contempo disperato, etrante alla ricerca di una voluttà che non trovava, dileggiatore cinico dell'amore e della gloria militare, i due grandi miti dell’epoca. Questo genere di personaggio, che a noi adesso appare stucchevole per le troppe imitazioni inferiori, fece l’effetto di un prodigio. Al tenace attaccamento inglese alla propria terra sembrò deliziosamente sacrilega la lirica con la quale quasi si apre il poema e che con allegro cinismo dice «buona notte» all'Inghilterra. Questa lirica sembra a noi adesso assai men che mediocre, bolsa e malamente stiracchiata; allora la novità inaudita di ciò che essa esprimeva fece credere a una consistenza
poetica che, nella lirica, patentemente manca. Detto questo e fatte notare inoltre alcune affettazioni linguistiche e molti giri di frasi gratuitamente arcaicizzanti (a cominciare da quel «Childe» con la e in fondo e usato, all’antica, non come «bambino» ma come «giovane»),
rimane il fatto che esso è un poema assai bello e carico di sincera angustia. Il Grand Tour era, come si è già detto, un’abitudine secolare della ricca gioventù inglese. E il Childe Harold non è che la narrazione di un Grand Tour. Ma l’itinerario è mutato: la guerra napoleonica sbarra le strade di Francia, d’Italia e di Germania, itine-
rari obbligati e consueti di questo turismo giovanile. E il giovane Aroldo deve spingersi in paesi assai meno noti, assai meno comfortable, in Spagna, per esempio, in metà della quale si combatte ancora e nella quale sono fresche, visibili e «olfattive» le tracce dei combattimenti recenti.
Dalla Spagna si passa a Malta, cittadella in armi, sem-
pre esposta a una potenziale minaccia. Da Malta Aroldo
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sbarca in Epiro e attraverso paesaggi desolati e rovine di antiche culture giunge a Atene, a Costantinopoli, centri di civiltà distrutte e calpestate dai barbari. Per la prima volta da secoli un giovane europeo si accorgeva che le civiltà sono anch’esse mortali. E Aroldo portava anche in se stesso i germi di disfacimento: benché Byron non avesse ancora attraversato i drammi che segnarono la sua vita, egli si presenta di già nel poema come «maledetto», un essere al quale è riservata la sorte
più amara. Ed è appunto questo che rende il poema commovente e totalmente differente, e su un ben altro piano che una raccolta di «schizzi di viaggio». Da questo suo viaggio in Oriente Byron trasse argomento per le sue opere successive, che, sotto mutato nome, ci mostrano cosa il «Childe» facesse in quel tempo. La trama di alcune di esse, infatti, deriva da avventure
realmente occorse a Byron in Grecia, trasfigurate, va da sé, e ingigantite. Queste opere sono tutte narrative. Il
Lust zu fabulieren fu sempre molto spiccato nel nostro autore, e si sarebbe tentati di incuriosirsi per ciò che
avrebbe potuto diventare se invece di scrivere poesie avesse scritto romanzi. Curiosità che, del resto, dura poco perché, riflettendo, ci si accorge che i romanzi che avrebbe scritto sarebbero stati nel genere del Mozk o dei Mysteries of Udolpho. Comunque sia, Byron narrò quasi sempre: financo la sua più celebre lirica, The Prisoner of Chillon, è una narrazione come lo è, in un piano
superiore, quel Dor Juar che è il suo capolavoro e che lo occupò per tanta parte della sua vita. I racconti poetici che Byron scrisse durante il suo periodo londinese sono The Giaour (1813), The Bride of Abydos (1813), The Corsatr (1814), Lara (1814), The Sie-
ge of Corinth (1816) e Parisina dello stesso anno. The Giaour narra la storia di Leila, una schiava turca che il padrone fa legare in un sacco, come un «blind puppy» shakespeariano, e gettare nel mare per punirla
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di una sua infedeltà. Ma il Giaurro, suo amante, la ven-
dica pugnalando il crudele padrone. Pare che Byron in Grecia facesse qualcosa di simile. The Bride of Abydos è la storia assai complicata di Zuleika fidanzata di forza a un signore che non le piace. Essa fugge aiutata da Selim che essa crede suo fratello ma che è di fatto suo cugino. Ma il cattivo padre di Zuleika uccide Selim e la bella intristisce e muore. Il Corsaro e Lara formano il gruppo più famoso di questi poemetti. Nel primo vediamo Corrado, corsaro patriota greco, gettarsi in un'impresa disperata contro la flotta turca, abbandonando Medora, la sua amante ado-
rata. Ma l’impresa fallisce ed egli è fatto prigioniero e condannato a morte. Ma Gulnara, concubina del Pascià vincitore, s'innamora di lui, lo salva, uccide il Pascià e
fugge con Corrado. Ma giunti alla casa di Corrado vedono che Medora è morta di dolore. Il corsaro allora sparisce e nulla si sa di lui. In Lara egli ricompare in Spagna accompagnato da Kaled, che è poi Gulnara travestita da paggio. Ma travolto in un combattimento è ferito e muore fra le braccia della sua amante numero 2. L’assedio di Corinto narra la storia, vera, di quella
città in possesso veneto e assediata dai turchi nel 1715. Alp, duce degli ottomani, è un rinnegato innamorato per giunta di Francesca, figlia del governatore veneziano. Nell’assedio egli è ucciso e seguito nella morte dall’amata. Parisina è la nota storia dell'amore incestuoso di questa duchessa di Ferrara. Ho tenuto a narrare l’intreccio di questi poemetti affinché ne possiate apprezzare l’ingenuità pretenziosa e quel che, ai nostri tempi almeno, appare pessimo gusto. Ma non vorrei che da questo deduciate che essi sono roba da buttar via. La loro importanza storica, anzitutto, è di prim'ordine. Il protagonista che si ripresenta sem-
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pre è quello che conosciamo: l’uomo fatale, maledetto dalla culla, colmo di ogni vizio ma redento dalla consa-
pevolezza del suo peccato, prode e forte amatore. L’ideale romantico, in poche parole, ma soprattutto un autoritratto del poeta, autoritratto profetico, potremmo dire, perché niente di veramente fatale era per ora avvenuto nella sua vita. Questo personaggio romantico che è
sempre il medesimo vien però volta per volta presentato con progressione psicologica e sfumature che lo rendono, per quanto possibile, vivo. In Lara questo individuo (o per esser più esatti: questo momento psicologico di
Byron) attinge il massimo della sua concretezza e noi possiamo così assistere allo spettacolo singolare di un personaggio vivo che si muove in una vicenda di cartapesta. Lara è stato il padre di tutti i tenebrosi bei giovani che dovevano dopo di lui infestare il mondo: Antony, Rubempré, giù giù fino al Rolla mussettiano (che addirittura quasi ne porta il nome rovesciato) sono dei Lara
in costume moderno e, Dio mi perdoni, financo Julien Sorel avrebbe avuto alcuni atteggiamenti diversi se il pirata Corrado fosse morto sul serio invece di risuscitare. Le figure femminili sono delicatamente tratteggiate: Gulnara e Zuleika in particolare ci appaiono come desiderabili e graziose donnine, presentimenti delle pittoresche e squisite donne del Dor Juan. Nel Giaour vi è una grande abilità puramente tecnica nella presentazione del racconto: esso è raccontato successivamente da due persone, novità inaudita per il tempo e che ottiene l'immancabile effetto «stereoscopico» di questo metodo di narrazione; dal Gizowr se ne inizia l’uso nella letteratura inglese, dove esso sarà portato al suo massimo sviluppo da Lord Ji di Conrad con l’effet-
to atutti noto. Tanto nella Bride of Abydos che nella Parisina compare il tema dell’incesto che sarà centrale per la vita di By-
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ron; la data di composizione di questi due poemi corrisponde anche ai primi incontri con Augusta. Questi elencati sono elementi esteriori in una opera di poesia. Rimane da porsi la domanda: vi sono bellezze poetiche, approfondimenti lirici in questi poemi? Lungi dall’essere interamente poetici, questi poemetti presentano a tratti squarci di vera poesia. La descrizione delle desolate coste greche nel Gizo0ur, le scene marittime sparse ovunque, la presentazione di Lara nel poema omonimo e le frequenti carezze verbali attorno alle figure delle donne impigliate in queste assurde vicende, sono vera, talvolta alta poesia. Adesso vorrei, contravvenendo all’ordine cronologico delle opere, parlare un po’ delle liriche di Byron, delle migliori beninteso, che sono sparse un po’ ovunque. Le migliori di esse sono d’impareggiabile valore; e se non mi credete leggetele. Leggete le Stanzas for Music con quel loro ritmo accorato, con quel gioco di antitesi psicologiche così caratteristico del poeta; leggete So we’! go no more a-roving che ha la lucentezza di una lirica di Shelley; non disprezzate la celeberrima Fare thee well nella quale si esprime un dolore finalmente realizzatosi e non più soltanto presagito; avvicinatevi con simpatia alla serie di magnifiche e forbite liriche ad Augusta; cacciate lontano da voi l’immagine un po’ trita del «poeta maledetto» e assaporate nella sua immediatezza poetica la famosa When we two parted che è uno dei più commoventi esemplari di quel pianto sommesso dei poeti che è «le plus grand témoignage que nous puissions donner de notre dignité». Nelle Hebrew Melodies si trovano alcune fra le più celebri (e migliori) liriche di Byron: She walks in beauty,
Ob! weep for those ed il canto di Saul; in esse la necessità di costringersi a seguire un modello di compiuta rigidezza ha contribuito a rendere più muscoloso, per co-
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sì dire, il verso di Byron che può peccare talvolta per soverchia fluidità. Per completare questo spicilegio della lirica byroniana debbo citare la bellissima ode The Isles of Greece, irruenta, sarcastica e melanconica, che è forse il frutto migliore, poeticamente parlando, del famoso viaggio in Oriente. Ho detto «sarcastica» e con questa parola voglio accennare a un’altra faccia di questo grande ingegno: quella del satirico. Vi sono miriadi di epigrammi di Byron, tutti buoni, e che racchiudono in quattro o sei versi alte cari-
che esplosive. Leggendoli si vede e si capisce come si facesse tanti nemici. Ma non è soltanto negli epigrammi che si sfrena l’impeto irruente del poeta: questa vena sferzante si trova quasi ovunque: nel Dor Juan in particolare. E adesso che la lirica ha voluto abbandonare una delle sue armi più potenti siamo costretti a dire che nel 1954 quel che occorrerebbe alla nostra società... sarebbe un Byron, un poeta cioè che non fosse schiavo del pubblico o degli editori, un poeta con venti milioni di reddito, che osasse «appeler un chat un chat et Rolet un fripon». Byron aveva appena finito di comporre le «novelle poetiche» delle quali ho parlato dianzi (la Parzsira fu addirittura pubblicata dopo che ebbe lasciato l’Inghilterra) che dovette espatriare. Durante gli anni immediatamente seguenti egli compose il Prisorer of Chillon che tutti conosciamo e che è meritatamente famoso, e il Ma-
zeppa, poemetto narrativo anch'esso e nel quale l’avventuriero ucraino serve, come servirono i ribelli greci, ad ammantare le malinconie dell’autore. Ma l’attività di Byron in esilio (nel primo periodo dell'esilio) fu in primo luogo drammatica. L’uno dopo l’altro scrisse Manfred (1817), Cain, Marin Faliero, The Two Foscari e Sardanapalus (1821). In essi troviamo una
singolare alternativa fra il romantico (Manfred e Cain) e il classico. E poiché non si può dubitare che Byron fosse
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un romantico, è facile dedurre quanta freddezza e quanto impaccio si possano riscontrare nei drammi cosiddetti «classici». Nel Manfred invece e ancor più nel Cazr, scritti sotto il diretto influsso di Shelley, ritroviamo la già nota personalità di Byron, maturata però e irrigidita. Caino è una grande creazione: egli è il ribelle totale, il negatore di Dio e della necessità stessa della vita; sentimenti, questi,
espressi in versi di bronzea solidità, in una trama oscura e appesantita da nuvole di uragano, cui danno ristoro deliziosi momenti idillici. Una grande opera, ben migliore, a mio incompetente parere, del più famoso Manfred che è davvero un po’ marionettistico.
Ve ne prego, leggete Cazr e potrete anche a questo proposito notare quanto lontano si sia stesa l'influenza byroniana se essa ha toccato anche, e profondamente toccato, Baudelaire, il suo fratello-nemico.
L'ultimo periodo dell’attività di Byron, il periodo Guiccioli per intenderci, ce lo mostra quasi interamente dedicato ad argomenti italiani. Vi è un Larzent of Tasso che non vale quasi niente; vi è la Prophecy of Dante in terza rima che val di più e che fu scritta per incitare gli italiani alla lotta per la libertà; e vi è Beppo, una specie di novella del Boccaccio in versi, e una infelice Francesca da Rimini con uno strano Gianciotto, accomodante e
bizzarro, che dev’esser stato suggerito dal simpatico conte Guiccioli. L’opera migliore di questo periodo è, però, la sola di argomento non italiano, la splendida Vision of Judgement, ariosa, allegra e crudele satira della corte inglese.
Quando, in quella piovosa serata del 7 luglio 1824, la vedova e la sorella di Byron assistettero al rogo che consumava le memorie del poeta, esse credevano che nelle fiamme si consumassero le prove della durezza dell’una e del peccato dell’altra. Ma tutto ciò che l’uomo ha com-
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piuto rimane eterno: e dopo un secolo non vi è partico-
lare di quella scabrosissima vicenda che non ci sia noto. Ma quando anche nulla ci fosse rimasto delle lettere,
delle memorie altrui, il Dor Juan ci avrebbe rivelato tutto quel che fu il tormento di Byron. È sufficiente una superficiale conoscenza della biografia di lui per ritrovare in questo poema perfetto tutti i personaggi, tutte le passioni, tutti gli «amori» di Byron. La madre di Don Juan, per non citare che questo, è la noiosissima moglie del poeta. Poema perfetto, ho detto, e lo mantengo. La varietà ritmica, il tono beffardo spesso e malinconico talvolta, le
deliziose figure delle amanti che sono tra le più tenere e ironiche figure della letteratura, la straordinaria varietà
dei temi, il tono sempre appropriato ad essi; il senso della vita avventurosa di quel straordinario Settecento; l'ironia e la tenerezza, la levità del tocco, la divina svaga-
tezza, tutti questi elementi commisti e inoltre esaltati dalla perfezione del verso rendono la lettura di questo insigne capolavoro una delle esperienze più deliziose che un uomo di cultura possa attraversare. Byron (il Byron del Don Juan) è riuscito ad essere quel che Ariosto avrebbe desiderato rappresentare. E non ripeterò, perché troppo ovvio, il paragone del Don Juan con la musica mozartiana, benché esso sia perfetto. Il miracolo è tanto più sconcertante in quanto, negli stessi anni in cui si formavano gli «scherzi» elegantissimi che compongono questo poema, Byron scriveva molte altre cose che davvero non lo valgono. Per i nostri nonni Byron era l’autore di Lara e di Manfred. Per noi è anzitutto l’autore di Dox Juan. Fedele al mio assunto debbo adesso parlarvi delle relazioni fra Byron e il melodramma italiano. Le responsabilità del poeta sotto questo riguardo sono pesanti. Non so se le torte indigeribili che i nostri nonni inghiottirono sot-
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to il nome del Corsaro e di Marin Faliero siano uscite direttamente o no dalle cucine di Byron. Del resto, importa poco. Quel che è certo è che i vari Manrici, Edgardi e Barnaba che ancora si aggirano, buffi fantasmi, intorno a noi sono i figli di Lara e di Corrado. Hanno la loro ululante prosopopea, la loro tronfia vuotaggine. Con l’aggravante che essi gridano, rintronano le orecchie con i loro falsi amori, false vendette e gli occhi con le loro finte barbe e finte spade, mentre, per lo meno, i loro padri restavano muti, chiusi nelle pagine di un libro. Byron padre spirituale del melodramma; è, ahimè, vero. Però come ho detto noi vogliamo considerare in lui soltanto il padre di Dow Juan. Finalmente ho finito di parlare di Byron. Questa parte delle mie letture è stata sin da principio male impiantata e peggio svolta. Se non fossi troppo pigro straccerei tutto per ricominciare.
Ma le mani mi prudono per bruciare questi fogliacci appena li avrete letti.
SHELLEY
Non è possibile che, nel corso di queste letture, non vi siate accorti che io non son privo di simpatia per gli inglesi. Non sono cieco però di molti difetti che fanno parte del loro carattere: uno dei quali è un sel/fcontentment,
una soddisfazione di se stessi che, se è giustificata per più di una ragione, lo è assai meno in riguardo di altre. Per esempio capita spesso di leggere degli autori inglesi che esaltano il contegno sempre liberale dell’Inghilterra riguardo ai propri scrittori paragonandolo con le persecuzioni subite dagli intellettuali di altri paesi, in ispecie da parte della Russia degli Zar. E giù osservazioni maligne sulle persecuzioni politiche subite da Pushkin, Lermontov, Dostoevskij; si raccolgono i pettegolezzi più infondati circa i cosiddetti «falsi duelli» nei quali persero la vita i primi due poeti, si ripetono le storie purtroppo autentiche circa la condanna a morte e la vita da ergastolano del grande romanziere. Ma questi intellettuali inglesi fingono di dimenticare che pochi decenni prima l’Inghilterra aveva avuto la sorte di possedere tre poeti di assoluto prim'ordine e che tutti e tre dovettero morire in esilio, perseguitati da una canea di odio inglese, di quegli inglesi cui non garbavano le idee politiche di Byron e di Shelley e, peggio ancora, che non approvavano le idee estetiche di Keats. E sulla loro memoria, e soprattutto su quella di Shelley, pesava ancora fino, a quarant'anni or sono una specie di
riserva morale, più ridicola che pericolosa. Ricordo ancora che, durante la mia infanzia, il nome di Shelley si trovava stampato in «nota», in minuscoli
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Sor
caratteri, fra gli scrittori secondari, nel primo elementare trattatello di letteratura inglese che io abbia letto. Occorre però dire che queste persecuzioni non erano
governative ma sociali, cioè effettuate da larghi strati della società inglese, stupidamente ma sinceramente indignata; il che salva alquanto l’aspetto politico della cosa. Nato nel 1792 da una antica, nobile e ricca famiglia (gli Shelley sono i «primi» baronetti inglesi) Shelley studiò normalmente, compose pessimi versi e non diede noia a nessuno finché entrò nell'Università di Oxford. Giunto lì si manifestò immediatamente il suo carattere ribelle e impavido. Insieme ad un amico, Hogg, pubblicò dopo pochi mesi un opuscolo, The Necessity of Atbeism. Bisogna ricordare che l’Università di Oxford è una istituzione religiosa per comprendere l’ampiezza dello scandalo che si produsse. Shelley e Hogg furono espulsi dall’ Università diciotto minuti dopo che l’opuscolo fu pervenuto nelle mani delle autorità universitarie. Una settimana non era trascorsa che tutte le università inglesi avevano sbarrato le loro porte ai colpevoli. Dieci giorni dopo Shelley ricevette dal padre una lettera che gli vietava l’ingresso alla casa paterna e gli annunziava che da allora in poi doveva accontentarsi di un assegno mensile, del resto lautissimo.
Aveva diciannove anni. Installatosi in un appartamento a Londra si occupò immediatamente di sedurre una ragazza sedicenne, Harriet Westbrook, molto bella, molto stupida e di umilissi-
ma condizione. Dopo qualche mese, però, egli la condusse in Scozia dove la sposò. Matrimonio, del resto,
irregolare perché compiuto da due minorenni sprovvisti dell’autorizzazione paterna. Dopo questa alquanto simbolica cerimonia Shelley lasciò la moglie e si recò nel Galles in una colonia di vegetariani. Se ne disgustò presto ma non prima di aver scritto A Vindication ofNatural Diet, un libretto in prosa nel
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quale le rape e le patate e le carote che egli raccomanda come alimenti sono avvolte in un turbinio di immagini poetiche alle quali non debbono essere avvezze. Dopo una breve permanenza in Irlanda, Shelley si stabilì con la moglie a Lynmouth, dove venne a raggiungerlo Elizabeth Hitchener, una maestra di scuola di dieci anni più vecchia di lui (cioè non ancora trentenne) che già da due anni era la sua amante. L’istinto poligamico doveva essere assai sviluppato in Shelley, i cui amori erano sì plurimi ma sempre raccolti sotto il medesimo tetto. La povera Harriet si adattò dapprima a questa singolare combinazione, ma in seguito si ribellò e riuscì a far mandare via la Hitchener che del resto aveva tradito largamente il poeta con numerosi primi venuti.
Questo di Lynmouth fu il periodo violentemente politico di Shelley. Egli scrisse lì la sua Declaration of Rights, che è un compendio dell’anarchismo più assoluto e dell’ateismo più intransigente. A questo suo scritto egli volle dare la più larga diffusione e si servì financo di palloni e di bottiglie gettate nei fiumi e nel mare per diffondere il libro, suscitando ricerche delle autorità e la più attonita sorpresa dei buoni villici che si vedevano piovere nel cortile delle loro fattorie queste pagine incendiarie e incomprensibili. Nello stesso tempo scriveva Queer Mab, un lungo
poema nel quale, sotto la maschera di un racconto di fate, egli propugna le stesse idee antireligiose e sovversive. In Queen Mab (1813) si trovano di già pochi versi splendenti, di quei versi luminosi e coloriti quali Shelley doveva poi comporne tanti. Frattanto gli nacquero due bambini, Ianthe e Charles. E poiché aveva deciso di separarsi da Harriet, volle prima sposarla sul serio, in modo da mettere quella infelice a posto dinanzi alla legge. In quel torno di tempo egli divenne l’amante di Mary
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Wollstonecraft Godwin, figlia del Godwin riformatore del quale abbiamo parlato e della di lui moglie, anch’essa scrittrice. Egli andò a passare qualche mese in Svizzera insieme a Mary e a una sorellastra di lei, Claire, che era anche sua amante come lo era pure di Byron. (La testa gira.) In Svizzera incontrarono Byron e si annodò l'amicizia della quale si è parlato. Ma dopo qualche mese ritornò in Inghilterra e qui i nodi vennero al pettine e la tragedia scoppiò: anzi ne scoppiarono due: nell’ottobre 1816 Fanny Imlay, un’altra sorellastra di Mary, si uccise perché Shelley (eccezionalmente) non voleva essere suo amante; due mesi dopo Harriet, la moglie abbandonata, si uccise anch’essa. La sorella di Harriet de-
nunziò il vedovo Shelley per aver causato la morte della moglie con i suoi maltrattamenti prima e il suo abbandono dopo. Da queste accuse egli fu assolto ma il tribunale gli tolse la custodia dei figli avuti con Harriet. L’arcangelo procedeva tra i cadaveri.
Ma era davvero un arcangelo, e cominciava a mostrarlo. Queen Mab era ormai largamente sorpassata: Alastor, scritto nel 1815, è il primo suo poema d’indiscutibile bellezza, per il quale adottò la musicalità austera dei versi sciolti di Wordsworth. I suoi ultimi versi vivranno finché esisterà un individuo capace di comprenderne la oscura bellezza. Rimasto vedovo, parecchie volte vedovo anzi, Shelley si risposò con la sua Mary Godwin e ripartì per la Svizzera; non doveva più tornare in Inghilterra. Rinnovò la sua amicizia con Byron, viaggiò su e giù per l’Italia, sempre accompagnato dalla moglie e da Claire. Malgrado numerosi altri amori fu questo un periodo più calmo nella sua vita. E sotto l’influenza di questa relativa pace e sotto quella di Emilia Viviani, una semi-reclusa pisana
che gli ispirò un violentissimo amore una volta tanto platonico, il suo genio sbocciò in una fioritura sontuosa. Egli era in piena produzione, nella produzione delle
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sue opere più divine, quando l’8 luglio 1822 s’imbarcò su una piccolissima barca a vela per andare da Livorno a La Spezia. Con lui era Williams, la cui moglie era l'amante di Shelley. Scoppiò un uragano, ma che cosa sia veramente avvenuto non si sa. La barca fu ritrovata
intatta, ma i cadaveri di Shelley e Williams furono gettati dalle correnti sulla spiaggia di Viareggio. Byron, che era a Pisa, accorse insieme a Leigh Hunt e
Trelawny, e venne compiuto il rito dell’incenerimento del corpo del poeta. Le ceneri e il cuore, rimasto intatto nelle fiamme, vennero sepolti nel cimitero del Testaccio a
Roma. «Cor cordium» è scritto sulla lapide, e sotto sono incisi i versi funebri e marini della Tempesta. Carducci scrisse per questa tomba una delle sue liriche peggiori. Dopo lo A/lastor Shelley compose The Revolt of Islam. Questo lungo, troppo lungo poema è preceduto da un’altera prefazione nella quale si rivendicano e si esaltano i motivi ideali della rivolta del poeta. Shelley si richiama a tutti i suoi predecessori nelle idee ateistiche e umanitarie, e in primo luogo a Lucrezio. Segno però della sua ancora non completa arcangelicità, egli trascura di nominare, fra i suoi santi patroni letterari, Blake, la
cui influenza sul poema è davvero palese. Non già il Blake delle brevissime e fatate liriche, ma il Blake ponderoso e tonante e visionario dei «libri profetici». Tutto il poema infatti è impostato su una serie di visioni, e voci profetiche intervengono ad ogni piè sospinto ad ammonire o ad incitare. Alcune strofe, specie nella parte finale, sono piene di un sentimento di rivolta e di empietà che confina con la bestemmia. Shelley, che, come si è detto, aveva adoperato, da maestro diplomato nel Conservatorio Celeste, il sobrio verso sciolto di Wordsworth nell’ A/astor, usa, nella Re-
volt of Islam, il più ricco e il più colorito dei metri inglesi: l’incomparabile strofe spenseriana di nove versi, sapi-
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di i primi otto, adagiantisi poi nella pacata solennità del nono, alessandrino. E adopera questo difficilissimo metro con maestria insuperabile, sfruttando all’estremo delle possibilità le risorse infinite di pause e di ripresa, tanto da gareggiare con lo Spenser medesimo, il che non è davvero piccolo elogio, come sapete, o piuttosto come, per colpa mia, non sapete, perché abbiamo ignominiosamente trascurato la lettura di Spenser. Malgrado la grevità del soggetto, la poesia di Shelley già brilla in questo (noioso) poema di tutta la sua sopraterrena levità. Le strofe introduttive dedicate a Mary (Godwin) sono bellissime e in tutta l’opera comincia a snodarsi quell’incomparabile corteo di immagini luminose e floreali, quelle soavissime figurazioni velate che l’arcangelo scrive quando più vivi si riaffacciano alla sua mente i ricordi del cielo. Di un sapore tutto diverso sono i versi sui flagelli, vigorosi e asciutti, bellissimi. Un poema che, malgrado le sue proporzioni, vale ampiamente la pena di esser letto, non fosse che per assaporare il godimento sensuale della strofa sontuosa e per cominciare ad avvicinarsi allo stile particolarissimo delle figure e dei simboli shelleiani. Colgo l'occasione per dire che Shelley va letto intero (con la sola eccezione di Queen Mab e di Rosalind) e anche se non lo ripeterò più vi prego di considerare che l'esortazione: «Leggetelo!» è implicita fra rigo e rigo di quanto scriverò più oltre. Subito dopo The Revolt of Islam nacque il Prometheus Unbound. Composto a Roma, esso venne, come
ci racconta Shelley stesso, quasi interamente scritto fra le ginestre che invadevano le Terme di Caracalla, che io ricordo ancora e che adesso sono scomparse perché l’insito morbo italiano ha voluto che anche quelle solenni rovine divenissero scenario per melodrammi. Shelley inizia il suo dramma al punto in cui Eschilo lo ha lasciato; o per meglio dire, Shelley ha tentato di resti-
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tuirci il Prorzeteo liberato di Eschilo che è andato perduto. Ma mentre Eschilo immaginava che Prometeo fosse alfine sciolto dai vincoli, essendo giunto a un compromesso con Zeus, in Shelley Prometeo non si riconcilia affatto con il tiranno ed è l’Universo, sono le forze co-
smiche più forti del Dio, che finalmente lo liberano. Ma dopo questa liberazione il poeta ci lascia intravedere ancora millenni di travagli e di dolori per l’uomo. Lo scrittore anti-redenzionista insorge contro una facile e non
combattuta vittoria dell’uomo e non scorge un avvenire migliore se non quando Prometeo avrà asservito anche quelle forze cosmiche atee che di già hanno liberato lui stesso. . Non esiste poesia moderna più alta del Prorzeteo. Il primo atto è il più sublime e in esso possiamo vedere come Shelley potesse sublimare e sorpassare di miriadi di volte l’influenza byroniana, pur utilizzandola. Non si sa, in verità, da qual parte voltarsi, se più ammirare la straordinaria calma con la quale Shelley maneggia il suo soggetto divino, aggirandosi tra gli Dei, la Terra e Prometeo con una composta familiarità che denuncia subito l'Arcangelo avvezzo a conversare con gli Eterni; o la radiosa sublimità delle descrizioni naturali, fra le più eccelse di questo paesaggista superiore; o l’irruenza dei cori, o la folla delle immagini, tutte significative, tutte
pensose, che ci assale ad ogni voltare di pagina. Gli atti secondo e terzo ci mostrano Shelley in un umore non meno alto ma più calmo e che modera con consumato uso dei freni alcuni degli slanci lirici più alti della poesia inglese. Il quarto atto contiene alcuni dei versi maggiori di Shelley, ma nel suo insieme riesce inferiore ai tre primi, pur restando superiore ai nove decimi di checchessia abbiano scritto altri. Alcune immagini hanno l’«incomprensibile» bellezza, la facoltà di ferirci il cuore indipendentemente dalla ragione che troviamo talvolta in Shakespeare. La luna, per
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esempio, che rivolta a Demogorgon le dice: «I hear, I am a leaf shaken by thee», non esprime niente di razionale, ma, ben di più, tocca un che d’ineffabile in noi che
incide per sempre nella memoria queste poche parole. Non so spiegarmi. E così pure i cori della Feerie in principio, tutto ciò che dice Pantea, sono non più poesia ma quasi fisici tocchi alla nostra anima. È inutile spendere brutte parole su parole di diamante. Ho riletto adesso il Prometeo e l’ammirazione che ho provato, molto maggiore di quella subita otto o nove anni fa, mi toglie la parola. Dalle vette del cosmo, l’arcangelo ha voluto discendere fra la più abbietta umanità, scrivendo i Cerci nel 1819. Composta sotto l'impressione fatta su Shelley dal famoso (presunto) ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni, questa tragedia è di ispirazione puramente lirica; il linguaggio è divenuto estremamente semplice; la paura, che è il filo conduttore di tutto il dramma, è espressa in tutte le sue più sottili gradazioni. La tragedia pare sia irremissibilmente irrappresentabile. Dopo, la vena di Shelley subì un periodo di stanchezza. Rosalind and Helen vale poco, divaga e non soddisfa. Ma nella lirica illustre Lires Written Among the Euganean Hills l’arcangelo si è di nuovo nutrito di ambrosia e il verso fiorisce sulla sua bocca con un vigore aggraziato che non ha paragoni. E nel Julian and Maddalo, dove Julian è il poeta stesso e Maddalo è Byron, Shelley ci dà una alta idea delle conversazioni fra questi due grandi, e ci dà anche, nell’episodio della visita al pazzo, un implicito commento in versi che furono ritenuti incomprensibili e che la psicoanalisi ha reso d’immediata comprensione, ponendo Shelley fra i più chiari predecessori di Freud. Pare che nelle Università Celesti si insegni anche la psicoanalisi e che da lì egli ne abbia riportato sulla terra un vago ma perfettamente riconoscibile ricordo.
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Durante un breve viaggio a Napoli venne composta la lirica Stanzas Written in Dejection, che è la prima lirica assolutamente caratteristica della sua arte, che unisce
cioè il sentimento più intenso con il linguaggio più semplice, sostenuta sotterraneamente da una stupefacente energia e dalla più sottile indagine psicologica. Questa vena sgorgherà impetuosa nel 1820, a Pisa, con la Ode to the West Wind che è quello che è e sulla quale spender parole sarebbe, oltre che vano, irrispettoso. Poco dopo abbiamo The Witch of Atlas e The Sensitive Plant, due poemi di opposta e eguale sublimità, il primo un’abbagliante descrizione di paesaggi come in terra non se ne vedono mai, ricordo e desiderio di quel-
la patria superna dalla quale era stato allontanato per poco; la seconda ci mostra la tenerezza che egli poteva avere per questa nostra terra, tenerezza profonda non scevra da un benevolo disprezzo. Riguardo alle incredibili facoltà paesistiche di Shelley, non posso che incitarvi a guardare le tele e gli acquerelli del suo grande contemporaneo Turner, che ci mostrano gli stessi panorami infiniti e dolcissimi, le stesse nebbie trasparenti. Poeta grande anche Turner, come pittore grande Shelley. Le stesse caratteristiche troviamo nella lirica The Cloud e nella sua sorella The Skylark, ambedue del 1820, anch'esse talmente al di sopra di ogni commento e che debbono essere o capite con immediatezza o buttate al fuoco. Ma poiché buttarle al fuoco non si deve, occorre impadronirsene e farne linfa perpetua dei nostri pensieri. Occorre. A queste produzioni più che umane seguì un altro periodo di affievolimento: l’ode alla libertà e l’ode a Napoli sono pezzi d'occasione che confermano quanto Shelley scrisse a un amico: «Non vi è che una cosa impossibile al mondo: sedersi a un tavolino dicendo a se stesso: Voglio scrivere una poesia».
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Ma nello stesso periodo egli scrisse altre liriche minori (Hymn to Apollo and Pan, Spirit of Delight, The Question), perfette. E si dimostrò non privo di humour scrivendo il suo Swellfoot the Tyrant, satira contro Giorgio IV, guadagnando così un punto sul suo competitore, Milton. Il suo amore per Emilia Viviani, rinchiusa in un convento per essersi rifiutata a delle nozze odiose, gli fece scrivere lo Epipsychidion, una delle vette della poesia universale; nell'amore egli trasse una vigoria che lo fece salire in regioni di tale sublimità che nessuna ala umana ha più traversato dopo, e assai poche prima. Alla altezza di pensiero in tutto degna di Platone si aggiunge un’altezza di poesia in tutto degna di Shelley. E poco dopo egli doveva raggiungere una pari altezza nell’ Adonais, lunga ode funeraria scritta in morte di Keats. Di nuovo egli impiega la lunga strofe spenseriana, ma adesso egli ha raggiunto il colmo della propria e di ogni altra maestria, e davanti a noi si svolge una processione solenne delle immagini più spirituali e più radiose che mai siano sorte in mente di poeta, udiamo una musica quale nessun compositore ha mai pensato, raggiungiamo davvero l’Empireo dove il nostro angelo ha, per un momento, degnato di trasportarci con lui. Egli stesso la giudicò «la meno imperfetta delle mie composizioni». Che cosa potesse intendere per perfetto se questa non lo accontentava, nessuno potrà mai sapere. Shelley era uno scrittore quanto mai scrupoloso, e componeva con lentezza e con innumerevoli correzioni. Cosicché dopo l’Adonais non ci restano di lui che abbozzi, che ci fanno intravedere ma non toccare le meraviglie che ne sarebbero uscite. Compiuta è invece la sua opera in prosa A Defence of Poetry, altissima affermazione della primarietà della poesia su tutte le attività umane, e altissima opera di critica nella quale fra l’altro afferma con audacia (audacia
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per il suo tempo) la superiorità del Paradiso dantesco in riguardo alle altre due cantiche. E non ho parlato delle liriche decisamente minori; minori per proporzioni, che da sole farebbero la gloria di un altro poeta. Quando il mare rapì Shelley agli uomini e lo restituì al cielo, Byron scrisse ad un amico: «Lo piangiamo; ma di fatto, che cosa avrebbe potuto darci di più di ciò che ci ha donato? Lui stesso avrebbe potuto eguagliare la sua poesia, non certo superarla. L'infinito non è suscettibile di accrescimento».
JOHN KEATS
Keats è morto a venticinque anni, tisico, nel soleggiato appartamento di piazza di Spagna che si affaccia sulla scalinata di Trinità dei Monti. La sua produzione poetica è racchiusa in cinque anni ed essa che, nella enorme maggioranza degli altri poeti, sarebbe stata sepolta nella tomba fiorita delle Juverzilia, raggiunge le più alte cime del canto, della originalità e della purezza suprema. «Envy, o even to tears, the fortune of his years / which though so few / yet so divinely ended.» Così scrisse di lui il suo grande fratello, Shelley, anche lui destinato, mentre scriveva, alla fine imminente. To sono una persona che sta molto sola; delle mie se-
dici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico, tranne una.
Così mi sono costruito la teoria dello sviluppo della letteratura francese, sviluppo che avviene su due linee, parallele in via di massima, che due volte si sono inflesse
e fuse, producendo nella loro effimera congiunzione i due miracoli di Racine e di Stendhal. Così pure mi sono costruito, per mio personale diletto, la teoria degli «angeli». Mi è sembrato di notare che talvolta appaiono sulla terra degli esseri che riflettono nella loro esistenza una luce più che umana. Ma per appartenere a questa ri-
strettissima élite il genio non basta: né Shakespeare, né Dante, né Michelangelo, né Baudelaire sono degli «angeli». Sono forse degli Dei, angeli non sono.
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Bisogna, per essere annoverati fra gli angeli, morire molto giovani, o giovanissimi cessare qualunque attività artistica; bisogna, va da sé, che questa attività sia di valo-
re supremo; bisogna insomma che la loro apparizione sia fulgida e brevissima, così da dare a noi grigi mortali la sensazione di un visitatore superumano che durante un istante ci abbia guardato, e sia dopo ritornato ai suoi cieli, lasciandoci doni di qualità divina e anche un amaro rimpianto per la fugacità della sua apparizione. Fra gli «angeli» io ritrovo Raffaello e Masaccio, Mozart e Hélderlin, Rimbaud e Maurice de Guérin, Shelley, Marlowe e Keats (come si vede le qualità etiche degli «angeli» non mi interessano). Rupert Brooke e
Novalis hanno mancato di poco la loro promozione, insieme a Giorgione e Van Gogh. Péguy aveva tutte le qualità per esser angelo ma morì un po’ troppo tardi; Sergio Corazzini è morto a tempo ma non aveva abbastanza talento. Gli angeli-donna abbondano, ma in senso del tutto diverso. I veri «angeli» sono i primi nominati, non c’è nulla da fare. In questa lista, splendente di gioia e, per noi, di lacrime, il posto supremo spetta a John Keats. Di tutti egli è il solo assolutamente puro. So bene che non è colpa loro, ma qualche macchia di fango imbratta le ali di Marlowe e di Shelley; Rimbaud è indubbiamente un angelo, ma, come Marlowe, non si sa bene se venisse da su o da giù; la lussuria di Raffaello, la follia di Hélderlin, l’ira-
condia di Masaccio, la moglie di Mozart sono delle lievi mende sul candore delle loro vesti. Angelo di prima classe, arcangelo, serafino, cherubino, angelo a tutto tondo, angelo a cento carati, angelo con le ali di prima
scelta garantite contro le tarme non vi è che John Keats. Egli nacque a Londra nel 1795 da un padre che emergeva proprio allora dal proletariato e che teneva una rimessa per vetture da nolo. Da bambino non dimostrò alcuna passione per la poesia e volle studiare medicina.
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Aveva di già diciotto anni quando un amico, come lui studente presso l'ospedale di San Tommaso, gli lesse l’Epithalamion di Spenser. Da quel momento decise di abbandonare tutto per la poesia: non può immaginarsi iniziazione poetica più nobile di quella di Spenser, e neanche una più duratura, perché attraverso tutta la poesia pur originalissima di Keats il soffio supremamente pensoso e armonioso di Spenser viene avvertito senza
posa. Aveva di già ventidue anni quando pubblicò il suo primo volume di liriche (1817), liriche che non sono
gran cosa se se ne eccettui il famoso sonetto sull’Omero di Chapman. Nel 1818 pubblicò Exdyrzior, che, con tutti i suoi difetti di soverchia abbondanza di colorito,
d’insicura costruzione, mostra di già i segni abbaglianti del genio. Questo poema fondò la sua immortalità ma nello stesso tempo fu la causa della sua morte. Una parte della critica letteraria in Inghilterra era rimasta fedele al concetto politico dell’arte che signoreggiò, come abbiamo visto, nel Settecento. Per questo nucleo di critici, che si raccoglieva nelle redazioni del
«Blackwoods» e del «Quarterly Magazine», era imperativo accoppare immediatamente, senza remissione, qual-
siasi accenno di talento che si manifestasse nel campo politico opposto. E poiché Keats aveva amicizie nel campo liberale, i neri conservatori del «Blackwoods» si scagliarono con inaudita violenza contro il giovane poeta. Keats, di già ammalato, di già afflitto da un amore infelice, rimase letteralmente annientato dal colpo. Tentò di suicidarsi, rimase per mesi infermo; poi il suo spirito
si riprese e brillò più splendente di prima; ma il suo corpo rimase ferito e l’angelo si preparava di già a scomparire ai nostri occhi. Si diede a lavorare con ansia febbrile e pubblicò uno dopo l’altro Isabella, trasfigurazione magica di una novella boccaccesca, e subito dopo un volume di poesie nel quale tocca le vette dell’arte sua e cioè dell’arte di tutti i tempi. Nello stesso tempo scriveva le
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sue magnifiche lettere agli amici ed alla amatissima Fanny Brawne. Senza soste pubblicò l’Hyperior, nel quale l’influenza di Milton si manifesta nello splendore fosco delle immagini, e immediatamente dopo The Fall of Hyperion, che scrisse dopo un prolungato studio della poesia di Dante. L’angelo aveva fretta di consegnare i suoi doni agli uomini. La tubercolosi lo minava rapidamente. Insieme ad un amico cercò rimedio al male nel sole italiano e si recò a Roma. Ma dopo pochi mesi vi morì. La sua morte fu l’occasione di due avvenimenti letterari di prim’ordine. Uno, infame, fu l’articolo necrologico del «Blackwood's Magazine» che raggiunse le più melmose profondità dell’abiezione critica e che rimane davvero una macchia nella critica inglese. L'altro, sublime, fu l’Adora:s di Shelley, il solo poema
che un grande poeta abbia scritto in morte di un suo eguale, ode splendente e funeraria, intrisa di lagrime, di ammirazione e di scherno verso i Filistei, nella quale
Shelley, che doveva anche lui sparire nella tempesta poco più di un anno dopo, raggiunge il culmine della propria arte, il che non è dir poco. Keats è poeta da leggersi nella sua integrità. Se si eccettuino i pochi suoi primissimi poemi, non vi è un solo verso, in lui, mediocre. Un rigore ferreo domina l’onda
della ispirazione, la trasforma, la purifica e la cambia, dalla irruente scomposta corrente che essa in tanti poeti grandi è ancora, in un placido fiume che riflette il cielo,
sì, ma sotto la superficie del quale le energie domate ribollono. Se di miracolo può parlarsi in questo mondo, miracolo sono le poesie di Keats. E di questa sua angelica potestà di cambiare il dolore in canto, di dar forma precisa e raccolta all’impeto delle passioni, il poeta eta perfettamente conscio, e vi allude nei sublimi versi della sua lirica Bards of Passion and of Mirth, quando desidera che «the nightingale doth sing»
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non più «a senseless, tranced thing» ma «philosophic numbers smooth». Ed egli fu davvero l’usignolo non più ebbro di canto ma che ha trasformato la melodia in «levigati ritmi filosofici», senza perdere neppure un soffio della musica e dell’estro. Si è voluto paragonare Keats a Leopardi. Paragone ingiusto per entrambi. Keats non discese quanto l’italiano nella profondità del dolore, cioè della vita; d’altra parte Leopardi non appartiene alla categoria degli angeli, non aveva sul labbro la rugiada di paradiso dell’inglese. Solo punto di contatto fra questi due «sommissimi» poeti il culto per la bellezza classica e l’insistita tematica ellenica. Ma chi pensi quanto vago sia il concetto di bellezza classica e quanto scarsamente importante il contenuto in una lirica non potrà non trascurare questo legame. Legame al quale del resto sfuggono tutti e due i poeti, spesso e volentieri, e in modo opposto. Leopardi aggiungendovi di suo un sentimento di angoscia che non passa, forse a torto, per ellenico; e Keats, sospinto dal sempre vivace fondo celtico che fermenta in ogni attista inglese, aprendo brecce nelle mura del Partenone, dalle quali s'intravedono paesi fatati e «perigliosi mari abbandonati», estranei tanto ai Greci quanto al marchigiano. Lasciamoli ognuno nel proprio tabernacolo. O, per dir meglio, rispettiamo in ambedue, ancora una volta, il rigore dell’artista che non si lascia mai prender la mano dal sentimento nudo, il gusto dell’uomo che canta e non
urla, il pudore di chi soffre senza sbandierare le piaghe come fanno gli accattoni; veneriamo insomma in Leopardi e in Keats due dei maggiori esponenti dell’«antimelodramma». E réjouissons-nous che uno di questi due sia un italiano, appartenente al paese che più di ogni altro ha motivo di farsi perdonare questa insanabile ferita all'arte. Voi (benché irritati da quanto ho detto adesso) desiderereste forse che vi ammannissi una lista delle più alte
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liriche di Keats. Come fare? È possibile, benché inde-
gnamente, parlare durante due pagine delle tragedie di Shakespeare perché in esse vi è una trama, vi sono dei caratteri; ma parlare delle liriche di Keats (e di qualsiasi altra lirica della loro portata) sarebbe un accumulare aggettivi, uno scatenare vani fiati senza riuscire a promuo-
vere di un passo la comprensione. Dovrete leggervele, passeggiare con l’angelo per le vie di questo mondo che egli tanto ha contribuito ad abbellire. Non potrò che dare qualche indicazione. The Eve of St Agnes: una lirica narrativa straordinaria che unisce in modo miracoloso un senso di remota bellezza romantica e di venustà fisica quasi palpabile. Nello sfondo, quasi un basso mormorio, la minaccia del male. Il male si fa più vicino in Larzia, oscuro e terso nello
stesso tempo. La Belle Dame sans Merci ci mostra il poeta nel suo aspetto più inconsueto, quello romantico, ed è cosa squisita. E le grandi odi To a Nightingale, On a Grecian Urn, To Psyche, On Melancholy, che s’intercalano ai rapidi ritmi leggeri dei Bards of Passion, della Mermaid Tavern e di Robin Hood ci mostrano Keats nella sorprendente varietà del suo genio, nella felicità assoluta dell’espressione pienamente raggiunta. L’Ode to Autumn è l’ultima sua ode completa. E il sonetto Bright Star l'estrema sua opera. Ed entrambe ci fanno agghiacciare pensando quale ricchezza di canto ci venne tolta dal sempre maledetto bacillo di Koch. Vi ho già detto: occorre leggere tutto Keats. Perché oltre a questi canti si trovano tesori in brevi frammenti, in poesie non completate, penne che le ali lasciarono cadere
mentre l'angelo andava ad arricchire i cori del cielo.
WALTER SCOTT
Anche Walter Scott (1771-1832) è uno di quegli scrittori, come Byron, che hanno subito negli anni una forte svalutazione. Dal 1810 alla sua morte, e per parecchi decenni dopo questa, egli fu nello stesso tempo considerato il più grande e il più divertente dei romanzieri; fu tradotto in tutte le lingue ed io posseggo una copia di Ivanhoe stampata a Palermo nel 1832. Adesso quasi nessuno lo legge all’estero e in Inghilterra ben pochi; egli è invariabilmente decorato dal titolo che un nostro amico affibbia a qualsiasi autore la cui opera sorpassi le duecento pagine.
Il bello è che questo epiteto egli non lo merita che in parte; il principio di ogni suo romanzo è veramente insopportabile. Scott descrive capello per capello, ruga per ruga la faccia di ogni suo personaggio; dopo di che non vi è nastro del vestito o fibbia di stivale che non sia scrutata;
e dopo ancora il castello è disegnato con lo scrupolo di un architetto e il terreno circostante con la pedanteria di un agente del catasto. E tutto ciò senza nessun talento icastico, senza che mai un aggettivo ben scelto evochi dinanzi a
noi il fantasma. Passano cento pagine e ci sorprendiamo come un tale seccatore abbia mai, in qualsiasi tempo, po| tuto godere di una grande reputazione. Ma alla pagina centesima prima il buon Scott ritiene | chei visi e i luoghi vi siano rimasti impressi nella memo| ria. Egli ha terminato la sua funzione di truccatore e di attrezzista ed alza il sipario sul dramma. E il dramma è condotto con mano maestra: la psicologia dei personaggi è solida, l’azione vivacissima a rom-
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picollo; altrettanto movimentata che in Dumas ma incomparabilmente più carnosa: Athos, Bussy d’Amboise, Montecristo sono delle astrazioni, delle figure geometriche; Guy Mannering, l’Antiquario, Amy Robsart sono figure piene di sangue. Invece di sunteggiare interi romanzi di Scott, come si fa adesso, per darli da leggere ai ragazzi, si dovrebbero ridurre le prime cento pagine a dieci e dare il resto intero. Financo il nostro amico le leggerebbe, le pagine da centouno a cinquecento; e il suo caro vocabolo gli si gelerebbe sul labbro. Mettiamo però un po’ d’ordine in queste nostre note. I meriti di Walter Scott sono triplici: di studioso di storia e di folklore scozzese; di poeta, e di romanziere.
Ai quali si può aggiungere quello di aver condotto una vita bizzarra e quanto mai personale. Nato a Edimburgo nel 1771, figlio di un avvocato, era, come Byron, zoppo fin dall'infanzia; questa sua infermità lo costrinse ad una vita sedentaria e lo rivolse allo studio delle antichità scozzesi. Al tempo della sua nascita la Scozia
era, socialmente,
appena
uscita dal
Medioevo e la copia del materiale folkloristico che si offriva allo studioso era immensa. Appena laureatosi in legge Scott, che possedeva in grado sommo l’attitudine a conversare ed interessarsi a ciò che dicono gli umili, senza la quale non c’è folklorista, si diede a percorrere in lungo e in largo quel singolare e fascinoso paese, a raccogliere le vecchie ballate ancor vive sulle labbra dei pastori, a studiarne le costumanze. Ciò gli diede una conoscenza illimitata dell’anima della sua gente e anche della sua storia, specialmente della storia scozzese ante-Riforma. Particolare importante perché esso si rivelerà nella larghezza di idee religiose di Scott che fa un così gradevole contrasto con la mentalità ristretta e chiusa di altri scozzesi pure illustri come Burns e Carlyle che non poterono mai evadere dall’ombra della «Kirk».
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Scott pubblicò a trentun anni una vasta raccolta di ballate scozzesi (che, come sapete, sono quelle inglesi conservatesi più a lungo nella memoria di un popolo meno colto), raccolta che nonostante numerosi errori
critici rimane fondamentale, e l’anno dopo un Ways and Uses of the Scottish Folk, preziosa silloge di una vita che stava per scomparire.
Il manipolare tanto materiale poetico gli fece venire la voglia di provarsi anche lui alla poesia. Dapprima tradusse dal tedesco due ballate di Biirger; dopo il Gòzz vor Berlichingen: Inoltre sentì recitare l’ammirevole ballata Cbristabel di Coleridge, che non era pubblicata, e si decise definitivamente a comporre ballate originali. La prima fu The Lay of the Last Minstrel (1805) che è davvero una bella poesia, quanto mai vivida e piena di commovente amore per le vecchie tradizioni locali. Dopo, nel 1808,
pubblicò Marzzion, una lunga ballata, un poemetto a dir vero, che narra la tragica avventura di Lord Marmion e la sconfitta scozzese di Flodden. Nel 1810 comparve la sua opera più famosa in poesia, The Lady of the Lake, che ballata non è addirittura più, ma è un romanzo storico in
versi, se così può dirsi, del resto bellissimo, pieno di brio e di «rousing verses» e che è rimasto un grande favorito del pubblico inglese. Vi sono interpolate delle liriche che sono fra le più note in Inghilterra. È inutile enumerare le altre moltissime poesie di Scott: basti dire che egli un momento, prima della comparsa di Byron, passò per il maggior poeta inglese vivente. E per chi ami una poesia basata su oriflammi al vento, cavalieri al galoppo e dame sospirose (tutto questo preso molto onestamente sul serio) egli può passare per un gran poeta. Leggibilissimo lo è certamente. Fu la fulminea fama di Byron a far di Scott un romanziere. Byron, che tanto si ispirò a lui, pose nei suoi poemi un contenuto psicologico che mancava nelle ballate scottiane. D'altra parte Scott sentiva di poter anche lui
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descrivere stati d'animo di una certa complessità: era la forma poetica da lui scelta che non lo permetteva. Di punto in bianco Scott piantò la poesia e iniziò la serie dei nuovi romanzi. In diciotto anni ne scrisse ventinove.
Il materiale pare fosse raccolto anteriormente ma la rapidità della produzione di queste opere, tutte lunghe e tutte accuratissime, rimane stupefacente. Tutti i romanzi, meno gli ultimi due, furono pubbli-
cati anonimi e il loro successo fu travolgente. Il pubblico inglese (ed europeo in genere) aveva di già dimenticato il relativo realismo di Fielding e di Laclos e si pasceva con la Radcliffe e d’Arlincourt di insipidi romanzacci, nei quali personaggi di stoppa andavano barcollando in una epoca non identificabile, colma di orrori che niente giustificava. Con i romanzi di Scott il pubblico provò la sensazione che ha il nuotatore inesperto quando si avvicina alla spiaggia: «Toccò terra». Gli si presentarono personaggi vivi, vestiti di panni, con passioni e peccati non mo-
struosi ed improbabili, che si agitavano in mezzo ad avventure emozionanti sì ma, se non vere, documentabili. Waverley (1814) fu il primo suo romanzo, ed è forse il
migliore: vi si sente il piglio del grande scrittore, quel soffio di autorità che è insostituibile. Narra una vicenda connessa con l’invasione del «Bonnie Prince Charles» nel 1744 ed è davvero emozionante e pieno di penetrazione. I due romanzi successivi, Guy Mannering e The Antiquary, non sono storici e se non i primi sono certo
buoni secondi come valore artistico. Il carattere dell’antiquario è ammirevole e una vera poesia sgorga dall’accorato amore dell’autore per una vita a lui cara e che è in via di dissoluzione. Segue una congerie di altre opere. Posso dire, non senza orgoglio, lo confesso, che le ho lette tutte e che mi ci son divertito: vi s'incontrano tipi stranissimi che pre-
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CIEA
ludono a quelli di Dickens e la loro documentazione storica, a ciò che si dice, è solida. Ma io non desidero importunarvi con una lista com-
pleta e basti ricordare Ivanboe (1820), Quentin Durward (1823), The Talisman (1825) come le più notevoli. Scott, che fu sempre un grande originale, si era messo in testa di diventare Lord Scott of Abbotsford e per questo nella magnifica casa di campagna che si era costruito appunto ad Abbotsford si diede a ricevere nel modo più sontuoso tutto quanto di più notevole vi era in Inghilterra. I suoi guadagni erano ingenti, le spese lo furono ancor più (ogni ospite di Abbotsford, ed erano innumerevoli, riceveva in dono un cavallo e due cani) e
finalmente il povero Scott già vecchio e stanco soccombette sotto i debiti. Allora con scozzese tenacia si rinchiuse ad Abbotsford, lavorò diciotto ore al giorno, riuscì a pagare tutti i debiti; due anni prima della morte fu fatto «Sir» e se avesse vissuto più a lungo il suo sogno della paria si sarebbe avverato. Ma il livello delle sue opere risentì dell’età e del soverchio lavoro: i suoi ultimissimi romanzi sono di bassa qualità. E fu un peccato perché buttano giù la media di questo romanziere che fu ad un pelo dall’avere del genio e che indubbiamente risorgerà dall’ingiusto oblio nel quale è caduto. Non vi siete certo accorti di quanto io sia magnanimo
scrivendo quel che ho scritto. Scott è uno dei grandi responsabili, più ancora che Byron, di quel romanticismo deteriore sul cui concime spuntò il fungo maligno del nostro beneamato 76/0. Come corvi i nostri librettisti si buttarono su quei fantasiosi personaggi: tolsero loro qualsiasi consistenza psicologica, qualsiasi accuratezza
storica; fecero il lavoro opposto a quello che aveva compiuto Scott: riportarono la vicenda all’arbitrarietà e alla nullità di Radcliffe e di d’Arlincourt. Dopo di che arri-
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varono i musicisti e vestirono questi manichini di note flautate o poderose, egualmente orrorose. Così Edgardo, l’Edgardo serio, ponderato, rispettabile della Bride of Lammermoor è diventato quel paranoico nero-vestito che si aggira per salotti e cimiteri nella nostra Lucia. Tutto ha macchiato il melodramma. Ad esso sfuggo-
no solo, per ora, le grandi opere scritte dopo il suo infuriare. Ma se una cattiva sorte dovesse farlo rinverdire siate pur sicuri che vedremo un baritono, vestito da Monsieur de Charlus, cantare: «Questo o quello per me pari sono», ed un Mattia Pascal (tenore?) rimpiangere la morte che non fu reale con accompagnamento di contrabbassi. Di recente Cechov è stato colpito dal male italiano; e
poco prima Tolstoj. «Avenge, O Lord, thy slaughtered Saints!»
JANE AUSTEN
Durante gli anni dal 1800 al 1810 circa i frequentatori della stazione balneare di Bath avrebbero potuto vedere (se avessero avuto il talento di badarvi) una signorina un po’ attempata aggirarsi nelle eleganti sale del Kursaal e fra i graziosi stucchi bianchi della famosa «Pumproom». Era molto mondana, sempre pronta ad intervenire ad ogni festa e molto corteggiata perché la sua relativa bruttezza era mascherata dal suo spirito e dalla perpetua giocondità. Figlia di un pastore anglicano, aveva una sorella (chiamata Cassandra in omaggio alla moda neo-classica) e cinque fratelli tutti nella carriera navale, due dei quali divennero ammiragli assai noti. Finita la stagione a Bath andava a passare dei mesi or da questo or da un altro fratello perché non aveva una sua casa: ma viveva bene e placidamente perché tutti le volevano bene. Si diceva che scrivesse dei romanzi, ma che non li vo-
leva firmare; quindi non si sapeva se erano buoni o cattivi; e ad ogni modo cosa poteva venir fuori di zz0/to buono da una zitella mondana e un po’ pettegola? Poi si ammalò, la si vide sempre meno e a quarantadue anni morì. E nessuno vi badò troppo. Questa vecchia signorina era Jane Austen (17751817), la più grande scrittrice del suo tempo; anzi la più grande scrittrice inglese di tutti i tempi se si vuol considerare Emily Bronté per quel che realmente è: una specie di fenomeno cosmico. Non vorrei però che questa mia designazione di
«scrittrice» vi facesse relegare la Austen in una specie di
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categoria inferiore: essa non è la migliore degli scrittori secondari, ma una personalità alla pari con i migliori, maschi o femmine che siano, e nel suo tempo l’unico rivale del grande Scott, e al nostro tempo di molto superiore a lui. Non vi è scrittore per il quale sia più importante una
lettura cronologica della sua opera: il suo sviluppo è continuo e leggendo le sue opere in modo disordinato si rischia di perdere il piacere squisito che si ricava dal vedere la personalità artistica di lei sempre più approfondirsi e affinarsi. Non vi è d’altra parte scrittore per il quale si richieda maggiore attenzione nel determinare la successione cronologica delle opere perché i suoi primi romanzi, rifiutati dagli editori, vennero pubblicati quando essa era già morta, e i suoi ultimi furono stampati per primi. Essi sono del resto pochi, sei in tutto, e tutti brevi:
Northanger Abbey, Emma, Sense and Sensibility, Pride and Prejudice, Mansfield Park e Persuasion. Sarebbe vano fare qui un riassunto di queste sei opere: occorre leggerle, leggerle lentamente e degustarle. Mi accontenterò di riassumervi il primo romanzo, uno del periodo di mezzo e l’ultimo. Tre capolavori. Northanger Abbey è, come ogni opera prima, una ve-
lata autobiografia. È la storia di una intelligente ragazza, di famiglia distinta ma povera, che conquista il suo amore attraverso mille difficoltà (ma, badate bene, nessuna
tragedia!). Il talento della Austen è ancora incerto, il libro manca di equilibrio, alcuni personaggi rasentano la caricatura: ma è il suo romanzo più intriso di humour: la Austen si diverte a prendere in giro i romanzi tenebrosi e avventurosi del suo tempo (i romanzi della Radcliffe e di Monk Lewis) e ciò fa con un tatto squisito, ridendo non soltanto dei romanzi bistrattati ma anche di se stessa; e alcuni dei personaggi sono di già disegnati con mano sicura.
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Pride and Prejudice gode fama di essere il suo capolavoro e forse lo è davvero per chi non preferisca l’«intimismo» e i delicatissimi colori sfumati di Persuasion. È ad ogni modo un libro di assoluto prim'ordine nel quale ci vengono presentati una quantità di tipi indimenticabili: la adorabile e capricciosa Lizzy, la bella e buona sua sorella Jane, Lydia, la sorella minore, svagata, futile e assolutamente inutile come tante persone lo sono, il sarca-
stico Mr Bennet che ha perduto qualsiasi illusione, la volgare e pretenziosa signora Bennet, Darcy, il gentiluomo altezzoso, Lady De Bourgh, la vanità e l’albagia incarnata, la gonfia nullità servile di Mr Collins. Tutte figure scolpite a tutto tondo, che vivono di una vita propria indipendente da quella del romanzo, rese vitali dallo spirito di osservazione implacabile e quasi cinico dell’autrice. Sono figure colte a un tal punto nella loro essenzialità che, oggi, avendo dovuto per la quarta volta rileggere questo modello di romanzo, mi sento circondato da questi personaggi che incarnano qualità e difetti riconoscibili in tante mie conoscenze di ora, a dispetto
della differenza di tempo e di luogo. Persuasion è la ultima opera della Austen: la storia di un lungo amore che sembra disperato e non lo è, con la figura attraentissima e oltre ogni dire amabile di Anne, con una serie di macchiette tracciate con mano maestra: un’opera dalla quale si sprigiona una poesia penetrante e che manca quasi totalmente dello spirito ironico che pur ci era sembrato (a torto) la maggiore qualità della Austen. (E adesso, dopo aver scritto, mi accorgo che questo spirito di osservazione acidulo e assolutamente spietato c'è pure qui, soltanto è più riposto, seppellito sotto maggiori precauzioni, per la più grande gioia del lettore.)
Il fatto di aver indugiato soltanto su tre dei sei romanzi della Austen non deve indurre a credere che gli altri tre siano inferiori: essi sono tutti di primissimo ordine,
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tutti costruiti con maestria, tutti densi di significato, tut-
ti, per dirla breve, da leggersi in modo assoluto. La Austen è uno dei pochi romanzieri che ha davvero creato un mondo: un mondo ristretto, certamente, che non ha la vastità degli universi di Balzac o di Dostoevskij, ma che può, come estensione, gareggiare con il mondo di Marcel Proust. Essa è stata una persona che ha voluto parlare soltanto di ciò che conosceva veramente bene, dell’alta borghesia inglese della fine del Settecento. Il proletariato non esiste, la nobiltà è vista solo di scorcio. Ma la sua classe la Austen la ha ritratta in modo superiore e, soprattutto, in modo assolutamente spregiudicato sotto il costante velo delle buone maniere sue di scrittrice. Essa è completamente priva d'’illusioni: di ogni azione apparentemente disinteressata essa vi mostra, in una mezza frase, i motivi egoistici. Non ha ri-
spetto per niente. Pensate, per esempio, al modo con il quale nei romanzi del primo Ottocento erano dipinte le figure dei «genitori»: una venerabilità, una virtuosità da
togliere il respiro. Guardate la Austen: il ridicolo, la vanità, l’infatuazione vi sono ritratti senza ritegno. La Au-
sten è uno di quegli scrittori che richiedono di esser letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un’importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto l’apparente semplicità. I romanzi della Austen sono le Maxzzzes di La Rochefoucauld poste in azione. Nessuna tragedia, però, lo ripeto. Tutti questi romanzi sono storie di vita quotidiana, nella quale la pena dell’esistenza scorre sotto pelle, senza mai affiorare. E la tristezza è sempre muta, i guai dopo lunghi anni diventano sopportabili, le gioie col passar del tempo sbiadiscono anch'esse. Durante la vita della Austen, i suoi romanzi passarono inosservati. Poco dopo la morte, i critici si accorsero che si era spenta una grande luce: Scott scrisse che, do-
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po Shakespeare, nessuno aveva saputo disegnare figure femminili con la delicatezza, l’intuito e la tenerezza della Austen; alto elogio perfettamente giustificato al tempo in cui venne scritto; e quasi del tutto vero anche oggi. Macaulay scrisse su di essa pagine di comprensione squisita e concluse dicendo: «Ognuno di noi dovrebbe avere un’amica alla quale confidare tutto; io la ho ed è Jane Austen». Col passare degli anni la sua fama si affievolì. Dal 1900 in poi essa ha ripreso in pieno. Adesso vi sono in Inghilterra e in Francia «Società per lo studio di Jane Austen» che gareggiano con i sodalizi stendhaliani nello studio dei più minuti particolari della vita e delle opere di lei. Si fa un chiasso sproporzionato non già al valore di essa, ma all’indole riservata, schiva, delicatissima della scrittrice. Io ho visitato la sua tomba nella tranquilla navata della Cattedrale di Winchester. Vi sono sempre dei fiori; e il guardiano mi ha detto che deve ogni giorno
lavare la lapide perché i visitatori vi scrivono su a matita; pare che la iscrizione più frequente sia «Dear Jane!». È il più giusto omaggio a un’anima grande, ma riservata e
velata. La fortuna della Austen in Italia è stata nulla. I suoi romanzi sono stati, è vero, in parte tradotti; ma nessuno se ne è accorto. La ragione c’è, e buona: la Austen è l’an-
ti-melodramma. Il pubblico italiano è evidentemente deluso di non trovare nelle sue opere nessun pugnale, nessuna «coppa attossicata», nessuna di quelle passioni orrendamente esplicite cui il teatro lirico lo ha avvezzo. E così probabilmente dice che nei romanzi della Austen non succede nulla. E ciò è, grazie a Dio, vero.
Non succede nulla. Eppure un lettore anche italiano (purché il melodramma non gli abbia posto il cervello fuori servizio) non può staccarsi da quelle pagine. In esse si sente fluire una vita gentile, la gente s'innamora
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senza per questo piantarsi nel muso il pugno della «romanza d’amore», la gente si odia, senza rintronarsi il ca-
po con i do di petto. Nessuno beve il sangue di nessuno. «Dear Jane.» Onesta bene educata creatura, o tu l’an-
tisoprano drammatico, o tu il cui genio brilla di mite luce e non s’infuoca fra «corrusche spade», tu che conoscevi la tristezza quotidiana senza tragedia, la gaiezza senza buffonate, tu «dear Jane» vieni un po’ da noi ed esorcizza gli spiriti tronfi, clamorosi e superficiali che da un secolo e mezzo deliziano il nostro volgo e impediscono alle persone bennate di dormire sonni tranquilli.
POETI MINORI
Robert Southey (1774-1843) merita un posto tanto fra i poeti minori come fra i prosatori (minori anche essi) di questo periodo. Anche egli ci si presenta adesso molto disceso dall’altissimo vertice di riputazione che tenne un momento. Ma bisogna subito far notare che la sua perdita di prestigio non rassomiglia affatto a quella che hanno sofferto Byron e Scott; la sua accessione alla fama era immeritata e dovuta a ragioni politiche più che letterarie; la sua caduta fu incomparabilmente più rapida di quella degli altri, e più totale; e m’ingannerei di molto se dicessi che vi è una qualsiasi speranza di ripresa. Del resto, fu una figura patetica e simpatica. Benché povero fu largo di aiuti (che andava raccattando qua e là) per la infelice famiglia di Coleridge che la follia del poeta lasciò nella più nera indigenza. Fu un lavoratore instancabile che, letteralmente, fu ucciso dalla soverchia fatica cui si sottometteva. Detto questo, e inchinatici alla
figura etica, siamo liberi di giudicare la sua attività artistica. Le sue opere poetiche sono innumerevoli e riempiono
diecine di volumi: e tutti grossi volumoni, contenenti ciascuno migliaia di versi. Thalaba the Destroyer (1801), The Curse of Kebama e A Vision of Judgement (1821), il cui titolo sopravvive perché fu scelto da Byron per il proprio capolavoro satirico che appunto venne scritto
contro l’opera di Southey. Ve ne sono innumerevoli altre: io ho letto, perché a volte mi spunta una pazienza certosina, quelle citate. E ricordo lo sguardo sgomento di Mr Clay, un simpatico vecchio signore, quando gli
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chiesi il permesso di portarmi a casa, dalla sua biblioteca, quei volumi di Southey. «But, my dear duke, they are poison!»
Il risultato della lettura confermò la saggezza del vecchio. Illeggibili, da capo a piedi. Illeggibili, ma letti (da me). Tanto più, dopo questa constatazione, sorprende il fatto che alcune sue liriche brevi (The Battle of Blenheim) siano passabili e una anzi addirittura buonina (My Days among the Dead are Passed). Miglior sorte meritano le sue opere in prosa: la sua Life of Nelson (che posseggo e che è a vostra disposizione) è un modello di biografia, succinta, imparziale e commossa, biografia «ufficiale», va da sé, ma non esage-
ratamente ufficiale. Ma il miglior diritto di Southey alla fama duratura, oltre alla sua riconosciuta bontà e generosità, è costituito dalle edizioni critiche di Cowper e di Burns, e dalla sua corrispondenza della quale posseggo
un volume su diciotto, che potrebbe quasi indurre a credere che egli fosse un poeta chi non avesse letto le sue poesie. E adesso mi tocca affrontare quell’autore che, per me, costituisce un problema, e, per voi, costituirà una scocciatura.
L’INCLASSIFICABILE ROBERT BURNS
In Francia viveva, verso la metà del Seicento, un alto
magistrato che era anche un buon scrittore e un uomo di gusto: le Président Des Brosses. Egli fece, per suo diletto, una lunga permanenza a Roma. Si era nel pieno fulgore dell’arte barocca e l'architettura di San Pietro era considerata la più bella che esistesse. Ma a Des Brosses essa non piacque. Timido, d’altra parte, e poco desideroso di attirare polemiche sul proprio capo, egli non lo disse. Ma la sua onestà intellettuale gli vietava di lodare ciò che non amava. In modo che, nei grossi volumi che pubblicò poi sul suo viaggio in Italia, egli parla di tutto ciò che aveva visto a Roma, dal Campidoglio all’ultima bottega di «norcini»; ma di San Pietro non parla, neppur un attimo; come se non fosse esistito.
Io ero sul punto di imitare il buon Des Brosses: non volevo parlare di Burns; ma l’onestà è stata più forte del timore e adesso ve ne parlo. In ritardo, perché Burns (1759-1796) è contemporaneo di Blake e non di Byron, ma ve ne parlo. In Inghilterra vi è un pubblico che ama i veri poeti: esso è più ristretto del pubblico francese dagli stessi gusti, ma più esteso di quello italiano; dopo viene uno strato assai più numeroso di gente che non possiede una cultura ma ama leggere dei poeti che per la loro oscurità le danno l’illusione di comprendere i misteri di Eleusi;
dopo questo strato, e prima di giungere al pubblico di Guy Brothby, ci sono innumerevoli persone, di quasi nulla cultura e di animo sentimentale: queste vanno pazze per Robert Burns.
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Nel contempo però vi è tutto il pubblico scozzese che, affannosamente rivolto alla ricerca di un poeta nazionale, si è aggrappato a Burns; e questo pubblico è composto dai professori scozzesi, dai giornalisti scozze-
si, dagli intellettuali scozzesi in generale, e finisce quindi col dare un suggello di «ufficialità» a quel medesimo gusto per Burns del ceto meno colto inglese. Favorito così e dal largo numero di ammiratori inglesi di basso rango e dal numero totalitario di ammiratori scozzesi, molti dei quali eminenti, Burns è diventato uf-
ficialmente grande poeta. Egli è, in realtà, il tipo perfetto del faux borbomzze, dello scrittore che fa affettazione di estrema semplicità, che dice di trovare la lingua inglese troppo difficile e si rifugia nel dialetto della Scozia. La lirica spicciola, esplicita e lagrimogena, quella lirica che tutti i grandi, da Shakespeare a Goethe, hanno episodicamente trattato, sottoprodotto della loro vera arte, rappresenta il maximum della riuscita di Burns. Troppo ristretto è il suo orizzonte, troppo meschini i suoi interessi. E dietro ogni sua invocazione all’Au/d Lang Syne, dietro le sue piagnucolose elegie per le pastorelle degli Highlands si avverte il puzzo del whisky per il quale professò un culto smodato. Poeta, insomma, provinciale per destinazione, che un vento fortunato ha sbattuto su più alte cime. In lui vediamo ciò che Giovanni Meli sarebbe divenuto se il sogno separatista siciliano si fosse realizzato. Dopo che avete ascoltato questo, però, vi consiglio di prendere una antologia e di leggere alcune liriche del virtuoso Robertino. Non parlo neppure della Scozia, ma in Inghilterra stessa non vi consiglio di far la corte a una ragazza senza citarle un verso di Burns: la purezza di questo poeta le inebria a tal punto da far perdere loro il senso della purezza personale. Da questo punto di vista Burns vale molto.
ROMANZIERI MINORI
Questi scrittori valgono soltanto come cartelli indicatori. Essi stanno a testimoniare il corso che seguiva il romanzo inglese, prima e parallelamente alla comparsa dei grandi romanzieri e dei grandi poeti dei quali abbiamo ridicolmente parlato poco fa. È necessario conoscerli un po’ per rafforzare la mia teoria della assoluta causalità. E utile intanto far notare come questa influenza dei predecessori minori si faccia più fortemente sentire sulla poesia anziché sul romanzo: Dickens compie un salto d'influenza e va a ricollegarsi a Fielding; Byron invece, e in misura minore, Shelley e Keats, sono di già condizionati da questi piccoli, talvolta insignificanti, scrittorucoli. Sarà necessario, però, fare un piccolo salto indietro allo scopo d’includere William Beckford (1759-1844),
che di tutti questi romanzieri minori è il più importante, in riguardo alle derivazioni appunto alle quali ho accennato. Beckford fu uno stravagante, un bellissimo esemplare di quella razza di eccentrici che è gloria dell’Inghilterra. Immensamente ricco, finì col morire poverissimo avendo sperperato l'immensa sostanza (uno di quei patrimoni favolosi che i commercianti come suo padre accumulavano allora in India). Possedette una volta tre navi da guerra private con le quali si divertiva a inscenare battaglie navali; raccolse una magnifica galleria di pittura a base di Tiziani, Raffaelli e Rembrandt che fornì poi il nocciolo della National Gallery; e nella sua casa di campagna, la celebre Fonthill, aveva cento stanze per ospiti nelle quali gli amici aveva-
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no l'abitudine di dimorare anche quando il padrone era assente (si capisce nutriti, serviti e scarrozzati). Scrisse molto e sempre cose brevissime e originali: relazioni succinte dei suoi innumerevoli viaggi nelle quali dimostra una davvero stupefacente modernità di gusti artistici ed esprime punti di vista geniali, a forza di essere inaspettati, sulla politica e le religioni. Fu lui a creare la teoria che Maometto fosse una reincarnazione... della Madonna. Ma il suo nome sopravvive unicamente per un brevissimo romanzo, filosofico come si diceva allora: The Hz
story of the Calipb Vathek, che è un capolavoro. Cominciato come una imitazione dei romanzi di Voltaire, il
soggetto gli prese la mano e ne uscì fuori un’affascinante storia di terrore e di sontuosità. Fu il primo ingresso esplicito dell'Oriente nelle lettere inglesi e sarebbe superfluo che ne indichi le conseguenze. Tanto raffinato è lo stile di questa opera che essa venne tradotta in francese da Mallarmé in persona. Robert Bage (1720-1801) iniziò la sua vita come quacchero e la terminò come libero pensatore; era stato in Francia nel periodo del Terrore e scampò per miracolo alla ghigliottina alla quale era stato condannato perché faceva propaganda ateistica, il che per un ex quacchero è notevole. Pare non fosse privo di talento letterario; il suo ultimo romanzo, Mar as He is Not, dicono sia note-
vole e sopporti la lettura anche da parte nostra; ma non ho avuto il bene di acchiapparlo. A Bage si può far risalire, in parte, la corrente antireligiosa che circola, evidente, in Byron, ancor più in Shelley, e anche, benché più velata, in Keats. Di William Godwin abbiamo già parlato a proposito della sua attività sociale; anche come romanziere (Caleb
Williams e St Leon, che ho letto) influì su Byron e su Shel-
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ley, oltre che come padre e patrigno di numerose mogli e amanti dei due poeti. Il bello è che questi due romanzi sono più che passabili ed esprimono le idee generose del loro autore, non senza forza e non senza grazia. Quando dico che le opere di Bage e di Godwin influirono su Byron e Shelley non vorrei esser frainteso: intendo dire con maggiore precisione (e di non esser stato preciso prima vi chiedo scusa) che le opere di Bage e di Godwin mostrano l’esistenza di una corrente di pensiero che, dopo, in Byron e in Shelley doveva trovare la sua espressione provvisoriamente completa. Maria Edgeworth (1768-1849) sarebbe la più grande romanziera del periodo se non vi fosse stata la Austen. Scriveva in modo semplice e naturale, e i suoi due romanzi che ho letto (Belinda e The Absentee) sono veramente notevoli e del resto sembra siano i suoi due migliori. Il secondo specialmente (The Absentee, cioè il proprietario terriero irlandese che invece di occuparsi delle proprie terre passa il suo tempo a Dublino o a Londra) contiene una critica sociale che al principio dell'Ottocento si manifestava ben di rado in un romanzo. Voi conoscete di già la mia teoria sul valore intrinseco e sulla «importanza» delle opere letterarie: sono due qualità che raramente coincidono. Gli articoli sgrammaticati e volgari del «père Duchesne» sono più «importanti» delle opere, per esempio, di Condorcet, che come valore letterario li sorpassano cento volte. Così gli scrittori dei quali parlerò adesso valgono meno di quelli dei quali ho finito di discorrere, anzi addirittura non valgono, artisticamente, nulla: però sono «importanti» perché mostrano, con l’estrema evidenza delle opere scadenti, la strada sulla quale si era posto il romanzo inglese negli anni a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento. Quando avrete la fortuna di leggere Jane Austen, sa-
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rete divertiti dalla satira che essa fa, nel Northarger Abbey, dei romanzi «di terrore». Probabilmente eccitati dai racconti, a fondo reale ma amplificati, delle molte crudeltà della Rivoluzione francese, parecchi scrittori
inglesi si diedero a raccontare storie terrificanti, a base di spettri, sotterranei, documenti nascosti, delitti ignorati e simili aggeggi. Il Poe nella Fa// of the House of Usher può darvi una idea di questi sottoprodotti se però tenete presente che negli scrittori inglesi manca l’arte e la sincerità nevrotica dell'americano. Quelli della Radcliffe erano orrori composti a tavolino e privi di qualsiasi compartecipazione dell’autore. Ann Radcliffe (1764-1823)
era, a modo
suo, una
donna geniale. Essa sfruttò per prima tutto ciò che di romantico può contenere il passato, il distante, lo strano, il pittoresco, il soprannaturale. Le mancava, ovviamente, il talento; se lo avesse avuto non sarebbe più
stata Ann Radcliffe ma Lord Byron. E Byron a sua volta (il Byron minore) è appunto una Radcliffe in calzoni e con un senso artistico che mancava del tutto alla sua precorritrice. Dei suoi non molti romanzi io ne ho letto due: The Mysteries of Udolpho e The Italian (1797). Disgraziatamente non ho potuto mettere la mano su A S7cilian Romance, che mi avrebbe particolarmente divertito. Posso anzi dirvi che The Italian l'ho letto in ùna traduzione italiana che venne pubblicata nel 1945 in un momento in cui la «letteratura nera» (come la chiamavano) ebbe da noi una fuggevolissima voga, prodotta, certamente, dagli orrori di Varsavia e di Auschwitz, così co-
me la Radcliffe stessa era stata eccitata dai massacri di Parigi e di Nantes, i quali a loro volta avevano avuto il loro profeta in De Sade e così via risalendo. Donne murate in castelli orripilanti, spade avvelena| te, foreste abitate da belve, fughe, salvataggi, e soprat-
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tutto caverne sono gli ingredienti di questi pasticcioni; e su di essi regna l’uomo fatale e maledetto, ma in fondo generoso e cavalleresco: insomma su di essi regna Lara. Sono, del resto, felice di farvi sapere che tutte queste
diavolerie sono sempre a lieto fine, il che se da un lato conferma la bonomia e la celata placidità dell’autrice,
toglie, come capirete, qualsiasi interesse alle vicende. Matthew Lewis (1775-1818), detto, dal titolo del suo
romanzo, Monk Lewis, comprese questo difetto e immerse nel sangue tutti i personaggi del suo Monk (1796). Doveva però essere, sul serio, un discepolo del
«divino Marchese», perché non vi sono soltanto crudeltà nel suo romanzo ma un buon numero di oscenità,
tanto che esso suscitò la repulsione di un uomo pur dalla scarsa schizzinosità quale era Byron. Lewis scrisse anche delle poesie e in particolare si ricorda la sua Ballad of Alonzo the Brave and the Fair Imogene, nella quale si trova un verso rimasto celebre che descrive un cadavere già alquanto malandato «with the worms that crawl in and the worms that crawl out». Di questa scuola di orrori fa parte anche Charles R. Maturin (1782-1824), che era poi un pacifico prete irlandese. Egli scrisse anche per il teatro quel che è considerato il suo capolavoro (suo capolavoro, non ur capolavoro), Melmoth the Wanderer, che riprende la vecchia
leggenda del patto col diavolo. Due osservazioni, le ultime, su questi messeri: l’azio-
ne dei loro romanzi è quasi sempre collocata in Italia, paese classico del delitto, come sappiamo, raramente in Spagna, mai in Inghilterra. La loro influenza è #r27zensa e tuttora viva (viva per
chiunque ad esempio vada ad ascoltare il Trovatore, che è Radcliffe allo stato puro); essa ha toccato uomini eminenti come Byron e Bulwer-Lytton, non solo, ma anche
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come Poe e Balzac; una traccia se ne trova in Emily
Bronté, e sub-tracce in Doyle e Wells. Rallegriamoci tutti pensando che la Austen, Dickens, Thackeray e Trollo-
pe ne sono completamente immuni. Laviamoci le mani e proseguiamo.
UN ANTIDOTO POLIVALENTE: THOMAS LOVE PEACOCK
Nelle ultime pagine abbiamo dovuto assorbire alquanti veleni. La letteratura inglese che ci aveva dato l’umanità di Shakespeare, l’alta religiosità di Milton, la rispettabile misantropia di Swift e il sano realismo di Fielding, si era
incamminata per vie più dubbie, fiancheggiate da arbusti dalle bacche talvolta attraenti agli occhi, spesso pericolose. Blake: un grande poeta, di sicuro. Ma anche un mistico stravagante. Byron: senza dubbio un poeta, ma anche il padre spirituale del melodramma; Burns, un uomo di grande fama, si sa da tutti, ma dotato di nauseabonda sentimentalità; Shelley, un angelo autentico: ma con le
ali forse nere. E non parliamo della Radcliffe e di Lewis che mandano odore di sangue e di lussuria. Ci occorre quindi un antidoto. E questo ci viene fornito nella persona di Thomas Love Peacock (17851866), che non vorrei fosse scambiato per uno scrittore minore a causa della «impaginazione». Per esser sinceri egli è poco noto anche in Inghilterra e del tutto sconosciuto fra noi, dove credo non sia mai
stato tradotto. La sua lunga vita gli fece conoscere a fondo il mondo letterario pre-vittoriano (del quale ci stiamo occupando) e quello vittoriano propriamente detto, del quale stiamo per occuparci. Fu in gioventù amico inti-
mo di Shelley e finì con l’essere il suocero di Meredith, il grande romanziere dell'ultimo periodo vittoriano. Era, in fondo, un dilettante di talento che scrisse romanzi,
commedie e saggi, tutti originali, di una originalità spin-
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ta sino all’idiosincrasia. Ma qui dobbiamo occuparci soltanto dei suoi romanzi, che sono appunto le fialette nelle quali si conserva il contravveleno. Essi sono sette, tutti, meno uno, brevissimi; e, a dir più precisamente, non
sono neppure romanzi ma raccontini «filosofici» alla Voltaire, critica della letteratura e dell’ideologia dei suoi tempi, esposta in forma dialogata e vivacissima. Egli è l’antenato del «romanzo-conversazione», cioè di quella forma nella quale lo scambio d’idee fra i personaggi supera di molto l'interesse della vicenda e dei personaggi medesimi. Genere letterario che ai nostri tempi, e in Inghilterra, ha avuto un suo brillante esponente nell’ Al-
dous Huxley della prima maniera. In Nightmare Abbey egli si rivolge, con sacrosanta ferocia, contro la moda dei romanzi tenebrosi e, con minor leggerezza ma con maggiore penetrazione della Au-
sten (per la quale l’impegno satirico era di valore secondario), ne mostra il ridicolo e l’inconsistenza; il che
sembra facile ai nostri giorni ma doveva essere assai più difficile nel 1818, data la voga che questi romanzi possedevano in tutte le classi intellettuali (non dimentichiamo che financo Shelley, da giovanissimo, ne perpetrò due). Nell’altro suo romanzo Crotchet Castle Peacock se la prende con le ideologie tedesche romantiche che si diffondevano in Inghilterra e ne falsavano l’indirizzo culturale. In Headlong Hall la vittima non nominata ma riconoscibile anche da parte dei ciechi è Burns, con le sue lacrime facili e la commozione a fior di pelle. Mazd Marian e The Misfortunes of Elphin sono parodie delle opere dei suoi avversari condotte con spirito e forza. In tutte le sue opere troviamo la sincerità, la satira, il cinismo e anche, strano a dirsi, un affetto per le forme
migliori del romanticismo. La sua prosa è la più vicina a quella di Voltaire che uno scrittore inglese abbia raggiunto: ma quando ne vale la pena egli si lascia scivolare in una commovente poesia.
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La sua opera, poco diffusa nel grande pubblico, agì però sugli spiriti che stavano «all’erta»; e l'efficacia dei suoi antidoti non è da trascurarsi. Posseggo le sue opere (che sono del resto raccolte in un volumetto di medie proporzioni) e vi inciterei a leggerle subito se potessi temere che vi siete infettati di romanticismo e di sentimentalismo. Poiché (spero) non lo siete, potete soprassedere, fino al momento in cui una particolareggiata cognizione esat-
ta della letteratura inglese, che vi sarà derivata da un più qualificato insegnante, vi permetterà di assaporare le mille allusioni e le centomila arguzie di questo cattivissimo Peacock.
DUE CRITICI, DUE SAGGISTI
Conosco, e condivido, la vostra antipatia per i critici. Ma vorrei pregarvi di eccettuare da questa avversione i due critici dei quali debbo adesso parlarvi, insieme a
due altri dei quali qui non abbiamo da occuparci, Sainte-Beuve e De Sanctis. Privi questi quattro di apparati filologici, partecipi, ma non asserviti a una determinata corrente filosofica,
uomini tutti e quattro di squisito buon gusto, essi non sono altro, secondo la definizione di uno di essi, che
«persone che sanno leggere e che aiutano gli altri a saper leggere». Degli psicologi piuttosto che dei critici, in special modo Sainte-Beuve. William Hazlitt
Per ritornare al nostro assunto, William Hazlitt (1778-
1830) deve occuparci per primo. I grandi sconvolgimenti francesi operarono anche sui critici, oltre che sui poeti. In modo particolare operarono su Hazlitt che durante tutta la vita mosse guerra a quelli che egli chiamava gli «apostati», cioè coloro che in giovinezza avevano salutato con letizia la Rivoluzione francese e che poi, insediatisi in co-
modi posticini, la vituperavano (Southey e Wordsworth, per esempio). E questa guerra egli condusse infaticabilmente mediante attacchi diretti e indiretti, senza dosi di citazioni di opere, di allusioni e di interferenze.
Hazlitt portava nel sangue l’istinto non conformista. Suo padre era un pastore metodista che la inflessibile opposizione alla Chiesa anglicana aveva portato ad emi-
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grare in America dove rimase alcuni anni; egli aveva destinato William, che era il suo secondo figlio, ad entrare negli ordini sacri; ma le visite che il presunto futuro pastore faceva a Londra, dove il fratello maggiore lavorava come pittore, lo indussero a seguire la carriera fraterna piuttosto che quella del padre. Divenne infatti pittore anche lui, e non senza successo. Andò in Francia e vi stette a lungo, copiando quadri nelle gallerie e vivendo del ricavato di questo lavoro. Poi ritornò presso il padre e lì, in campagna, fece la conoscenza di Coleridge che lo spinse alla carriera letteraria. Se ne andò a Londra e lì la sua mirabile conversazione lo rese noto nei circoli letterari benché non avesse ancora scritto altro che dei saggi insignificanti. Prese moglie, ma dopo pochi mesi divorziò. In condizioni di dubbia validità si sposò una seconda volta, ma anche adesso lui e la moglie si separarono per non vedersi mai più. Cosicché Hazlitt fece la vita da scapolo (che del resto conveniva ai suoi gusti) pur avendo due mogli che ambedue gli sopravvissero. (Sia detto fuori testo, l’Ottocento fu la grande epoca dei matrimoni non validi: ve ne sono diecine di esempi, illustri fra i quali quelli di Garibaldi e di Crispi.) Ridiventato scapolo, Hazlitt si mise a scrivere con inesauribile slancio. Scrisse migliaia di pagine, mediocri, buone e ottime. Non vi fu angolino delle letterature inglesi, francesi, tedesche e italiane che egli non esplorasse e illuminasse col suo solido buon senso e il suo gusto equilibratissimo. Egli non era un intellettuale nel senso odierno della parola: era un uomo qualunque, soltanto con la mente elevataadunalto grado di ricettività e di espressione. E stava in relazioni di simpatia con gli altri uomini comuni che compiangeva perché privati dell’alimento della poesia, e questa sua ricettività e questi suoi poteri di espressione gli ser-
vivano al fine di porre i suoi confratelli in grado di assaporare quelle che lui chiamava «le estreme gioie».
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Fu tutta la vita un politicante di sinistra, ma non lasciò mai che il pregiudizio politico lo rendesse cieco ai meriti artistici. Disprezzava, dopo una fervente amicizia, Coleridge che era scivolato nel conservatorismo: ma dichiarava che quando lo leggeva senza pensare alla sua condotta lo adorava. In un articolo rimasto celebre fece a pezzi la figura morale di Wordsworth; ma nello stesso
articolo dedicava lunghe pagine a colui che definiva «il più grande e il più originale dei poeti viventi». E dei vivi parlava con la medesima libertà con la quale parlava degli Elisabettiani. Dava dell’ubbriacone a De Quincey con la medesima disinvoltura con la quale parlava dei vizi di Marlowe. Il suo principale titolo alla fama è però contenuto nei tre suoi libri «maestri»: Characters of Shakespeare's Plays, Lectures on the English Poets e Dramatic Literature of the Age of Elizabeth, che presentarono al pubblico (e alla posterità) l’interpretazione della letteratura elisabettiana della quale anche adesso noi fruiamo. Webster, Ford, Marston, Tourneur,
che erano
caduti se non
nell’oblio almeno nella trascuraggine, furono mostrati da lui per quei grandi artisti che sono, e l’immagine dello stesso Shakespeare uscì dalle sue mani rinfrescata e raggiante di nuova vitalità. È vano pretendere di conoscere e apprezzare davvero questi grandi elisabettiani senza una lettura di Hazlitt che in essi scopre e mostra al lettore strati su strati di bellezza per scovare i quali dovremmo (senza la sicurezza di riuscirvi) consumare anni. Hazlitt fu anche un eccellente critico di pittura: i suoi articoli sul grande Constable sono dei modelli del genere in quanto rivolti a spiegare non già il soggetto del quadro (del resto evidente trattandosi quasi sempre di paesaggi) ma la tecnica, l’uso dei colori, l’effetto cui tendeva il pittore, l'emozione che ciascun spettatore deve trarre
dal quadro quando sia a conoscenza di ciò che il pittore intendeva comporre.
I graudi irrequieti
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Lo stesso metodo Hazlitt adoperò nelle sue critiche teatrali, che, disgraziatamente, ebbero per oggetto il deplorevole teatro del suo tempo; ma certi suoi articoli sulle interpretazioni shakespeariane dell’attore Kean, nei quali è analizzato ogni gesto e commentata ogni inflessione di voce dell’artista, sono, fra l’altro, mirabili guide alla comprensione totalitaria del testo. A me sembra che questo genere di critica, che non discute e non si riassorbe in nessuna concezione filosofica, sia la sola legittima e ammirevole. Egli morì dicendo a Lamb, suo amico, che era soddisfatto della propria gita nella realtà. Charles Lamb
Questo Lamb che abbiamo incontrato al letto di mor-
te di Hazlitt fu un critico meno notevole, soprattutto di assai minor respiro dell’amico; in compenso fu un artista creatore che espresse una reale poesia servendosi del linguaggio quanto mai difficile del saggio in prosa. La sua vita fu una lunga tragedia che sopportò con grande fortezza e senza perdere il buonumore che brilla di così viva luce nelle sue opere. Piccolo impiegato alla East India House, abitava in una casetta a Londra, sulle
rive del Tamigi, insieme ai genitori e ad una sorella. Il vecchio padre era pazzo e dava in escandescenze se il figlio, di ritorno dall’ufficio, non giocava a carte con lui per delle ore. In seguito anche la sorella impazzì e in un accesso di furore tagliò la gola alla propria madre. Assolta dall’imputazione di omicidio, fu rinchiusa in un manicomio da dove, passati sei mesi, la rilasciarono giudicandola guarita; e fu sottoposta ufficialmente alla custodia del fratello che si venne così a trovare con due pazzi da custodire. La sorella alternava crisi di furore a periodi di calma. Quando era furiosa veniva di nuovo
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Letteratura inglese
rinchiusa in manicomio e il povero Lamb doveva tra- | scorrere con lei le domeniche e le sue rare vacanze. Dopo lunghi anni il padre morì; il miglioramento della sorella prese forme più durature e Lamb godette di | una relativa pace. Mentre trascorreva questa vita angosciata (che per
certi aspetti ricorda quella di Pirandello) Lamb frequentava il mondo letterario di Londra, ma, come disse, «mai
per più di un’ora alla volta». La sua prima opera fu una raccolta di racconti tratti dal teatro di Shakespeare per i bambini, che è rimasta di uso costante in Inghilterra. Il lavoro, a dir la verità, fu scritto in massima parte dalla
sorella pazza ed è fatto con perfetto buon gusto: grandi miti sono ridotti a proporzioni e semplicità te a delle menti infantili, ma nel massimo rispetto piegando il più possibile i termini stessi del poeta.
quei adate imE so-
prattutto vi si trova quel che quasi sempre manca in
queste riduzioni per fanciulli: un continuo avvertimento che quel che si legge non è l’opera vera («it is but the shadow of a giant») e la promessa di un incomparabile nutrimento dello spirito quando, fra qualche anno, si
potrà leggere l’opera nel suo testo autentico. Di ben maggiore portata fu il libro seguente di Lamb: Specimens of English Dramatic Poets Contemporary with Shakespeare, with Notes (1808). Questa fu la prima opera che spolverasse i poeti drammatici elisabettiani; essa precedette quelle di Hazlitt. Benché meno ampia, è di tendenze ancor più moderne; e ciò è riprovato dalle critiche contemporanee che le vennero mosse, nelle quali si deplorava che Lamb avesse ricostruito delle figure di poeti e non di drammaturghi. Che è proprio ciò che noi approviamo.
Innumerevoli altri libri di critica uscirono (chissà per quale miracolo) da quella casa infelice, insieme ad una commovente The Confession of a Drunkard nella quale si rivela, trasposto, il dramma dell’autore.
I grandi irrequieti —
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Ma fu sul finire della sua vita, durante gli anni più sereni, che Lamb compose quell’opera che doveva dargli fama duratura. Nel «London Magazine» dal 1820 in poi comparvero delle brevi composizioni in prosa firmate «Elia». Erano i famosi saggi di Lamb. Egli aveva compreso che, per lui, la sorgente poetica era riposta nella rievocazione del passato, e sul suo malinconico passato egli si curvò con tenerezza e con un celato sorriso. Questi saggi sono una cinquantina e costituiscono la più bella raccolta di «poemi in prosa» inglesi. Quell’anima comprensiva e sensibile a tutti i dolori altrui si rivela intera e si esprime in una prosa dolcissima che cela la commozione dell’autore dietro un velo di ironico humour. Le brevi vacanze campagnole dell’impiegato stanco, le amicizie letterarie, le conversazioni con gente del popolo, le serate a teatro e le serate nella lugubre casa, tutto vi è narrato con spirito e con un sentimento del tutto privo di sentimentalismo. Vi è un saggio sui giochi di parole del popolino inglese che è un capolavoro di comprensione nel quale l’uomo di alta cultura qual era Lamb si sforza di capire e di spiegarsi umanamente quei tristi scherzi della povera gente. Ve ne è un altro sull’avventura capitata ad un amico letterato che, immerso nella lettura di una rivista, andò a piombare nel Tamigi dal quale fu salvato per miracolo, che è una satira dei letterati fuori dal mondo e nello stesso tempo una esaltazione di «questa santa svagatezza». Questi saggi sono raccolti in un libretto di modeste proporzioni che è una delle letture più dilettevoli e più profittevoli che possano farsi e che vi consiglio nel modo più urgente. Vi troverete anche delle pagine, per voi, amare, per me dilettevoli. Quelle sui melodrammi, che ispirano al
Lamb tutto l’aborrimento che essi non possono non ispirare a qualsiasi persona dabbene, a meno che non sia accecata dal più inconscio ma più pernicioso nazionali smo culturale.
LE RIVISTE INGLESI DEL PRIMO OTTOCENTO
Nelle pagine trascorse avete spesso udito parlare delle riviste inglesi e avete udito quale importanza, talvolta nefasta, esse avessero sulla vita intellettuale del paese. Le principali di queste riviste furono quattro, e cioè: «The Edinburgh Review», «The Quarterly Review», che pubblicava ogni due mesi un grosso volume, il «Blackwoods Magazine» e «The London Magazine». La prima, la «Edinburgh Review», era di pubblicazio-
ne scozzese, come il suo nome indica, ed apparteneva al partito Whig, cioè liberale. Ma il suo liberalismo era soltanto politico, in materie letterarie era quanto mai retriva e si scagliava con inaudita ferocia contro chiunque, liberale o conservatore, fosse un innovatore artistico. Ricorderete come se la prendesse con Byron e come, avendo senza saperlo attizzato il genio satirico del poeta, ne uscisse con le corna rotte. Malgrado ciò essa fu la più benigna di queste riviste e la sua storia può fregiarsi della pubblicazione dei Saggi letterari di Macaulay e di numerose altre opere di valore. Essa, come del resto le altre tre, vive ancora e mr di grande autorità. La «Quarterly Review», anch'essa scozzese, ha una ri-
putazione più sinistra. I suoi selvaggi attacchi contro Scott, contro Byron, contro Wordsworth, contro chiun-
que dimostrasse di aver del talento in quegli anni, sarebbero ancora perdonabili: quei signori non ne furon diminuiti e ciascuno di essi morì della propria bella morte, a suo tempo. Ma gli ignominosi attacchi e a Keats vivente e a Keats morto sono l’abominio della desolazione.
I grandi irrequieti
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Come avete udito, questi attacchi furono la causa di un tentativo di suicidio prima e della morte poi del poeta. In modo che il «Quarterly» potrebbe vantarsi di un delitto non contemplato da nessun codice: quello di «angelicidio». Quasi altrettanto sgradevole fu la condotta del «Blackwoods Magazine». Fu la roccaforte del conservatorismo politico e i suoi attacchi contro i giovani scrittori liberali furono frenetici: però essa non ebbe la sventura di colpire avversari della taglia di Keats e quindi i suoi misfatti rimangono celati a noi, se non al Creatore. Occorre dire però che fu essa in quegli anni a pubblicare l’articolo di Walter Scott che, dopo la morte di lei, rivelò al pubblico la grandezza di Jane Austen.
To conosco bene il «Blackwoods Magazine» perché, non si sa bene a quale titolo, mia cognata, in Riviera, ne
possiede la collezione quasi completa. Adesso la rivista è decaduta e del suo tenace conservatorismo si dilettano soltanto i colonnelli a riposo e i civ8/ servants. Una esistenza più decente, anzi addirittura decorosa, ebbe ed ha il «London Magazine», liberale. Ha pubblicato i saggi di Lamb, le critiche di Swinburne, i romanzi di Butler. E adesso ancora vi collaborano Graham Greene e Thomas S. Eliot. Per quanto deplorevoli siano state le attività della maggior parte di queste riviste, non si può negare che la loro opera sia stata più utile che nociva, volendo applicare il principio che una critica cattiva è sempre preferibile ad una mancanza di critica.
ANCORA QUALCHE PAROLA PER CONCLUDERE
«As bad as bad can be. Ill killed, ill quartered, ill cooked, ill seasoned, and ill served.» Così come il Dr Johnson considerava il montone che gli veniva servito, considero io le elucubrazioni di questa
terza parte. Esse sono le peggiori che siano mai uscite da penna umana. E in particolare le pagine sulla vita di Byron sono (o per meglio dire furono, perché in questo momen-
to il fuoco le ha restituite al nulla fisico oltreché intellettuale) un abominio inescusabile. Abominio, rispetto a me, anche morale, perché esse furono la riprova della mia pigrizia che mi vietò di distruggerle due mesi fa e di riscriverle. Ma, cosa fatta, fuoco ha.
Adesso mi rimane il timore di non essere riuscito neppure a darvi una idea approssimativa di questo breve ma importantissimo momento della letteratura inglese. Ed eccomi adesso costretto a tentare di spiegare ciò che già avevo creduto di esprimere, simile ad un poeta mediocre che dovesse esporre in una prosa da processo verbale uscierile ciò che non gli era riuscito di esprimere nella foga del verso. «The blushing shame of soldiers»
Quel che volevo dirvi era questo: che dagli anni 1780 circa a quelli 1830 la letteratura inglese si è trovata in crisi. Intendo dire che contemporaneamente alla Rivoluzione francese, politica, si è svolta in Inghilterra una ri-
voluzione intellettuale. E gli spiriti travolti da questo
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movimento (e che furono, appunto per questo, fra i più grandi) mostrano tutti, nel loro svolgimento e nelle loro opere, questi segni di malcontento e di agitazione. Mentre in Francia la crisi si svolgeva a colpi di fucile e con l'erezione di patiboli, lasciando la letteratura immersa in un sonnolento conformismo, in Inghilterra la lotta si svolse a colpi di odi e di libelli, fra imaggiori che esistono; e se i morti sul campo furono pochi (anzi uno soltanto, Keats) l'esilio di Byron e di Shelley, i travagli di Blake, Coleridge e Wordsworth non furono poca cosa. Sono sicuro che, dispersomi in particolari spesso superflui, non sono riuscito a darvi qualche idea. Ad ogni modo ve la presento adesso, in pillole. Da questa crisi la letteratura inglese uscì arricchita di opere incomparabili e con la gloria di aver conquistato una sua pace duratura. Fenomeno simile a quello della letteratura latina che dopo i travagli degli ultimi tempi repubblicani, espressi da Lucrezio e da Catullo, si adagiò nel calmo fulgore di Virgilio e di Orazio. La vera età argentea inglese è quella vittoriana. E ad essa ci avvicineremo tra poco per notarne il maestoso
fluire, superati che avremo gli ultimi scogli che ancora, relitti dei cataclismi passati, ne turbano la corrente al suo inizio.
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Parte quarta
L’ETÀ VITTORIANA: IL ROMANZO VITTORIANO ARCAICO I VITTORIANI PURI (5 giugno — 3 agosto 1954)
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L’ETÀ VITTORIANA: IL ROMANZO VITTORIANO ARCAICO IL MIRACOLO BRONTÈ
I miracoli letterari sono i più gradevoli, ma, come tutte le cose gradevoli, rari al massimo punto. Chiunque è capace di estrarre conigli da un cappello, far camminare uno zoppo; e infatti sono cose che si vedono ogni giorno. Ma è assai più raro (è, anzi, quasi unico) che tre ragazze senza cultura, rinchiuse in un presbiterio sperduto in una landa selvaggia, sottomesse ad un fratello prepotente ed un padre ubbriacone, si mettano a scrivere ciascuna un romanzo, e che questi romanzi siano tutti eccellenti e significativi, e che uno di essi sia un capolavoro assoluto. Da uno di voi ho sentito dire, forse senza malignità, che non vi era lapide indicante la casa dove aveva abitato uno scrittore che io non avessi visto. Perciò, adesso,
provo quasi ritegno a farvi sapere che sono stato a visita-
re le pietre di Haworth. Mi son fatto coraggio, però, pensando che una visita a Haworth equivale ad uno studio sul mistero Bronté. Immaginate una piccola casa a due piani, costruita in mattoni rossi, attorno alla quale un giardinetto stento, senza alberi per coprire le sue monotone siepi di bosso, lotta per non morire. All’inizio l’immensità del 772007, della campagna sterminata e incolta, gialla di secchezza in estate, rossa per le brughiere in autunno, bianca di neve l’inverno, verde per le erbe in primavera; sempre monocolore, sempre attonita, completamente deserta. Le curve dondolanti delle colline, tutto intorno, invitano al sonno. Per meglio dire invite-
rebbero al sonno, se non fosse presente il re nemico del luogo, il Vento. Un vento incessante, che galoppa libero
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come nel mare aperto, che urla oscure minacce l’intere giornate e l’intere lunghissime notti, che ha impedito tutt'intorno la crescita degli alberi. Wuthering Heights, le alture delle tempeste. In questo sconsolato e altero paesaggio nacquero, vis-
sero quasi sempre, e morirono le tre sorelle Bronté. Il loro padre era un pastore anglicano, irlandese di nascita e poverissimo, minato dall’alcolismo, cui venne
affidata per compassione questa parrocchia di Haworth, una delle più miserabili del regno. Quando vi giunse aveva una moglie, tisica, e sei figli, cinque femmine e un maschio. Dopo due anni la madre morì, e dopo un altro anno perirono le due figlie maggiori, «uccise nel vento» come scrisse poi Charlotte. Questi quattro bambini, Charlotte, Emily, Anne e Branwell, crebbero soli: il padre era tutto il giorno in giro a cavallo per le sue cure parrocchiali sparse su un territorio vastissimo e indigente; quando la sera rientrava il gin lo allontanava presto da quel mondo di guai; i ragazzi si educavano e diseducavano l’un l’altro; soldi per una cameriera non ce n’erano. Quando ebbero vent'anni le due sorelle maggiori, Charlotte e Emily, andarono a Bruxelles in un educandato. Vi restarono due anni e poi
ritornarono a seppellirsi a Haworth, presso il padre che con l’andare degli anni e l’infierire delle disgrazie era divenuto cupo e silenzioso quasi quanto le tombe del vicino cimitero. Tutte e due rientravano con accresciuta esperienza di vita e Charlotte con in più un suo disperato amore per un professore belga. Essa gli scrisse quattro lettere che sono fra le più ardenti e nel contempo pudiche lettere d’amore che si conoscano. Il professore non rispose mai. L’implacabile vento spazzò via qualche sospiro di più. Le sorelle morirono ad una, ad una: nessuna raggiunse i trent'anni. Il fratello, genialoide e violento, si diede all’oppio, morì anch'egli presto. La triste casa sul colle restò vuota.
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Le tre sorelle avevano scritto in collaborazione un volume di liriche che comparve sotto uno pseudonimo e che meritatamente non ebbe successo. Poco dopo Charlotte, l’innamorata, scrisse ma non pubblicò un roman-
zo, The Professor, che raccontava in modo appena velato le sue esperienze sentimentali a Bruxelles. È un’opera indubbiamente mancata, nella quale l’inesperta aquiletta si affanna a rompere con gli artigli le reti della propria ignoranza letteraria. Ma ad ogni rigo vi si sente un vergine rigore che è di già più di una promessa. L’anno dopo, senza altri preamboli, ecco Jaze Eyre, uno dei più singolari romanzi del tempo, nel quale l’inesperienza è diventata originalità, la vita oppressa e conculcata dell’autrice diviene origine del primo manifesto femminista, della prima proclamazione dei diritti della donna a non esser più, come Charlotte dice, «the male’s cattle», il bestiame del maschio. Nel Jaze Eyre l’autrice si rivela padrona della propria tecnica e produce un libro pieno di fuoco contenuto, uno dei romanzi più vitali e commoventi che siano stati scritti. Dopo di questo essa scrisse Shirley, pieno di bellezze dell'ordine meno comune, di bellezze puramente spirituali che non debbono nulla a seduzioni materiali. Seguì Vi//ette, che espone la medesima storia autobiografica del Professor trasfigurata però dall’accresciuta esperienza; un’opera, la sua ultima, di indubitabi-
le classe. La terza sorella, Anne, scrisse anche lei un’opera, The
Tenant of Wildfell Hall, che non raggiunge però l’intensità delle opere di Charlotte. Ci rimane adesso di parlare di Emily, l'ardente, la geniale, l’indimenticabile, l’immortale Emily. Essa non scrisse che pochi versi, brevi liriche aspre, ferite, alla cui
malia non si sfugge. E un romanzo, Wuthering Heights, un romanzo come non ne sono mal stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma, veramente, non a Shake-
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speare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrate con uno stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi si consente il bisticcio, ha qui raggiunto il proprio zenith: i licantropi alla Borel, i mostri di Godwin sono da questa opera rigettati nel nulla. L’ho riletta apposta adesso: l'impressione di velata grandezza, di lancinante dolore che essa mi aveva già dato è ritornata più penetrante che mai. Emily tubercolotica deve aver molto ascoltato l’urlo del vento durante le sue notti febbrili. In questo suo libro, che appartiene alla categoria più alta dei capolavori, essa è discesa giù, giù nell'animo umano e, naturalmente, è giunta all’inferno. Strano debutto del romanzo vittoriano: l’opera meno «vittoriana» che si possa immaginare. Cinquant'anni più
tardi avrà un’eco potente nell’opera di Thomas Hardy, il grande romanziere dei paesaggi desolati e delle anime in pena. La comoda e ottimista età è chiusa fra queste due alte parentesi di dolore.
BENJAMIN DISRAELI, LORD BEACONSFIELD
|Disraeli come uomo politico è noto a tutti; come scrittoi re è quasi dimenticato. Tutti conosciamo la sua figura ‘smilza e curva, abbiamo letto del suo spirito mordace e sentimentale nello stesso tempo; la personalità di questo ebreo di origine veneziana che a forza di talento finì col diventare Primo Ministro, che resuscitò il partito con-
servatore, che fu il solo avversario che Bismarck temes-
‘se, che posò sopra la cuffia vedovile di Vittoria il prestiigioso diadema di Imperatrice delle Indie, sarebbe essa ‘stessa degna di esser quella del protagonista di un romanzo, anzi di un racconto di fate. Quel che a noi inte-
ressa adesso è che Disraeli fu un romanziere notevole,
uno dei più caratteristici di questo periodo «vittoriano arcaico» nel quale recò un senso di spregiudicatezza morale che odora ancora dei salotti della Reggenza e un mousseux che fu appunto l’epiteto che gli attribuì Bismarck, il suo grande avversario, sconfitto. La prospettiva storica produce dei singolari abbagli:
adesso chi conosce l’attività letteraria di Disraeli pensa in genere che essa fu un sottoprodotto della sua attività politica. È vero l’opposto: Disraeli non fu un Primo Ministro che scriveva anche romanzi; fu un romanziere che divenne Primo Ministro. Egli continuò a scrivere fino all’ultimo giorno della vita e, con vero animo di roman-
ziere, quando fu elevato alla paria, scelse come titolo il nome di un personaggio della sua prima opera. Adesso egli è poco letto, ed è un peccato. Il suo Coningsby (1844), seguito da Sybil e da Tancred (1847), è un romanzo
di straordinario interesse, in quanto uno
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dei pochissimi romanzi politici scritto da un autentico uomo politico, esente perciò dagli svarioni e dalle esagerazioni che autori di prim'ordine come Balzac e Trollope non possono far a meno di commettere quando si occupano degli uomini di stato. Questi, ed altri molti suoi romanzi quali Contarini Fleming, Lothair e Endymion, la sua ultima opera, sono di struttura singolarissima: il senso del «mistero» ereditato da Byron e intensificato dalle origini orientali dello scrittore si congiunge in modo raffinatissimo con la sempre vigile ironia, con la facoltà di
rappresentare in modo quanto mai vivo il mondo nel quale egli realmente viveva, un mondo di politicanti,
belle donne, uomini di spirito, cavalli da corsa e alti prelati. E ognuno di questi elementi è vivificato da un humour finissimo e da un gusto eccezionale. I caratteri son
disegnati con maestria e, specie quelli dei giovani, rimangono indimenticabili. Nell’ultimo suo romanzo, Endyrzion, Disraeli disegna,
sotto la più trasparente delle maschere, la figura di Napoleone III, che conosceva bene di persona e la cui carriera politica egli aveva seguito e osservato dal più alto livello; e ne salta fuori una figura che conserva tutto il mistero insito nel personaggio storico, egualmente lontano però
dalle insulse piaggerie francesi dello stesso tempo e dalle magnifiche ma calunniose invettive di Hugo. Mi chiederete adesso perché un così significativo scrittore (che è per di più divertentissimo) sia ripiombato nell’oblio quasi assoluto, e perché, ad esempio, non esista delle sue opere nessuna traduzione italiana, almeno a quel che io sappia. Si potrà rispondere che esistono delle fatalità letterarie, che quando una personalità esercita due attività contemporaneamente, è fatale che una oscuri la luce dell’altra. Ciò è vero, ma non contiene tut-
ta la verità. I romanzi di Disraeli si sono allontanati nel tempo anche per una ragione intrinseca a loro: essi rap-
presentano con troppa fedeltà (ho detto male: con trop-
L'età vittoriana
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pa adesione) un’epoca e soprattutto un ambiente che è | divenuto non soltanto inefficiente ma anche incomprensibile ai nostri giorni; ma che malgrado la sua incomprensibilità è nondimeno troppo simile, nelle sue manifestazioni esteriori, a ciò che si svolge sotto i nostri occhi per presentare un interesse storico, di «costume» per
dirlo in termini volgari. In modo che i sentimenti inattuali incarnati in personaggi quasi attuali suonano, a torto, falsi. Per apprezzarne oggi la interiore sincerità occorre conoscere bene le abitudini morali del tempo loro. Il che non è di tutti. Fra cinquanta anni, quando li potremo considerare come quadri di ambiente «storico», essi riprenderanno la loro verosimiglianza; e le loro innumerevoli buone doti riprenderanno a brillare. To trovo che questo sforzo di «rimettersi nei panni» di Coningsby, ad esempio, valga anche adesso la pena di esser fatto. Ed è uno dei più gustosi doni che possa arrecare la conoscenza dell’inglese questo di permettere l'avvicinamento a delle opere tanto piacevoli e tanto attrattive. Disraeli ha scritto anche delle liriche, assai ambiziose
nel loro intento, e nelle quali si prometteva di emulare Byron e Shelley per i quali professava un culto. Ma questi erano bestioni troppo grossi per esser avvicinati così,
senza complimenti; specie da parte di chi possedeva un talento scettico e non passionale. Il risultato è malinconico. Di Byron, per altro, ci ha lasciato un penetrante ritratto in Veretia, uno dei suoi primi romanzi.
EDWARD BULWER-LYTTON
L’aver voluto ricordarmi Disraeli ha ricondotto alla mia memoria Bulwer-Lytton (1803-1873), che di lui fu una copia ridotta. Uomo politico anche lui, ma che non raggiunse i fastigi imperiali di Disraeli; romanziere fecondissimo anche lui ma cui mancava la penetrazione e l'eleganza del grande israelita. La sua fecondità fu prodigiosa, e anche la disinvoltura con la quale abbordò tutti i generi. Di Bulwer Lytton abbiamo romanzi storici (Rienzi, The Last of the Barons, Harold), uno dei quali
sopravvive e rimane ancora popolare, The Last Days of Pompeti, scritti senza l’humour e l’umanità di Scott. Abbiamo dei romanzi «criminali» nei quali si diede a drammatizzare i delitti celebri del suo tempo. Abbiamo dei romanzi «utopistici» nei quali descrive la società futura (The Coming Race, che sfugge, sia detto a suo onore, all’ottimismo babbeo dei suoi tempi e ci mostra una «razza futura» assai peggiore di quella dei suoi tempi: la nostra, precisamente). Abbiamo anche dei romanzi, gar-
ruli e piacevoli, di tranquilla vita quotidiana (The Caxtons, My Novel) nei quali egli mostra il meglio di sé e che, come era da aspettarsi, noi, «the coming race», ab-
biamo dimenticato anche più degli altri. Vi sono anche dei romanzi esoterici (Zaroni, A Strange Story) che qualcheduno ha preso sul serio (De Guayta per citarne uno) e che sono delle porcate. Ma mi sono male espresso se son riuscito a darvi l’impressione di uno scrittore bisognoso che si affannasse a scrivere per sfamarsi. Bulwer-Lytton era un gran signore
che scriveva per suo piacere, se non sempre per il no-
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stro. E fu nel complesso sfortunato perché di lui sopravvivono (in una specie di limbo letterario) i suoi romanzi storici e esoterici, i peggiori. Mentre quelli utopistici e semirealistici sono immeritatamente caduti nell’oblio totale, dal quale non riuscirà certo a toglierli l’accenno che ad essi fa il loro forse ultimo lettore.
CHARLES DICKENS
Ogni artista è creatore di uomini, non foss’altro che di se stesso. Ad alcuni di essi, però, è stata concessa la facoltà di creare dei mondi. Questi cosmourgi, così, ad occhio e croce, mi sembra siano Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj,
Proust... Come avrete già compreso, questa facoltà di creare dei mondi non è per forza un indizio di supreme qualità artistiche; quasi sempre però si tratta di artisti di ordine superiore, forse con la sola eccezione di Ariosto. Questi ha creato un mondo, Leopardi, invece, no. Ep-
pure bisognerebbe esser ciechi per non capire che fra l’uno e l’altro corre, nella gerarchia dei poeti, la stessa differenza che, nella gerarchia dei marinai, corre tra l Ammiraglio e il mozzo. Rimane poi aperta la questione dei poeti metafisici: Dante, Donne, Milton, Goethe (nel Faust), Eliot, hanno creato dei «mondi»? Io direi di no.
Del resto hanno forse creato degli «universi» e possono dichiararsi soddisfatti. Qualunque possano essere le prerogative artistiche di ognuno, i creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà, avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari. Ripensateci, chiudete gli occhi: per ciascuno dei nomi citati vi apparirà una immagine precisa: il sole mediterraneo di Ulisse, l’afa implacabile della Mancia, le foreste della Francia carolingia, i salotti
di Parigi, le nevi sulle quali si dà la caccia ai lupi od ai
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francesi, i tranquilli parchi inglesi, i «monti sorgenti dall’acque», le vie tortuose e strette di Angouléme: i paesaggi dei mondi di Omero, di Cervantes, dell’Ariosto, di Proust, di Tolstoj, della Austen, di Fielding, di Manzoni, di Balzac. Per Shakespeare si esita a vedere il
paesaggio: egli ha creato più di un mondo. E in questi paesaggi passano, soffrono, muoiono, cioè vivono, le persone, aderenti, omogenee, irrefutabili. Alcuni di questi mondi sono sconfinati, quelli di Tol-
stoj e di Balzac; altri minuscoli, quelli della Austen e di Proust. Tutti gonfi di linfa vitale, tutti immortali. Alcuni rassomigliano al nostro mondo; altri, come quello di
Cervantes, sono signoreggiati da una nobile follia; tutti però sono fuori del tempo, soprattutto quello che alla ricerca del Tempo è dedicato. Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai incontrato alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico. Regno di infinita attrattiva, regno difficilissimo da governare. Kafka soltanto ne ha avuto uno simile; ma il riso di Dickens rende il suo più bello.
Charles Dickens nacque a Portsmouth nel 1812. Il padre era un piccolissimo impiegato dell'Arsenale, tipo spendaccione, allegro e colmo d’illusioni che il romanziere doveva poi rendere immortale col personaggio di Micawber, nel Copperfteld. La madre era un essere mite, priva di volontà, passiva e piena d’inutile bontà. Essa rivivrà (per non più morire) nella Mrs Nickleby del romanzo omonimo. Presto la famiglia venne a vivere a Londra dove il padre era stato trasferito; e il piccolo Charles non aveva ancora otto anni quando dovette in-
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cominciare a recarsi ogni giorno alla prigione della Marshalsea dove il padre venne rinchiuso per debiti. In più di un romanzo questa triste e bizzarra prigione, piena di innocenti, sarà rievocata dallo scrittore con il
suo accorato umorismo; e nel Little Dorrit si può dire che la Marshalsea è la protagonista. Quando morì Dickens poté pensare di aver vendicato il padre: la prigione per debiti era stata abolita dal Parlamento mediante una legge che, nella motivazione, si riporta alle pagine illustri di Dickens. Ma le fortune della famiglia Dickens periclitavano sempre più: gli introiti del padre, sommerso dai debiti, non erano più sufficienti: a dodici anni il fanciullo dovette andare a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe. I maltrattamenti, le vessazioni, lo sfruttamento di questi bimbi-operai furono più volte denunciati da Dickens nei romanzi, col suo indimenticabile accento
dolce-amaro. Anche qui il poeta doveva spuntarla sugli interessi privati: prima che Dickens morisse il lavoro dei fanciulli era dichiarato illegale, e il Parlamento dichiarò
formalmente che «i suoi occhi erano stati aperti dalla nobile crociata dell’illustre scrittore Charles Dickens». Una piccolissima eredità (venti sterline!) permise a Dickens di veder alleviato il suo martirio: cessò di essere operaio e fu inviato a scuola, una miserabile e triste
scuola privata, nella quale pur tuttavia imparò a leggere. Aveva quindici anni. Da questa scuola uscì presto perché le venti sterline erano finite e trovò posto quale usciere nello studio di un avvocato. E delle cattive scuole e dei cattivi avvocati resteranno nella sua opera tracce indimenticabili. Dallo studio dell’avvocato di terz’ordine passò nella redazione di un giornaletto di quart’ordine; apprese la stenografia e fu incaricato di redigere i dibattiti parlamentari. Non bisogna mai dimenticare che le frequenti puntate contro the Government che troviamo nella sua
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opera provengono da una persona che conosceva bene il meccanismo parlamentare. Ma fu anche redattore viaggiante e lì, in questi scomodi ma'allegri viaggi, acquistò la sua enciclopedica conoscenza delle diligenze, delle locande, degli albergucci e della variegatissima gente che li popola, conoscenza che doveva poi costituire uno dei fascini maggiori della sua opera. Nel dicembre del 1833 fu pubblicata la sua prima opera: essa porta il titolo che potrebbe servire a tutta la produzione dickensiana: Sketches by Boz, Illustrative of Every-Day Life and Every-Day People. Sono, come egli stesso dice, schizzi, bozzetti, di nessun rilievo ma nei
quali noi che conosciamo adesso chi fosse Dickens possiamo scorgere di già la sua più che umana facoltà di trasfigurazione degli individui. Allora non se ne accorse nessuno. Due anni dopo, di botto, nasce il capolavoro. Un editore aveva dato l’incarico a Dickens di scrivere un commento satirico a delle incisioni sportive che venivano poste in circolazione una volta al mese. Durante due mesi uscirono questi commenti, scialbi e stupidi. Poi l’incisore si uccise, per miseria, secondo il più rigido stile inglese dell’epoca: tagliandosi la gola con un rasoio, da orecchio a orecchio, davanti a uno specchio. L'editore, che aveva di già percepito gli abbonamenti, era disperato. Dickens gli propose di continuare da solo la pubblicazione, facendo a meno delle incisioni. Dalla terza dispensa in poi, dal momento cioè in cui si narra il divino viaggio in carrozzella da Goswell Street all’albergo della Croce d’Oro, l’opera mutò carattere: gli Dei tornarono a passeggiare nelle strade inglesi. Pickwick era nato. Quel breve tragitto nella bizzarra carrozza guidata dal collerico vetturino ci fa entrare nel mondo di Dickens, un mondo interamente nuovo e più
bello di quello che conosciamo. Per trentatre anni Dickens ci farà da guida in questa sua «nuova terra» e
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soltanto la morte gli impedirà di adempiere al suo ufficio. Essa è adesso patrimonio universale: in essa hanno viaggiato Trollope, Dostoevskij, Maupassant, Flaubert e Pirandello, e ne conservano vivi ricordi. In essa, lo ripe-
to, saremo trasferiti quando moriremo se lo avremo meritato, e in essa troveremo la perfetta letizia.
Non esiste in nessun’altra letteratura un libro come Pickwick: un racconto di fate senza soprannaturale, un
racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario. Vi è tutta la gaiezza e la golosità di Rabelais senza la sua lussuria; i suoi trecento personaggi e i trentacinque alberghi nei quali s'incontrano ci mostrano in iscorcio tutto il mondo, il mondo di Dickens. Nelle altre opere non farà che svilupparlo, espanderlo, mostrarcene altre contrade: ma il nucleo, il cuore è già lì, intero. Pickwick, i suoi amici Winkle, Tupman e
Snodgrass, Sam Weller che riunisce in sé umanità e lo spirito e l’impertinenza delle più grandi creature shakespeariane, il padre di lui, Mrs Bardell e il figliolo, le vecchie signorine innamorate, le collegiali spaventate, i gradassi, gli imbroglioni, le bas-blew, i giornalisti verdi di bile formano un coro che canta le melodie più avvincenti. Si passa da diletto a diletto, da sorriso a sorriso, da 0sservazione a osservazione senza un attimo di stanchezza,
trascinati dal ritmo di danza che l’autore ha saputo imprimere al suo racconto. E quando si è chiuso l’immenso volume sembra che sia passato un quarto d’ora. Meno male che si può subito ricominciare da capo, e che vi si troveranno sempre nuove perle. Quando si legge come Pickwick, ritornato a casa da una lunga passeggiata per le strade infangate, vede un cameriere precipitarsi su di lui e spazzolargli le scarpe «till his horns were redhot» non si rimpiangono i cori angelici che accolgono Faust al suo ingresso in cielo. In questo mondo di Pickwick l’atmosfera è dotata di uno strano potere rifrangente che rende inconsueti i va-
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lori tonali. In esso troviamo portata alla perfezione quella curiosa e difficile arte del «realismo dis-realizzato». Libro che cela profondità artistiche insondabili e che giustifica l'aforisma nietzschiano di «Lust — tiefer noch als Herzeleid». Che questo mondo completo, sorridente e supremamente piacevole abbia potuto esser creato da un giovanotto di ventiquattro anni è uno dei miracoli dell’arte. Su questa particolare specie di «realismo» è necessario che abbiate la pazienza di volere ascoltare ancora qualche parola. Sarà noioso ma è indispensabile perché in essa (a mio personale parere) si può trovare la chiave dell’arte di Dickens. Egli stesso ce ne ha dato una specie di definizione per via di una sorta di parabola. Dickens, sul finire della sua vita, cominciò una sua Autobiografia che condusse sino all’età di quindici anni e poi interruppe. In essa racconta come, nel periodo in cui lavorava nella fabbrica di lucido da scarpe, egli solesse, a lavoro finito, errare a lungo per le strade di Londra e anche, con i pochi soldi che aveva in tasca, entrare in qualche caffè. «Di questi caffè»
egli dice «ne ricordo soprattutto uno che si trovava vicino alla chiesa di San Martino, e sulla cui porta vi era una targa di vetro con le semplici parole “Coffee Room” scritte sopra, in modo che potessero esser lette dalla strada. La conseguenza era che a me, che stavo dentro il
caffè, queste parole apparivano come “Moor Eeffoc” e ancora adesso il veder talvolta delle iscrizioni a rovescio mi produce una singolare scossa al sangue.» In questo breve passo Dickens ci ha fornito la spiegazione di quella «rifrazione» deformante che è caratteristica delle sue opere: le lettere dell’iscrizione sono quelle banali che formano le parole «Coffee Room»; attraverso la mente dell’artista esse, pur restando identiche, com-
pongono le parole «Moor Eeffoc», parole misteriose e
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temibili simili a quelle che una mano soprannaturale scrisse sulle mura del Re. Sostituite ambienti, persone, fatti comuni a tutti noi;
guardateli attraverso il vetro della fantasia di Dickens e otterrete delle creature, dei luoghi in tutto simili, se presi uno per uno, a quelli che conosciamo ma che avranno acquistato un senso 0 di sovrumano buonumore o di squallida eeriness. Una volta, una sola, Dickens è riuscito a
fondere il buonumore e l’eerzzess: nei Pickwick Papers. Dalla Autobiografia si può desumere un altro elemento dell’arte di Dickens: la sua conoscenza profonda, enciclopedica di Londra. Quel ragazzotto che all’uscita dal laboratorio errava per le grigie strade immagazzinava impressioni ad ogni passo. E quando incominciò a scrivere si trovò con un tesoro di visioni. Dickens è il poeta di Londra; la conosce nelle sue nebbie e nei suoi velati soli, nelle stradette miserabili nelle quali nessun raggio penetra, nel suo fiume giallo e pigro, nel suo ansito e nella sua febbre; questa Londra che più che una città è una foresta di case egli l’ha descritta, l’ha trasformata in se stessa al solo fine di renderla più comprensibile. Alcuni capitoli di Chuzz/ewit nei quali vien descritto (col metodo dei grandi, per piccoli tocchi inavvertibili) il quartiere commerciale della metropoli, danno le vertigini. In qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di esser scrutata da un genio in ogni suo angoletto. Quando la bomba H la distruggerà la sua morte sarà soltanto apparente. Palermo, ad esempio, morirà sul serio; non così Catania. E questa sua im-
magine, per di più, non è la piatta riproduzione fotografica, ma un quadro nel quale l’artista ha trasformato con la sua visione la realtà in modo da far risaltare mediante l’esagerazione (che è poi parola sinonima a quella di ar-
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te) i suoi caratteri essenziali e il segreto del suo spirito. «He made London like a dream», ha ben detto WattsDunton.
Il successo di Pickwick fu a La tipografia non riusciva a stampare abbastanza presto per far fronte al desiderio del pubblico. Ed è ben dir subito, per non ripeterci, che un successo uguale accolse tutte le opere di Dickens fino alla sua morte. L’ondata di consenso traversò l'oceano e raggiunse le coste americane. Si narra
che durante la pubblicazione del Copperfield, che usciva col solito sistema delle puntate mensili, migliaia di newyorchesi si recavano al porto il giorno in cui dovevano arrivare le dispense per poter essere i primi a leggerle. E la Gaskell ha simbolizzato questo periodo di follia prodickensiana facendo morire schiacciato da un treno il suo virtuoso protagonista intento a degustare una dispensa di Dickens acquistata in quel momento alla stazione. Il successo mise finanziariamente a posto, per sempre, il romanziere che, immediatamente, prese moglie. Sposò una ragazzina giovane giovane, piccolina, piccoli-
na, con grandi riccioli biondi e poco cervello: frivola e futile più che stupida. Fu molto infelice ma dopo due anni la ragazzina morì. E Dickens nella parte autobiografica del Copperfield ci ha lasciato di lei, dei suoi capricci e dei suoi cagnolini una di quelle tenere caricature che lui solo sapeva disegnare.” Dopo Pickwick venne pubblicato Oliver Twist. In questo romanzo il mondo dickensiano rimane lo stesso in essenza, soltanto è guardato da un altro angolo e sotto una differente illuminazione. Non ci troviamo più nelle “ Tomasi confonde qui la realtà biografica con la finzione letteraria. AI contrario di Dora, la prima moglie di David Copperfield, che muore appunto dopo pochi anni di matrimonio, Catherine Hogarth, la moglie di Dickens, sopravvisse allo scrittore. La loro unione fu comunque infelice e terminò nel 1858 con una separazione.
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accoglienti locande e fra la verde campagna inglese, ma nei bassifondi londinesi sulle rive del fiume lutulento e imbronciato. Ladri, usurai e ricettatori si muovono co-
me vermi in questo fango. Eppure, miracolo della sensibilità, questi personaggi ci appaiono piacevoli senza cessare di essere sinistri. Rassomigliano a quelle grondaie delle cattedrali gotiche che ci mostrano forme di bestie spaventose ma che pur ci fanno sorridere. «Zwei Seelen wohnen ach! in meiner Brust!» L'una, quella angelica, mi spingerebbe a continuare una esposizione di tutti i (non pochi) romanzi di Dickens. L’altra,
quella nera, irritata dal caldo vorrebbe che io piantassi tutto. È urgente trovare il sofisma che permetta all’anima nera di soddisfarsi pur continuando a prestare un Zip service alla bianca. Occorre cercarlo. Lo cerco. L'ho trovato. Dickens è autore da leggersi nella sua voluminosa interezza. Piccoli suntini delle sue opere possono del resto trovarsi nel Bompiani. È quindi inutile continuare a fare pessimi esposti di questi romanzi; è più piacevole, e anche letterariamente più dignitoso. Chissà che, rinfrescato, non trovi la forza di continuare, non l'esposizione
delle singole opere, ma il mio tentativo di lumeggiamento di questo scrittore. Le opere di Dickens possono dividersi in due «maniere».
La prima si inizia con il Pickwick (1836) cui segue Oliver Twist (1838), il quale, malgrado i pregi cui ho accennato e che sono del resto comuni a tutte le opere di Dickens, è nettamente inferiore a Pickwick: intendo dire che il suo valore non è di natura così uniforme, il
Pickwick forma davvero un blocco. Oliver Twist alterna pagine di alta fattura (quelle sulla morte di Fagin, per citarne qualcuna) con altre di assai minor valore. E queste più deboli sono sempre le pagine nelle quali si esalta la
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virtù. Non intendo con ciò dire che Dickens sia uno scrittore perverso. Sarebbe una stupidaggine troppo | forte da parte mia. Volevo significare invece che egli riesce meglio a farci amare i buoni... quando li dipinge ridicoli o maniaci o addirittura pazzi come l’immortale zio di Davide. Quando vuol presentarci la virtù allo stato puro, la pura fanciulla, il puro giovanotto, la pura madre si commuove lui stesso, perde la testa e tira fuori ritrattini leccati che sono di un sentimentalismo esasperante. Questa del sentimentalismo è la vera macchia dell’opera dickensiana. E i suoi romanzi valgono in diretta misura dell’assenza di piagnucolamenti. Pickwick è il capolavoro massimo appunto perché privo di questa menda in modo assoluto. Nella classifica lo segue Copperfield che ne è immune per nove decimi. Voglio affrettarmi a farvi sapere che la percentuale zuccherosa rimane sempre bassa e che essa è infallibilmente trascinata via dopo qualche pagina dalla possente ondata del buon umore e della fondamentale sanità dell’autore. Nicholas Nickleby (1839) sembra a me uno dei migliori romanzi. In esso Dickens ha tenuto, fra l’altro, a de-
nunziare al pubblico l’inefficienza e la crudeltà di molti collegi privati per ragazzi. Ma lo ha fatto come lui solo sapeva fare: rendendo ridicolo Dotheboys Hall, riempiendolo di personaggi comici, facendovi avvenire fatti esilaranti, ma dando a tutto questo un contorcimento ta-
le che quando abbiamo finito quei capitoli ed abbiamo cessato di sorridere, non possiamo non esclamare: «Dotheboys Hall è l’inferno!». I personaggi sono tutti adorabili meno uno. La signora Nickleby madre è un sogno: è la vecchia signora tipica che tutti conosciamo, buona in fondo, ma dotata di un cervello da gallina che la porta a commettere degli orrori. Crummles e quelli che lo circondano sono come i migliori personaggi di Dickens, inesauribili, ineffabili e da godersi per l’eternità. E appena al disotto di essi sono i Mantalini e l’ado-
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rabile Newman Noggs. Malriuscito invece è Smike perché in lui appaiono le lagrimucce. Ma saranno venti pagine su cinquecento.
Dopo la pubblicazione del Nick/eby, Dickens fu assalito da una crisi di coscienza estetica. Le crisi di coscienza (estetiche o altre) sono destinate a finir male essendo dei tentativi (vani perché anch’essi determinati) di sottrarsi al meccanicismo degli eventi. La causa di questa crisi di coscienza appare strana a noi, oggi, ma era legit-
tima ai tempi di Dickens e anzi è conferma di quanto io non abbia errato a porre il creatore di Pickwick fra i «Vittoriani arcaici», cioè fra gli scrittori che conservano forti tracce dell’epoca precedente. A noi, oggi, appare indiscutibile l’esistenza del «narratore onnisciente», cioè del romanziere che pur parlando in terza persona conosce i più minuti particolari della vita e delle azioni e dei pensieri dei suoi personaggi. A noi una frase così composta: «Al momento di annegare Sempronio vide passare dinanzi ai suoi occhi l’immagine di Petronilla; inghiottì ancora una boccata d’acqua che gli sembrò amara; annaspò con la mano destra e poi perse la conoscenza» sembra naturale e ovvia. Essa, in realtà, è interamente arbitraria e frutto di una conven-
zione. Gli ultimi istanti di vita di Sempronio possono essere narrati soltanto in prima persona e soltanto in una seduta spiritica. E ciò valga anche per fatti assai meno solitari della morte. Una frase così concepita: «Lampedusa pose la mano nella tasca sinistra dei suoi calzoni, cercò le sigarette ma trovò soltanto un vecchio biglietto dell'autobus» è quasi altrettanto irreale. Questo problema di realtà, che la nostra epoca, pur tanto contraria alle convenzioni, ha superato non curandosene nella massima parte dei casi, aveva fortemente preoccupato il Settecento e da questa preoccupazione era nato il romanzo epistolare. Ai nostri giorni la preoccupazione è scomparsa, tranne che per pochi scrittori che, a dir vero, sono
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i massimi: in Proust, ad esempio, sono rarissime le espo-
sizioni di pensieri altrui, e Conrad ha inventato il sistema plurimo di racconto che ha applicato talvolta con risultati ammirevoli e che, di fatto, è una variazione più vivace del romanzo epistolare. Sia come sia, a un certo
momento Dickens si pose questo problema. Ed egli credette di averlo risolto mediante un trucco; immaginò che una società di amici decidesse di nascondere un racconto scritto da ciascun socio dentro un vecchio orologio. E così vi è una certa parte dell’opera di Dickens che è raggruppata sotto il titolo di Master Humpbhrey's Clock. Il trucco era, diciamolo pure, idiota e non portò fortuna al suo inventore. Dal vecchio orologio uscirono parecchie novelle e due romanzi. Le novelle sono al disotto di ogni considerazione: la brevità e la sinteticità di questo genere letterario erano agli antipodi del talento di Dickens che procede sempre per piccoli tocchi e che richiede molto tempo al proprio lettore, richiesta che gli viene del resto concessa con gioia. Non esiste niente di buono scritto da Dickens che sia più breve di trecento pagine. Le novelle intercalate financo nel Pickwick sono orrorose. (Questo, del resto, è un carattere da autentico Vittoriano.) Il primo dei romanzi fu The Old Curiosity Shop (1841), che è da moltissime persone riguardato come il
peggiore di Dickens. Non posso essere di questo parere. I due principali personaggi, Nell e suo nonno, sono, a dir vero, disgustosi, e il nonno ancor più della nipotina. I fiumi di lagrime che essi versano e gli oceani che hanno fatto versare a milioni di lettori costituiscono la loro condanna. La loro, però, non quella dell’autore. Dickens è anzitutto salvato dalla sua sincerità: non vi è un pelo d’ipocrisia nel suo sentimentalismo. Dopo, ciò che a noi appare nauseabondo non lo era, evidentemente, dato l’entusiasmo generale, ai suoi tempi. In terzo, e
in sede estetica maggior luogo, una forbice sacrilega-
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mente audace potrebbe ritagliar via le molte scene lacrimose e il romanzo rimarrebbe intatto, pieno zeppo come è di talento, di humour e di personaggi tracciati da un maestro. Mrs Jarley, i Brasses, Quilp sono dei magnifici caratteri comici. Il «mondo» di Dickens si mostra in uno dei suoi aspetti più inconsueti; e soprattutto «the Marchioness», quella figura di vecchia serva
sulla quale Dickens accumula tutte le colpe e tutti i ridicoli per farne un personaggio commovente, basta a testimoniare cosa possa produrre un genio anche nei suoi
momenti meno felici. A me sembra inferiore il secondo romanzo estratto dalle capaci viscere del malaugurato orologio: Barzaby Rudge (1841). Inferiore soprattutto perché il mondo dickensiano ci appare attenuato. È un romanzo storico, studiatissimo, graziosissimo, tutto quel che si vuole; ma
l’esistenza di un ambiente prestabilito impedì il formarsi dell’universo di Dickens. Le strade descritte sono, a
quanto pare, le autentiche strade della Londra del 1780. Ma queste a me non interessano quando leggo Dickens; ciò di cui la mia anima è assetata sono le strade, fuori di
ogni tempo,
di ogni probabilità,
della Londra
di
Dickens, quelle strade che nella loro stilizzazione, nella
loro notazione degli «essenziali» sono le sole autentiche strade di Londra. Nei personaggi la cosa migliora: quelli rigorosamente storici sono insopportabili; quelli secondari, nei quali è rimasta libera la fantasia regale dell’autore, sono deliziosi (Tappertit). Barnaby Rudge è elaboratamente pianificato e scritto con insolita eleganza, ma sembra una raccolta di aneddoti; Pickwick, che è in fon-
do un centone di avventure senza molto nesso e che è scritto alla carlona, lascia l'impressione di omogeneità e di splendore di un bronzo alessandrino. Dopo Barnaby Rudge Dickens ruppe l'orologio e fece bene. Ma da esso non erano soltanto uscite brutte novelle e
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romanzi mediocri: era uscita anche una tragedia: una seconda moglie." Essa era la copia conforme della prima: | carina, bellina, stupidina. E come la prima rese il marito infelice, ma ebbe l’aggravante di sopravvivere al marito. Vi furono numerosi figli e una pronipote di Charles, Monica Dickens, è adesso una buona romanziera inglese. Sia detto a discarico della signora Dickens numero due, la vita con il grande scrittore non era facile: egli era nevrastenico, irritabile, alternava giorni di cupa tristezza a momenti di sfrenata, quasi pazzesca allegria (proprio dickensiano!); era geloso ed era infedele. In quegli anni Dickens compì dei viaggi all’estero: uno in Italia, sul quale ci ha lasciato delle graziose noterelle. Dell’Italia non comprese assolutamente nulla: i forti pregiudizi protestanti e il radicato carattere britannico gli sbarrarono la via alla comprensione. Però era sempre un uomo di talento e alcune scene di strade napoletane e soprattutto una rappresentazione di mario-
nette a Genova sono da lui riferite con la consueta magia trasformatrice. Un istante solo il velo sembra sollevarsi dai suoi occhi: quando a Verona, vedendo dei soldati austriaci affacciati al balcone di un vecchio palazzo trasformato in caserma, scrisse che sembravano
«grossi topi annidati in un bel formaggio». E poco, ma è qualche cosa. Quanto mai significativa una pagina nella quale, dopo aver descritto lo splendore del tramonto nel golfo di Napoli, esclama: «E in quel momento tutta la mia anima si protese in un disperato appello verso le nebbie gialle e sporche del mio Tamigi». Il re sospirava il suo regno. Ben più importante fu il viaggio che Dickens compì negli Stati Uniti nel 1842. Egli fu profondamente disgu“ Anche qui l’idea che Dickens abbia avuto due mogli deriva probabilmente dalla tendenza di Tomasi a considerare i romanzi di uno scrittore come trasposizioni della sua biografia. Cfr. nota a p. 1027.
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stato dalla vita americana e questo suo disgusto si mostra con sarcasmo nelle Arzerican Notes e con violenza tragica (la tragicità di Dickens cioè l’esasperazione della comicità) nel romanzo Martin Chuzzlewit (1844), la cui
azione si svolge alternativamente in Inghilterra e in America. Il romanzo appartiene allo stile di transizione di Dickens. Vi è un tentativo di costruzione che toglie alla narrazione la sua potente freschezza, ma vi è per fortuna ancora sufficiente inesperienza perché sia lasciato campo alle squisite incongruenze dell’autore. I capitoli sull'America sono i migliori: raramente qualche cosa di altrettanto furente è stato scritto da un viaggiatore sul paese che lo ha ospitato (e che lo ha accolto con sinceri seppur goffi onori). La «filantropia», lo «spirito pubblico», l'avidità del guadagno, la frequenza dell’imbroglio, il vacuo nazionalismo, l’incomprensione per l’arte, la corruttela della stampa, la meccanizzazione dell’esistenza sono ricoperte da un diluvio di risate. L’ira fu così forte da dare un’aggiunta d’impulso al genio deformatore di Dickens: Chuzz/ewit nella sua parte americana ci dà l'impressione di un’opera di Swift; sembrano le note di viaggio di un esploratore capitato in una terra incognita abitata da pazzi. Eppure ogni dato è esatto; e a quel che ne possiamo giudicare noi, rassomiglia maledettamente anche agli Stati Uniti di oggi. Come può immaginarsi gli americani imbestialirono; e le invettive più grossolane si riversarono sul capo del grande romanziere che ricevette anche numerose minacce di morte. Ma egli non era tipo da stare in silenzio: rispose sui giornali inglesi, facendo barba e contropelo ai suoi avversari di oltreoceano. Finché questi capirono che avevano da fare con un umorista troppo in gamba perché non riuscisse ad avere sempre «les rieurs de son coté».
E si calmarono. Sia detto del resto ad onore degli statunitensi, essi non smisero mai un istante di leggere ap-
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{passionatamente Dickens e quando nel 1867 egli ritornò iin America per tenervi delle conferenze fu soffocato da \una pioggia di dollari e di complimenti. Subito dopo il Chuzz/ewit fu pubblicato Dombey and ‘Son. È in questo romanzo che Dickens tocca il livello iminimo della sua opera. L’intreccio è sforzato, ipersoinaggi sono dei burattini parolai e falsi; meriterebbero di ‘essere dei personaggi di teatro lirico. Vi sono, non pos:sono non esservi, delle macchiette secondarie dotate di ‘affascinante vivacità; ma non riescono a salvare l’opera. {Financo la Londra di Dorbey and Son è sfocata e priva di quelle ombre fantastiche cui Dickens ci aveva avvezzi.
'Vi è un ragazzino, Paul, che muore di un misterioso male di eziologia puramente melodrammatica, che nel deli-
‘rio va dicendo: «What are the wild waves saying?», che
è, mi duole dirlo, degno di Donizetti; ma queste sue ulti-
me parole sono rimaste nella conversazione inglese attuale come espressione del gusto cattivo e della falsa commozione mentre da noi il loro equivalente musicale fa andare in sollucchero gli indegni figli di Dante e di Leopardi. Ma che Dombey and Son fosse dovuto a cause occasionali, a un cattivo funzionamento della pituitaria o ad uno scarso assorbimento di acido glutammico, lo prova il fatto che un anno dopo (1849) venne pubblicato il David Copperfield che è certamente «the second best» delle opere di Dickens e per alcuni addirittura la migliore. Al primo o secondo posto che sia, Copperfield è un capolavoro. Largamente autobiografico, Dickens mostra in questo libro una qualità nuova per lui: la tenerezza. Altrove aveva dato prova di lagrimosità, qui dà prova di commozione. I capitoli sulla morte della madre restano da questo punto di vista (e da tutti i punti di vista, del resto) memorabili. La facoltà poetica di Dickens è qui applicata con un metodo nuovo e di singolare efficacia: tutto il principio del libro, quello che descrive le di-
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savventure del protagonista da ragazzo, è scritto con la
mentalità del bambino che osserva i grandi: i personaggi adulti sono, così, verosimili soltanto in rapporto a un bambino. Il signor Murdstone è descritto come da un ragazzo che lo credesse cattivo e onnipotente; Peggotty è la bambinaia che benché buona fa paura; ed ogni spostamento, ogni banale viaggetto è sentito e con finezza mirabile reso come una deportazione. Copperfield è il primo (l’unico forse) romanzo di Dickens nel quale i personaggi seri e tristi siano dotati della stessa evidente verità di quelli cosiddetti comici. Sono veri e li abbiamo conosciuti tutti: abbiamo conosciuto la zitellona sconsolata, eretta e sardonica, la zitellona che è tanto pazza nel-
le piccole cose e tanto savia nelle grandi; abbiamo tutti visto l’aristocratica madre di Steerforth, così orgogliosa, così desolata; e molti di noi hanno conosciuto Rosa, la
donna solitaria e disillusa nella quale l’amore a forza di ristagnare si è mutato in veleno.
Ma anche qui, al disopra di queste patetiche figure pur così pateticamente rese, si alzano le creature della tragica gioia di Dickens. Sono giganti, e sono una folla. Vi è anzitutto Micawber l’Immortale, l'eterno illuso, il
buon briccone, l’unico fratello di Falstaff in tutte le letterature; vi è sua moglie che continuamente lo giudica e costantemente cede al suo fascino; vi è l’indimenticabile pazzo, che benché pazzo (e Dickens anzi vuol dire pro-
prio perché pazzo) è l’unico che dica una parola che può esser ritenuta saggia nei momenti di crisi; vi è Mrs
Gamp, la vecchia infermiera ubbriaca e brutale ma che è un angelo tale che di lei è stato detto «è preferibile morire per mano di Mrs Gamp che guarire per mano di un’altra»; vi è un «Headboy», un primo della classe,
che nella vita reale è assai improbabile ma che ogni ra-
* Mrs Gamp è in realtà un personaggio del Martin Chuzzlewit.
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gazzo infelice e stupito ha conosciuto nella propria scuola; ci sono miriadi di personaggi secondari. È di questi personaggi secondari di Dickens che bisogna parlare adesso: intendo dire di quelli veramente secondari, delle semplici comparse. In migliaia di romanzi di migliaia di autori potremmo leggere una frase di questo genere: «Il commendatore Attilio Gattoni scese dal taxi all’ingresso della stazione e, pagato l’autista, chiamò un facchino per farsi portare le valigie allo scompartimento». In Dickens tanto l’autista come il facchino sono caratterizzati, e caratterizzati benissimo. Conoscete i bi-
torzoli del loro volto, le macchie del loro vestito e le co-
se gentili o villane che si diranno fra loro e diranno al commendator Gattoni, essi faranno parte del mondo dickensiano. Questa regola vale sempre, anche nei romanzi meno riusciti ed è questo che dà al tutto una così intensa sensazione di formicolante vita. Col Copperfield si inizia la seconda maniera del nostro autore. Dickens adesso ha imparato a costruire il romanzo; si è reso conto che quel che dice ha dell’importanza perché è udito da chiunque sappia leggere in Inghilterra e nell’English speaking world; ha anche appreso che quando ci si mette davvero sa creare anche dei personaggi drammatici. Alcune di queste scoperte su se stesso danno buoni frutti: i personaggi cessano di essere piagnucolosi, l'intreccio si affina ed è preparato con grande cura. D'altra parte l’estro, che scorreva così spumeggiante fra le trascuratezze dei primi romanzi, adesso che è incanalato ci appare talvolta stanco; il vezzo di buttarsi a
capofitto nelle crociate pro o contro qualche istituzione costituisce un’arma a due tagli: talvolta produce dei capolavori (Little Dorrit), talaltra è un fallimento (Hard Times). Il mondo di Dickens esiste sempre, ma adesso an-
che il suo creatore si è accorto che non è un mondo come il nostro, e un po’ se ne compiace, non vi fa più scorribande senza scopo ma va esplorandolo regione per regione,
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città per città. Questo mondo è sempre supremamente
attraente nella sua esagerazione che ne rivela l'essenza, ma il piacere della scoperta inattesa, il gioioso grido di «Terra, terra!» non si ode più. Bleak House è del 1852 ed ha come scopo di crociata... gli indugi della legge; e questo scopo è, qui, usato come elemento di arte. E si può facilmente immaginare quali effetti di chiaroscuro Dickens abbia saputo trarre dalle polverose cancellerie dei tribunali e dagli studi ovattati degli avvocati e di quali e quanti gnomi abbia saputo popolare questi antri. Dopo B/eak House fu commessa una gaffe. Venne pubblicata una Ch:/d's History of England della quale si è detto giustamente che non è una storia per bambini ma una storia scritta da un bambino. Passiamo. Ma passando inciampiamo in un altro infortunio, per fortuna l’ultimo: Hard Times (1854), che, al contrario di qualsiasi libro di Dickens, non suscitò nessuna controversia: tutti, conser-
vatori e radicali, dickensiani e antidickensiani, furono d’accordo per trovarlo pessimo. (Ma le macchiette dei personaggi secondari vi sono, e sempre pari in valore alle figure passate.) Ad ogni modo, ri-passiamo.
Per la prima volta da quasi vent'anni Dickens fa una sosta. Passano tre anni senza che pubblichi qualche cosa. Il raccoglimento gli fece del bene. La prossima opera è una delle sue migliori: Little Dorrit (1857), che contiene le pagine insigni sulla Marshalsea, e che anzi attorno a quella prigione si aggira tutta. A questa prigione Dickens conferisce tutta la grandiosità delle prigioni piranesiane; popolata poi da diecine di tipi, patetici, come sempre, nella loro comicità. Little Dorrit venne pubblicata il 30 maggio 1857. Nel 1869 il Parlamento approvava la legge che aboliva la prigione per debiti; tutti i relitti umani della Marshalsea venivano posti in libertà, e lo Speaker (il Presidente) dei Comuni a nome del Parlamento tutto ne informava Dickens in una lettera commossa.
L'età vittoriana
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La fatica seguente del nostro romanziere fu un racconto storico, A Tale of Two Cities (1859), la cui azione
si svolge a Parigi e a Londra durante la Rivoluzione francese. L'influenza della Storia di Carlyle vi è evidente. Il Tale of Two Cities è un romanzo ben strano: la figura del protagonista vi è potentemente tracciata, la trama è condotta con un senso drammatico ben raro in Dickens. Però A Tale of Two Cities è un’opera che gli antidickensiani trovano essere la sola decente che il maestro abbia scritto; i dickensiani, di rimando, la sola illeggibile del loro autore. Il fatto è che A Tale of Two Cities sembra
un'eccellente storia narrata da un altro scrittore che possegga tutte quelle qualità di ritegno, di pudicizia letteraria, di sobrietà insomma che Dickens non possedeva; e che manchi totalmente del brio, dell’estro, della sfrenata
fantasia verbale dell’autore di Pickwick. Si potrebbe definire una commedia di Shakespeare scritta da Ben Jonson. Credo sia superfluo dire da quale parte inclini il mio perfido gusto. Indubbiamente di Dickens è il romanzo seguente, Great Expectations (1861), nel quale il giovanile personaggio di Pip è disegnato ancor meglio di quello del giovane Copperfield. Tutti i personaggi umoristici sono della migliore qualità e, come si deve, anche i personaggi tragici hanno una tintura di umorismo. Qui forse più che in ogni altro libro si dimostra come Dickens sentisse l’umanità di un essere soltanto attraverso la forma comica. In questo periodo Dickens fu editore di un periodico («Household Words») nel quale pubblicava, sempre a puntate, i suoi romanzi ed anche alcune Christrzas Stories che, per eccezione, sono buone e ricamano col solito sorriso rattristato aneddoti e reminiscenze su questa fe-
sta familiare tanto cara alla gente del Nord. L’ultimo romanzo completo è Our Mutual Friend (1865), anch'esso all’altezza dei migliori di questo se-
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Letteratura inglese
condo periodo. Il talento dickensiano non dava segno alcuno di stanchezza quando lo scrittore, il 12 maggio 1870, mentre scriveva in giardino, fu colto da emorragia
cerebrale e morì nello spazio di due ore. Dickens fu fortunato per la morte subitanea che gli risparmiò la decadenza che subì Scott negli ultimi anni e la lunga follia di Swift. Ma noi difficilmente possiamo rassegnarci pensando che egli lasciò incompiuto, a metà del lavoro, The Mystery of Edwin Drood, che, dal largo brano rimastoci, può esser giudicato di primissima forza, inferiore soltanto a Pickwick e a Copperfield. L’autore era riuscito ormai a padroneggiare interamente la propria «seconda maniera»: come tutti i romanzi imme-
diatamente precedenti Edwin Drood è meticolosamente costruito con rara abilità e stupenda tecnica; ma in più di essi qui Dickens aveva imparato l’arte (difficile) di non far sopraffare l’estro dei suoi personaggi dalle necessità dell’azione. In pochi altri romanzi ci sono altrettante spettacolari sorprese verbali. Voglio citarne una tanto più che essa è di gusto funerario e sarà a posto in questa fine di capitolo. Si tratta semplicemente di una lapide in un cimitero, lapide che non ha nessun peso sull’azione e la cui iscrizione Dickens ha inventato per puro amore dell’arte. Ethelinda, Reverential wife of MR. THOMAS SAPSEA,
Auctioneer, Valuer, Estate Agent, & C.,
Of this city, Whose knowledge of the World Though somewhat extensive,
Never brought him acquainted with A Spirit More capable of Looking up to him.
L'età vittoriana STRANGER,
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PAUSE
And ask thyself the Question, CANST THOU DO LIKEWISE?
If not, WITH A BLUSH RETIRE
Questa colossale beffa ha, come i versi di Eliot (e quelli di Lucio), tre o quattro significati contrapposti. Anzitutto quello della strabiliante assurdità, assurdità tanto profonda da svelare le assurde radici dell’esistenza. Dopo, quello di una satira sulla pomposa letteratura celebrativa. In terzo luogo è una presa in giro dei pretenziosi e infallibili mariti vittoriani. E poi ha il senso della cosa compiuta chiusa in se stessa, priva di ogni scopo se non artistico.
Charles Dickens è ancora ai nostri giorni lo scrittore maggiormente letto. Non bisogna giudicare dall'Italia dove, in linea di massima, non si legge; ma non vi è chio-
sco di stazione o biblioteca circolante in Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Unione Sovietica (mi è
stato riferito) dove non siano esposte due o tre sue opere. So bene che non tutti lo leggono per il suo grande valore di arte: ma lo leggono. E perché lo leggono allora? Per divertirsi. E che cosa li fa divertire? Il senso di vita in continuo flusso che danno i suoi romanzi. E che cosa produce questo fluire di vita? La sua arte.
Ma la critica è stata lungi dal condividere il favore del pubblico. Già durante la vita di Dickens, e in modo sempre crescente sino a trent'anni fa, si sono rivolte le
più assurde critiche all’arte sua. Si è detto che è visibile la sua mancanza di cultura; che si poteva subito notare come provenisse da un ceto sociale ineducato e come gli fosse mancata una cultura universitaria; e i critici che volevano superare scemenze di questa portata hanno argomentato che la sua arte non sarebbe sopravvissuta perché troppo legata alle condizio-
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Letteratura inglese
ni sociali ed ambientali del suo tempo, da una parte, e perché i suoi personaggi non rispondono a veri tipi uma-
ni ma sono delle astrazioni caricaturali. Ame sembra che queste due ultime accuse costituiscano una contraddizione: se i personaggi di Dickens sono pure astrazioni come
potrebbero essi trovarsi in soverchia adesione con i tempi dell’autore, anzi con qualsiasi tempo? A me sembra che questi tali critici, irretiti nei loro schemi dottrinali e forse anche «handicappati» dal loro vecchio vizio di non avere a sufficienza letto le opere sulle quali scrivono, abbiano totalmente sbagliato l’interpretazione di Dickens, voglio dire non abbiano saputo vedere la verità essenziale che traspare dietro le fattezze di ciò che essi chiamano «caricature» e che soltanto l'ingrandimento, la sforzatura insita nella caricatura ha permesso di tracciare. Un artista non riuscirà a
«tipizzare» se non calcando la mano. E se così avrà fatto la sua creatura sarà certo dissimile da ciascuna delle nostre conoscenze ma conterrà in se stessa una verità e una
durata che gli altri esseri in carne ed ossa non hanno. Nessuno di noi ha incontrato sulla sua strada Don Chisciotte o Sir John Falstaff, proprio come non incontrerà mai Sam Weller o Micawber; ma ognuno di noi conosce riduzioni in formato minimo di ciascuno di questi semidei; il comune mortale può soltanto possedere riproduzioni in alabastro
alte dieci centimetri;
Cervantes,
Shakespeare e Dickens si tenevano in casa il vero autentico Mosè michelangiolesco. Noi vediamo le ombre proiettate sulla parete della camera; essi conoscevano gli archetipi. Questo a me sembra tanto ovvio che è inutile insistervi.
Quel che invece il critico (e il pubblico dei lettori) ha il diritto di richiedere è che questi giganti siano dotati di vita, bene articolati, perfettamente adeguati a ciò che es-
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si vogliono esprimere. Se non fossero così non sarebbero più il «Mosè» ma grandi PApara di cartone da esporre alle fiere. E che pupazzi di cartone i personaggi di Dickens non sono mi sembra di evidenza solare. Del resto basta osservare i personaggi riusciti di lui con quelli m2arcati, e
spesso nello stesso volume, per averne la più chiara dimostrazione. A parte anche il suo valore estetico che è supremo, l’opera di Dickens ha un’importanza sociale che sarebbe difficile di sopravvalutare. Egli è uno dei rari scrittori che abbiano contribuito a buttare giù costumanze incivili servendosi non dell’invettiva ma del ridicolo. Occorre affrettarsi a dire che ciò era possibile soltanto in Inghilterra, nella quale la secolare pace civile aveva abituato gli animi a mitezza. La «caricatura» lì allora (e
anche oggi) poteva essere priva di ferocia: nessun sangue versato incolpava i contendenti, nessuna «Place de la Révolution» o Piazzale Loreto spediva ombre sanguinanti a soffocare sulle labbra il sorriso. Da trent'anni è ricominciata la rivalutazione di Dickens; e di essa fu alfiere G.K. Chesterton che a Dickens tanto deve; raramente (anzi una sola volta) riu-
scì ad emularlo; ma sempre con l’esempio e la parola ne rivendicò la grandezza.
ROMANZIERI «VITTORIANI ARCAICI MINORI
Parlerò soltanto di tre di questi romanzieri minori, che
sono molti e non tutti cattivi. Dovrei per l’ennesima volta ripetere il ritornello della importanza dei minori, come siano essi che costituiscono la letteratura, quanto la loro mancanza (o per dir meglio la scadentissima loro qualità) ponga in stato d’inferiorità la letteratura italiana la quale per difetto di essi è come un grande palazzo vuoto in cui vi sia soltanto un quadro di Raffaello, tre vasi cinesi della migliore epoca, e due maioliche ispano-arabe. Senza una tavola, senza una sedia, senza un armadio. Inabitabile. E dalle finestre
aperte sul solenne ma desolato cortile entrano le note impudiche di «Quella pira» e di «Verranno a te sull’aure», vomitate dalla radio del vicino. Passiamo.
Di Frederick Marryat (1792-1848) credo di aver già fatto cenno quando ebbi a parlarvi di Smollett. Egli era un ufficiale di marina che ebbe una vita attivissima e piena di interessi. Nei suoi momenti perduti scrisse parecchi romanzi che non hanno certamente una portata universale ma che sono leggibili e solidi. Il più celebre di essi è Mr Midshipman Easy (1836), che come i suoi altri (Peter S7772ple, Jacob Faithful) racconta semplici storie di marinai. In essi si nota un costante buonumore unito ad una acuta osservazione; e risalta l'enorme miglioramento nel tratta-
mento dei marinai che era intervenuto fra l’epoca di Smollett e la sua. Sembra di vivere in un altro mondo. Da Scott invece discende W.H. Ainsworth (18051882) che fu una specie di Dumas inglese, più solido sep-
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pur meno brillante. Quasi tutte le epoche storiche del suo paese furono passate in rivista da questo simpatico ecclesiastico che da cento anni ormai insegna piacevolmente la storia inglese a chi senza di lui non la conoscerebbe. O/d St Paul, Windsor Castle, Guy Fawkes sono i
più conosciuti fra la trentina di romanzi che scrisse. Io lo annovero fra i «Vittoriani arcaici» perché in lui si perpetua, ingentilito, il gusto degli orrori e dei misteri che fu caratteristico dei romanzieri del principio del secolo. Theodore Hook (+ 1841) fu nella sua vita privata un signore assai poco raccomandabile che morì in prigione dove era stato rinchiuso per truffe all’erario e dalla quale del resto continuò a scrivere imperterrito. I suoi romanzi ebbero grande successo; ai nostri occhi non ne
meritano alcuno, anzi si può dire che sono illeggibili; ma io mi fo onore di averne letto uno, Jack Brag, enorme cu-
mulo di mille pagine, urtante e volgare. Però... (ed è questa la ragione per la quale ho fatto la fatica di leggerlo) nel suo modo svagato, nella indifferenza attribuita
all’intreccio in confronto ai personaggi, in una certa irruenza e prepotenza si vede l’aurora, velata e torbida, dei primi romanzi di Dickens. Con questi tre stimo sufficientemente indicati i minori Vittoriani arcaici. Li ho posti in ordine decrescente di merito. Marryat è quasi un grande romanziere; Hook è nettamente cattivo. Ma paragonateli ai nostri Grossi, D'Azeglio, Rosini, Cantù e Guerrazzi e vedrete la diffe-
renza: essi anzitutto scrivono in semplice e onesto inglese mentre i nostri scrivono in una specie di «esperanto» che loro soli possono capire; e, ripeto, tranne Hook, essi
sono eminentemente leggibili e se dovrete compiere un viaggio di sei ore in treno Marryat o Ainsworth vi saranno piacevoli compagni, mentre se avrete in tasca la Tere-
sa Strozzi di Rosini vi ritroveranno impiccati al portabagagli.
DUE POLIGRAFI: DE QUINCEY E CARLYLE
Sono due scrittori di valore assai ineguale: il bello è che trenta anni fa si sarebbe detto lo stesso ma volendo significare un’altra cosa: allora Carlyle era ritenuto un grande filosofo, una specie di profeta, De Quincey uno spirito curioso, indagatore e bizzarro. Adesso Carlyle è stato rimesso al suo posto, a quello di autentico camortrista, privo di solidità e di vero fondo di pensiero; mentre De Quincey passa, non certo per un genio, ma per un
piacevole scrittore che talvolta nelle sue prose ebbe colpi d’ala di vero poeta. De Quincey
Cominceremo da De Quincey che è una bella figura di originale nella galleria di stravaganti che è la letteratura inglese. Nato nel 1785 da una ricca famiglia di commercianti, rimasto orfano a quindici anni, mentre era studente a Oxford trovò modo di far volatizzare l’ingente sostanza che aveva ereditato. Rimasto senza un soldo in tasca andò a Londra dove per tre anni visse nella più assoluta miseria accompagnato da Ann, la giovanissima prostituta che doveva poi esaltare nelle sue prose. In questi anni si abbandonò al vizio dell'oppio, la moda fra gli intellettuali del tempo: essi, di fatto, prendevano del laudano in quantità mostruose (De Quincey fino a 0tt0mila gocce al giorno!). Riuscì, dopo una estenuante lotta, a liberarsi del vizio, ebbe (come è costume dei lette-
rati inglesi) una piccola eredità e si dedicò interamente
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alle lettere. Andò ad abitare sui laghi inglesi, si sposò e frequentò molto la famiglia di Wordsworth dalla quale in seguito doveva separarlo una clamorosa lite che si trascinò per giornali ed opuscoli durante anni. Poi andò ad abitare ad Edinburgo e lì morì nel 1859. Prodigiosa è la mole della sua produzione: l'edizione completa che venne pubblicata in America conta più di venti volumi, ma che volumi! Ciascuno di duemila pagine stampate a caratteri microscopici. Dotato di una pro-
digiosa erudizione e di sbrigliata fantasia s’interessò a tutto e non vi è argomento filosofico, letterario, artistico, storico, archeologico, sociologico e scientifico che De Quincey non abbia sfiorato, spesso con magnifica fantasia di immagini. Nell’unico volume delle sue opere complete che io abbia vi è un capitolo sui Re dell’ Armenia dell'età anteriore a Cristo che è un prodigio o di erudizione o di affabulazione; quando lo leggete credete che De Quincey sia stato per anni seduto allo stesso tavolo di caffè con questi sovrani un po’ fuori mano e piuttosto ignoti. Vi sono delle persone che amano far mostra di una erudizione strana: essi vi parleranno dell’evoluzione rituale della Chiesa copta, dei simbolismi floreali nell’antico Israele, o dei riflessi della filosofia di Confucio sulla condotta strategica e tattica delle guerre degli imperatori cinesi nel secolo dodicesimo. Ebbene, questi signori hanno quasi certamente nascosta in libreria una copia delle opere di De Quincey. Ma la vera fama di De Quincey, la sua fama artistica,
rimane affidata a quattro piccoli libretti, a dei saggi che sono generalmente riuniti in un unico volumetto. Malinconico residuo (in quanto ad estensione) di una così prodigiosa attività. Ma non si può negare che questi quattro saggi sono pochi ma buonissimi. I due più noti (anche per le traduzioni, parafrasi ed esaltazioni che ne ha fatto Baudelaire) sono le Confessions of an English Opium Eater e Suspiria De Profundis,
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nei quali sono narrati gli anni di traviamenti e di incredibile miseria dell'autore. Il primo narra delle sue esperienze di tossicomane e della faticosa lotta per liberarsi dalla droga, e alterna lo stile più clinicamente freddo a delle evasioni liriche del più alto volo. Il secondo narra del suo periodo di miseria a Londra, in una squallida stanza nel Soho che aveva come unico mobile un pagliericcio, delle giornate senza pane, del disperato aggirarsi per le crudeli strade della metropoli; e soprattutto della sua relazione con la Ann, la prostituta quindicenne, caritatevole e perversa. Sono pagine di pura bellezza che nel rassegnato sentimento della povertà e della degradazione fanno presentire stranamente Dostoevskij e Gorkij. A tratti, sotto lo scottare del ricordo insostenibile la prosa di De Quincey assume una gravità marmorea: «Oxford Street, stony-hearted step-mother...». Opere da leggersi senz'altro, e per se stesse e per l’influsso che hanno avuto. Gli altri due saggi sono di tono radicalmente diverso: sono due vivacissimi «scherzi». Uno, Murder Considered
as One of the Fine Arts, è stato davvero un po’ troppo esaltato, credo a causa del titolo, spiritoso e paradossale. In realtà è noiosetto; ma è degno di menzione perché fa da legame fra i romanzi di orrore del principio del secolo e i romanzi di mistero e di ricerca che, iniziatisi con Wilkie Collins, trovarono eco in tutti gli scrittori (anche massimi) dell’età vittoriana; e che ai nostri giorni, dopo
aver prodotto il loro capolavoro in Sherlock Holmes, sono sfociati nella palude dei gialli. Tendenza che, ad ogni modo, per la sua persistenza più che secolare e per le qualche buone opere che ha dato, è insopprimibile componente dell’anima anglosassone. Senza alcuna riserva invece deve essere accolto l’altro scherzo, The English Mail Coach, il quale sarebbe il capolavoro di quella letteratura ariosa, scanzonata e tenera che si è formata intorno alle strade campagnole inglesi,
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se non fosse quasi contemporaneo al Pickwick che di queste avventure è l’indiscussa Odissea. I miti paesaggi inglesi, i bar rigurgitanti di bicchieri di spumosa birra, gli osti ridanciani e autoritari, i bei caval-
li coperti di spuma, gli immancabili cani, le belle figliole sorridenti sui bordi delle strade, sfilano rapidi in queste pagine ritmate al trotto degli zoccoli possenti e delle sonagliere armoniose. Un’altra epoca del pittoresco definitivamente fissata da un artista. Un'altra ragione di rimpianto per noi che la volontaria cecità dei nostri letterati costringe a non aver altri ricordi che quelli personali. In nessun paese quanto in Italia sopravvivono imonumenti
in pietra e in tela del passato; in nessun paese quanto in Italia i morti con le loro abitudini, i loro umori e le loro
passioni sono morti definitivamente. Occorre spulciare al microscopio i ricordi di Antonio Ranieri per avere una visione in quattro righe del conte Monaldo Leopardi che si reca in chiesa, intabarrato e scontroso, o il ca-
nonico Buttà per le sue altre quattro righe sul notaio liberale. Sono i soli accenni (involontariamente sfuggiti alla pertinace turgidezza del loro stile) di vita vera nel nostro pur attraentissimo Ottocento.
Altri bisogna cercarli nelle lettere di Byron e di Shelley, nei viaggi di Goethe e in quelli di Dumas e della Colet. I letterati italiani, assorti nelle loro astrazioni prese a prestito, tacciono.
Carlyle In un’epoca ancora non molto lontana chi avesse voluto dire qualche parola su Carlyle sarebbe stato assalito da timore riverenziale. Come posso io, umile semianalfabeta — avrebbe detto l’audace — pretendere di dire alcunché su questo illustre filosofo, penetrante critico, ineccepibile storiografo e argutissimo romanziere? Co-
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me, per di più, potrei osare di avvicinarmi ad un uomo di un’alta statura morale senza prima essermi pulito le scarpe della coscienza e rifatto il nodo alla cravatta dell’intelligenza? Adesso questo stato d’animo è passato; e financo io posso pretendere di avvicinarmi al «grande vecchio» con l’intelligenza e i capelli in disordine. Molti adesso si dolgono di un decadimento della cultura; ciò sarà forse vero per l’alta cultura che tiene le sue assise in anguste camere nelle quali non posso osare di guardare neppure dal buco della serratura; ma per ciò che riguarda la cultura di mezza tacca, quella che sta fra l'ignoranza totale e la cultura media, posso decisamente affermare che la doglianza è infondata. Voi giovani potete con difficoltà farvi idea di quanto ristretto fosse l’orizzonte intellettuale di cento anni fa a Palermo. Si credeva sul serio che Giovanni Meli fosse uno dei due o tre poeti sommi italiani e che Paolo Emiliano Giudici avesse scritto la storia definitiva della letteratura, che Pietro Novelli
fosse un pittore e Pacini un musicista. Nel contempo si ignoravano le vere glorie paesane e Antonello e Scarlatti nessuno sapeva chi erano. Potete figurarvi se in questo
clima si conoscesse l’esistenza di Fichte e di Hegel. In questo ambiente assopito si presenta ad un tratto un libretto, Dell’Eroe e del Culto dell’Eroe, tradotto dall’in-
glese e scritto da un certo Thomas Carlyle, che si raccomandava per alcuni meretrici di stile. Il pubblico s'infiammò: appunto perché ignorava i predecessori e condizionatori di Carlyle, prese per merce del suo sacco tutto quanto vi era detto e Carlyle fu consacrato grande filosofo. Su una scala un po’ diversa quel che avvenne a Palermo si verificò anche altrove. In verità il solo vero merito di Carlyle ‘era stato quello (poco filosofico) di giungere subito all’estremo, di saltare da Hegel a Nietzsche senza la indispensabile dialettica schopenhaueriana e di affermare nudo e crudo il mito del Superuomo facen-
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do a meno del ragionamento, della cultura (e del talento) del filosofo di Basilea. Adesso che tutti conoscono i predecessori e i ben più formidabili successori, la fama filosofica di Carlyle è andata a monte. Anche la fama di critico è finita male: ho qui i suoi saggi su Goethe e quelli sulla letteratura tedesca: in uno stile gratuitamente ampolloso e oscurato dall’abuso di termini filosofici, Carlyle promette sempre di cominciare a parlare di Goethe; poi si ferma e scantona, dopo ripromette, poi si perde di nuovo in una via traversa, e finalmente se la cava in due pagine affermando che Goethe è un gran poeta, il che era noto prima di aprire il libro. In quanto alla sua fama di storico è necessario distinguere: la History of the French Revolution (1837) non è affatto una storia ma un vasto affresco che rappresenta tutte le grandi figure del tempo in attitudini eroiche e tutte più o meno rassomiglianti a Carlyle. In fondo un bel libro, violento e tonante che rende, di un fenomeno
complesso e variato come quello che vorrebbe descrivere, la stessa idea che una pittura di carretto può dare della conquista normanna della Sicilia. L’amore cieco che Carlyle portava alla Germania romantica e a Johann Paul Richter in particolare lo indusse a scrivere il Sartor Resartus che è una sua autobiografia romanzata nella quale la vena soporifera di Johann Paul è ancora aggravata da una forte immissione di oscurità e scrupoli scozzesi. Aveva sposato una signora, Jane Welsh, intellettuale e fine, che fu infelicissima con questo marito duro e trasognato insieme; la poveretta, della quale si sono pubblicate or non è molto lettere commoventi, fu trovata una
bella sera morta nella sua carrozza a Hyde Park. Pare si sia trattato di uno di quei suicidi ultra-discreti nei quali gli inglesi sono maestri. A questo punto, direte voi, non vi è dunque nessuna
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ragione per la fama di Carlyle? La grande fama della quale godette era interamente immeritata?
No. Ho già avvertito che nella sua riputazione di storico occorre far distinzioni. Due suoi libri di storiografia sono di prim'ordine. È vero che in gran parte consistono di lettere e di discorsi di altri: ma la loro presentazione, il legame fra le varie parti e i commenti che sono di
Carlyle sono eccellenti. Oliver Cromwell’s Letters and Speeches, in due volumi, e la History of Frederick the Great of Prussia, in sei, sono due libri maestri che passati poco più di cento anni rimangono, dopo tutto, i migliori che siano stati scritti su queste due affascinanti personalità. E poi permane il valore di Carlyle quale agitatore di idee. L’aver introdotto la metafisica e la storia germani-
ca in un ambiente tanto ostile come lo era l’Inghilterra non è piccolo merito. Ed originale e fruttuoso potrebbe essere il suo punto di vista politico della «democrazia aristocratica» che mostra come via di uscita dalle difficoltà sociali piuttosto una accentrazione di doveri che un’esaltazione dei diritti. Negli ultimi anni stava a casa sua e pontificava dinanzi ai giovani intellettuali che andavano a visitarlo. Vi andò anche Wilde, e conversò a lungo con lui. Agli amici che, dopo, gli chiedevano notizie sul colloquio, Wilde rispondeva: «Carlyle era ammalato e non voleva veder nessuno. Però avevano fatto salire un vecchio giardiniere che gli rassomiglia molto e che, per esser giusti, se la è cavata benissimo».
LPOBH
In questo periodo essi sono pochi e di non grande valore. Intendo dire che i poeti vittoriani come età ma appartenenti per qualità d’ispirazione al periodo precedente sono rari. Ciò perché vivissimo era stato il gettito poetico precedente e occorrerà attendere ancora un decennio perché nasca una nuova poesia di stampo nettamente vittoriano.
Pure, qualcheduno c'è. Thomas Moore (1779-1852) fece per le canzoni popolari irlandesi ciò che Burns aveva fatto per le scozzesi. E poiché l'Irlanda produce una gente assai più vivace e svelta della Scozia, le Irish Melodies di Moore e le altre
sue raccolte di liriche mi sembrano assai più piacevoli delle liriche burnesiane. Va da sé che la sua riputazione è minore. Inoltre la sua figura morale è più attraente: scrisse un grazioso romanzo, The Epicurean, fu grande amico ed esecutore testamentario letterario di Byron, compito di estrema delicatezza che assolse alla perfezione, fu persona amabile e benvoluta da chi lo conoscesse. Thomas Hood (1799-1845) è il tipo vittoriano arcaico nella sua compiutezza. Fu uomo di grande spirito e d’infinita vivacità; scrisse molte poesie e bene; ma due sole sopravvivono e si trovano in ogni antologia, due poesie
del tipo meno vittoriano immaginabile: una, The Song of the Shirt, licenziosetta, l’altra, The Bridge of Sighs, miste-
riosa e fatale. Compose inoltre un numero illimitato di poesie gioio-
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se, veramente allegre e piene zeppe di giochi di parole. Non le ho più e mi dispiace: un allievo che sapesse leggere, capire e spiegare una diecina di queste poesie
avrebbe diritto a una laurea in lingua inglese con corona d’alloro e ritratto firmato dal senatore Giardina. Terminerò questa breve rassegna citando il nome di T.L. Beddoes (1803-1849) che era indiscutibilmente pazzo, che tentò più di una volta di suicidarsi e che vi riuscì al sesto tentativo. Questa sua pazzia non gli impedì di scrivere una tragedia di tipo elisabettiano in bellissimi blank verses: Deatb's Jest-Book, che sembra un Tourneur o un Webster. È una curiosità letteraria, ope-
ra stupefacente di questo matto di talento.
e
BREVI OSSERVAZIONI SUI CRITICI INGLESI
L'Inghilterra, come nazione, ha avuto più di una fortuna; l’Inghilterra, nella sua letteratura, ne ha avute delle
altre. So bene che quel che si chiama per brevità «fortuna» è, come le altre cose, un derivato inevitabile di altre
cause remote, ma poiché il discernere questi «imponderabili» è opera possibile soltanto a una divinità, faremo meglio a chiamarle «fortune». Uno di questi casi felici consiste nel fatto che la critica letteraria inglese autorevole è stata quasi sempre formulata da artisti. Esistono evidentemente anche in Inghilterra i critici di professione, i saccenti aggrappati alle teorie filosofiche, i pedanti frugatori di archivi, i rabdomanti ricercatori di fonti, gli anatomici dissecatori di testi; ma non fanno testo per il gusto artistico. Viceversa i letterati, i grandi poeti o romanzieri o sag-
gisti non se ne stanno rinchiusi in una loro torre eburnea ma spesso pongono il loro talento e l’esperienza acquistata a servizio della critica; e senza «apparato» ci forniscono le migliori interpretazioni dei loro predecessori e dei loro contemporanei. È una lunga tradizione questa dei poeti-critici che si inizia con Ben Jonson e che ai nostri giorni ha trovato un eminente rappresentante in Eliot passando attraver-
so i nomi famosi di Dryden, Coleridge, Lamb, Browning, Swinburne e Chesterton. Una tradizione quanto mai utile che educa il pubblico a un miglior apprezzamento, che, soprattutto, evita la frattura del mondo let-
terario in due campi nemici.
L’ETÀ VITTORIANA: I VITTORIANI PURI
Portati sul filo della prosperità politica, dorati al sole della stabilità imperiale, ecco avanzarsi la compatta schiera dei Vittoriani. Li abbiamo visti, di già, tuba in testa affollarsi sul basamento del monumento al Prince Albert, come a recare il loro omaggio a chi fu il vero creatore della loro epoca felice. Sono molto differenti dai loro confratelli elisabettiani: nella loro vita non vi è nessuna tragedia. Somigliano poco anche ai loro pari della generazione precedente: in essi non vi è ribellione. Vi è sete di miglioramento, vi sono nobili aspirazioni, vi è sarcasmo contro molti ridicoli e invettiva contro molte crudeltà. Ma la rivolta non c’è. Perché dovrebbe esserci? Il mondo è decisamente avviato sulle rotaie del progresso: le guerre sono sempre meno frequenti, sempre più corte; ogni giorno si inventano mezzi per allietare la
vita. Dopo Vittoria, verrà un Eduardo; e dopo Eduardo un altro sovrano, certamente saggio, certamente potente, certamente pacifico. Il colore scarlatto, che indica nelle carte l'Impero Britannico, si allarga senza sosta; e
ad ogni espansione nuovo oro affluisce per essere coniato in nuove sterline. La «Pax Britannica» sfolgora. AI suono di «God save the Queen», cui tiene bordone
il muggito delle officine, ecco sfilare i grandi Vittoriani.
IROMANZIERI: WILLIAM MAKEPEACE THACKERAY
Il dissidio Shakespeare-Ben Jonson si ripete nell'età vittoriana fra Dickens e Thackeray. In formato ridotto, si capisce: e chi del resto non sembrerebbe un piccolo uomo al cospetto di Shakespeare? Ma se distogliamo lo sguardo dai predecessori, vedremo bene che si tratta in realtà di un dissidio fra colossi. E il dissidio è posto esattamente nei medesimi termini che, del resto, sono eterni: estro contro scuola, romanticismo contro classi-
cismo. Questa volta però i due contendenti sono quasi di egual statura. Anche i «classicisti» più accaniti non si sono mai arrischiati a sostenere che Ben Jonson potesse essere ritenuto superiore a Shakespeare. Molti invece, oggi, pongono la levigatezza e il «buon senso» di Thackeray al primo posto dinnanzi alla «sciatteria» e alla «quasi demenza» («half-lunacy») di Dickens. Cercheremo adesso di dipanare un po’ questa matassa che è unicamente frutto di un equivoco, come ho già detto. Ma s’intende che l’unico modo per porre un vero giudizio è leggere, bene e con attenzione, l’uno e l’altro. E dalla lettura di ognuno dei due rivali si possono trarre grandi profitti e grandi acquisizioni estetiche. Le vite di Dickens e di Thackeray formano un acuto contrasto, specie durante la loro gioventù. Furono educati a scuole diverse, intendo dire scuole di vita, non letterarie.
Thackeray era un anglo-indiano, nato nel 1811 a Calcutta, figlio di un alto e ricco funzionario della East India Company. All’età di sei anni, età alla quale il clima indiano comincia a esser nocivo ai bambini, venne invia-
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to in Collegio in Inghilterra; si era nel 1817; la nave fece scalo a Sant'Elena per rifornirsi di acqua; il piccolo Thackeray fu condotto a godersi la vista di Napoleone che passeggiava come un leone ingabbiato nei giardini di Longwood. Egli fu quindi uno di quegli «abominables petits morveux anglais» dei quali si lagnava l’imperatore. Dalla scuola passò a Cambridge dove non si laureò ma strinse parecchie utili amicizie. Dopo di che passò un paio di anni a Weimar e poi si recò a Parigi. E più per divertirsi che altro cominciò a pubblicare artico-
li in vari giornali e riviste accompagnandoli di disegni perché egli possedeva anche un divertente talento di pittore. Non è stato facile, dopo, andare a ripescare queste prime opere di Thackeray perché egli usava un numero enorme di pseudonimi e ancor oggi non si è sicuri che tutto sia stato scoperto. Questo del resto non ha molta importanza: in questo nugolo di saggi, schizzi, pezzi di colore ecc. che andava pubblicando sotto il nome di Yellowplush, Titmarsh, FitzBoodle e Ikey Solomons, non vi è nulla di artisticamente notevole, benché vi si preannuncino tutti i temi usati poi nella sua arte matura.
Nel 1840 Thackeray ebbe il più grande (ed il solo) dolore della sua vita: sua moglie impazzì dopo quattro anni di matrimonio: e impazzì malamente, debuttando con un tentativo di uccidere l’infelice Titmarsh, conti-
nuando col rompere «everything in my flat except my neck» e finendo con lo strangolare un’infermiera nella casa di salute. Forse naturale maturazione del suo talento, forse una
eccitazione comunicatagli dalla pazzia della moglie, da quel momento Thackeray cominciò a scrivere sul serio. Nel 1841 venne pubblicato The Great Hoggarty Diamond, per il quale Thackeray utilizzò i propri ricordi di bohème parigina, e che mostra di già le qualità di solidità e di eleganza dell’autore. Nel 1842 The Luck of Barry Lyndon, opera abilissimamente costruita ma sgra-
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devole per il suo non sincero cinismo. Nel 1843 The Irssh Sketch Book, raccolta gradevolissima e acutissima sot-
to l’aspetto umoristico delle impressioni riportate durante un viaggio in Irlanda. In quegli stessi anni Thackeray contribuì alla fondazione del «Punch», il famoso settimanale umoristico che
continua ancor oggi vigorosissimo la sua carriera. E da allora in poi sarà nel «Punch» che verranno pubblicate quelle serie di penetrantissimi studi che furono poi raccolti sotto il titolo di The Book of Snobs. Non bisogna dimenticare che è stato Thackeray a «lanciare» la parola «snob», che doveva poi avere tanta fortuna e finire con l’accettare un significato radicalmente opposto a quello originario. Di questa specie particolare di snobs, cioè di quella vera, Thackeray compie uno studio accurato, penetrante e quanto mai divertente in questo libro che è uno dei più riusciti della sua produzione minore. Nel 1847-48 venivano pubblicate sul «Punch» le puntate di Varzty Faîr, uno dei due capolavori del nostro autore. Capolavoro sul serio. L’omogeneità, la novità, l’ardire (per l’epoca vittoriana) del romanzo sono assoluti. Lo studio dei caratteri, l’humour continuo ma mai esplicito, la nobile risolutezza dell’autore di non lasciarsi trascinare al «lieto fine» malgrado il decorso fondamentalmente allegro delle vicende, la sottile vena di patetica poesia che circola in queste vicende mondane fanno di Vanity Fair uno dei grandi romanzi, uno dei dieci o venti migliori che vi siano. Basterebbe la figura di Becky Sharp, la graziosissima intrigante sconfitta, a farne un’opera di assoluto primo piano. Ma Becky è lungi dall'essere la sola figura originale del libro: Sir Pitt Crawley, Jos, Captain Dobbin sarebbero, ognuno da solo, eccellenti protagonisti di qualsiasi altro romanzo. E bisogna osservare che non uno di questi personaggi sarebbe possibile immaginarlo trattato da Dickens; essi sono «essenzialmente» di Thackeray e ciò basta a com-
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provare quanto sia errato qualsiasi paragone di valore fra Dickens e Thackeray. Si può preferire personalmente l’uno all’altro; probabilmente si nasce Dickensiani o
Thackerayani come si nasceva Platonisti o Aristotelici, e ciò dipende da particolari condizioni di carattere, di cultura e di ambiente; ma quel che non si ha il diritto di fare è il trovare Dickens «volgare» e Thackeray «raffinato», due aggettivi che nell’arte, a questo livello, significano men che niente e si risolvono in un biasimo per l’autore che si vuole lodare. Sarebbe (forse) più plausibile dire che Dickens descrive i suoi personaggi «liricamente», mettendosi successivamente nella pelle di ognuno di essi, mentre Thackeray li guarda con un certo distacco, li giudica con serena imparzialità e non si affeziona a nessuno di loro. Egli è un po’ l’artista distante che vede le azioni degli uomini, le trova ridicole o commoventi, le descrive con somma perizia ma senza compartecipazione. Le
numerose allusioni discorsive che in Varzty Fatr e altrove egli fa alle «marionette» sono una confessione di questa sua forma mentis. Esse mancano totalmente nell’opera di Dickens per il quale Pickwick e Micawber erano evidentemente delle solide realtà. Sia come sia, è assolutamente necessario leggere Va-
nîty Fatr, che rimane un grandissimo romanzo. Inferiore come opera d’arte ma ancor più rivelatore dell'estetica del suo autore è Pendenzis, pubblicato nel 1848-50. Per qualsiasi altro scrittore la tentazione d’idealizzare il personaggio di Pendennis sarebbe stata irresistibile, perché egli rappresenta Thackeray stesso nella sua gioventù. La superiore imparzialità dell’autore resiste, e Pendennis è reso frequentemente come uomo
irritante e talvolta come persona addirittura detestabile. E ciò, si capisce, non in modo arbitrario ma con logiche, rigorose deduzioni dalle premesse già fatte. I personaggi del Maggiore, del Capitano e di Morgan sono dei veri e
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‘| propri trionfi; Helen è un saporito miscuglio di materna amorevolezza e di femminile slealtà, Blanche è costantemente divertente, Laura è una tale-trovata fra le «mario-
nette» di Thackeray che sarebbe facile dire che Pendennis supera Vanity Fair in piacevolezza, se non fosse che la costruzione generale e il «montaggio» delle scene sono nettamente inferiori e mancano del continuo allant delle vicende di Varzty Fair. Infatti il secondo capolavoro di Thackeray non è Perdennis ma il libro che lo segue, Henry Esmond (1852). È un romanzo storico nel quale l’autore fa sfoggio della propria perfetta conoscenza degli usi e del linguaggio del periodo della Regina Anna. Ma ciò costituisce soltanto una preziosa cornice del vero dramma che è narrato in prima persona dal grave e modesto protagonista al quale Thackeray ha fatto compiere il prodigio di far apparire giustificato e inevitabile un trasferimento di amore da una figlia alla madre di lei, caso abbastanza raro. La tessitura, la tecnica formale del romanzo è stupefa-
cente e lo stile, nella sua doppia accezione di modo di scrivere e di giusta resa dell'ambiente, perfetto. E chiunque l’abbia letto una volta non dimenticherà più la scena famosa nella quale si presenta per la prima volta Beatrice nell’atto di scender la scala con il candelabro in mano. Una scena, fra tante, nella quale la prosa, pur mantenendosi familiare, uguaglia la più alta poesia e gareggia con la pittura più ricca di toni. Non dimenticate di leggere Esyz0nd: è un boccone da re. Questo semi-dilettante, in Varzty Fatr e in Esmond, è riuscito a pareggiare i massimi.
In altri tempi le opere di assoluto prim’ordine di Thackeray erano tre. Il gusto del suo tempo esaltò alle stelle The Newcomes (1853-55). Esso adesso ci appare come un troppo lungo romanzo, irto di scene deprimen-
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ti rese senza compartecipazione, come era prevedibile, e riempito di caratteri assurdi. Non tutti, si capisce: per esempio Lady Kew è il più perfetto disegno, fra i molti tracciati da Thackeray, di una acuta e cinica signora del gran mondo. Dopo Esrzond la vena di Thackeray era decisamente in ribasso. The Virginians (1857-59) è nettamente illeggibile (ma letto, da me). Thackeray, che aveva voluto dare un
seguito a Eszzond, vi ha commesso l'errore di essere eminentemente noioso e il delitto di ripresentarci la sua squisita Beatrice, invecchiata, incattivita e orribile. Metamorfosi che nella vita vediamo ad ogni piè sospinto ma alla quale deve rifiutarsi la penna di uno scrittore che assume degli obblighi verso i personaggi da lui creati. Altre opere, non romanzesche, di Thackeray sono i
suoi studi critici su The English Humourists of the Eighteenth Century (1851), di una penetrazione e di una dilettosità rare e che degnamente lo inseriscono nella grande serie degli artisti-critici, e The Four Georges (1856) che è meno buono ma diverte per la copia di aneddoti raccolti su questi quattro sovrani, dopo tutto, babbei. Nel 1863 Thackeray morì, vittima del suo vizio prediletto, la ghiottoneria. Egli stesso dichiarò prima di morire, in un gioco di parole anglo-francese: «My exit is the consequence of too many entrées». Lasciò incompiuto un romanzo, Derzs Duval, che, co-
me l’ultima opera di Dickens, mostrava un fortunato ritorno alla maniera di Esrz0nd e prometteva di essere una delle sue opere migliori. Da quanto ho detto risulta chiaro che un «mondo» di Thackeray non esiste; senza essere un po’ matti non si
creano dei mondi (come si dimostra nella Genesi). E Thackeray, l’acuto, l’imparziale, il cinico Thackeray tutto era fuorché matto. Mondi, niente. Ma uomini sì. Mentre i personaggi di
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Dickens non possono essere iscritti a nessuna anagrafe, Becky Sharp, Joe, Sir Pitt, Dobbin, Pendennis, Helen, | Morgan, Esmond e Beatrix sono delle aggiunte allo Stato Civile.
Inoltre, stilista grande. Mentre Dickens, trascinato da una sua foga super-naturale, butta giù e fa strafalcioni e solecismi ma raggiunge le cime, Thackeray sta a pensarci su e le cime le raggiunge lo stesso, non a forza d’impeto ma mediante l’attenzione. Lo ha detto lui stesso: «Genius is perhaps an infinite aptitude at taking pains». Appunto per questo Vittoriano perfetto. Quando tutto questo sia stato detto, quando si sia reso giustizia all’uno e all’altro, quando si sia riconosciuto
il posto altissimo di Thackeray, la sua forse maggiore intelligenza, la sua forse superiore energia icastica, la sua indubbiamente più scelta schiera di adoratori, il suo maggior titolo ad esser chiamato «artista di primo piano», quando tutto ciò sia stato concesso, firmato, con-
trofirmato, siglato e bollato, rimane il mio personale parere: Thackeray è un grandissimo uomo, Dickens, però,
è un semidio. (E sento già le pietre dei lapidatori fischiarmi intorno al capo.)
GEORGE ELIOT
Si tratta di uno pseudonimo. Il vero nome è Mary Ann Evans (1819-1881), il nome di una signora, della terza donna che sia stata una grande artista inglese. Era la figlia di un ager? (di un amministratore diremmo noi) di una grande proprietà terriera; quando aveva sedici anni il padre fu colpito da paralisi e per non perdere il posto la figlia dovette occuparsi di tutta l’azienda, che essa fece prosperare mentre acquistava quella intima conoscenza delle persone e dei modi rurali che doveva tanto contribuire alla gloria delle sue opere. Ma non cessava mai di leggere e di studiare e la straordinaria sincerità della sua mente la condusse attraverso molte esperienze spirituali, inclusa quella di un periodo di accesi ideali ascetici ai quali era stata indirizzata da una zia, il cui entusiasmo religioso doveva poi es-
sere immortalato dalla scrittrice nel grande personaggio di Dinah Morris. Ma le curiosità spirituali non possono star ferme e quando circostanze familiari la condussero ad abitare a Coventry essa venne a conoscere, ad'ammi-
rare e a seguire il molto poco ortodosso Charles Bray, autore di una Fy/osofia della necessità e addirittura eterodosso Hennell che aveva scritto una Investigazione sulle origini del Cristianesimo. Quando poi ebbe letto una traduzione del famoso libro di Strauss La vit4 di Gesù criticamente esaminata essa si slanciò nella lotta antireligiosa con tutto l’impeto della propria sincerità. Divenne la direttrice, non ufficiale, della «Westminster Review», rivista filosofica di idee assai avanzate, e fre-
quentando la rivista venne a conoscere Herbert Spencer
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e per mezzo di questi Henry Lewes, scrittore dotato di straordinaria vivacità intellettuale con il quale la Mary Evans contrasse, secondo l'esempio della Godwin, un «non-matrimonio», che riuscì in modo ammirevole e durò sino alla morte di Lewes, con concomitante soddi-
sfazione di lei, di lui e dei tre figli dal matrimonio di lui che erano stati abbandonati dalla madre. I biografi di lei (e in particolare Stanley Awson del quale ho il libro sottomano) sono naturalmente furenti contro questo episodio e lo chiamano «l’unico errore nella vita di questa grande donna». Il fatto è che il legame con Lewes trasformò la signorina Evans, oscura ideologa di provincia, nel grande scrittore George Eliot. Fu Lewes che venne a trovare tra le carte della sua «non-moglie» un manoscritto, The Sad Fortunes of the
Rev. Amos Barton, e che insistette perché venisse pubblicato sotto lo pseudonimo scelto a casaccio di «George Eliot». Presto esso fu seguito da Mr Gz/fils Love Story e da Janet's Repentance. Tutte e tre queste lunghe novelle furono poi pubblicate in volume nel 1858 sotto il titolo collettivo di Sceres of Clerical Life. Il successo del volume fu grandissimo; Dickens, Thackeray, Bulwer-Lytton, Trollope e Mrs Gaskell (sempre la medesima storia dei «critici-artisti») lo esaltarono e davvero Mr Gilfil's Love Story è un capolavoro. Tutti questi scrittori credettero che l’autore fosse un uomo; il solo Dickens intuì che si trattasse di una donna. Tutti furono d’accordo nel dichiarare che era nato un nuovo talento creatore. Adam Bede nel 1859 soddisfece la grande aspettativa che si era creata. È un grande romanzo che ha l’arditezza di essere semplice: la Mrs Poyser è entrata a far parte della mitologia privata di ogni persona che s°interessi di queste cose; il libro è percorso sotto pelle da un umorismo completamente inatteso da chi conosca il tono della «Westminster Review» di cui la Eliot era direttrice. E il
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problema religioso (ché religiosa, benché fuori di ogni chiesa, essa era rimasta) della grazia è espresso in modo quanto mai efficace attraverso le pedestri parole dei campagnoli. Il talento creatore della Eliot era in piena produzione. The Mill on the Floss (1860) non è, come si dice, il capo-
lavoro dell’autrice ma certo è ben prossimo ad esserlo. In esso la scrittrice ha fatto tesoro delle sue esperienze di vita campestre e le ha idealizzate mescolandovi un vivo interesse morale e religioso. Non inferiore è Sz/as
Marner (1861), che ha una forte semplicità d’invenzione e rudi personaggi pieni di humour e di passione. A questo punto la Eliot entrò in un periodo di raccoglimento; essa intendeva produrre il capolavoro. Il capolavoro verrà poi mentre essa non se lo aspetterà. Il capolavoro preparato fu un’opera sbagliata. Rozzola (1863) è un romanzo storico ambientato nella Firenze della fine del Cinquecento. La ricostruzione storica della Firenze medicea è magnifica; la tragedia di Savonarola, così affine alle idee dell’autrice, è mirabilmente nar-
rata; ma il libro avrebbe guadagnato a esser scritto con minori preoccupazioni culturali e maggiore spontaneità;
i due personaggi principali sono davvero mal tracciati: Tito è davvero troppo cattivo; Romola non è né buona
né cattiva perché non esiste. Non si direbbe uscita dalla fantasia dell'autrice che aveva di già creato Maggie e Dorothea, creature di sangue e di vera passione. Il romanzo successivo, Felix Holt the Radical (1866),
vale anch'esso poco: si apre con una magistrale rievocazione della campagna inglese sconvolta economicamente e socialmente dalle costruzioni ferroviarie: ma abbandona questo iniziale tema che si sarebbe prestato a magnifici sviluppi per impaludarsi in intrighi politici e sentimentali di scarso interesse.
Improvvisamente, venne il capolavoro, Middlemarch (1872), nel quale la Eliot ritorna fortunatamente alla sua
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prima e migliore maniera, quella della descrizione di tragedie e commedie casalinghe nello scenario dell’Inghilterra rurale. A parte le grandissime qualità intrinseche Middlemarch merita una grande attenzione perché la desolata storia della rovina di una famiglia contadina ci fa presentire il clima sociale che venti anni dopo doveva trovare la propria epica nei Malavoglia; e da un altro punto di vista la tecnica nuova usata dalla Eliot, quella di accumulare particolare su particolare come i minuti colpi di pennello dei pittori poznti/listes apre la strada a quello che quaranta anni dopo doveva essere lo stile di Proust, applicato a un soggetto diametralmente opposto. E che Proust conoscesse e amasse le opere della Eliot risulta evidente da numerosi accenni e da dichiarazioni di Proust stesso. Nel 1876 la Eliot pubblicò ancora Darzel Deronda, che non è pari alla grandezza dell’autrice e che rassomiglia stranamente ai romanzi di Disraeli. L’eccellente Lewes morì nel 1878 e la Eliot sposò Walter Cross, un vecchio e
devoto amico che divenne poi il biografo di lei. Nel 1880 essa morì. Benché il numero e la qualità dei suoi lettori sia costantemente variabile, il suo posto è si-
curo nella letteratura inglese ed è fra i più alti. Il suo dominio sulle tragedie, le tristezze e anche l’umorismo del-
la vita non è superato da nessun'altra scrittrice inglese, e anche da pochissimi uomini.
ANTHONY TROLLOPE
Nella famiglia Trollope si riflette in modo palese la differenza fra l’età vittoriana e quella che la precedette, che ho chiamato dei «grandi irrequieti». La madre di Trollope, Frances (+ 1863) era una scrittrice anche lei, che grande non fu ma irrequieta sì. Moglie di un erudito molto bisognoso, se ne andò negli Stati Uniti ad insegnare in un istituto superiore. Lì pubblicò un libro, Domestic Manners of the Englishmen, nel quale diceva cose
crudeli ed abbastanza bene azzeccate circa la vita intima degli inglesi. Il libro scatenò un putiferio in Inghilterra e suscitò entusiasmo in America. Dopo di che la signora ritornò in patria. Appena giunta si mise a scrivere un al-
tro libro, che armoniosamente si equilibra con il primo: Domestic Manners of the Americans, nel quale con la consueta vivacità si attaccava la vita sociale degli Stati Uniti.® Entusiasmo inglese, furie americane; gli infelici statunitensi non sapevano ancora che fra pochi anni l’opera della Trollope sarebbe loro sembrata acqua di rose in paragone del Chuzzlewit. Sia come sia, la signora Trollope continuò a scrivere romanzi che valevano poco ma che si vendevano molto e poté dare ai suoi figli una educazione brillante che gli scarsi mezzi dell’onesto marito non avrebbero permesso di pagare. Anthony, il secondogenito (1815-1882), fece una bril* Mrs Trollope scrisse soltanto Dozzestic Manners of the Americans. L'invenzione di un secondo libro antitetico al primo è una tipica manifestazione del 2f tomasiano.
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lante carriera sia come impiegato statale che come letterato. Riguardo alla carriera amministrativa si può dire soltanto che essa lo portò ai fastigi altissimi (in Inghilterra) di Direttore Generale delle Poste, carica che gli diede modo di scorrazzare in tutto l'immenso Impero e anche nelle altre nazioni per negoziare accordi postali; in questi negoziati egli però mostrava le sue tendenze artistiche perché, a quanto si dice, essi furono tutti sfavorevoli all'Inghilterra. La sua carriera letteraria fu ancora più fortunata: egli raggiunse grande fama in vita, e lauti guadagni. Ma, ciò che non riesce a tutti, ebbe una promozione anche dopo la morte. Infatti fino alla seconda guerra mondiale la sua riputazione era ottima ma egli veniva considerato piut-
tosto il primo dei romanzieri di secondo ordine che una delle quattro sommità dell’epoca vittoriana. Con il favore acquistato di recente dall’intimismo, dall’asciuttezza di stile, dal racconto di per sé evidente nel quale poco o niente traspaia dello scrittore, i suoi romanzi (innumerevoli) sono saliti dall’ultimo girone del Purgatorio, che essi occupavano, al primo cielo del Paradiso. Scrisse circa sessanta romanzi, tutti leggibili (a quanto pare) e tutti anche rileggibili, il che è assai più importante. Ma è soltanto in una diecina di essi che egli raggiunge il livello dei suoi grandi contemporanei. Anch’egli, come più tardi Hardy, ha «inventato» una contea inglese che non esiste ma che riassume in sé ed esalta le caratteristiche di tutte le contee del Regno. (Procedimento, intendiamoci, che non ha nulla a che fare con la creazione di «mondi» della quale si è già troppo a lungo parlato, e che è anzi in un certo senso il procedimento opposto.) Sei dei suoi romanzi sono raggruppati sotto il titolo di Chronicles of Barset, come se un romanziere italiano scrivesse le Cronache della provincia di Velano, con Velano, ipotetica città, posta, ad
esempio, a rappresentare tutte le città della Lombardia
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nei loro caratteri comuni. Ma il paragone italiano non calza bene essendo da noi, per antica tradizione comunale e statale, troppo nettamente differenziate le città,
mentre per le contee rurali inglesi, dominate ciascuna da una piccolissima città simile a tante altre, il procedimento è assai fruttuoso. Queste Barsetshire Novels hanno fra loro un legame assai elastico, dipendente più dall'ambiente che dalle vicende dei personaggi, e ciascun romanzo può esser letto da solo. I personaggi secondari di un romanzo diventano protagonisti di un altro, ottenendo così effetti prospettici assai notevoli, e risvegliando anche echi sentimentali di grande valore sociale. Il nucleo umano che è studiato più da vicino in queste Barsetshire Novels è il clero anglicano considerato con perspicua imparzialità, perché se in qualche romanzo se ne fa addirittura la satira (come in Barchester Towers) in altri se ne mostrano le virtù. Quando si sono letti di seguito i sei romanzi si ha davanti una chiara immagine della vita provinciale inglese in tutti gli strati che la formano, dal fastoso e un po’ ridicolo castello del duca di Omnium ai lindi cottages dei contadini, passando per gli altri castelli della aristocrazia minore, per le lussuose nuove ville degli appaltatori arricchiti, per le dimore dei medici e degli avvocati e soprattutto per le case parrocchiali, ricche di belle figliole (legittime) e avvampanti di intrighi ecclesiastici, su su fino al palazzo del vescovo (e della vescovessa) nella catbedral-town di Barchester (catbedral-town è espressione inglese per designare una cittadina che deve la sua importanza unicamente al fatto di esser sede di una cattedrale illustre e spesso di un vescovo; in Sicilia, per esempio, Monreale e Cefalù sarebbero tipiche catbedral-towns, se non in-
terferissero altri elementi a sformarne il volto). Ma non è l’ambiente che interessa principalmente Trollope: sono le persone; persone che egli presenta efficacemente nella loro carnale presenza, interpretando-
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ne con chiaroveggenza i motivi prattutto da notarsi in lui l’uso voli», cioè l’atteggiarsi di uno condo un modello prestabilito
che le fanno agire. È sodelle «personalità mutestesso individuo non sema secondo una linea di mutevolezza che, nel decorso di parecchi anni, fa totalmente cambiare il suo aspetto morale. Il «carattere» che in tanti romanzieri suoi predecessori è sempre fedele allo stampo iniziale in Trollope muta la propria risonanza; così come avviene nella vita. Ed è probabilmente a questo aspetto dell’arte sua (simile a uno degli aspetti dell’arte di Proust) che Trollope deve, adesso, la sua rinnovata ed accresciuta celebrità. D'altronde, inglese, e inglese vittoriano quanto altri mai: conscio dello stato di equilibrio perfetto fuggevolmente raggiunto dalla società britannica, qualsiasi intrusione in essa dal di fuori o qualsiasi atteggiamento brusco di mutamento dal di dentro, lo turba, lo offende e scatena la sua satira. Basti ricordare la costante xenofobia e la caricatura crudele di Mr Slope. Per la «personalità mutevole» basterà accennare a quella della signora Proudie, moglie del vescovo, che, caricaturata e resa odiosa in Barchester Towers, va nei successivi romanzi attenuando i propri difetti e finisce la sua vita in modo commovente, e ciò non per subi-
tanea crisi di tipo miracolistico ma per un naturale evolversi e farsi luce delle migliori sue doti che, in gioventù,
erano sopraffatte dalla vanità. Le Barsetshire Novels sono sei romanzi, tutti di valore; fra essi il primo, The Warden, è la commovente e disincantata storia di un uomo onesto che deve lottare,
per vivere onestamente, contro il proprio ceto e anche contro l’opinione pubblica; il secondo, Barchester Towers, è il più divertente e contiene un quadro canzonatorio del clero anglicano che la misuratezza dell’umorismo di Trollope riesce a mantenere fuori della volgarità; il terzo, Doctor Thorne, è quello che maggiormente ci introduce nella collettività della contea e ci trasporta
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in tutti gli ambienti che sono descritti con estrema vivacità e vivo presentimento nell’evolversi sociale, tanto da
farci perdonare e anzi dimenticare l'intreccio assai macchinoso; il quarto e il quinto, Frarzley Parsonage e The Small House at Allington, sono un po’ inferiori e sono quelli che vogliono riabilitare il clero anglicano; mentre il sesto e ultimo, The Last Chronicle of Barset, è forse il
migliore, nel quale sono fusi come in una sinfonia i vari temi precedentemente trattati e la consueta ironica freddezza di Trollope viene spesso sopraffatta (come nel Warden) da una umanissima comprensione e compartecipazione che subito si trasforma in poesia. Oltre alla serie di Barset, sono notevolissimi i romanzi The Three Clerks, che contiene parti autobiografiche, e
Phineas Finn, grande romanzo politico nel quale è presentita quella che doveva di lì a poco essere la tragedia di Parnell. Subito dopo la morte di Trollope (1882) venne pubblicata la sua magnifica Autobiography che però sconcertò il pubblico, ancora post-romantico, per la impavida sincerità. La gente aveva ancora in mente l’immagine dell’artista ideale che scrive soltanto sotto l'ispirazione: Trollope narrava con freddezza come si fosse posto per regola di scrivere venti pagine al giorno, né una di più né una di meno, e per di più sempre durante le ore di ufficio! Lo scandalo per queste (ed altre, si capisce)-«rivelazioni» fu grande e dovette certo contribuire al «calo» di riputazione che subì questo grande scrittore e che adesso è stato più che compensato dal subitaneo rialzo delle sue azioni. La mia innata prolissità mi costringe a ricordare anco-
ra The Fixed Period, opera fra le ultime di Trollope e assai singolare. In essa si narra di una strana nazione (per
altro in tutto il resto identica a qualsiasi altra) nella quale per legge tutti vengono, con buonissime maniere, uccisi nel momento in cui compiono i settanta anni, per ra-
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gioni di misericordia verso loro stessi e verso la società. Le reazioni di terrore o di serenità che questa legge provoca, i mutamenti spirituali che essa determina sin dalla nascita, sono studiati con commossa attenzione e sottile
analisi. Un libro molto bello, del quale non si sente mai parlare, che il Bompiani non registra. Non dirò «un capolavoro ignorato» ma certamente una notevole opera della quale pochi si sono accorti. Quali sono adesso i difetti di Trollope? È presto detto: sono alcune incertezze di stile, tanto nella scrittura
che nella concezione dei romanzi. Egli in fondo dimostra una personalità artistica non sempre coerente: tali pagine (le più numerose) potrebbero essere pagine di Thackeray, tali altre sono dei lontani riecheggiamenti di Dickens, tali altre ancora potrebbero appartenere alla Eliot. Questa labilità stilistica è certamente una grave menda. Non tale, a mio parere, da far però dimenticare i grandi meriti di Trollope, acuto, imparziale, ironico e poetico, che a me sembra degnamente seduto accanto ai tre altri grandi romanzieri del suo tempo.
I ROMANZIERI MINORI
Vorrei non aver bruciato quel mio fogliaccio nel quale parlavo degli Elisabettiani minori. Mi piacerebbe ripetere qui ciò che ho detto allora a proposito di quei drammaturghi che vengono detti minori soltanto perché contemporanei di Shakespeare, di Marlowe e di Ben Jonson. Identico è il caso dei romantici dei quali sto per dire qualcosa: sono minori, sì, ma soltanto perché li si
paragona con i Quattro Grandi delle cui opere ho così evidentemente mancato di darvi un'idea. Essi sono molti. Cominciamo, come la cortesia ci impone, con una signora, Elizabeth Stevenson (+ 1865),
una bellissima ragazza londinese che andò in sposa a un pastore, Mr Gaskell, e che è nota come Mrs Gaskell. Ho visto che da noi è stato tradotto soltanto il suo Cranford (1853) che è infatti un libro squisito ma destinato a dare un’impressione completamente falsa della scrittrice. Esso, che descrive in modo affascinante la vita di una piccola cerchia di vecchie signorine in una piccolissima città, la farebbe credere una discepola della Austen: il delicatissimo umorismo, la bonomia non disarmata, il
culto del particolare significativo, tutte qualità austeniane che brillano però quasi soltanto in questo romanzo e che stanno soltanto a provare la versatilità della Gaskell. Essa è in realtà una scrittrice energica, preoccupata da problemi sociali e derivante, se proprio da qualcuno deve derivare, dalla Eliot ben più che dalla Austen. Essa visse quasi sempre a Manchester, e questa sinistra metropoli industriale che doveva fornire a Marx la maggior
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parte del materiale per l’elaborazione del Capitale rivelò alla Gaskell le immagini orrorose della vita operaia di allora. Il suo primo è il più potente romanzo: Mary Barton, A Tale of Manchester Life (1848). È il più antico dei romanzi sociali, il primo che dipinge, come essa dice,
«quell’ambiente nel quale, durante le annate cattive, alcune persone debbono fare a meno dei diamanti mentre altre debbono fare a meno del pane». Il libro, colmo di difetti, rimane potente e inquietante, tanto inquietante che gli economisti vi si precipitarono sopra per provarne la falsità. E la provarono, in cifre. Ma dal punto di vista umano la vittoria rimase alla Gaskell. Essa era una donna generosa e voleva trovare dei rimedi al male; d’altra parte la sua anima vittoriana non poteva concepire mu-
tamenti rivoluzionari. Essa scorgeva delle possibilità d’intesa; la sua opera era volta a cercare un riavvicinamento dei punti di vista. E, come si è visto, la storia le ha
dato, in quanto all'Inghilterra, ragione. Le critiche furono violentissime; il libro aveva il torto di essere veritiero
e il torto anche di esser triste. Si disse che il romanzo era «fondato sopra sette letti mortuari e un assassinio». Si disse e, come ho detto, si fece finta di provare che le sue
basi economiche erano errate. Ma restò chiaro il fatto che si era dinanzi a una efficacissima narratrice. Con la generosità del genio, il solo Dickens la difese. E il suo articolo ammirativo strinse legami di amicizia fra lui e la Gaskell, legami che, sia detto in onore della originalità creativa di lei, non degenerarono mai in imitazione lette-
raria, la Gaskell restando sempre la meno dickensiana degli scrittori del tempo. Nel 1850 essa scrisse The Moorland Cottage, che nella sua pudica semplicità fa presentire Ur coeur simple di Flaubert. E nel 1853 abbiamo Cranford, piccolo capolavoro del quale ho già parlato. Dopo Ruzh (1853) abbiamo un’altra opera notevolissima, nella medesima vena di Mary Barton: North
and South, un’altra narrazione commovente e rigorosa.
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Dopo North and South la Gaskell pubblicò una Life of Charlotte Bronté, della quale era stata amica: colma
d’informazioni raccolte dalla viva voce di lei, ci presenta un quadro di alto valore artistico del «nido di aquilette» del quale ho molto ma non abbastanza parlato. Questa biografia rimane ancor oggi insorpassata. Presto ritornò
al romanzo nel quale diede ancora splendide prove. Sy/ via's Lovers e Cousin Pbillis (1864) sono tristi storie narrate con non diminuito vigore. E stava per completare Wives and Daughters, nel quale era ritornata alla maniera leggera di Cranford, quando la morte la colse. In fondo ho avuto torto a non porre la Gaskell fra i grandi: essa lo meriterebbe in pieno. Non finirò col tradizionale «leggetelo» perché anche se ne aveste voglia non potreste seguire il mio consiglio. To non posseggo che il Cranford, come tutti, e la Life of Charlotte Bronte. Anche in Inghilterra e non solo in questo backwazer le sue opere sono da trovarsi difficilmente. Io le ho lette tutte perché il mio padrone di casa di Edimburgo, ardente laburista, me le prestava con fervore e il giorno dopo mi interrogava minuziosamente. E fortunatamente gli appunti che allora prendevo si sono salvati. Mi accorgo che è necessario porre un freno alla mia garrulità se no mi occorreranno ancora diecine di pagine. Cercherò quindi di impormi un limite nelle mie divagazioni a proposito di Charles Kingsley (1819-1875) che, anche lui, è un romanziere che si colloca in seconda fila con qualche rimorso.
Egli trasse la sua prima ispirazione da Carlyle, per un verso, e dall’altro si mostra affine alla Gaskell per le sue preoccupazioni sociali. Egli si poneva il problema di come far vivere in armonia il contadino, l’operaio, il proprietario terriero e l’intraprenditore industriale e come condurli, tutti, verso una prosperità benefica e condivi-
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sa. Egli era in ispirito, come nei fatti, un curato di cam-
pagna, onesto, limitato, impulsivo, esente da qualsiasi ambizione personale. Scrisse dapprima tre romanzi (Yeast, Alton Locke e Taylor and Poet) che furono pubblicati nel 1850 circa e che non sono in nessun modo riusciti; sono anzi illeggibili (benché letti). Dovettero però servirgli come esercitazioni perché
poco dopo, nel 1853, pubblicò quello che non è il più popolare ma è il migliore dei suoi libri, Hypatia. Opera nobilissima e di alta tenuta letteraria, Hypazia si fonda sull’assassinio da parte di cristiani fanatici della giovane Ipazia, ultima filosofessa greca della scuola di Alessandria, nel quinto secolo dopo Cristo. Avvenimento storico. Si tratta quindi della storia di una martire pagana. Il romanzo, che nell’impeto creativo di Kingsley ha bruciato qualsiasi residuo teorico, è composto con straordinaria irruenza e drammaticità. Quasi contro la volontà dell’autore, però, grandi temi dialettici vengono discussi: antagonismo fra una Chiesa giovanilmente aggressiva e una organizzazione statale decrepita; la tragedia anche di una nobile fede filosofica (quella di Ipazia) priva però di energia rigeneratrice; e soprattutto una deplorazione priva di acrimonia per il rigetto pronunziato dal Cristianesimo nascente dell’alleanza con la bellezza e la grazia, e della accettazione invece dell’ascetismo come misura della virtù. Tematica splendida, splendidamente svolta, e che amaramente mi fa riflettere sulla misera provincialità dei dissidi che andavano studiando i nostri scrittori di quel tempo. Hypatia è un’opera di alta, significativa bellezza che fu subito seguita da Phaeton, brevissimo romanzetto filosofico nello stile del Settecento nel quale più esplicitamente l’autore s'indugia sui medesimi temi. Nel 1855 Kingsley pubblicò Westward Ho! che è considerato #/ romanzo suo benché di fatto sia parecchio inferiore a Hypatia. È anch'esso un romanzo storico, tra-
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sportato però durante il regno di Elisabetta: movimentato, divertente, arioso, riempito del più ardente patriottismo, è di una incredibile aggressività anti-cattolica. Si direbbe che Kingsley concepisca un cattolico unicamente come sottospecie del villain, del mascalzone. Rinfrescante, dopo questa furibonda parentesi di lotta della quale Kingsley pare non comprendesse la futilità, ci appare Two Years Ago, nel quale egli ritorna alla sua migliore, pacata e tollerante maniera. Hereward the Wake è anch'esso un romanzo storico, ma poiché si svolge ai tempi della conquista normanna, il problema del protestantesimo non può porsi e così Kingsley se ne sta più buono. Nel complesso Kingsley sopravvive, nell’arte, soltanto per Hypatia, ma ciò non è poco. Nella scia di Kingsley troviamo due autori: Thomas Hughes (1822-1896) si occupò specialmente dei problemi educativi suscitati dalla grande riforma di Arnold, e nel Tor Brown's School Days ha raggiunto una grande potenza di evocazione alla quale il libro deve la propria perdurante popolarità. Di maggior calibro è Charles Reade (1814-1884), tipo di uomo irrequieto e battagliero, che potrebbe figurare nei Plaideurs di Racine per il numero illimitato di querele che ha dato, una delle quali, la più famosa, contro la Regina Vittoria in persona per una errata applicazione a
suo danno di una legge doganale che portò al sequestro di un regalo inviatogli per pacco postale dagli Stati Uniti. Il sequestro era durato quarantotto ore ma egli adì il Tribunale per danni subiti e citò la Regina quale Capo dello Stato che gli'aveva impedito di consumare, durante quarantott’ore, le marmellate inviategli dall’amico americano. Vinse la causa, ricevette un indennizzo di una sterlina (d’oro), la fece circondare di brillantini e
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montare in spilla che regalò alla Regina stessa durante un’udienza chiesta e concessa: egli spiegò alla Sovrana che la sua querela era rivolta allo scopo di conferire alla Corona «il lustro maggiore, quello della Giustizia». La spilla è esposta in una vetrina a Windsor. Ma Reade non era un pazzo, era invece uno scrittore
di tendenze piuttosto realistiche, dotato di una grande forza di rappresentazione e di una (relativa) chiarezza di espressione quando gli argomenti diventavano scabrosi. Alcuni suoi romanzi sono sul tipo defoeiano (come forma): false relazioni, memorie fittizie che sono efficaci
ma prive del sentimento tragico che è in Defoe. Dopo seguì una serie di romanzi-«crociate»: contro il trattamento dei pazzi nei manicomi, contro il regime carcerario, contro la baratteria, contro la mancanza di
igiene nei villaggi (Fou! Play, A Woman Hater, Put Yourself in his Place). Strani romanzi, pieni di note documentarie a piè di pagina, di periodi scritti in caratteri a grassetto, di sottolineature. Romanzi che diedero a Reade una grande popolarità, un sacco di quattrini ma soprattutto ciò che egli amava di più al mondo, centinaia di liti giudiziarie intentategli da persone o da enti che si credevano diffamati. Ma si avrebbe torto di credere che sono dei romanzi senza arte: sono delle belle opere robuste e serie, basta paragonarle con quelle di Sue che mirano allo stesso scopo per accorgersi del loro valore e della causa che conferisce loro questo valore: i loro intrecci sono di elementare semplicità, senza traccia del misterioso e del melodrammatico che imputridisce tante opere di questo genere «bene intenzionato». Lo stesso spirito di crociata troviamo nel suo capolavoro * Nelle biografie di Reade l’aneddoto non è rintracciabile, ed anche secondo gli esperti del protocollo britannico esso risulterebbe inverosimile. Tomasi potrebbe aver riportato con sue aggiunte per-
sonali uno dei tanti aneddoti sulla proverbiale litigiosità di Reade.
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The Cloister and the Hearth, che è tutto un attacco contro il celibato del clero, romanzo storico documentatissimo, pieno di personaggi ben delineati, di azione impe-
tuosa, di potere emotivo e che ha come personaggio centrale un tale Erasmo da Rotterdam.
Adesso vorrei concludere queste mie troppe note ricordando due romanzieri, veramente minori ma che
posseggono delle singolarità e un innegabile fascino. Henry Kingsley, anzitutto, fratello dell’illustre autore di Hypatia, che, sprovvisto del talento fraterno per affrontare alti temi, possedeva una gentile ispirazione, una saggezza mellow e un immenso fondo di affetto per uomini
e per animali, tutte qualità che sarebbero rimaste scialbe se non fossero state, al solito, sostenute da un piacevolis-
simo humour. Austin Elliot (1863) e Ravenshoe (1862) sono i soli due suoi romanzi che io abbia letto; mi hanno lasciato un sorridente vago ricordo di bei parchi ombrosi, di gentiluomini impeccabili, di belle signore e, soprattutto, di adorabili cani e cavalli. Egli ha mirabilmente colto gli aspetti esteriori, opulenti ma dignitosi, delle classi elevate vittoriane. Mayfair visto senza il cinismo di Thackeray. Anche il John Inglesant (1880) di Joseph Shorthouse è un libro notevole, anzi di categoria più elevata di quelli di Kingsley II. Esso si occupa di quello strano tentativo di «monastero protestante» che sorse durante la Guerra Civile a Little Gidding (vi dice qualcosa questo nome?); e questo tema insolito al quale è riallacciata la polemica molinista che si svolgeva contemporaneamente a Roma è trattato con larga apertura di spirito e con una elevatezza di concetti che allo Shorthouse derivava dalla sua profonda conoscenza della filosofia greca della quale egli era insegnante a Oxford. Sarebbe veramente tempo di finirla con questi romanzieri «minori». Ma il demonio garrulo della prolis-
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sità mi suggerisce di aggiungere ancora qualche considerazione.
Avrete certamente notato il grande numero di romanzi storici che abbiamo ricordato. E anche fra quelli non storici moltissimi sono nettamente fissati ad un periodo precedente sia pur di poco quello nel quale l’opera vien scritta. Generalmente, però, non sono narrazioni nelle quali si rievochino unicamente i colpi di spada o gli amoreggiamenti dei secoli passati. Se ne rievocano e se ne discutono anche (soprattutto, direi, in parecchi di essi) le idee ed i loro conflitti. Così inteso il romanzo storico perde molto della sua vacuità, scelto com'è soltanto perché in quella data epoca la dialettica ideale appare atteggiata con maggior vigore. Questo dovevo dire affinché non crediate che si tratti di romanzi tipo Dumas o D'Azeglio. Il solo scrittore non-inglese che possa darvi un’idea di queste opere è Balzac che nei suoi Chowars e ancor più nella Cazhérine de Médicis ha dibattuto alte,
perenni questioni collocandole nel quadro del momento storico in cui esse ebbero più esplicita risonanza. E adesso è veramente finito.
UN «FUORI SERIE»
George Borrow (1803-1881) non si lascia acchiappare per una classifica. I suoi libri scientifici (linguistica) sono romanzati; i suoi romanzi sono autobiografici; la sua autobiografia è largamente romanzata; i suoi libri di viaggi contengono pagine e pagine tanto di romanzo che d’indagini scientifiche o quasi. Borrow, però, è una personalità singolare e un grande scrittore. La sua vita (anche quella vera, non parliamo di ciò che lui narra) è un romanzo picaresco che si inizia con innumerevoli scorribande per tutta l’Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda quando era bambino e seguiva il padre, ufficiale istruttore delle reclute durante le guerre napoleoniche, e termina negli agi e nel lusso che gli procurò, sul finire della vita, il matrimonio con una signora trent'anni più vecchia di lui. Molte persone, e molti inglesi specialmente, hanno un hobby, cioè un'occupazione dilettantesca in margine alla loro professione; così l’hobby di Churchill è la pittura, quello di Disraeli il tagliare i capelli agli amici, ecc. Pochi però sono coloro che, come Borrow, hanno un nu-
mero stragrande di hobbies, vi si abbandonano con passione e riescono a costruirsi una esistenza interamente
intessuta di «occupazioni secondarie». Borrow era avvocato; ma ciò di cui si occupava vera-
mente era: lo studio degli zingari, la Bibbia, la conoscenza delle lingue antiche e moderne, il pugilato, l’esoterismo, i viaggi. A tanta varietà di gusti possiamo aggiungere la lotta contro il cattolicesimo e, finalmente, lo scrivere libri.
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Conosceva, dice lui, ottantanove lingue, alcune delle quali assai strane: il gallese, l’albanese, l’armeno, l’aramaico, il russo antico e, si capisce, l'ebraico. Infatti il so-
lo individuo cattolico per il quale abbia una certa considerazione e rispetto è il nostro cardinale Mezzofanti che ne conosceva centouno. Dopo, la Bibbia, che racchiudeva per lui la totalità della verità e senza una conoscenza della quale era impossibile salvar l’anima. Durante tre anni fece, gratuitamente, il mestiere di distributore di Bibbie (protestanti) in spagnolo percorrendo in lungo e in largo la Spagna, allora dilaniata dalle guerre carliste, e correndo seri pericoli. Da queste sue avventure trasse il motivo del suo libro più noto, The Bible in Spain (1843). Dopo ancora, gli zingari. Per questi aveva una vera passione. Ne conosceva, cela va sans dire, la lingua ed i vari dialetti e gerghi, viveva per mesi interi nei loro sudici carrozzoni, ne conosceva storia, costumi ed usi e fu
proclamato da una assemblea di zingari, radunatasi nel Friuli, «zingaro onorario», titolo che da allora in poi scriveva nei suoi biglietti da visita. E tracce numerosissime di questo terzo hobby si ritrovano nelle sue opere. Dopo gli zingari, il pugilato. La boxe era allora in Inghilterra uno sport vietato. Si combatteva senza guantoni e le mascelle fracassate e anche peggio erano cose all’ordine del giorno. Perciò le riunioni avvenivano clandestinamente; ad un tratto correva la voce fra gli appassionati: «Domani all’alba vi è un incontro fra Bill Thorpe e Fred Benjamin, nel cortile di tale fattoria, a settanta miglia da Londra». E tutta la notte gli appassionati andavano a cavallo o in vettura per ritrovarsi alla grigia alba intorno ad un ring con la triplice angoscia di veder sconfitto il favorito, di perdere i loro soldi e di esser pescati dalla polizia. Borrow era un appassionato ed un pugilatore lui stesso e in Lavergro ci ha lasciato una magica rievocazione di una di queste segrete riunioni.
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Noi siamo grati a lui per questi suoi hobbies, ma che cosa ne avranno pensato i clienti dell'avvocato Borrow? Come può facilmente intuirsi, questi temi bislacchi, intrecciandosi e fondendosi, danno una grande varietà e un sapore inconfondibile ai non molti libri di Borrow. Essi sono Zincali, The Bible in Spain, Lavengro, Wild Wales e The Romany Rye. Tutti saporosissimi, tutti oltremodo dilettevoli. Ma ciò che è la principale caratteristica dell’arte di Borrow è la sua felicissima facoltà di imprimere una leggera deviazione alle scene rappresentate e di farcele ad un tratto apparire eerze. In Lavengro vi è tutta una successione di scene che in questo senso sono insuperate: quella di un cimitero in principio, quella dei prigionieri francesi, tutte quelle che si svolgono in Irlanda, la sua lotta con il contrabbandiere, la sua gita
alle frontiere del Galles, la grande scena del pugilato che finisce con un temporale. Pagine di vero prim’ordine. E se non ci credete leggete Lavergro che è qui a vostra disposizione. Lo stesso può dirsi degli altri libri, specialmente di The Bible in Spain. Vi è qui una cavalcata notturna in compagnia di un «marrano» che dà i brividi, non si sa bene perché. Nessuna opera di Borrow, che io sappia, è stata tradotta in italiano; e financo il suo nome è ignorato. Uno storico-artista vorrei ancora nominare: Alexander William Kinglake (1809-1891), che scrisse soltanto due libri: il primo, Eotber (1844), è la relazione di un suo viaggio in Grecia e Turchia, scritta con vivacità ed eleganza, che è rimasta un vero classico. Il secondo e più importante è The History of the War in Crimea (186387) in ben otto volumi, un capolavoro di «stile antico» in quanto pretende di imitare Tito Livio. Per esser sinceri è leggermente ridicolo.
e
I POETI VITTORIANI PURI
Per i poeti «vittoriani arcaici» ce la siamo cavata in quattro e quattr’otto. Non così sarà per questi che trattere-
mo adesso perché essi sono importanti e numerosi. Non raggiungono l’altezza dei loro predecessori Byron, Shelley e Keats; hanno anche il difetto di trovarsi nella «fase d’ombra» che avvolge tutti i poeti (meno i massimi) la cui opera risale a un secolo fa; essi sono, per il momen-
to, «fuori moda». Ma rimangono tuttavia di un’importanza di prim'ordine. I maggiori sono tre: Tennyson, Browning e Rossetti, preceduti da Arnold, e seguiti da una schiera di altri fra i quali brillano particolarmente la moglie di Browning, Elizabeth Barrett, e la sorella di Rossetti, Christina, che continuarono
così anche nel
campo della lirica quel fiorire di letteratura femminile di già tanto potentemente rivelatosi nel romanzo. Questi poeti sono inoltre profondamente differenti l’uno dall’altro: Rossetti ci presenta un volto trasognato, è un lirico i cui modi lo riportano al Dolce Stil Nuovo (e dei poeti di quel periodo e di Dante stesso fu infatti traduttore insigne); Browning è invece poeta tutto sangue,
artefice altissimo anch’egli imbevuto «vittoriano» di tutti altissimo, narratore musicalità.
di drammi carnali e spirituali, di italianismo; Tennyson è il più gli scrittori che incontreremo, lirico in versi di squisita sensibilità ed alta
I LIRICI VITTORIANI PURI: MATTHEW ARNOLD
Spero che vogliate permettermi di abbandonare per un po’ la mia perpetua (ed ambigua) modestia. Questo momentaneo strappo ad una lodevole consuetudine è causato dal nome, appunto, di Matthew Arnold: nome in Inghilterra doppiamente famoso, per un padre e per un figlio; nome, quello del figlio, di un poeta che è adesso il meno «fuori moda» dei lirici vittoriani; nome totalmente ignoto in Italia, come ne ho avuto ieri conferma auto-
revolissima.
«To the happy few.» E il saio ricade. Egualmente eminente quale poeta e quale critico, Arnold occupa, tra gli scrittori vittoriani, un posto di singolare distinzione. La sua lirica è assai meno imponente
come mole e assai meno estesa in senso spirituale di quella di, per esempio, Robert Browning. Non giunge alle intuizioni spesso grandiose di questo, come non raggiunge sempre la musicalità, la 7e//owress di Tennyson. Possiede però un senso di ansia, una inquietudine che in Browning è rara e che in Tennyson è assente. Puramente vittoriano nella finitezza formale e nell’ossequio (spontaneo e naturale) al mondo nel quale viveva, in Arnold vi è però alcunché che questo mondo trascende: uno stimolo non metafisico, certamente, non religioso, forse,
che lo rende sdegnoso di tutti i mondi umani, e anche (horribile dictu) di quello governato dalla graziosa maestà di Vittoria. Sdegnoso, intendiamoci, non ribelle; vi è
in Arnold un leggero aggrottarsi della fronte al disopra
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delle ben curate fedine vittoriane; e questo aggrottarsi lo ha salvato dalla trascuranza nella quale son caduti tanto Tennyson che Browning, del resto ingiustamente perché anche loro sono dei poeti veri. Matthew Arnold (1822-1888) era il figlio di Thomas, che fu Headmaster, cioè una specie di «superpreside» del collegio di Rugby. Il nome di Thomas Arnold è rimasto celebre perché fu il propugnatore e l’attuatore della riforma delle public schools inglesi, cioè delle scuole private che educavano (ed educano) tutta la classe dirigente inglese. Esse equivalgono a un po’ più, forse, dei nostri ginnasi e licei e sono sempre dei collegi, cioè delle istituzioni dove gli alunni risiedono, sempre in campagna o in piccolissime città. Finiti gli studi nelle public schools (le più antiche ed apprezzate sono Eton, Harrow e, appunto, Rugby) si ha, dopo un esame tenuto nell'Università, l'ingresso a Oxford o a Cambridge. In esse, ancor più che a formare degli uomini di cultura, si mira a formare degli uomini di carattere. L’allontanamento dalle famiglie e la vita fra coetanei estirpa il tipo del ragazzo «mammolino» così perniciosamente frequente più si procede verso il Sud; la pratica obbligatoria degli sport all’aria aperta con qualsiasi tempo toglie la timidezza, il timore fisico e abitua alle decisioni rapide e al lavoro di squadra; un singolare e complicato sistema d’interdipendenza fra «grandi» e piccoli avvezza gli alunni al «servizio» senza umiliazione e al «comando» senza credersi dei Padri Eterni; i frequenti inviti a pranzo da parte dell’Headmaster impartiscono le regole del galateo; i balletti del sabato pomeriggio conferiscono scioltezza nelle relazioni sociali e infine le punizioni mediante le vergate inculcano il principio che ogni errore finisce con l’esser pagato.
Questa delle punizioni corporali è una questione continuamente dibattuta in Inghilterra. Ogni tanto si indicono dei referendum fra gli ex allievi delle public
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schools: invariabilmente l’ottanta per cento si manifesta favorevole al mantenimento della pena fisica. Non soltanto questo, ma in innumerevoli lettere vecchi ammiragli, banchieri, avvocati, magistrati e scrittori attribuisco-
no ai colpi ricevuti una parte importante e salutare nell’educazione del loro carattere. Occorre dire che la pena delle verghe è inflitta soltanto per mancanze in condotta e mai in profitto; che si cerca di togliere qualsiasi caratteristica di umiliazione facendo infliggere la pena non da impiegati subalterni ma dal preside in persona; che i colpi non possono mai essere meno di tre e più di dieci. Il ragazzo punito non deve gemere pena la squalifica inflittagli dai suoi stessi compagni; a operazione finita deve ringraziare il preside che lo invita la stessa sera a pranzo; un ragazzo che non è mai stato vergato è
disprezzato dai compagni perché rzeek e uno che lo è stato più di cinque volte (caso rarissimo) è pure disprezzato perché rake. A questi vantaggi diretti si aggiungono quelli indiretti: la casa non è più il luogo dove si fanno i compiti e si buscano gli scapaccioni, ma il posto dove si trascorrono le vacanze, ed è maggiormente amata; lo studio serve da riposo agli sport ed ha minori terrori; la comunità di educazione fra persone di ceti diversi attutisce enormemente le differenze sociali. Questo è il sistema delle public schools di oggi; dopo la riforma introdotta da Thomas Arnold, padre del poeta. Prima di lui le grandi linee erano le stesse ma la brutalità dei metodi e le restrizioni alla libertà degli alunni molto maggiori. Arnold modificò quanto poté continuando a servirsi delle parti buone dell’organizzazione; naturalmente introdusse anche importanti modifiche nei programmi d’insegnamento.
La garrulità mi ha di nuovo trascinato a questo excursus per le public schools; ma era forse necessario perché serve a lumeggiare la figura del padre del poeta, figura
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quanto mai importante nella vita culturale inglese e che è stata oggetto di uno dei migliori saggi di Lytton Strachey. Anche Matthew Arnold, come-il padre, seguì la carriera dell’insegnamento: uscito da Oxford seguì la solita trafila e finì col diventare ispettore scolastico ed ebbe dopo una cattedra in quello stesso King's College di Oxford nel quale aveva studiato. Egli compose numerosi scritti che potremmo chiamare «professionali» sulle condizioni degli studi in Inghilterra e in Francia, scritti che pare abbiano ancora notevole valore nel campo della pedagogia ma dei quali, come è ovvio, non dovremo occuparci. Occorrerà invece che, a suo tempo e luogo, ritorniamo sul suo Study of Celtic Literature che ebbe una notevole influenza nel risorgere della letteratura irlandese al principio del nostro secolo, risorgimento al quale si legano i grandi nomi di Yeats e di Synge, oltre a parecchi altri di grande valore. Le sue prime opere poetiche furono A/aric at Rome e un poema su Cromwell che, benché ottenessero i massi-
mi onori a Rugby e ad Oxford, non si distaccano grandemente dal consueto rimeggiare degli studenti universitari. Adesso che conosciamo le opere maggiori di Arnold non è difficile scoprirvi tracce della sua personale inquietudine, ma ciò fa parte del senno di poi. Verso i trent'anni pubblicò un volume di Poerzs (1849) che andò via via ripubblicando sempre con nuove aggiunte sino al 1867, anno in cui cessò di scrivere in poesia. Fin dalla prima raccolta troviamo il Forsaken Merman che è uno dei suoi tre o quattro capolavori. Strano poema nel quale l’influenza del Coleridge dell’Arcient Mariner è visibile per la materia fantastica ma nel quale il ritmo ondulante e tutto basato su sfumature di pause e di accenti è ben decisamente arnoldiano. Come proprio ad Arnold è il senso del dolore di non poter credere, espresso dall’immagine di questo vecchio Tritone, venuto a vivere tra i pescatori di un borgo in-
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glese, che sempre però sente in sé il fermento delle proprie origini pagane e cui freni interni vietano l’ingresso
nella Chiesa. Pensate un po’ alla eccezione che questa figura costituisce nella poesia vittoriana. In qualsiasi altro autore del periodo «puro» il buon Tritone sarebbe certamente corso a farsi battezzare e sarebbe probabilmente finito prebendario della Chiesa anglicana. Mi occorrerebbe una scorta di aggettivi molto maggiore di quella che è a mia disposizione per parlarvi di molte, se non di tutte le liriche di Arnold. Debbo accontentarmi del consueto invito alla lettura e all’indicazione delle più notevoli. Fra queste importantissime mi sembrano le
Stanzas in Memory of the Author of Obermann, seguite da Obermann Once More, le quali in forma di classica purezza esaltano quel Senancour che fu appunto l’autore di Obermann, romanzo nel quale il tema dell’inquietudine spirituale è espresso con la più grande efficacia. In queste strofe Arnold ci dà veramente la chiave per la comprensione del suo turbamento, derivato dalla propria inadattabilità alla prosperità vittoriana. Né meno acute sono le rivelazioni che traspariscono dalle Stanzas frorz the Grande Chartreuse (1855), tra le più belle liriche inglesi. E anche di prim'ordine sono i suoi tre poemetti sugli animali, Geist's Grave, Poor Matthias e Kaiser Dead, veramente
squisiti. Del 1853 sono The Scholar-Gipsy e Thyrsis, che ci mostrano il poeta nella sua più ricca vena d’invenzione lirica e di sentimento riflessivo. Esse si avvicinano a quanto di meglio abbia scritto Wordsworth. Rugby Chapel, scritto in memoria del padre, e Southern Night, composta in occasione della morte di un fratello, sono forse le sue
liriche più alte. Nessuno che abbia mai una volta riflettuto sulle «ultimate things» potrà leggerle senza profonda commozione.
Arnold, come quasi tutti i poeti vittoriani (con la sola eccezione di Tennyson), fu un grande amico dell’Italia, che in quel periodo del Risorgimento incarnava per lui
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l'ideale di un popolo in lotta per la propria indipendenza. Egli viaggiò molto e a lungo nella Penisola e anche in Sicilia, dalla quale scrisse lettere-che mi dicono essere di
grande interesse artistico e sociale, ma di cui nessuno dei nostri eruditi locali ha mai avuto sentore. Sincope di conoscenza che si rinnoverà per il periplo siciliano di Butler di venti anni dopo. Mentre però la tradizione italiana ispirò Browning sotto la propria forma medievale e Swinburne attraverso la (allora) contemporanea forma garibaldina, Arnold trasse dall'Italia e particolarmente dalla Sicilia ispirazione classica della quale il suo Eyzpedocles on Etna è magnifico frutto. Il fascino particolarissimo della poesia di Arnold scaturisce dalla intensità del suo sentimento esprimentesi nella forma più rattenuta, più castigata che sia possibile immaginare. Egli è egualmente esente da sentimentalismo e da enfasi. Ed è supremamente attraente perché ci fa egualmente sentire la sua inquietudine interna e la sua fortitudine intellettuale. Pregi che lo fanno paradossalmente simile a Stendhal e che ad ogni modo lo rendono esponente di una civiltà giunta a perfetta ma non soverchia maturazione. Come è stato detto, nel 1867 Arnold cessò la propria attività poetica e si rivolse alla critica. E insieme a Dryden e a Coleridge egli è uno dei tre grandi critici di poesia che la letteratura inglese, fortunata come sempre, abbia avuto. Fin dalle sue prime raccolte di liriche, in verità, egli
aveva espresso, nelle prefazioni, le sue idee sul compito della poesia e i doveri del poeta. Ed è del 1853 il suo famoso saggio contro chi pretendeva che «a poet must leave the exhausted past, and draw his subjects from matters of present import». Come si vede queste polemiche erano di già state dibattute cento anni fa. Sia dalla cattedra sua di Oxford, sia in conferenze, sia in articoli su riviste, combatté tutti i fanatici letterari di
destra come di sinistra che pretendevano imporre limiti
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alle attività letterarie. «A poet may write about God as he may write about a bug in his bedstead; the only thing we require of him is that he has really felt the presence or the absence of God, or that his flesh has really been bitten by the bug. No pretence whatever, no good pretence, no bad pretence.» Fu lui a fare (nel 1870, a soli
tre anni dalla morte del poeta) la traduzione di Les Fleurs du Mal; fu lui a difendere Swinburne contro gli
attacchi dei moralisti. Egli redasse, in seguito ad una inchiesta giornalistica, la famosa lista dei duecento migliori libri del mondo, fra i quali, con scandalo generale, introdusse Madame Bovary, L’Education sentimentale e Les Fleurs du Mal, oltre a, per citarne alcuni, Le Rouge
et le Notr, Les liaisons dangereuses e Moll Flanders. Un suo avversario gli disse che con questa scelta egli aveva «macchiato la bandiera inglese»! Sostenne sempre che unica funzione della letteratura era quella di esercitare la critica della vita e del mondo. Ho voluto ricordare a lungo Matthew Arnold anzitutto perché ne vale la pena e poi perché è così totalmente ignorato da noi.
“ Questa immagine di Arnold quale alfiere della nuova poesia francese non collima con quanto riferito dai suoi biografi, i quali anzi sottolineano la sua incomprensione di Baudelaire.
e
ALFRED TENNYSON
Dopo Arnold, il vittoriano inquieto, incontriamo Tennyson, il vittoriano perfetto. Dei grandi Vittoriani egli ebbe tutto: la serenità, il se/fcontentment, il culto della forma, la fede nel progresso, la virtù, la bellezza fi-
sica, la ricchezza; in più di molti altri egli ebbe un grande talento. Insieme a pochissimi altri una passione segreta. Egli è il più grande dei poeti vittoriani e come tale fu riconosciuto da vivo. Fu il poeta più popolare del tempo suo: raggiunse l’opulenza, il più elevato rango sociale, la paria. Fu poeta laureato. Adesso egli è non certo dimenticato, ma trascurato. Alla nostra generazione frettolosa i suoi poemi appaiono troppo lunghi; la sua prolificità appare mostruosa alla nostra sterilità. Alla ignoranza della nostra generazione che si traveste da spontaneità, la sua larga cultura appare artificiosa; alla nostra sete di successo immediato la lunga elaborazione delle sue opere sembra affettazione. La nostra sensualità che assai più che in azioni si esplica in parole scambia per ipocrisia quello che è il suo pudore. Frutto forse di un malinteso, frutto probabilmente dell’incomprensione che ogni generazione ha per quelle che la precedettero (gli ideali dei trapassati, divenuti per i posteri vacui, sono interpretati come falsità), l’attuale misconoscimento dei grandi meriti di Tennyson è ingiusto. Poeta egli lo fu, poeta in sommo
grado artista;
espresse in un linguaggio cui diede sonorità e risonanze magiche il suo orecchio musicale, i sogni, i desideri, le aspirazioni del suo tempo. Se questi sogni si sono in par-
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te avverati, in più gran parte dimostrati irraggiungibili che colpa ne ha lui? Nella poesia il corze si dice varrà sempre più di quel che si dice. Eppure una qualche ragione, un qualsiasi incentivo al malinteso deve esserci. Si ha un bel dire che tutto il Vittorianesimo è passato di moda: intanto vediamo Arnold e Browning, Dickens, la Eliot e Trollope esser più in voga che mai. Quel che è realmente fuori moda, oggi, non è il Vittorianesimo, ma l’ottimismo. E di questo ottimismo, sazio, riposato e un po’ pacioccone Tennyson è il
rappresentante maggiore. Vi è in lui molto di quello spirito g00dy-g0ody, di quella sorridente acquiescenza che non può non urtare i nervi di noi che tranquilli non siamo più.
Tennyson è Pangloss divenuto poeta, e gran poeta. Noi, i Candidi e le Cunegonde del 1954, impoveriti, stuprati, assassinati e sul punto di essere atomizzati non gli possiamo perdonare di essere stato così sereno e di averlo detto tanto bene.
Alfred Tennyson nacque nel 1809 a Somersby, nel Lincolnshire, quarto figlio di un pastore anglicano: la sorella, la maggiore di tutti, fu una signora di famosa bellezza; i due altri fratelli, Frederick e Charles, furono anch'essi poeti, non spregevoli, che infusero nei loro
versi l’uno la passione per la musica, l’altro le alte e un po’ fumose teorie metafisiche delle quali era imbevuto. Famiglia eccezionale: i quattro fratelli erano tutti di straordinaria prestanza fisica, con i capelli corvini e la pelle abbronzata che tanto piacciono, perché rari, agli inglesi. E la pieve del padre covò amorosamente i quattro bambini, nell’atmosfera idillica del calmo e nebbioso Lincolnshire e in quella di alta cultura della casa di un ecclesiastico anglicano di buona razza. (Qui vorrei fare una breve parentesi per far notare
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quanti fra i grandi scrittori inglesi siano di famiglia ecclesiastica; e per sottolineare la giustezza di quanto qualcuno ha detto e cioè che il celibato imposto dalla chiesa cattolica ai suoi sacerdoti ha impedito proprio alle persone di maggiore spiritualità e cultura di avere figlioli ed ha così privato i paesi cattolici di magnifici fermenti intellettuali.) Tennyson compì i soliti brillanti studi a Cambridge e di già a sedici anni fece stampare Poerzs, by Two Brothers, che erano in realtà scritti da tutti e tre i fratelli
e che sono, del resto, quanto mai inutili. Né migliori sono le liriche pubblicate nel 1830. Tennyson cercava il proprio stile. Ricerca lenta ma fruttuosa, ché nel 1853 abbiamo già molti dei suoi capolavori: A Dream of Fair Women, The Palace of Art, The Lotus Eaters e The Lady
of Shalott, poesie che sono fra le sue migliori e fra le migliori inglesi, e rivelarono al pubblico che si era trovato un erede di Keats e soprattutto un successore di Wordsworth. Anche contro Tennyson si accanirono i critici; non riuscirono però a ucciderlo. Lo fecero soltanto tacere per qualche anno, con suo profitto. Nel 1842 comparvero in due volumi i Poerzs, ristam-
pa dei volumi precedenti con notevolissime aggiunte. The Vision of Sin, Sir Galabad, Morte d’Arthur, Locksley
Hall, Of Old sat Freedom on the Heights furono poesie famose e che in un senso più ristretto lo sono ancora adesso. Tennyson aveva acquistata piena maestria delle proprie possibilità: aveva creato i propri ritmi, imparato a tessere quel verso liquido, serico, ricco di arcane assonanze che è tutto suo. La numerosa e fervente cerchia di ammiratori che si era stretta attorno a lui commise allora un errore di valutazione che si ripercuote forse ancora adesso sulla fama del poeta. Essa, questa cerchia, non si accontentò della verità, cioè che era venuto fuori un grande poeta, uno squisito musicista del verso, un artista dalla sensibilità fine ma semplice; essa credette di aver scoperto un «poe-
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ta-saggio», uno di quegli uomini che hanno qualcosa da insegnare e si servono della poesia soltanto come veste meravigliosa di una nuova e alta concezione della vita. Una specie di Dante o di Goethe. Questo Tennyson proprio non era: egli era un inglese tipico, con molte qualità inglesi, con moltissimi difetti e pregiudizi inglesi; un buon liberale, un buon patriota, un uomo immerso
nel suo tempo fino alla cima dei suoi meravigliosi capelli e che aveva soltanto la facoltà di trasformare in parole fatate i sentimenti teneri, orgogliosi e dopo tutto onesti dei suoi contemporanei (il che, del resto, non è poco).
Tutto in Tennyson è (o per meglio dire, era ai suoi tempi) «condiviso»: i suoi amori, le sue inquietudini a fior di pelle, il suo sorridente slancio verso l’avvenire, la
sua granitica fede nella missione inglese nel mondo. Di suo, di veramente personale non vi è che il modo in cui questi sentimenti si esprimono. Vate, niente.
Grande fu quindi la delusione (non del pubblico in generale che nella propria ingenuità aveva miglior fiuto) ma degli Hallam, FitzGerald ed altri quando nel 1847 comparve The Princess. Nel debole intreccio di questa sorta di epica, nella sua ancor più debole tesi, «la presenza dell’assenza» diveniva palpabile. Il grosso pubblico invece esultò ed ebbe ragione: la fattura dei versi era squisita e nel corso della troppo lunga narrazione si tro-
vano incastonate alcune liriche perfette (Tears, Idle Tears) che rimarranno immortali. Nel 1850 venne pubblicato Ir Merzoriar, lungo poemetto in onore di un amico defunto. Ancora i fanatici rimasero delusi; ancor più che per la Prircess i semplici furono soddisfatti. E fino ai nostri giorni In Mezzoriam è considerato il miglior poema tennysoniano. A mio parere, ingiustamente. Io, infatti, se volete ricordarlo, non lo ho menzionato fra i veramente grandi poemi funebri inglesi che restano sempre quelli di Milton, Shelley e Whitman.
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Il metro scelto da Tennyson e che da lui prende adesso il nome (benché usato prima di lui da Ben Jonson e da Herbert) è magnifico; di una gravità che non esclude la leggerezza. Le immagini sono felicissime e il linguaggio ha quella nobile semplicità di ogni poesia inglese di razza. Ma il poema nel suo insieme non esiste: si tratta di una lunga serie di brevi liriche sulla morte e sulla vita senza alcuna originalità di pensiero, senza nessuna vera commozione. Le ombre di Lycidas, di Adonais e del
«Captain! my Captain» passeggiano nei Campi Elisi sotto ben altri cipressi funerei. Nel 1850 Tennyson venne nominato Poeta Laureato e non molto dopo elevato alla paria. Nelle sue qualità ufficiali scrisse molte cose, alcune passabili, altre orrende.
Mala sua vera attività artistica non fu turbata dai suoi doveri di poeta di Corte. Nel 1855 venne pubblicata Maud che, a mio parere, è il suo capolavoro. È vero, sì,
che anche in Maud egli riesce in modo impeccabile nel particolare, mentre si lascia sfuggire l'insieme, ma è anche innegabile che la tragica passione di Maud ci è narrata con un sentito vigore che non avevamo riscontrato
prima in Tennyson. Le liriche interpolate sono, come sempre, la parte più riuscita e ve ne sono di commoventi come ve ne sono di raffinate; in generale la felicità di espressione è prodigiosa. Maud, però, questa volta, disilluse ambedue i campi; per i devoti era troppo leggera; per i semplici era troppo tragica. Sul finire della sua vita Tennyson riunì e pubblicò tutti insieme, sotto il titolo di Idy//s of the King, i vari poemi di argomento arturiano che era andato pubblicando durante tutta la sua carriera. Il successo fu immenso. E, se vogliamo considerare la perfezione tecnica, la tessitura incomparabile del verso, l’accorata malinconia che vi traluce, meritato. Ma, al so-
lito, la trama tragica vi è trattata in modo insufficiente. Del resto, dal solo fatto di aver intitolato Idi/l la fosca,
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barbarica storia della Tavola Rotonda si può desumere quale angolo di visuale «vittoriano» Tennyson avesse mentre scriveva.
Ma negli Idy//s of the King, specie nelle loro parti più brevi, vi sono gruppi di vera poesia. Una delle obiezioni elevate contro Tennyson per gli Idy//s è ridicola: che egli abbia fatto di Arthur, Galahad, Guinevere e Lancelot
dei Vittoriani. E che cosa poteva far d’altro? E se Shakespeare ha fatto di Hamlet o di Macbeth degli Elisabettiani perché non poteva egli fare altrettanto? Del resto gli uomini (e le donne) vittoriani non erano da meno degli arturiani, come proprio in quegli anni stava dimostrando Cardigan in Crimea e Napier in India; e la Nightingale valeva certo più della Regina Ginevra. La ragione per la quale i personaggi degli /dy//s non sono riusciti non è il loro vittorianesimo; è il fatto ben
più importante che non sono vivi. Questo difetto di energia drammatica è, ovviamente,
ancor più visibile nel teatro di Tennyson: vi è una tragedia, Queen Mary, che non presenta un briciolo d’interesse; un Harold nel quale il protagonista vorrebbe essere una scimiottatura di Amleto e non riesce neanche a questo; e un Beckez che tratta il medesimo tema tragico
di Murder in the Cathedral con un vigore minimo condito da lunghi discorsi inutili. Fino ai limiti estremi della vecchiaia Tennyson .continuò a scrivere con non diminuito fervore, componendo versi sempre di compiuta bellezza formale. Non fece un passo indietro: la sua lirica Locksley Hall Sixty Years After ha la purezza della celeberrima lirica Locksley Hall scritta precisamente sessanta anni prima. E ad ottant’anni suonati fu scritta Crossing the Bar che non è meno perfetta come espressione e meno commovente come sentimenti di Tears, Idle Tears.
Questo che ho detto è forse la più severa critica del poeta: egli fu un artista che, quando ebbe raggiunto la
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padronanza dei propri mezzi tecnici, raggiunse tutto: gli amori, i dolori, gli anni passarono su di lui senza gravarlo del peso di una piuma: egli continua ad esprimere quegli stessi sentimenti semplici, puri ed onesti che aveva a vent'anni. In modo che le prime poesie restano, quasi, le migliori. Il passo era veloce, lo scatto brillante, ma la corsa fu
breve. Sono passati adesso gli anni durante i quali ci si volgeva a Tennyson per un insegnamento. Ma ancora adesso
possiamo volgerci alla sua opera per il piacere sensuale del verso, per l'armonia impareggiabile della sua lingua. E anche per i sentimenti sempre nobili, sempre elevati, sempre dignitosi, sempre mediocri che si servirono di quei suoi straordinari mezzi. Si può esser tentati di dire che Tennyson è stato il Lamartine inglese. Fatta però riflessione preferisco Lamartine.
I BROWNINGS
Altrettanto Tennyson fu un poeta conformista (sinceramente si capisce), altrettanto anche Robert Browning (1812-1889) fu un vittoriano innovatore. Intendiamoci:
innovatore soltanto in arte, in tecnica; perché nella sua visione generale Browning fu altrettanto soddisfatto e sereno di Tennyson; soltanto la sua tecnica rivoluzionaria venne a togliere evidenza al goody-goodism della sua mentalità. I Vittoriani sembrano destinati a formare delle coppie contrastanti: abbiamo di già incontrato i gemelli-nemici Dickens e Thackeray; incontreremo la coppia MeredithHardy. L'opposizione Tennyson-Browning è marcatissima: Tennyson nasce da un ambiente educato e di alta cultura, frequenta Cambridge, è uomo di mondo: Browning è figlio di un modesto impiegato di banca, frequenta piccole cattive scuole, ignora le Università, rimane tutta la vita nell'ambiente povero dei letterati di professione. Queste opposizioni di ambiente si riflettono nelle loro opere: ordinata, liscia, armoniosa quella del primo; esaltata, violenta, spesso oscura quella dell’altro. Ma le opposizioni non si limitano a queste: Tennyson fu un conservatore tutta la vita e le sole sue ragioni di opposizione al governo britannico furono quelle che si riferivano al soverchio, secondo lui, appoggio che veniva concesso ai «rivoluzionari» italiani e spagnoli. Browning fu tutta la vita anche. lui un conservatore accanito all’interno ma per ciò che riguarda gli altri paesi era un ultra-liberale ed il nostro Risorgimento ebbe in iui un propugnatore ferventissimo. Fu amico personale di Garibaldi,
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si trovava a Napoli durante quella singolarissima estate del 1860 ed era alla stazione quando l’Eroe dei Due Mondi fece quello stranissimo ingresso che tutti conoscete. Tennyson, sensuale e carnale per quanto fosse, non ebbe alcuna donna che passasse nella sua vita; Browning è stato l'eroe di un famoso romanzo d’amore al quale accenneremo in seguito.
L'importanza della poesia di Robert Browning è difficilmente sopravvalutabile. La sua popolarità nell’Inghilterra attuale è immensa e quasi eguaglia in estensione quella di Burns, superandola di gran lunga in valore. Le sue strofe complesse, irte di parole antiquate, di neologismi, di frasi di gergo, sprizzanti talento da ogni sillaba, pur non di meno meticolosamente costruite e dotate di una superficiale oscurità di senso, costituiscono forse la più difficile lettura inglese che uno straniero possa fare. Due sono le qualità maestre di Browning, a mio cieco parere: una foga ritmica veramente sbalorditiva e un dinamismo drammatico davvero eccezionale, per il quale si è sempre sorpresi che egli non si sia rivolto al teatro poetico nel quale avrebbe dato magnifica prova, egli che ha composto tante liriche dialogate di prim'ordine, oltre a scriverne parecchie a una sola voce ma nelle quali chi parla è questo o quel personaggio che aveva colpito la sua fantasia. Accanto a queste qualità primordiali, alle quali occorre aggiungere un frequente balenare di immagini strane e potenti e un vivissimo senso di comprensione musicale che lo ha reso uno dei massimi «poeti della musica», non si deve tralasciare di parlare dei suoi difetti. Essi sono una /org-windedness, una lunghezza di fiato realmente sorprendente e spesso spaventevole, tanto più che nelle poesie di sei o settecento versi ciascuna (in Browning tutt'altro che rare) non vi è in fondo neppure una linea che sia trascurabile, e se anche si potesse trascurare
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si verrebbe a perdere l’effetto sinfonico o per meglio dire architettonico dell’intero poema che è quasi sempre ammirevole; ed anche un certo indefinibile cattivo gusto nella scelta delle immagini che mozza il fiato talvolta nel pieno fluire delle più ammirevoli sensazioni musicali che poesia abbia mai risvegliato; ed anche spesso un esagerare nell’oscurità, il che del resto può essere una mia impressione personale defluente dalla mia imperfetta conoscenza della lingua. Avrete notato quanto spesso io abbia accennato alla non comune musicalità della poesia di Browning; desidero però farvi notare che non si tratta per niente della musicalità tradizionale: il singolo verso musicale non esiste quasi e l'armonia scaturisce nella strofa e spesso in una successione di strofe, e non è mai un’armonia liscia
e melodica ma un composto di dissonanze sapienti e di passaggi di toni sillabici, l'uno nell’altro, del più raro effetto. La musicalità particolarissima, la sostenutezza del ritmo, l’oscurità e la stranezza di certe immagini, tutto —
qualità e difetti - giovò alla durevolezza della fama di Browning e all’influenza che egli ebbe su tutta la poesia posteriore, fino e compreso i nostri giorni. Kipling nei suoi versi è assolutamente condizionato da lui, come lo è Auden; Hopkins appare assai meno originale a chi conosca Browning ed Eliot gli deve il molto che confessa e il più del quale non parla. Le proporzioni dell’opera di Browning sono oceaniche: è vero che le liriche di Hugo, ad esempio, occupano nove volumi e quelle di Browning soltanto quattro: ma si tratta di quattro tomi di milletrecento pagine su carta India e quindi credo che l’estensione della lirica di Browning sia ben maggiore di quella delle opere di Hugo. E non so se mi spiego. Ripetere le solite scarne nozioni sulla vita di Browning sarebbe inutile. Sapete di già come egli nascesse da
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piccolissima borghesia; come mancasse di educazione superiore; a ventun anni pubblicò, anonimamente, il suo
primo poema, Pauline, che fu opera prodigiosa data la giovinezza dell’autore: piena di sicurezza di sé e dimostrante già una piena maestria non dello stile suo ancora, ma di tutte le difficoltà del verso. Dopo di che passò qualche mese in Russia; e prima che avesse compiuto i ventitre anni venne pubblicato Paracelsus, che è quasi un capolavoro. L’aplomb di questo giovanotto è portentoso; lo stile è pienamente personale; le varie idiosincrasie di Browning sono di già patenti: i contrasti drammatici, la singolarità del vocabolario, la foga ritmica, lo
strano miscuglio di linguaggio familiare e di frasi ricercate, la notevole penetrazione psicologica, l'utilizzazione di personaggi storici o mitici come portavoce delle idee dell’autore. Benché il successo del poema presso il pubblico, spaventato da tante novità, fosse modesto, Browning attirò su di sé l’attenzione di Wordsworth,
Dickens, Landor e Carlyle. A ventitre anni era di già un poeta «accettato». Gli venne richiesto di scrivere un dramma in versi e fu Strafford, rappresentato nel 1837. Fu un fiasco meri-
tato. La foga drammatica c’era in Browning, e intensa. Ma egli si trova a disagio nella costruzione delle scene, lascia troppo spesso libere le briglie al proprio estro lirico, commette insomma degli errori che sono sopporta-
bili (benché penosi) alla lettura ma che debbono esser mortali sulla scena. Vi è in un dramma di Browning, il peraltro squisito Pippa Passes, una ragazza che alzandosi dal letto pronunzia un monologo di duecentocinquanta versi! Dopo la disavventura di Strafford Browning compose Sordello, la terza di quelle che egli chiamava «storie di anime». Qui si mostra in azione il Sordello dantesco: si
assiste al trionfo iniziale e alla finale caduta di un poeta che è stato infedele al proprio vero io. Opera di grande
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elevatezza di pensiero, annebbiata da una oscurità veramente eccessiva. Questa oscurità in Browning non è mai voluta, derivante cioè da presunzione: essa è dovuta a una soverchia fiducia, anzi, nelle capacità del lettore che
non sempre è provvisto della intelligenza fulminea del poeta e riesce soltanto con la fatica e col tempo a scorgere le relazioni fra immagine e immagine che a Browning apparivano immediate e naturalissime. Cosicché spesso (non sempre per nostra fortuna) la lettura di un poema di Browning rassomiglia a una passeggiata alpestre nella quale occorra evitare precipizi, guadare torrenti e ar-
rampicarsi su pareti a picco per godere alcuni panorami indimenticabili. Ma vale la pena di fare tanto le letture che le passeggiate: in ambedue l’aria è quella pura delle cime e i colori splendenti. In quell'epoca Browning viaggiò in Spagna e il risultato fu una serie di liriche brevi che sono fra le sue cose migliori e realmente di prim'ordine: certi giardini spagnoli, certi cortili di conventi colmi del profumo dei fiori che la canicola subitanea ha disseccato all'improvviso presentano, orchestrati da Browning, delle immagini che non hanno l'equivalente altrove. In altre poesie di argomento spagnolo l’anticattolicesimo frenetico del poeta finisce col produrre un effetto di non voluta comicità. Dopo la Spagna visitò l’Italia e di essa si innamorò una volta e per sempre. Le sue poesie di argomento italiano non si contano e i suoi accenni al paesaggio tosca-
no e a quello, più desolato, del Regno di Napoli sono memorabili. Fu Browning a fondare la moda turistica anglosassone di Asolo e quella di Firenze. E contrariamente alla consuetudine inglese egli amò non soltanto l’arte e il paesaggio italiano ma anche gli italiani, del che gli va reso grande merito perché ciò esige uno sforzo assai maggiore.
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Primo frutto di questo suo viaggio in Italia fu Pippa Passes, componimento drammatico non destinato alla
scena, che è la più famosa (se non la migliore) delle sue opere. In essa viene rappresentata la giornata di una bella e povera contadina appunto di Asolo che, senza che ad essa stessa avvenga nulla di notevole, pur partecipa a tutti i dolori e a tutte le gioie che si svolgono in quel giorno nel paesello. E chiaro che s'intende qui simbolizzare l'immersione del poeta romantico nel mondo che lo circonda e che lui solo sa interpretare ed esprimere; il simbolo rimane però latente e l’opera è di potente poesia, compresi gli interminabili monologhi. Di quello stesso tempo sono numerose liriche nelle quali il veramente indiavolato senso del ritmo di Browning si esplica in modo spettacolare: celeberrimo How they Brought the Good News from Ghent to Aix e altrettanto famosi i Cavaliers Tunes. Fu questa anche l’epoca del romanzo d’amore di Browning che culminò e continuò nel matrimonio. Vi era a Londra una ragazza (di sette anni più anziana del poeta) che era poetessa anche lei, malaticcia e terribilmente tiranneggiata da un padre geloso e autoritario: Elizabeth Barrett. Essa s'innamorò delle poesie di Browning e gli inviò le proprie, mediocri ma dalle quali traspariva un’anima nobilissima sotto l’inesperienza della forma. Il poeta visitò la ragazza, le diede consigli, fu cacciato di casa da Barrett padre, ma continuò a visitarla di
nascosto. L'amore migliorò la vena poetica di lei che scrisse i Sonnets from the Portuguese, fra le rarissime belle poesie d’amore di una donna per un uomo. Questo amore e queste attività letterarie furono favorite in modo decisivo da Flush, l’affezionatissimo cane di Elizabeth, che, godendo, a differenza della padrona, della libera uscita, recava al poeta manoscritti e bigliettini e riportava indietro correzioni e risposte. Finché un bel giorno, mentre l’Orco dormiva, essa uscì di casa insieme
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a Flush, ritrovò Robert in una chiesa e si sposò. Letterina di partecipazione al padre e partenza (insieme a Flush) per l’Italia. È superfluo dire che Elizabeth, Robert e Flush sono diventati uno dei grandi miti inglesi della letteratura, così come lo sta diventando la lettera non affrancata a Montale nella letteratura italiana.” La coppia visse a Firenze, nella da allora famosa Casa Guidi in via Maggio. Lì Elizabeth scrisse parecchie cose, belle e brutte. Fra queste ultime va collocata Aurora Lezgh che è un romanzo in versi, in undicimila versi. Potrei dirvi che l’ho letto ma mi vergogno di farlo. Nel 1861 la povera Elizabeth morì. Di essa restano i Sonnets from the Portuguese, che sono vera e propria poesia, e alcune liriche sparse qua e là nelle sue raccolte: Casa Guidi Windows e Poems before Congress, ispirate a un’ardente simpatia per la causa nazionale italiana. Abbastanza ad ogni modo per meritare la designazione di «Brownings» al plurale a questo capitolo. Durante questo periodo Browning ebbe un doloroso incidente che si risolse in un bene per i posteri. Nel 1855 gli vennero sottoposte molte lettere di Shelley che egli giudicò, come infatti erano, straordinariamente interessanti. Accettò di pubblicarle e di farle precedere da un suo saggio sul poeta, allora detestato e anatemizzato in Inghilterra. Il saggio lo abbiamo ed è magnifico; ma le lettere ahimè! erano false. Dello stesso anno 1855 è Mex and Women, una delle
sue più belle e pacate raccolte di liriche che ripubblicò poi nel 1868 aggiungendovi una nuova lirica, Ore Word More, in memoria della moglie, che è fra le sue cose più belle. * Tomasi si riferisce alla lettera che Lucio Piccolo inviò a Montale nel 1954 assieme ad alcune sue poesie. Come ricorda lo stesso
Montale nella sua prefazione ai Carzi barocchi di Piccolo, era stata proprio l’affrancatura insufficiente a incuriosirlo e a indurlo a leggere l’opuscolo.
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Fu soltanto dopo la morte della moglie che venne pubblicata la raccolta Dramzatis Personae che è, a quanto a me umilissimo sembra, il capolavoro di Browning. Sono liriche quasi tutte di prim'ordine, quasi tutte di relativamente facile comprensione. E fra esse vi è quell’Ab/ Vogler che è la sola lirica di Browning che io porrei fra quelle tali dieci, o venti, o cento supreme. L’Abate Vo-
gler è il leggendario inventore dell'organo. E Browning immagina le sensazioni che dovettero svolgersi nell’animo di lui dopo che ebbe completato lo strumento. È una meditazione musicalissima sulla musica immaginata come architettura di suoni e nobile archeggiare e non come sfiatatoio di fermenti sessuali. Un’opera assoluta, assai più gravemente musicale dell'organo di Vogler che doveva assomigliare troppo alla voce umana per essere musicalmente possibile. Abt Vogler è del 1876, proprio dell’anno nel quale in Italia veniva defecata la Gioconda. Pressappoco contemporanea è la pubblicazione di The Ring and the Book, un lunghissimo dramma che occupa un intero volume delle opere di Browning; per rappresentarlo certo occorrerebbero quindici giorni. In Inghilterra Browning è «il poeta che ha scritto The Ring and the Book». Non negherò i meriti di questo libro straordinario: vi è, oltre alla consumata originalità ritmica, il vivissimo senso tragico di Browning, la sua umanissima pietà; vi troviamo anche una razione più che sufficiente di oscurità, un abbandono al gergo quasi senza freno, moltissime gravi pecche di gusto. La sua straordinaria popolarità fra il minuto pubblico inglese è certamente dovuta a tutte queste peculiarità prese insieme ma anche al fatto che The Ring and the Book è un poe" La data di pubblicazione della poesia è in effetti il 1864, ma Tomasi si lascia trasportare dall’odio verso il melodramma, del quale la Gioconda (Teatro alla Scala 1876) rappresentava per lui uno degli esempi più deteriori.
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ma-giallo. Collocato nell'Italia del Rinascimento e adorno di molti versi commoventi e mirabili, esso resta giallo
lo stesso. A me piace poco, ma chi sono mai io? Dopo questa opera Browning continuò a scrivere, ma
nella sua produzione andavano accentuandosi i difetti e svanendo le qualità. Ma il vecchio leone (perché leone era) ritrovò il proprio ruggito per quell’Epz/ogue che fu la sua ultima e una delle migliori sue poesie. Morì a Venezia nel 1889, a palazzo Rezzonico.
Egli fu indubbiamente uno dei massimi poeti inglesi. Un fratello di Donne cui lo riavvicinano tante rassomiglianze. Duro, sgradevole spesso, non vi è però in lui un solo momento di aridità poetica. Gli nocque forse quel suo voler contrapporsi a Tennyson, ingegno minore in tutto
tranne che nella dolcezza. Browning volle essere il suo contrario e vi riuscì talvolta fin troppo bene. Quando tutto è stato detto e deplorato dobbiamo accorgerci che egli è il più grande dei poeti vittoriani.
DANTE GABRIELE E CHRISTINA ROSSETTI
Il padre di questi due eminenti poeti inglesi era un italiano, Gabriele Rossetti, che fu uno di quei venerandi e
fessissimi liberali napoletani del 1821 che ebbero un momento i destini dell’Italia nelle loro mani e che non seppero da quale parte rivolgersi. Era poeta anch'egli e desidero per vostra edificazione farvi ascoltare alcuni suoi versi, quali appunto egli compose in occasione della rivoluzione partenopea del 1821. Sei pur bella cogli astri sul crine che scintillan quai vivi zaffiri, è pur dolce quel fiato che spiri, porporina foriera del dì. Col sorriso del pago disio tu ci annunzi dal balzo vicino che d’Italia nell’almo giardino il servaggio per sempre finì.
E dopo molte considerazioni prosegue contemplando l’esercito napoletano schierato: Oh qual pompa! Le armate falangi sembran fiumi ch’inondin le strade;
ma su tante migliaia di spade una goccia di sangue non v'è.
E la «goccia di sangue» non vi fu mai perché, tre mesi dopo, le «armate falangi» se la diedero a gambe davanti a quattro usseri austriaci benché il buon Rossetti le avesse esortate: Sia trionfo la morte per noi sia ruggito l'estremo sospiro.
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Neppure Gabriele Rossetti ebbe gusto per l’«estremo sospiro»; egli se ne fuggì in Inghilterra, dove continuò a scrivere altrettali elevate liriche, e finalmente sposò una
inglese. Nel 1828 gli nacque il figlio Dante Gabriele e due anni dopo una figlia, Christina. Dante Gabriele Rossetti ha una duplice importante funzione nella storia della cultura inglese: quale singolare e delicato poeta, e quale capo di quella scuola di pittura che si chiamò «preraffaellita» perché ponendo in cima ai propri desideri l’ingenuità della fattura e il misticismo delle sensazioni, combatté la pittura neoclassica imperante allora ed esaltò su tutti i pittori appunto quelli che in Italia avevano preceduto Raffaello e in modo speciale Botticelli. Nel 1850 Dante Gabriele e la sorella Christina pubblicarono il primo numero di una rivista, «The Germ»,
che si proponeva di affermare la necessità di «una intera aderenza alla semplicità dell’arte». In questa rivista, che
durò soltanto quattro mesi, furono pubblicate undici liriche di Dante Gabriele e sette di Christina. Alcune delle liriche di Dante Gabriele sono prime versioni di quelle che in seguito saranno fra le sue più famose, come per esempio The Blessed Damozel. I numeri del «Germ» erano illustrati da incisioni in legno eseguite dal poeta. Conviene qui parlare un istante della pittura di Dante Gabriele perché essa è strettamente legata alla sua poesia. Forse è una mia personale impressione ma a me sem-
bra che i quadri di Dante Gabriele siano la immediata trasposizione in linea e colore delle sue poesie. L'unità di stile fra poeta e pittore è assoluta. Queste pitture non sono dei grandi capolavori ma vi si respira appunto quella grazia malinconica, quel misticismo un po’ ammalato che distinguono la poesia rossettiana. Bene o male la scuola preraffaellita fu il movimento pittorico cen-
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trale inglese fra Turner e Whistler: Millais, Burne-Jones sono dei nomi che resteranno insieme a quello di Dante Gabriele. Dal preraffaellismo, sotto l’impulso di William Morris, derivò e discese il movimento Liberty, detto anche «stile floreale» o «Art Nouveau», che ebbe poi estrinsecazioni architettoniche, in scultura e arte decora-
tiva. Palermo, appunto, fu uno dei non ultimi centri dell'Art Nouveau architettonico mercé i Basile e ne possiamo ogni giorno vedere degli esemplari nel villino Basile in via Agrigento, credo, come pure nella villa rossa che si trova a Santa Flavia all'incrocio quasi della strada per Porticello, come pure nel chiosco delle bibite in piazza Politeama che è appunto di Basile figlio; di lui è anche la nuova facciata di Montecitorio che infatti sembra una delle poco buone liriche di Rossetti tradotte in pietra e mattoni.
Dal movimento Liberty derivarono per vie opposte tanto il «Fauvisme» che il «Jugendstil» che il movimento espressionistico.
Ci siamo ridotti molto lontano dalle liriche di Dante Gabriele, ma vorrei esortarvi a guardare alcune tele sue e dei suoi seguaci. Verso il 1850 Rossetti incontrò Elizabeth Siddal, una giovanissima e modestissima ragazza che poi finì con lo sposare. Essa è la donna ritratta in tanti quadri di lui, col suo volto strano e appassionato di così grande bellezza. Nel 1861 Rossetti pubblicò il suo primo volume, The Early Italian Poets, che è una serie di magistrali traduzioni inglesi della Vita Nuova e dei poeti della cerchia di Dante. Fu in questo periodo, dal 1850 al 1862, che Ros-
setti scrisse la maggior parte delle sue liriche ma ne pubblicò soltanto sei in varie riviste. Quando la bellissima e
adorata Elizabeth gli morì nel 1862 egli fece seppellire insieme al cadavere di lei la totalità dei propri manoscritti; e sette anni dopo occorsero lunghe pratiche lega-
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li per ottenere il permesso di esumazione della povera moglie allo scopo di pubblicare le liriche. Esse sono quelle che adesso vanno raggruppate sotto il titolo di The House of Life, titolo che era stato voluto dal poeta stesso ma che adesso suona ironico dopo la macabra avventura del manoscritto. Sono assai belle, tutte malinconiche, tutte pervase da un singolare connubio fra sensualità ardente e spiritualità esaltata... come i quadri di lui. Sono tutte dei sonetti e costituiscono uno dei più riusciti tentativi di comunicare mediante il verso l’indescrivibile e l’ineffabile, servendosi in specie dei
suoni che sono scelti con un gusto e una cura particolarissimi. Rossetti non sempre vi riesce; ma quando riesce
si afferma quale unico nel suo genere. Leggete in particolare Look în my Face e Nuptial Sleep. La produzione di Dante Gabriele è scarsa. Ma oltre ai suoi versi di oltretomba ve ne sono altri, non molti ma
notevoli. Tra questi un posto d’onore va attribuito a The Blessed Damozel, che ha un fascino perverso in quanto ha tutte le qualità di un’opera d’arte religiosa e mistica tranne la convinzione religiosa. Se così si può dire, è la più rossettiana delle liriche rossettiane e Dante Gabriele dovette sentire questo perché sullo stesso soggetto dipinse un quadro, di perfetta aderenza stilistica all'opera di poesia ma a questa, come qualità, di molto inferiore. Le possibilità di Rossetti erano numerose ma furono impacciate dalla sua eccessiva autocritica e dalla malattia nervosa che lo colpì dopo la morte di Elizabeth. Vi è molto del vigore e della velocità indispensabili alle buone ballate nel suo White Ship e nella King's Tragedy; ed è nello stesso tempo ironico e sincero nel Burden of Nineveb. Allucinate e commoventi sono anche le
sue due sole prose, Hand and Soul e Saint Agnes. Dante Gabriele Rossetti è non soltanto un autore che vale molto di per sé, ma anche un autore che ha suscitato innumerevoli discepoli: la sua paternità di Swinbur-
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ne, Pater e di Wilde (lirico) è ovvia. Ma visibilissima è la sua influenza su D'Annunzio, Valéry e Yeats. Le tre fanciulle delle Vergini delle Rocce sono tre figure staccate non si sa se dai quadri o dai poemi di Dante Gabriele. E così la Sénziramis di Valéry e la Countess Catbleen di Yeats. La «donna fatale», il vampiro femminile è stato sempre una copia, frequentemente caricaturale, delle
magnifiche linee del volto di Elizabeth Siddal. La sorella del nostro poeta, Christina (1830-1894), ha, alla fin dei conti, il diritto di esser considerata la
maggiore delle poetesse inglesi. Completamente dissimile dal fratello, le cui attitudini religiose erano provocate soltanto dalla bellezza dei riti e dal senso di mistero, nel-
le liriche di Christina si sente un autentico soffio ultraterreno e un tentativo encomiabile benché non sempre riuscito di infondere misticismo nella pratica ragionevole e terra-terra dell’anglicanesimo. Le sue collane di sonetti Monna Innominata e Later Life sono piene di un senso di superamento delle passioni umane mediante l’amore divino. Ed è piacevole paragonarle alla collana di liriche Sonzets from the Portuguese dell’altra poetessa inglese, Elizabeth Barrett Browning. La più ardente, di molto, è quella che non aveva nel sangue nemmeno una goccia di sangue latino. Christina Rossetti è certamente il miglior poeta religioso del secolo diciannovesimo in Inghilterra, se si eccettui Francis Thompson. Ma quelle religiose, per quanto interessanti e a tratti commoventi, non sono le migliori liriche di Christina. Queste sono contenute nel Goblin Market e nel Prince's Progress, nelle cui raccolte troviamo tanto liriche di commossa nostalgia puramente umana quanto altre che evocano un mondo fiabesco con una vivacità di ritmo e di espressione in questo genere insorpassata.
Ho voluto, forse, un po’ troppo infastidirvi parlando-
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Letteratura inglese
vi di Dante Gabriele e di Christina Rossetti. Ma anzitutto siete qui appunto perché vi si infastidisca. E, dopo, il caso di questi due poeti inglesi che avevano tre quarti di sangue italiano mi è sempre sembrato particolarmente interessante. La fuga da Napoli di Gabriele Rossetti come quella dell’ingegner Zola dal Veneto un po’ più tardi pone, a uno spirito sfaccendato e curioso, dei problemi interessanti. Se i Rossetti e Emilio Zola fossero nati, cresciuti e vissuti in Italia negli anni fra il 1830 e il 1870 che cosa sarebbe successo? Dante Gabriele avrebbe un po’ rinsanguato la lirica (e la pittura) italiana in quegli anni così poveri? e Zola avrebbe forse creato un romanzo italiano nel periodo così arido che corre fra I prozzessi spost e I Malavoglia? Io credo, debbo confessare, che l’Italia non abbia perso nulla e la letteratura europea abbia guadagnato molto. Non il solo talento crea le opere d’arte, ma l’am-
biente e l'educazione. E Rossetti nella sua Napoli sarebbe stato soccombente alle pizze, agli spaghetti e alle belle guaglione che così poco rassomigliano alla Siddal; e non avrebbe scritto niente. Ed Emilio Zola a forza di riso coi peoci e di Bardolino nella sua Treviso avrebbe forse sfornato qualche novelletta alla De Amicis. E avremmo avuto il danno e la beffa.
Pa
POETI MINORI
Anzitutto vi è Thomas Babington Macaulay: lo ritroveremo fra poco nella sua veste di storico e di critico ma ha il diritto a un posto fra i poeti per i suoi Lays ofAncient Rome, che non sono grande poesia ma hanno una popolarità talmente tenace che debbono per forza esser citati qui dove si tenta anche di dare un quadro della intellettualità inglese oltre che delle opere d’arte pura. Questi Lays sono in fondo una riduzione metrica di alcuni dei più drammatici capitoli delle Storie di Tito Livio, ma il ritmo è talmente indovinato e il senso epico talmente reso che essi sono gradevolissimi e rimangono impressi nella memoria con estrema facilità. The Battle of Lake Regillus è il modesto capolavoro fra questi poemi non pretenziosi. Macaulay compose altre liriche nello stesso genere, meno buone; commovente invece e dignitoso è il suo breve Epitaph on a Jacobite. Assai minor poeta fu invece Edward FitzGerald (18091883), benché la sua solida fama sia fondata unicamente
su traduzioni. La più famosa è quella dal persiano del Rubdiyét di Omar Khayym. Eminenti orientalisti ci hanno detto, dopo, che dell’originale (il quale del resto, a sentir loro, val poco) non vi è quasi traccia nelle settantacinque quartine di FitzGerald. Non ce ne importa niente. La poesia è lì, armoniosa, fluente, bellissima. Vuol dire che invece che da un persiano è scritta da uno scozzese. Ecco
tutto. Non dovete fare a meno di leggere questo delizioso poemetto così poco vittoriano (e poco scozzese anche) nel quale un coraggioso scetticismo è esposto con duttilità
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ritmica e bellissime immagini. Si trova in Inghilterra ad ogni piè sospinto: nelle edicole delle stazioni, sui tavoli dei ristoranti e ve ne regalano talvolta una copia quando acquistate merce per più di cinque sterline in un negozio. La mia copia proviene appunto da Selfridge. Questa popolarità è dovuta, credo, alle frequenti lodi delle libagioni, armonie alle quali l’orecchio inglese è sensibilissimo. Immagino che serva anche come antidoto ai sermoni semipuritani che gli inglesi ascoltano per un’ora ogni domenica. FitzGerald pubblicò anche delle cattive traduzioni dallo spagnolo e particolarmente da Calderén, dove si prende col testo le enormi libertà alle quali era uso. Ma dopo tutto E/ Magico prodigioso e La vida es suerio ne escono vivi e questo è più di quanto si può dire di altre più fedeli versioni. Ho già manifestato la perversità del mio gusto. Talvolta mi vien voglia di leggere qualche poesia proprio cattiva, cattiva fino in fondo, irrimediabilmente cattiva. Allo-
ra leggo Martin Tupper. Comincia già col divertirmi il nome che è quasi quello di un adorabile e stupidissimo personaggio di Pickwsck. E, intuizioni magiche del genio, i versi di Martin Tupper sono proprio quelli che il Tupman di Pickwick avrebbe scritto. Essi sono raccolti in un grosso volume intitolato bizzarramente Proverbial Philosophy e stampato nel 1838. La solennità, la vana pompa, l’uso infallibile dell’epiteto sbagliato, l'assoluta sordità ritmica costituiscono una fonte incessante di delizia. La fama di Tupper fu, ai suoi tempi, grandissima. Egli era proprio ciò che i Vittoriani credevano essere un poeta, mentre due passi più in là stavano Tennyson e Browning.
Adesso sono matematicamente sicuro di essere il solo in Italia ad averlo letto. Cecchi e Montale lo ignorano, sia
detto a loro lode: per amarlo occorre un po’ di necrofilia.
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BREVE ACCENNO A W.S. LANDOR
Le grandi letterature, oltre agli scrittori sommi, hanno gli scrittori che senza raggiungere le massime vette esprimono pienamente l’anima nazionale, come Johnson per gli inglesi. Oltre a questi però hanno una riserva: quella degli scrittori che incarnano in sé non la nazione in generale ma la cultura della nazione, che riflettono in
sé qualità e difetti, atteggiamenti e manie della parte più colta del paese, scrittori che sono un po’ inconsciamente l'ombra di tutti quelli che li hanno preceduti e che li circondano. Non sono generalmente dei grandi uomini e soprattutto sono poco noti e ancor meno apprezzati: sono dei radar, non delle bussole. Il radar francese è (ovviamente) Saint-Evremond; quello tedesco, Tieck; il russo, Soloviov; lo spagnolo, credo ma non son sicuro,
Quevedo; l’italiano (più difficile da determinare per la grande varietà della nostra cultura) Carlo Dossi. L’inglese è Walter Savage Landor. Era questi un ricco signore che tutta la vita scrisse da dilettante (paragona con Vanbrugh, Richardson, Sheri-
dan, Scott, la Austen, Byron, Shelley ed anche Tennyson). Scrisse moltissime liriche, tutte brevi, tutti epi-
‘ grammi tanto nel senso classico che in quello moderno. Parecchie di queste liriche sono mediocri, ma quelle riu-
scite hanno un aspetto di oggetto di lusso, una politura unita a un sentimento raffinato che incanta. Non vi è originalità ma vi si avverte una lenta decantazione di letture (non nel senso di plagio, per l’amor di Dio!), una assimilazione di tutto ciò che di bello era stato scritto prima passato al setaccio di un gusto sperimentato.
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Quando si leggono sembra di essere in una di quelle biblioteche private inglesi, dal soffitto troppo basso, ma dove il piede affonda dolcemente nel grande tappeto avana, dove le rilegature di cuoio occhieggiano con i loro ori ai cuoi verdi delle poltrone, dove attorno al cami-
netto poggiato su trabeazioni classiche sta la tavola del tè onusta di belle argenterie panciute. Landor scrisse anche moltissime Imzaginary Conversations in prosa, nelle quali si diverte a far parlare tra loro personaggi della storia classica e di quella inglese. La cultura, l’humour, i frequenti tratti di poesia sentita, la
concitazione drammatica subito rattenuta da un signorile riserbo ne fanno opere eccezionali. Però non vi dirò: «Leggetele». Occorre molta esperienza dell’altra letteratura inglese, occorre anche una certa esperienza di vita. Quando avrete queste due cose potrete apprezzarne il profumo virile, fatto di odore di buon tabacco e di marocchino.
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THOMAS BABINGTON MACAULAY
Benché Macaulay (1800-1859) servisse lo stato per lunghi anni con onestà e dignità somma, raggiungendo i più alti gradi della carriera politica, egli rimase sempre, dalla nascita, può dirsi, sino alla morte, un uomo di lettere e
uno sfrenato amatore di libri. La cultura Macaulay la portava nel sangue: egli era il settimo, di padre in figlio, che fosse stato professore a Cambridge. E quest’impeto culturale procedette e continua ancora dopo la morte di lui; anche suo nipote fu uno storico eminente e adesso è un figlio di questi ad essere il più eminente studioso di storia inglese (ed italiana) che vi sia nel Regno Unito. Incominciò la propria carriera letteraria scrivendo appunto quei Lays of Ancient Rome, quell’Ivry e quel poema su The Armada dei quali abbiamo parlato poc'anzi. Ma dopo i rimproveri del padre, scandalizzato, si volse alla critica letteraria intesa come preparazione all’opera storica. E nel 1825 la «Edinburgh Review» pubblicò il suo primo e famoso saggio, Mz/ton, che annunziò immediatamente al pubblico la nascita di un critico saturo di conoscenze letterarie, dotato di grande autorità e di uno
stile personalissimo, e che possedeva inoltre la facoltà di avvincere il lettore in un modo addirittura eccezionale. Dopo il Mz/ton Macaulay continuò la propria collaborazione alla «Edinburgh» e ad altre importanti riviste e si venne così a formare quella imponente serie di saggi storici e critici che sono ancora oggi (alla stregua dei contemporanei Lundis di Sainte-Beuve) fondamento indispensabile a uno studio decente della letteratura e della
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storia britannica. Il guaio è che questi saggi, al contrario di quanto possa sembrare a prima vista, non sono facili da trovare. Sono continuamente ristampati i due volumi di una scelta fattane dall’autore stesso e che infatti contengono tutti i suoi capolavori incominciando da quel tale Milton. Ma mancano in essi i quattro quinti dei saggi minori, delle recensioni brevi, ecc., che costituiscono
un corpus di formidabile interesse e che vengono ristampati con una certa rarità.
Il metodo seguito da Macaulay è sempre lo stesso: prende pretesto da un libro pubblicato su un certo autore, o da una ristampa di un’opera qualsiasi. Si sbriga in due pagine, generalmente severe, del nuovo biografo o critico; e dopo comincia lui a tracciare con mano mae-
stra un ritratto del soggetto dell’articolo, a dipingerne l’ambiente, a studiarne i discepoli e gli avversari e infine ad esaminarne l’opera, con una vastità di conoscenze storiche e un acume critico e spesso (ma non sempre) un buon gusto sorprendenti. E lo stesso metodo seguito da Sainte-Beuve; applicato però da Macaulay con minore continuità. Se dai Lurdis del francese si è potuto, semplicemente ordinandoli cronologicamente per autori, formare una specie di storia della letteratura francese, mirabile per coerenza e penetrazione, sarebbe impossibile far ciò per Macaulay che ha trascurato troppi autori. Ripeto che quella degli Essays di Macaulay è una lettura indispensabile per chi non voglia accontentarsi di questo abbecedario che io vo componendo. Mentre andava pubblicando i suoi saggi, Macaulay non soltanto proseguiva con successo la sua carriera politica ma preparava anche quella che lui riteneva dovesse essere la grande opera di tutta la sua vita: la storia d’Inghilterra dall’accesso al trono di Giacomo II. La carriera politica si risolse con successo: Macaulay fu dapprima deputato, poi sottosegretario di stato, dopo
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membro del Consiglio Supremo per l'India, dopo ancora ministro, e finalmente, entrato alla Camera dei Lords, trovò il tempo per dedicarsi interamente agli studi storici. Disgraziatamente la sua grande History of England ri-
mase incompiuta. Ne vennero pubblicati soltanto sei volumi che portano il racconto sino alla soglia del regno della Regina Anna, periodo di così alto interesse che egli avrebbe descritto come nessun altro. Ma ciò che ce ne rimane è grandioso. La magnifica lunga introduzione che riassume in modo magistrale l'evoluzione sociale inglese sino a Giacomo II, la narrazione della rivoluzione del 1688 e del regno di Guglielmo e Maria che la seguì sono dei capolavori tanto di storia come di arte. Il fatto di essere stato egli stesso al governo toglie a Macaulay quell’imbarazzo, quella fondamentale incomprensione che tanti storici «topi di biblioteca» hanno per gli uomini di azione politici; il fatto di essere un grande letterato gli permette di non attenersi alla pura narrazione degli eventi sociali e diplomatici ma di spaziare nel campo dei rapporti intellettuali e di servirsene per lumeggiare i fatti politici. Lo stile è grandioso: severo ma moderno nello stesso tempo. Pochi hanno saputo «narrare» come Macaulay: i capitoli dedicati, per esempio, alla tragica spedizione di Monmouth o al processo dei sei vescovi sono eccitanti come dei romanzi, dei romanzi però nei quali ogni parola fosse documentata. Si è rivolto a Macaulay il consueto sciocco appunto: quello di mancare di imparzialità, di esser troppo tenero peri Whigs. Chi mai è stato imparziale? E come si fa ad esserlo? E quali sarebbero i risultati se ciò fosse possibile?
JOHN RUSKIN
Figlio di un grande industriale dei Midlands, John Ruskin (1819-1900) trovò modo di essere tre cose, ciascuna delle quali abitualmente esclude l’altra: un miliardario, un socialista e un uomo di genio.
È vero che il suo socialismo era di un genere tutto speciale; un derivato della critica d’arte, non delle con-
vinzioni economiche. Non che non vi fosse in lui un fraterno desiderio di migliorare la sorte degli umili, ma quel che egli intendeva per «miglioramento» era soprattutto l’immissione della bellezza nella loro vita. Era, giustamente, nauseato dalla quantità di bruttezza che la rivoluzione industriale aveva scatenato nel mondo (questa idea era di già in Blake. Ricordate? «These dark Satanic mills»). Tutto era brutto: le fabbriche, le case dei lavoratori e soprattutto le case dei loro padroni. Spazzata tutta questa laidezza il padrone sarebbe divenuto meno prepotente e il lavoratore meno ribelle. Uno stato di cose simile a quello che egli desiderava, diceva Ruskin, era esistito nell'Europa medievale, quando la bellezza delle cattedrali era a disposizione di tutti ed ogni più umile oggetto di ogni più modesta casa portava un segno di arte perché fatto dalla volontà creativa di un artigiano. L'arte, del resto, non è una cosa materiale; cioè essa è
il miglior modo che abbia l’uomo per pregare Dio. E una chiesa costruita senza arte costituisce un vero e proprio blasfema, il ripudio cioè fatto dall’uomo della facoltà più divina. Ma non solo occorre arte (e qui entra in scena il miliardario), occorre anche il sacrificio, quel
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sacrificio che più costa all'uomo peccatore: quello del denaro. «Un vescovo che fa erigere una chiesa e poi cavilla con l’architetto sul prezzo della costruzione e fa rimpiazzare il marmo dalla pietra e il bronzo dal legno, ribadisce i chiodi di Cristo.» «Se gli uomini fossero veramente credenti le chiese sarebbero costruite con blocchi d’oro invece che con mattoni!» esclama l’eccellente uomo. Ma subito dopo il suo gusto si riprende e aggiunge: «Naturalmente queste piastrelle d’oro dovrebbero esser ricoperte di calce, per la bellezza». Ma lasciamo le teorie alquanto paradossali di Ruskin e veniamo alle sue opere. Esse sono innumerevoli e tutte di elevato pensiero espresso nella forma più nobile. L'edizione completa edita dopo la sua morte consta di trentanove volumi in ottavo grande. Nel 1843 apparve la sua prima opera importante, Modern Painters, nella quale egli difende con irruenza Turner e la sua scuola contro le violente critiche che erano state rivolte loro dai misoneisti. Questa attitudine di difesa di ogni movimento rinnovatore è caratteristica di Ruskin e tanto più da ammirarsi in lui in quanto la sola pittura, la sola scultura, la sola architettura che veramente gli arrivasse al cuore era quella del Trecento e del Quattrocento. Probabilmente egli sentiva che Turner prima, Rossetti poi, e Manet alla fine della sua vita erano in realtà più vicini all’arte antica di quel che non fossero i mediocri pittori inglesi che, ricchi di tecnica, badavano soltanto a una imitazione degli italiani del Cinquecento e degli olandesi. Dai suoi lunghi e interessanti viaggi in Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi e Svizzera egli trasse materia peri suoi famosi libri The Seven Lamps of Architecture (1849) e The Stones of Venice (1851) nei quali troviamo pagine su pagine che illustrano nel loro senso mistico le grandi cattedrali italiane e francesi; ma non solo le grandi cattedrali, anche le remote pievi, i palazzotti ignoti, i ponti
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fuori uso, opere d’arte che erano ai suoi tempi del tutto ignorate. Per conto mio non saprei consigliare migliore
guida a Venezia delle sue Stores of Venice, nel quale ogni chiesa e ogni palazzo e ogni quadro viene interpretato con gusto squisito e inquadrato magistralmente nel movimento non solo spirituale, ma anche sociale ed eco-
nomico del tempo in cui fiorì. Spirito antigoethiano per eccellenza, egli riportò dalla Sicilia una impressione diametralmente opposta a quella del grande tedesco; mentre Goethe scrisse che la chiave per schiudere i segreti dell’anima e dell’arte italiana si trova in Sicilia, egli sostenne che nell’isola non vi è altra arte se non d’accatto e sempre eseguita da maestri secondari, e che è superfluo andare a vedere «the nearly-Greek temples, the nearly-Gothic churches, the nearly-Byzantine mosaics and the nearly-Baroque monuments». Anche in questi libri di critica d’arte, specialmente di
architettura, fa mostra di sé lo spirito socialistico di Ruskin e nei Seven Lamps of Architecture fecero impressione le pagine nelle quali denunziava l’inutile superlavoro al quale era costretto il proletariato industriale. Divenuto professore di storia dell’arte a Oxford, cessò, con caratteristica incongruenza, di occuparsi di arte al di fuori delle proprie lezioni e pubblicò invece una serie di lunghi saggi dai titoli «preraffaelliti» su ogni sorta di argomenti: Unto This Last sull'economia, Sesazze and Lilies sulla letteratura, The Crown of Wild Olive sul lavoro e sulla guerra, The Etbics of the Dust sulla cristallizzazione dei minerali e The Queen of the Air sui miti ellenici riguardanti le tempeste. Saggi tutti colmi fino all'orlo di idee nuove, non maturate forse, ma dai quali
generazioni di scrittori hanno tolto motivi originali. Come sapete Proust fu grande ammiratore e traduttore di Ruskin. Sul finire della sua vita pubblicò Praeterita, libro di quasi-memorie nelle quali sembra di sentire la voce del
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vecchio amico della bellezza che rievoca, felice, la propria vita operosa.
Ruskin passa per scrittore... noioso. È chiaro che chi dice questo non ne ha mai letto un rigo. Io, nella mia pochezza, preferisco essere del parere di Proust.
ITARDI VITTORIANI: IL ROMANZO TARDO-VITTORIANO
Sarebbe superfluo ricordare che a me, personalmente, interesserebbe di più lo studio della storia politica di quello della storia letteraria. E se avessi la minima competenza e quindi la possibilità di occuparmi di storia politica, quel che più mi attrarrebbe sarebbe lo studio delle crisi, anzi, ho detto male, lo studio dell’irizio delle
crisi, la considerazione di quell’impercettibile abbassamento del barometro, di quella minuscola nuvoletta all’orizzonte, di quella bava di vento fiacca e (apparentemente) trascurabile che è poi la prima pattuglia di punta del ciclone che si scatenerà. Momenti appassionanti da rivivere, questi, nei quali tutto il mondo ignora ciò che lo aspetta mentre un occhio acuto conosce di già ciò che infallibilmente succederà, momenti di crudele rapimento nei quali l’uomo che sa può davvero credersi uguale a un dio e sa di conoscere il futuro non mediante un volo della fantasia ma mediante una esatta cognizione delle cause e delle correlazioni di conseguenze che ne deriveranno. Nell’androne del teatro d’opera di Messina è ancora appeso un cartellone teatrale il quale pomposamente annuncia, con la sicumera racchiusa nei caratteri di scato-
la, che «Domani 28 dicembre 1908 sarà rappresentata l’Aida, opera in quattro atti di Tizio Ghislanzoni — musica di Giuseppe Verdi» ecc., ecc. E chi legga quell’avviso, se sarà dotato di sufficiente malignità e della facoltà di incarnarsi per un attimo in un passante di cinquant’anni fa, non potrà non sentire in se stesso, per mezzo secondo, l’empito dell’onniveg-
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genza, perché lui sa, ed è il solo a saperlo, che la sera del 28 dicembre 1908 non solo non si rappresenterà lAida (guaio minimo) ma non esisterà più il teatro e neppure | la totalità della città di Messina. Un vecchio diplomatico mi ha narrato la sensazione angosciosa da lui provata una sera alla fine del luglio 1914 mentre, uscendo dal Ministero degli Esteri e recatosi in un caffè, vedeva la gente ridere e far progetti per le vacanze e invece lui sapeva da dieci minuti (ed era il solo in quella folla a saperlo) che l’ultimatum austriaco alla Serbia era già stato consegnato e quell’anno non vi sarebbero state vacanze e le risate presto sarebbero infallibilmente ammutolite nell’angoscia. Ma la garrulità senile mi ha di nuovo preso la mano. Ciò che intendevo dire era semplicemente questo: che il tardo periodo vittoriano mi attira particolarmente perché nei suoi scrittori si fanno palesi i segni della grande crisi che romperà l’equilibrio miracolosamente raggiunto e ancor più miracolosamente conservatosi a lungo.
È stata la guerra anglo-boera che qualche anno dopo doveva render evidente la fine della «Pax Victoriana» ed è strano che, anche nella letteratura, sia dal Sud Africa
che si è dipartita la prima crepa di sconforto e di dubbio che incrinò la salda sel/fassurance vittoriana. Qui mi avanzo su di un terreno nel quale ben pochi (non inglesi) hanno messo piede: quello riguardante Olive Schreiner (1862-1920) il cui nome è certamente ignoto a voi come lo è a tutti quanti, da noi. Non che sia una grande scrittrice: essa è uguale alla media dei romanzieri di secondo ordine e se non fosse esistito il mio (da voi) maledetto senso storico non sareste stati importunati da una nota sulla sua opera. Ma il guaio è che, ai miei occhi, essa costituisce la procellaria che annunzia la tempesta. Essa rappresenta quel tale minimo scricchiolio che denunzia il sovraccarico dell’impalcatura. Questo è segno che doveva essere dotata di straordinaria
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sensibilità atmosferica, per così dire, e che quindi sarebbe delittuoso trascurarla anche se essa vellica poco (ma vellica) la nostra epidermide estetica. La Schreiner era figlia di immigrati inglesi nel Sud Africa e ha scritto molto e mediocremente; ma i due li-
bri dei quali sto per parlarvi hanno un interesse primordiale. The Story of an African Farm è, malgrado innumerevoli difetti di scrittura e di composizione, un libro magistrale, intendo dire un libro che ci insegna molte cose. Si tratta della semplice e triste storia di una ragazza, Mary Lyndall, strettamente rinchiusa nelle più rigide convenzioni religiose, morali, economiche e domestiche, che
raggiunge attraverso la riflessione indipendenza di credenze, pensiero e azione. È nella straordinaria calma del libro che è racchiusa tutta la sua arte: non vi è ribellione in atto, ma tutto, tutto ciò che di morale, di religioso, di soddisfatto, di «arrivato» costituiva la trama della vita
vittoriana è posto in discussione e negato. È la prima volta da sessant'anni, dai tempi di Byron e di Shelley, che udiamo parole così gravi. Ripensiamo ad Emily Bronté e veniamo alla conclusione che queste ragazze inglesi, solitarie e disperate, accumulano dentro di sé perigliosi esplosivi. Il libro è del 1883. Di pochi anni posteriore è l’altro notevole romanzo della Schreiner, Trooper Peter Halkett, che è assai più esplicito e che mostrando la brutalità, la lussuria, l’in-
gordigia, la fondamentale disonestà di un qualsiasi soldato inglese distaccato nel Sud Africa, costituisce un veemente atto di accusa contro l'imperialismo scritto da una povera maestrina sperduta nel veld africano. Qualità estetiche? Certamente. Quelle che inevitabilmente nascono da forti sentimenti. Se poi vorrete cercarvi notazioni di sensazioni spaccate in sedici parti o brividi di bellezza non troverete niente. Vi troverete anzi eccessi di lingua e frequenti infiltrazioni di un dialet-
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itaccio dell’Africa Australe, misto di Olandese e di Otitentotto che a me personalmente ed al mio gusto di già «deplorato piace molto. Ho voluto aprire con queste Deilis parole sulla Schireiner la terza parte dell’età vittoriana. Esse sono un po’
iin anticipo sugli altri scrittori ma tenevo ad impostare ‘subito il mio modo di considerare questo periodo letteirario.
GEORGE MEREDITH
Meredith (1828-1909) era, a metà, gallese e suo nonno
era stato un grande e illustre sarto. Fu indirizzato dapprima allo studio della legge, poi poco a poco scivolò verso il giornalismo e da lì nella carriera letteraria propriamente detta. Questa sua tendenza era stata favorita dal matrimonio che aveva contratto con una figlia di Peacock, l’arguto «contravveleno» del quale molto tempo fa vi ho detto qualche cosa. Questo matrimonio, che dal punto di vista umano fu infelice, non lo fu meno dal punto di vista letterario: l’influenza di Peacock su Meredith è palpabile ma si manifestò con delle esagerazioni: la naturale fantasticheria di Peacock divenne talvolta,
nel genero, incontrollato arbitrio; la deliziosa leggerezza di riposte allusioni fu trasmutata dal più rigido Meredith in un linguaggio spesso oscuro e oracolare. Egli fu anche poeta non spregevole. Può dirsi anche che fu un poeta mancato che riversò nei romanzi un lirismo che non aveva saputo trovar adito nei versi. Ma di ciò parleremo dopo. Le sue due prime opere The Shaving of Shagpat (1856) e Farina (1857) sono di pura fantasia, racconti di fate per dirla in breve. E racconti di fate continueranno ad essere tutti i suoi romanzi nei quali una incontenibile fantasia illumina e trasmuta i personaggi che in altre mani sarebbero banali. The Ordeal of Richard Feverel (1859), Evan Harrington (1861), Sandra Belloni (1864) e
The Adventures of Harry Richmond (1871) sono opere di gioventù e, tipicamente, si occupano tutte delle difficoltà che incontrano i giovani prima di riuscire a for-
I GRANDI ROMANZIERI
Sono di nuovo quattro: Meredith, Samuel Butler, Tho-
mas Hardy e Gissing. Tutti perfettamente vittoriani per ciò che si riferisca a forma: come sempre, curata, con-
chiusa, splendente. Tutti però già rosi dall’insoddisfazione. E non dal desiderio di critica per questo o quest’altro aspetto della vita del loro tempo, ché questa attitudine critica lizitata è stata di già fatta notare in moltissimi, in tutti credo, i grandi autentici Vittoriani. Ma pervasi, in modo esplicito o implicito (Meredith) da un generale disgusto per il modo di vivere, da uno spirito di negazione per la metafisica vittoriana che ci fa impressione. Dickens diceva: «Questa legge, questa abitudine, questo pregiudizio è un abominio: riformatelo e la vita (questa vita del 1850) sarà felice». Hardy dice: «Non m'importa delle leggi, delle abitudini e dei pregiudizi; riformateli o no, non potrete mutar nulla al fatto che la vita (Questa vita del 1890) è un abominio». Affascinanti scrittori di crisi che col vecchio pacato linguaggio enunciano bestemmie, che portano bombe a mano nel loro cappello a cilindro. Io (a parità di talento) li preferisco ai loro placidi genitori ed ai loro scatenati figlioli: conferiscono ad ogni frase una sorpresa, fanno pensare ad Erasmo che nascondeva un veleno in ogni piega del suo ornatissimo latino.
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Letteratura inglese
marsi una mentalità virile. In Vittoria (1867), Beau-
champ’s Career (1875) e in The Tragic Comedians (1880) Meredith prese a considerare le reazioni dell'amore sulla politica e viceversa; Tragic Comedians, che è particolarmente riuscito, è una trasposizione del dramma di
Ferdinand Seguirono polavoro Crossways
Lassalle, il fondatore del socialismo tedesco. delle novelle, men che mediocri. E dopo il caThe Egoist (1819). In seguito Diarza of the (1885), che è nel primissimo rango delle sue
opere, One of our Conquerors, Lord Ormont and his Aminta (1894) e The Amazing Marriage (1895) formano anch'essi una sorta di ciclo psicologico rivolto adesso a una cavalleresca difesa della donna danneggiata nell’onore e nella fierezza dal despotismo maschile. A me, personalmente, non piace. Lo trovo florido di
stile, inutilmente criptico, spaventosamente verboso (da qual pulpito viene la predica!). Ma è doveroso riconoscere che vi è in lui la stoffa di un grande romanziere. Meredith è un potente psicologo cui non sfuggono i minimi atteggiamenti della coscienza, guastato però dalla mania di voler poeticizzare tutto, da una ricerca, sempre
felice, sempre irritante, del vocabolo perfetto. La sua originalità è completa: scrivendo in un tempo in cui fiorivano Dickens, Thackeray e la Eliot egli non subisce l’influenza di nessuno di essi: il suo stile è (al mio pessimo gusto) sgradevole, ma interamente suo. Tragic Comedians, The Egoist, Diana of the Crossways sono le opere nelle quali meno si è abbandonato al suo impulso di scrivere liriche in prosa; quelle anche nelle quali il vizio di intervenire direttamente nell’azione è meno flagrante. E sono infatti le sue opere migliori. Negli altri romanzi possiamo notare sempre lo straordinario intuito psicologico, la conoscenza approfondita della società inglese, un senso diffuso di poesia, tutto ciò però annegato in un mare di parole, ciascuna delle quali adat-
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tissima ma che si addensa attorno al pensiero e lo annebbia. Quali fossero, poi, le ragioni -di rivolta di Meredith contro la società vittoriana è presto detto. Meredith era un pagano, un pagano della specie energica e violenta che doveva trovare in Nietzsche la propria espressione perfetta. E benché sia assai dubbio che Meredith conoscesse le opere di Nietzsche, la convergenza d’idee fra loro è lampante. E la società ordinata, bonaria, medio-
cre che si era formata in Inghilterra andava a contropelo del Meredith. Nietzscheismo, certo; ma nietzscheismo, anch'esso, inglese; cioè privo della esaltazione ebbra di quello tedesco e mantenente il rispetto per alcune cose, per esempio per le donne. Il famoso «Du gehst zu Frauen? Vergiss die Peitsche nicht» avrebbe fatto fre-
mere il femminista Meredith. Insomma un romanziere imperfetto per soverchia perfezione. Analizzare in venti pagine i pensieri di una persona che si soffia il naso va benissimo quando si possiede il genio proustiano; se il genio non c’è l’effetto è ombra e oscurità. Però romanziere che, almeno nelle sue opere migliori suindicate, va indubbiamente letto perché la sua influenza sui successivi inglesi e non inglesi e anche (confessata) su Proust medesimo fu notevolissima. E la conoscenza di Meredith chiarisce molti problemi delle opere che hanno seguito le sue.
SAMUEL BUTLER
Con Butler (1835-1902) ci troviamo di fronte ad una tempra di scrittore assolutamente diversa; e a me, in
particolare, assai più gradita. Nipote di un famoso direttore di scuola e vescovo, anche Butler era destinato alla
Chiesa. Ma finiti i suoi studi a Cambridge, egli risolse invece di cambiar gregge con gregge e andò in Nuova Zelanda dove con immenso successo economico divenne allevatore di pecore. Ritornato dopo cinque anni, milionario, in Inghilterra si stabilì a Clifford’s Inn e si abban-
donò con furore alle sue inclinazioni letterarie e alle sue stravaganze. Egli dipingeva anche e componeva ed era posseduto da due fanatici odi: quello per ogni musicista che non fosse Handel e quello per Darwin che combatté tutta la vita talvolta in modo pittoresco, uscendo cioè
per le vie di Londra con la faccia truccata da scimmia e con una lunga coda che gli spuntava fuori dalle falde della redingote e con un cartello appeso al collo: «That is what I am if Darwin's theory is true». Come vedete anche la compostezza esteriore dei pacati scrittori vittoriani cominciava a disperdersi. Voleva comporre un «poema sinfonico» (alla maniera hindeliana, è ovvio) su Ulisse e ciò condusse il grande ellenista che era a rileggere attentamente l'Odissea. Non l'avesse mai fatto! Si convinse che la famosa navigazione durata dieci anni fu semplicemente una circumnavigazione della Sicilia e per provarlo si fece costruire una nave sul tipo di quella di Ulisse e girò parecchie volte attorno alla nostra isola, proprio nell’anno in cui nascevo io, prendendo appunti e paragonando ogni capo e ogni
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isoletta con quelli nominati da Omero. È strano come i nostri eruditi locali che spulciano la presenza in Sicilia di qualsiasi imbecille straniero non si siano mai accorti di questo tenace e geniale viaggiatore. Ma il periplo siciliano sarebbe ancor poco: Butler si ficcò nella testa la convinzione che l’autore dell’Odissea non poteva essere Omero bensì una donna. E questa sua opinione asserì a lungo in un suo divertentissimo libro, The Authoress of the Odyssey (1897) che è quasi introvabile ma che, son lieto di dirlo, ho letto con immenso pia-
cere; Non ho letto invece la sua edizione commentata dei Sonetti di Shakespeare mediante la quale egli si proponeva di dar la prova che «Mr W.H.» non solo non era il gran signore che tutti immaginano, ma era un giovanot-
to appartenente alla malavita e che venne poi giustiziato. Come vi sarete accorti, Butler era di quegli ingegni che amano prendere le opinioni a contropelo e questo potrebbe non interessarci se non fosse già un sintomo di ribellione al conformismo vittoriano e soprattutto perché queste sue avventate opinioni sono presentate con uno spirito sarcastico, asciutto e violento che subito ci
riconduce alla mente Jonathan Swift. E queste qualità si affermano soprattutto nei suoi innumerevoli opuscoli e libri contro Darwin. La teoria di quest’ultimo è sottoposta ad un esame spietato, condotto con rigore scientifico e che, attribuendo alla «memoria inconscia» e alla «scal-
trezza» la funzione che nella teoria dell'evoluzione era devoluta un po’ leggermente al «caso» ha anticipato molte delle modifiche cui è stata sottoposta la teoria del grande naturalista. Ho letto, di queste opere anti-darwiniane di Butler, Life and Habit, che è un modello di esposizione chiara e di feroce sarcasmo, arricchito per di più da un fascino letterario che raramente si trova in libri di controversia scientifica. È quasi superfluo aggiungere, dopo l’esempio di Fielding e Richardson, che le re-
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lazioni fra Butler e Darwin erano più che cordiali, addi-
rittura affettuose, e che era Darwin stesso a fornirgli le code posticce delle quali amava spesso adornarsi il nostro scrittore. Ma è tempo di chiudere il rubinetto della prolissità inutile e di occuparci di ciò che costituisce la grande opera di Butler. Si tratta di quattro volumi. Erewhon (1872), insieme con il suo seguito Erewbon Rivisited (1901), è uno dei primi attacchi che siano stati sferrati contro la Weltanschauung vittoriana. Si tratta, sul modello di Swift, di un immaginario viaggio in un immaginario paese che è poi l’Inghilterra, in parte così come era ai suoi tempi, in parte come l’autore vorrebbe che fosse, cosicché nella medesima pagina si vede unita la satira al progetto di miglioramenti: in questo paese di Erewhon le malattie sono considerate delitti e vengono punite dalle leggi con gravi pene pecuniarie e con l'esclusione dai pubblici uffici (cosa che del resto vediamo ogni giorno); il delitto ed in ispecie i crimini contro la proprietà vengono giudicati da un tribunale che esamina soltanto la destrezza con la quale il dolo è stato consumato e l'ammontare delle somme involate, e pre-
mia lautamente i delinquenti astuti mentre è severissimo contro chi ha peccato con ingenuità e per un minimo vantaggio (e anche questo è di nostra quotidiana esperienza); il culto religioso viene celebrato non nelle chiese ma nelle banche e tutti si inginocchiano quando, al suono dell’organo, il Direttore Supremo firma un grosso assegno per se stesso. Per ciò che riguarda la parte riformistica, Butler invoca la soppressione delle macchine che finiranno (dice lui) per divorare l’umanità; in Erewhon le macchine sono esposte nei musei quali ricordi di una barbarie trascorsa. E un erewhoniano fa un racconto impressionante del mondo industriale così come era: assai più che a quello placido del tempo di Butler rassomiglia al nostro. Tutto ciò, esposto con uno sti-
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le asciutto e impersonale, fa grande impressione, e i due volumi di Erewhon (facilmente trovabili) segnano davvero una tappa nella dolorosa via della nostra autocoscienza.
D’importanza ancor maggiore dal punto di vista dell’evoluzione della letteratura vittoriana è il romanzo The Way of AI Flesh che venne pubblicato nel 1903, l’anno dopo la morte dell’autore. Lo scandalo che questo romanzo provocò fu immenso; esso ferì non soltanto
i numerosissimi avanzi dell’età vittoriana che ancora godevano di grande prestigio, ma il fondo stesso, eternamente puritano, dell'anima inglese. È un romanzo di infinita tristezza nel quale vengono denunciati con virulenza estrema i due canoni-base del vittorianesimo: la pudicizia sessuale e il rispetto per i genitori. L’influenza di questo libro su molti scrittori, fra i quali Shaw, è incalcolabile e la sua scrittura vigorosa, non meno dell’aspra poesia e del terrificante umorismo sparso qua e là, rendono la sua lettura indispensabile a chiunque voglia conoscere le fonti della letteratura inglese
contemporanea. Non meno notevoli sono i Note-Books pubblicati nel 1912; è una raccolta di appunti e di brevi saggi, scritti in modo superlativo, dalla quale emerge con chiarezza la singolarissima e amara poesia di Butler. Vorrei poter parlare ancora di questo importantissi-
mo e da noi quasi ignoto autore; disgraziatamente i libri che di lui avevo sono quasi tutti andati perduti, meno l’Erewhon:; e non posso perciò dare alla mia memoria quella rinfrescata che sarebbe necessaria.
GEORGE GISSING
Nella forma, armoniosa e liscia, dei suoi romanzi Gissing è un vittoriano al cento per cento. I soggetti trattati,
l’interpretazione degli avvenimenti descritti è quanto di meno vittoriano può esser immaginato. Questo dissidio fra contenuto e forma tende a ribas-
sare il valore artistico dei suoi libri che si reggono (e si reggono bene) per lo straordinario interesse documentario circa il disfacimento del placido mondo vittoriano. Nato povero, vissuto povero e malaticcio, morto suicida l’infelice Gissing (1857-1903) è stato il romanziere dell’insuccesso. Il numero delle «belle speranze» fallite che incontriamo nei suoi romanzi fa impressione. Ed anche il numero dei poveri. Dio sa se Dickens, per esempio, ha descritto della povera gente; ma i poveri di Dickens sono pieni di vitalità, di originalità e di buon umore; i poveri di Gissing sono grigi, uniformi, squallidi e avari, cosa che il vero povero non è mai. Il tugurio o, peggio ancora, l'appartamento sinistro del vicoletto di quartiere periferico, lo scialbo cattivo odore delle stoviglie mal rigovernate, la prostituzione che s’insinua nella mente delle ragazze miserabili con la lentezza e la sicurezza della tubercolosi, queste e molte altre immagini disperate hanno trovato in Gissing il loro straziante poeta. Direte voi: rassomiglia a Zola. Niente affatto. In Zola vi è un perpetuo dinamismo, un amore per la vita per
quanto brutta possa essere che riempie di colore la pagina più disgustosa (per il suo soggetto): ricordate come egli riesca a fare una epopea del capitolo dello svuota-
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mento e ripulitura dei pesci in Po-Bowi/le, una delle pagine più nauseabonde ma più vitali del romanzo francese. Gissing è sempre grigio; espone senza indignarsi; vi
lascia giudicare. Scrisse molto, e non lo ho letto tutto, ed ho avuto torto; adesso sarà difficile procurarselo, quaggiù. Ad ogni modo vorrei ricordare The Urclassed, Isabel Clarendon, The Nether World, New Grub Street, scritti tra il 1884 e il 1892.
Molto notevole è il suo saggio critico su Dickens nel quale, in modo inatteso, si rivela acutissimo apprezzatore e lettore affettuoso di questo Dickens che era ai suoi antipodi. Nei Private Papers of Henry Ryecroft vi è una mistura di autobiografia, di confessioni e di diari. Essi ci mostrano in tutta la sua disperazione la vita di questo scrittore che se è notevole in sé lo è ancora di più per la vasta influenza esercitata. Morley Roberts, uno scrittore non abbastanza noto, scrisse una biografia, appena velata, di Gissing, sotto il titolo di The Private Papers of Henry Mattland. Ed anche un magnifico e vigoroso libro sulla vita negli Stati Uniti il cui solo titolo, The Western Avernus, basterà ad indi-
carne la tendenza (1887).
THOMAS HARDY
Ultimo per necessità cronologiche, di gran lunga il primo per valore di poesia fra i romanzieri del tardo Vittorianesimo, Hardy (1840-1928) è una delle grandissime figure di questa letteratura che la mia parola abominevolmente tradisce. Fra i Vittoriani, arcaici, puri o tardivi
che siano, soltanto Dickens può superarlo. Hardy è il perfetto contrapposto di Meredith: invece della stoffa lucente e brillante di questo, tutta trapunta di larghi disegni di belle figure, in Hardy osserviamo una stoffa di lana, di colori spenti e disadorna, ma resi-
stentissima perché tessuta con la triste sincerità dell’anima. Hardy è uno dei creatori di mondi. Ed è un mondo disperato, battuto dal vento, desolato da piogge autunnali, un mondo che rassomiglia alle contee occidentali dell'Inghilterra, paese di nubi che corrono raso terra e di gente dura e volentieri disperata. Chi si è affacciato a questo mondo hardyano, mondo di brughiere violacee, di torrenti cristallini, di belle don-
ne colpevoli, mondo dominato da una crudele assenza di Dio, non potrà mai dimenticarlo.
Come Trollope, ma con maggior perseveranza di lui, Hardy ha creato una nuova contea inglese, il Wessex, ri-
suscitando una vecchia denominazione sassone che indicava appunto quelle contee occidentali; e il mondo di Hardy è in tal modo fantasticamente reale come lo è l'epoca nella quale si svolgono le azioni, quella tra il 1800 e il 1815, ma senza alcun riferimento storico preciso. Nato appunto a Dorchester, in quelle contee dell’Ove-
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st, da povera famiglia, Hardy divenne architetto; e la sua prima opera stampata (1865) in una rivista tecnica è How
I Built myselfa House. Costruì parecchie case e chiese e di questa sua attività artistica si trovano felici tracce nei romanzi, esplicantisi nella solidissima e meditata costruzionee nelle sapienti descrizioni di chiese campagnole. Come Meredith, Hardy fu anche poeta; e ben più di Meredith, grande poeta; ma contrariamente al suo antagonista (e contrariamente anche alla enorme maggioranza degli scrittori) le poesie furono le ultime opere della sua vita: le scrisse infatti quando cessò di scrivere romanzi.
E dei suoi poemi vi parlerò a loro tempo. Uno dopo l’altro, ad intervalli regolari, dal 1871 al 1897 furono pubblicati i romanzi. Il primo fu Desperate Remedies, mediocre; e successivamente Under the Greenwood Tree, A Pair of Blue Eyes, Far from: the Madding Crowd, The Return of the Native, The TrumpetMajor, A Laodicean, Two on a Tower, The Mayor of Casterbridge, The Woodlanders, Tess of the D'Urbervilles,
Jude the Obscure e The Well-Beloved, che fu l’ultimo. Una serie di opere di prim'ordine perché poche sono fra queste le opere meno riuscite (The Laodicean, Two on a Tower), mentre Tess, Jude the Obscure e The Return of the Native sono veri e propri capolavori esprimenti la
composta mestizia di Hardy. Egli osserva con commossa partecipazione le vicende di questi uomini e queste donne che lavorano un suolo ingrato e che di quando in quando credono trovare un sollievo nell'amore che si rivela poi come un’aggravante difesa. Nelle sue opere in prosa, come nei suoi versi, Hardy ha completamente rinnegato la spicciola opinione comune in riguardo alla vita, all'amore e alle credenze religiose. La sua interpretazione dell’esistenza non è una «lettura della terra», come misticamente disse una volta
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Meredith, ma una interpretazione dei «fatti» che su questa terra si svolgono. Il personaggio maggiore dei suoi romanzi non è una persona vivente ma un luogo, Edgon Heath, fuori dal tempo, immemorabile e noncurante
delle vite umane che per un attimo si agitano su di essa, eterna. Fatalista e determinista, Hardy vedeva gli uomini vivere, amare, travagliarsi e perire su di uno sfondo di forze remote, implacabili, non coscienti e non controlla-
te. Rinnovando in sé lo spirito dei tragedi greci egli aveva come loro la convinzione che l’uomo è nato per sopportare ciò che forze estranee hanno in serbo per lui. E questo suo plumbeo credo egli espresse in personaggi che spessissimo hanno la gravità e la dignità dei personaggi tragici. Altro che critiche sull’inadeguatezza dei salari, come le faceva Gissing! È facile immaginare quale putiferio sorgesse alla pub-
blicazione di così fatti romanzi. Contemporaneamente alla pubblicazione dei romanzi di Hardy venivano rappresentati in Inghilterra i drammi di Ibsen. E contro questi due grandi artisti, che erano anche dei moralisti severi benché «nuovi», si scatenò l’ira dei moralisti tra-
dizionali. Quel che fu scritto contro Jude the Obscure sorpassa ogni immaginazione. Ma l’arte grandissima di Hardy, che aveva fin da principio conquistato una ristretta cerchia di lettori, andava via via influenzando categorie sempre più vaste. A questo punto avvenne un
guaio: The Well-Beloved (1897) diede incontrovertibili segni di decadenza artistica. I nemici trionfarono: «Hardy si è esaurito sulla sua stessa iniquità». E davvero esaurito era in Hardy l’estro di romanzare: aveva detto tutto ciò che aveva da dire, e l'aveva detto per sempre. Non aveva bisogno d’altro che di trovare un nuovo mezzo: la lirica glielo fornì e più tardi una sua personalissima forma poetica che mescola lirica, dramma, epopea e
prosa. E fu un nuovo trionfo.
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Ma di ciò parleremo a suo posto. Basti adesso dire che i romanzi di Hardy sono il degno coronamento dell’edificio ampio, armonioso e arioso del romanzo vittoriano. Che può sembrarci adesso un po’ troppo compiaciuto di se stesso e privo di angosce.
Ma non dobbiamo dimenticare che anzitutto compiaciuta e serena era veramente l’epoca nel quale fiorì, e poi che esso si iniziò con la tragica Emily Bronté e si chiuse con il virilmente disperato Hardy. Segno indubbio che il rovello drammatico si era nascosto ma non era scomparso.
I ROMANZIERI MINORI
Oscar Wilde (1854-1900) non è una figura minore ma ciascuna sua opera lo è, tranne, forse, The Importance of
Being Earnest. Quel che in lui fa trascendere la relativa pochezza di ogni singola produzione è l’accumularsi delle opere, l'originalità non raggiunta del suo punto di vista, la ribellione non soltanto nella attività letteraria
ma nella vita agli schemi vittoriani, la personalità guizzante, complessa e supremamente spiritosa.
Cosicché è inevitabile porre The Picture of Dorian Gray (1891) fra i romanzi di seconda fila. Non interamente per colpa del romanzo stesso, però: come troppo spesso avviene, la sua immagine giunge a noi corrotta
dalle troppo ignobili imitazioni che ne son state fatte da autori illustri e ignoti. Se riuscissimo a considerarlo in sé come romanzo di punta dell’estetismo potremmo meglio valutare i suoi pregi. Il carattere dei personaggi non esiste (tranne forse quello episodico dell’attricetta Sybil Vane); e l'intreccio è basato su una simbologia che mostra un po’ la corda. Ma questi personaggi astratti dicono cose squisite e talora profonde; quest’intreccio infantile si presta spesso a descrizioni sapide e memorabili. E questo è tutto.
Più divertenti perché meno intenzionali sono le brevi novelle The Canterville Ghost e Lord Arthur Savile's Crime, migliori ancora quella sorta di storie di fate del Garden of Pomegranates e dell’ Happy Prince, nei quali la maniera di Andersen è ripresa con grande gusto decorativo non disgiunto da una chiara perversità. Ma trovando sempre migliori le opere di dimensioni minori arriviamo ai veri capolavori di Wilde, quelli non scritti e rimasti soltanto nella memoria degli amici: le sue conversazioni.
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Ma è poco.
Dell’estetismo parlerò (se ne parlerò) a proposito di Walter Pater nella parte dedicata alla critica. Qui vorrei soltanto dire qualche parola di Max Beerbohm, che fu alfiere di questo movimento nella sua parte più leggera, tanto leggermente trattata da lui che sorge sempre il dubbio di una mistificazione. Di estrema vivacità è il suo Happy Hypocrite e divertentissimo per la consumata arguzia Zuleika Dobson, satira dello snobismo universitario di Oxford condotta davvero con mano maestra. Tra i romanzieri di secondo ordine sarebbe peccato non parlare di Ouida (pseudonimo della anglo-francese Louise de la Ramée, 1839-1908) non tanto per l’intrinseco valore letterario che è assai scarso, quanto per la immensa popolarità della quale godeva fino a venti anni fa e anche perché in essa si mostra una faccia (la faccia deteriore) della rivolta contro il Vittorianesimo, quella che voleva superare l'atmosfera divenuta stagnante nella prosperità con l’accentuazione dello spirito di avventura e l’esaltazione di un superuomo in trentaduesimo generalmente incarnato in un brillante ufficale delle guardie, corrotto, impavido e affascinante. Under Two Flags, che ha fornito lo scenario a innumerevoli bruttissimi film,
non era del tutto degno di una così triste popolarità; nel personaggio di Cigarette la Ouida giunge vicina (senza toccarla) a una specie di sua poesia, come vi giunge nel suo In Maremma (1882) e nel Two Little Wooden Shoes (1874). Ouida è uno degli esempi di quegli autori di secondo ordine, e forse di terzo, che in inglese rimangono
leggibili mentre sono al di fuori di questa stessa infima categoria i loro colleghi italiani e francesi, per non parlare dei tedeschi. Ma passiamo alla rinascita del teatro.
IL TEATRO DEL TARDO VITTORIANESIMO
L’anno 1894 è memorabile nella storia del teatro inglese. In questo anno vennero contemporaneamente rappresentate a Londra Arrzs and the Man di Shaw e An Ideal Husband di Wilde. Né l’una né l’altra erano le prime opere teatrali di questi autori, e prima di Shaw e di Wilde il teatro inglese aveva dato segni di rinascita. Ma queste due commedie, per il successo che riportarono e per il loro intrinseco valore e significato sociale, diedero per la prima volta la netta sensazione che il teatro inglese era rinato dalle sue ceneri. Durante gli anni dal 1875 al 1890 vi erano stati i primi germogli (ce ne accorgiamo adesso) e vi era stato in ispe-
cie un immenso successo di un genere di teatro che però sembrava al di fuori dell’arte: l’operetta. Esso fu dovuto a due autori, William Gilbert, scrittore, e Arthur Sullivan, musicista, ai quali è difficile rifiutare, nel loro campo ristretto, l’aggettivo di geniali. Non si tratta di Molière e di Mozart, è evidente. Ma la inesauribile vena comica del primo, e la saltellante musichetta del secondo «prendono» e continuano anche adesso a mantenere la loro presa sul pubblico inglese. The Pirates of Penzance e H.M.S. Pinafore, per citarne due sole, sono in perpetua fase di popolarità. Si potrà dare torto al pubblico inglese e io sono pronto a darlo (benché noi in Italia dovremmo essere gli ultimi a scandalizzarci del continuato successo di pessime musiche da teatro) ma il fatto rimane: è dal tempo di Gilbert e Sullivan che si può far decorrere la rinascita del teatro
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inglese, intendo dire che le operette di Gilbert sono le più vecchie fra le opere che ancora si rappresentano. Due sono i drammaturghi che negli anni Ottanta risalgono le sorti del teatro inglese: Henry Jones (18511929) e Arthur Pinero (1859-1934). Non che la loro opera abbia valore di vera arte ma vi è in essi almeno una «aspirazione all’arte»: una tecnica teatrale di già moderna, una relativa spregiudicatezza di opinioni che meritano di essere ricordate. The Silver King (1882) e The Dancing Girl (1891) sono quanto egli scrisse di meno male (intendo parlare di Jones). In quanto a Pinero egli fu un tempo abbastanza noto anche in Italia, sia pure con i consueti trenta anni di ritardo. Le due Gramatiche e la Melato recitavano spesso le sue commedie che offrivano loro, in difetto di arte drammatica, il modo
per far ammirare la loro arte di attrici. Pinero era egli stesso un attore e questa sua unica rassomiglianza con
Shakespeare e con Molière gli dava modo di presentare le parti delle sue opere nel modo più vantaggioso per chi dovesse recitarle. Tecnico buono lo è, e il suo teatro può essere paragonato a quello di Sardou, ben costruito, ben dialogato, ben vuoto. Ciò che scosse veramente il teatro inglese fu la comparsa di Ibsen. Quando nel 1891 le sue opere complete furono tradotte da William Archer in inglese si vide quanto il teatro fosse rimasto indietro e come ogni cosa rappresentata fosse invenzione teatrale nella quale personaggi concepiti in modo teatrale si dibattevano in modo teatrale durante crisi teatralmente preparate. L’urto tremendo dei drammi ibseniani con la loro inesorabile critica non sentimentale della vita e con la rivelazione delle possibilità drammatiche delle persone qualunque in circostanze qualsiasi, fece scattare la scintilla dalla selce del teatro inglese del 1890. Jones e Pinero stessi, i due re del teatro di quel tem-
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po, compresero che non era possibile continuare sul vecchio cammino e tentarono di «ibsenizzarsi»: non vi riuscirono ma The Liars (1894) del primo e The Second Mrs Tanqueray (1893) del secondo sono quanto di meglio essi abbiano prodotto. (Mi sembra superfluo sottolineare il parallelismo fra l'influenza di Ibsen sul teatro inglese e quella di Wagner sul melodramma italiano: ambedue fecero comprendere ai vecchi autori privi di talento che così non si poteva andare avanti; ambedue spinsero i vecchi autori a scrivere le loro opere meno cattive; che poi l’evoluzione del
teatro inglese e quella del melodramma italiano siano state così diverse è dovuto soltanto al fatto che il teatro non cantato è una cosa seria e che quindi una volta rimesso sulla buona via può prosperare; mentre il teatro cantato che è di per sé una impostura una volta che si era reso conto della propria nullità non aveva altra via che quella della morte.)
Lo scrittore che davvero mostrò come il vento fosse cambiato fu Oscar Wilde: scrisse poco per il teatro: quattro commedie soltanto, se non si voglia parlare (come infatti non si vuole) della Salorze (1901) e della Dachess of Padua. Ma quattro commedie che, se pure ci appaiono quasi tutte invecchiate, furono allora, al tempo della loro rappresentazione, delle inconcepibili novità. Nel Lady Windermere’s Fan (1892), nella Worzan of No Importance (1893) e nell’Ideal Husband (1894) ritroviamo lo stesso spirito di ribellione dei romanzi di Butler e di Gissing; la società vittoriana vi è attaccata in tutto: nell’onestà delle donne, nell’onestà degli uomini politici, nella santità dei vincoli familiari. Attacco a fondo ma velato di tanto sorriso, adorno di tanti motti di spirito,
presentato con tale eleganza di forma che la società stessa chiamata alla sbarra non se ne avvide e ricoprì di applausi e di lodi queste commedie; fenomeno non incon-
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sueto alle società pienamente soddisfatte che tanto soddisfatte sono da credersi sinceramente nel giusto; fenomeno che si manifesta in modo «clamoroso con l’episodio di Luigi XVI, Maria Antonietta e tutta la corte di Versailles che si affannavano a recitare quel Mariage de Figaro che scavava a loro stessi la fossa. Nel 1895 venne rappresentata The Importance of Being Earnest, la migliore opera di Wilde, che nell’assurdità stessa della trama, imperniata su un gioco di parole, irrideva al nominalismo e al conformismo vittoriano. Il pubblico «earnest» rise molto; ma cominciò ad accorgersi che lo si prendeva in giro. E questa rivelazione della foga satirica dell’autore fu non ultima causa del ciclone di indignazione pubblica che l’anno dopo doveva spazzar via il Wilde; ciclone che, benché in fondo giustificato, non può non sorprendere nei latini più tolleranti e meno moralisti, specie se lo consideriamo insieme agli altri maremoti del puritanesimo inglese che portarono al naufragio Byron e Parnell.
Dobbiamo
citare anche Stephen Phillips (1868-
1915), cui riuscì, nel suo Paolo e Francesca, a portare sul-
la scena inglese un po’ di poesia (puramente formale). Questo avevano tentato Tennyson e Browning, ingegni ben altrimenti potenti, ma senza riuscirvi. Negli anni Novanta i tempi erano maturi e Phillips vi riuscì. Segno notevolissimo della rinascita del teatro inglese in questo ultimo decennio del regno di Vittoria fu la rappresentazione delle prime opere di Bernard Shaw. Widower's Houses è del 1892, e Arrzs and the Man del 1894, come pure Mrs Warren's Profession. Ma l’opera shawiana appartiene nettamente al periodo seguente e sarebbe quindi inutile parlarne adesso.
LA POESIA TARDO-VITTORIANA: ALGERNON CHARLES SWINBURNE
Più ancora forse che nel romanzo sono visibili nella lirica tardo-vittoriana i caratteri di disfacimento di un’epoca. Come non avvenne nel romanzo, nella lirica si nota
financo (non in Swinburne) un relativo rilassamento della forma tradizionale. «Ho capito che la Rivoluzione era inevitabile quando mi sono accorta che il pasticciere metteva meno burro nelle brioches», scrisse nelle sue memorie Mme de la
Tour d’Auvergne. Osservazione meno frivola di quel che appaia e che potrebbe così mutarsi: «Ci si accorge che la stabilità vittoriana è sul morire quando si vedono Hardy, O’Shaughnessy e Lionel Johnson tirar giù i loro versi un po’ alla carlona e badare più all’effetto che al rispetto delle regole». Nelle brioches sfornate da Swinburne il burro però non manca; anzi ve ne è troppo.
Nato, come Byron e Shelley, da antichissima famiglia, figlio di un ammiraglio ed allevato nella conservatricissima Oxford, Swinburne fu tutta la vita un ribelle. La sua
statura elevata, gli abbondanti capelli rossi, la barbetta a punta color di fuoco gli davano l’aria appunto di quel che era: un satiro di buona famiglia. Dotato di un temperamento sbalorditivo, paragonabile solo a quello del suo grande contemporaneo Maupassant, egli aggiungeva a questo una forte propensione al sadismo, propensione che pose più volte in azione e per la quale una volta finì per qualche mese in gattabuia; e vi è un suo ritratto nel quale lo si vede in adorazione davanti alla
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MIST
Mencken, nota e robusta cavallerizza di circo, che, come
si dice, speaks volumes. In cuor vostro, forse, direte che questo non ci riguarda; ed avete torto. Perché la conoscenza di queste cose
vi farà apparire lampante il significato di alcune fra le più belle liriche di Swinburne. Egli era un eccellente grecista e tutta la vita ebbe due adorazioni principali: quella per l’antica Grecia e quella per Shakespeare, sussidiate da parecchie altre secondarie: quella per Hugo, quella per Baudelaire, quella per l’ateismo e quella per la repubblica. Questo elenco delle adorazioni swinburniane non è neppur esso inutile, perché Swinburne, grande e vero poeta, fu tuttavia un poeta di «echi». La sua originalissima vena doveva esser colpita, frustata da qualche altro
ingegno al di fuori di lui; e qui credo che capirete perché io abbia insistito sul suo sadismo. Aggiungete a questo che l’influenza linguistica che più agì su Swinburne fu quella del linguaggio biblico: fa uno strano effetto sentire le incessanti invettive di Swinburne contro Dio e i fedeli redatte in uno stile tutto profumato dai cedri del Libano e dalle rose del Carmelo. Uscito da poco da Oxford egli si aggregò alla cerchia rossettiana e a Dante Gabriele dedicò le sue due prime opere, drammatiche nella forma e scritte in elaboratissimi versi sciolti: The Queen Mother e Rosamond, che sono del 1860 e che naturalmente valgono poco. Non molto tempo dopo, però, la pubblicazione di Atalanta in Calydon e di Chastelard nel 1865 e quella di Poems and Ballads nel 1866 gli diedero a un tempo la fama e una notorietà scandalosa. Chastelard, il primo dramma della sua trilogia su Maria Stuarda, è un’opera del genere delle sue due prime benché assai migliore come qualità; Atalanta in Calydon è un tentativo di riprodurre in inglese tutte le caratteristiche della tragedia greca ed è, eloquente e riboccante d’impeto lirico, un
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capolavoro; in questa prima parte dei Poems and Ballads si trovano quelle che, a mio parere, sono tra le migliori liriche di Swinburne. Questo per la parte «fama». Delle singole opere vi dirò dopo. Riguardo alla «notorietà scandalosa» si può dire questo: figuratevi l'Inghilterra del 1866, cullata dai versi magnifici ma camomillacei di Tennyson, o scossa da quelli più irruenti ma pienamente conformisti (in idea) di Browning, figuratevi questa Inghilterra intellettuale mai stanca di contemplare, nello specchio degli oceani domati, le proprie calme fattezze, nel momento in cui udì proclamare il più assoluto ateismo, velato ancora nella nebbia dorata del mito ellenico nell’Ata/anta, crudo invece e potente nei Poerzs! Si giunse al punto di invocare l’intervento della censura (che vigeva e vige ancora per le opere teatrali) col pretesto che Atalanta era destinata alle scene. E anche se si fosse potuto ottenere questo (il che non fu possibile perché la censura teatrale ha il potere di impedire la rappresentazione ma non la pubblicazione, e Atalanta non volle mai essere e mai potrà essere rappresentata) lo scandalo maggiore dei Poems sarebbe rimasto. Ma l'indignazione teologica per l’ateismo era ancora piccola cosa in confronto della collera moralistica contro le poesie. Che in esse si osasse glorificare la bellezza delle cosce femminili era cosa inaudita da duecento anni; e passino ancora le cosce; ma la Laus Veneris dava ai
buoni londinesi la sensazione di incontrare un Tannhàuser non pentito in pieno Hyde Park. E inoltre vi erano poesie come Fragoletta, Dolores, Anactoria, Faustine, nelle quali la lode del dolore unito alla voluttà si esprimeva non solo senza veli ma con il fascino aggiunto di potentissime immagini e di ritmi incantati. Les fleurs du mal (quelle vere non quelle del cristianissimo Baudelaire) erano improvvisamente fiorite sui contegnosi /aw07s
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britannici. E per coronare tutto questo vi erano le due poesie a Persefone che davano dell’oltretomba una immagine del tutto discorde da quella dipinta dal clero anglicano. Incidentalmente ho parlato così delle poesie sensuali e di quelle antireligiose di questi primi Poerzs and Ballads. Ma vi troveremo anche dell’altro: affettuosi idilli infantili, ermetici poemetti nei quali passano figure velate prese di peso dall’Adorazs shelleyano, e soprattutto, sparse ovunque, meravigliose visioni di mare, quel mare che fu sempre la grande passione di Swinburne e al quale aveva già rivolto strofe lucentissime nell’Atalanta. Tutte queste liriche hanno una forma splendente: quel che, nello stesso genere, era allo stato embrionale nelle liriche di Rossetti, ha qui raggiunto maturità piena. Il ritmo poi è magnifico: non si tratta della piena orchestrazione, della polifonica struttura del Browning migliore, piuttosto della morbosa, penetrante melodia su poche note di un flauto suonato in un «soir équivoque» da un troppo esperto fauno. Almeno Atalanta e il primo libro di Poems and Ballads sono da leggersi interamente: è un’esperienza unica. Benevoli amici, spaventati dall’ondata di indignazio-
ne scatenatasi contro il poeta e temendo che potesse ripetersi un boicottaggio morale simile a quello che aveva esiliato Byron, pensarono di approfittare della straordinaria influenzabilità di Swinburne e fecero sì che il suo temperamento violento trovasse modo di sfogarsi su meno pruriginosi argomenti. Era quello il momento in cui
si svolgevano gli ultimi (e meno brillanti) sforzi per l’unità italiana. Swinburne si esaltò: c’era lì ampia materia per poetiche invettive: il Papa, Impero austriaco e soprattutto Napoleone II, Napoleone il Piccolo, l'odio preferito del suo Hugo! E nacquero così Sorgs of Italy e i Songs before Sunrise: invece di esaltare Venere e il divino Marchese si esaltò Mazzini e Garibaldi, ambedue
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mediocri quali oggetti di lussuria. Cionondimeno era questo il periodo di miglior estro di Swinburne, e i Songs before Sunrise contengono alcune delle sue migliori liriche (Hertha, Super Flumina Babylonis e Quia Multum Amavit). Dopo di che, compiuta l’unità e caduto Napoleone III (caduta che Swinburne salutò con gioia selvaggia) egli si rivolse ad opere più conducenti: nel 1874 abbiamo Bothwell, seconda parte della trilogia stuardiana, assai migliore della prima e nella quale il poeta poté lasciar defluire senza soverchio scandalo la marea sensuale che si agitava in lui; e nel 1876 Erechtbeus, tragedia classica nella quale l’approssimazione ai grandi modelli ateniesi è più riuscita ancora che in Atalanta, con gran copia di versi mirabili, specie nei cori
i quali però non raggiungono l’incanto musicale dei loro predecessori (e a dire il vero non era facile eguagliare i cori e i canti amebei dell’Atalarnta, che rendono in modo
incomparabile le sensazioni boschive e marine). Nel 1878 venne pubblicata la seconda serie dei Poerzs and Ballads e nel 1880 i Songs of the Springtides. Nella prima opera si trovano delle liriche che, per Swinburne, sono di second’ordine, ma vi si trova anche il famoso Ave at
que Vale in memoria di Baudelaire; e i Songs of the Springtides sono dedicati interamente al mare, il cui flusso, il cui battito, i cui colori cangianti come gli occhi delle donne nessun poeta ha mai saputo rappresentare come Swinburne. Nel 1880 il poeta sembrò essersi accorto dei suoi eccessi verbali e pubblicò un volume di pasziches nei quali con arte somma e marcato humour prendeva in giro la poesia di Rossetti e quella di Tennyson, Browning e Patmore. Il bello è che nel volume, che venne pubblicato anonimo, vi sono anche vari pastiches... di Swinburne. Nel 1882 venne pubblicato il poemetto Tristazz of Lyonesse, che può essere considerato il capolavoro del poeta. È una esaltazione della passione fisica con singolari
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intuizioni della filosofia di Schopenhauer e quindi influenze del melodramma wagneriano. Ma ancor più che per il suo valore umano il poema-vale soprattutto per la straordinaria ricchezza dei paesaggi al cui cospetto si svolge la vicenda; paesaggi trattati come stati d’animo che danno un tono di magia alla cupa vicenda. I versi sono in particolar modo splendenti. Lo stesso volume contiene una serie di sonetti su poeti elisabettiani, sonetti che in forma memorabile esprimono acuti giudizi critici. Quest'ultima parola mi induce ad accennare all’opera critica di Swinburne che è importantissima. Numerosi sono i suoi articoli, ma due sono i volumi che gli faranno attribuire un posto di prim’ordine in quella lista di poeti-critici inglesi dei quali ho tante volte parlato: il suo A Study of Shakespeare e il suo volume su William Blake, modelli d’interpretazione di poeti grandissimi da parte di un autore grande. Non vi è nessuna teorizzazione e
nessun apparato erudito: l’opera d’arte è considerata in sé e per sé e a causa del proprio raggiare; i precedenti e le derivazioni citate hanno il solo scopo di far meglio comprendere l’unzcità dell'espressione shakespeariana o blakiana; e le opere stesse sono esaminate con la cura e la comprensione di chi per esperienza conosce il valore della sillaba in quel dato punto e l’efficacia di quel tale epiteto.
Accennato così alla sua opera critica potremmo chiudere le osservazioni su Swinburne: infatti se se ne eccettui Mary Stuard, compimento della trilogia tragica, le opere poetiche seguenti non meritano grande attenzione. Fra esse si può citare un Marino Faliero scritto con evidente intenzione polemica contro il dramma di Byron che Swinburne (giustamente) giudicava sbagliato ma che rimane sempre migliore del suo; e Locrize, un
originale esperimento drammatico in quanto ogni singola scena consta di un numero eguale di strofe con rime sempre ricorrenti: l’enunciato basti alla condanna. E nu-
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merose raccolte di liriche (Astropbel, una terza serie di Poems and Ballads, A Channel Passage) fra le quali non mancano certo i bei versi: ma la loro stessa ripetuta carnalità li fa apparire un po’ astratti. Ed è certo a queste ultime liriche che doveva pensare Eliot quando diceva che i versi di Swinburne sono «intercambiabili», cioè
che ciascuno di essi può trovar posto in qualsiasi lirica dello stesso poeta. Rimprovero che è ridicolo se viene indirizzato a tutte le opere precedenti il Trzstam of Lyonesse. Poeta onusto di difetti: nella sua stessa carriera avrete notato una certa affinità con quella di D'Annunzio, che lo conobbe e ne fu assai influenzato. Cionondimeno grande poeta, dall’ispirazione larga e continua, dalla perfetta maestria. Poeta dopo il quale molti dei moderni sembrano dei sordomuti o delle persone affette da balbuzie.
THOMAS HARDY
Della grandezza di Hardy romanziere vi ho già indegnamente detto. Adesso debbo parlarvi (con non minore indegnità) di Hardy poeta. Ricorderete come Hardy, al contrario di tanti altri, si mettesse a scrivere versi nella tarda età. Questi versi pos-
sono suddividersi in due parti: una costituita da una serie di raccolte, Wessex Poems (1898), Poems of the Past and Present (1902), Times Laughing-Stocks, Moments of Vision (1917), che furono poi riunite sotto il nome di
Collected Poems nel 1930. La seconda parte è costituita da uno straordinario poema unitario, metà epico, metà drammatico, permanentemente lirico: The Dynasts, del
1904. Il determinismo assoluto che costituiva il fondo del pensiero di Hardy si mutò in lui, sotto l'influenza di agenti che non ci è facile individuare, nel più nero dei pessimismi. Avrebbe potuto, in diverse circostanze, conferirgli la serenità che proviene dal sentirsi scaricato di responsabilità e dall’osservazione che nella ferrea concatenazione dei fatti, non tutti gli anelli della catena sono di ferro; perché se fossero tutti di ferro ciò implicherebbe una volontà invece di uno svolgersi inevitabile ma meccanico di un evento dall’altro che può benissimo ammettere dei casi o anche delle serie di casi meno dolorosi. Invece Hardy credeva a una volontà precisa: soltanto questa volontà gli appariva malvagia. E non si può forse dar torto alla botta che Chesterton doveva tirargli: «It is not worth while to be an atheist, if afterwards you have to believe in the Devil». L'idea dell’innata malignità della materia che come tale inevitabilmente rende
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infelice l’uomo era balenata un momento anche a quel grande ottimista di Hugo («La quantité d’intention dans la matière qui est pour nous tous un sujet d’effroi»). Ma mentre Hugo represse subito l’idea, Hardy ne divenne prigioniero. Questa idea moderna e quasi scientifica del Fato egli la espresse e la atteggiò in tutti i modi nei suoi romanzi tragici e magnifici; ne estrasse l’essenza e la cantò con cupo fervore nelle sue liriche. L’oscuro destino sembra distendersi anche nell'ambiente dell’uomo; i paesaggi invernali, quelli ancor più sgomenti delle fradice giornate d'autunno ammorbate dal lezzo delle foglie in decomposizione, certi pallidi cieli piovosi orlati dalle grandi nuvole nere trasportate dal vento, l'uccello affamato che nel gelo invernale canta aspettando l’amore che non può più venire, lo sguardo della volpe che nella tagliola aspetta la morte, i primi lividi bagliori dell’alba che penetrano nella scuderia per annunziare al cavallo sfinito il principio di un nuovo giorno di fatica e di frustate, questi sono gli argomenti delle meditazioni liriche di Hardy, oltre s'intende ai vari e variegati dolori dell’Homo sapiens. Liriche tutte di severa bellezza, scarne, assolutamente prive di qualsiasi ornamento che non sia il loro malinconico ritmo. Poesia «necessaria», come
è stato detto di un altro poeta. Poesia anche consolatrice (se si trova che ad ogni costo si debba essere «consolati») perché prova se non altro la grandezza dell’uomo secondo la direttiva di Pascal: «L’homme trouve sa grandeur dans sa connaissance de la mort, que les plantes et les animaux n’ont pas». Nel Dynasts l’autore allarga il proprio orizzonte: dai dolori dei singoli uomini passa a cantare il travaglio, le delusioni, i martiri di interi paesi: l'argomento scelto è quello delle guerre napoleoniche, ed è inutile dirvi se le uniformi sfarzose e gli inni di gloria siano presenti o assenti. Le più grandi crudezze sono mescolate alle più disincarnate considerazioni. Poema di faticosa lettura, per
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altro; fatica però alla quale ogni persona per bene dovrebbe sottomettersi se vuol conoscere una delle più alte e disilluse manifestazioni dello spirito. I critici (e il pubblico) inglesi di quegli anni della fine del regno di Vittoria dovevano avere una vita molto dura. Ancora adagiati, essi, nel placido conformismo vittoriano, cullati dalla illusione (e non soltanto illusione
sembrava ma tangibile realtà) della illimitata perfezionabilità del destino umano, vedevano ogni tanto sorgere innanzi a loro degli Swinburne, dei Gissing, degli Hardy che a tutte le loro fedi irridevano, che postulavano altri punti di vista nettamente opposti. E neanche nei detrattori di questi profeti di sventura trovavano vera consolazione: questi difensori anch'essi lanciavano le loro frecce partendo da presupposti anch’essi poco conformisti: accenno qui al caso Chesterton, del quale avrò occasione di parlarvi se mi deciderò a compilare qualche pagina sugli scrittori Edwardians, cioè del principio del nostro secolo.
I POETI MINORI TARDO-VITTORIANI
Mi dispiace, ma questa volta il discorso sui poeti minori non potrà essere altrettanto breve quanto quello sugli altri minori vittoriani di differenti sfumature. Essi sono molti, non solo, ma dovrò anche rimediare ad alcune dimenticanze fatte nelle pagine che precedono. Dimenticanze che hanno le loro attenuanti, come
vedrete, ma delle quali il compilatore vi chiede venia lo stesso, la corda al collo e la fronte intrisa di cenere.
Cominciamo dunque, senza perder tempo, dal più importante di questi poeti dimenticati: William Morris (1834-1896). Temperamento impetuoso, Morris aveva
deciso di entrare nella Chiesa, ma quando ebbe subìto l’influenza di Rossetti e letto il famoso capitolo delle Stones of Venice ruskiniane sulla «natura del Gotico» rinunziò alla carriera ecclesiastica e si diede a lunghi viaggi a piedi in Francia per vedervi le chiese gotiche in compagnia di Burne-Jones, l’illustre pittore preraffaellita suo amico. Si dedicò alla pittura, sposò una ragazza, Jane Burden, la cui strana esotica bellezza brilla in tanti quadri di Rossetti e di Burne-Jones e della quale fu invaghito anche Swinburne, come vien rivelato fra l’altro dal
fittissimo uso che egli fa del sostantivo burder (che vuol dire ritornello, il nostro «bordone») sempre unito a termini amorosi.
Il desiderio di dare una casa alla bellissima creatura che aveva presso di sé spinse Morris verso le arti decorative, divenute in seguito arti industriali. Sotto la doppia influenza di Rossetti e di Ruskin egli fondò quella gran-
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de impresa di produzione di mobili e di stoffe moderne, impresa nella quale i criteri industriali erano sottomessi a quelli artistici, che fiorì e fiorisce ancora in Inghilterra e negli Stati Uniti: ad essa il mondo deve tante creazioni che adesso ci sembrano orrende ma che servirono a svincolare l’ammobiliamento e il vestire delle donne dal conformismo commerciale che alla fine dell'Ottocento aveva raggiunto il proprio apice. Si interessò anche a risuscitare le antiche danze campagnole inglesi. Il tratto più singolare nell’opera letteraria di Morris è che essa fu compiuta in massima parte dopo le lunghe giornate di lavoro nei laboratori e negli uffici commerciali. Cominciò col pubblicare The Hollow Land, The Story of the Unknown Church e altri poemetti, tanto in prosa che in versi, del genere semi-mistico ma interamente carnale lanciato da Rossetti. Dopo, nel 1867, pubblicò
The Life and Death of Jason, una imitazione di Chaucer nella forma, rimanendo semi-cristiano, semi-pagano nel concetto. Negli anni immediatamente seguenti apparve la sua opera migliore, The Earthly Paradise, nella quale sfrutta con singolare grazia il tema chauceriano dei «racconti di viaggio». Si tratta della storia di dodici vecchi artigiani stanchi e disperati che si mettono in viaggio per cercare una città dove tutto sia riposo e bellezza: essi la trovano ma se ne debbono guadagnare la cittadinanza raccontando ognuno una novella, a ciascuna delle quali risponde un’altra narrata da un anziano della città. Abbiamo così ventiquattro racconti, dodici, quelli degli anziani, di ispirazione classicheggiante, gli altri dodici derivati da fonti medievali latine, francesi e irlandesi. Queste storie sono di valore assai ineguale: una, The Lo-
vers of Gudrun, è un vero e proprio capolavoro che ha avuto le più lontane e impensate ripercussioni, giù giù fino alle musiche di Schénberg. Di particolare freschezza sono i bellissimi interludi lirici sulle stagioni.
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Di questo Eartbly Paradise io possedevo una magnifica copia con illustrazioni di Morris stesso, di Burne-Jones e di Rossetti, che avevo capitato per puro caso in Iscozia. Per puro caso anche venne capitata nella mia libreria da un appartenente alle forze armate degli U.S. e
presa come souvenir. (Sia detto fra parentesi: si deve in massima parte all’opera di William Morris se la parte tipografica delle edizioni inglesi si redense dalla laidezza nella quale era caduta verso il 1850 per assurgere alla elegante dignità odierna.) Una altra sua grande opera poetica riuscita fu The Story of Sigurd the Volsung (1877), più che notevole per la vigoria con la quale è trattato il tragico tema: la poesia di Morris vi raggiunge la propria più alta espressione. Vi sono molti scritti di Morris in prosa, scritti del genere chiamato in inglese rorzance, cioè narrazioni di antiche
leggende in stile leggermente arcaico (il Tristan et Iseult di Bédier, per intenderci). Tutti, nel loro limite, notevoli. Innumerevoli poi sono gli scritti polemici e politici, intonati a un innocuo socialismo, che completano però la figura di Morris come uno dei più notevoli combattenti per una vita migliore e soprattutto «meno brutta», insieme a Ruskin e Rossetti, suoi maestri.
L'Inghilterra del 1890 era di già al punto in cui ci si poteva preoccupare della «bellezza» della vita; la vita nuda e cruda era di già assicurata. Totalmente diverso da Morris e privo di qualsiasi preoccupazione sociale ci si presenta Coventry Patmore
(1823-1896), che nella poesia italiana trova rispondenze in due poeti posteriori a lui: Betteloni e Gozzano. Vi è di già in Patmore una reazione all’estetismo che si manifesta nella forma dimessa del suo maggiore poema che tratta di altrettanto dimesse gioie coniugali: The Angel in the House (1854). È una serie di liriche su tutti gli
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aspetti della felicità domestica, composte con viva sensibilità e un qualche farisaismo. Libro ad ogni modo notevole e che non meritava la feroce.(e del resto spassosissima) parodia che ne fece Swinburne. Che l’opera non soddisfacesse interamente neanche l’autore si vide dall’altra che Patmore pubblicò venti anni dopo: The Unknown Eros, di forma irregolare e di sentimento assai poco goody-g00dy, nella quale egli si arrischia a voli pindarici e a strabilianti oscurità, talvolta però riuscite. Un poeta, dopo tutto, buono da conoscere, anche per
poter constatare il crudele ritardo delle lettere italiane, stanche, evidentemente, di esser state nei secoli precedenti all'avanguardia. Si può citare anche Alfred Austin (+ 1913) che ebbe la sventura di divenire Poeta Laureato subito dopo la morte di Tennyson, nominato da un Primo Ministro evi-
dentemente in vena ironica, e che non fece nulla per attenuare lo stupore suscitato dalla sua nomina. Ben altra tempra era invece quella di Lionel Johnson (+ 1902), tipico artista bohémien morto alcolizzato. Egli ci ha lasciato un insieme notevole di opere e una lirica assolutamente perfetta, By the Statue of King Charles, che non soltanto per il tema ma anche per il vigore e il sostenuto impeto ritmico ci ricorda la grande ode di Marvell. Un soffio di ben maggiore potenza si trova invece in Francis Thompson (* 1907) che negli ultimi anni è stato riscattato dall’oblio e si trova in cammino verso la reputazione più alta. E infatti la sua lunga lirica The Hound of Heaven è davvero uno dei vertici della lirica del suo paese per l’angosciosa presentazione di uno stato d’animo e per la stupefacente adesione del ritmo ad ogni variazione di sentimento e anche, a mio parere, per la singolarissima facoltà «prospettica» che ottiene incredibili
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effetti di grandiosità e di foschi orizzonti. Forse un capolavoro «assoluto» e nel modo più perentorio un poema da leggersi e da tenere a mente. Altri poeti vi sono: O’'Shaughnessy, per esempio, Watts-Dunton, Bridges, Dowson. Ognuno dei quali ha scritto almeno una lirica notevole e degna di rimanere sempre (nelle antologie). Epoca lirica, questa tarda vittoriana, fra le più considerevoli. Assurgerebbe a ben maggiori altezze se volessi qui aggiungere il nome di Gerard Manley Hopkins (18441889), il grandissimo lirico gesuita rinnovatore della poesia inglese e non inglese al quale tutti i più grandi moderni, da Eliot a Montale, da Eluard a Piccolo sono debitori. Ma benché rientri comodamente nel limite cronologico dei Vittoriani, la sua influenza si manifesta trent'anni
almeno dopo la sua morte e converrà quindi rimettere la compilazione su di lui a più tardi, dato e non concesso che venga mai fatta.
e
UN BUON PADRE DI CATTIVI FIGLI: WALTER PATER
: Scommetto che non sapete chi sia. Contro la fama di Pa‘ter hanno converso due forze opposte ma dirette allo ! stesso scopo, quella dei suoi seguaci che tanto dovevano alui da preferire se ne parlasse il meno possibile, e quella, vigente adesso, dei suoi avversari che non vogliono si conosca per ragioni polemiche e forse per timore. Io non appartengo a nessuna di queste due correnti di forza; non sono che un «minus» e perciò posso parlarne. Walter Pater (1839-1894) fu semplicemente un professore di letteratura a Oxford e condusse la vita studiosa, ritirata e modesta dei più pericolosi fabbricatori di esplosivi (vedi Mallarmé). Discepolo di Ruskin, egli scrisse soltanto brevi opere e a lunghi intervalli. Studies in the History of the Renaissance (1873), Imaginary Portraits, Plato and Platonism, Appreciations e un romanzo notevolissimo, Marius the Epicurean. Ruskin non cessò mai di battersi per imporre la bellezza al mondo circostante e così fece Morris. Pater si avvide presto dell’inutilità della lotta, si ritirò dal campo, si chiuse nel proprio concetto di bellezza e divenne una specie di benedettino cui serviva da rito la scrittura delle proprie opere. La sua idea centrale è questa: l’uomo è un condannato a morte la cui esecuzione è però, entro certi limiti, in-
definitivamente rinviata. In queste condizioni la sola cosa che gli resti da fare è l’esercizio dell’arte. Pater, nella sua cella di condannato, fu il più scrupoloso degli artisti. Egli si sforzò a che ogni sillaba scritta sopportasse il massimo di pensiero, il massimo di bellezza. Partendo
da queste premesse, il difetto della sua prosa non è, come vien detto dagli asini, che essa sembra poesia: è che
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essa sembra scienza. Ogni sensazione vien prima esaminata per giudicarne il maggiore o minore buon gusto; poi se giudicata sufficientemente carica di bellezza, uccisa, sterilizzata, quintessenziata e fermata su un foglio affinché se ne possa ammirare l’iridescenza. Non più poeta ma entomologo. Appunto, scienziato. Ogni parola è elemento di una formula; inevitabilmente la prosa di Pater è smagliante, oscura e lenta. Un perpetuo «Adagio». Contemporaneamente, in Francia, Stéphane Mallarmé
andava elaborando un sistema simile. E finché l’«arte per l’arte» restò fra le mani di queste due specie di asceti, essa fu un'idea rispettabile, un po’ simile a quella della «religione per la religione», con la stessa elevatezza e la stessa mancanza di simpatia per gli uomini. Ma poiché l’«arte per l’arte» di sua natura tende ad eliminare i freni etici (che vengono interpretati come radicali tentativi del condannato per scuotere le sbarre della prigione) era fatale che essa scendesse di livello e andasse a finire fra le mani dei gaudenti. Che ne fecero scempio. La caduta in Inghilterra avvenne molto presto: Wilde era in piena azione già quando Pater morì. In Italia ciò avvenne un po’ più tardi: D’ Annunzio era ancora giovane al tempo della morte di Pater ma di già prometteva. In Francia tutta la sequenza venne bizzarramente mu-
tata per condizioni ambientali; ma sarebbe troppo complicato occuparsene adesso. Voglio soltanto aggiungere che l’influenza di Pater su D'Annunzio è diretta e per così dire palpabile, come ognuno che conosca le due opere può vedere. Ma non su D'Annunzio solo. Il culto di Leonardo, il culto di San Francesco, l'ammirazione per la «bella belva» del Rinascimento, i sorrisi misteriosi della Gioconda e la Duchessa di Bisceglie che si lava le mani nel catino d’argento sono tutti figli diretti, immediati di Pater, e spesso, troppo spesso, sono dei miti espressi con le parole stesse usate dal loro creatore.
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NONSENSE
La letteratura italiana è la più seria delle letterature. Un libro che sia nello stesso tempo ben scritto e umoristico si può quasi dire non esista. Siamo costretti a fingere di
sbellicarci per l'umorismo con il quale è disegnato Don Abbondio e a trovare Ariosto divertentissimo. L’italiano, se gli capita un guaio, non ci ride mai sopra: sale sullo scoglio di Leucade e impreca contro i fati. Se vuol ridere un po’ non gli restano che le barzellette sudice o le scemenze delle «Cartoline del pubblico». E superfluo ripetere quanto sia ricca di humour la letteratura inglese. Ma occorre anche dire che grandi scrittori, scrittori sul serio, non disdegnarono di collaborare
a giornali umoristici: Thackeray fondò addirittura il «Punch». Dickens, Trollope, e financo (horribile dictu!) Hardy ci collaborarono con brevi articoli che poi ritroviamo incorporati nelle loro opere maggiori. Il riso, insomma, forse perché più decente che da noi, non è al bando dalle lettere. Ma oltre agli umoristi troviamo nella letteratura inglese gli scrittori comici professionali: i quali naturalmente rimangono un po’ al disotto della letteratura vera e propria, non già però perché siano scrittori comici ma per-
ché si rinchiudono in un genere voluto e che non può esser perennemente spontaneo. Rimangono fuori della letteratura tal e quale come lo scrittore volutamente lacrimoso o come quello volutamente eroico. Questa subletteratura è abbastanza importante perché, popolarissima, si riflette in direzione della grande produzione e numerose allusioni rimarrebbero incomprensibili se non
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se ne avesse un’idea. Quante volte in Kipling, in Galsworthy, in Joyce non troviamo l’espressione «gallumping» o un accenno alla «Queen of Spades»? Il lettore, rigidamente chiuso nel gusto della togata letteratura, non ne capirà niente o crederà che si tratti di stranezze del suo illustre autore. In Inghilterra lo scrittore corzico ha da circa cento anni scelto la strada del ronserse, della cosa scritta che non ha senso alcuno, formata da un (apparentemente) fortuito accozzamento di associazioni le quali, suscitando una serie di immagini disparate, riescono ad un effetto talvolta fortemente umoristico. Re del zonsense verse fu Edward Lear (1812-1888),
che fu poi nella vita un uomo serio, pittore, viaggiatore e financo maestro di disegno della regina Vittoria. I versi nonsense sono stati riuniti in un bellissimo volume da lui stesso illustrato e consistono soprattutto in favole (favole senza morale) nelle quali gli animali più fuor di mano si amano, si odiano e si sposano dopo aver scambiato le conversazioni più assurde nel tono della più grande gravità; il tutto in versi fortemente rimati e assai solidamente composti.
Del resto di questi ronserzse verses ne troviamo parecchi in Shakespeare e negli altri Elisabettiani. Lear è stato anche l’inventore del limzerick, forma poetica (comica) del tutto particolare composta da quattro versi d’ineguale misura, fortementè accentuati e ripetutamente rimati, che terminano con un verso lun-
ghissimo, zeppo di «rime al mezzo» che sbuca dopoi primi saltellanti tre con un effetto stranissimo. È una forma moderna dell’epigramma e ve ne sono di deliziosi. There was an old lady in Grantley who kept all ibe crumbs in her pantry, and when neighbours came and offered her game off she went, made a crumb pie for Lent, that clever [old lady in Grantley
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(Questo non è delizioso perché l’ho composto io sull’istante per darvi un’idea della cosa.)
Chi non è capace di ridere di un /izerick in fondo non capirà mai nulla dell’Inghilterra e della sua letteratura: l'Inghilterra è il paese dell’irrazionale nel quale la logica val pochino. Pickwick in fondo è un lunghissimo Zizerick e così lo è Browning. E quanti Zzericks vi sono in Arzleto, intendo dire proprio sulla bocca del principe di Danimarca? Il limerick è la brama dell'avventura trasportata nel campo verbale. Persona ancor più seria di Edward Lear era Charles Dodgson (1832-1898), che era addirittura professore di matematica al Christ Church di Oxford. Egli è più conosciuto e amato sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll col quale pubblicò la sua immortale Alice in Wonderland e Through the Looking-Glass. Questi sono dei libri interi di zorsense, che narrano le avventure di una bim-
ba sperduta in un mondo ben più irreale che quello abituale delle Fate. Del resto il matematico vi si rivela nella precisione rigorosissima del suo rorsense e nelle deduzioni logiche che conducono alle conclusioni più assurde. Notevolissimi anche i versi di Lewis Carroll in The Hunting of the Snark, in cui si narrano i complicatissimi preparativi e le assurde peripezie di una compagnia di scienziati che parte per lontani paesi alla caccia dello Snark, pericolosissima belva che del resto si viene a sapere essere un pacifico micio. Sono sicuro che questa mia incitazione al rorserse let-
ta ad un certo numero di giovani palermitani sui quali pesa ancora la nube di fumo dei roghi della Controriforma non avrà nessun risultato. Il zorserse qui non può aver successo. Come dice France, «nous sommes sérieux comme des Anes».
Parte quinta
ACCENNI AD ALCUNI CONTEMPORANEI (7 agosto — 3 settembre 1954)
LE SOLITE PREMESSE INUTILI
È soltanto dopo lunga incertezza che mi decido a metter mano a questa serie di compilazioni sugli autori contemporanei.
E questo per parecchie ragioni, la principale (benché transitoria) essendo la temperatura attuale. Scrivo generalmente dalle quindici alle diciotto, l’ora peggiore. Sono inoltre di già otto mesi che fo questo vano mestiere e comincio ad averne abbastanza. La seconda ragione d’incertezza è il mio stato di conoscenza di parte degli autori contemporanei. Quelli un po’ più vecchiotti (James, Kipling, Chesterton, Shaw) li conosco abbastanza bene («bene» come quantità, non come penetrazione perché questi, come i loro antecessori, sono sempre evidentemente filtrati dall’insufficiente cervello); può dirsi anzi che sono gli autori inglesi che io meno male conosca, dopo Shakespeare e Dickens. Ma riguardo ai più vicini a noi la musica cambia. Qui, a Palermo, non soltanto non giungono le opere degli autori inglesi moderni, ma neppure si può sentire la loro eco. Flaccovio espone in vetrina, non senza sussiego, come «novità» The Cocktail Party e The Family Reunion, che hanno vent'anni di anzianità. Che Graham Greene esista lo si sa per fama ma non in modo tangibile (nel testo). Occorre andare per lo meno fino a Roma o sottomettersi al supplizio delle «ordinazioni» (che due volte su tre non hanno esito) per avere un esemplare di un libro corrente. Non parlo poi degli autori di secondo piano (ai quali tengo molto, come sapete) che addirittura si ignora chi siano.
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Quindi questa serie di compilazioni sarebbe in ogni caso di tipo «arcipelago» e non «continente» e questo modo di disegnare una carta geografica mi sembra antistorico e falso. Inoltre ancora vi è la difficoltà di conoscere la giusta gerarchia degli autori. Le nostre simpatie o antipatie, conoscenze od ignoranze di contemporanei falsano spesso, malgrado ogni buona volontà, l'aspetto di questi scrittori. La decantazione del tempo non si è prodotta. Shaw, per dirne uno, sopravviverà intero o la sua opera scivolerà presto fra quelle di second’ordine? E la Woolf prenderà posto vicino a Dickens ed a Hardy? e la sua tecnica personalissima farà «scuola» o finirà con l'essere considerata come un ritrovato per far spumeggiare quel «troppo poco» che vi era in lei? Dubbi che possono lasciare indifferente chi ascolta ma che turbano chi voglia, sia pur bestialmente, redigere. Vi è anche il timore di riuscir noioso. E dico questo senza falsa modestia. Ho notato che le parti di quanto abbiamo letto che meno hanno provocato repressi sbadigli sono quelle relative alla vita degli autori, sempre che, beninteso, queste vite abbiano contenuto stranezze o scandali. Le vite degli scrittori viventi o morti di recente non sono abbastanza note (e figuriamoci poi a Palermo!) per presentare quella copia di aneddoti divertenti dei quali siete alla caccia. Quindi ci ridurremo a una piatta elencazione di opere da nulla ravvivate perché i raccontini piccanti non ci saranno e la sintesi critica (che del resto sarebbe anatemizzata) io non sarò capace di compierla. Dovremo allora davvero, Argonauti imprudenti, far vela verso questo «Mare putridum» della vuotezza e della noia? A qual pro? Tutti questi autori li conoscete, per conto vostro, di nome; di quasi tutti troverete delle buone traduzioni; e dei libri non tradotti troverete ottimi riassunti
Accenni ad alcuni contemporanei
Igo:
nel Dizionario Bompiani, opera, per le sue illustrazioni, egregia. A qual fine parlare di Ki77, per esempio, se vi sarà sufficiente aprire uno di quei volumi rossi e dopo breve sfogliare troverete un riassuntino ammodo seguito anche da ottime critiche come:
«Kipling è uno dei maggiori narratori del nostro tempo.» Pinco Pallino. «Forse Kipling sapeva far molte cose ma non certo narrare una storia.» Tizio de’ Caiis. Dopo... dopo ho pensato: scrivendo o non scrivendo il caldo c’è lo stesso. Sono proprio costretto io, vilissimo, a dare dei giudizi definitivi? Il mondo non cadrà se io dirò (il che non ho alcuna intenzione di dire) che la fama di Wells sfiderà i secoli e poi si vedrà che fra venti anni nessuno si ricorderà della sua opera. Sarò noioso? Nulla è più educativo della noia. La noia scolastica, per esempio, è il primo vero esperimento della vita reale che compiano gli studenti. Ma servirà a niente? Ma che cosa è veramente utile?
Le cose più patentemente indispensabili, un chilo di pane per dirne una, non servono che a permettere a un mascalzone di far delle mascalzonate durante ventiquattro ore di più. Quindi, avanti! Ma avanti su di un piano, per forza di cose, mutato. Saranno delle pagine staccate sui singoli autori, non un tentativo (per quanto inane) di tracciare la storia di un'epoca.
HENRY JAMES
Questo scrittore di primissimo ordine vien qui piazzato un po’ a torto: anzitutto perché è americano e non inglese; in secondo luogo perché le sue opere migliori furono quasi tutte pubblicate nel periodo tardo-vittoriano. Dico subito però che egli lasciò l'America a diciassette anni, che vi fece raramente ritorno e per breve tempo, che morì cittadino inglese e che è difficile trovare un altro spirito meno americano del suo, tutto delicatezza, affa-
scinato dalla tradizione e dalle sfumature più sottili della civiltà europea. È vero poi che gran parte della sua opera fu composta sotto il regno di Vittoria, ma è ancor più evidente che la sua enorme influenza sul romanzo inglese (e francese) si esercitò e continua, per nostra fortuna,
ad esercitarsi esclusivamente nel Novecento. Egli nacque nel 1843 a Boston, proprio in quella New England che negli Stati Uniti ha più tenacemente custodito le tradizioni, le virtù e i pregiudizi della madre patria, da una famiglia per giunta della cosiddetta aristocrazia locale, immune per tre secoli da miscugli con le altre popolazioni immigrate che non fossero inglesi e nella quale per lunga tradizione di opulenza, di cultura e di prestigio sociale si era formato un modo di vivere assolutamente simile a quello di una /arded gentry britannica. A settant'anni di età il glorioso vecchio si vantava con infantile compiacimento che «mai nessuno in Euro-
pa mi ha scambiato, a causa del mio aspetto e del mio accento, per un americano».
Famiglia, per di più, di alta cultura: due fratelli di lui raggiunsero una fama pari alla sua, l’uno, il maggiore, è
il grande filosofo pragmatista, il minore uno dei più illustri matematici del principio del secolo.
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Non vi sembri superflua la mia insistenza sullo sfondo familiare e culturale di James. Esso vi spiegherà, vi additerà i motivi principali della.sua opera vastissima; vi farà comprendere la sua predilezione per certi speciali temi, le case signorili e la gente di buone maniere che egli si sentiva particolarmente qualificato a descrivere; la sua ricerca di quell’atmosfera chiusa il cui aroma egli assaporava e che dava origine a delicate e complicate relazioni umane che eccitavano la sua curiosità e lo approvvigionavano di temi. (A chi pensate?) Appunto perché era nato in America era capace di guardare questa scena con un certo distacco, con una lieve estraneità ammirativa che andava d’accordo con la sua tecnica. Egli errava per i salotti europei come un dio in vacanza, osservando con spassionata curiosità gli at-
teggiamenti strani di quella classe di mortali e specialmente di coloro che più si comportavano secondo i riti e la tradizione della loro classe; e si attardava soltanto
quando la gesticolazione per così dire liturgica dei suoi modelli annunziava in essi, col maggiore suo vigore, un momento di crisi. (A chi pensate?) La sua arte (che fu grandissima) era disinteressata in modo assoluto, intendo dire che era preoccupata soltanto di ciò che aveva da dire, cioè di mostrare, di esibire una porzione selezionata della vita, di presentare un te-
ma soltanto per il suo interno valore come una interessante distillazione della realtà, rimanendo, nella presentazione, intatto, non toccato, da parte dell’autore, da
nessuna considerazione tranne quella di presentarlo perfettamente; egli non voleva rendere migliori i suoi lettori, non voleva insegnar loro nulla, non desiderava persuaderli di nessuna verità morale, politica o religiosa
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(egli diceva essere, questo dell’insegnamento, «rubbish which my brother has to sweep»). Egli voleva, in breve, aver da fare con la vita così come si manifestava nelle sue esteriorizzazioni più interessanti.
E basta. «Art» egli scrisse «is the one corner of human life in which we may take our ease. To justify our presence there the only thing demanded of us is that we shall have felt the representationalimpulse.» E ancora: «There (cioè sul terreno dell’arte) the tree is judged only by its fruits. If these are sweet the tree is justified — and not less so the consumer. We are not under theological government». L’opera d’arte si metteva in germinazione in lui sotto la spinta di una visione esterna che lo avesse fortemente colpito. Alcune parole dette a pranzo da un amico e che gli sembrarono degne di considerazione lo spinsero a scrivere The Spoils of Poynton, uno dei suoi romanzi migliori. Dei problemi del tempo egli non si occupò né avrebbe potuto, essendo tutti i suoi romanzi la relazione di una crisi. Questa è la cosa che lo differenzia da Proust, fondamentale certo, ma unica.
Capirete come da queste premesse risulti inanalizzabile l’opera jamesiana, di tale delicatezza che riuscirebbe
sciupata da qualsiasi manipolazione, anche meno maldestra di quella che potrebbe fare l’opinante. Vi basti sapere che i suoi romanzi più famosi (e «famosi» per James equivale a «buoni», dato il pubblico ristretto di conoscitori che ne apprezzano l’arte) sono, oltre alle Spoils of Poynton, What Maisie Knew, The Ambassadors (a mio giudizio uno dei vertici di ciò che è stato mai scritto da James e da moltissimi altri), The Portrait of a Lady (del quale ho visto una traduzione edita da Einaudi, fausto segno che da noi ci si accorge dei grandi scrittori quaranta anni dopo la loro morte), The Golden Bowl, il più criticato di tutti i suoi libri, e The Sense of the Past, ultima sua opera non finita, la più delicata, la
più penetrante, la più squisita di tutte.
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Ma poiché son sicuro che non le leggerete mai, queste opere, un po’ perché son difficili da trovare, un po’ perché non ne avrete il tempo e un po’ anche perché trattando esse di relazioni fra uomini e donne, perfettamente normali e reali ma delle quali, ignari del mondo che non sia palermitano, non avete esperienza, non li troverete interessanti e li crederete, a torto, frutto di piacevoli fanta-
sie diJames; poiché, dico, non li leggerete mai, desidero che almeno abbiate un’idea dell’arte di James mediante due sue lunghe novelle che mostrano assai bene due aspetti della sua Weltanschauung, e danno, almeno la seconda, un esemplare validissimo del suo stile altamente espressivo. Nella «Everyman’s Library», che in qualsiasi città a nord di Palermo è di facilissimo, anzi banale acquisto (occorre, si capisce, che i librai ne conoscano l’esi-
stenza) è stato pubblicato un volume (che costa seicento lire, rilegato) contenente The Turn of the Screw e The Aspern Papers. Poche volte seicento lire saranno state meglio spese. La prima è la storia tragica di due bambini ossessionati dal desiderio del peccato, ossessione che
l’artista ci presenta materializzata mediante apparizioni di fantasmi (apparizioni che riescono sì impressionantissime ma che non dovrebbero in alcun modo costituire argomento per i nostri amici Piccolo, come invece costitui-
scono). In non molte pagine il senso di decadimento morale, di sudicia esperienza, di invadente ipocrisia, di
progressiva senilizzazione di due bei bimbi decenni è reso in modo impressionante. Il racconto ci lascia con un senso di torbida amarezza che vien rinforzato da un terribile aggettivo, dispossessed, posto nell’ultima riga, aggettivo ambiguo che nelle circostanze è una fessura nella porta dell’inferno. Opera giovanile, ci mostra un James in “I tre fratelli Piccolo credevano nello spiritismo, erano abbonati
alle principali riviste del ramo e si interessavano appassionatamente alle storie di fantasmi.
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piena padronanza delle proprie facoltà di indagine psicologica e di creatore di miti, ma che non è ancora riuscito a crearsi una scrittura propria. È scritto benissimo, ciò va da sé, ma come avrebbe potuto scrivere qualsiasi altro autore di classe. The Aspern Papers, composto nella piena maturità artistica di James, tratta un tema da commedia (per chi non
voglia prestare l’orecchio alle sotterranee insinuazioni tragiche) che si svolge a Venezia tra americani. Un giovane studioso ha saputo che una vecchia signora americana, la quale vive a Venezia in ristrettissime condizioni economiche, è in possesso di un carteggio di valore letterario inestimabile che Aspern (un grande poeta americano immaginario che ha molti tratti di Byron) le aveva indirizzato quando, settanta anni prima, essa era la sua bellissima amante. Tutto il racconto narra le peripezie della ricerca, le complicazioni sentimentali che ne nascono, la squallida tragedia della donna quasi centenaria e povera. Tutto narrato in penombra, avvolto nel fiume lento e soavissimo del miglior stile jamesiano che c'immerge in quelle vicende bizzarre e non si fa più dimenticare. E chissà! forse la magia di questo stile (il più affine a Proust che io conosca) vi farà superare le difficoltà già elencate e vi donerà voglia di assaporare le altre fonti di spirituale bellezza che James è lì, pronto a offrirvi. Ho voluto insistere un po’ su James anzitutto perché è uno dei picchi più elevati della letteratura mondiale, e in seguito anche per ragioni personali, perché così speravo
di contribuire a provare le mie teorie deterministiche, e cioè che, lo ripeto per la centesima volta, ogni opera d’arte (e qui alludo a Proust) è creata da diecine di predecessori (per non parlare delle migliaia di cause economiche e sociali) sulle cui creazioni l'artista punto di arrivo non fa che aggiungere alcune sue (predeterminate) qualità. Egli pianta la corona sull’edificio compiuto cheè stato però eretto anche da altri.
RUDYARD KIPLING
Sarebbe difficile immaginare un trapasso più brusco di quello che si ha scrivendo di Rudyard Kipling immediatamente dopo di James. Scrittori la cui più alta produzione avvenne nei medesimi anni, essi stanno netta-
mente agli antipodi: tanto James era raffinato, cauto, diffidente delle masse e apolitico, altrettanto Kipling era indirizzato al grande pubblico, imprudente, essenzialmente politico. Là dove James non si interessava che al brivido di un’anima, Kipling non scorgeva che l'evoluzione di una nazione, anzi di quella super-nazione che è l'Impero britannico. Sarebbe difficile dire di qual partito politico fosse il riservatissimo James; Kipling si piazza senza chiederglielo fra la destra più destra inglese, fra gli imperialisti. Qui occorre chiarire alcuni concetti. Noi italiani,
adesso, abbiamo una netta ripugnanza verso la parola Impero che ai nostri occhi implica vociare di piazza, vanterie ridicole, guerre ingiuste e batoste.
Per un inglese del 1890 o giù di lì l’Impero era cosa diversa: anzitutto per il fatto primordiale che esso non era una mira da raggiungere, ma uno stato di fatto. L’Impero britannico era di già interamente formato in due secoli e più di lotta, quasi senza che se ne avesse coscienza, certamente senza che vi fosse una volontà determinata. Le due paroline «British Commonwealth» nacquero quando la cosa esisteva da molto tempo. È l'imperialismo di Kipling non fu che l’inventario di cose già possedute, l’atto di meraviglia di chi è in possesso di
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una grande eredità e va scoprendo nelle carte e negli armadi quante ricchezze il de cujus gli abbia lasciato. Quindi l'imperialismo di Kipling è conservatore, non aggressivo ed egli avrebbe onestamente arrossito dinanzi al motto del Nostro «Chi ha il ferro ha anche l'oro» e lo avrebbe trovato, come era, degno di essere la parola
d’ordine dei rapinatori. Inoltre l'Impero britannico, per sua fortuna, sfuggì alla contraddizione intima che corrompeva il nostro desiderio imperiale (come quello tedesco), cioè quella di essere contemporaneamente una rivendicazione del diritto di nazionalità (si volevano la Corsica, Nizza e la
Tunisia perché italiane) e un proclama di asservimento di altri popoli. O l’uno o l’altro. L’idea imperiale è essenzialmente quella del dominio di un popolo su altri; presuppone una nazione compiutamente maturata in
ogni suo ramo; se no non ha senso. L'Impero britannico, alla fine del secolo scorso, non suggeriva agli inglesi nessuna idea di sangue e di conquista da fare; ed essi potevano onestamente guardare anzi gli effetti pacifici che esso aveva conseguito: cento anni di quasi ininterrotta
pace in Europa, le Indie sottratte alle terribili guerre intestine ed alle ancor più tragiche carestie, le due nazioni del Canada viventi in pacifica comunità, l'Australia che si sviluppava in serena floridezza e gli angolini più remoti, la Nuova Zelanda, le isole del Pacifico, la Birmania che si coprivano di ferrovie e di opifici e, dove era necessario, estirpavano cannibalismo e miseria.
I Vittoriani avevano il diritto di esser tranquilli e orgogliosi. Sangue? Certo, ce ne era stato. Non si può neppur cucire l’orlo di un fazzoletto senza spargerne. Ma nella sola battaglia di Sedan era morto il doppio degli uomini periti in tutto l'Impero in cento anni. Del resto non dobbiamo occuparci delle sue idee politiche: Kipling ci deve interessare solo come artista.
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Nato in India da famiglia inglese, come Thackeray, egli ebbe, quale poeta, una importanza grandissima. La musa inglese con Tennyson, Rossetti e Browning era un
po’ salita in superbia, aveva lasciato la bella semplicità popolaresca elisabettiana e vagava un po’ nell’highfaluting. Kipling la riportò verso il popolo: nelle sue Barrack-Room Ballads e nei Seven Seas uso del gergo, del cockney, del neologismo è costante ed efficace; egli riuscì a farsi cantare dai soldati nel Transvaal o nel Khyber Pass. Ecco una delle sue differenze con D'Annunzio. Ve lo immaginate voi un reparto che vada in linea declamando il Laus Vitae? L'Impero britannico era un fatto economico e commerciale; non era una vellicazione let-
teraria. Molte delle liriche di Kipling sono vera poesia, e il transitorio oblio nel quale erano cadute va rapidamente scomparendo: Eliot ne ha fatto una ampia scelta che ha pubblicato con una sua lunga introduzione. Notevoli per quanto siano i suoi versi, la vera importanza estetica di Kipling risiede nella sua narrativa. Fu lui, in senso contrario ma parallelamente a James, a far saltare in aria l’edificio elegante, espressivo e casto della prosa vittoriana. Specialmente nella novella la sua arte è efficacissima e doveva essere una sua qualità innata perché fin dai primi racconti pubblicati su ignoti giornali inglesi dell'India si dimostrò in possesso di questa sua tecnica rivoluzionaria allora e che a noi sembra adesso ovvia. Egli abolì qualsiasi preparazione, qualsiasi frase introduttiva, qualsiasi considerazione morale. Fin dal primo rigo ci troviamo avvolti dall’azione che procede rapidissima, per mezzo di violenti scorci, a darci una vigorosa impressione di vita reale. In alcune novelle l’uso d’infiniti particolari sempre in qualche modo riferiti ai personaggi crea l’ambiente in modo veramente impressionante (ricordo quel Maltese Cat che è semplicemente la narrazione di una partita di polo nella quale tutto, i giocatori, i cavalli, il pubblico e il terreno sono fusi l'uno
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nell’altro e, si direbbe, procedono a rompicollo per una ventina di pagine e il lettore alla fine rimane stanco e ammirato). Questa maniera nuova di narrare già si trova in Soldiers Three e nei Plain Tales from the Hills, le primissime opere di Kipling che narrano con humour e conoscenza di causa strane storie dell’amministrazione inglese dell'India. Nel 1891 e 1893 vennero pubblicati altri due volumi di novelle, Life's Handicap e Many Inventions, seguiti nel 1898 da un altro, The Day's Work, che è, a mio parere, il migliore. Anche nel 1904 con Traffics and Discoveries venne offerta una notevole selezione di novelle nelle quali però si nota un lieve declino. La varietà di tipi (inglesi, indiani, australiani, marinai, soldati e sportivi) che ci viene presentata è immensa; tipi sempre intrecciati in storie di grande violenza, intendo dire di violenza narrativa, non contenutistica. Essi sono quanto Kipling, con una sola eccezione, abbia scritto di meglio. Meno felice è la sua mano nel romanzo: parecchi sono addirittura brutti. Egli ha il torto di scegliere come soggetto un argomento da novella, che potrebbe essere contenuto in cinquanta pagine, e di diluirlo in trecento.
Il che fa un effetto strano essendo poi lo stile suo conciso e amante degli scorci. Non riusciti sono The Nawlabka (1892) e soprattutto The Light that Failed (1891), la sola opera di Kipling nella quale affiori un sentimentalismo male espresso perché evidentemente non sentito da questo scrittore duro. Eppure fu proprio nel romanzo che Kipling doveva trovare modo di compiere il proprio capolavoro. Si può dire che Kz77 (1901) non sia un vero romanzo; è superfluo far disquisizioni invecchiate sui generi letterari: Kim è un grande libro. La vita torpida e maliosa dell’India vi scorre davanti, leggendolo, come un maestoso fiume. E gli ultimi capitoli, quelli della salita di Kim verso le montagne e quelli della morte del buon bonzo sono
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fra le più belle pagine di questa epoca. E la magnifica rappresentazione dei vari personaggi culminanti nella commovente figura del bonzo, che è una specie di San Francesco buddista, pone con questo libro Kipling fra i grandi psicologi. E (sia detto fra parentesi) si è sorpresi nel constatare come questo rigido imperialista comprendesse e potesse rispettare le virtù degli orientali quando
le vedeva, lui, proprio lui che aveva foggiato lo slogan «East is East, and West is West, and never the twain
shall meet». Kr (che fra gli indiani stessi è divenuto una sorte di poema nazionale) è la migliore riprova di come «West may meet East». Kipling si distinse molto in un altro genere: quello delle favole in prosa. The Jungle Book e The Second Jungle Book sono libri squisiti nei quali le bestie selvagge, la tigre, la pantera, l’elefante, le scimmie parlano con loro linguaggio e vivono vicende quanto mai attraenti e pittoresche. È un sintomo della nostra decadenza che ad esse sia succeduto in popolarità Tarzan e si sia così avuta la sostituzione di un burattino da fumetti ad una autentica creazione artistica.
Un’altra serie di racconti di Kipling è quella sulla storia inglese sempre presentata di sbircio, senza cioè intromissione dei grandi personaggi ma mettendo in luce la vita dell’«uomo qualunque» nei differenti periodi storici. Questi racconti sono contenuti in due volumi, Rewards and Fairies e Puck of Pook's Hill, che contengono anche, inserite fra un racconto e l’altro, alcune delle
più notevoli liriche di Kipling. Dopo il 1910, anno dei Rewards and Fairies, nulla più
di buono fu scritto da Kipling. Continuò sì a pubblicare ma la sua vena si era singolarmente inaridita. Le sue novelle di ambiente inglese non valgono assolutamente nulla; spesso sono costruite su di un gioco di parole e si rimane male a vedere uno stile, pur sempre vigoroso e nerboruto, esser adoperato per delle tali inezie. Come in
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tutte le cose umane vi è però una eccezione: They, una
brevissima novella che è un capolavoro di delicatezza e di eeriness. Occorre considerare Kipling come morto nel 1910. Il segno della sua arte però resterà indelebilmente inciso nella letteratura inglese e Kim, Mowgli, Bagheera, il Gatto Maltese e molti anonimi personaggi delle irruenti novelle, tutti, uomini e bestie, sono entrati a far parte
della mitologia moderna.
GEORGE MOORE
George Moore (1852-1933) costituisce un’altra aggiunta alla serie numerosa degli scrittori inglesi dilettanti. Ed è l'aggiunta meno felice. Occorre parlarne però perché la sua fama e la sua influenza furono grandi, benché basate in special modo su di una atmosfera di scandalo letterario che lo avvolse tutta la vita e che del resto gli faceva piacere. Scandalo, mi affretto ad aggiungere, esclusivamente letterario perché la vita privata fu normalissima. Nato in Irlanda da ricchissima famiglia, a diciotto an-
ni se ne andò a Parigi e lì visse a lungo frequentando gli ambienti letterari che erano allora, in Francia, tanto vivi
e sprizzanti genialità. A contatto con Zola, Verlaine, Mallarmé, Cladel e Dierx e con cento altri, che ignoti re-
stano al mondo dei posteri ma che fortemente lo influenzarono, egli contrasse tre malanni che lo resero inviso al pubblico inglese: lo snobismo intellettuale: divenne un bighbrow. Dopo di questo una certa abitudine bohémienne, di trasandatezza nel vestire, nei modi e
nel parlare. E dopo ancora, e più grave di tutto, un gusto per il naturalismo, per la rappresentazione dei fatti nudi e crudi che indignò il pubblico inglese. (Non dimentichiamo che siamo verso il 1880, in pieno vittorianesimo e neppure tanto «tardo».) A ciò si aggiunga una
lingua irlandesemente mordace che poneva in ridicolo gli inglesi e disegnava di loro caricature penosissime. Tutto questo inoltre era notissimo prima che, con la consueta neghittosità (irlandese anche questa), egli aves-
se pubblicato alcunché. Egli era Fafner rintanato nella caverna del quale si aspetta l’uscita deleteria. Quando
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cominciò a pubblicare i suoi romanzi, i vari Sigfrido erano di già all’erta con le loro Nothung di carta stampata brandite. Questi romanzi sono cinque: A _Mummer's Wife, Esther Waters, Evelyn Innes, Sister Teresa e The Lake, il primo del 1885, l’ultimo del 1905, e ognuno di essi su-
scitò putiferi. Non poteva dirsi che fossero mal fatti: erano penetranti, scritti con accurata limpidezza e purità di stile. Il secondo, Esther Waters, è vicino ad essere un capolavoro, narrando, come fa, senza finzioni sentimentali e senza economia di arrischiate scene, la dolorosa storia
di una servetta resa incinta dal padrone. Furono accusati di essere immorali e di tendere a macchiare l’ermellinea bianchezza dell’anima britannica. E contro di essi fu pronunciata la scomunica: l’esclusione dalle biblioteche circolanti che in Inghilterra, allora, assorbivano i tre quarti della circolazione libraria. Moore, naturalmente,
se ne infischiò, anzi in un breve opuscolo rese noto quanto piacere gli facesse che i suoi romanzi non cadessero più «fra le mani più lubriche di quanto sembri» delle vecchie zitelle, ornamento e sostegno dei gabinetti di lettura. Continuò a vivere in Francia e in Italia, fece lunghe permanenze in Inghilterra frequentando salotti e cenacoli, e intanto badava a formarsi una collezione di
quadri impressionisti raccolti fra i suoi amici Manet, Degas, Seurat, Monet e Sisley. Nel 1906 ricominciò a scrivere libri di memorie (Memoirs of my Dead Life, Ave, Salve e Vale) che sono preziosissimi e equivalgono alle memorie dei Goncourt per la letteratura inglese. La dose di elegante veleno che vi è racchiusa è sbalorditiva. Nel 1916 doveva ancora una volta stupire il pubblico inglese, che purtuttavia aveva subito una grande evoluzione, con il suo ultimo romanzo The Brook Kerith che è un’opera d’arte di haut got nella quale nientemeno viene rappresentato Cristo, sfuggito alla crocifissione e
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scandalizzato nell’ascoltare i mutamenti recati alla sua dottrina dalle predicazioni di Pietro e di Paolo. L’opera, che è di alto valore ideale ed artistico, creò un nuovo
scandalo che Moore poté assaporare durante sedici anni mentre continuava a far collezione di quadri. Soltanto di recente essa ha cominciato ad esser ripubblicata nelle edizioni a buon mercato, segno indubitabile del perdono concesso. Malgrado il suo simpatico atteggiamento indipendente e benché egli abbia scritto almeno due romanzi di primo rango, Moore non soddisfa. Il suo talento fu indub-
biamente grande ma nella sua opera si nota una doppia infiltrazione di naturalismo e di simbolismo che, eccel-
lenti entrambi, creano ineguaglianze e dissonanze quando fusi nella medesima opera. Moore non poté mai evadere dal proprio dilettantismo.
WILLIAM BUTLER YEATS E IL «CREPUSCOLO CELTICO»
Pochi anni prima che finisse l’Ottocento un vento soffiò dall’Occidente sopra l'Inghilterra. E chi leggeva si accorse che qualcosa di nuovo e di strano si era posto in
cammino, qualcosa di altrettanto originale del romanticismo di Coleridge e di Byron cento anni prima. Questa brezza veniva dall’Irlanda e recava voci di poeti che cantavano vecchie leggende di un popolo che si credeva morto ed era vivo, pervase di un sentimento di malinconia e di una dolcezza di ritmi che giustificava il nome del movimento: «Celtic Twilight». È vero che l'Irlanda non era una novità nello svolgersi della letteratura inglese. E abbiamo incontrato parecchi irlandesi fra i più illustri scrittori del passato. Ma erano, appunto, degli irlandesi sradicati che svolgevano la loro attività in Inghilterra e che, pur recando un afflusso nazionale delle qualità satiriche e nello stesso tempo fantastiche della loro terra d’origine, arricchirono le lettere
inglesi senza porvi come controaltare quelle dell’Eire. Questo nuovo gruppo di scrittori irlandesi si proponeva anche, a scopo politico, di risuscitare l’antica storia e la vecchia letteratura del loro paese e di scrivere, al lume delle tradizioni irlandesi, delle opere moderne impregnate dello spirito e, per quanto ciò fosse possibile, del linguaggio autoctono. Questo movimento avrebbe certo conservato il proprio valore di incitamento politico ma dal punto di vista dell’arte sarebbe rimasto confinato nei modesti limiti del folklore se ad esso non avessero partecipato grandi poeti come Yeats e Synge e scrittori di notevole ingegno
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quali «E», Lady Gregory e Douglas Hyde. Così come venne a costituirsi, il «Celtic Twilight» non soltanto diede la necessaria spina dorsale intellettuale al movimento autonomistico irlandese ma portò qualche cosa di squisitamente vago e una nostalgica malinconia nella letteratura dell’Inghilterra avversaria. Occorre infatti dire che il movimento letterario irlandese venne seguito con intensa simpatia in Inghilterra anche da chi non voleva ravvisarne i lineamenti ostili. La «Irish National Literary Society» fu fondata nel 1891, «The Gaelic League» nel 1893: guidata da Douglas Hyde, si sforzava di risuscitare la vecchia lingua gaelica parlata ormai soltanto da pochi pescatori e pastori dell’estremo ovest. E soprattutto l’«Irish Literary Theatre», sorto nel 1899, con le sue serie di rappresentazioni al famoso Abbey Theatre di Dublino produceva spettacoli che per valore di testi e valentia di interpreti non avevano rivali in tutto il mondo anglosassone. Erano quelli gli anni nei quali Shaw s’imponeva sulle scene inglesi; e benché la sua fama si eserciti su un più vasto pubblico, non può esservi dubbio che la poesia teatrale risiedesse allora all’Abbey Theatre più frequentemente che in Haymarket. I soci di queste società letterarie irlandesi si sentivano davvero investiti di una missione,
quella di risuscitare e di render noto e utile alla poesia quanto ancora rimanesse di specificamente irlandese nelle memorie del passato e nella vita e nei pensieri di quella parte del popolo non anglicizzata; di penetrare le credenze e i segreti nascosti che giacciono in tanta copia
nell’anima del popolo di Erinni; di riconciliare ed esprimere queste leggende col più aspro realismo attuale e allo stesso tempo enunciare tutto questo in una lingua
speciale che riuscisse a fondere insieme l’inglese e gli essenziali giri di frase irlandesi. Compito colossale che trovò operai degni di esso: Lady Gregory, «E», Synge e
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Yeats che ne fu l’iniziatore e, insieme a Synge, il più celebre dei componenti del gruppo. Questi quattro formarono il nucleo di una specie di sacerdozio e poiché erano artisti riuscirono, nelle loro opere, a bruciare i loro propositi e a fare opera universale servendosi di soli materiali irlandesi. William Butler Yeats (1865-1939) fu l’anima del movimento che egli incarnò ma sorpassò anche di gran lunga, tanto che produsse le sue opere migliori quando la causa per la quale aveva combattuto per cinquant'anni aveva perduto, con il trionfo, il proprio significato. Egli alternava la propria residenza tra Londra e VIrlanda nella quale si spingeva nelle desolate coste occidentali, come fra le verdi campagne del centro e i laghetti incantati del sud. L'ambiente irlandese, imbevuto di misticismo e di credenze nel soprannaturale, lo spinse a uno studio delle credenze popolari e la sua prima opera fu una raccolta dei Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry, opera deliziosa nella quale non si sa se più ammirare la sorridente bizzarria dei racconti popolari o la forma perfetta che Yeats ha saputo dare loro. Si iscrisse alla Società Ermetica e proseguì lunghi studi sul buddismo, lo spiritualismo e l’astrologia che finirono col fargli acquistare la fama di mago. Ma benché il suo interessamento a questi argomenti durasse quanto la sua vi-
ta ed egli parlasse abitualmente delle proprie amicizie con alcuni morti, sapeva mantenere un freno sulle proprie fantasie. Il suo genio poetico si fermava a mezza strada fra la credenza e la similitudine e sapeva preservare così la propria essenza sibillina che ne costituisce il fascino. Il suo lungo amore con la bellissima Maude Gonne
costituisce il fondo della sua poesia, tanto più che nella pelle lattea, negli occhi nerissimi e nella chioma tizianesca della sua amica egli vedeva, come disse, l’Irlanda incarnata, come la vedeva pure nella perpetua agitazione,
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nello spirito malizioso di essa. «A burning cloud» la chiamò una volta. E debbo dire che dagli innumerevoli ritratti che di lei ci sono rimasti non si può dargli torto: essa rimane nella mia memoria la più bella creatura che io abbia visto, degna figlia di quell’isola che va famosa per la bellezza dei suoi cani, delle sue donne e dei suoi cavalli, cioè dei tre massimi doni (nell’ordine) che la
Natura abbia dato agli uomini. Per amore di Maude e dell’Irlanda da lei personificata egli si dedicò tutto all’organizzazione del teatro di Dublino. La straordinaria seduzione dei suoi versi e dei loro romantici temi e la dolcissima distillazione della sua esperienza emotiva commossero il pubblico inglese non meno di quello irlandese; essi si accorsero dell’esistenza di una nuova
voce lirica che aveva una essenza fey, una scontrosa tenerezza, qualche cosa che ancora «mancava alle loro anime», come disse Henry Nevinson. Il simbolismo della Rosa (che è triplice in quanto è l'Irlanda, è Maude ed è l’anima umana) magnificamente espresso («Red Rose, proud Rose, sad Rose of all my days»), le note
profonde della canzone di Innisfree, i selvaggi poemi d’amore del Wind among the Reeds (1899) divennero familiari ad ogni anima sensibile su qualsiasi sponda del canale di San Giorgio. Yeats sembrava allora un poeta che esprimesse le malie di un antico bardo con il linguaggio moderno di un Rossetti o con quello fuori del tempo di Blake. Scrisse parecchio per il Teatro Nazionale Irlandese; non era però un drammaturgo. Le sue opere teatrali sono deboli proprio per la ragione opposta alla debolezza di tante opere di Shaw: esse sono in fondo delle magnifiche liriche fatte ben più per esser lette che rappresentate: Countess Cathleen, The Land of Hearth's Desire, The Shadowy Waters, Cathleen ni Houliban, The Pot of Broth, The King's Threshold, On
Baile’s Strand e Deirdre, tutti capolavori poetici, tutti mediocri successi a teatro.
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Yeats rimane, in quegli anni nei quali la poesia di Hopkins era ignota, la più alta voce lirica che sia espressa in inglese. Egli possiede una musicalità, una luminosità di visioni, un raptus quali in pochi altri poeti si trovano. E la sua poesia migliorava e s’irrobustiva col trascorrere degli anni: le sue ultime raccolte di liriche sono le migliori: esse ci mostrano uno Yeats scabro, uno
Yeats che ha posto i piedi sulla terra, che vive disilluso ma ancora innamorato delle donne, ancora misericor-
dioso degli uomini. Cominciò quale grande lirico musicale; finì quale grande lirico disegnatore. E i suoi poemi sulla guerra civile ci mostrano un animo altamente commosso, forse
un po’ spaventato dalle violenze che, da sfere altissime, aveva contribuito a scatenare.
Poeta, evidentemente, da leggersi; ma poeta, mi avvedo, assai difficile da capire; non per questioni di lingua, «perché anzi egli è chiaro, ma perché non ci si può avvicinare a lui senza una chiara comprensione di ciò che significasse l'Irlanda, del valore spirituale della cultura irlandese da San Colombano a oggi. Un'altra grande figura del movimento letterario irlandese è quella di J.M. Synge (1871-1909). Egli studiava a Parigi e aveva venticinque anni quando Yeats lo incoraggiò ad andare alle isole Aran (quelle minuscole bri-
ciole dell'Irlanda immerse nell'Atlantico e dalle quali Ford ha tratto un film di alta poesia) per cercarvi una vita che non era mai stata espressa nella letteratura. Synge seguì il consiglio, dimorò a lungo nelle Aran e nelle desolate ma maliose contee occidentali d'Irlanda (Wicklow e Kerry) e benché non gli restassero più che pochi anni di vita estrasseda questo tuffo nel più tradizionale territorio del suo popolo due libri di viaggio, parecchie liriche e traduzioni di canti popolari e sei drammi: tutti dei capolavori.
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L’ultimo dei drammi, Dezrdre of Sorrows, è il meno
riuscito perché in esso Synge ha abbandonato il mondo dei contadini irlandesi che conosceva tanto bene per seguire il fascinoso appello dei vecchi eroi che avevano già ispirato «/E» e Yeats. Ma per Synge queste vecchie, fosche leggende costituivano una remora: esse restringevano la sua fantasia e non permettevano lo spiegamento del suo personalissimo, severo humour. Quel che Synge sapeva veramente fare era di cambiare in mito il contadino qualunque, ma egli ignorava l’arte di far parlare gli eroi come contadini. Ma là dove poté sbrigliare il proprio talento, quello di dipingere la vita contadina con un realismo implacabile, quello di poetizzare senza deformarlo il linguaggio del popolo, quello di evocare l’humour insieme alla più chiusa tristezza, là egli scrisse capolavori senza ombre. È vero che l'Irlanda è il paese ideale per chi, dipingendone i costumi, voglia fare opera d’arte: lì egli trova una immaginazione popolare focosa, magnifica, spiritosa e tenera. Synge sta a rappresentare una decisa reazione al goody-goodism vittoriano che si era in qualche modo prolungato anche nel principio del secolo. «Può quasi dirsi» egli scrisse «che prima che la poesia possa ridiventare umana essa deve apprendere ad esser brutale.» E per brutalità egli non intendeva «la brutalità dei realisti francesi o inglesi, la bruttezza, il puro e semplice fatto senza bellezza che appunto perché privo di bellezza non è vero, ma la fedeltà alla verità comune, la conoscenza
dei root facts, i foschi fatti primari, questa dura base di fatti che deve essere accettata prima che la immaginazione possa dare i suoi frutti». Nel suo Playboy of the Western World (1907), che è forse, e senza forse, una delle più alte opere drammatiche inglesi dagli Elisabettiani a Eliot, questa franca brutalità fu trovata eccessiva dal pubblico dell’Abbey Theatre che protestò vivacemente. Nella storia di questo
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Letteratura inglese
spavaldo e stravagante giovanotto che gode di affettuosa popolarità nelle campagne perché si vanta di aver ucciso il proprio padre, e che viene dopo boicottato quando si apprende che il padre non era stato affatto ucciso, si volle vedere una satira dell’entusiasmo immoralistico degli irlandesi. Era una satira infatti ma non del carattere irlandese,
bensì
della loro immaginazione.
(Pegeen,
l’amorosa del Playboy, lo dice: «There is a great gap between a gallous story and a dirty deed».) La commedia, sia come sia, procede trionfale per i suoi tre atti, trascinata dalla verve pensosa del poeta e dal mirabile linguaggio che egli ha saputo crearsi, paragonabile (per spiegarci).a quello di Verga nei Malavoglia. Nel 1904 vi è un altro capolavoro, Riders to the Sea, col superbo personaggio centrale di Maurya, la vecchia madre che ha perso quattro figli in mare e che vive quasi folle dal timore che anche l’ultimo perisca annegato. Ma quando la tragedia avviene essa la sopporta con fortezza e si riconcilia con il fato. «Bartley will have a fine coffin out of the white boards, and a deep grave surely. What more can we want than that? No man at all can be living for ever, and we must be satisfied.» Dallo squallore di quel desolatissimo villaggio del Kerry Synge ha saputo evocare un finale che ha la solennità di una tragedia greca e la sua universale umanità.
GILBERT KEITH CHESTERTON
Prima di parlare di G.K. Chesterton sarà utile discorrere un po’ della figura degli scrittori cattolici inglesi. Fra lo scrittore cattolico italiano e quello inglese (0 per dir vero di qualsiasi altro paese) corre una grande differenza. Lo scrittore italiano che si professi chiaramente cattolico è sempre uno scrittore «moscio». Lo scrittore inglese (o francese, o tedesco, o americano) che
si batte per la Chiesa cattolica è sempre uno scrittore «duro». Ciò dipende dal fatto che in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti il cattolicesimo è una religione di minoranza di fronte ad altre confessioni e gli occorre decisione, aggressività e coraggio per affermarsi e mantenersi. In Francia il cattolicesimo è anch'esso in minoranza non già di fronte ad altre forme di religione ma di fronte alle varie sfumature della miscredenza. Anche in Francia quindi necessita delle stesse virtù nei fedeli e negli scrittori che vogliano esporre le loro convinzioni. Da ciò la magnifica fioritura degli scrittori francesi cattolici da un secolo a questa parte, fioritura che, iniziatasi con Maistre e Bonald (i maestri) ci ha dato Lamennais, Mon-
talembert, Veuillot, Bloy, Péguy per arrivare ai nostri contemporanei Bernanos, Mauriac e Claudel, su per giù tutti grandi scrittori, ad ogni modo certamente tutti scrittori da combattimento, con speroni e taglientissime spade. Siamo lontani dai nostri Fogazzaro, Salvadori e Fausto Maria Martini, nei quali non si avverte più l’incenso del tempio ma il men buono odore della sacristia. Una eccezione è costituita dal padre Bresciani, che nessuno legge benché fosse un grand’uomo, e dagli attuali
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Papini e Giuliotti, nei quali per altro l’irruenza diviene troppo spesso retorica e sembra aver piuttosto preso la
veste cattolica anziché l’anima. Gli italiani sono troppo poco credenti anche per essere anticattolici; e occorre confessarlo: contro chi dovrebbero sguainare le loro spade i pensatori cattolici? Maistre è sorto come contrappeso a Voltaire e Veuillot non sarebbe esistito senza Renan. Contro chi dovrebbero battersi da noi i cattolici: contro Podrecca? Non ne vale la pena. La lotta contro Giovanni Gentile non poté avvenire perché questi era non unicamente anti-religioso ma anche fascista. E così si perpetua nell’ambiente intellettuale cattolico quella temperatura di brodo tiepido che favorisce la germinazione dei microbi ma non dei polemisti. (Malgrado la temperatura e i buoni propositi la prolissità mi ha preso la mano.) Ma non dei francesi o degli italiani dobbiamo occuparci, bensì degli inglesi. Da noi il cattolicesimo, oltre ad essere la confessione del novantasette per cento della popolazione, esce da un periodo di predominio che, evidentemente, non era producente. Quindi il cattolico italiano è pieno di rimorsi inconsci ed ha sempre l’aria di scusarsi di esserlo. In Inghilterra i cattolici sono il cinque per cento ed escono da un lungo periodo di persecuzione, sanguinosa in principio, patrimoniale e politica
dopo, vessatoria sempre, che li pone nella redditizia posizione di accusatori. Aggiungete a questo che a contatto con altre più austere confessioni il cattolicesimo inglese ha abbandonato quasi tutte le men nobili manifestazioni esteriori e scivola via sulle più astruse definizioni dogmatiche; e inoltre se pensate che i lunghi secoli di persecuzione hanno allontanato i tiepidi e i cattolici «per abitudine» vi renderete conto come esser cattolici inglesi sia cosa assai differente, cosa quasi opposta, all’esser cattolici italiani. Il clero è scarso ma magnifico; e sotto le
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vesti in tutto simili a quelle del clero anglicano porta in giro autentiche virtù cristiane. E gli scrittori seguono queste direttive generali. Non vi parlerò del cardinale Newman, eccellente scrittore ma un po’ lontano nel tempo, né di Hopkins che richiede un discorso separato e la cui enorme importanza è del resto esclusivamente letteraria. Vi parlerò soltanto di Chesterton e del gruppo esiguo ma valoroso che sotto di lui si raggruppò e che dopo di lui continua a propagandare le sue idee. Chesterton (1874-1936) fu poeta di vaglia nel suo genere non poetico, e romanziere e novellatore di eccelso valore; ma fu soprattutto, tanto come poeta che come
romanziere e autore di saggi e articoli, polemista valorosissimo e instancabile. AI cattolicesimo formale egli giunse tardi: si convertì pienamente non molti anni prima della morte. Ma da sempre aveva polemizzato per ciò che gli stava a cuore e che (per lui) s’identificava col cattolicesimo: il rispetto della tradizione, la difesa dell’individualità umana minacciata dal socialismo, la difesa della carità cattolica-
mente intesa contro ogni forma d’ipocrita beneficenza e di statalizzazione della previdenza. Suoi avversari secondari furono i «proibizionisti» e i colonialisti. È bastata, evidentemente, l’elencazione dei suoi ber-
sagli per farvi capire in chi s’incarnasse il suo nemico. In G.B. Shaw. E fu una grande epoca quella fra il 1910 e il 1930, durante la quale questi due super-campioni della polemica si battevano sulla pedana della stampa dinanzi al pubblico inglese, il quale con le sue abitudini sportive applaudiva imparziale ai bei colpi, da qualsiasi parte venissero. Fedeli alle tradizioni i due avversari erano amicissimi e quando ciascuno di essi immaginava una bella «uscita» che non gli poteva servire pate la comunicasse all’altro
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per telefono perché l’avversario se ne servisse nei suoi articoli e non venisse perduta. Fair play. Cominciamo dalle poesie. Esse sono fra le più divertenti che esistano. Composte su metri presi alle antiche ballate o presi in prestito da Kipling, esse snodano una serie dei più bei jokes che siano mai stati scritti in versi o in prosa. Sarebbe inutile elencare tutte le sue raccolte di versi. Le migliori sono The Ballad of tbe White Horse (1911) e Wire, Water and Song (1915) che fra l’altro contiene quelle poesie inserite nel romanzo The Flying Inn che sono fra le più spassose. In un genere più sostenuto The Ballad of St Barbara (1922) e soprattutto Lepanto raggiungono in qualche momento la vera poesia. I romanzi e le novelle di Chesterton sono moltissimi e molti sono inutili dal punto di vista artistico, se si astrae
dal loro impeto polemico sempre notevolissimo. Fra i migliori io porrei Maralive, The Ball and the Cross, The
Napoleon of Notting Hill. Fra i peggiori appunto quel Flying Inn che contiene invece le liriche più estrose dell’autore. Ma intendiamoci, buoni o cattivi tutti sono
divertentissimi, pieni di brio e presentano caricature di persone immaginarie o reali disegnate con diabolica malizia. Ma le migliori opere di Chesterton (fra quelle narrative) sono The Man Who was Thursday e la serie di racconti di Father Brown. Il primo (come del resto quasi tutti i racconti di Chesterton) è un conte philosophique di Voltaire in ambiente mondano e, soprattutto, col bersaglio mutato. In esso s'intende deridere la scienza moderna e la filosofia sulla quale essa si appoggia, che finisce con l’identificare il Male al Bene. Non vi possono essere due stili più differenti di quelli di Chesterton e di Voltaire: scarno, aereo quest’ultimo quanto quello è denso e rimpolpato di parole di gergo. Ma a parte l'estrema maliziosità comune ad entrambi, essi hanno, l’uno e l’altro, il segreto del movimento rapidissimo che
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non lascia riflettere e la facoltà di saper incarnare in personaggi viventi le più astratte opinioni filosofiche. Il buon umore continuo, l’attitudine caricaturale, le
subitanee frasi rivelatrici d’inaspettate profondità teologiche fanno di questo romanzetto un capolavoro. Capolavori pure sono quasi tutte le novelle poliziesche di Father Brown. Può dirsi anzi che questo Father Brown sia, insieme a Sherlock Holmes, la sola creatura del ro-
manzo poliziesco che raggiunga l’arte. Egli è il prete-poliziotto che va cercando non tanto il delitto quanto il peccato e che talvolta trova più «peccato» nella vittima che nel delinquente. Chesterton è riuscito anche a disegnare un «ambiente» attorno a Father Brown che si discosta grandemente da quello esistente (cioè non esistente) negli altri libri gialli. Tranne quando interviene l’antipaticissimo Flambeau, il criminale pentito, tutte queste no-
velle finiscono con lo scoprire non solo un criminale ma soprattutto una sottile verità psicologica. Voi, naturalmente, da buoni italiani che desiderate la
letteratura «seria» per poter più serenamente condurre una vita non seria, arriccerete il naso. Ma avete torto.
Una buona serie di letture chestertoniane vi farà gran bene. La massima parte dell’opera di Chesterton si trova però al di fuori delle poesie e della narrativa. Vi sono diecine di volumi di raccolte di articoli, almeno una die-
cina di volumi di... non saprei come chiamarle, «opere teoretiche» per così dire. La più notevole di queste è Orthodoxy, che è addirittura la migliore sua opera. È un lungo saggio sull’ortodossia, non in senso puramente religioso, ma anche sull’ortodossia della vita, su quello che noi chiamiamo il «buon costume». L'argomento può sembrare un po’ grigio; aprite il volume ad una pagina qualsiasi e rimarrete incatenati sino alla fine. Lo spirito paradossale dell’autore ci presenta le verità più trite con la testa in giù in modo che esse ci appaiano inedite. At-
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traverso paradossi, scherzi e impennate di poesia la tesi in favore della morale tradizionale, del vecchio modo di vivere, di una semplicità di esistenza («cercate di dimi-
nuire il prepotere delle macchine e se proprio non vi trema la mano radetevi col rasoio comune») appare chiara. E in fondo la vecchia Inghilterra l’ha ascoltata. Con l’andare degli anni la produzione di Chesterton andò scemando di valore: Heretics è ancora buono ma nettamente inferiore a Orthodoxy; e la sua biografia di San Francesco (biografia così come la poteva intendere uno spirito irruente come il suo) e le sue relazioni di un viaggio negli Stati Uniti sono nettamente cattive, così come lo sono i suoi ultimi romanzetti, The Club of Queer Trades, The Return of Don Quixote, The Man Who Knew Too Much. Oltre a questi vi è una serie numerosa di raccolte di articoli che seguono la stessa stra-
da: eccellenti i primi, men che mediocri gli ultimi che patiscono di quel male al quale ho già accennato: il soverchio e defatigante accumularsi di motti di spirito. Ma nel suo complesso l’opera di Chesterton è quanto mai interessante, divertente e nutriente; e la conoscenza,
magari soltanto delle sue quattro o cinque opere migliori, è indispensabile a chi non voglia credere che il positivismo, il materialismo, l’arguta ma arida mentalità di
Shaw si affermassero incontrastati in Inghilterra. Stavo per dimenticare Dickens di Chesterton, che è una delle sue opere più riuscite: da questa biografia critica del grande romanziere si inizia la sua rivalorizzazione. Chesterton ha scritto anche delle notevoli introduzioni critiche a ciascuna opera dickensiana pubblicata nella «Everyman», la grande collezione di classici inglesi.
Quasi altrettanto notevole del suo grande amico Chesterton fu Hilaire Belloc (1870-1953), un francese che
aveva compiuto gli studi a Oxford e che finì col naturalizzarsi inglese. Come poeta anzi fu addirittura migliore
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di Chesterton: i suoi poemi seri (ne scrisse una infinità di satirici, graziosissimi) sono fra i migliori del suo tempo, e i suoi non molti sonetti sono di una rara perfezione pur nella loro modernità di idee. Essi mostrano in modo trionfale come un poeta modernissimo può, se lo sa fare, servirsi dei vecchi metri. Cattolico fervente anche lui, combatté fianco a fianco con Chesterton le più accanite polemiche e scrisse anche lui dei romanzi per deridere gli avversari. Ma mentre Chesterton se la prendeva con le idee e i principi generali, Belloc attaccava le nuove classi dirigenti e le loro combinazioni politiche in modo virulento. Parecchi suoi romanzi furono pubblicati con le inesperte ma spiritosissime illustrazioni disegnate da Chesterton e rimangono quale spassosa documentazione del decadimento morale e politico che in Inghilterra seguì alla prima guerra mondiale (The Green Overcoat, A Change in the Cabinet, Pongo and the Bull). Belloc esercitò anche una viva attività di storico. Dotato di vivissima intuizione storica egli scrisse alcune biografie di prim'ordine: Danton, Wolsey, Cromwell. Chiedere ad esse imparzialità di giudizio sarebbe vano: Belloc eccelle anzi nel presentare i fatti (rigorosamente controllati) in modo particolare, così da far fare bella o
brutta figura al biografato secondo che gli sia simpatico o no. Nella biografia di personaggi di tempi remoti il metodo (indubbiamente brillante) potrebbe passare senza troppi contrasti. Belloc però si cacciò nella testa il desiderio di scrivere storia militare: egli volle provare che la famosa storia di Oman sulle guerre inglesi in Spagna al tempo di Napoleone era un mucchio di inesattezze e si fondò specialmente su argomenti tecnici (portata dei fucili e delle artiglierie, distanza fra luogo e luogo che egli andò a misurare sul posto, ecc.). Il risultato fu impressionante: secondo i libri di Belloc, Oman era una specie di mentecatto. Però Oman mentecatto non era,
ed inoltre aveva dietro di sé la grande forza dell’Univer-
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sità di Oxford, in un college della quale insegnava storia moderna. Ero in Inghilterra allora e potei seguire il putiferio che si scatenò. La cosa durò mesi e finì nel modo più inglese che si possa immaginare: Belloc e Oman partirono per la Spagna seguiti ognuno da una trentina di amici e discepoli. E lì, proprio sul terreno della battaglia e alle stesse date (era il mese di agosto!) questi due esercitini eruditi riprodussero, schematizzandole, le vecchie battaglie di Talavera de la Reina e di Torres Vedras. E poiché il nocciolo della lite consisteva nell’efficienza degli armamenti di allora, ognuno dei «combattenti» era armato di vecchi fucili napoleonici presi in prestito ai musei. Lo spasso non conobbe più limiti: ogni sera i giornali pubblicavano bollettini emanati da Belloc-Napoleone o da Oman-Wellington: «British troops in advance towards Salamanca» oppure: «French infantry beaten as it attacks Badajoz». Il governo spagnolo (sprovvisto di umorismo) si seccò e pregò di smetterla. E così non si poté mai venire a sapere da che parte stesse veramente la ragione. Belloc al ritorno assicurò al pubblico che «both armies have disturbed cellars but left girls alone». Il che è meritorio ma poco concludente.” E poiché siamo nell’argomento degli scrittori cattolici è il momento per parlarvi degli altri tre contemporanei che formano questa notevole suddivisione del movimento letterario inglese. Veramente gli altri due, perché Graham Greene merita (ahivoi!) un reparto separato. * L’aneddoto, malgrado la garanzia di una testimonianza diretta da parte di Tomasi, è sostanzialmente fantastico e rientra in un procedimento tipico del Tomasi romanziere: quella sovrapposizione e contaminazione di fatti realmente accaduti e di personaggi autentici che gli rende possibile, in questo come in altri casi, l’inserire nella compilazione della Letteratura inglese aneddoti certo inventati, ma del pari verosimili.
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Il primo di questi due è Evelyn Waugh (1903), che illustra assai bene in se stesso quanto vi ho detto del senso di responsabilità degli scrittori cattolici non italiani. Finché Waugh è stato uno scrittore come tutti gli altri, anglicano o agnostico, egli produceva dei romanzetti estremamente divertenti e pieni di spirito, nei quali s'intravedeva talvolta un più vigoroso sfondo intellettuale, ma che insomma lasciavano il tempo che trovavano. Così Decline and Fall, Vile Bodies, Black Mischief e
Scoop (1938), dei quali del resto vi raccomando vivamente la lettura perché i due primi rappresentano assai bene la parte più frivola e modernizzata della società inglese attuale, mentre gli ultimi due sono una violenta satira contro l’Abissinia e il suo Imperatore in particolare (Waugh era ad Addis Abeba quando vi entrò Badoglio); e tutti e quattro di assolutamente eccezionale potere umoristico. Ma quando, dopo Scoop, egli entrò nella Chiesa cattolica la musica cambiò e The End of the Letter, The Loved One e Brideshead Revisited (senza contare la biografia di Sant'Elena e quella, commoventissima e seria, del gesuita Campion) sono libri che, non perdendo niente del brio e della vivacità abituali, discutono problemi seri e quando satireggiano lasciano ben forte il segno. È, Waugh, uno scrittore in pieno sviluppo e mi dispiace di esser costretto ad ignorare le sue opere più re-
centi. Egli è del resto ampiamente tradotto e rabbrividisco a pensare cosa devono esser divenuti in italiano (lingua inamidata ed aulica) i suoi arditi scherzi verbali. Bruce Marshall deriva direttamente da Chesterton; è
privo però del vigore polemico del maestro. Tuttavia alcuni suoi libri sono buoni; così quel Father Malachy's Miracle nel quale vuol dimostrare l’inutilità del più potente miracolo se le anime degli spettatori non sono di già in stato di grazia; e soprattutto quel Ye/low Tapers
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for Paris che è amarissima descrizione del progressivo decadimento politico e sociale francese fra le due guerre e si chiude con una impressionante descrizione della débacle dell’anno 1940 che è riuscita a colpirmi, sia pure in una traduzione italiana adorna di almeno tre evidentissimi strafalcioni per pagina.
e
GEORGE BERNARD SHAW
Gli inglesi passano, a giusta ragione, per essere un popolo silenzioso. Però essi hanno prodotto, nel nostro secolo, quattro dei più grandi e inesauribili conversatori che siano esistiti: Chesterton, Wells, Huxley e Shaw, massi-
mo fra tutti. E intendo dire conversatori non solamente verbali ma gente cui le chiacchiere chilometriche scambiate fra amici non bastano: gente che è stata costretta a scaricare in migliaia di pagine le chiacchiere ancora inevase. A questa favolosa possibilità di chiacchierare, in salotti e in libri, essi dovettero la immensa popolarità che li circondò perché essa dovette apparire come una dote magica a quel popolo taciturno, tanto più che erano chiacchiere di valore, nutrite di cognizioni vastissime e condite dell’humour più genuino. Ma erano tante queste «ciacole» che esse impedirono quasi sempre a questi quattro valentuomini di raggiungere, nelle loro opere, l’arte che stentava a respirare sotto il mucchio di coriandoli che la ricopriva; e adesso che tre su quattro sono scomparsi la loro memoria tende ad affievolirsi. «Vi è un
tempo per parlare e un tempo per tacere.» Questo enunziato di saggezza salomonica restò loro incompren-
sibile sulla terra; speriamo che nei Campi Elisi abbiano trovato il tempo del silenzio; speriamolo, voglio dire, per gli altri ché per loro il dover tacere equivarrà all’inferno. Shaw (1856-1950) era un irlandese purosangue, e la genuinità della sua discendenza è attestata dalle caratteristiche dei suoi genitori, che sono una silloge di quell’affascinante popolo di grandi conversatori: il padre beone e
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sempre a corto di quattrini, lamadre musicista e sognatrice; tutti e due conversatori pieni di spirito. Quando aveva vent'anni se ne andò a Londra per far fortuna e guadagnò sei sterline in nove anni; il che anche allora era poco. Ma fu, in realtà, felice: divenne membro di una infinità di società (per l’affrancamento delle donne, per la conversione degli Ottentotti, per la protezione degli animali e anche della Società degli «Zetetical» che volevano giungere alla Z, all'estremo limite, delle possibili riforme sociali), il che gli diede possibilità illimitate di chiacchierare. Lo dice lui stesso in un libretto di memorie pubblicato un anno prima della morte: «I haunted all the meetings in London where debates followed lectures. I spoke in the streets, in the parks, at demonstrations, anywhere and everywhere possible». Ma non soltanto parlava, leggeva anche: assorbì migliaia di volumi al British Museum che gli fornirono materia per rinnovata conversazione. Con la consueta modestia egli dice: «Mi nutrivo di carta ed emettevo fiamme»; io direi
piuttosto fuochi di Bengala. Nel 1884 incontrò Sidney Webb, l’affascinante uomo di lettere che aveva fondato la «Fabian Society», madre
del partito laburista. E Shaw divenne subito ma non stabile socialista, si diede allo studio stioni economiche in generale e di Karl Marx lare. Oceani per navigazioni di chiacchiere. con il suo indubbio talento l’affetto di Sidney
un focoso delle quein particoConquistò Webb ma,
come dice lui stesso, «as 1 was and am an incorrigible histrionic mountebank, and Webb was the simplest of geniuses, I was often in the centre of the stage, whilst he
was invisible in the prompter’s box». Si intravedono Himalaya di chiacchiere. Ma altre influenze, ben più energiche di quella malvacea di Sidney Webb, erano assorbite dal giovane Shaw nella serena rotonda della British Library. Anzitutto quella di Samuel Butler, del quale vi ho già parlato: esso
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gli apparve come la più grande mente del secolo e specialmente lo attirò per la sua avversione al Darwinismo, che veniva a cacciare qualsiasi idea di un «proposito» nell’universo. Gli piacque anche la crociata di Butler contro le convenzioni morali e la vita di famiglia; gli piacque la formulazione di Butler della «Forza vitale» che egli doveva di nuovo esaltare quando si incontrò con l’«élan vital» di Bergson. Dopo Butler, come era fatale, Shaw doveva incontrare Nietzsche. E qui spero vorrete tollerare che io parli dell’influenza su Shaw di questo vostro particolare (e del resto ignorato) nemico. Nietzsche affascinò in principio Shaw per la parte demolitrice della sua dottrina. Shaw aveva di già letto attacchi contro il conformismo e l’ipocrisia del cristianesimo dei suoi giorni, ma in Nietzsche trovò per la prima volta un attacco alle radici stesse della religione e della morale cristiana denunziata come morale schiavista imposta dai forti sui deboli. Per la parte costruttiva del nietzschianesimo Shaw si esaltò per l’idea del superuomo inteso come raffigurazione degli esseri forti intellettualmente e «bene informati» (modifica tipicamente inglese) che sanno quel che vogliono e non dicono mai «No» a ciò che la vita può loro offrire. Questi ed altri concetti di Nietzsche rimasero sempre nel sangue di Shaw, come egli stesso dichiara, e riappaiono continuamente nelle sue opere.
Da Nietzsche a Wagner e ad Ibsen il passo è breve. Di Wagner Shaw esaltò in un opuscoletto, The Perfect Wagnerite, le tendenze socialistoidi (meglio dire «nazional-socialiste») dell’Are/lo; ma come ogni persona per bene ripudiò l’infelice ravvedimento finale. Per Ibsen il discorso dovrebbe essere più lungo. Ma vi è un limite alla vostra cortese sopportazione e cercherò di esser breve. Naturalmente l’idea centrale di Ibsen è nietzschiana: il suo «Sii te stesso» equivale al «Das
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Leben bejahen» di Zarathustra. Ma mentre Nietzsche si librava negli alti cieli delle speculazioni filosofiche, Ibsen mostrava sulla scena i tristi e ridicoli effetti del non voler essere se stessi, specialmente evidenti nella vita della piccola borghesia. Fu questa rappresentazione scenica della miseria della vita conformista che spinse Shaw a divenire (a tentare di divenire) drammaturgo. Aveva già scritto qualche romanzo con esito artistico ed economico nullo; si era avvicinato al teatro quale critico. Adesso egli volle provarsi a rappresentare i propri concetti sulla scena (o per meglio dire i concetti di Nietzsche e di Ibsen). Voleva distruggere il teatro inglese contemporaneo influenzato da Dumas figlio e da Sardou. Gonfio di programmi si sedette a tavolino. E poi... Come si poteva parlare bene attraverso gli attori, come si poteva poi discutere la commedia a voce e per iscritto; che magnifiche prefazioni si potevano redigere per quando la commedia fosse apparsa in volume! Poterono scatenarsi uragani di chiacchiere, di chiacchiere echeggianti dall’uno all’altro emisfero, chiacchiere con milioni di uomini nello stesso tempo. Idee e chiacchiere, sentimenti e poesia, niente; per ora.
Shaw, dunque, lasciò la sua attività di critico teatrale (e anche di critico musicale, perché in quei tempi scriveva articoli, firmati «Corno di bassetto», su periodici musicali) e fece rappresentare la sua prima commedia, Widowers° Houses, nel 1892. Il successo fu tiepido. Dopo scrisse The Philanderer e Mrs Warren's Profession, che non furono allora rappresentate, e nel 1894 ottenne il suo primo grande successo con Ar7s and the Man. Successo d’arte e successo di scandalo. La commedia, infatti, è deliziosa: le situazioni sono brillanti, il tema è inconsueto, il 207 vi corre a fiumi. É anche scandalosa, se ci
riportiamo a quei tempi: quell’asserire che un buon direttore d’albergo può risultare un eccellente condottiero sembra a noi ovvio, a noi che abbiamo appreso a nostre
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spese come il problema logistico sia di assoluta e primaria importanza in guerra. Allora questa formulazione sembrò sacrilega; non soltanto perché ci si vedeva un attacco all’esercito (che in Inghilterra non fu mai stimato se non per fini decorativi) ma perché sembrò un attacco al buon senso; il profeta sembrò addirittura un matto. In compenso Shaw non solo fu criticato come ideologo ma non fu preso sul serio come commediografo. E per parecchi anni le sue commedie furono rifiutate dagli impresari, cosicché per questo periodo occorre guardare la data di pubblicazione delle sue opere più che la data della rappresentazione. Nel 1898 (Shaw aveva di già 42 anni) venne pubblicato il suo primo volume di commedie, Plays Pleasant and Unpleasant. Queste ultime comprendevano Widowers” Houses, Mrs Warren's Profession e il Philanderer; tra le Pleasant Plays vi erano Arms and the Man, Candida, The Man of Destiny e You Never Can Tell.
Degli argomenti di queste commedie è superfluo parlare perché li conoscete. Del Phz/anderer si può fare a meno di occuparsi; Ar77s and the Man è già stato discusso, The Man of Destiny, che ci presenta Napoleone all’alba della sua gloria, è una commedia in un atto di grande interesse ma non di particolare valore. Rimangono così Widowers' Houses e Mrs Warren's Profession. Dopo Santa Giovanna e Candida esse sono le più frequentemente recitate in Italia, non si capisce bene perché. Esse non sono delle commedie, sono dei diagrammi, delle tabelle statistiche, dei termometri, tutto quello che si vuole di utile e di rispettabile, ma delle commedie no. Così come gli accadrà alla fine della vita,
anche al principio la «tesi» ha preso alla gola l’artista Shaw e non lo ha più lasciato respirare. In queste opere non vi è nemmeno quel perpetuo brillare di 77 che ri-
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schiarerà poi le più verbose creazioni dell'autore. Sono celebri, lo so, ma, secondo me, non valgono nulla.
Ben differente è la mia opinione (vi prego di ammirare la sicumera dello scrivente) su Candida, che è davvero una delle migliori commedie moderne che siano state
scritte. Anch’essa è una commedia a tesi, questa volta in difesa del femminismo, ma per l’unica volta (o quasi) nel teatro di Shaw questa tesi è stata completamente bruciata dal fuoco dell’ispirazione. Ma non solo Shaw in Cardida è riuscito ad integrare la tesi nell’impeto drammatico; è riuscito anche ad evitare quasi del tutto l’altro suo grave, congenito difetto, il facile scivolare nella farsa che guasta tante sue commedie. Quasi eguale vigore e felicità di espressione si trova nella meno nota You Never Can Tell, commedia piena di divertenti e spiritosi fantasmi, due dei quali (il cameriere e l'avvocato) sono completamente presi in prestito
da Pickwick e Great Expectations ma sviluppati e modernizzati con arguta sagacia.
Nel volume seguente, Three Plays for Puritans (1901) troviamo il Caesar and Cleopatra che a me appare una delle migliori commedie di Shaw e dirò poi perché; The Devil's Disciple, ambientato al tempo della insurrezione americana del 1777, ci presenta il solito spirito penetrante e delle forti situazioni drammatiche guastate dalla farsesca scena dell'esecuzione, sintomo di un malvezzo shawiano che andrà sempre più accentuandosi. Captain Brassbound'°s Conversion è scenicamente macchinosa e, a dire il vero, è impacciata e val poco. Nel 1903 venne pubblicata Mar and Superman, che porta il minaccioso sottotitolo «Una commedia e una filosofia». Questa è la prima opera teatrale di Shaw che si presenta appesantita da una lunghissima appendice, intitolata in questo caso The Revolutionist's Handbook,
spiritosa e piena d’idee ma che non si trova in nessuna correlazione con la commedia. Uno sfiatatoio per chiac-
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chiere. Man and Superman gode grande fama: un pubblico ingenuo poteva prendere per originale la teoria che l’opera di seduzione sessuale è prevalentemente femminile. Essa è, in realtà, vecchia come il mondo e trova la sua più venerabile figurazione artistica e religiosa nel personaggio biblico di Eva. Sia come sia la commedia è davvero troppo appesantita da disquisizioni e ragionamenti che rimarrebbero estranei all’azione drammatica se azione drammatica vi fosse. È una magnifica conferenza dialogata. L’intermezzo nel quale i personaggi di Da Ponte si incontrano in Inferno è di una spassosità rara. Basta, però, a farne un capolavoro?
Il volume che viene dopo contiene due delle migliori opere di Shaw: John Bulls Other Island e Major Barbara (1907). Esse sono sì curve sotto ponderosissime prefazioni spiegative, ma sono rimaste vivaci, divertenti e non sovraccariche di aforismi estranei all’azione. Il bello è che la prima (che, come sapete, è una satira velenosissima dell’amministrazione inglese in Irlanda) era stata scritta per essere rappresentata a Dublino al teatro irlandese, di tendenze anti-inglesi e rivoluzionarie; ma la direzione del teatro non osò rappresentarla temendo di offendere troppo il governo. Fu eseguita invece a Londra dove ebbe successo trionfale, dimostrando per l’ennesima volta il sense of humour britannico. Major Barbara è una vivacissima ma anche commossa presa in giro dell'Esercito della Salvezza. Credo che nessuna di queste due commedie sia stata rappresentata in Italia e non si ha torto: esse sono talmente infarcite di allusioni a fattori sociali esclusivamente inglesi e, del resto, talmente inglesi nel loro argomento che riuscirebbero del tutto incomprensibili e sarebbe un peccato, perché son davvero eccellenti. Sarebbe come rappresentare a Londra I rzaftusi di la Vicaria. Questo volume ci mostra Shaw all’apice del proprio talento: le commedie sono invenzioni drammatiche ge-
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nuine e non libelli dialogati, la visione dell’autore è acuta, il suo senso etico e poetico ancora fresco. Dopo queste due commedie avremo soltanto da registrare insuccessi (poeticamente considerando), con una sola eccezione.
Nel volume pubblicato nel 1911 due commedie (Gerting Married e The Shewing-Up of Blanco Posnet) sono completamente burgled e degenerano in pura e semplice discussione, non sempre brillante. Anche le loro enormi prefazioni sono pura garrulità che mette la pazienza a dura prova. La terza opera, The Doctor's Dilemma, è un po’ migliore benché la satira sulla medicina,
che prima era stata maestrevolmente trattata da Molière e dopo lo sarà con altrettanto vigore da Romains, si svolge qui piatta e troppo circostanziata; e si direbbe, come avverrà poi più gravemente nell’Ardrocles, che all’autore manchi il coraggio per giungere alle vere conclusioni. Nel 1914 venne pubblicato un altro volume (Mzsa/-
liance, The Dark Lady of the Sonnets, Fanny's First Play) che contiene infinitamente più discussioni preliminari che testo poetico. Le prefazioni hanno perso il loro abituale carattere e sono divenute delle specie di encicliche papali nel corso delle quali Shaw ammonisce il pubblico prendendo come occasione le proprie commedie, in molti casi troppo deboli per sostenere una tale architettura dialettica. Androcles and the Lion, Overruled e Pygmalion, pubblicate insieme nel 1916, mostrano una forte diminuzione del senso di autocritica dell'autore. Ardrocles tratta nella prefazione, in modo serio e al tempo stesso brillante, il grave problema della religione, ma la commedia (che poi è quello che davvero importa) non ci mostra niente di tutto questo. Di Qverruled è meglio non parlare. Pygmalion (che è preceduta da un vero trattato di fonetica) segna un arresto nella decadenza dell’autore ed è divertente; essa ci indica l’estremo interesse che Shaw ebbe sempre per le questioni di pronuncia (egli stesso
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era un modello di elocuzione e di puro parlare) e, benché sembri impossibile, è talvolta riuscito a trasformare in dramma i problemi di accento. . In Heartbreak House (1919) una parte del dialogo è buona e stimolante mentre il resto è mera garrulità, e alcune scene (molte) ricadono nella vuotaggine della «commedia dell’arte» a fine didattico. Back to Methuselab (1921), chiamata «Un Pentateuco metabiologico», s'inizia magistralmente ma presto degenera in discussio-
ni astratte sulla vita e il modo di prolungarla: problema posto in termini del tutto errati, in quanto la vera tragedia dell’umanità non consiste nel fatto che gli uomini muoiono troppo presto ma proprio in quello che vivono troppo a lungo. Nel 1923 venne rappresentata Sazzt Joan, che è una delle opere migliori di Shaw. Ma è anche l’ultima della quale valga la pena di occuparsi. Tutte quelle che seguono (e non sono poche) ci mostrano sempre la straordinaria vitalità di Shaw nell’esporre idee, ma in esse l’autore si adagia su un livello d’invenzione e di azione drammatica assai basso. Nelle peggiori non vi è addirittura nulla eccetto lo sfaccettamento sempre piacevole della chiacchiera che ormai, come i gioielli che si ritrovano nelle sepolture, non serve che ad accentuare il senso di morte di ciò che esso ricopre. Ammesso tutto questo, l’importanza di Shaw nel teatro (e nella letteratura in genere) inglese è immensa. Le sue commedie di «idee» servirono a ricondurre verso il teatro una folla di intellettuali che se ne era staccata, stanca del livello di ovvia sentimentalità che aveva raggiunto nell’Ottocento. E servirono anche a dare al teatro inglese un lustro internazionale che esso aveva perduto da secoli. Shaw come ragionatore era perfetto e se avesse potuto mitigare la propria loquacità avrebbe raggiunto un livello più alto. Buona cosa sarebbe stata anche se avesse potuto porre un freno alla tendenza farsaiola non
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sempre di ottimo gusto che degrada parecchie sue opere. Ma anche questo non sarebbe bastato a far di lui un poeta vero del teatro. La sua personalità era dotata di tentacoli intellettuali che cercavano, afferravano, tasta-
vano le idee, ma egual sensibilità le mancava per i sentimenti. E senza una sensibilità sentimentale non si creano personaggi; e senza personaggi non vi è teatro nel
completo senso della parola. In tutto il teatro di Shaw vi è, riuscitissimo, un solo personaggio: quello di George Bernard Shaw, personaggio arguto, comprensivo, talora profondo che ci si presenta sotto le vesti più varie, sempre eguale a se stesso. Di questa impotenza creativa, legata al campo dei sentimenti, ci reca una curiosa testimonianza l’opera critica di Shaw. Leggendo, per esempio, le numerose pagine che egli ha, qua e là, dedicato alla critica shakespeariana, vediamo come parecchie di esse siano eccellenti: tutte quelle nelle quali si parla della tecnica di Shakespeare o anche si cerchi di analizzare quale fosse il mondo religioso, filosofico e morale dell’autore di Awz/eto. Ve ne sono, accanto 0 frammischiate ad esse, delle altre, pessime, nelle quali si direbbe che Shaw si irriti contro il suo (maggior) predecessore proprio per l’irresistibile richiamo emozionale che Shakespeare possedeva. Nella sua (del resto deliziosa) opera su Wagner notiamo la medesima idiosincrasia: egli esalta Wagner come «disseminatore d’idee» senza soffermarsi un istante a riflettere che ciò che fa la grandezza wagneriana è il grido poetico e non la parola d’ordine rivoluzionaria. Da questa congenita sécheresse di Shaw deriva il fatto che i migliori personaggi suoi sono quelli storici o per lo meno piazzati in un’epoca storica ben determinata, il che sarebbe aberrante per un vero poeta ma è in questo caso naturalissimo in quanto in Cesare, in Cleopatra, in Santa Giovanna egli trovava di già tracciato dalla storia o dalla tradizione il personaggio e non aveva bisogno di
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frugare invano nella brillante ma asciutta sua personalità per trovare dei sentimenti. Egli non aveva che da rivestire questi personaggi già «dati» della sua scintillante dialettica; e tutto andava bene. Troppo bene talvolta, come avviene in Santa Giovanna, nella quale egli si è lasciato prendere la mano dal proprio genio argomentativo ed ha finito col porre in bocca a Warwick, all’Inquisitore e al Vescovo tale copia di sottili ragionamenti e paradossi che essi finiscono col sembrare aver ragione contro la semplice emozionale Giovanna, il che non era certo nelle sue intenzioni. Contenutista per la pelle, egli era spesso accecato da questo suo non artistico postulato. Egli disse, per esempio, che l'insieme dell’opera di Ibsen è di molto superiore all'insieme delle opere shakespeariane perché «la morale di Ibsen è costantemente originale mentre quella di Shakespeare può trovarsi in qualsiasi bottega di rigattiere».
Dotato egli stesso, quando le sue ideologie glielo permettevano, di notevoli doni artistici egli non si rese conto che soltanto le attitudini poetiche sue, di Shakespeare o di Ibsen costituivano il fondo immortale dell’opera; non comprese insomma quel che la vanità ha sempre impedito ai mediocri artisti di capire, cioè che le loro idee in generale non valgono niente, che sono sempre delle riproduzioni semplificate di quelle di noiosi ma ben più alti pensatori; e soltanto orchestrate da quell’insieme di suoni e d’immagini che è l’arte esse riescono a prendere un valore spesso superiore a quello di quei tali pensatori che artisti non erano. Come pensatore Valéry è zero dinanzi a Bergson ed Eliot zero tagliato dinanzi a Husserl, così come Shaw alla fin fine non faceva che ri-
friggere le idee di Marx e di Nietzsche. E la trasformazione di queste idee di seconda mano in emozione di primo grado che fa il poeta. E il drammaturgo deve, per di più, farcele sentire attraverso una terza essenza, il per-
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sonaggio. Questi universali talvolta s'incarnano poco, tal’altra completamente; e allora abbiamo il capolavoro, che è cosa rara. Secondo l’opinione di Shaw, una commedia che sostenesse una nobile tesi era per forza bella;
il che non è. Ed è passato tre volte a due passi dal capolavoro. Vi è inoltre il guaio supplementare per lui: le sue «idee» (cioè le idee dei suoi grandi ma illetterati predecessori) sono tutte idee sociali, cioè di loro natura destinate alla morte, sia che si realizzino e diventino realtà concrete, sia che si dimostrino false e diventino allora
bubbole. Nessun problema fondamentale dell’uomo, schiavo o borghese o socialista che sia, quei problemi che non possono mai cambiare, sono stati da lui toccati.
Si va adesso (assai meno di venti anni fa) ad ascoltare Shaw perché è, spesso, divertente. Ma fra cinquanta anni, quando tutte le donne saranno vestite da uomo, quando non vi saranno più padroni di casa esosi e quando l’esercizio della medicina sarà nazionalizzato cosa importerà più di lui? Egli ha peccato contro l’arte: ha sacrificato le sue grandi possibilità sull’altare di idee non sue.
H.G. WELLS E ARNOLD BENNETT
Quando nella mia boriosa introduzione a questa parte delle letture parlavo della impossibilità in cui siamo di esser sicuri della sopravvivenza o meno di alcuni di questi scrittori, pensavo a Wells e a Bennett. Gli altri, più o meno, sopravviveranno tutti, anche perché ho avuto la
precauzione di eliminare i minori, alcuni dei quali mi piacciono tuttavia assai. Ma la fama di Wells e di Bennett durante la loro vita è stata tale che eliminarli a priori sarebbe stato falsare tutto. Essi dovranno quindi correr l’alea di presentarsi al pubblico che ascolta come se fossero immortali; dopo, «Dieu reconnaîtra les siens». H.G. Wells
Di Herbert George Wells (1866-1946) si sarebbe tentati di dire che fu un doppione di Shaw. Il che non sarebbe esatto benché la insaziabile loquacità (da qual mai pulpito viene la predica!), l'incapacità di creare personaggi vivi e l'appartenenza ai partiti di sinistra li riavvicinino molto. Ma anche in queste rassomiglianze vi sono delle discriminazioni: la loquacità di Wells è meno fastidiosa di quella di Shaw in quanto si distende nella ampia trama di un romanzo anziché nella breve vicenda di una commedia ed è, almeno, loquacità scritta,
indiretta, e non espressa verbalmente da attori; l’incapacità di costruire personaggi non è perenne ma si rivela
soprattutto nelle opere maggiori e della sua età avanzata, perché nelle opere giovanili e brevi Wells è riuscito a
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far vivere delle macchiette se non dei veri personaggi. Riguardo alle idee politiche Shaw però la vince decisamente su Wells: la società futura vagheggiata da Shaw conserva sempre un po’ dello spirito bizzarro del proprio propugnatore mentre quella desiderata da Wells sarebbe un pantano materialista, comodo e asfissiante, la società ideale del «petit sentier» chiuso a qualsiasi incitamento che non sia mera (e meschina) soddisfazione di onesta sensualità. Nato da famiglia di piccolissima borghesia, compì studi mediocri che lo portarono soltanto ad un impiego di commesso in un negozio di tessuti (e di questo periodo della sua vita ci ha lasciato vividissime immagini in alcune sue opere). Sfuggito a questa mediocre esistenza si iscrisse a Londra ad una scuola di magistero e divenne maestro elementare, proseguendo sempre i suoi studi
preferiti di geologia e di biologia che avranno tanto riflesso nella sua opera. Ebbe una vasta esperienza di uomini, di donne e di fatti e fu da questi che egli trasse quel tanto di idee generali sull’umanità che possedeva. Ed è qui il caso di far notare come questo suo modo di conoscenza fosse agli antipodi di quello di Shaw, che si presentò alla vita con tutto un armamentario teorico già costituito, al quale via via aggregava (costringendole) le proprie esperienze pratiche. Raggiunse abbastanza presto la notorietà mercé tutta una serie di novelle (The Country of the Blind) quanto mai interessanti; una fra di esse almeno (The Door in the
Wall) è un capolavoro di quel genere fiabesco-filosofico tanto caro agli inglesi. Era ancor giovane quando pubblicò quella sequenza di romanzi fantastici ai quali egli deve in Italia quel tanto di fama che possiede. The Tizze Machine, The Island of Dr Moreau, The Invisible Man,
The War of the Worlds potrebbero a un primo esame apparire come dei romanzi di Verne. In realtà essi sono di tutt'altro calibro: Wells scoprì ciò a cui Verne non
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aveva mai pensato: le conseguenze sociali implicite nei problemi del tempo, dello spazio e della evoluzione. L’inventore della Tizze Machine (1895) scopre che il tempo è la quarta dimensione dello spazio e viaggia nel passato e nel futuro: nella descrizione del futuro è implicita la critica al nostro tempo e l’idea che l’uomo e la società sono in uno stato di continuo fluire. Nella Island of Dr Moreau si presenta il fatto che l’evoluzione può talvolta non essere sinonimo di progresso. Tutti questi romanzi si possono leggere con gusto e il migliore di essi (The Invisible Man) ha addirittura le movenze voltairiane di un conte philosophique con una sua malinconica morale. Esso ci mostra quanto vigorosa sia la potenza di affabulazione inglese che subito trasmuta in racconto (e in racconto non greve) le indagini scientifiche e le opinioni filosofiche, trasmutazione che negli stessi anni Chesterton e Shaw andavano anch'essi operando. Al principio del secolo Wells aveva raggiunto la propria maturità intellettuale. Da allora, e durante un tren-
tennio, la sua attività artistica si svolse su due binari paralleli: su di uno egli faceva scorrere, anno per anno, i suoi treni merci, lunghi trattati nei quali insegnava e profetizzava, disegnava le piante della città futura e si rendeva, a
mio parere, insopportabile malgrado la vivacità dell’esposizione. A questo binario si riferiscono opere come Antici-
pations (1901), Mankind in the Making (1903) e A Modern Utopia, nel quale egli traccia i lineamenti del mondo che verrà. Questa Utopia di Wells si distingue da tutte le altre che sono state scritte, da Platone a Bacon, perché,
mentre quei valentuomini mostrano di credere (come lo crede il comunismo) che, una volta raggiunta una data forma, la società si fermerà e non avrà bisogno di ulteriore sviluppo, Wells, con maggior buon senso, vede anche questa società utopistica come una fase, come un anello di una catena senza fine. Interessante è anche la sua esortazione a formare una nuova aristocrazia composta di scien-
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ziati e di «uomini virtuosi» (qui si sente il ricordo del mai tramontato Rousseau) e dotata di grandi poteri sulla massa che, in quanto massa, resterà sempre bisognosa di qualcosa di più che una guida. Questa teoria della aristocrazia dei talenti è espressa con vigore nei libri semi-teorici di Wells attorno agli anni Trenta (The World of Willam Clissold, The Open Conspiracy, The Work, Wealth and Happiness ofMankind). Talvolta queste raccolte di parole prendono una vaga forma romanzata (il Clissold che abbiamo già nominato e Whex the Sleeper Wakes) che non può ingannare nessuno sul loro vero scopo, quello di essere conglomerazioni di chiacchiere, e neppure di chiacchiere fosforescenti come quelle di Shaw o di Chesterton. Per quanto si possa sentire ripugnante questo genere di letteratura, non si deve misconoscere l’immensa in-
fluenza che essa ha avuto e come essa abbia molto contribuito a mutare lo spirito pubblico inglese. Sull’altro suo binario Wells lanciava invece le sue automotrici, per sua grande fortuna letteraria. Se quelli furono gli anni dei noiosi (e in fondo vacui) libri dottrinari, questi dei quali parlerò sono gli anni della sua migliore produzione artistica. Kipps (1905), Toro-Bungay (1908), A Kright on Wheels (1909), Marriage (1912), e The History of Mr Polly (1910) sono cinque deliziosi romanzi, leggeri leggeri, che corrono rapidi sulle ali di una fantasia gioconda, rinvigorita da un buon spirito di osservazione, ma che non mancano di lasciar intravede-
re più seri sfondi sociali però trattati con levità di maniera. Wells non sentiva evidentemente la stessa pressione di Shaw per enunciare nelle sue opere di fantasia le proprie idee sociali, perché nel contempo aveva lo sfiatatoio delle proprie opere puramente profetiche. Non saprei abbastanza raccomandare la lettura di tutti o di (almeno) parte di questi romanzi, che sono vivaci, spiritosi, informativi e che danno un quadro acidulo della vita quotidiana del ceto medio inferiore inglese.
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Verso il 1910 Wells ebbe l’idea di fondere, alla ma-
niera di Shaw, le proprie idee di propaganda sociale con i propri romanzi. Il risultato fu, naturalmente, disastroso. Per fortuna questa opera di auto-sconsacrazione fu graduale e i primi romanzi di questa nuova maniera possono ancora leggersi con piacere (Ann Veronica e The
New Machiavelli); ma i successivi, nei quali il programma prevale sul fantasma poetico, sono illeggibili; nominerò ancora The Research Magnificent (1915) e Mr Britling Sees It Through (1916) e dopo, per gli altri romanzi, tacerò.
Sulla fine della sua vita egli scrisse il suo Outline of History, la cui straordinaria popolarità è giustificata più dall’intenzione (quella di scrivere una storia universale esulante dagli stessi limiti delle nazionalità) che dai risultati effettivi. Dopo di questo scrisse molto, ma nulla che valga la pena di essere ricordato; il suo ascendente in Inghilterra andava crescendo, ma ascendente dovuto alle sue idee di socialismo borghese ben più che al valore estetico di ciò che scriveva. A mio parere ciò che impedirà una permanenza dell’opera di Wells, dal punto di vista letterario, è la sua mancanza di stile. Questo è piatto, banale, privo di luci e risonanze; una pagina di Wells potrebbe, in quanto a stile, esser scambiata per quella di qualsiasi altra persona di media cultura. Il difetto di questa spezia che serve, ed è anzi la sola, a preservare dalla putrefazione operata dal tempo, farà sì che (più presto che tardi) le reali doti di humour, di tolleranza, di buon cuore e talvolta di pe-
netrazione di questo scrittore saranno dimenticate. Ciò come artista. Come propagatore di idee egli certamente sopravviverà a lungo; sarà impossibile esaminare i mutamenti dell’opinione pubblica inglese senza riferirsi a Wells che di questa opinione fu un modellatore vigoroso, tanto più efficace quanto minore artista. Il
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propagatore, in regime di suffragio universale, deve porsi al livello del novanta per cento dei suoi lettori; e questo livello è ancora assai basso (letterariamente). Prima Milton, Gibbon e Macaulay non avevano che da influire
sulla opinione di poche migliaia di persone scelte e se non avessero scritto bene non avrebbero avuto alcun influsso. Adesso per influire sui minatori di Newcastle e gli scaricatori di porto di Hull occorre parlare il loro linguaggio; il che non è bello. Dovranno passare dei secoli perché una elevazione della loro cultura li renda sensibili alle idee elevate e alle cose ben dette. Allora le Virginie Woolf saranno preferite alle Berthe Ruck e i Cobbett ai Wells. Riassumendo la mia (probabilmente errata) opinione: di Wells scrittore rimarrà memoria dell’influsso potente sulla pubblica opinione. Al di fuori delle opere di volgarizzazione si conserverà forse il ricordo delle sue novelle e romanzi fantastici e di alcuni suoi arguti romanzetti realistici. È qualche cosa: ma è poco in confronto al chiasso enorme e alla dilagante fama che egli godette da vivo. Arnold Bennett
È una strana personalità di scrittore. Se dividiamo, come si deve, la sua opera in tre parti ci accorgiamo che la prima e l'ultima sono al di sotto di qualsiasi apprezzamento critico, quella centrale contiene invece alcune opere la cui permanenza nella letteratura inglese è sicura. Questa ineguaglianza nella produzione di Bennett fu dovuta al carattere poco simpatico di lui. Durante gli anni di gioventù fu un hack-writer, uno scrittore da soma, come dicono gli inglesi per designare un letterato bisognoso che accetta qualsiasi ordinazione e scrive qualsiasi cosa pur di guadagnare. Con un mucchio di
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libri men che mediocri riuscì ad assicurarsi l’agiatezza, smise la composizione di opere puramente commerciali, fece apparire la propria autentica vena di artista e scrisse i suoi capolavori. Alla agiatezza seguì una grande opulenza. E per accrescere questa egli ridiventò hackwriter su un piano più elevato ma sempre bassissimo, accumulò romanzi inutili e sensazionali, pubblicò no-
velle affrettatamente composte su qualsiasi rivista anche (letterariamente) squalificata purché ricevesse lauti compensi, infestò i quotidiani di giornalieri saggi insulsi pagati a una sterlina la linea. Va da sé che non trovandoci nessuno di noi in condizioni di aver pagato un rigo millesettecentosessanta lire dobbiamo astenerci da una critica troppo vivace perché non si sa quel che faremmo se ci offrissero un tale compenso. Ciò non toglie che lo spettacolo non è bello. Un altro lato strano di Bennett fu che egli era uno dei rari letterati inglesi fortemente influenzato dalle letterature estere. I russi ed i francesi suoi contemporanei mo-
strano le loro evidenti tracce sulla stesura delle opere di Bennett.
Sarà quindi inutile occuparci dei due terzi della sua opera. Trufferò il vostro tempo soltanto per occuparmi del periodo centrale della produzione di Bennett. Che è eccellente. [Qui è necessaria una parentesi quadra. Ripeto, e valga questa ripetizione per il fortunatamente breve futuro e per l’accidiosamente lungo passato, che quando dico «è eccellente» oppure «è mal scritto» oppure «Mr Smith è un grand’uomo» o «Mr Wilson è un asino» non intendo affatto proclamare verità apodittiche, di valore universale: è semplicemente un modo abbreviato di dire: «Al mio immaturo intelletto le opere centrali di Bennett si presentano con caratteri di eccellenza». Dopo di che liberi voi, liberi i critici, liberi tutti di trovare che Bennett è un maiale analfabeta.]
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Fatta questa dichiarazione che avrete torto a considerare quale ipocrita modestia mentre è soltanto manifestazione di liberale tolleranza e di chiara coscienza del mio non-valore, passo a dirvi che Bennett era nato nel 1867 da poverissima famiglia nelle Five Towns, ritrovò
la propria vena di ispirazione quando intraprese a narrare le vicende chiuse, i vani tentativi di evasione dalla vita
provinciale della gente che come lui era nata nelle Five Towns, con orizzonti ristretti e meschini interessi.
Sono, queste Five Towns, delle grosse città industriali
al centro dell’Inghilterra, che fabbricano le ceramiche in uso in metà del mondo. Quando a Pachino o a Misilme-
ri, a Città del Capo o a Bogotà sentirete parlare di un «cesso all’inglese» o di un «servizio da tavola inglese» potrete essere sicuri che questi utilissimi oggetti provengono dalle Five Towns. Dalle Five Towns provengono anche i ben più vaghi Wedgewood che con le loro figure classiche bianche su fondo di azzurro tanto bello ornano le vetrine dei conoscitori. Quando Bennett, col proprio lavoro da schiavo letterario, ebbe raggiunto l’agiatezza ritornò col pensiero a quelle grigie, soffocanti, affumicate città dalle quali era riuscito a sfuggire ed alle persone che vi aveva conosciute e che non sarebbero mai uscite da lì. Vi ripensò con commozione perché era un artista, con ironico humour
perché era un inglese, e da questa mistura di sconforto e di sorriso uscì la trilogia delle Five Towns contenuta nei romanzi Claybanger, The Old Wives' Tale e Hilda Lessways, pubblicati fra il 1908 e il 1911. In essi sono rappresentati tutti gli strati sociali che sono sovrapposti in quell’immenso formicaio, tutti irrimediabilmente distorti dalla loro vita monotona, tutti irrimediabilmente condannati a non poter evadere. Ricchi e poveri, operai miserabili (miseria inglese) e ricchi datori di lavoro afflitti dal provincialismo come da una lebbra, deturpati dal cattivo gusto i secondi e dall’ignoranza i
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primi, vincolati da due catene: da quella delle necessità economiche e da quella del Metodismo, mutatosi in grette forme da quel magnifico strumento di libertà spirituale che prima era stato. Le novità della tecnica e della moda penetrano con tale lentezza in questo mondo asfissiante che finiscono di essere novità prima di potersi affermare. Vi sono i ribelli che vorrebbero lasciare questo mondo chiuso, che riescono talvolta ad evadere soltanto per accorgersi dopo che sono, anche fuori di esso, egualmente prigionieri dei loro pregiudizi e delle loro abitudini inveterate. Una donna soltanto, Hilda, riesce ad andare via e a crearsi, mediante il peccato, una
vita veramente diversa che è però resa penosa dal rimorso, anch’esso appiccicaticcia tara ereditaria del conven-
zionale moralismo delle Five Towns. Ho riletto adesso questi tre romanzi e ne ho ricavato una impressione assai migliore di quella che avessi avuto al momento, lontano, della prima lettura. Segno indubbio di un mio rammollimento (sinceramente, non lo cre-
do) o che la trilogia, essendo un buon vino, migliora con l’invecchiamento. Vi è, oltre tutto, migliore e più vigoroso insegnamen-
to sociale in questi romanzi che in tutte le opere di Shaw e di Wells. Vi è ancora un altro romanzo di Bennett degno di stare a fianco di questi prodotti del grande pensiero suo: Riceyman Steps (1923), anch’esso storia di anime compresse, e liete di esserlo. Potente dramma della ristrettezza d’idee e della meschinità, si svolge in un sobborgo di Londra. Lo svolgimento lento, torpido di questa narrazione è di straordinaria efficacia per descrivere le vite prive di qualsiasi spiritualità dei personaggi. Se non avesse scritto questi quattro romanzi Arnold Bennett sarebbe stato ricordato soltanto come vivace fabbricatore di romanzi da leggere in treno. L’amarezza
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della propria gioventù lo ha salvato e gli ha aperto le porte di una fama duratura. Non che la sua produzione minore sia assolutamente da buttar via: se dovete compiere un viaggio di sette o otto ore di treno in Inghilterra vi consiglierei senz'altro di comprare Lord Raingo o Imperial Palace che sono arguti, divertenti e ben scritti; passerete bene il tempo ed avrete anche il vantaggio di non essere ingombrati alla stazione d’arrivo perché potrete lasciarli senza rimorso nella reticella dello scompartimento.
JOSEPH CONRAD
Il lettore italiano è una bestia difficile da trattare. Se lo scrittore è inamidato, dignitoso, ornato, profondo (se,
per restare nell'epoca di cui ci stiamo occupando, si tratta di James o della Woolf) è chiaro che dopo poche pagine gli verrà appioppato il nome di «scocciatore». Se invece è alla mano, cerca di interessarvi, scrive racconti di mare o di avventure, il buon italiano esclama: «Salgari! Jules Verne! De Amicis!» e richiude il libro, anche se l’autore è Stevenson, Chesterton, Wells o Conrad. Il fat-
to è che non gli piace leggere. E siccome non gli piace leggere, gli scrittori non hanno alcun incentivo a scrivere e, dovendo scriver poco per non sciupare carta inutilmente, si restringono a motivi casalinghi; da noi i cattivi scrittori soltanto, quelli senza interiorità, si danno alla
letteratura avventurosa (esempio ottimo, Ariosto). L’italiano è più di ogni altro popolo «campanilistico». Una signora che tutti conosciamo rientrava con me in
macchina da una assenza di due giorni: giunta a Porta Felice si fece il segno della croce e ringraziò il Signore che le aveva permesso di rivedere la sua città natia («O tu Palermo, terra adorata»). Come mai sarà possibile che questa stessa signora si interessi a Conrad che per
venti anni errò nell'Oceano Pacifico, o a Kipling che stava metà dell’anno a Londra e l’altra metà in India? Per essa, sono dei mentecatti.
Inoltre occorre dire che l’esperienza fatta dagli italiani degli scrittori esotici non è incoraggiante; da noi si conoscono i giornalisti che inviati per dieci giorni, poniamo, in Cile pubblicano poi durante due mesi delle quotidiane corrispondenze; è chiaro che il Cile non pos-
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sono conoscerlo e che gli articoli sono una congerie di parole che si avviluppano attorno a un fatto minimo al quale l’autore ha attribuito un significato sproporzionato. Quindi, diffidenza del lettore. Diffidenza aumentata anche dai ricordi giovanili di Salgari o di Verne, che descrivevano minutamente paesi nei quali non avevano
mai posto piede (Verne non era mai uscito dalla Francia e Salgari non aveva mai varcato le colonne d'Ercole). Ho scritto questa lunga omelia per dire questo: che da noi il romanzo che non si svolga in Galleria, in via Veneto o ad Aci Trezza è a priori considerato romanzo da ragazzi. E a buona ragione come abbiamo visto.
Mentre ovunque altrove la tematica è assai più vasta e il pubblico ammette che ci si possa interessare, artisticamente, di una quantità di cose che sono tabù per il lettore italiano: le isole Malesi, l’infanzia, il Tibet, gli scrupoli professionali e morali di un capitano di lungo corso, ecc., come è appunto provato dall’esistenza di Conrad, di Kipling, di Malraux e di innumerevoli altri. Come sapete, Conrad (1857-1924) era un polacco e si chiamava Jozef Konrad Korzeniowski. Aveva vent'anni quando la sua famiglia dovette lasciare la Polonia perché politicamente perseguitata: andò dapprima in Francia e poi in Inghilterra, prese il brevetto di capitano di lungo corso e restò vent'anni nella Marina mercantile inglese, navigando soprattutto nel Pacifico. Dopo di che si
ritirò in Inghilterra e si mise a scrivere. Egli stesso confessa quanto si sorprendesse, scrivendo, nell’accorgersi che, in fondo, ignorava l’inglese che pure parlava in modo irreprensibille da vent'anni. Di questa sua non completa conoscenza della lingua si trovano tracce, infatti, nel suo primo libro, Alzzayer's Folly (1895), e nel seguente, An Outcast of the Islands (1896). Come abbiamo detto, Conrad se ne era accorto e i due romanzi seguenti furono scritti in collaborazione con Ford Madox Huef-
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fer, eccellente letterato che ebbe come missione di cor-
reggere i giri di frase slavizzanti: questi libri furono The Inheritors (1901) e Rozzance (1903). Ma vi erano soltanto i giri di frase da correggere: tutto il resto aveva di già trovato il proprio abbrivio: la vivezza magica della descrizione indiretta, l’infinita malinconia delle distese illi-
mitate, l'osservazione acuta e sarcasticamente compassionevole di quei tipi di bianchi che non sono riusciti a far fortuna laggiù, sulle rive del Pacifico e che fra V’alcool, la pigrizia e la miseria ridiscendono lentamente verso lo standard di vita degli indigeni. Conrad si rivelava di già come un gran maestro della tecnica del romanzo. Lord Jim, pubblicato da solo durante il periodo di collaborazione con Madox Hueffer, è rimasto un classico per i metodi efficacissimi usati da Conrad per illuminare da tutti i lati la figura dello sventurato protagonista: il racconto è narrato da quest’ultimo in prima persona e
anche da altri tredici personaggi, ciascuno dei quali lo vede a modo suo, illuminando ora questa ora quell’altra parte della sua personalità. Ciò, beninteso, non in un arido elenco di narrazioni individuali (metodo di già così infelicemente usato da Wilkie Collins) ma con una sapiente e difficoltosissima mistura di conversazioni eccezionali, di pettegolezzi, di elogi sinceri e non sinceri che finiscono col farci conoscere a tutto tondo la figura di quel comandante di nave che ebbe un momento di indegnità e trascina tutta la vita una condanna morale, giusta un tempo ma che adesso si esercita su di un corpo finito e un’anima infranta. Lord Jin è il primo dei capolavori di Conrad, che sono molti. In ognuno di essi si rivela il senso di pietà slavo passato attraverso il filtro di una dura esperienza inglese. Vorrei ricordarvene qualcheduno, un po’ a casaccio. Anzitutto Youth e Heart of Darkness, autobiografici, nei quali lo scoramento della vita marittima «which you beget out of sheer immensity» è descritto con poesia inarrivabile. In Heart of Darkness vi è una
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pagina, nella quale un incrociatore francese, con i tre quarti del proprio equipaggio ammalato, svogliatamente bombarda una oscura e silenziosa foresta del Congo, che è quanto di più potente sia stato evocato contro
l’imperialismo coloniale. Typhoon (1903) è di potenza degna di Defoe nella narrazione spassionata del martirio di una povera piccola nave da cabotaggio sorpresa da un tifone nei mari cinesi. Non succede niente di straordinario e la nave si salva; «it won't even be mentioned in the newspapers», ma
la cieca frenesia della natura cui si oppone l’altrettanto cieco coraggio di un pugno di uomini mediocri è rappresentata in modo unico. Tutto vi è reso in termini di ricettività spirituale. The Nigger of the Narcissus è la malinconica storia di un marinaio negro che lentamente muore di tubercolosi durante una interminabile traversata, fra l’alternata
compassione e impazienza dei suoi compagni “di equipaggio; come The Shadow Line è l’ossessionante narrazione di una nave malandata, con un cadavere a bordo,
trattenuta dalla bonaccia tropicale alla foce di un torpido fiume siamese. Chance e Freya of the Seven Isles ci mostrano invece l’influsso deleterio, specialmente nei tropici, dell'amore sensuale, e sono cose potentissime. E vi sono anche i romanzi di sottile indagine psicologica, non prettamente marinari: The Arrow of Gold, The Se-
cret Agent, Under Western Eyes, e molte novelle, piene di mordente e infuse della celata disperazione dell’autore. In Conrad incontriamo uno scrittore che ha avuto una doppia esperienza, il che è molto raro. Egli aveva imparato ad usare le proprie mani, a conoscere una nave, ad apprezzare quei fatti definiti, esatti, duri che sono di necessaria conoscenza a chi deve commerciare in paesi ostili e
lontanissimi; aveva appreso a pensare in termini di «uomo qualunque» e di «cose qualsiasi». Aveva appreso insomma che il corporeo, il volgare, il tangibile sono realtà
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radicali indispensabili alla salvezza fisica e morale dell’uomo. Ma aveva anche vissuto in paesaggi variegati, in mari di straordinario colore e fra gente di chiusa e impenetrabile mentalità. Nei suoi libri queste due sue esperienze sono fuse e cementate in una poesia altissima. Non potrei abbastanza consigliarvi di leggere molto Conrad. Ne trarrete un grande godimento estetico; e ne trarrete anche un altro non mediocre profitto: quello di apprendere che esiste un altro mare oltre a quel vezzoso pantano che umetta Mondello, altri uomini (e altre donne) oltre a quelli che cinquanta volte al giorno arano via Ruggero Settimo, altri problemi psicologici e «approfondimenti» (come li chiamate) che neppure possono passare per la testa in questo brodetto semi-tiepido. Mari, persone e problemi che sono altrettanto concreti dei nostri. Sulla sopravvivenza dell’opera di Conrad non possono esistere dubbi. Sopravvivenza, anzi, quasi totale perché ogni opera di lui è necessaria a lumeggiare le altre, e tutte insieme hanno disegnato un mondo cupo e disperato e virile nel quale sordide tragedie si svolgono sotto cieli abbaglianti. E questo vuol dire un acquisto nella conoscenza spirituale dell’uomo. Lo stile di Conrad? Un po’ inesatto, un po’ incompiuto, un po’ «da forestiero». Ma se gli inglesi gli hanno perdonato alcune manchevolezze linguistiche non vedo perché dovremmo arricciare il naso noi che per ogni errore commesso da lui ne commetteremmo cento. E quando la commozione gli prende davvero la mano, come in Typhoon e Lord Jim, Conrad raggiunge attraverso le inesattezze una piena espressione di poesia. Autore difficilissimo da leggersi: sincopato, quasi dialettale, rimpinzato di termini tecnici, frequente di scorci linguistici. Di lui esistono ottime traduzioni italiane (credo Sansoni) che vi risparmieranno la fatica di apprendere sul vocabolario gli innumerevoli termini navali.
ALCUNI «MINORI» (SARÒ BREVE)
Avevo dichiarato di non parlarne. Ma sono troppi, e la mia (grottesca) coscienza mi vieta di non dirne parola. Cominciamo. Anzitutto uno che minore è soltanto comparativamente: E.M. Forster (nato nel 1879). Ha scritto (e scrive) molto. Parecchio di mediocre. Ma anche tre romanzi di prim'ordine. Uno di questi è il suo primo romanzo, Where Angels Fear to Tread, che è del lontano 1905. E scritto in modo delizioso, leggero, poetico ma non zuccherato. Il protagonista è un giovane italiano, Gino, il quale non ha niente che lo possa raccomandare: è un bel ragazzo ma è volgare, spendaccione, spaccone, la sua moralità è dubbia e sputa dappertutto. Ha sposato una ragazza inglese e il romanzo si svolge parte a Monteria-
no, villaggio italiano d’imprecisa collocazione geografica, ma deliziosamente e affettuosamente descritto, e
Sawston, un paesetto del Surrey. Malgrado le sue cattive maniere e la sua cattiva condotta Gino è quello che mette a posto tutto, che svergogna gli ipocriti, che confonde Herriton, arido specialista di arte italiana. Lui e la brutta e buona Miss Abbot sono i soli personaggi vivi fra la gente alquanto mummificata di Sawston. E anche il sudicio ma grazioso e vivo Monteriano finisce col trionfare. Un romanzo di giovani scritto da un giovane ma raffinato scrittore. Delizioso. Delizioso pure A Roorr with a View del 1908, ironica piccola commedia’che si svolge anche in Italia, dotata di grazia e di humour non facilmente imitabili. Poi abbiamo un memorabile volume di novelle, The Celestial Orz-
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nibus, e, dopo un lungo periodo di produzione inferiore, il capolavoro A Passage to India, del 1924, dove il problema (che esiste concretamente) delle relazioni sentimentali fra un giovane indiano e una inglese è discusso
con una delicatezza, una comprensione e una poesia latente che fanno del Passage to India uno dei grandi romanzi del primo Novecento inglese. Finisco, ma ricordate che Forster meriterebbe un lun-
go discorso. Poi vi è Somerset Maugham. Egli contende a Cronin e a Galsworthy la falsa palma di «grande scrittore inglese» presso il lettore corrente italiano. Vale assai più di Cronin, ma assai meno di Galsworthy. È soprattutto un tecnico eccellente che costruisce con eleganza e rapidità delle novelle notevoli. In Razr egli raggiunge un significato ampio. I suoi romanzi lunghi valgono meno: essi sono inficiati da una ricerca un po’ snobistica del soggetto elegante. I migliori infatti sono i due nei quali la ricerca non c'è: The Moon and Sixpence, che è poi la vita di Gauguin, e Cakes and Ale, una ben condotta biografia immaginaria di uno scrittore inglese. Autore che si può sempre leggere perché è corretto, accurato, divertente; e non vi toglierà il gusto per i buoni autori cui è devoto. Vi è ancora W.W. Jacobs, un Conrad in sordina che
narra storie di marinai che non navigano, ma con spirito, bonomia e perspicacia. Vi è Zangwill, divertente descrittore di ambienti ebraici; vi è Charles Morgan, che
gode di grande fama ma è ubbriaco di «liquore di cuore»; vi è Garnett che con i suoi asciutti e feroci racconti
può ancora salire se si svilupperà, vi è financo Wodehouse che ha, verbalmente, la stoffa di un poeta; vi è
Maxwell che ha scritto due romanzi di prim'ordine, Vivien e In Cotton Wool; ve ne sono molti.
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Letteratura inglese
Ricordate, del resto: fra gli inglesi moderni bisogna andare molto in giù per trovare l’autore illeggibile o nauseabondo; quasi tutti gli scrittori sono colti, accurati, diver-
tenti e posseggono dell’humour. Non è vero che il romanzo divertente e leggero sia francese. Esso è inglese.
DAVID HERBERT LAWRENCE
Sarei dispiaciuto se voi foste caduti nella illusione che gli anni precedenti il fatale 1914 fossero degli anni tranquilli. Gli anni tranquilli non sono mai esistiti e quando anche lo fossero fra questi non potrebbero mai essere compresi gli anni 1900-1914. L’Europa fu in quel periodo più di una volta a due passi dalla guerra; le crisi economiche infuriavano; ma soprattutto sul corpo dell’umanità si vedeva la formazione di numerosi foruncoli che denunziavano un interiore squilibrio, una malattia del sangue cui i due energici salassi del 1914 e del 1939 non sono riusciti ancora a porre rimedio. L’estetismo dannunziano si volgeva ormai nettamente
verso il sadismo; non importa che proprio in quegli anni D'Annunzio stesso subisse una crisi interiore che lo portava verso le migliori sue opere: il male era già fatto. Contro l’estetismo si levava in Francia il cubismo, in
Italia il futurismo, in Inghilterra il «vorticismo» di Wyndham Lewis. Movimenti anch'essi di violenza. E la violenza scoppiò, quella fisica; ma il processo interiore non ne fu alleviato. Gli artisti sentivano che le vecchie parole, i vecchi colori non bastavano più ad esprimere le nuove violenze che sorgevano dall’intimo. Freud nessuno lo conosceva ancora, benché la sua opera fosse quasi compiuta; ma l’irrazionale freudiano, padre e figlio dei tempi, ispirava già tutto. Con l’abituale sensibilità intellettuale la Francia aveva di già intuito la variazione di pressione e la aveva manifestata quaranta anni prima con la stupefacente coppia Rimbaud-Lautréamont.
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L’Italia Francia sionista s'inserì
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e la Germania avevano seguito a distanza la con il movimento futurista l’una e quello espresl’altra. Con la consueta flemma l'Inghilterra ultima nel movimento mediante Lawrence e
Joyce. D.H. Lawrence (1885-1930) è stato, in Italia, uno scrittore sfortunato. Lo si ricorda, in generale, soltanto come l’autore di Lady Chatterley's Lover (una delle sue
opere di secondaria importanza) e lo si bolla come un pornografo. In realtà fu scrittore quasi casto, ossessiona-
to dai problemi del risveglio istintivo e del prevalere di questo sulla razionalità, ma che seppe sempre mantenere (eccetto appunto in tre pagine di Lady Chatterley) un rigido controllo artistico sui fermentanti argomenti trattati. Nella letteratura inglese vi è chi è andato ben al di là di lui (Joyce) salvato soltanto dalle difficoltà della forma che crea ostacoli ai frettolosi cercatori di fregola. Egli va indubbiamente collocato al posto d’onore fra coloro che seguirono quella oscura corrente di sensazioni ed appercezioni che un momento sembrò dover deviare la letteratura inglese dal proprio corso tradizionale. Egli non va tuttavia posto a fianco di un James Joyce e di un Thomas Eliot che deliberatamente cercarono (e, in parte, trovarono) un nuovo idioma per reinterpretare
una nuova vita. Se mai vi fu uomo per il quale lo scrivere fosse «espressione spontanea» questi fu Lawrence. Ma l'abbandono della propria personalità all’assalto degli istinti, il rinnegamento di ogni schema razionale prefisso fu in lui forte quanto nei suoi due altri successori. Figlio di un minatore di carbone, nato in un fuligginoso villaggio del Nottinghamshire, di costituzione delicata e sempre minacciato dalla tubercolosi che doveva prematuramente ucciderlo, compì studi mediocri che gli permisero di fare il maestro elementare. Aiutato dalla madre, che ci appare come una splendida figura di donna, egli leggeva senza interruzione e senza scelta e finì
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col formarsi una cultura lacunosa ma di ordine superiore. Non bisogna, però, mai perdere di vista, parlando di lui, il suo sfondo proletario: Lawrence fu uno scrittore allevato con sentimenti classisti, che vedeva il mondo
dal punto di vista del lavoratore, non privo di prevenzioni contro ciò che viene considerato «privilegio» e quanto mai sollecito ad offendersi di qualsiasi cosa gli apparisse come «superiorità» intellettuale o sociale. Tutta la vita egli trascinò con sé il peso di questa attitudine che spiega in parte il suo comportamento provocatorio ed il continuo atteggiamento di sfida. Mentre insegnava egli scriveva e Ford Madox Hueffer (il collaboratore temporaneo di Conrad) ebbe la perspicacia di riconoscere i suoi meriti e di pubblicare alcune sue novelle (nervose, asciutte, di grandi meriti, adesso raccolte nel volume Exgland, My England) sulla
rinomata «English Review». Nel 1911 fu pubblicato il suo primo libro, The White Peacock, seguito dal Trespasser nel 1912 e, nel 1913, da Sons and Lovers, che è il più
conosciuto se non il migliore dei suoi romanzi. Questo è, ad ogni modo, un racconto potente come tutti quelli che narrano cose conosciute veramente. Malgrado le visibili inesperienze, Lawrence evoca con potenza la bruttezza e la sporcizia del suo villaggio natale in così netto contrasto con la bellezza e la lucentezza della campagna che lo circonda e con accorato affetto ci parla delle due protagoniste del dramma: la madre e la giovane Miriam, raffinata, spirituale, il cui amore poteva dare e richiede-
re il massimo per l’anima ma non accordare nulla per la carne. Ed in questo conflitto è contenuta già tutta l’opera successiva di Lawrence, sintetizzata nella famosa let-
tera di Paul (cioè Lawrence) a Miriam, lettera esasperata e disperata (Sons and Lovers, cap. IX). Questa necessità del piacere fisico sessuale come preparazione e completamento della felicità e della comprensione è espresso poi da Lawrence in molti (troppi) libri e mai più com-
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piutamente che nel suo The Mar Who Died, del 1929,
che parla dell'amore cristiano come amore compiuto «with the corpse of love», ponendolo in contrasto con «the reality of the soft warm love which is in touch, and which is full of delight». Più lontani dal sentimento vittoriano (avrei fatto meglio a dire dall’«espressione vittoriana») non si può essere. Nello stesso tempo stimo superfluo additare alla vostra esperta sensibilità quanto questa sensualità di Lawrence stia quasi all'opposto della estetizzante sensualità wildiana e dannunziana. A questi Sors and Lovers seguirono numerosissimi altri romanzi (The Rainbow, The Lost Girl, The Woman Who Rode Away, Kangaroo, The Plumed Serpent, Aaron°s Rod e il famigerato Lady Chatterley's Lover) che presentano il tema della necessità sessuale in vari atteggiamenti, tingendosi (in The Plumed Serpent, che del resto è una stupenda evocazione del Messico, e in Lady Chatterley) di sadismo, cioè del precondizionato sbocco di ogni sensualità non sorvegliata. Serie di libri monotona nel suo insieme ma impressionante con la propria ripetizione ossessiva, simile al clangore del tam-tam che nelle umide foreste tropicali chiama le tribù alla celebrazione dei riti fallici. In quel periodo della sua vita Lawrence viaggiò molto, specialmente nell'America meridionale, e passò molti mesi in Sicilia, vivendo in misere case di contadini o attendato intorno a Catania e Siracusa. Scrisse molte lettere che costituiscono parte essenziale della sua opera e
in esse parla con simpatia del popolo siciliano che egli paragona ai semi-barbari indios del Messico per la sua «esclusiva preoccupazione sessuale affrancata da qualsiasi freno di morale e d’interiorità». (È inutile offendersi, egli lo intendeva come encomio.) Lawrence scrisse anche alcune liriche. Versi notevoli, nei quali meglio che nei romanzi si può notare come la
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sua sensualità fosse non solo sessuale ma generalizzata a tutti i sensi. Ob but the water loves me and folds me, Plays with me, sways me, lifts me and sinks me, murmurs:
Ob marvellous stuff! No longer shadow! - and it holds me Close, and it rolls me, unfolds me, touches me, as ifit [never could touch me enough.
Assertore dei diritti dell’istinto contro la ragione (e contro la civiltà che dalla ragione è stata costruita), Law-
rence ci appare come un innovatore ben più radicale del dopo tutto mite Wells e del troppo arguto Shaw. In fondo una sola è la sua dottrina: quella della purezza essenziale del corpo per i puri, della impurità di coloro che negano il corpo, e, come corollario, la bellezza che viene
a noi attraverso le cose viste e soprattutto toccate, ed il conflitto che scaturisce dalla negazione di queste cose, sia pure per altissimi scopi che sono sempre meno alti del corpo stesso. Tutto ciò in lui è unilaterale, senza equilibrio perché era un ribelle ed anche perché, artista come era, non era un pensatore. Ma per mezzo della sua vitalità e della sensibilità acutissima la sua prosa e la sua poesia vibrano egualmente e ci mostrano una vita distorta forse, ma intensa. La sua opera non è grande letteratura ma, per ripete-
re le parole di un grande a proposito di un altro grande, è «necessaria». Necessaria, cioè inevitabile, a segnare una tappa in quello che negli anni Venti sembrava lo svolgersi contro corrente delle lettere inglesi.
JAMES JOYCE
Fra questa schiera di pesci che tentavano di risalire lo spumoso torrente della letteratura inglese, capeggiati dalla trotella Lawrence, vi erano due grossi salmoni, di gran peso e (come si vide poi) di ottimo gusto. Uno era T.S. Eliot, del quale dovremo occuparci tanto per il suo
impeto distruttivo quanto per la virata di bordo, elegantissima e giustificata, che poi compì; l’altro fu James Joyce, che con le pinne e con la coda lottò per anni contro la secolare corrente, suscitò attorno a sé sprazzi iri-
descenti bellissimi e chiazze di fango, fu soverchiato ma non virò di bordo. Grande artista e nobile figura. Del resto, senza possibili eredi. Se infatti per la Woolf il giudizio sulla vitalità del suo metodo artistico può ancora rimanere sospeso, quello sulla tecnica e sul nuovo linguaggio che Joyce creò per esprimersi è di già pronunciato. Il che non inficia minimamente il valore della sua opera che anzi rimane orgogliosamente solitaria. Joyce, anzitutto, era un irlandese di buon sangue, un po’ troppo giovane per partecipare al «Celtic Twilight» che avrebbe del resto aborrito; malgrado gli argomenti parossisticamente irlandesi Joyce appartiene per intero
alla letteratura inglese, sempre che di lui si possa affermare che appartenga a una letteratura in qualsiasi lingua. In realtà Joyce fu l’iniziatore, l’apogeo e la decadenza della letteratura joyciana, Nella rivolta contro la tradizione Lawrence si trovò impigliato per via dei suoi istinti e della sua sincerità. Joyce invece, che aveva un enorme bagaglio di cultura, arrivò alle proprie conclusioni con gli oc-
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chi aperti, combattendo e dibattendo strenuamente. Egli si pose il compito di costruire in quel dato modo e lasciò il proprio edificio, prodotto perfetto della propria intuizione, alla contemplazione del mondo. Nulla vi è lasciato al caso: egli volle dare un colpo «to a world lulled to sleep by a secretive morality and an outworn art». La sua fama (che sarà certamente durevole) è basata su due lunghissimi libri che non si sa se chiamare romanzi o confessioni o visioni: U/ysses (1922) e Finnegan’s Wake (1939). Nel 1914 aveva pubblicato un notevole volume di novelle, Dubliners, e nel 1916 un romanzo autobiografico, A Portrait of the Artist as a
Young Man, di importanza fondamentale. In questo libro altamente affascinante non vi è nulla di rivoluzionario tranne la decisione presa, alla fine, dal protagonista, Stephen Dedalus. È la semplice e pungente storia di un giovanotto inviato a studiare in un collegio dei Gesuiti con la prospettiva di entrare nell’ordine, di come poi egli esca dal collegio per iscriversi in una università laica. Lo stile è rapido e semplice; vi sono dialoghi realistici che servono ad ottenere il distacco con l’unzione religiosa dell'ambiente. In qualche capitolo la prosa diviene esaltata e poetica. Ma l’autore ci fa continuamente sentire lo stato di tensione spirituale del giovane Dedalus, ci permette di notare tutti i sintomi della crisi che si va addensando e che alla fine scoppierà in «an outburst of profane joy» a causa di una ragazzina intravista, assai svestita, su di una spiaggia: «A wild angel had appeared to him, the angel of mortal youth and beauty, an envoy from the fair courts of life». Fin qui potrebbe sembrare che Joyce non volesse spingersi oltre la posizione di Lawrence, benché questo suo slancio non sia soltanto, come in Lawrence, il rifiuto a va-
ghe inibizioni, ma una ribellione a precisi dogmi religiosi e ad una carriera che era stata per lui oggetto di studiate riflessioni. È soltanto in un dialogo con un condiscepolo
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all’università che Stephen Dedalus (cioè Joyce) ci rivela la strada assai più perigliosa che vuol percorrere. Mi dispiace per voi ma debbo citare il brano nella sua interezza: Look here, Cranly, he said. You have asked me what I would
do and what I will not do. I will not serve what in which I no longer believe, whether I call itself my home, my fatberland or my church: and I will try to express myself in some mode of life or art as freely as I can and as wholly as I can, using for my defence the only arm I allow myself to use, silence, exile and cunning... And I am not afraid to make a mistake, even a great mistake, a lifelong mistake and perbaps as long as eternity too.
Parole impegnative che furono lealmente mantenute da Joyce tutta la vita; parole gravi che portavano in se stesse la minaccia del naufragio. Naufragio che vi è stato, vediamo adesso dopo trent'anni; ma che proprio come quello dell’Ulisse dantesco, portava nel suo stesso inabissarsi la consolazione di aver tentato il viaggio. Naturalmente non bisogna considerare Joyce un rivoluzionario contro l'ordine stabilito dalla società. O almeno non contro quello soltanto. Se fosse stato questo gli sarebbe bastato, anzi gli sarebbe stato necessario, il linguaggio ordinario degli uomini. Ciò che Joyce voleva era di vedere la società nel modo che lui soltanto trovava giusto, di vederla tutta da sé, senza schemi interposti, di avere nella propria mente l’impressione della sostanza della vita e di rendere questa impressione in un linguaggio che traducesse appieno la visione interiore. Esprime-
re personalmente le proprie personali impressioni. Ma non soltanto Joyce ha voluto presentarci lo spettacolo della vita attraverso la propria visione interna: questa visione, nella sua mente, racchiudeva la visione inte-
riore degli altri personaggi. Abbiamo così le famose descrizioni joyciane su tre piani: il piano dell’autore, il piano del personaggio in sé, il piano del personaggio quale reso dall'autore. Tecnica d’impareggiabile diffi-
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coltà che talvolta, spesso anzi, ci ha dato effetti sbalordi-
tivi di profondità prospettiche; ma ancor più spesso le nostre menti, che non sono né quella di Joyce, né quella del personaggio di Joyce, né quella del personaggio come Joyce lo percepisce, vi scorgono soltanto un logogrifo, che però sarebbe vile disprezzare. Le ottocento pagine di Ulysses narrano soltanto ventiquattr’ore della vita a Dublino di Stephen Dedalus, circondato da uno sciame di personaggi, fra i quali primeggia Leopold Bloom, di tutte le classi sociali, che seguiamo in #utfe le loro attività nelle strade, case, uffici, negozi, ristoranti, bar e bordelli; e osserviamo, badate
bene, non tanto quello che questa gente fa ma quel che vedono, pensano, odorano, sentono e segretamente sospettano. Per Joyce tutta questa gente era nuda, come l'Imperatore di Andersen. Il costante fiume di sensazioni che passa attraverso la mente di queste persone è esposto a noi, non importa quanto volgare, fangoso, osceno o sublime possa essere. Lo spettacolo è assai vario. Vi sono talvolta momenti di alta esaltazione, come quando Stephen espone la propria teoria sull’Azz/eto e Russell insiste che «the supreme question about a work of art is out of how deep a life does it spring». Talvolta vi è una crudele derisione del sentimentalismo (che per Joyce era il fondo dell’inferno). «The sentimentalist is he who would enjoy without incurring the immense debtorship for a thing done.» Ma non si può negare che i periodi di esaltazione intellettuale siano poca cosa in confronto dei periodi profani, osceni, immondi addirittura. Colpa però di Joyce, o colpa nostra? La lettura di Ulysses, per una persona che conoscesse
supremamente bene l’inglese in tutta la sua sterminata ricchezza e inoltre nei suoi vocaboli tecnici, osceni e di
gergo, non sarebbe difficile altro che nelle prime pagine. Il costante flusso di immagini che passa attraverso le
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menti dei personaggi è espresso con una successione
ininterrotta di raffigurazioni indicate o da una sola parola o da frasi smozzicate o da citazioni di altri autori deformate: così infatti procede la mente umana prima che il flusso delle immagini sia canalizzato. E Joyce appunto intende rappresentare l’interezza della vita, di quella esteriore e soprattutto di quella che continuamente zampilla dalle profondità dell'inconscio in tutto il suo selvaggio disordine. Nulla è più tenuto in sordina, nessun sentimento delicato del lettore è preso in considerazione. Si può amare il libro oppure odiarlo; è semplicemente doveroso ammirare la sua eroica vitalità. Alcuni diranno che è orribile; nessuno potrà negare che è l’opera di un maestro. Ulysses è un banco di prova: coloro che giurano nel nome di Proust, che dichiarano Eliot facile e Dylan Thomas d’infantile chiarezza, vengono presi dal capogiro aprendo U/ysses. Può essere piacevole osservare il funzionamento di uno di quei cervelli artificiali che si vedono al «Deutsches Museum» ben irrorati da un finto sangue, trasmettenti con silenziosa accuratezza gli ordini ai nervi di alluminio; ma per stare a guardare durante ottocento pagine l’equivalente di un uomo sfracellato da un treno con gli intestini, il fegato, i polmoni e tutte le altre parti in bella mostra di sé, occorre una buona dose di sangue freddo. E pochi lo hanno. E quelli che non lo hanno si vendicano del loro disgusto dicendo che Joyce è un mistificatore. La vecchia, insana contumelia dei Farisei.
(Qui mi fermo perché sento la collera che mi assale.) Poc’anzi ho detto che l’U/ysses poteva esser compreso appieno da un inglese che fosse nello stesso tempo eccezionalmente colto e eccezionalmente volgare. Per comprendere Finnegan’s Wake occorrerebbe esser Dio. Nell’U/ysses la costruzione della lingua joyciana è appena all’inizio (esiste una lingua joyciana come esiste l’ungherese, il finlandese e il bantù, o come, più semplice-
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mente, esiste l'anatomia picassiana): si contenta di tagliare le frasi e dar dei dispiaceri alla sintassi. Nel Firzzegan’s Wake, che è costato sedici anni di lavoro al suo autore, il «joyciano» si è pienamente sviluppato: parole inusate, anzi inesistenti prima, erano necessarie ad esprimere le straordinarie complessità del pensiero. Il lettore avrebbe torto, lo ripeto, a credere che Joyce si diverta a prenderlo in giro. Un uomo del suo calibro non sta a lavorare sedici anni per il gusto di prendere in giro il barone di Lo Monaco o il principe di Lampedusa. Nella prefazione egli stesso ci assicura che «there is no idle dubiosity» circa «the genuine autorship and holus-bolus authoritativeness» del romanzo. Il miglior modo di cominciare è attraverso l’orecchio: occorre farsi leggere
Finnegan’s Wake (il lettore ideale era Joyce medesimo, pare): si viene a sentire come le parole più oscure saltano in piena luce ed evocano potenti immagini nella fantasia di chi ascolta. Ma se il lettore vuol far da solo, tro-
verà pane per i suoi denti: non solo dovrà avere due o tre vocabolari (uno tecnico, uno di gergo londinese, uno di dialetto irlandese, uno delle quotazions meno usitate),
ma dovrà cercare di interpretare le innumerevoli parole fabbricate di sana pianta unendo in un solo verbo due altri, uno di gergo e uno di lingua, quelle formate da tre o quattro vocaboli, ciascuno deformato, quelle frasi co-
struite intorno ad un nocciolo di un verso (fra i meno noti) di Marlowe o di Browning al quale sono appiccicate una parola turpe davanti e una del gergo dei fantini dietro. Ma quando si fossero risolti i tranelli del vocabolario non si sarebbe che a mezza strada della comprensione: si dovrebbe ancora procedere con la massima cautela perché Joyce fulmineamente e senza l’avvertenza sia pure di una virgola passa dalla narrativa alla descrizione e da questa alla riflessione, dalla narrazione dell’oggi a quella di dieci anni prima o due anni dopo, e l'esposizione del monologo interiore di un personaggio
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si muta di colpo in quella di un altro personaggio o in quella dell'autore medesimo. Tutto ciò senza la minima indicazione stradale e nello stesso linguaggio composto di parole distorte o inventate. Si prova la stessa sensazione che proverebbe un viaggiatore che giunto alla stazione di Termini Imerese e aspettando di veder delinearsi dopo poco la stazione di Fiumetorto vede invece arrivare lo scalo di Schneidermuhl e dopo un chilometro ancora quella di Ostenda e poi di nuovo quella di Swansea per ritrovarsi poi a quella di San Mauro. E i nomi delle stazioni, per giunta, sono scritti in caratteri arabi. Date queste condizioni, il raccontare la trama di Fiaze-
gan’s Wake non è facile e non lo so fare. Tutto quanto posso dirvi è che l'argomento è, per l'argomento è, per dirlo in joyciano, «manorwombanborn», cioè espressivo di un'umanità vista dal di dentro ed espressa sotto l'aspetto più carnale e ridicolo. Uomini ubbriachi o sospettati di delitti, avvocati, poliziotti, magistrati, persone calme e ri-
spettabili e donne sentimentali sino alla disperazione o disperatamente non sentimentali, sono tutti ridotti al minimo comun denominatore del sesso. Ogni cosa ha un aspetto polemico ed eccitato. Vi citerò due righe nelle quali Joyce inveisce contro i letterati tradizionali: «Those crylove fables fans who are “keen” on the pretty-pretty commonface sort of thing you meet by hopeharrods». Il libro è tutto scritto con immensa foga e se ne sente la solare sincerità. E se la gran maggioranza della gente descritta è volgare, ubbriaca, viziosa, criminale, ipocrita,
ipercritica e ridicola, si sente subito che l’autore non parteggia per essa. Egli è psicologicamente disinteressa-
to: la bellezza o bruttezza, sordidezza o pigrizia di questo mondo non lo interessa affatto. Egli ci dice: «Questo è il mondo; accettatelo o no, questo è affar vostro». Egli tiene a farci vedere l’uomo delle caverne che emerge ancora da ogni uomo attuale, tanto più orrendo in quanto vestito da uomo civilizzato.
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Joyce era irlandese. Swift lo era pure. Joyce non poteva meglio mostrare la propria disistima per gli uomini che scrivendo per sedici anni un libro che quasi nessuno avrebbe potuto capire. In Finzegan’s Wake egli ci ha allargato il campo delle ricerche lingui-
stiche, ha gettato dei fasci di luce sul fondo di pozzi infetti. Ha fatto opera d’arte? Lui solo potrebbe rispondere: se intendeva rappresentare per se stesso l’accavallarsi delle immagini nel proprio cervello, egli vi è certamente riuscito. Ma poiché noi non siamo Joyce non siamo in
condizione di rispondere. Fuori dei paradossi, Finnegan’s Wake è al di là del limite: l’arte è espressione per gli altri e non se stessi. Il solo fatto di far stampare un libro è indice della credenza nella comunicabilità di quanto si è scritto. Ma se si è scritto soltanto per se stessi e in un linguaggio strettamente personale non vi è speranza di comunicazione. E che così sia è dimostrato dalla scarsa influenza, non
di Joyce, ma di Finnegan’s Wake, la sua opera maggiore.
To conosco solo Sartre che, in alcune opere, abbia voluto seguire appunto questa scia. E per di più scrivendo in
un francese comprensibile. Il mondo di Joyce, ed il suo credo artistico, è talmen-
te individuale che per ubbidirgli e seguirlo occorre scrivere qualcosa di fondamentalmente differente. Forse Atbalie o la Locandiera sono delle opere fedeli al postulato joyciano. Però, che io non vi senta parlare con scherno di questo martire della espressione individuale. Pazzo forse ma di una pazzia alla quale, eticamente, la saggezza di un Wordsworth o di un Monti non è degna di lustrare le scarpe. Non pazzo, si ode sibilare, ma mistificatore. E chi sibila sono coloro che non scorgono la mistificazione che si spiattella sulle tele di Bouguereau o nelle odi di Carducci, nei litri di sciroppo della musica di Bellini o dei versi di Gozzano.
TRE DONNE SCRITTRICI: VIRGINIA WOOLF, ROSAMOND LEHMANN, ELIZABETH BOWEN
Virginia Woolf La Woolf è morta, suicida, da tredici anni. E ancora il suo posto nella narrativa inglese non è stabilmente designato. Si possono comprendere le esitazioni e le dispute che ancora infieriscono su questa valutazione dell’opera di lei: la posta è grossa. Essa, insieme a Joyce ma con maggior gusto e minore impeto aggressivo, ha creato un nuovo modo di narrare, tutto allusioni e riferimenti intimi, associazioni spontanee e pitture non di cose ma dei ricordi delle cose. Fu essa ad introdurre Proust nella narrativa del suo paese e fu essa stessa a sorpassarlo (non si tratta di valor: estetici ma di rzetodi di analisi). Se
questo suo metodo altamente poetico sarà seguito e, seguito, si atteggerà in opere degne, se, cioè, essa potrà di-
mostrare di non essere stata soltanto un’anima di elevata sensibilità personale ma di aver accolto in sé il bisogno, l'urgenza di tutta una generazione di esprimersi in quel modo, a lei non si potrà negare la dignità massima di madre del romanzo inglese contemporaneo. Se così non fosse la sua fama sarà quella di una sublime eccentrica, di creatrice di un mondo mirabile ma tutto personale e a compartimenti stagni con la vita. Finora si sono avute ripercussioni generali del punto di vista della Woolf in tutto il romanzo inglese; non vi è autore che si sia potuto sottrarre alla sua insinuante malia. Ma il metodo suo d’indagine nella sua inevitabile interezza non sembra sia stato adottato. Adbuc sub judice... La vita di Virginia Woolf (1882-1941) presenta delle
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rassomiglianze con quella di Proust. Anch’essa proveniva da una famiglia di ricchissima borghesia, anch'essa ebbe una gioventù delicata, anch’essa cominciò tardi a produrre le proprie opere serie. Figlia di un penetrante critico e filosofo, Sir Leslie Stephen, essa scrisse, sui giornali diretti dal padre, articoli di critica estetica, ele-
ganti ed acuti, ma non fuori dell’ordinaria cerchia degli autori alla moda. Ed anche i suoi due primi romanzi (The Voyage Out, 1915, e Night and Day, 1919), scritti
evidentemente prima che essa avesse scoperto il vero esser suo, sono intelligenti, sottili, elegantemente scritti, pari alla media, insomma dei buoni romanzi inglesi, media che (sia detto incidentalmente) è notevolmente più
alta di quella italiana o tedesca. Se essa fosse morta allora sarebbe rimasto il ricordo di una giovane scrittrice, elegante, competentissima in filosofia greca e nello studio degli Elisabettiani, con gusto eccellente per la musica e la pittura, con esigenze culturali severe, leggermente sprezzante al riguardo del comune gregge letterario. Nulla di più. Di maternità del romanzo inglese non si sarebbe certo discusso. Per fortuna non morì. Anzi si sposò con Leonard Woolf, spirito raffinatissimo affine al suo. Essa sentiva però un turbamento interno, capiva, dalla lettura delle
migliori opere del suo tempo, che essa aveva un modo di sentire diverso dagli altri, e capiva anche che non aveva trovato il modo di esprimersi. I romanzieri inglesi in voga in quegli anni (i Wells, i Bennett, i Galsworthy) le erano estranei. Del Galsworthy anzi disse che era «materialista» (il povero Galsworthy che si credeva tanto etereo!). Shaw poi era per lei «la Menzogna e il padre della Menzogna». (Su questo periodo cruciale della vita intellettuale della Woolf abbiamo i suoi appunti di estremo interesse dai quali io estraggo queste informi note.) Vi erano altri, però. Vi era anzitutto Proust che allora emergeva dall’ombra, vi era Joyce, vi era Dorothy Ri-
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chardson. Ma in Proust disapprovava la tendenza a distinguere tutta una società «which sometimes blurs his otherwise perfect eyesight»; in Joyce le ripugnava la grossolanità spesso gratuita; la mancanza di forma la allontanava dalla Richardson. Però la via era trovata: dipingere la vita com'è, in minute successive immagini «because we live in minutes, and not in years». Il suo nuovo metodo di scrittura comincia a manifestarsi in un volume di abbozzi, Monday and Tuesday, che è del 1921, e si afferma di già con compiuta maestria in Jacob's Room del 1922 e, trionfalmente, nel Mrs Dal-
loway del 1925. In Jacob's Room vi è ancora una narrazione continua presentata però in una serie di immagini, e il movimento drammatico si svolge soltanto nella mente dei personaggi. In una successione di immagini minute lo spettacolo della vita procede attraverso gli anni verso la morte. Un
momento succede all’altro, condizionato dal primo e condizionante il terzo. Virginia Woolf non ci lascia mai dimenticare la loro implacabile concatenazione e non ci lascia dimenticare 'la morte,
un
momento
minuto
anch'essa che soltanto non si riattacca ad un altro successivo. Il libro, si capisce, non lo ho più; né vi è, qui, speranza di riaverlo. Con Mrs Dalloway si inizia la serie dei cinque capolavori della Woolf. Sono essi che contengono la quintessenza della sua arte, sono essi che hanno aperto ad un tempo un nuovo metodo d'indagine e una nuova visione poetica della vita. Madre o non madre del romanzo moderno, opere di sicura durata. Essi sono: Mrs Dalloway, come si è detto; To the Lighthouse (1927), Orlando (1928), The Waves (1931), The
Years (1937); Between the Acts non è completamente finito nella revisione del testo e fu pubblicato postumo.
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Mi duole per voi ma dovrò parlarvi con una certa insistenza di ciascuno di essi. Me li son riletti tutti adesso, e ne sono abbagliato. Scrivo per mio piacere e forse vi farò leggere soltanto un sunto che farò per non rubare troppo tempo alle vostre occupazioni. Nei romanzi della Woolf sarebbe inutile cercare un «intreccio» nel senso tradizionale della parola. Vi si può trovare soltanto quello che per lei era l'equivalente di un intreccio, una situazione nella quale la vita si è cristallizzata, una situazione comprendente un certo numero di persone e una successione di «momenti» nelle loro vite reagenti l’una sull’altra, momenti rappresentati dalla successione di idee o di immagini (cioè la stessa cosa), idee o immagini che passano nella loro mente, seguendosi l’un l’altra in corrispondenza del battito del tempo privo di rimorsi. In Mrs Dalloway il personaggio che agisce (agisce per modo di dire) è uno solo: una matura ricca signora della quale sono narrate dodici ore della vita. Essa è ammalata e lo sa; ma ciò non le impedisce di compiere il proprio
dovere di quel tale giorno di giugno: quello di far i preparativi per un ricevimento che avrà luogo in serata. Fin dal mattino, quando esce da Hyde Park e si mescola al tremendo traffico di Piccadilly, essa è cosciente che «it
is very dangerous to live even one day». E in successive istantanee immagini riflette la vita, non la sua sola vita: Ob, it was very queer. Here was So-and-so in South Kensing-
ton; someone up in Bayswater; and someone else, say, in Mayfair. And she felt quite continously a sense of their existence; and she felt what a waste; and she felt what a pity; and she felt ifonly they could be brought together; so she did it. And it was an offering; to combine, to create; but to whom?
Mrs Dalloway è un periodo completo di vita luminosa, vita mostrata in un singolo giorno, con leggerezza e un
po’ di crudeltà, mostrata come un campione di eternità.
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In To the Lighthouse il pretesto scelto dalla Woolf per mostrarci l’implacabilità insieme alla monotonia del passaggio del tempo consiste in una gita in barca che una famiglia in villeggiatura compie verso un faro della costa. La gita si effettua felicemente e il libro finisce. Ma in questi pochi giorni, attraverso visioni frammentarie ma collegate e mediante conversazioni futili ma cariche del senso della vita e della morte, conosciamo tutta la fredda, scialba esistenza della famiglia, scialba sì, ma anche
carica del senso del continuo fluire del tempo e del lento, inavvertito insinuarsi della morte, di quell’«ultimo attimo senza riferimenti posteriori» lontano ancora ma
concreto, «come una stazione ferroviaria a cento miglia di distanza, che esiste mentre noi corriamo verso di essa,
che non vediamo ma della quale l’esperienza dell’orario delle ferrovie ci dà l'assoluta sicurezza». E il trascorrere del tempo è segnato in modo irremissibile dal battito delle onde, luce il giorno, suono la notte, «che in questo momento battono sulle coste di tutta la Terra». Pieno di estro e di vivacità (non vorrei che credeste la Woolf una scrittrice piagnucolosa, in essa le pagine di umor sereno si alternano a quelle malinconiche) è il tema di Orlando. In questo romanzo (?) l'autrice ha tentato d’impersonare l’intera vita sociale inglese nei secoli in un unico personaggio, non solo dotato d’immortalità ma anche della facoltà di cambiare sesso. E la lunga storia delle idee e dei costumi ci viene presentata col metodo abituale delle piccole immagini interiori ricollegate. L’effetto è stupefacente. Si può, se si vuole, prestare attenzione alla simbologia del doppio sesso del poeta, che dà e riceve, o a quella della inscindibile unità fra una generazione e l’altra, all’infinito. Si può anche, ed è più fa-
cile, leggere Orlando come pura narrativa fantastica, cosparsa di satira e adorna di smaltate descrizioni. In un caso e nell’altro una lettura nutriente e affascinante, che
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ci mostra quanto molteplice fosse l’anima di questa grande scrittrice e quanto rara la sua cultura. The Years è il libro della Woolf che ha suscitato maggiori controversie e che molti disapprovano. Essi trovano che il tema del tempo è qui troppo insistentemente, troppo esplicitamente posto. Può darsi. A me sembra il più penetrantemente poetico di tutti. Sono episodi staccati di quattro momenti della vita di una famiglia, dal 1880 ad oggi. Ben s'intende non momenti cruciali ma momenti qualsiasi, carichi però come sempre di una celata fatalità. E gli orologi della casa, che in quei cinquant’anni si guastano, si riaggiustano, si vendono e si comprano, ma sempre in modo che uno ne resti a battere le ore, ritmano at-
traverso questo mezzo secolo il fluire eracliteo del tempo. Insieme ad essi le stagioni si alternano, immenso orologio cosmico, sottolineano con la loro immutabile varietà la
mutevole identicità delle generazioni. Ascoltate la chiusa di Years, cercate di capirne la sommessa poesia, la sorridente mestizia: «The sound of the hour filled the room; softly, tumultuously, as if it we-
re a flurry of soft sighs hurrying one on top of another, yet concealing something hard. Lady Pargiter counted. It was late». L’ultimo romanzo della Woolf, Betweer the Acts, non
è stato completamente corretto dall’autrice e in qualche punto si scorge una certa mancanza di rifinitura dello stile. Malgrado questo è forse il più sorprendente dei suoi libri. In esso la Woolf ha creato il più fantastico Sogno di una notte di mezza estate servendosi dei materiali più dimessi. Un gruppo di persone è riunito in una vecchia e bella casa di campagna per assistere a un pageant (una sfilata commemorativa in costume, divertimento
quanto mai popolare in Inghilterra) che si svolgerà, organizzato dal villaggio vicino, nel parco della casa. La sfilata si svolge. E il libro si chiude. Ma l’atmosfera che vien creandosi attorno a questi invitati male adatti l’uno
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all’altro, attorno ai meschini attori che formeranno il pageant, diviene tesa, carica di elettricità, di una specie di
vuota eccitazione che tocca i limiti dell’isterismo collettivo. Ma alla fine, benché abbiamo avuto la sensazione di aver assistito ad un sabba di streghe, ci accorgiamo che di fatto non è successo nulla che non avvenga sempre in un placido pomeriggio di estate. Non vi sono «protagonisti» benché talvolta l’attenzione sia rivolta su Isa che continuamente ripete a se stessa versi di second’ordine, o su Mrs Swithin, sempre immersa in vaghi ricordi del suo passato, che ascolta le onde che batteva-
no sugli scogli in una notte tranquilla; o su Miss La Trobe, sempre rivolta all’avvenire di minori angustie che il successo del pageart potrebbe aprirle. Ma non sono maggiormente protagoniste di quanto siano eroi gli impennacchiati cavalieri della sfilata; esse vanno e vengono in una trama di pensieri e sensazioni separate combinate insieme dall’autrice, e dall’autrice soltanto, in una elabo-
rata composizione musicale, musica esaltata talvolta sino alla frenesia spirituale, ma che ha sempre l’inconsistenza e la fuggevolezza del sogno. È una sezione di vita raggelata in un dato momento, ma che sotto la superficie ba-
nale scorre con intensità febbrile; un altro campione del tempo eterno e delle sue ripetizioni. Ciascuno di questi romanzi ha un tema chiaramente definito, sul quale si sviluppa una composizione musicale svolta qui frase per frase, quasi nota su nota, con crescendi e rallentamenti, sempre accompagnati dalla sensazione del fluire del tempo, scandito sia dagli orologi, sia dalle onde, sia dalle stazioni e financo dalla misura dei brutti versi di Isa. Il tutto espresso per mezzo di immagini interiori di visioni e di suoni che schiudono lunghe prospettive psicologiche. Proust, direte voi. Certo, anche Proust. Ma il tempo è osservato in modo diverso: in Proust il tempo è contemplato come «tempo trascorso», mai come «tempo fluen-
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Pi
te». La recherche du temps perdu è un libro di memorie, i romanzi della Woolf sono come quei diagrammi che al capezzale dei ricoverati all'ospedale segnano ora per ora la febbre. La nostra epoca attuale è divenuta sensibilissima al Tempo che continuamente udiamo rombare come il frastuono della cascata che ci inghiottirà e verso la quale, senza scampo, fluiamo. La Woolf è un’artista di importanza europea, un grande poeta. E la sua presentazione, inadeguata e lacunosa per quanto sia, dovrebbe spingervi a conoscerla. Rosamond Lebmann
Rosamond Lehmann potrebbe servire da salutare ammonimento a chi vuol trinciare con soverchia facilità giudizi negativi. (Io non c'entro, perché, se, per assurdo,
dovessi scoprirmi un millimetro di attitudini critiche peccherei sempre per eccesso di benevolenza, come del resto avrete potuto constatare.) Se ci si fosse fermati ai suoi primi libri (Dusty Answer, 1927, A Note in Music, Invitation to the Waltz, 1932,
Weather in the Streets) il massimo che si sarebbe potuto benevolmente dire era che essa imitava con buon impegno le qualità estetiche della Woolf, e che possedeva un fresco intuito nel disegnare caratteri di giovanissime donne sconvolte dai fermenti dell'adolescenza. Ma nel 1945 una sua lunga novella, The Ballad and the Source, rivelò che la Lehmann poteva far molto di
meglio. Vi è ancora un po’ della Woolf ma lo stile è divenuto personale, per quanto sembri ancora modellato su quello di James, del James più robusto degli Asperr Papers. Perdura ancora il suo penchant a descrivere delle giovinette, ma questa volta ciò che viene descritto non sono più primi balli o primi baci ma una crudele storia di passione, amore materno, crudeltà paterna, incesto e
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pazzia. Il tutto è raccontato in prima persona da una ragazza, Rebecca, la quale, malgrado la storia ributtante
che ci riferisce, non cessa mai di mostrarsi per quello che ancora è, una ragazzina fondamentalmente ingenua, dalla mente vergine. Singolare mistura di esperienza e di innocenza, infinitamente pietosa, Rebecca mi è apparsa come una delle più commoventi creazioni della letteratura moderna. Dopo di che il sipario è calato e non ho letto più nulla della Lehmann. Ma so che è viva, che scrive e che gode
ora grande fama, perché me ne ha parlato Berenson l’anno scorso. Elizabeth Bowen
Che la Bowen fosse una grande donna si vide invece subito. Essa si fece conoscere sin dal 1923 con una serie di novelle pubblicate dapprima in riviste e dopo riunite in parecchi volumi: Encounters, Ann Lees, The Cat Jumps ed altri ancora. In un bel saggio critico essa si richiama ai suoi maestri, che sono buoni (Flaubert, Cechov,
James e la Woolf), ma, come sempre in questi casi, cela il suo vero modello: Kipling. Intendo dire maestro soltanto nel senso della tecnica, in quel suo modo d'’introdurre la storia «a picco», quasi già nel cuore della vicenda, in quella assoluta assenza di personaggi secondaîri, in quel modo quasi villano di chiudere la porta in faccia al lettore quando l’essenziale è stato detto. Possiede tutte le qualità di un poeta lirico: essa, come un lirico, sa rendere il colore emotivo di un istante; come
un lirico sa rendere memorabile un avvenimento minimo; essa stessa confessa di aver costruito delle novelle su facce incontrate nella strada, su quattro parole scambiate da sconosciuti nell’Underground che «had forcefully, I should say grievously, come to hit my imagination».
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Nei romanzi, strano a dirsi, essa adopera una tecnica differente: di lenta insinuazione, di velati accenni, di accurate armonizzazioni ambientali. Lentamente, così, il
dramma viene a formarsi, dramma inespresso fra i personaggi, chiaro al lettore. Anch’essa predilige le ragazze la cui formazione sentimentale non è compiuta, o, all’in-
verso, le vecchie zitelle sul punto di naufragare nella vecchiezza: «Both these ages offer unlimited sentimental possibilities». Notevoli fra questi romanzi To the North (1932), The
Death of the Heart e The House in Paris (1938). Più notevole di tutti Tbe Heat of the Day (1949), nel quale sul patetico tema della Londra della guerra, atrocemente mutilata ma che vuole aver l’aria di continuare la solita vita, essa innesta episodi di alto significato (intimo) e insinua continuamente il senso di una catastrofe imminente che non giunge mai; e che è appunto la sensazione della guerra (per chi è sopravvissuto, si capisce). Non so se dopo The Heat of the Day la Bowen abbia scritto qualche cosa di maggior valore. Questo però sarebbe sufficiente a darle il posto di miglior romanziere inglese che adesso detiene, alla pari con Greene.
UN VITTORIANO IN RITARDO: JOHN GALSWORTHY
Galsworthy, che per la maggior parte degli italiani attuali rappresenta, insieme a Cronin, #/ romanziere inglese contemporaneo, nacque nel 1867, proprio lo stesso an-
no della nascita di Bennett. E benché nel suo insieme la sua opera sia superiore all’insieme dell’opera di Bennett, egli ci appare adesso rispettabile, senza dubbio, ma leggermente anacronistico, un signore che in redingote e
tuba vada aggirandosi in questa epoca scamiciata. Bennett, come abbiamo visto, veniva da umilissima famiglia,
Galsworthy dalle upper classes, dalla ricca borghesia che in Inghilterra è davvero ricca ed ha grandi tradizioni di cultura. E quindi Bennett nelle sue opere migliori descrisse con occhio acuto e senza compartecipazione le sofferenze di una classe che vuol salire e spesso non lo può; Galsworthy le sofferenze (assai diverse) di una clas-
se che non vuol discendere e cui il mantenersi riesce difficile. Bennett scrisse spesso per puri scopi finanziari, cedette all’oro; Galsworthy, facoltoso per conto suo, scrisse sempre ciò che gli passava per il capo, ma ebbe anch'egli la sua pecca: cedette al cuore. Se egli fosse stato barman non invano il Mago gli avrebbe chiesto del «liquore di cuore».° Ne possedeva sempre in serbo più di una bottiglia. Bottiglie, ben inteso, sapientemente " Lucio Piccolo soleva improvvisare alcune scenette teatrali che mettevano alla berlina icomportamenti stereotipi e i luoghi comuni degli amici. Una di Queste si riferiva a Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco, soprannominato il Mago, per burlarne il retorico sentimentalismo, e si svolgeva in un bar dove il barman serviva a Beb-
buzzo un «liquore di cuore».
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confezionate: senza troppo zucchero e con una goccia di angostura. Se non fosse stato così sarebbe stato una Marie Corelli e non ne parlerei. Nato cinquant'anni prima sarebbe stato davvero ciò che il pubblico non addestrato crede che sia: un grande romanziere. Così com'è, e considerato che la sua opera maggiore fu conclusa un anno dopo la pubblicazione dell’U/ysses, fa figura di stravagante appunto perché stravagante non era. Il suo primo libro notevole fu Vi/la Rubein che è del 1900 ed è posto sotto il duplice conclamato patronato di Flaubert e di Turgenev. Ed è un libro d’indiscutibile fascino appunto perché non ancora anacronistico, nel quale Galsworthy si sforza e riesce a presentare lo spettacolo della vita con la imparzialità piena di grazia dei suoi due maestri. La scelta di questi due santi protettori fu salutare per la sua arte: il gentile, il non acrimonioso distacco di questi suoi maggiori fu ciò che gli permise di domare, di indicare senza spiattellarlo, il senso di universale amore che Galsworthy possedeva verso uomini, donne, cavalli e cani, verso le belle case, le belle posizio-
ni sociali e i bei redditi. Nel suo libro seguente, The Island Pharisees, egli enuncia chiaramente il suo desiderio di essere imparziale, in tutto, in politica, in arte, in
morale. (Il che è il miglior sistema per restar seduto fra due sedie.) E l’imparzialità qui si mostra, fra l’altro, nella ferocia del titolo e l’innocuità del testo. Come vedete, non lo amo. Tuttavia sento che sarebbe
stato impossibile tacere del tutto, come farò per Cronin e Morgan, o collocandolo fra i secondari. Mi rendo conto che i suoi difetti (che talvolta sono esasperanti) non sono difetti imputabili a lui ma al suo tardivo concepimento. Gli hanno dato il premio Nobel ed in fondo hanno fatto bene: il titolo di uno dei suoi ultimi romanzi riassume la sua opera: Swan Song, il canto del cigno dell’età vittoriana che fu una grande e rispettabile età; ma essa era morta e lui non lo sapeva.
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La fama di Galsworthy è legata principalmente (unicamente) alla Forsyte Saga, un ciclo di romanzi che narrano la storia di una famiglia della upper rziddle-class dal 1886 al 1930. Egli vi nota con occhio attento la morte dell’età vittoriana vera, di quella che io ho chiamato
«vittoriana pura», che egli ha con molto vigore rappresentata nell’«old Forsyte», il vecchio robusto opulento signore che si avvia verso i suoi cento anni e che poi un
leggero raffreddore uccide in due giorni. Questa dell’«old Forsyte» rimane la miglior figura di Galsworthy e se fosse stata tracciata da Trollope o da Butler la mia ammirazione non conoscerebbe limiti. I guai cominciano negli ultimi volumi quando egli ci presenta i pregiudizi, le paure, gli scandali, le ipocrisie di una famiglia del 1890 volendo farci credere che è una famiglia del 1930. I problemi di Soames Forsyte e delle sue Irene e Fleur ci appassionerebbero se li leggessimo in un vecchio autore. Invece pensiamo che sono del 1925-1930 e ci sembrano fessi. Anche lo stile è troppo compiuto, troppo liscio e troppo «naturale»; forse era meglio così, allora; adesso siamo avvezzi a qualcosa di diverso.
Ciò non toglie che l’opera di Galsworthy rimarrà: essa rimane come documento dell’epoca 1890 benché scritta quarant'anni dopo. Può anche darsi che cresca di valore quando fra duecento anni le date della presente letteratura saranno un po’ confuse e vi saranno dei lettori che riscopriranno John Galsworthy «grande romanziere tardo vittoriano». E tutti saranno contenti. Galsworthy contribuì anche lui alla rinascita del teatro inglese: e scrisse parecchie commedie e drammi (Strife, Justice, The Silver Box) che non sono privi di valore e che rendono, come i suoi romanzi, l’immagine di uno scrittore di grandi meriti, onesto, serio e autorevole, ma un tantino spaesato.
I POETI CONTEMPORANEI
Questa sarà la parte nella quale maggiormente verranno in luce le difficoltà cui accennavo nella premessa a questa sezione delle letture. I poeti contemporanei inglesi non li conosco abbastanza; e, se parlare delle cose che si conoscono imperfettamente è, in fondo, facile, ciò non toglie che a me ripugni. Di questi poeti, che non sono pochi, io conosco abbastanza bene Hopkins (che pongo fra i contemporanei benché sia morto da sessantacinque anni), Eliot e Fry. Di Spender, Auden e Dylan Thomas ho letto quanto si può leggere nelle antologie, sempre sottoposte al criterio di scelta di chi le ha composte.E basta. Quindi di questi ultimi non potrò onestamente discorrere. E debbo limitarmi a dirvi qualcosa dei primi tre. Sono, è vero, i più notevoli ma alla comprensione dei massimi si può giungere solo attraverso la conoscenza dei minori, se no si ha il di già menzionato «arcipelago». Non c’è rimedio però. Il commercio librario è il meno organizzato di tutti; sono cinque mesi che ho ordinato Dylan Thomas; non arriva; a Milano c’era ma non lo potevo comprare perché se no ne avrei avuti due se l’ottimo Flaccovio si decideva a far arrivare quello ordinato da lui. «Scènes de la vie de province.»
GERARD MANLEY HOPKINS
Come avete potuto notare, nella letteratura inglese sono relativamente frequenti i casi di risurrezione di autori creduti morti e di subitanei riconoscimenti di opere dimenticate. Vaughan è un ottimo esempio dei primi e Trollope dei secondi. Ma il caso di Hopkins (1844-
1889) supera tutti per stranezza. Egli nacque da una buona famiglia di intellettuali, studiò brillantemente ad
Oxford, fu compreso nell’effimero ma vivace movimento di ritorno al cattolicesimo che appunto ad Oxford ebbe la sua sede verso gli anni 1870-1875. Si convertì, prese gli ordini sacri. Ebbe parrocchie nei quartieri poveri di Londra e di Liverpool. Poi volle entrare nella Compagnia di Gesù: seguì il noviziato nel famoso collegio di Stonyhurst, divenne gesuita. Si dedicò all'insegnamento e nel 1884 divenne professore di greco all’Università di Dublino. Nel 1889 morì, ancor giovane. Nessuno sapeva che avesse scritto dei versi; s'interessava sì di letteratura ma passivamente. Però aveva conservato delle amicizie fra i suoi antichi condiscepoli di Oxford, fra i quali Robert Bridges, che era divenuto un poeta molto conosciu-
to. Questi, quasi trent'anni dopo la morte di Hopkins, pubblicò, nel 1918, il volume
The Poems
of G.M.
Hopkins, al quale, nel 1930, seguì un’edizione più completa. Sono un centinaio di poesie che erano tutte incluse nelle lettere che l’autore scriveva all'amico Bridges. Questi pubblicò poi l’intera corrispondenza, che sorprese per l’acume critico e l'estrema severità dei giudizi letterari.
Adesso la gloria di Hopkins è al suo zenith. Le giovani
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generazioni di poeti riconoscono in lui il loro maestro, sia in fatto di astrattezza del materiale (bella questa «astrattezza del materiale») ispirativo, sia per il profondo rinnovamento operato nella prosodia e nel vocabolario. Riguardo alla qualità dell’ispirazione vi è poco da dire: ciascun poeta può, evidentemente, «cantare» ciò che vuole; e Hopkins esalta la fede in Dio, la Immacolata
Concezione e Duns Scotus in versi di impareggiabile colorito. Riguardo alla prosodia vi è più da dire, anzi è venuto il momento di parlare (brevemente) della poesia inglese. Il parlarne soltanto dopo ottocento pagine è segno da una parte della mia ignoranza del soggetto e dall’altra del mio desiderio di non annoiarvi. La prosodia inglese è una prosodia «mista». Cioè essa è basata in parte sull’accento (come quella italiana) in parte sulla quantità (come quelle classiche). Qualsiasi tentativo di scriver poesie basandosi unicamente su uno di questi due valori è fallito e doveva fallire perché se da una parte l’accento (specie nelle parole di origine latina) è assai forte in inglese, non meno chiara è la differenza fra vocali lunghe e brevi (f77, feet / to put, to loot) e quindi vi è la necessità di contemperare queste due esigenze, necessità che non si presenta nell'italiano in cui le vocali hanno quasi sempre la medesima lunghezza, eccetto nelle parole tronche che infatti, introdotte in fin di verso, valgono quantitativamente di più e richiedono appunto nel verso una sillaba di meno («la sua cruenta polvere / a calpestar verrà»). Leggendo i trattati di prosodia inglesi ci s'imbatte nei termini di dattilo, spondeo e trocheo con la stessa frequenza con la quale s'incontrano i termini di ottosillabo, decasillabo, ecc. È intuitivo come questa mistura di valutazione dia una libertà di sonorità illimitata al poeta che possegga un giusto orecchio, e come i grandi poeti siano degli «inventori» di metri, eminenti fra tutti i moderni Coleridge, Shelley e Swinburne.
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Col progredire dei tempi, però, prevale l’attaccamento al ritmo più che all’armonia; vi è insomma, come per tutti i progressi, un ritorno all'antico: ai ritmi pre-elisa-
bettiani di Langland e delle ballate, cioè alla prevalenza della quantità (dico prevalenza e non dominio assoluto che si tradurrebbe nell’inesistenza del verso). L’azione rivoluzionaria di Hopkins consiste infatti nell’adozione dello sprung verse, del verso di slancio,
che si diparte leggero dal trampolino vigorosamente accentato del suo inizio per distendersi poi su misure puramente quantitative che vengono daccapo ritmate dal colpo di tamburo dell’inizio del verso seguente. In modo che non vi è più il «bel verso» tradizionale bensì una successione di versi che nel loro insieme costituiscono l'equivalente del bel verso antico. E la Dazerkopfrelodie wagneriana, è un processo chiaramente anti-melo-
dramma italiano, un processo che richiede orecchio vigile ma che dà, in mano di chi sappia servirsene, risultati prodigiosi benché non accessibili a sensibilità non preparate. Questo della innovazione prosodica è merito immortale di Hopkins. Dopo di lui (dopo la scoperta di lui, voglio dire) la faccia della poesia inglese è mutata. Quasi eguale importanza hanno avuto le sue innovazioni di vocabolario. Hopkins desiderava ottenere una distillazione di poesia; chi dice distillazione dice concentrazione; per avere una buona bottiglia di cognac occorre un barile di vino. Quindi, necessità di eliminare qual-
siasi parola che non rechi carica poetica (gli elementi idrici del vino) in ispecie i pronomi relativi, gli articoli; necessità anche di usare con larghezza delle possibilità della lingua inglese di formare parole composte, e di scegliere emozionalmente più che logicamente queste parole. Da ciò deriva una certa oscurità del testo, oscurità che si dissipa facilmente mediante una certa attenzione non superiore a quella occorrente per annodare
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correttamente una cravatta. Attenzione che, naturalmente, basta a spaventare i temperamenti pigri che pre-
feriscono le prostitute alle vergini e ai quali non rimane che accontentarsi di «Un organetto che suona per la via» e «Scalinatella longa, longa, longa, longa, longa, longa, longa». Attenzione che del resto occorre usare una volta sola perché ad una seconda lettura la poesia vi si presenterà chiara e precisa: vi avrete ristabilito in mente vostra i nessi grammaticali mancanti e non avrete che da godere del gusto bruciante del verso e dei panorami coloratissimi che si offrono alla vostra vista. Io so che questi sono dei desideri (miei) troppo arditi per dei giovani isolani. Fra cinquanta anni Hopkins sarà di moda a Palermo, quando la sensibilità universale non corrisponderà più alla sua. E così via di seguito. Vorrei nondimeno trascrivere qui una serie di versi #pici di Hopkins scelti fra i suoi peggiori. Mi piacerà vedervi inorridire in nome della chiarezza e del «cuore» gozzaniano. (Ma, naturalmente, avvertiti da prima forse non inorridirete.) Duns Scotus's Oxford (1) Tower city and branchy between towers; cuckoo-echoing, bell-swarmed, lark-charmed, rook-racked, river-rounded;
(3) #be dapple-eared lily below thee; that country and town did one encounter in, here coped and poised powers; (5) thou hast a base and brickish skirt there, sours
that neighbour-nature thy grey beauty is grounded (7) best in; graceless growth, thou hast confounded
rural rural keeping — folk, flocks, and flowers.
Qui si possono far notare tutte le caratteristiche del verso di Hopkins: la arsi sulla prima, o raramente secon-
da, sillaba; la elisione dei pronomi relativi (fine del V verso); i versi costruiti secondo la quantità (verso II, tanto risonante e affollato); la profusione di parole composte
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(verso II di nuovo, verso III, verso VI); il mutamento degli aggettivi in sostantivi (verso I: «tower city» invece di «towered city», come fosse in italiano «città torre» invece di «città turrita»); la profusione di allitterazioni (verso II, verso VIII); le rime imperfette (versi V — VIII). Questi
son lungi dall'essere fra i migliori versi di Hopkins; eppure spero che il vostro orecchio, benché adusato al ciabattare ritmico del melodramma, ne scopra la sorprendente musicalità, la concentrazione prodigiosa, i colori vivacissimi, la generale malinconia che da essi emana. «If not, with a blush retire»
La edizione italiana di Guanda (la sola che io possegga) è, per fortuna, completa; la traduzione a fianco, che vi potrà esser utile, è onesta; inevitabilmente lascia sfuggire molte sfumature. Quando la avrete acquistata, e compiuto il doveroso leggero sforzo, vi sentirete probabilmente arricchiti per tutta la vita. Vorrei raccomandarvi a caso
qualche lirica fra le migliori, facendovi però notare come tutte siano da tenersi in considerazione, essendo esse evidentemente, data la scarsità loro, il frutto di una scelta già fatta dal severissimo autore. (Le indico con i numeri, ec-
cetto proprio per le più famose.) 1: che davvero è uno di quei quadri di primitivi, colmi d’erbe innocenti e di fiori ingenui. 2: epigramma religioso di una gravità e di un «movimento» dolcissimo di mare in riposo. 4 (The Wreck of the Deutschland): la famosa lunga ode in commemorazione delle suore annegate in questo naufragio: altissima elegia, meditazione sublime su Dio e sulla motte, gonfia di miriadi di superbe immagini. 7: una delle poesie nelle quali il sentimento ascetico s’incarna nelle più originali immagini. 8 (The Starlight Night) che veramente ci comunica il rapimento del poeta nella contemplazione del cielo. Una fra le più famose. 12 (The Windbover) che io (da verme qual sono) stimo la migliore di tutte. Raramente (mai, forse) ci si è comunicato un tal senso di «libramen-
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to» nell’aria, di libertà fisica, di potenza aggraziata. Una gioia per l'eternità. 13: puro pezzo di colore, di quei colori maculati e misti per i quali Hopkins mi sembra avesse predilezione. 17 (The Loss of the Eurydice): non è fra le più belle ma è interessante da leggere come quella che meglio ci mostra il metodo di Hopkins, che qui è proprio (appunto data la scarsa ispirazione) allo scoperto. 19: deliziosa poesia rurale, piena per altro di un tragico sentimento. 25: oscura e potente allegoria, immagine magnifica nella sua enigmaticità; sembra un’acquaforte di Redon. 29: una delle più concentrate, splendente nei suoi magnifici ultimi versi. 31: leopardiana. 32 (Spelt from Sibil’s Leaves): una delle più grandiose, delle più emotive. Delle immagini contenute in essa si potrebbe formare un intero volume. E che musica! 35: nella purissima vena della 19. 36: un dittico composto di due elegie, ambedue di primissimo ordine. 37: troppo lunga a prima vista ma che bisogna aver la pazienza di legger tutta, piano, per esser ricompensati da visioni di estrema bellezza. 41: senza titolo. Meditazione disperata, un po’ troppo disperata per un Padre gesuita. In questa magnifica poesia si vede, per la prima volta, il poeta che prende la mano al prete. Da 44 a 47: serie di liriche di prim'ordine. 50: O Thou Lord of Life, Send my Roots Rain. Da questo momento in poi si trovano le liriche incompiute e quelle pubblicate da Williams che sono di molto inferiori. Il che non vuol significare che non occorra leggerle! Occorre, e occorre pure conoscere quelle delle quali ho saltato i numeri. La vocazione religiosa di Hopkins è stata per la letteratura una catastrofe; negli ultimi anni della sua vita egli
scrisse che «comporre versi è un peccato del quale mi confesso ogni giorno e nel quale spesso ricado»! Lo slancio, l’elevatezza, l’arditezza ritmica e verbale
di Hopkins hanno pochi eguali. Certamente il più grande lirico inglese da Keats a noi.
THOMAS STEARNS
ELIOT
Potrebbe sembrare che Eliot (n. 1888) sia giunto al massimo del suo talento e della sua riputazione; il suo nome
è popolare anche fra coloro che non lo hanno letto, ha ricevuto il premio Nobel, le sue opere hanno financo varcato la soglia della libreria Flaccovio, il che mi fa pensare alla gioia della povera Ninon de Lenclos quando vedeva gli spazzacamini voltarsi al suo passaggio. Eppure Eliot è un autore la cui lettura rivela uno sforzo continuo, uno sforzo sempre progrediente verso una
forma compiuta. A sessantacinque anni Eliot dà l’idea di uno scrittore in formazione. Se egli riuscirà a produrre il suo capolavoro questo potrà essere davvero notevole. Molto notevole. Autore in perpetuo movimento ideale, egli è passato dalla fase negativa di The Waste Land (1922) e di The Hollow Men (1925) a quella di doloroso raccoglimento di Ash Wednesday (1930), da questa ad un principio di costruzione spirituale col Murder in the Cathedral e The Rock (1934-35); costruzione che ritroviamo più avanzata nella Farzily Reunion (1939) scritta lo stesso anno dei felicissimi Practical Cats. Si sarebbe potuto credere che la guerra avesse recato uno scoraggiamento nel poeta e che, le condizioni ambientali essendo le stesse, egli fosse ricaduto nel nichilismo spirituale da lui tanto magnificamente espresso nel Waste Land. Eliot invece era di già saldamente ancorato ad una sua fede spirituale e la nuova guerra gli arrecò certamente una maggior dose di cupezza ma anche una più ferma fede in una finale sintesi
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risolutiva. Del dopoguerra sono infatti i Four Quartets, il Cocktail Party (1949) e il recente Confidential Clerk, due dei quali segnerebbero il punto di arrivo di un artista che non fosse Eliot; ma che portano ancora in se stesse il germe di opere ancora maggiori che, se si formeranno nella linea prevedibile, potrebbero anche essere la «Summa poetica» (e filosofica) di questa generazione. Magnifica evoluzione spirituale accompagnata da un perpetuo (benché ondulante) accrescimento poetico e per di più compiuta in completa autocoscienza. Eliot non è affatto il «poeta ebbro di sole» che canta al vento le sue canzoni spensierate (mi sforzo di imitare lo stile di chi queste cose desidera); è un artista metafisico, che
riesce a bruciare la propria filosofia mentre scrive, ma che dopo, con mente lucida e prosa stringata, ne estrae lui stesso il succo di pensiero. In questo, e in parecchie altre cose, vicino a Leopardi. Cuore? (pare sia venuto di moda qui, beninteso — fare questa domanda). No, se per cuore s'intende voler far spuntare le lagrimucce del lettore richiamandogli i suoi dispiaceri e le sue corna; procedimento che ai nostri giorni equivale esattamente alla prostituzione. Moltissimo invece se segno di «cuore» è l’affanno non per questa donnucola o per questo omiciattolo, ma per l’uomo e i suoi destini. Eliot nacque negli Stati Uniti, nel Massachusetts, da
una famiglia della stessa classe sociale di quella di Henry James, cioè di alta cultura e rigidamente presbiteriana. Compì i più alti studi a Harvard e a Oxford, risiedette quasi sempre all’estero ed in ispecie in Inghilterra e in Italia, e finì col naturalizzarsi inglese e col passare alla Chiesa anglo-cattolica (cioè anglicana e non cattolicoromana come si è erroneamente detto). Adesso vive in Inghilterra. Egli è un conoscitore profondo della letteratura italiana e in primo luogo di Dante, che egli pone al vertice della «piramide dei poeti» ritenendolo superiore per «concisione» e «vedute abissali» allo stesso Shake-
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speare. Queste lodi, egli aggiunge, vanno rivolte al Purgatorio e in massima parte al Paradiso. Eliot passa per essere il più rivoluzionario dei poeti. Ecco quel che questo rivoluzionario scriveva nel 1920 (Tradition and the Individual Talent): The existing monuments form an ideal order among themselves, which is modified by the introduction of the new (the really new) work of art among them. The existing order is complete before the new work arrives; for order to persist after the supervention of novelty, the whole existing order must be, if ever so slightby, altered; and so the relations, proportions, values of each work of art toward the whole are readjusted; and this is conformity between the old and the new. Whoever has approved this idea of order, of the form of European, of English literature, will not find it preposterous that the past should be altered by the present as much as the present is altered by the past.
Per non turbare questo ordine preesistente o per meglio dire per modificarlo armoniosamente senza farlo crollare (perché il crollo schiaccerebbe la stessa originalità del demolitore) è necessario in letteratura un certo «ordine». E il concetto di «ordine» contiene in sé quello di «autorità». Non certo l'autorità incarnata in un legislatore letterario (si chiami esso Aristotele, Boileau, Po-
pe o Mallarmé) ma una autorità defluente dalle centinaia di scrittori che hanno costruito l’edificio della letteratura mondiale che è, visto da noi, armonioso. La
tradizione non è la trasmissione a noi delle vecchie maniere di dir le cose, ma è il fatto che «il presente cosciente deve avere il senso del passato». «We know more than the dead writers but they are that which we know», come Eliot dice nel saggio già citato. La letteratura è concepita da Eliot come un processo continuo nel quale il presente contiene il passato; il presente che si manifesta con «fresh creations» espresse non in termini del vecchio mondo ma in quelli del nuovo mutevole esistere; sempre però in modo non discorde
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dal passato che soltanto così vien modificato e completato mediante l’assorbimento della nuova opera che soltanto col peso della millenaria tradizione dietro di sé può influire nella creazione di nuove opere d’arte quando sia venuto il loro momento di zampillare. Da queste vedute deriva la necessità di una specie di allenamento, di una askeszs per l’artista che gli permetterà «to be a rebel but no iconoclast». Chiarita con una semplice lettura di un vecchio suo saggio la posizione ideologica del «futurista» (così lo si sente chiamare!) Eliot, rimane sempre da spiegare il fatto, innegabile, che egli abbia scritto dei versi certamente non tradizionali. Un po’ di riflessione ci dirà di già che egli desiderava una «armonizzazione» con il passato e non già una sua copia; ma ciò non basta: occorre dire che Eliot stimava fuori della autentica e sana tradizione proprio i «poeti tradizionali»: «It is Tennyson, not us, which is the anti-Homer». «The literary language we reject is that which has served its purpose in the past but for modern use has become dead.» Lo scrittore moderno deve usare, proprio per continuare la tradizione («che adesso ci appare immobile ma che è stata un torrente di nuove idee»), un linguaggio che sia adatto ad assimilare ed esprimere nuovi oggetti, nuovi sentimenti, aspetti nuovi.
E questo linguaggio deve essere «strikingly» differente da quello del passato precisamente perché il mondo nostro (del 1920) è «strikingly» diverso da quello di trenta anni fa, tanto il mondo esteriore come quello delle idee. Avrete notato qui come Eliot parli al plurale. Non è il «noi maiestatico» 0 quello vago del «caposcuola» (allora caposcuola non era) ma ha un riferimento preciso ad altri due scrittori che egli considerava i suoi padri spirituali: Ezra Pound, il poeta americano, e James Joyce. Per Joyce egli aveva (ed ha) la più calda ammirazione («up to Finnegan’s Wake» però) e lo ritiene continuatore e modificatore ad un tempo della più pura tradizione; ciò che ammira
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soprattutto in lui è lo sforzo di creare un nuovo linguaggio adatto alla espressione delle sensazioni attuali: «Racine's heroes felt and spoke like high gentlemen of Louis the XIVth's court; Joyce's pimps and strumpets have to speak like the people they are. And in so trying to make them express themselves Joyce may be pointed out as the real follower of the great French poet.» Eliot, dunque, seguì l'esempio di Joyce nel tentativo di rinnovamento del vocabolario. Ma non fino in fondo,
intendo dire non soltanto non lo seguì fino allo stadio finale di Finnegan's Wake ma neppure adottò interamente l'estetica verbale joyciana quale si mostra nell’ Ulysses: Eliot dovette comprendere che l’uso smodato del «gergo» (idioma di una natura mutevole quasi di lustro in lustro) avrebbe condotto le sue liriche ad un prematuro invecchiamento e le avrebbe appunto rese appassite nel vocabolario mentre la loro freschezza di sensazioni sarebbe stata ancora viva. E l’uso sfrenato di termini osceni, se poteva esser giustificato in un romanzo, non lo sa-
rebbe stato in una lirica che tentava di occuparsi di problemi che con l’oscenità hanno scarse relazioni. E sarebbero apparsi come una «posa». Scartati questi due elementi, del rinnovamento verbale di Joyce restavano gli altri due: la formazione di parole nuove mediante la fusione di due vecchie e le citazioni contorte di autori del passato e del presente. Eliot usò di questi due mezzi, ma con una vigilanza di gusto infinitamente più attenta di quella di Joyce. His fretus, con questo bagaglio, Eliot pubblicò la sua prima opera poetica nel 1917: The Love Song of J. Alfred Prufrock. È una lirica di disinganno, ironia, disgusto, la contemplazione di un mondo triviale, sordido e vuoto. Vogliamo leggerne qualche verso? Vale la pena benché sia una «prima operà»: l’autore aveva già trentatré anni
ed era esperto di critica e di vita. Il Prufrock è già opera di maturità.
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e
Let us go then, you and I When the evening is spread out against the sky Like a patient etherised upon a table; Let us go, through certain halfdeserted streets The muttering retreats Of restless nights in one-night cheap hotels And sawdust restaurants with oyster-shells: Streets that follow like a tedious argument Of insidious intent To lead you to an overwhelming Ob, do not ask, «What is it?» Let us go and make our visit.
question...
In the room the women come and go Talking of Michelangelo.
In queste poche linee vi è già molto: la bellezza triste della natura, la sordidezza di una città, la pretensione
degli snobs intellettuali, lo spirito indagatore del filosofo. E presto avremo anche quello che nelle altre opere si svilupperà come il grande tema di Eliot, l’insignificanza del tempo Evenings, mornings, afternoons,
I have measured out my life with coffee spoons.
Il tempo che è insignificante perché serve soltanto a ripetersi meschinamente «in a thousand furnished rooms» con the damp souls of bousemaids Sprouting aesponaently at area gates
La Rbapsody on a Windy Night della medesima serie si avvia presto verso le reminiscenze acide Of sunless ary geranium And dust in crevices
oppure quella di Aunt Helen «who lived in a small house near a fashionable square» e
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Now when she aied there was silence in heaven And silence at ber end of the street
mentre Mr Apollinax visita gli Stati Uniti e His laughter tinkled among the teacups
Non meno desolato e desolante è l’universo espresso nei Poers-1920 dove in Gerontion possiamo leggere Here I am, an old man in a dry month being ready to by a boy, waiting for rain.
In questi due poemi, Prufrock e Gerontion, la dizione di Eliot si mostra di già completa, quale fondamentalmente resterà, emendata che sia, fino ai Quartets. Le for-
me metriche sono divenute elastiche. Eliot disprezza i clichés e le immagini lise dal tempo e ne impiega di nuove che sarebbero state riputate non poetiche prima di Pound. Ma dietro di lui si scorge lo sfondo maestro delle letterature passate, delle quali ha assorbito lo spirito ma rigetta i modi. Egli prende in prestito frasi dei poeti più noti ma le inserisce nel nuovo contesto con tale op-
portunità da creare un nuovo sorprendente effetto. E spesso vi è un lento abbassamento di voce nel suo discorso, come se intervenisse un grido di qualcheduno lontanissimo dietro un monte, voce assolutamente im-
personale, talvolta anch’essa interrotta da un modo di esprimersi volgare che la rende ad un tratto vicina, vicina alla terra, in modo che si crea un sorprendente con-
trasto fra due aspetti dello stesso pensiero e così una nuova sintesi immaginativa.
Fino a questo momento abbiamo avuto soltanto la vanità, il disseccamento, la futilità morbosa delle cose semivive, ma nel Waste Land (1922), il primo suo capolavoro,
la sua immaginazione vola ben più in alto, contemplando la scena desolata con sguardo scrutatore, cercando invano un significato dove vi è solo
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A heap of broken images, where the sun heats, And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief And the dry stone no sound of water.
E di nuovo si fa udire la calma voce oltre il monte che
minacciosamente canta il disinganno: Here is no water but only rock Rock and no water and the sandy road The road winding above among the mountains Which are mountains of rock without water If there were water we should stop and drink Amongst the rock one can stop or think Sweat is dry and feet are in the sand If there were only water amongst the rock Dead mountain moutb of carious teeth that cannot spit Here one can neither stand nor lie nor sit There is not even silence in the mountains But dry sterile thunder without rain There is not even solitude in the mountains But red sullen faces sneer and snarl From doors of mudcracked houses.
E mentre si legge questo si ha ancora nelle orecchie il grido volgare e ossessionante «HURRY UP PLEASE IT'S TIME» col quale si chiude la seconda parte del poema. Ma davvero non si sa quale parte di questa straordinaria composizione preferire: se la prima (The Burial of the Dead) con i quattro armoniosissimi e conturbanti versi iniziali, con la macabra sua mistura (condotta con tatto infinito) di versi di Wagner e di Baudelaire e di te-
desco colloquiale, con il significato riposto dell’inutilità della primavera e dell'amore; o la seconda (A Gazze of Chess) con la tragica figura della prostituta e lo spietato gioco attorno ad essa. O la terza (The Fire Sermon) con la sconsolata visione del Tamigi autunnale, ironicamente sottolineata dai versi sontuosi di Spenser e nostalgici di Verlaine e con la sudicia, squallida storiella della dattilografa confrontata con triste malizia agli amori di Elisa-
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betta e Leicester. O l’ultima (What tbe Thunder Said) che contiene i versi riportati prima e che sembra un vaticinio di maggiori sventure su un mondo già sconfitto, sconfitto per la sua mancanza di spiritualità simboleggiata dall’acqua. E tutto ciò visto e interpretato da quel Tiresia che fu già donna ed è uomo adesso, e che aduna in sé i dolori
dei due sessi senza superarli. Lo sconforto, lo squilibrio di quel primo dopoguerra (che fu peggiore del secondo) che tanti hanno tentato di esprimere ha trovato qui la voce che lo restituisce intero appunto perché lo sorpassa inserendosi nel dolore millenario.
Nelle allegorie medievali vi sono tre piani di significati: il «sensus litteralis», il «sensus allegoricus», il «sensus
moralis». In alcune vi è un quarto significato, il «sensus anagogicus», l’allegoria religiosa che adombra il modo spirituale dell'essere. The Waste Land non è precisamente una allegoria perché non racconta una storia (le storie tremende che vi compaiono sono usate nel modo lirico) ma i tre sensi primi sono nettamente visibili. E il «sensus anagogicus» del quarto modo della vita è chiaramente adombrato; e tanto più ne siamo sicuri in quan-
to vent'anni dopo lo vedremo riapparire nei Four Quartets, l’opera di Eliot, oggi, suprema. Ma altre tappe bisognerà prima attraversare, e un altro capolavoro. Il terrificante poema The Hollow Men (1925) con i suoi lugubri versi We are the hollow men We are the stuffed men Leaning together Headpiece filled with straw
ci mostra Eliot di già avviato sulla strada della grande poesia metafisica. Questa tendenza di Eliot appare ancor più manifesta
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nell’Ash Wednesday del 1930, che è il secondo capolavoro dell’autore. Egli qui sembrava già aver abbandonato la contemplazione, sgomenta, dei mali che affliggono l’uomo ed essersi messo in cammino per cercare ad essi un ri-
medio, o per meglio dire una loro sublimazione che li rendesse utilizzabili a fini spirituali. È un poema diviso in sei parti. Fra tutti i poemi di Eliot mi sembra quello che meglio si comunichi a noi attraverso l’orecchio, prima ancora che attraverso l’intelletto. Benché i sentimenti che esso esprime siano molto complessi e lo svolgimento del pensiero non sia affatto facile da seguire, è però evidente che il poema, fin dalla prima volta che venga ascoltato, produce una grande impressione puramente attraverso la bellezza della propria musica: l'ascoltatore insomma sente l’impeto della rara energia di ciò che gli viene comunicato ed accetta il poema come una cantilena ritualistica assai prima che la sua mente abbia potuto afferrarne il significato. La prima parte esprime la vuotezza dell’anima moderna priva di fede nel trascendentale, e il senso di sbigottimento e della ripetizione dei sofismi è espresso musicalmente dal ritmo per così dire a spirale che accenna sempre ad un movimento di salita ma che effettivamente, attraverso le sue volute, rimane sempre allo stesso
posto, prigioniero. L'anima non crede, sa di non poter credere, ma sa anche che vi è qualcosa in cui potrebbe credere e che essa ignora. E si chiude con un gemito di rassegnazione che è già del tutto cristiano e che fa seguito alle tremende parole dette qualche verso prima: The air which is now thoroughly small and dry Smaller and dryer than the will
(Sia detto tra parentesi, «dry», «waterless», nella simbologia di Eliot, sembrano sempre esprimere il difetto di spiritualità.) Nella seconda parte ci viene presentata una immagine di straordinaria bellezza, una immagine da arazzo me-
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dievale, una specie di «Dame à la licorne» carica di gravi significati. L'uomo, quello stesso individuo la cui lamentazione si è fatta udire nella prima parte, non è stato (apparentemente) ascoltato da Dio: egli è stato dilaniato dai tre bianchi leopardi (il mondo, la carne e il diavolo), il suo cranio è stato vuotato della sua sostanza e rimangono soltanto di lui «le parti indigeribili», le ossa e le viscere ai piedi della Dama di ogni bellezza e misericordia. E queste ossa bianchissime, queste ossa che, appunto perché non assimilabili dalle belve, sono, nell’abiezione, la
sua parte spirituale, cantano una magnifica ode di ringraziamento alla Dama che ha assistito allo strazio dell’uomo ma dopo la morte lo ha riportato alla sua «inheritance», alla pace del deserto che non potrà più essergli tolta. In questa parte l’Inferzo di Dante è evidente sia nelle tre belve sia nella figura della Dama, che è una mescolanza della Beatrice e della Vergine dantesca mediatrice e sanzionatrice di salvezza. Il tono chiaro di questa scena di dolore e di salvezza è sorprendente. Più evidente ancora, benché tradotta in termini moderni, è
l’influenza di Dante nella terza parte, forse la più bella. La morte non ha dato all'anima la salvezza pura e semplice, bensì la possibilità di salvezza, la ha insomma introdotta in un Purgatorio. E questo Purgatorio è espresso con magnifica energia in ventiquattro versi che anch'essi seguono una spirale come quella della prima parte, ma questa volta nettamente ascendente e non più riavvolgentesi su se stessa. Soltanto questa spirale (e tutta su spirali discendenti e ascendenti è costruita la Corzzzedia ed è questo fra l’altro che conferisce ad essa il suo singolarissimo valore di continuo movimento e di lenta ascesa; il che dimostra quanto sia errato il concetto crociano che nega valore poetico alla costruziore dantesca) questa spirale, dicevo, è rappresentata da Eliot come una comune brutta scala di casamento moderno sulla quale ascende l’anima, fug-
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gendo da una figura sinistra che ha «the deceitful face of hope and of despair». Ma, come in Dante, il cammino
diviene più facile via via che si ascende: dopo il secondo pianerottolo l’inseguitore è scomparso, ed al terzo piano, introdotta da una immagine nettamente freudiana,
ci si presenta la natura consolatrice e inconoscibile (la figura è vista soltanto rivoltata) che con le delicatissime immagini successive («Blown hair is sweet, brown hair over the mouth blown») equivale alla «divina foresta spessa e viva» che discaccia l’immagine del male che ancora la seguiva («Fading, fading») e conferisce all’uomo «strength beyond hope and despair», riportandosi esplicitamente alla figura del minaccioso inseguitore della prima sestina. E il canto si chiude su una invocazione parallela a quella che terminava la prima parte: soltanto che lì si invocava «teach us to sit still» e si aspettava un giudizio del quale si ignorava il contenuto; mentre qui si invoca «the word only» con una sicurezza che fa intravedere più che una speranza. La quarta parte evoca le impressioni dell’anima accolta nel giardino edenico sotto la protezione della Dama. Il paesaggio immaginato è la netta antitesi di quello tragicamente traversato nel Waste Land (cui Ash Wednesday sta in stretta correlazione, così come il Purgatorio di Dante con l'Inferno), un paesaggio ricco di acque e di fontane: occorre leggerla bene, questa quarta parte, e assaporarne le fresche consolanti immagini («Talking of trivial things / In ignorance and in knowledge of eternal dolour» — qui «eternal» è inteso in senso soltanto terrestre).
È davvero una poesia di straordinaria altezza. Nella quinta parte Eliot, dopo aver descritto la quasi salvezza di un’anima individuale (probabilmente la sua) si rivolge a tutti gli uomini per indurli ad abbandonare il deserto e ad accorrere verso le fontane della pace. Questa parte è la più debole delle sei. Il canto si eleva di nuovo nella sesta parte, che è una
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veemente preghiera per la pace spirituale di tutta l’umanità e si inizia sul medesimo movimento a spirale della prima: allargando via via le spire, essa passa attraverso una commossa contemplazione delle innocenti cose della natura e di nuovo raggiunge la Dama di salvezza. In questa parte a me pare che, più che a Dante, si sia pensato all’epilogo del Secondo Faust; sia detto questo senza l’ombra del rimprovero, il modello è troppo noto per prestarsi a trucchi né Eliot è personalità da farli; soltanto lo splendore di quei versi che hanno dato forma definitiva alle sue stesse aspirazioni gli è sembrato degno di esser ripresentato, trasfigurato.
Questa è l’interpretazione mia di Ash Wednesday; e non pretendo che sia esatta. Del resto Eliot, come ha spesso detto, rifugge dalla soverchia chiarezza appunto per dare adito alle interpretazioni personali, «the only really satisfying ones». Debbo però dire che essa mi sembra incontrovertibile almeno per le prime quattro parti.
Sia come sia, Ash Wednesday mi sembra una delle più alte poesie del nostro secolo, eppure essa (merito maggiore) lascia insoddisfatti nei riguardi non certo di noi stessi, ma del poeta che si sente capace di dare ancora di più. E di più darà nei Four Quartets, lasciandoci però sempre il senso di non esser ancora giunto a dire la estrema parola. Nel 1931 Eliot compose (inaspettata novità) due poesie che poi riunì sotto il significativo titolo di Coriolanus e che sono nettamente politiche. Il solo nome di Coriolano basta già ad avvertirci che si tratta di «dittatura», nel 1931 il problema e il pericolo centrale della politica europea. Sono poemi di straordinaria densità verbale che descrivono, il primo, Triumphal March, una sfilata delle forze della dittatura, il secondo, Difficulties of a Statesman, il
senso di ribellione dell'anima umana. La Triurphal March è ambientata, così all’ingrosso, in Francia, ma rappre-
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senta inequivocabilmente (per dirla come lui) il Duce. Ritmicamente potente, vi si sente il calpestio delle «quadrate legioni» interrotto da una prosaica enumerazione dei mezzi di guerra, che ci fa presagire le stragi che questa apparentemente innocua sfilata compierà su di noi, e da un primo accenno della ribellione delle cose umili che si farà poi predominante nella seconda parte. L’apparizione del Dittatore è impressionante per la forza chiusa e la gravità ed è subito seguita da un ritornello minaccioso, «Dust, dust, dust of dust». E tutt'intorno la folla nello stesso tempo partecipe e scettica, che si esprime talvolta in versi tolti al Giulio Cesare di Shakespeare, e si chiude con una esclamazione (francese) di ironica sorpresa. La seconda parte, Difficulties of a Statesman, ci mostra già quella asserita forza d’acciaio che si disperde fra i rivoli dell’inerzia burocratica, e il risorgere delle umili cose del mondo che erano state compresse dalla finzione di gloria e che conducono all’esclamazione finale, il triplice «Resign, resign, resign».
Questi due poemi dovettero esser conosciuti dal governo fascista e ad essi si deve probabilmente se Eliot era quasi interamente ignorato in Italia fino al 1945. Da questo momento in poi la preoccupazione filosofica (dovrei dire teologica) predomina in Eliot. Col che non intendo veramente dire che egli cessi di essere un poeta. Un poeta, in quanto poeta, non è un signore che
abbia da fare con affermazioni, argomentazioni, prove, insegnamenti o persuasioni: egli deve mostrare, o per meglio dire rivelare. Ma il pensiero filosofico può essere il suo contenuto. Soltanto egli deve far sì che la verità si affacci al lettore come visione, non come concetto intel-
lettuale. Eliot, quanto più si sente ricercatore di verità filosofiche, rimane poeta perché egli sa trasformare una sua ritrovata verità in qualche cosa che può esser percepita dall’intuizione e non dall’intelletto raziocinante,
qualche cosa cioè che si assimili esteticamente. Egli è
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quella entità rarissima: un pensatore dotato della percezione poetica. E a buon diritto egli si richiama continuamente a Dante che di questa altissima varietà di artisti è il modello massimo. Massima (finora) sua affermazione filosofica e massima (finora) sua espressione poetica sono i Four Quartets, scritti dal 1936 al 1942. Essi hanno per titolo nomi
di luoghi: Burt Norton è il nome della località nella quale il poeta abitava in Inghilterra; East Coker il posto dal quale la famiglia Eliot è originaria; Dry Salvages sono gli scogli sulla costa del Massachusetts, ben conosciuti dal poeta ragazzo; Little Gidding è un paesello inglese che fu sede di un movimento religioso al quale sono uniti i nomi di Herbert e Crashaw (credo avervi accennato di sfuggita). I Quartetti sono davvero costruiti come composizioni musicali, in relazione a quanto Eliot ha detto, che cioè
una poesia, o parte di una poesia, può tendere a realizzarsi come ritmo prima di aver trovato espressione in
parole. Evidentemente nel Burt Norton, che precede di parecchi anni la scrittura degli altri tre poemi, Eliot deve aver trovato una forma ritmica che lo soddisfaceva pienamente, perché a questa forma composta di cinque parti fortemente legate, nella varietà, l’una all’altra, egli ha aderito strettamente in seguito. Non ne avrete a male, perciò, se prima di cercare di
analizzare ciascun poema mi occuperò un poco della loro forma, diciamo così, «musicale».
In ognuno dei quattro quartetti il primo tempo consiste in una serie di affermazioni e di contro-affermazioni (secondo il metodo di Eliot di rafforzare una proposizione facendola spiccare sullo sfondo del suo opposto) che vengono presentate in un paesaggio o una scena
drammatica che viene a costituire il nucleo attorno al quale si aggrega il pensiero del poeta. Il secondo tempo si inizia sempre con una lirica di carattere spiccatamente
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formale. Nel Dry Salvages questa è una forma spuria di sestina derivante dal clangore della campana di salvataggio; in Little Gidding ciascuna delle strofe di otto versi si conchiude con un ritornello. Con queste liriche Eliot ha eseguito il rinnovamento delle vecchie forme poetiche che all'autore di Prufrock sarebbe sembrato impensabile. La lirica corrispondente al secondo tempo in Burnt Norton (come quella al posto corrispondente in East Coker, che è forse ad essa un po’ troppo omogenea) è una delle «litanie» più puramente musicali che Eliot abbia composto. Il ritmo del famoso sonetto di Mallarmé M'introduire dans ton histoire mi sembra qui aver ossessionato l’orecchio del poeta che, naturalmente, ha com-
posto una lirica concettualmente del tutto differente ma che pure nel suo primo verso «Garlic and sapphires in the mud» ha più che un’ombra di relazione col mallarmiano «tonnetre et rubis aux moyeux». Nelle terze parti, come contrasto alle liriche dei secondi tempi, Eliot ha fortemente rilassato i suoi ritmi; in Dry Salvages e in East Coker ha portato i versi al limite della prosa. Nel Lizf/e Gidding questa sosta ritmica è espressa con una sequenza di terzine modificate nelle quali le rime sono sostituite da terminazioni alternativamente maschili e femminili. Ma quel che le terze parti hanno di più sostanziale in comune è che in ciascuna di esse è narrato un «movimento». In Burt Norton il movimento è espresso da una discesa nella ferrovia sotter-
ranea di Londra che allude a una discesa nella oscura notte dell’anima. Allusione che nel movimento corrispondente di East Coker è ancora più esplicita e si richiama direttamente a san Giovanni della Croce con i versi famosi Be still, and watt without hope For hope would be hope for the wrong thing.
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In Dry Salvages il virile incitamento finale è nettamente di «moto»: Not fare well, But fare forward, voyagers.
In The Little Gidding il passaggio al movimento è un po’ irregolare essendo espresso nel brano in terza rima che chiude il secondo tempo e in quello deliberatamente prosaico che inizia il terzo. Il soggetto concettuale è una ronda durante un attacco aereo, concetto che un po’ più avanti si svilupperà in una delle più alte liriche eliotiane. Il quarto tempo è, in ogni parte, una breve lirica e il quinto è sempre una ripetizione e una fusione di tutti i temi, che diviene via via più complessa col procedere delle parti perché la tematica è cumulativa ed è interamente presentata nell’intricato e splendente finale di Little Gidding. Questa esposizione dei «tempi» dei Quartets è stata noiosa, lo so, ma mi lusingo non debba dimostrarsi inutile data l’importanza primordiale che Eliot attribuisce all’«andatura» delle sue poesie; ed anche perché può costituire una solida traccia per l’esplorazione di questi non facili versi. Eliot ha affermato che la poesia è, come la musica, un’arte temporale piuttosto che spaziale; da ciò egli deriva la liceità, anzi la necessità, nella poesia come nella musica, della ricorrenza dei temi; e la necessità di estrar-
re da questi temi le possibili variazioni, unico modo che permetta al poeta di esporre tutte le sue sensazioni senza correre il pericolo di ripetersi, mediante il variare dei ritmi, Ci resterà quindi adesso di cercare di esaminare i temi predominanti nelle loro interrelazioni e nel loro svolgimento.
Burnt Norton (e quindi tutta la serie dei Quartetti) si inizia con i versi famosi
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e
Time present and time past Are both perhaps present in time future, And time future contained in time past.
Viene così indicato uno dei principalissimi temi, quello del tempo, ossessione dei poeti nostri contemporanei. Questa iniziale meditazione sul tempo presenta il problema in vari modi contrastanti ed è imbevuta di ricordi di Eraclito e di Bergson, non scevri, in quei versi nei quali si parla della «riconquista» del tempo mediante la conoscenza, di vivi ricordi proustiani o per lo meno di quella parte delle dottrine di Bergson che stimolò il genio di Proust. Ma il contrasto principale attorno al quale Eliot ha costruito il proprio poema è quello fra la percezione del tempo come una semplice continuità e il difficile concetto cristiano dell’uomo che vive egualmente «dentro e fuori del tempo», immerso sì nel flusso temporale ma capace di penetrare nell’eternità, cioè nell’assenza di tempo, mediante la percezione di un’esistenza atemporale e al disopra del tempo stesso. Ma anche per il più autentico cristiano imomenti nei quali la pressione del flusso temporale si allenta sono rari, benché siano questi scarsi mo-
menti soltanto che redimono il triste sciupio dell’esistenza non illuminata. Eliot richiama alla propria memoria uno di quei momenti particolarmente poigrants, un momento della sua infanzia nel roseto. Tema che è stato usato più volte da Eliot e che è indubbiamente sorto da un'esperienza personale. Ma le sue derivazioni sono intricate ed anche ambigue perché sollevano l’intero problema di come distinguere fra la visione super-naturale e la semplice illusione. Qui si introducono due ordini di variazioni sul tema della vittoria sul tempo: una sullo «still point of the turning world» (già usata nella Triumphal March) che è l'equivalente matematico del «Motore Immoto» dantesco e che offre la possibilità di evasione atemporale dalle pressioni esterne del mondo.
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L’altra via di fuga dal tempo è l’arte, suggerita dagli squisiti versi finali di Burnt Norton sul vaso cinese: Only by the form, the pattern, Can words or music reach The stillness, as a Chinese jar still
Moves perpetually in its stillness.
Con la frase che apre East Coker, «In my beginning is my end», Eliot ci indica che la sua meditazione sul tempo sta per estendersi alla storia. Con questa frase, che è vicinissima a quella eraclitea «Il principio e la fine sono comuni», il poeta ci indica anche la tendenza, sempre in lui vivissima, di riconciliazione degli opposti. E il primo tempo ci illustra magnificamente, sul modo di una sottile elegia, l’invecchiare, il crollare, l'assenza e la rinascita di tutte le cose. Sono due fra le più belle strofe di Eliot. Ma il ciclo alterno di scomparsa e di germogliamento continua dopo la morte, come ci è mostrato dalla stranissima danza dei morti, dei morti la cui anima non si è
ancora districata dalle sensazioni terrene, danza che il poeta contempla con accorata ironia e che rende col forte ritmo degli zoccoli che battono la terra; e che egli sa rendere ancora più eerze rinviandola, benché da lui stesso osservata, ad altri più antichi tempi mediante l’intelligente e discretissimo uso di una vecchia ortografia. Il secondo e il terzo tempo sono i più foschi che Eliot abbia scritto: la speranza sembra trascinata via sottoterra an-
ch’essa dalle case che son crollate e dai danzatori che erano già morti benché desiderosi di vita. The houses are all gone under the sea. The dancers are all gone under the hill.
Ma sul finire del terzo tempo sopravviene nel suo animo uno strano «quietismo». L’anima non deve sforzarsi
di capire e di lottare e neppure di sperare e neppure di amare, «for hope would be hope for the wrong thing».
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Soltanto la Grazia potrà salvare; ed essa è gratuita. Il Dispensatore di Grazia è presente: ma vorrà agire per noi?
E se agirà, agirà crudelmente perché l’anima stessa si manifesta in dolore. E qui ha inizio la breve lirica del quarto tempo, che ci mostra Cristo quale il crudelmente misericordioso chirurgo che ci fa sanguinare per sanarci; versi di un raro potere di penetrazione e di una ancora più rara coerenza di immagini, che ci rendono in visioni del nostro tempo il cruento mistero dell’incarnazione. Versi religiosi fra i più belli della letteratura inglese. Ma nel quinto ed ultimo tempo il poeta si mostra rassicurato per la salvezza finale dell'umanità, ma ancora disperante della sua personale, egli che ha avuto «twenty years largely wasted». Ma un pensiero sociale (il solo in tutta l’opera di Eliot) lo rassicura e lo spinge a una «further union, deeper communion» simboleggiata dalla vasta uniformità del mare che ci si mostra negli ultimissimi versi per precorrere le meraviglie del quartetto seguente. Dry Salvages potrebbe essere chiamato il più bello dei quartetti se fosse lecito far distinzioni in un’opera così solidamente cucita insieme e nella quale ogni parte riverbera la luce delle altre tre. Certamente è quella di men difficile comprensione e anche quella che ci presenta immagini di più splendente grandezza. Costruita interamente sul grandioso contrappunto del ritmo marino e di quello fluviale e cioè su quello dell’eternità «avvenuta», fissata fuori del tempo, e quello del perpetuo fluire. E si fa magnificamente notare come le campane appese alle boe, nel mare, suonino un «time not our time», fuori della nostra
misura e di già nel limite della atemporale eternità. Su questa traccia dei due tempi, uno dei quali non lo è più, la storia vien di nuovo esaminata ma senza l’apprensione del «corridoio» chiuso, quale essa era sembrata in Gerontion,
perché adesso «time the destroyer is time the preserver», il fiume (tempo) conduce al mare (eternità). E allora, do-
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po che il «perpetual angelus» della campana marina ha risuonato al principio del quarto tempo e nell'intera lirica, nel quinto Eliot ci fa la sua più completa esposizione di ciò che è implicito nella «intersection of the timeless with time». Mediante allusioni al roseto ed agli altri momenti di illuminazione simbolizzati nei tre quartetti già composti egli interpreta questi momenti come allusioni («hints») alla Grazia. Egli va più lontano e scorge come queste «allusioni» possano condurre alla verità centrale delle sue convinzioni religiose. Occorre leggere questi versi, folti di immagini magnifiche e che danno la chiave del pensiero di Eliot. La dottrina dell’Incarnazione è il perno sul quale ha girato il pensiero di Eliot per allontanarsi dalle eresie romantiche ottocentesche di deificazione dell’uomo, che
si incarnano nelle dottrine opposte ma gemelle di Marx e di Nietzsche. Ambedue esaltano il fatto che l’uomo può riverire Dio servendosi della propria potenza interiore; la verità invece, dice Eliot, è che Dio è divenuto uomo. E
perciò egli propone una futura società di ordine ristabilito nella quale governanti e governati abbiano in comune l’umiltà dinanzi a Dio. Little Gidding è interamente percorso dall’ombra della guerra e forse per questo il simbolo del fuoco vi assume così alta importanza. È anche il poema nel quale tutti i temi precedenti (il roseto, la danza, il chirurgo, il fiume, il mare) si ripetono e si intersecano, acquistando
nuovo fulgore di significato nella loro prossimità. Questi temi ricorrenti, la cui efticacia è già stata comprovata da Proust, raggiungono qui l’acme della loro potenzialità. Nel primo tempo Eliot ci conduce alla chiesetta di Little Gidding e ci ingiunge di attinger forza dai monti: «The communication of the dead is tongued with fire beyond the language of the living». E allo scopo di meglio farci comprendere la necessità dell’eternità in confronto al flusso del tempo, nella lirica introduttiva al secondo movimento ci descrive la morte degli elementi, aria, terra,
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acqua e fuoco. E subito questo pensiero di morte di tutto lo induce in un lungo e straziante episodio di guerra. Perché il fuoco del quale ha parlato nella lirica e quello del quale ci parla nelle prime terzine che seguono non è il fuoco della creazione, ma il fuoco fatto dall'uomo per distruggere l’uomo, la negazione dell’eternità. Ascoltate: In the uncertain hour before the morning Near the ending of interminable night At the recurrent end of the unending After the dark dove with the flickering tongue Had passed below the borizon of his homing
Siamo nella Londra del Bz; la «dark dove» sono gli aerei nemici e la «flickering tongue» le bombe che l’aviatore lancia. Nel paesaggio di guerra «domestica» evocato
con straordinaria sobrietà dal rumore dei vetri rotti che scricchiolano sotto i piedi, da un solo aggettivo, «the disfigured street», il poeta in pattuglia di sorveglianza incontra un altro uomo che crede conoscere ma non sa chi sia: è l’antico se stesso, l’uomo senza fede e senza speranza che egli fu; anche lui, lo spettro, pentito e cambiato dall’impeto della guerra. Il dialogo ricorda volutamente l’incontro di Dante con Brunetto Latini ed è di una accorata e commovente bellezza. E le ultime parole dello spettro sono di ammonimento al poeta che egli non potrà sfuggire all’«exasperated spirit» del tempo: unless restored by that refining fire Where you must move in measure, like a dancer.
Parole colme di allusioni dantesche e che, evocando
in quel lugubre albeggiare nella città mutilata l’inattesa immagine di un danzatore, ci lasciano intravedere un possibile Paradiso al di là del fuoco purgatoriale. Il quarto tempo è la più bella lirica di Eliot: The dove descending breaks the air With flame of incandescent terror
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Of which the tongues declare The one discharge from sin and error. The only hope, or else despair Lies in the choice of pyre or pyre — To be redeemed from fire by fire. Who then devised the torment? Love. Love is the unfamiliar Name Behind the hands that wove The intolerable shirt offlame Wbich human power cannot remove. We only live, only suspire Consumed by either fire or fire.
L’uso del duplice senso dei versi, che è sempre stato notevole in Eliot, raggiunge qui la massima maestria. È superfluo ripetere che, in un certo piano, «dove» indica l’aereo nemico, e la guerra pone all'uomo il crudelissimo dilemma («the tongues» di ciascuno dei due nemici lo dichiarano) di perire col fuoco o di distruggere mediante il fuoco: o Londra o Berlino, in poche parole, dovranno perire. Ma la «dove» è anche la colomba della Pentecoste e le lingue non sono soltanto quelle dei brutali condottieri di guerra ma anche quelle dei Profeti che ci additano le condizioni della nostra possibile redenzione. La lirica raggiunge il cuore del proprio altissimo significato nel verso fortemente accentato che apre la seconda strofa: «Who then devised the Torment? Love». «Love», una delle parole più comuni, è adesso «unfamiliar» all'umanità che non può sopportare troppa realtà. Ci è penoso affrontare il fatto che l’amore non è essen-
zialmente felicità ma sofferenza. L’intollerabile peso dei nostri desideri («The intolerable shirt of flame»), la no-
stra camicia di Nesso non può esserci tolta di dosso da nessuna cosa che sia in nostro potere, ma soltanto dalla Grazia, manifestazione dell’eternità, fuori dal tempo. Nella quinta parte, come ho già detto, tutti itemi ven-
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gono sinfonicamente raccolti e intrecciati. E gli ultimi versi ascendono alla finalità con il concetto che tutto Shall be well When the tongues offlame are in-folded Into the crowned knot offire And the fire and the rose are one.
Su questa ultima reminiscenza dantesca, che ci fa sperare nella potenziale riconciliazione delle fiamme distruttive con la rosa della luce, si chiudono luminosamente i Four Quartets, il più alto poema che sia apparso in questo secolo. Poema, lo ripeto, che una attenta lettura ci fa avvertire carico di energie non ancora espresse e che quindi voglio considerare non come l’ultima parola di Eliot ma come splendido preludio della sua opera massima. Questo è quanto una terza o quarta attenta lettura mi ha lasciato percepire del senso intimo dei Quartets; alcuni punti mi son rimasti oscuri. Ma se quanto ho potuto discernere attraverso questo affascinante intrico di immagini può essere utile ad un altro lettore attento che magari dia un’interpretazione diversa, questa mia fatica
potrà esser considerata non vana. «Fatica» è stata una parola mal detta; perché in verità
pochi diletti equivalgono a questo di sceverare un alto pensiero di fra il folgorante mucchio di gemme di tante immagini.
Mi dispiacerebbe chiudere questa sfilata di testi lirici eliotiani senza aver accennato all’O/4 Possum’s Book of Practical Cats. Sono delle liriche spassosissime piene di malizia e di spirito. Sembrano scritte per ischerzo e forse lo sono. Ma Eliot, magari inconsciamente, avrà voluto
rispondere a chi lo accusava di essersi dedicato al «verso libero» perché non sapeva maneggiare i versi tradizionali. Critica babbea, va da sé; ma alla quale Eliot ha con-
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trapposto questi Practical Cats nei quali i versi e le rime tradizionali sono maneggiati e usati con la disinvolta bravura, ottenendo effetti comici di prim'ordine. Il teatro di Eliot
Eliot deve la maggior parte della sua fama alle sue opere teatrali. Cionondimeno, come valore estetico, il
suo teatro è nettamente inferiore alle sue opere liriche. Egli ha scritto quattro drammi, Murder in the Cathedral, The Family Reunion, The Cocktail Party e The Confidential Clerk, oltre ai cori del Rock e alle brevi (ma vigoro-
se) scene di Sweeney Agonistes. Soltanto il Murder in the Cathedral è un’opera di prim'ordine; The Rock ha un valore esclusivamente lirico; Sweeney Agonistes vale drammaticamente ma i frammenti sono troppo brevi per poter formare un’opera; e le tre commedie mostrano larghe tracce del talento dell’artista ma sono, per un verso o per l’altro, opere teatrali mancate. Così come per le liriche, possediamo per il teatro una larga documentazione diretta delle idee critiche di Eliot. Egli ha sempre sostenuto l'impossibilità, per un poeta, di esprimersi artisticamente in forme che nel corso della stessa civiltà sono state usate da altri. Da ciò, in
una conversazione alla radio del 1932, egli affermò la necessità per un poeta drammatico inglese «to get away
from Shakespeare». Perché, diceva, se non lo allontaniamo da noi, non faremo altro che scrivere brutti versi
sciolti in sua inconscia imitazione. E poiché una tradizione è necessaria a chiunque voglia creare, i futuri drammaturghi non potranno riallacciarsi che ai misteri medievali o alle grandi tragedie greche. Prima ancora, però, nel 1926, Eliot aveva curato l’edi-
zione di un dramma scritto dalla propria madre, Savorarola, in versi rimati. E nella prefazione aveva dichiarato che «adesso, dopo le commedie di Shaw con la loro lun-
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ga prosa discorsiva», occorreva al teatro una intensificazione, una concentrazione che era impossibile ottenere con la prosa; e il futuro teatro inglese d’arte sarebbe stato teatro in versi, ma in una nuova forma di verso.
Nel suo Dialogue on Dramatic Poetry egli sostiene che il verso in teatro non deve essere un ornamento incollato su di un’opera sostanzialmente prosaica, ma che la struttura e la vita stessa del dramma debbono essere essenzialmente poetiche; perché non vi è vera opera teatrale se non in versi, la commedia in prosa essendo di natura sua non teatrale e frutto di un ripiego. E di fronte alla mancanza di ritmo e all’innato prosaicismo del teatro inglese di oggi egli sosteneva che il solo rifugio per chi amasse l’arte a teatro era il balletto in unione con i film di Chaplin e i giochi di prestigio di Rastelli. Ed è perseguendo questo suo ironico ideale che Eliot si provò per la prima volta a scrivere per la scena. Sweeney Agonistes (che anche nel titolo mostra l’autoironia dell’autore) è un frammento composto di alcuni monologhi e di due canzonette (Under the Bamboo-Tree e My Little Island Girl) che sono di voluta volgarità di ritmo e infatti sono state adottate con successo dal caffè-concerto in America. Il protagonista, Sweeney, è rappresentato come uomo volgare e incolto ma dotato di forte sensibilità, e appunto per questo incapace di comunicare con
chicchessia eccetto che con il pubblico. Gli altri personaggi sono lì soltanto per far risaltare l’incomunicabilità del sentimento di Sweeney. Per quanto tutto ciò sia raccontato nel solito verso pensoso ed escavatore di Eliot, si comprende quanto sia antidrammatico e come Eliot rinunziasse presto al tentativo. La cosa drammaticamen-
te più notevole di Sweerey è una delle epigrafi, quella tratta dalle Coefore: «Voi non le vedete, non potete ve-
derle; ma io le vedo; la loro caccia sta per raggiungermi». Versi che alludono da un canto all’isolamento spirituale di Sweeney ma dall’altro contengono il germe della
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Family Reunion, dimostrando ancora una volta la ferrea coerenza che è tanto caratteristica dell’opera di Eliot. The Rock, rappresentato nel 1934, non è a dir il vero un dramma: è un pageant, parola intraducibile equivalente a «sfilata, corteo, celebrazione, mascherata», ecc. Fu
recitato per beneficenza a favore del fondo per la preservazione delle vecchie chiese. Lo «scenario» (in senso cinematografico) non è di Eliot, che fu incaricato soltanto
di scrivere i dialoghi e i cori. Consiste in una serie di scene che mostrano la fondazione delle chiese, i travagli attra-
verso i quali sono passate, e la certezza del loro trionfo. Lo spettacolo era accompagnato da musiche e da danze. I dialoghi sono assolutamente insignificanti, e scritti in prosa. I cori invece sono in versi, assai belli, specialmente
quelli della scena madre nella quale si evoca la difesa della Chiesa contro le camicie nere, le camicie rosse e i plutocrati. Questi cori esprimono la stessa poesia meditativa e profonda che si era di già letta nell’Ash Wedresday e rappresentano il trapasso ideologico di questa ai Quartets. Ma non si può davvero dire che essi adempiono al fine che Eliot proponeva alla poesia religiosa, cioè di «fissare l’interesse, di eccitare i sentimenti anche degli spettatori non religiosi». E ancora meno può dirsi che si è
formato «un tessuto unico composto di dramma e di poesia». Dato lo schema e le condizioni di creazione non era possibile aspettarsi l’unità di punto di vista e di svolgimento di Polyeucte o di Athalie. La riuscita fu del tutto diversa con Murder in the Cathedral, che fu scritto l’anno dopo per esser rappresentato a Canterbury, nel luogo dove si svolge la sua vicenda. Murder in the Cathedral, come tante opere del teatro medievale alla cui tradizione si riattacca direttamente, è
la tragedia di una tentazione. Tutto il nesso tragico è imperniato nella scena in cui i quattro tentatori si insinuano nell’animo del santo Arcivescovo; quei quattro tenta-
tori che non a caso Eliot ha voluto fossero gli stessi
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attori che dovranno poi indossare gli abiti dei quattro cavalieri assassini: non essendo riusciti ad uccidere l’anima si contentano di uccidere il corpo. Nel dramma ha una enorme parte il coro; esso costituisce uno dei massimi trionfi poetici e ritmici di Eliot. Egli ha sempre creduto alla potenza che il coro possiede di raddoppiare l’effetto scenico («it can intensify the action by projecting its emotional consequences, so that we as audience see it doubly, by seeing its effect on other people») oltre all'ufficio tradizionale del coro greco di far da mediatore, da ponte di passaggio, fra gli attori e il pubblico. La critica inglese, che vo scorrendo in questi giorni,
dice che non vi sono precedenti per questo impiego del coro; questo è esagerato perché vi è appunto l'esempio di Esther e di Athalie, nelle quali tragedie sacre, e soprattutto nella seconda, il coro è usato proprio a questo modo e con gli stessi meravigliosi risultati. Perché, con precedenti o meno, i cori di questo dram-
ma sono di straordinaria bellezza lirica. L'impressione di sgomento della folla che l'assenza prima, la morte poi di Becket abbandonano a tutte le miserie e prepotenze, è resa con foga superiore; la meschinità stessa, l'estremo
senso di povertà che un occhio acuto scorge nelle condizioni sociali del Medioevo sono rese in modo perfetto. Il ritmo ne è possentemente variato e perfettamente adatto alla lunghezza dei fiati umani. Essi si svolgono spesso nello sprung verse di Hopkins, le cui possibilità sono tese all’estremo sino a farne una specie di sontuosa prosa, vivificata da allitterazioni e rime interne. I cori sono il più puro gioiello di questo dramma che per altro può mostrarci ulteriori tesori. E anzitutto la concezione stessa, di grande essenzialità e severità, veramente
simile alle navate cupe e disadorne della chiesa nella quale in gran parte si svolge. Fedele al riconoscimento dell’energia implicita nella tradizione, Eliot ha eliminato dalla pur drammatica storia i dissensi fra Stato e Chiesa che
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costituiscono il dramma di Becket ed ha concentrato l’effetto tragico quasi nei limiti dell'unità aristotelica. Non ci viene mostrata la crisi suprema, come in Racine.
E da questa riduzione all’essenziale la severa figura del grande Arcivescovo emerge con potenza singolarissima. Si potrà dire che la grandezza di Tommaso Becket è evidente di per sé e che tutto il merito di Eliot consiste nell’aver deformato la verità storica o tradizionale che sia. Non è vero. Tutta la parte dei tentativi (che è la parte psicologicamente più importante) è esclusivamente eliotiana. E del resto con questi sistemi critici sarebbe facile togliere a Shakespeare la grandezza di Cesare o la voluttà di Cleopatra. I tre primi tentatori si provano ad attirare Becket con le solite evocazioni di piaceri sensuali o di potere mondano, ma il quarto è ben più sottile e tenta il vescovo mediante i suoi stessi più profondi pensieri: lo tenta con l’indurlo al martirio, il martirio frutto dell’orgoglio e figlio del desiderio di gloria, ed impiega quasi le stesse parole pronunciate da Becket al suo primo apparire in scena. Efficacissima è anche la scena che segue la morte di Becket, quando i Cavalieri si rivolgono al pubblico con grande effetto di «urto» drammatico ed espongono le loro ragioni in prosa e si sforzano di razionalizzare l’accaduto. Ma l’ultima parola è del coro, in una preghiera d’intercessione e di sconforto al «Beato Tommaso». Opera di compiuta bellezza, Murder în the Cathedral ebbe in sorte grandiosi successi in Inghilterra e in America. Essa è però la sola opera teatrale riuscita di Eliot. Reso ardito dal trionfo di Murder in the Cathedral, nel 1939 Eliot si provò ad un compito assai più difficile: quello di scrivere un dramma moderno, un dramma da salotto che includesse la presenza visibile delle Eumenidi ed un coro. Perché il coro vi è nella Farzily Reunion e consiste in un gruppo di zii e zie del protagonista che
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non prendono parte integrante all’azione e riflettono soltanto le impressioni del pubblico. Eliot sembra qui aver seguito gli insegnamenti di Henry James, da lui stesso così formulati: «Occorre ricamare lo strano e il sinistro nella comune stoffa della vita quotidiana, se si vuole ottenere l’autentico effetto di terrore». E in un suo dialogo critico Eliot fa dire ad uno degli interlocutori: «Non vi è niente di più drammatico di un fantasma». Ma una cosa è il suggerire eerizess in un romanzo, come insuperabilmente hanno fatto James e tanti altri, un’altra ben diversa è il mostrarci le Eume-
nidi in moderno abito da sera nel vano di una finestra. È questa un'impresa di tale difficoltà che va grandemente a credito di Eliot non essere caduto nel ridicolo dando esecuzione ad essa. Eliot è quasi ricaduto nell’errore commesso in Sweeney: ha deliberatamente escluso alcuni personaggi dall’azione, e, poiché lo spettatore continua a vederli come personaggi con nome e cognome, senza la collettività e l’anonimato corale, egli ha l'impressione di fantocci che si aggirino senza scopo. Inoltre l’autore ha messo in bocca a questi «frammenti» di coro dei versi volutamente piatti e prosaici, disperdendo così l’ultima superstite possibilità di farli veder come egli desiderava, perché il coro è lirico o non è. In questo inopportuno tentativo di avvicinarsi al
discorso colloquiale Eliot ha anche dimenticato il suo saggio precetto che nel teatro il verso deve sempre esser usato per una intensificazione, e che qualsiasi cosa possa es-
ser detta prosaicamente è preferibile sia detta in prosa. A causa di quanto ho detto, ed a causa di una certa
«inintelligibilità» dell’azione, Farzily Reunion è un’opera mancata. Però, intendiamoci, un’opera mancata di Eliot.
E numerose sono le scene nelle quali il paesaggio autunnale, l’ansia inespressa, il tormento senza requie vengono rappresentati con poetica efficacia, ed il personaggio della zia Agatha (che non fa parte del «coro») con il suo am-
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biguo contegno verso Harry, contegno metà da amante e
metà da madre, è il migliore del dramma. Di maggior stima gode il Cockta:! Party, del 1949. E infatti l’idea centrale del dramma è di pensosa grandiosità e si estrinseca tragicamente procedendo attraverso
scene che pur sono quasi tutte sul tono leggero. Il linguaggio familiare è usato con maestria e attraverso questo Eliot riesce spesso a suggerire emozioni poetiche
(ma ciò vi è anche in buona parte di Farzily Reunion). Ma questo è guardare troppo in su o troppo in giù nel dramma: esso, come svolgimento e impeto drammatico, è ancora una volta fallito. The Confidential Clerk, del 1953 (e che infatti è stimato troppo «recente» per essere giunto qui e che ho trovato a Milano) non segna che un progresso minimo
verso la riuscita drammatica ed è ancora assai lungi dalla potenza poetica di Murder in the Cathedral. Però vi si sente una maggior scioltezza dell'autore nei confronti
del mezzo teatrale e il verso sciolto (il blank verse) vi è usato con maestria per il linguaggio quotidiano. Esso è apparentemente del tutto umoristico ma l’orecchio divenuto esperto ne sorprende le risonanze patetiche, se non tragiche. Questi personaggi che vivono in una vita che non si adatta alla loro personalità, che coltivano ciascuno un’arte quasi clandestinamente (il giardinaggio, la ceramica, la musica) per realizzare la loro vera essenza, simboleggiano i fermenti di immortalità che, dopo tanto scoraggiamento, Eliot incomincia a scoprire negli uomini; i quali, per giunta, non sono come essi credono, soli e
negletti sulla terra, ma figli tutti di un Padre amoroso che non aspetta se non di riconoscerli per suoi. Queste pagine su Eliot si sono sviluppate in una pappardella tanto lunga che ormai la mia condanna non potrà essere maggiore se ne aggiungerò altre poche (non vi
sono che le nostre Corti d’Assise che condannano un ti-
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po all'ergastolo per omicidio premeditato piè sei mesi di arresto per porto d’armi proibito). Vorrei un po’ esporvi quale idea io mi sia venuto formando della figura poetica del nostro autore. E farò in modo di esser breve. Eliot sente pesare su di sé il rimprovero di essere un «superintellettuale». Egli stesso ci ha detto tuttavia in un suo saggio (e dei saggi di Eliot non mi stancherò mai di raccomandare la lettura) che il poeta non tanto deve preoccuparsi di pensare filosoficamente quanto di trovare «un equivalente emotivo del pensiero, l’essenziale funzione della poesia essendo emozionale e non logica». I sillogismi del poeta sono delle immagini. E tutto il dover loro che Dante e Shakespeare hanno perfettamente adempiuto era di «express the greatest emotional intensity of their time, based on whatever their time happened to think». Aggiunge che è evidente che quanto più il poeta sarà intellettuale tanto meglio sarà, perché così ciò a cui si interessa sarà di maggior portata ed il suo modo di esprimerlo più maturo. Eliot, però, richiede formalmente al lettore, come egli dice, «a certain amount of brain-work», perché la nostra
civiltà, così com'è oggi, è di grande varietà e complessità e questa varietà complessa, quando viene riflessa da una sensibilità raffinata (quella del poeta), deve produrre risultati vari e complessi la cui percezione, da parte del lettore, non può ottenersi senza sforzo e volontà. Vorrei che rileggeste i tre versi seguenti del Waste Land, che sono un esempio perfetto della concentrazio-
ne poetica di Eliot: The river's tent is broken: the last fingers of leaf Clutch and sink into the wet bank. The wind Crosses the brown land, unheard.
Adesso ve li tradurrò, senza aggiungervi niente ma
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non tralasciando anche nulla di ciò che può servire a manifestare la loro carica emotiva: [Durante l'estate il cielo azzurro si stende al disopra del fiume come una tenda intatta]; adesso che siamo in autunno questa tenda è strappata, è a brandelli (le nuvole). [Ma in estate il fiume è coperto da un’altra magnifica volta: quella formata dalle fronde degli alberi che si sporgono sull'acqua]; anche questa volta adesso è in frantumi. Non rimangono adesso che poche foglie per terra, sulle sponde del fiume, che rassomigliano a delle dita di annegati che afferrino e si affondino nella sponda umida. [In estate i prati attorno al fiume sono verdi di erba e popolati di gente, di innamorati, che vengono a farvi colazione; adesso che è autunno i prati non sono più verdi: l’erba è scomparsa ed è visibile la terra brunastra]; la solitudine è tale che non vi è nessuno per ascoltare il vento autunnale che così traversa i campi non ascoltato da nessuno. Mi ci son volute quindici righe per esprimere quel che il poeta aveva detto in tre versi. Rileggeteli e potrete constatare come io non abbia aggiunto nulla che nei versi non fosse espresso o inevitabilmente sottinteso. E apprezzerete allora il potere di concentrazione emotiva di Eliot. E i versi sui quali ho fatto l’esperimento si riferiscono ad una semplice descrizione del Tamigi autunnale. Figuratevi poi quando altri versi si riferiranno a stati d’animo, affetti, concetti filosofici! La poesia di Eliot (e tutta
la poesia moderna) esige di esser letta con estrema attenzione accompagnata da una elevata intuizione; questo sforzo, come ho già detto parlando di Hopkins, deve essere fatto una sola volta; quando sarete penetrati nella catena di associazioni dell’autore, le altre letture (della stessa poesia) vi sembreranno facili e non avrete che da assaporare il concentratissimo ma, ormai per voi, limpi-
do liquore. * Un altro e più importante postulato della poesia di Eliot è che le emozioni del poeta non sono 77 se stesse im-
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portanti; ciò che vale artisticamente è il discorso che egli forma con queste sue emozioni. Un poema che traversa i secoli non è il risultato di una fuoruscita dei sentimenti di chi scrive ma quello nel quale il poeta ha saputo trovare per questi suoi sentimenti un «oggettivo correlativo».
Siamo giunti alla famosa formula. Questo «oggettivo correlativo» è una serie di parole, o una situazione, o una successione di immagini che siano nello stesso tempo aderentissime alla particolare sensazione del poeta e facenti parte della esperienza generale presunta del lettore. Quando queste immagini giungono all'orecchio del lettore esse evocheranno i precisi sentimenti del poeta. Supponiamo che io voglia far sapere ad un amico che vive a cinque chilometri da casa mia che io sono in questo momento
depresso e triste: sarà inutile
che io mi metta alla finestra e vada mugolando; il mio amico non mi sentirà. Ma se io, mediante il telefono, tra-
sformo i miei mugolii in onde elettriche che a loro volta il ricevitore in casa dell’amico trasformerà in suono, egli sarà perfettamente informato del mio stato d’animo. Esempio massimo di «oggettivo correlativo» perfettamente adatto è il Sazzson Agonistes, nel quale Milton ha trovato una situazione drammatica che esternava le proprie emozioni alle quali ha potuto così dare statura universale e comunicarle anche a noi tre secoli dopo. Questo che ho detto è la decima parte di ciò che ci sarebbe da dire. Spero però che possa servire come «freccia indicatrice» del mio modo di leggere Eliot; che è poi il modo stesso con il quale si devono leggere Les illuminations, Mallarmé, Montale, Ungaretti, Hopkins, Valéry, l’ultimo Rilke, Eluard e innumerevoli altri.
Nella compilazione di queste note su Eliot mi è stato di grande aiuto il libro di Matthiessen The Achievement of T.S. Eliot; come pure quello di Scott-James sulla poesia inglese moderna.
CHRISTOPHER FRY
Vi è in questo momento in Inghilterra un altro poeta, non molto giovane (Fry è nato nel 1907) che potrà forse darci un’opera di perfetta poesia. Evidentemente influenzato da Eliot (ciò si vede specialmente quando lo prende, con tenerezza, in giro) Fry subisce anche delle altre influenze, quelle francesi di de Musset ed Anouilh;
ma, visibile sopra ogni altra, quella del più grande: Shakespeare. Non è un poeta maggiore di Eliot, come io stesso credevo un anno fa; adesso che lo conosco meglio mi avvedo che gli manca ancora l’approfondimento tragico, una visione omogenea e compatta del mondo. D'altra parte come autore drammatico supera Eliot nettamente e dà l'impressione (come Eliot) di essere ancora in continua crescenza. Felice poesia inglese, allo spetta-
colo della quale possiamo assistere come ad una corsa al galoppo! Fry è penetrato nel teatro dal teatro stesso: egli era infatti regista al teatro sperimentale di Turnbridge Wells. E di lui non si conoscono altre opere che teatrali,e sol-
tanto in versi. Nel 1939 ha pubblicato The Boy With a Cart, nel 1946 A Phoenix Too Frequent; The Firstborn è
stato scritto pure nel 1946 e rappresentato nel 1948; The Lady's Not for Burning nel 1949; Venus Observed nel 1950, e nel 1951 A Sleep of Prisoners, che io non cono-
sco. Ha anche tradotto in inglese L’Invitation au Chdteau di Anouilh. In tutte queste opere il verso, oltre ad essere perfettamente adatto alla scena e cioè rapido e fortemente espressivo, è ricolmo di quanto è possibile desiderare
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come qualità poetiche: pregno d’idee, scintillante di spirito (e non di spirito puramente verbale ma di quello risultante dal cozzo delle idee), allegro, tenero, brillante;
si sente che Fry possiede una esuberanza di immagini poetiche ed è divertente osservare come talvolta egli s'imponga delle brusche frenate di fronte alla irruenza del proprio poetico discorrere. E che lingua! Fry ha avuto il ricercatissimo talento di comporre dei versi che hanno la spezzatura, il suono conversivo dei migliori Elisabettiani adoperando soltanto parole moderne. Una lettura anche di una sola buona scena di Fry è una delizia anche dall’esclusivo punto di vista del sapore e del profumo della buona lingua. Fry è uno scrittore dai molteplici interessi, dagli umori variabili. La sua versatilità è ammirevole... e pericolosa. In essa consiste il maggior tranello che aspetta il poeta sulla strada delle cime maggiori. The Boy With a Cart è un’opera giovanile, un 777racle play che racconta la storia di un miracolo compiuto da un antico santo inglese. Essa non possiede nessuna ca-
ratteristica stilistica spiccata all’infuori dello stile di Murder in the Cathedral trasposto sul registro giocoso. In Thor, with Angels (che ho dimenticato di includere
nella lista ma che segue The Boy Witb a Cart) lo stile di Fry appare invece in avanzata via di trasformazione. Si tratta della storia della prima introduzione del Cristianesimo nella superbarbara e miserrima Inghilterra sassone. Essa vien narrata con la singolare mescolanza d’ironia e di commozione che è caratteristica della letteratura inglese (e in particolar modo delle opere di Fry, il più tipicamente inglese fra gli scrittori odierni); e i versi vi sono colmi di immagini campagnole attraverso le quali i furori bellicosi e superstiziosi dei vecchi Angli di antico stampo non riescono a spaventarci (come del resto era nelle intenzioni dell’autore). Un'opera quasi interamente poetica e riuscita.
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The Firstborn è la sola opera di Fry composta su un tema tradizionale (quello di Mosè e delle piaghe d’Egitto) ed anche la sola a finalità tragiche. Di fronte a queste due necessità (evidentemente contrarie al proprio genio) Fry si dimostra esitante e, nel primo atto, privo di quella sua baldanza nell’introduzione dei temi che è sua preziosa qualità. Ma si riprende rapidamente e la figura di Mosè, disegnata, con leggerissima impudenza, come quella di un uomo che obbedisce a leggi il cui significato gli sfugge e che opera prodigi che egli stesso non desidera, è potente e patetica. Quella del Faraone, contrariamente alla consuetudine dei drammi biblici, è presentata come quella di un uomo simpatico e «possibile»; e cominciano ad apparire i versi di malinconica saggezza, di stampo puramente elisabettiano, che sono una delle attitudini poetiche più attraenti di Fry: I do not know why the necessity of God Should feed on grief; but it seems so
dice Mosè alla chiusa del dramma, con dolce e pungente rassegnazione.
A Phoenix Too Frequent è uno scherzo su temi macabri (mistura di schietto sapore inglese), fantasioso e ma-
lizioso, nel quale il grottesco e il funereo sono intrecciati in modo affascinante e legati insieme dagli ormai consueti versi smagati. E fu appunto questo scherzo che rese noto il nome di Fry sia pure in una ristretta cerchia di intenditori. Ma nel 1948 The Lady's not For Burning sparse la fama di Fry fra il grande pubblico. Questa commedia è stata tradotta e rappresentata in Italia e trovo quindi superfluo riassumerne la trama piena di bella mistificazione e di poetiche allegorie. Essa costituisce veramente qualcosa di nuovo nel teatro inglese. O per meglio dire è la prima commedia inglese da quattro secoli che abbia saputo rappresentarci la freschezza villereccia delle pic-
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cole città rurali e la maliziosa bonomia dei loro abitanti così come ci è indimenticabilmente resa sensibile dalle Merry Wives, per dirne una. Il soldataccio pentito che vuole ad ogni costo essere impiccato e la bella Jennet che, ad ogni costo anch'essa, non vuole morire sono i due personaggi principali che esprimono in modo felicissimo le loro singolari personalità terminando in una assurda e deliziosa scena d’amore. Ed essi sono attorniati da una folla di tipi secondari, freschi e allegri, che si muovono con brio indiavolato,
avvolti da una nube di coriandoli verbali che si illuminano volta a volta del colore degli umori propri in quel momento ai protagonisti, con un effetto di scintillio e di sempre rinnovata sorpresa verbale quale non sentivamo più dal tempo di Shakespeare e di Beaumont. Ancora maggiore è il valore di Venus Observed, nella quale l'ideale ricercato da Eliot della commedia in versi che fosse nello stesso tempo plausibile e poetica, mondana e colma di immagini mi sembra raggiunto. Ciò nella forma. Perché nel suo spirito Venus Observed è un rifiuto di accedere alla «negazione della vita» così come sembra (a Fry) che Eliot proponga. Il realismo e la fantasia si mescolano nelle figure delle quattro belle donne che dominano la scena, la più gaia delle malinconie traspare da ogni verso pronunziato dal Duca (incarnazione moderna di Prospero) e abbiamo anche il più poetico degli umorismi nelle figure del maestro di casa-domatore di belve, del cameriere-scassinatore, dell’amministra-
tore-ladro per dovere di tradizione. Perpetua, la sua adorabile figliola, è una squisita mescolanza di Rosalind e di Miranda; e tutta la scena dell’incendio è condotta su
un ritmo di balletto dopo la deliziosamente maligna scena d’amore fra il Duca e Miranda. Tutta la commedia si svolge, poi, sub specie aeternitatis con i continui riferimenti agli astri, alle eclissi, ai venti, alle forze che lassù continuano i loro moti senza cu-
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rarsi delle vicende umane. E quando il Duca ringrazia Rosabel per avergli incendiato il castello, Fry esprime nettamente la propria concezione opposta a quella di Eliot: We fall away into a future, and all The seven seas, and the milky way And morning, and evening, and hi-cockalorum are în it. Nothing îs with the past except the past. So you can make merry with the world, Rosabel. My grateful thanks.
E a noi sembra che per miracolo riudiamo la voce penetrante e disillusa e bonaria di Shakespeare. E non vorrei dimenticare il meglio, gli squisitissimi versi che liricamente evocano a noi le campagne imbevute di pioggia, gli stagni abbandonati, le stelle solitarie e partecipi solo della loro vita, la bellezza delle donne e l’impeto delle fiamme, la noia di certe vite coniugali e il tedio delle gioventù represse. Il vero capolavoro di Fry, forse l’anticamera di un capolavoro senza aggettivi. A questa «anticamera dell’assoluto» Eliot è giunto con le liriche dei Quartets; Fry con la Venus Observed. Se le Muse non si stancheranno di assistere questi poeti (e noi) il regno di Elisabetta II potrà stare non molto lontano da quello della bisbetica e grande Gloriana.
ALDOUS HUXLEY
Il rango di primo romanziere inglese, che adesso è detenuto ex aequo dalla Bowen e da Greene, parecchie migliaia di lettori, dieci anni fa, lo avrebbero assegnato a Huxley. Tutto poteva far prevedere per lui l’ascesa ai più alti vertici: la sensibilità acuta, lo stile purissimo, una cultura vastissima e perfettamente aggiornata anche nel campo scientifico (il che oggi è un dono prezioso per un letterato), un senso di humour umanissimo unito ad uno spirito mordace, una rara facoltà di osservazione (e intendo dire di osservazione delle attitudini intellettuali,
non quello che fa scorgere immediatamente la macchiolina di fango sui pantaloni di un amico). Adesso occorre ben dire che queste aspettative sono state deluse. Col solito senno del poi adesso si vede che cosa gli mancasse: la facoltà di creare dei personaggi. Fin dai suoi primi (del resto affascinanti) romanzi (Anti Hay, 1921, Crome Yellow, Those Barren Leaves, Point Counter Point, 1928) si nota che quel che dicoro i suoi
personaggi, l’ambiente in cui vivono, è molto più significativo e importante di ciò che essi sozo e fanno. Sono dei romanzi-conversazione nei quali, prendendo a pretesto una trama comica o dolorosa, ma sempre non im-
pegnativa, un certo numero di esseri svolge, con insuperabile brillantezza e uno spirito supremo, le proprie idee su tutto lo scibile umano. Pensate a Thackeray: egli ha in comune con Huxley una attitudine di velato sarcasmo verso la società nella quale vive. Ma egli, che era un romanziere nel sangue, non sapeva esprimere questo sarcasmo che attraverso dei
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personaggi i quali, con il loro essere e le loro peripezie, beffeggiano la contingenza storica. Quel che dicono è importante in quanto illumina il personaggio e, anzi, lo crea: ma in sé come critica alla società non ha valore. Proprio al contrario di Huxley: i suoi detti, i suoi epigrammi sono memorabili e se ne potrebbe fare una raccolta che avrebbe un valore immenso per la conoscenza ironica del nostro tempo. Ma da chi son detti? Da oscure larve la cui oscurità è tanto grande da non poter indicare niente. La voce, il testo, la saggezza sono magnifici; ma son parole trasmesse da burattini. Molti se ne erano accorti fin d’allora; ma si credeva
che ciò fosse dovuto ad immaturità artistica. E si continuava a godere della insuperabile conversazione, promessa di chissà quale capolavoro in preparazione. Niente: sempre nuovi aforismi, nuove vedute originali su Confucio, Freud, l'architettura elisabettiana o Bergson;
sempre motti di spirito di una acutezza tale da raggiungere l’assoluto. Ma romanzi, niente. Quando fu pubbli-
cato Point Counter Point fu notato un progresso; gli ammiratori si rassicurarono: «Il prossimo libro sarà un capolavoro!». Il prossimo libro uscì: era Brave New World, quel che sulla scienza umana e sul progresso della società sia stato detto di più audace e di più amaro dopo Swift. Ma romanzo, niente. Dramma, niente. E dopo Brave New World, che è del 1932, le cose so-
no andate di male in peggio. In Tyrze Must Have a Stop (1945), che si svolge a Firenze, troviamo squisite descrizioni, acutissime critiche d’arte, spirito a torrenti. Ma i personaggi sono nulli, come sempre: ricorderete quell’Angelo Mottini, l’antifascista, che è quanto di più sciocco si possa immaginare. Eyeless in Gaza dimostra un tentativo di rinnovamento di tecnica che consiste in fondo soltanto nel mutare l’ordine dei capitoli: leggendolo come è stampato risulta incomprensibile; ristabilito
con lieve fatica l’ordine naturale il libro risulta inutile.
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L’ultimo romanzo di Huxley (intendo dire l’ultimo che io conosca) è After Many a Summer, piazzato in America. L’inizio, l’arrivo cioè dell’intellettuale inglese in California e la narrazione della sua sorpresa su tutto ciò che di strano e di aberrante egli osserva nel Nuovo Mondo, è condotto con la solita maestria intellettuale; le
«sequenze» della visita al cimitero ci permettono però di paragonare (sfavorevolmente) questo Huxley in decadenza a Evelyn Waugh in fase d’ascesa che nel Loved One descrive lo stesso cimitero con ben maggiore sentimento di amarezza. Il seguito, le scene cioè che si svolgono nell’orrendo castello del brutale miliardario, sono della consueta irresistibile penetrazione, ma la fine, basata sul ritrovamento di un vecchio manoscritto, dal che
Huxley pretende dedurre profonde considerazioni sulla vita e sulla morte, ci lascia freddi perché ci fa troppo vedere i fili che muovono i burattini. Mi resta adesso, dopo tante contumelie scritte con tristezza, da parlarvi del «miglior» Huxley, di quello che abbandonato l’intento di scriver romanzi, si contenta di
annotare, di ammiccare, di far lugubri previsioni da par suo. Ape and Essence ci mostra lo stato nel quale sarebbe ridotto il mondo fra non più di cinquant'anni se scoppiasse la terza guerra mondiale, questa volta a base atomica. Si svolge in California e ci mostra un paese rinselvatichito, reso sterile dalle emanazioni radioattive, nel
quale erra una strana e scarna popolazione ripiombata nella barbarie e adoratrice del Diavolo. Un libro che ha rinunziato quasi del tutto ad essere romanzo e che presenta con enorme vigore idee e prospettive enormemen-
te lugubri. Un libro a modo suo di prim'ordine. Come di prim'ordine sono i precedenti appunti di viaggio di Huxley. Il nocciolo del caso Huxley risiede, credo, nell’ana-
cronismo che egli rappresenta. Nato da una famiglia di illustri scienziati, Huxley si è tanto profondamente im-
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bevuto di tradizioni scientifiche ed umanistiche che è rimasto uno scrittore, un grande scrittore, del Settecento.
Vi è in lui molto di Swift ma anche molto di Steele e di Addison, di gente cioè per la quale la letteratura era veicolo di trasmissione di idee sistematiche e non di emozioni.
Ciò ha condotto alla sua rovina artistica; ciò conduce anche al valore perenne dei suoi libri che certamente sopravviveranno come i Dialoghi di Luciano o gli Essazs di Montaigne, come testimonianza delle idee, delle illusio-
ni e dei terrori della generazione nella quale siamo immersi.
Ma avrei rimorso se questa mia bile di disilluso vi distogliesse dal leggere Huxley; chi non si contenta di una cultura provinciale deve conoscerlo perché in lui le idee circolano, fresche ed aeree come su una vetta di monte dove si respira bene ma non si può costruire nulla.
DETECTIVE STORIES E THRILLERS
Noi, in Italia, li confondiamo sotto il medesimo nome di «gialli». Sono in realtà due generi separati con scopi e possibilità diverse. Due generi, diciamolo subito, inferiori. Qualsiasi ope-
ra letteraria che volutamente concentri tutto il proprio dinamismo su di un campo ristretto diviene un mostro. Mostri sono i«gialli» quanto (e non più) i romanzi di partito, quelli pornografici, quelli patriottici, quelli pacifisti, quelli sentimentali, quelli insomma che hanno una sola direttiva di marcia. Mostro è Tos et mzoi di Géraldy, mostro Le rideau rouge di Ségur, mostro Cuore, mostro I/ ciclo dei Vela, mostri gli ultimi romanzi di Gorkij. Qualsiasi uomo che fosse tutto testa, tutto cuore o tutto altre parti sue naturali sarebbe un mostro, anzi neppure un uomo. Però. Però la letteratura è una foresta. E nella foresta non vi sono soltanto le querce rigogliose e i pini aggra-
ziati; vi è anche il sottobosco, quel groviglio di ginepri, di lentischi, di felci che danno sì asilo ai ramarri e alle bi-
sce ma che danno anche la possibilità di crescita a delicati fiori. E se si distrugge tutto il sottobosco l’aspetto di quelle stesse querce e di quei medesimi pini sarà differente; essi crescono così vigorosi proprio perché il mu-
schio copre e protegge le loro radici; e viceversa non è detto che non sia stata la caduta e l’imputridirsi di qualche quercia gigante a favorire il germogliare di quelle erbacce neglette. E la costituzione chimica del suolo sarà rivelata più esattamente dallo studio di quel sottobosco che da quello degli alberi d’alto fusto. Un brivido percorre il vostro midollo osseo quando sentite nominare Nietzsche. Nobile brivido, del resto,
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che fareste però meglio a tenere in serbo per quando lo avrete letto. E non vi accorgete quanto siate partecipi
della teoria dell’«Ubermensch» con la vostra esclusiva ammirazione per le querce ed il vostro «grosser Ekel» per i letterati umili. «Monsieur Tout-le-monde a plus d’esprit que Monsieur de Voltaire»; è un vecchissimo detto. E un «gros-
ser Ekel» per ciò che è stato ed è il pasto letterario di milioni di lettori non può giustificarsi che con una fede nelle «Eliten». Vi è sempre da imparare da ciò che stragrandi folle hanno amato; non fosse altro vi è da impara-
re ciò che queste folle vogliono; il che non è poco. Il romanzo «detective» ha per scopo la soluzione di un problema. Esso si prefigge non già di stimolare i sentimenti del lettore ma di risvegliare la sua intelligenza, il suo spirito di deduzione. Un vero romanzo detective dovrebbe poter scriversi in formule, risolvibili mediante
l'indagine matematica. Tutto quanto vi è in più di ciò che sia strettamente utile alla soluzione del problema non è più al suo posto. È superfetazione, embrione di crescita, sovrastruttura. È cellula primigenia di arte (cellula in novantanove casi su cento destinata a morire). Da queste premesse è agevole dedurre il seguente corollario: un romanzo detective tanto più vale, rispetto all’arte, quanto meno vale rispetto al suo interno procedimento. È proprio quando chi lo scrive lascia che il proprio dinamismo si svii che egli comincia ad avvicinarsi a ciò che i lettori più raffinati desiderano. «In my end is my beginning.» Ed è proprio per questa ragione che i romanzi detective migliori (dico migliori dal punto di vista letterario) sono i più vecchi, quelli scritti cioè da autori non poliziescamente professionisti, che non avevano ancora assimilato o non volevano assimilare le vere regole del gioco: Poe, Conan Doyle, Chesterton.
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Il pudico ritrarsi dinanzi al romanzo detective è un po’ simile, in quanto a ridevolezza, a quel signore che molti anni fa venne a colazione da noi e si rifiutò di mangiare la minestra con le lenticchie perché la trovava «proletaria». È facile dirsi buongustai assaporando soltanto il foie gras de Strasbourg. La difficoltà comincia quando il palato esercitato deve scoprire quanto vi sia di buono nella minestra, appunto, di lenticchie o nel cacio all’argentiera. E in alcuni romanzi detective (nell’uno per cento di essi) vi è del buono. Vi è anzitutto di buono il senso riposto ed inconscio di essi: che occorre una prova prima di metter dentro qualcuno. E si deve a questo punto di vista procedurale che qualsiasi romanzo giallo non ambientato in paesi anglosassoni, in paesi in cui l’babeas corpus non è una vana parola, appare completamente inutile. Da noi se avviene un omicidio si comincia con
l’arrestare la moglie, i figli, i genitori, i fratelli, gli zii, i cugini e tutti i conoscenti della vittima. Uno di questi deve essere il colpevole. E di fronte a tanta perentoria sicurezza il detective che si trastulla con la cenere delle sigarette o le macchioline del caffè appare, come è, ridicolo. Dopo vi sono, come ho detto, i motivi secondari e
contrastanti con lo scopo del libro. Triste arte, lo so, quella che non può acquistare meriti se non negando il proprio impulso. Ma se talvolta riesce a farlo, dobbiamo noi respingerla? Se vediamo presentarsi a noi una SS compassionevole o un gesuita sincero dobbiamo forse ricacciarlo fra i suoi antichi compagni? Poe, fra questi rinnegati virtuosi, è il primo. Ma di lui non abbiamo da occuparci. Conan Doyle è il secondo. Il suo caso è il più interessante: egli sfugge alla congrega dei detective non sappiamo bene perché: forse per una sua gracilità da primitivo forse per una disincantata queerness dei temi scelti, forse anche per un tanto di non sincero, di non abbandonato che vi è nei suoi racconti. Non so se a queste o ad altre più
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riposte ragioni si deve se molti racconti di Sherlock Holmes toccano il margine dell’arte, e certo è che lo toccano. Più chiaro è il caso di Chesterton. Nelle sue novelle di Father Brown è evidente che ci si infischia della ricerca del colpevole (esse sono, anche, tecnicamente assai mal fatte); ciò che invece costituisce l’interesse di questi libri è in primo luogo la qualità dei problemi morali (e talvolta anche teologici) che vengono posti, la figura patetica di Father Brown, poliziotto suo malgrado e sempre ferito fino in fondo al suo cuore quando è costretto a punire, la bizzarria dei delitti che danno luogo alla ricerca e che, spesso giuridicamente irrisori, svelano però abissi di malignità in chi li commette (o li subisce); e infine una certa deformazione ambientale, affine a quella di Dickens, che collabora all’effetto morale del racconto e
che ne rende parecchi memorabili. In breve, in Father Brown si sente la mano di un artista non mediocre. Se questi sono i soli fra i romanzi detective che siano pet la maggior parte artisticamente valevoli, non è detto che non si possano trovare tracce di arte in altri autori. Il Mr Fortune di Bentley, il personaggio di Lord John nei romanzi della Sayers e qualche pagina dei romanzi di Berkeley riescono ad interessare ed a eccitare sentimenti che non siano quelli puramente venatori. Dopo l’ultima guerra il romanzo detective è nettamente decaduto. L'invasione degli autori americani gli è stata fatale: esso ha bensì intuito la necessità di indirizzare il dinamismo su altro bersaglio che non sia la «ricerca»; ma si è rivolto ad una meta altrettanto meschina:
la pornografia. E, gravato da queste due necessità deteriori, gli è stato, evidentemente, impossibile elevarsi. Riassumendo; quando cerco di ricordare l'emozione estetica ricavata dalle centinaia di romanzi detective che ho letto, non mi rimane che la visione di un signore d mezza età, asciutto, sarcastico, morfinomane e suprema:
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mente intelligente: Sherlock Holmes; e quella di un povero pretucolo, col parapioggia sotto il braccio, che nel vento gelido di un tramonto autunnale sta a meditare, nelle desolate alture di Hampstead, sui problemi del peccato originale e della Grazia collegati col furto di due cucchiaini d’argento. Non è molto, forse; ma è certamente qualche cosa. Diverso il discorso per quel che riguarda i «thrillers», l’altra grande provincia del regno «giallo», i romanzi cioè di terrore. Diverso anzitutto per la sua veneranda anzianità. Thrillers sono alcune (fra le pessime) tragedie di Shakespeare; dico thrillers al cento per cento. Ché tracce di voluto «terrore», assai notevoli, si trovano in K:rg Lear e in Macbeth,
che sono fra le migliori. Interamente thrillers sono i drammi di Webster e di Tourneur, che ben sappiamo quel che valgono; e i thrillers si trovano, numerosi, fra gli altri drammi elisabettiani, ottimi, buoni e cattivi, a cominciare da Kyd e da Marlowe. Romanzo diterrore è Vathek di Beckford, come lo sono pure quelli di Lewis e della Radcliffe; questi ultimi due autori valgono poco, ma la fama che li segue val qualche cosa. Quale altro nome che quello di thriller si può dare ai racconti di Poe? E sono minestre di lenticchie assai buone, mi sembra. Larga parte di «terrore» (sempre «terrore» come fine a se stesso) vi è anche
nell’OZiver Twist. Questi nomi riguardano la sola letteratura inglese. Ma se ci volgiamo un momento altrove ci imbattiamo nei racconti di Hoffmann, che non scherzano, in parecchie no-
velle di Maupassant e di Schwob, in qualche racconto di Hervieu e financo nella Nuzzancia di Cervantes. E credo che non vi sia palato snobisticamente schizzinoso che ripugni a questi autori. Ai quali si potrebbero aggiungere i nomi di Hugo, di Andreev e, perché no, anche di Dante e di Pushkin, come di Barbusse e di Remarque.
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Letteratura inglese
Mi sembra che la bontà dell’albero genealogico del thriller possa considerarsi provata. Il fatto è che il terrore è uno dei più forti sentimenti umani, una delle leve della società. Paura allo stato puro, e paura sotto i suoi vari camuffamenti: umanitari-
smo, pietismo e qualunquismo. Paura del prossimo, paura dell’aldilà, paura della guerra e paura della rivoluzione; paura fisica e paura morale. Spesso essa si chiama omertà, si chiama neutralità, si chiama attesismo, si chia-
ma «senso di responsabilità»: quasi sempre pseudonimi dei quali la paura si riveste per circolare tranquilla. Della paura fisica dei militari Tolstoj ha fatto, come sapeva far lui, uno studio nella seconda parte del suo Sebastopoli. Camus ha fatto della paura morale una autopsia di prim'ordine. Dunque il terrore è argomento validissimo per un’opera d’arte, a condizione che esso non sia, al so-
lito, voluto e monopolista. E le vie d’uscita per sfuggire a questo monopolio sono numerose: si può aver paura
per tante ragioni interne ed esterne che lo sfuggire ai pericolosi postulati del «romanzo di terrore» è quasi più facile che rimanerne prigioniero. Nella letteratura contemporanea inglese i thrillers riusciti (cioè non riusciti in quanto thrillers) sono numerosi e quindi numerose le opere d’arte di questo genere. Primo fra essi per anzianità e per valore The Turn of the Screw di Henry James, del quale ho detto qualcosa a suo tempo, e che è un vero e proprio capolavoro che valendosi del terrore denuda alcuni dei più riposti segreti umani e lo fa con uno stile di flessuosità e vigore infinito. Inferiori, certo, a questa opera maestra ma sempre
assai buoni sono i due libri di terrore di M.R. James (1862-1936), che non è in nessuna relazione col grande Henry: Ghost Stories of an Antiquary e Thirteen Ghost Stories. M.R. James era un erudito medievalista professore ad Oxford ed ha saputo simboleggiare mediante queste davvero agghiaccianti novelle alcuni fra i più de-
Accenni ad alcuni contermporanei
[IGMIS)
licati problemi religiosi circa la dannazione e la risurrezione della carne. Spesso però «man merkt die Absicht und man ist verstimmt», il che mai avviene sotto il sovrano dominio della materia nel Turr of the Screw. Ad un alto livello di arte risaliamo di nuovo con The Ministry of Fear (1943); del che, d’altronde, ci sarebbe
garante il mero nome dell’illustre autore: Graham Greene. Qui il terrore non viene dall’oltretomba ma da fatti concreti e terreni: i fatti della guerra. E nel suo stile inimitabile, tutto fatto di sottili allusioni miste a nostalgici ritorni verso un passato migliore, Greene ci descrive in modo impressionante Londra martoriata dal B/z tede-
sco e lo smarrimento di un uomo che si trova fra un bombardamento e l’altro esposto alle rappresaglie di spie naziste. Il terrore aereo e quello occulto dello spionaggio sono intrecciati l’un l’altro con veramente impressionante abilità ed alcune scene di una calma pregna di minaccia sottolineano l’efficacia delle scene paurose. La psicologia del personaggio principale, povero relitto umano incolpevole e stralunato, è resa con rara efficacia e questa sinfonia di terrore è una delle migliori opere di Graham Greene, e non so se mi spiego. Era naturale che la guerra dovesse favorire la pubblicazione di romanzi di terrore. E ne apparvero infatti a centinaia, quasi tutti cattivi. Ma fra essi ne notiamo tre,
di due diversi autori, che sono delle eccellenti opere,
terrore 0 non terrore. Charles Williams (* 1945) è stato un autore assai versatile che ha pubblicato romanzi, critiche, novelle e commedie. Non conosco nessuna sua opera tranne l’ultima che sembra sia la sua migliore. All Hallows Eve (1945), cioè la «Vigilia della festa dei Morti», è un thriller che ha raggiunto una forte sublimazione. È, naturalmente, «sensazionale» ma con un significato riposto che si riferisce ad un ordine di esperienze particolarmente alto e che può essere stato scritto soltan-
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to da una persona che avesse molta familiarità con i più segreti corridoi della teologia e della psicologia. Opera potente che non è, certo, allegorica ma che rimane incomprensibile se non se ne afferri il significato ideologico. La sua pubblicazione, quando la guerra era ancora in corso, passò inosservata, ma già nel 1947 teologi, psicoa-
nalisti e critici letterari si azzuffavano a proposito di questo capolavoro del suo genere. È stato accusato di essere troppo riempito di fantasmi e di colpi di scena, ma leggendolo ci si accorge che nel libro niente vi è che non sia indispensabile allo svolgimento del concetto dell’autore e, senza voler istituire paragoni, se vogliamo respingere le
visioni soprannaturali nell’arte dobbiamo cominciare col bruciare il sesto libro dell’Exe:de, la Divina Commedia e
il Paradise Lost. Il che sarebbe un peccato. C.S. Lewis (nato nel 1898) è un professore di fisica ad Oxford. Di lui ho letto due soli libri, ambedue di assolu-
to prim'ordine. Il primo, pubblicato prima dell’ultima guerra, è una specie di idillio filosofico nel quale un mite professore di filosofia inglese si trova trasportato in un pianeta lontano e vi giunge nel momento in cui il Demonio tenta di sedurre la Eva di quei luoghi. Quel pianeta è un luogo di delizie boschive, di verdi mari cosparsi di allettanti isolette, e la Eva è una affascinante donnina che
contiene in sé tutte le possibilità del bene come del male. Il professore ha una serie di colloqui del più alto interesse tanto con Eva come col Demonio. Egli riesce con l’esperienza di millenni che l’uomo della terra ha accumulato a mostrare ad Eva l’inutilità del peccato ed a persuadere il Demonio a lasciarla in pace «affinché almeno a cinquanta miliardi di chilometri dalla Terra ci possa essere un essere felice». Dimenticavo di dirvi che il libro si chiama Perelandra, come il delizioso pianeta nel quale abbiamo visto tanti paesaggi incantevoli e udito tanti elevati discorsi. * C.S. Lewis non insegnò fisica ma letteratura a Oxford da 1925 al 1954; poi, a Cambridge, inglese medievale e rinascimentale.
Accenni ad alcuni contemporanei
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Il buon professore di filosofia, Dr Ransom, ritorna a
mostrarsi in un altro volume, The Hideous Strength, del
1945, e questa volta lo troviamo impegnato nel più difficoltoso tentativo di salvare il nostro mondo imbevuto dal male. Il male si trova concentrato in un cenacolo di scienziati, morti e vivi, che desiderano, approfittando della guerra, impadronirsi del mondo per i loro fini apparentemente umanitari, sostanzialmente abbietti. Lewis ci presenta con straordinario vigore alcuni degli aspetti meno piacevoli di questa nostra civiltà. Egli ha uno straordinario potere dialettico e una attitudine particolare per presentare incarnate le idee astratte. Terrore nel libro ve ne è quanto basta; ma sono le speculazioni filosofiche quelle che ci rimangono nella memoria e che conferiscono al libro il suo non comune valore. Evidentemente C.S. Lewis ha scritto dell’altro, ma
notizie delle sue opere non sono giunte sino a questa spiaggia fuor di mano. Io vi conosco e comprendo benissimo come, sotto il
vostro contegno inappuntabile, si muovono i pensieri che seguono: «Questo signore ci viene adesso a lodare i romanzi di fantascienza. Sarebbe meglio che si fosse fermato a Shakespeare». Anzitutto anche Shakespeare era spesso implicato nella «fantascienza» del suo tempo (La Tempesta). E poi io vorrei che vi liberaste dal complesso, provinciale anziché no, che le lettere debbono unicamente occuparsi dei moti impercettibili del cuore dell’autore o del modo più o meno rapido e perfetto col quale si asciugano le mutandine da bagno. Esistono, oltre a questi, gravissimi problemi filosofici, psicologici e sociali, dei quali un letterato, se ha cultura ed animo sufficienti, deve occuparsi; e dei quali tutti, alla fin fine, si sono sempre occupati. Se egli viene a trasmutare in fantasma poetico questi gravi problemi ha fatto il dovere suo. Badiamo, tutti, a non farci un idolo
della nostra stessa impotenza fantastica e culturale.
GRAHAM GREENE
Sono lieto di terminare queste ormai annose e chilometriche note col nome di Graham Greene. Si tratta di un grossissimo cane, di un cane di importanza mondiale e, a mio inascoltato parere, di un cane che ha di già quasi tutti i numeri per occupare quel rango che Huxley non ha saputo raggiungere: quello di primo scrittore di romanzi inglese. (Quello di primo scrittore assoluto, come sapete, è di già, al mio cieco, sordo e idiota parere, detenuto dal «facile» Eliot.) Today our world seems peculiarly susceptible to brutality. Thereisatouch of nostalgia in the pleasure we take în gangster novels, in characters who have so agreeably simplified their emotions that they have begun living again at a level below the cerebral. Wben one sees to what unhappiness, to what peril of extinction centuries of cerebration have brought us, one sometimes has a curiosity to discover if one can from what we have come, to re-
call at which point we went astray.
Sono questi due brani che ho scelto da un’opera relativamente giovanile del nostro autore, Jourzeys Without Maps (1936), due brani che possono sembrare contraddittori, in quanto in uno si deplora e nell’altro si esalta l’intellettualismo. Brani oltremodo significativi che espongono l’attitudine di Greene dinanzi a questo nostro mondo di oggi; contraddizione che egli tende nella sua opera a superare e sintetizzare,
Egli è un cattolico-romano; e che cosa questo implichi per uno scrittore inglese ho già detto quando ho balbettato intorno a Chesterton; e questa consegna di criti-
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co, di avvertitore di pericoli, di severo ammonitore così differente da quella sedativa dei nostri scrittori è stata seguita da Greene con slancio e vigore incomparabili. Egli si accorge di tutte le cose buffe e assurde che avvengono in questa odierna società (vedi la torta nel M7nistry of Fear) quanto se ne accorgeva Chesterton; si accorge di tutte le cose estremamente orribili che si svolgono in unione con (e spesso mascherate da) quelle altre cose buffe; quegli orrori che hanno spinto Huxley a «vomitare» la razza umana. Egli avverte la lotta fra i principi del bene e del male divenuta ai nostri giorni evidente e pubblica quanto una gara di pugilato; quella lotta che Lewis e Williams (dei quali ho parlato) disperano di risolvere senza un intervento esteriore. Ma il suo modo di avvicinarsi a queste sinistre realtà è in netto divario con quello di codesti esimi scrittori: egli non è uno spirito «parolaio» (s'intende senza nessuna sfumatura d’insulto) come Chesterton; non è un materialista sapientissimo come Huxley; racchiuso in una credenza precisa ed imperativa, non ha bisogno di crearsi, come Lewis e Williams, una mitologia personale allo scopo di esorcizzare Hitler, Stalin e la bomba H. Egli si rivolge semplicemente alle dottrine cattoliche che, interpretate
da lui, appaiono ben altra cosa di quelle predicate ogni giorno. È assai poco probabile, ma non è al di fuori di ogni probabilità che Greene divenga papa. Tutti allora diverremmo cattolici con lui. I suoi più caldi ammiratori (che non sempre sono quelli che meglio discernono) sono spesso sorpresi di quanto egli sia, senza ripugnanza, attratto da tutto ciò che vi è di ripugnante e di putrido. Questa è semplicemente l’attitudine cristiana: se Cristo avesse rifiutato di toccare i lebbrosi e di conversare con la Samaritana gli uni e l’altra avrebbero conservato il proprio male ed i propri peccati. Il cristiano deve essere attratto dalle carogne fetide, come le iene, come Baudelaire, come l’an-
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gelo della risurrezione. In Greene l'orrore per la luridezza dell'essere bestiale e non redento è mitigato dalla insopprimibile rassomiglianza con Dio che egli trova nel più squallido delinquente, e la sua ripulsione si traduce, come egli ha magnificamente detto, «in a forward flight», una fuga in avanti per cercare di lavare dal fango e dalla sanie i lineamenti che sono pur sempre divini. Greene è risalito nel Cristianesimo alle origini: lo ha ripulito di tutti i cardinali, i Luteri, gli Arcivescovi di Canterbury, le Madonne di Siracusa, i Puritani, i Gesui-
ti, e ne ha visto il vero volto che è quello della Carità. Nessuno vuol pretendere che egli sia un santo: forse parte di questa sua curiosità per il male è dovuta al desiderio di conoscere, magari al desiderio di fornirsi di materiale letterario. Ma leggendolo appare chiaro che la massima parte della sua attitudine è dovuta al desiderio di sondare la profondità dell’abiezione, di conoscere la
realtà della bruttezza del peccato e di tutto ciò che costituisce sfida alla bellezza o alla purezza. Non è stato soltanto lo spirito di giornalista che lo ha spinto a risiedere dei mesi nell’entroterra della Liberia «là dove si trovano i negri più infelici, perché sono i soli governati da altri negri, democratici per giunta», né a farsi inviare durante la guerra nella pestilenziale Africa occidentale, né ad esplorare alcune altre sinistre regioni della terra, né a passare tante notti nei rifugi sotterranei di Londra, durante il Blitz, dei quali ci ha lasciato così atroci descrizioni. Ci si ingannerebbe però se ci si creasse l’idea di un Graham Greene tutto materiato di austerità e di collera. È uno scrittore che ha dei gusti oltre che delle convinzioni. La sua preoccupazione morale non esclude il piacere. Il suo wi? non è tutto spietata satira. Egli sa essere benevolo; non possiede quella strana timidezza dinanzi alla «gentilezza» che è comune a tanti suoi (e nostri) contemporanei inferiori. Paradossalmente egli afferma in un suo romanzo che
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la cultura e il gusto per l’arte possono costituire freni morali: «Vi è qualche speranza che un giovanotto che apprezzi le belle figliole dipinte da Renoir lasci in pace le serve; non sarà virtù, per lui; ma sarà salvezza per esse; e dobbiamo contentarci». «Se due persone dovranno fare un viaggio di quattro ore in treno, se avranno dei gusti artistici parleranno probabilmente di Proust o di T.S. Eliot; non faranno del bene ma neppure del male. Se saranno degli asini (4sses) non avranno altro rifugio che la maldicenza, la quale è la matrice di tutti i più grossi peccati.»
Greene, specialmente in principio della propria attività, ha scritto parecchi libri a semplice scopo di intrattenimento. Tutti infatti portano come sottotitolo Etertainment. Non sono da trascurarsi in alcun modo: anzitutto perché sono veramente divertenti; in secondo luogo perché la personalità seria dell’autore vi traspare continuamente ed essi servono a lumeggiare tratti della sua personalità che nelle opere maggiori son disegnati in penombra. Fra questi entertainments il capolavoro è The Ministry of Fear (1943), del quale ho già parlato, e che lascia nel lettore una impressione ezica profonda, del resto non del tutto ortodossa. Delle opere minori non abbiamo però modo di occuparci qui perché se lo facessimo le pietre stesse della casa si metterebbero ad urlare «Basta», come esse fanno
nei sogni dei Profeti. Vorrei parlarvi soltanto di Jourzey Without Maps (1936), di Brighton Rock (1938), di The Heart of the Matter (1948) e di The Power and the Glory, del quale,
benché preceda The Heart of the Matter, parlerò per ultimo. Vi è almeno un altro romanzo «maggiore» di Greene, The End of the Tether; ma i demoni palermitani
mi hanno impedito di leggerlo. (Esiste una bellissima edizione a buon mercato delle opere di Graham Greene
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che costa sei o settecento lire al volume, compreso nel prezzo la rilegatura, il trasporto, il cambio esoso preteso dalle Messaggerie, il dazio e il furto dei librai; ma qui se ne ignora l’esistenza.) Journey Without Maps è la raccolta delle corrispondenze inviate a un giornale da Greene durante un suo viaggio nella Liberia. Come certo non ignorate, questa Liberia è una repubblica indipendente negra sulla costa occidentale dell’Africa. Essa si presenta a prima vista con aspetto decente nella sua capitale, Monrovia, ove risiede un presidente negro e canuto, il Ministero composto di dodici negri e un Parlamento suddiviso in Camera dei Deputati e Senato, un Consiglio di Stato, una Corte Suprema Costituzionale, insomma tutti i complicatissimi aggeggi di uno stato moderno. Quando la si guarda un po’ da vicino anche la capitale non funziona affatto; ma per un quarto d’ora la sua figura la fa. Fu nell’interno però che Greene passò parecchi mesi; e quel che vide è assai preoccupante.
Anzitutto non vi sono carte topografiche: i rilievi furono fatti quaranta anni fa, da allora esse sono in stampa in Inghilterra ma i denari per pagarle, sempre stanziati da bilanci votati, emendati e ratificati dai due rami del
Parlamento, sfuggono verso le tasche dei ministri. Le tribù dell'interno chiamano le elezioni «i grandi giorni del bastone» perché questo è non solo il principale ma l’unico argomento elettorale; i ponti non esistono; le strade neppure; e la malattia del sonno e l’idropisia fanno scialo; gli Stati Uniti mandano tonnellate di medicine ma queste, per opera di magia, si trasformano in casse di
liquori per i ministri e in tolette di Parigi per le loro signore. Il porto di Monrovia s'insabbia costantemente e il traffico diminuiste; la Francia ha donato due draghe;
ma poiché, per legge costituzionale, qualsiasi lavoro statale può essere compiuto soltanto da liberiani, le due draghe non hanno mai funzionato ed esse, ridotte a
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montagne di metallo arrugginito, affondano lentamente in quelle stesse sabbie che avrebbero dovuto spazzar via. Questo stato di cose dura dalla fondazione della re-
pubblica nel 1852. Ma queste cose non c’interessano; quel che c’importa è l’attitudine di Greene di fronte ad esse. «In the whole of Liberia I was the only angry man.» Essa differisce totalmente sia da quella degli imperialisti in buona fede che vorrebbero rimediare ai guai inviando in Liberia un consiglio di governo bianco («If somebody kicked out the dozen of swindlers who are governing Liberia a howl would be heard through all the civilised world») come da quello dei g00dy-g00dy filantropi. Mentre per ognuno di questi il problema è politico, per Greene il problema è morale. Anzi è religioso. Nella Liberia «devil is still the master of things; and devils shall not be routed away neither by the British marines nor by the Y.M.C.A; devils are only discomfited by the Cross». Punto di vista che potrà esser discusso ma che serve a darci l’intonazione di tutta l’opera di Greene. Il libro è un modello di reportage; le scene atroci e ripugnanti vi abbondano; vi abbondano anche ritratti pieni di simpatia per gli indigeni sventuratissimi; e si chiude con scene da commedia su Monrovia, la capitale di gesso e di vernice di questo stato di piaghe e di «schiavitù al suffragio universale». Brighton Rock è, dopo The Ministry of Fear, il primo romanzo serio, volutamente serio, di Greene. È la storia di un delitto, delle sue cause e delle sue conseguenze morali; delitto compiuto da un minorenne di precoce e già inveterata criminalità. Quel che nel Father Brown di Chesterton esisteva di già, la considerazione del delitto come infrazione alla legge morale e non soltanto al codice scritto, e la pietà per il criminale unita all’indagine sulla responsabilità della vittima, quel che in Chesterton c'era, dico, ma raffigurato di scorcio e adorno di troppi
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paradossi, è qui crudelmente approfondito, indagato in ogni segreta piaga e risolto con cristiano amore. Un li-
bro che unisce tutta l’ansia di una caccia all’uomo con le più sottili lezioni morali (mai espresse in prediche, per carità!), scritto in modo febbrile e che rende effetti allucinanti, talvolta con intrusioni dal romanzo russo sempre ammirevolmente assimilate in una mentalità completamente diversa ed assai meno molle. Un libro che da solo porterebbe di già ben alto il proprio autore. Anche in The Heart of the Matter il problema morale e spirituale domina. Una storia di peccato e di delitto svolgentesi nell'atmosfera avvelenata di una colonia inglese africana. Il diavolo spadroneggia e lo spirito lotta con lui in un mondo di sconforto e di laidezza. E nella
sua stessa sconfitta trova il modo di riaffermare la propria eternità. Con l’orrore dell’ambiente in più troviamo qui i temi di Mauriac. Ma, come Mauriac, Greene è stato qui sopraffatto dalla preoccupazione morale; e appunto perché troppo convinto lui stesso, non riesce a convincerci. Ad ogni modo, intendiamoci, opera d’un’arte superiore.
Se The Heart of the Matter può esser discusso, The Power and the Glory (1940) supera qualsiasi critica nella compiutezza del capolavoro. Certamente lo avrete letto; se non lo avete ancora letto correte a comprarlo anche in traduzione. Perderete il linguaggio saporoso e rude che aggiunge magia al testo originale, ma la grandezza dello svolgimento la troverete intera. Fuori del più abietto ambiente immaginabile, ambiente di vizio, di sordidezza, di degenerazione, di paura, Greene ha saputo evocare col suo «whiskey priest» ubbriacone, lussurioso e santo una delle figure più potenti della letteratura inglese. Questo prete immerso nel peccato mortale che pure è la salvezza degli altri peccatori è forse la più grande figura di ecclesiastico che ci sia mai stata presentata. Nell’anima sua e degli altri, brutalizzata e mutilata,
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si scopre l’amore attraverso il peccato. «Hate is just a failure of the imagination.» «When you saw the lines at the corners of the eyes, the shape of the mouth, how the hair grew, it was impossible to hate.» Ma Greene non predica. Egli è qui spietato e distante; in questa opera, evocando la vita nel suo aspetto peggiore e la paura nella sua forma più atroce, ha anche evocato la pietà ed ha reinterpretato il Cristianesimo nei termini della sua originaria Carità. Lo ho già detto, lo so; ma mi piace ripeterlo.
CONGEDO
Abbiamo passato quasi un anno insieme, voi ad ascolta-
re e io ad elucubrare. E non so di cosa meravigliarmi di più, se della vostra pazienza o della mia pertinacia. Delle notizie che vi ho date (che, modestia a parte, non sono state poche) non so quanto vi resterà; sono anzi sicuro che non vi resterà quasi nulla. La mia ferma ri-
soluzione di bruciare tutto via via che era avvenuta la lettura ha reso il lavoro inutile. Ma vi consegnerò dei foglietti nei quali troverete, ripuliti dalle mie improntitudini, i fatti essenziali della letteratura inglese. E se questo basterà ad invogliarvi a leggere quanto più potrete, un certo scopo sarà raggiunto.
Mi tocca però l’obbligo morale di ricordare i nomi di chi, in quest’ultima parte, ho lasciato fuori, per dimenticanza, per pigrizia o per compassione verso gli ascoltatori.
Fra i romanzieri Katherine Mansfield e John Priestley. Fra i poeti Rupert Brooke e Robert Bridges. Di altre gravi assenze non mi ricordo.
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PREMESSA
Nausea, entusiasmo
I{ 22 gennaio 1955, a piè di pagina del diario di Giuseppe Lampedusa, nello spazio deputato ad annotare le attività di lettura o di scrittura, compare un «Poètes du XVI siècle». E la prima menzione riferibile alla stesura della Letteratura francese. Le annotazioni si susseguono poi abbastanza regolarmente nei giorni in cui il diario viene visitato, perché vi sono anche lunghi periodi in cui Lampedusa lascia le pagine bianche. Vi sono soltanto due diari superstiti, quelli del 1955 e del 1956. Perché soltanto due? La casa di Giuseppe in via Butera non aveva specifici luoghi di archiviazione, quegli spazi dove vengono depositate pratiche e carte. La casa era grande e presentava diversi gradi di abitabilità. L'appartamento al primo piano sul terrazzo aveva cinque finestre sul fronte. Da sinistra a destra per chi venisse dall’ingresso, in corrispondenza delle finestre, si susseguivano quattro ambienti: a) studio di Licy (comprendente la biblioteca letteraria, gli scartafacci analitici, la radio e successivamente la televisione), finestra 1; b) salotto, finestre 2 e 3; c) camera da letto di Licy, con retrostante spo-
gliatoio, finestra 4; d) camera da letto di Giuseppe, finestra 5. Vi erano inoltre un ingresso, una stanza di armadi,
una stanza di svincolo e un grande bagno. Questi ambienti si potevan definire trasandati ma abitabili. La cucina, un ambiente lungo stretto e sudicio, era in condizioni in-
feriori alla ordinaria abitabilità, e dietro il bagno si trovava un grande ambiente scuro (dizione con cui i Lampedu-
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Letteratura francese
sa indicavano gli ambienti senza finestre) in condizioni disastrate, in cui erano accumulati alcuni resti del palazzo Lampedusa. Il tutto per mq 250 circa. Al piano superiore vi era una sala d’ingresso, un salone scuro, due «stanzette», un salone con finestra sul mare, detto «il Bellini», la biblioteca storica (tutti spazi privi di impiantistica, ma in condizioni migliori del piano di abitazione — non mancava loro una apparente dignità da palazzo) e poi il grande salone con quattro finestre sul mare, con la volta e il pavimento sfondati, adibito a deposito delle boiseries strappate al palazzo di via Lampedusa. Completavano gli ambienti del piano nobile una stanza con un «vetrinone» e due bagni nello stato di abbandono della cucina del piano inferiore; il tutto occupava una superficie doppia di quella del primo piano. I mobili di questi ambienti contenevano indifferentemente carte private, fotografie, stracci
o cianfrusaglie rotte. Essi apparivano come tanti depositi di una vita spiacevole, cimiteri di affetti trascinati in via Butera da case perdute o bombardate. Ma non erano soltanto ripostigli antichi di pene o promesse inevase; ogni tanto Giuseppe prendeva un fascio di carte recenti e le ficcava nel cassetto di un monetario 0 di una chiffonière. Ad esempio le pratiche del suo periodo di presidenza della Croce Rossa, elenchi e corrispondenze relative a censi inesigibili, corrispondenza con gli amministratori dell'eredità giudiziaria, abbozzi di lettere ad inquilini morosi, foglietti sparsi di considerazioni varie, alcune sulla mestizia della propria vita,! inumeri della rivista «Le Opere e i Giorni» a cui aveva collaborato, biglietti di invito per «His Grace ! Da un foglietto degli anni Cinquanta: «Perché è bene che tu non fumi? 1) Perché risparmi 300 lire al giorno (118.000 all’anno!). 2) Perché se dovessi andare in prigione ed esser costretto a non fumare soffrirai meno essendo di già avvezzo. 3) Perché non ti sporchi le mani. 4) Perché non ti sporchi le tasche».
Premessa
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the Duke of Palma» a qualche ricevimento londinese, boccette di medicine raggrumate, oppure le lettere di Licy, queste raccolte in due blocchi, custodite in due monetari provenienti dal palazzo di via Lampedusa, mentre il resto delle testimonianze si trovava ammassato senza altro criterio che quello di rimuoverle dalla vista e dalla memoria. Ma cosa amava Giuseppe Tomasi negli anni Cinquan-
ta? Certamente i propri libri: vi sono due inventari della sua biblioteca risalenti agli anni di via Butera, incompleti ma redatti con cura. Ed amava Licy. Le lettere di Licy erano archiviate, non tumulate in un cassetto allo stato di ri-
fiuti. Questi cassetti racchiudevano materiali penosi ed in buona parte inutili, depositi che il principe avrebbe potuto davvero affidare alla spazzatura, invece continuavano a esistere, non amati, vicino a lui. Ho motivo di ritenere che
i diari precedenti non siano andati perduti, e mi sono fatto la convinzione che essi non siano esistiti. I diari superstiti
denotano infatti un tortuoso ritorno alla vita, la ricostruzione di motivazioni, di appigli affettivi, come se Giuseppe avesse trovato una ragione per scuotersi di dosso l’abitudine di vivere in compagnia delle proprie delusioni, i cui attestati tangibili erano ancora, presenti nella casa che, orfano della propria, non era in grado di amare, anche se li aveva sottratti alla propria vista. Fra il 1945 ed il 1955 il diario avrebbe potuto assomigliare al registro di un camposanto: l'ingresso dei morti. Ma a partire da quell’anno vi è qualcosa per cui, anche se con intermittenza, val la pe-
na di vivere. L’intestazione del diario per l’anno 1955 ha tratti infantili. Come un bambino Giuseppe riempie gli spazi di frontespizio. Sotto AGENDA 1955 scrive un «XXIV», gli anni di matrimonio con Licy, nella pagina seguente riempie diligentemente gli spazi deputati per nome cognome
indirizzo telefono, aggiunge anche la misura delle scarpe, le diottrie degli occhiali, la marca dell’impermeabile per poterlo riconoscere al guardaroba. Alle ricorrenze abbia-
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Letteratura francese
mo: «Maggio 7 S. Alessandra; Giugno + mio Padre 24; Agosto Matrimonio 24; Ottobre + mzia Madre 17; No-
vembre 11 Compleanno Licy; è Z. Teresa 27». L'universo degli affetti perduti si limita al padre alla madre alla zia Teresa Piccolo. Quello ancora presente alla moglie. Nel diario del 1956 alla voce ricorrenze i nomi sono cambiati: «Febbraio 11 Compleanno Gio; Marzo 4 S. Lucio e Casimiro; Agosto 15 onomastico Gio». Le ricorrenze dei decessi sono svantte, gli amati affetti materni sono surrogati dalla casa di Capo d'Orlando; è sorta, con un nuovo affet-
to, una nuova ragione di vita. E ciò malgrado le perduranti difficoltà economiche, fattesi ancor più pressanti. E i diari riportano saltuari scoramenti, generalmente correlati al problema delle rate insolute del mutuo su via Butera,
culminanti nella annotazione del 27 febbraio 1956: «In \cruta a casa, sensazione netta di non poterne più. Passerà
anche questa volta, forse. Ma una volta o l’altra non passerà più». Nel diario del 1955 vi è anche una singolare discordan-
za fra la funzione testimoniale, presupposto e motivazione del tenere un diario, e la verità dei fatti. Nel riferire sulla gita del 3-6 settembre a Siculiana dagli Agnello, quella în cui egli visitò per la prima volta il monastero di Palma il 4 settembre, Lampedusa menziona sempre la mia presenza, in treno per e da Agrigento, a Palma, al museo di Agrigento, ad Eraclea Minoa. Ma a questa gita io son sicuro di
non aver preso parte. Su questo punto concordano tanto la «Cronaca» tenuta dal monastero delle benedettine che i ricordi di Francesco Agnello e miei. Determinante mi pare anche il fatto che io son certo di non aver mai visto il teatro di Eraclea Minoa senza l’attuale copertura in perspex,
quella che toglie al luogo gran parte della sua magia. Infantilmente lo scoramento si andava mutando in sogno di desiderio, tecnica fondamentale della narrativa «grassa»,
passionalmente motivata, e di cui Lampedusa dà sovente saggio anche nelle lettere a Guido Lajolo che annunziano
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gli «avvenimenti» della sua vita negli anni 56-57. Nella parabola sfortunata di quest'uomo furono quelli gli anni di una svolta esaltata, accompagnati dal trabocco esuberante di un’energia a lungo repressa. Il principe si appre-
stava a possedere il mondo nel solo modo che poteva essergli concesso, quello della creazione di personaggi con cui identificarsi. La sua analisi dell’opera stendbaliana è in questo senso illuminante. Come il console di Civitavecchia egli riverserà nella narrazione o nell'analisi dei testi e della storia il desiderio di vita e di avventura che non aveva potuto personalmente esaudire. L’ansia della comuni: cazione prevaleva, in quello che doveva essere un breve ed
intenso tramonto, su ogni altra considerazione. E l’approccio alla letteratura francese risvegliava în lui quell’ammirazione per il protagonismo eroico che fa della Francia il paese la cui letteratura è più intrecciata alla storia e allo spirito della nazione di qualsiasi altra esperienza europea. Giuseppe Tomasi era sulla soglia dei sessant'anni, ma aveva ritrovato l'entusiasmo e la fantasia di un adolescente, in uno con la scienza del mondo, quella che la tradizione della cultura illuminista continua a fornire da due secoli alle classi dirigenti europee.
Europa: modelli e letteratura A prescindere dai loro pregi e difetti la Letteratura inglese e la Letteratura francese sono anche la guida per comprendere le linee maestre di quei tre ultimi anni. Dei due popoli e civiltà Lampedusa ammirava e subiva alternativamente peculiarità e differenze. Diversa era anche la conoscenza che ne aveva. Lampedusa è stato sovente descritto come un cosmopolita, un uomo presente, navigato
nella vita sociale delle capitali europee, quella descritta da Thomas Mann nel Krull o in Morte a Venezia, e di cui la
Garbo di Grand Hétel ci ba lasciato la versione “età
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dell'oro” con la evidenza di comunicazione che soltanto le immagini possono trasmettere. Questa convinzione non
risponde alla realtà, Lampedusa era in verità soltanto un cosmopolita letterario. La vita, con la sola eccezione dei suoi periodi di residenza all'ambasciata d'Italia presso la corte di San Giacomo e di alcuni viaggi parigini dell’infanzia, era stata la vita appartata di quella aristocrazia meridionale irrimediabilmente tagliata fuori dalla società emergente alla caduta delle barriere protettive del regno borbonico. Egli era una fra le tante vittime di quel processo con cui l'Unità d'Italia si tradusse nella decadenza, prima economica e successivamente civile, del regno meri-
dionale. L’affievolirsi della partecipazione a quella circolazione d'idee, a quel repertorio di valori e comportamenti che dall’umanesimo all’illuminismo è alla base dell'identità occidentale, abbracciava a Palermo l’intero corso della sua esperienza di aristocratico. Una decadenza che prosegue ancora oggi in uno con la contrazione della qualità della vita: sintomo ricorrente, da un secolo a questa parte, di un collasso della classe dirigente, la sola che avesse contatti e cultura modellati sui fondamenti illuministi della civiltà europea. Basta scorrere i diari della classe dirigente napoletana che visse il trapasso a cavallo fra il 1850 ed il 1880 per rendersi conto della progressiva caduta del tenore di vita che si abbatté su quella generazione. Figli, i cui padri erano stati al vertice della vita sociale
ed amministrativa del regno, iniziarono allora la faticosa ricerca del modesto salario di sopravvivenza garantito dal posto statale. Si aggiunga a queste considerazioni sociali
la natura schiva che contraddistingueva il carattere dell'ultimo Tomasi, la sua incapacità di protagonismo. Fra gli ultimi quattro principi di Lampedusa, soltanto suo padre era stato un protagonista della vita mondana palermitana, non suo nonno e neppure il bisnonno astronomo,
bigotti di spirito e compiaciuti di un placido ed appartato isolamento. E, forse anche a causa della difficile emanci.
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pazione dalla figura paterna, lo scrittore non era considerato un cosmopolita neppure nella sua Palermo. Ma Giuseppe aveva aggirato sin dall'adolescenza l’isolamento con la lettura, l'aveva fatto assieme ad un piccolo
gruppo di parenti, soprattutto i cugini Lucio Piccolo e Fulco Santostefano della Cerda, gli amici Giuseppe Scordia, primogenito di Petrillo Lanza di Trabia, e Francesco Notarbartolo di Sciara; prepotente era stato in lui il desiderio di evasione stimolato dal cosmopolitismo della madre Cutò; non ne era risultato alcunché di pratico, neppure l’idea di uno sbocco professionale, salvo una accumulazione di esperienze soprattutto libresche e una trasformazione della personalità che ne consentiranno il decollo tardivo. Le letture ed i viaggi inglesi faranno il resto, gli inculcheranno il rispetto profondo per una società che al senso dello stato unisce quello della convivenza, di un popolo che ha saputo affrontare con empirica e reciproca tolleranza gli emergenti conflitti di classe della società industriale. E nell’Inghilterra Lampedusa si era veramente addentrato, ne aveva visitato città paesi e campagne, l’aveva idealizzata quale modello di società civile, quella dove lo statista aveva saputo farsi carico delle attese e dei bisogni degli umili e della prosperità collettiva. Infantilmente ci ha pot descritto la sua Inghilterra come una società rea-
lizzata piuttosto che come una società possibile, la meta potenziale di un’opera in fieri con cui l’arte dello statista deve quotidianamente confrontarsi. Ma prima ancora di questo incontro, di questa civile promessa di felicità, aveva accarezzato e si contrapponeva
a tale modello la meteora della gloria, della personalità e dell’intelligenza che aveva contraddistinto la monarchia francese da Louis XIV all'Impero. Il contatto col polo della gloria era antecedente a quello col prammatismo democratico, si fa per dire, di Walpole; l'epopea napoleonica, quegli in-folio per adolescenti, carichi di litografie che mostravano parate, marescialli e battaglie, rievocati nei Rac-
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conti, ed ancora al loro posto di onore nella sua biblioteca storica, erano stati la chiave di accesso del bambino ad una valutazione del mondo che identificava nella Francia bellicosa, feudale, imperiale o rivoluzionaria la dimensione eroica; e a questa sarebbe stato pronto a sacrificare privilegi e tolleranze. Giuseppe Tomasi non dimenticherà più la sua immedesimazione adolescenziale con il piccolo
generale che aveva fatto tremare i marescialli del Sacro Romano Impero. E questa capacità di lotta lo porterà a lodare le plebi di Parigi e le loro rivoluzioni. I giorni della Comune avevano in lui un estimatore di livello brechtiano, gli scritti reazionari di un De Sivo o la Vandea gli suggerivano, a parole, comportamenti alla Sanjust. La Francia, in uno con la sua letteratura, sarà idealizzata come la
storia di una civiltà scandita da una sequenza di figure dominanti, in cui l'efficacia dei risultati fa agio sulle opinioni del prossimo e sulla necessità di acquisirne il consenso. Questa antinomia domina passioni ed affetti di un adulto in cui agivano ancora amori e fissazioni dell’adolescenza. Giuseppe era il primo a condividere la osservazione di John Dewey sulla opportunità del suffragio universale, la irrefragabile constatazione che anche il più rozzo dei cittadini debba poter far sentire la propria voce, perché «he knows if his shoe is tight»; e d'altra parte si immedesimava nel suo contrario, la grandezza delle scelte affidate
al più capace e determinato, avvertita come una sorta di eroismo estetico, prima ancora che politico. Questa via poteva anche sospingerlo a propensioni estremziste. Era poco
attratto dal conservatorismo oligarchico, quello a cui avrebbe dovuto ascriversi per collocazione di classe, dalla destra del De Maistre e del Mann delle Betrachtungen eines Unpolitischen. Rarzzzento proprio come sulla tesi di questo saggio impostasse una critica alla mediocrità borghese, autoritaria, della Germania guglielmina, responsabile, a suo dire, di aver esteso ad un intero paese la inco-
municabilità fra classi del militarismo prussiano, quella
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per cui l'ufficiale non usa fraternizzare con la truppa, e ad essa di gran lunga anteponeva l'utopia del «Werkbund» e della repubblica di Weimar. Conosceva il saggio wagneriano di Shaw, e fra i motivi della sua antipatia per l’autore rientrava anche la lettura marxista del Ring, una fra le più riuscite provocazioni di Shaw. L'idea di un Wagner socialista non gli andava giù. «Quel cervellone di Shaw ha anticipato le massime sciocchezze del socialismo scientifico.» Appellarsi alle ragioni dell'economia per spiegare il meccanismo che contrappone dei, uomini e nibelunghi, gli pareva un'idea balzana. «Che bisogno c'è, in un paese dove lo Junker considera il proprio attendente poco più di una bestia.» E di qui un rimpianto per la Germania rurale, la Germania dei villaggi e dei castelli dei Lehrjahre, un
tasto questo a cui era particolarmente sensibile in tutte le letterature e che lo aveva portato ad una ammirazione sconfinata per una commedia minore di Lope quale El viIlano en su rincén. Ma gli autocrati conquistatori lo affascinavano, e pote-
va sorvolare su qualche delitto utile, ritenerlo magari necessario all'economia della storia, una nobile applicazione del «fine giustifica i mezzi», che nulla aveva in comune con il crimine ideologico come i genocidi nazisti. Questo culto dell’eroe era più sentimentale che illuminista, era
radicato nei sogni di gloria dell'infanzia ed era stato preservato intatto attraverso una conoscenza prevalentemente letteraria della cultura francese, del popolo che nel corso della propria storia meglio lo rappresentava, senza il soccorso di una vera, personale, pratica del paese. Giuseppe Tomasi aveva infatti una esperienza diretta limitata alla Francia turistica e dei piccoli e medi alberghi; non era vissuto in Francia, l'aveva soltanto visitata nel corso di al-
cuni tours europei compiuti assieme alla madre. I francesi, artisti e classe dirigente, abitavano per lui quella terra avvolti nell'aureola dei mandarini. Si allineavano tutti, sovrani o regicidi, letterati o pensatori in una galleria di es-
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seri superiori, sommamente intelligenti, raramente pervasi dalle qualità umane, dal talento della solidarietà che tanto ammirava negli inglesi. Ne derivava anche una minore curiosità per la letteratura francese come letteratura di un popolo e non come letteratura della sua classe dirigente. Soltanto La Bruyère presenta a suo avviso qualche tratto di solidarietà, di comprensione per la società che lo circonda. E pochi altri son capaci di liberarsi da un luciferino talento razionalista, hanno la capacità e la bonomia
del popolare; se ne scova qualche tratto nel vocabolario di La Fontaine non manca di rallegrarsene, ma ancor più lo esalta il talento intellettuale dell’icasticità, della parsimonia espressiva. La sua ripartizione degli scrittori in «grassi» e «magri», menzionata da Francesco Orlando e riassunta sull’inizio della Letteratura francese mella contrapposizione fra Rabelais e Calvino, ha origine specialmente nell’ammirazione per Racine e per Stendhal, da Lampedusa, secondo Orlando, addirittura identificati. A voce soleva affermare «Racine è Stendhal», anche se l’osservazione più che esser originale suona come una glossa
alla lettura del saggio stendhaliano di Jean Prévost. Non sorprende a questo punto che la biblioteca francese di Lampedusa fosse meno ricca di quella inglese, soprattutto priva di quel tessuto connettivo dei «minori» su cui si fondava la superiorità della sua competenza. Della letteratura francese Lampedusa aveva una conoscenza per picchi, anche se a volte si compiace di asserire il contrario. In alcuni casi questa ignoranza è addirittura confessata, esplicitamente nel trattare il teatro francese del Cinquecento, dove Tomasi rinvia all'autorità
del Doumic,
uomo,
com’egli asserisce, di spalle larghe, e che più di lui può guidare l'allievo alla conoscenza delle lettere francesi. I libri di testo perla stesura della Letteratura francese sono soprattutto i saggi di Sainte-Beuve, la Histoire de la littérature francaise di G. Lanson, le introduzioni e commenti alle opere degli scrittori francesi che man mano ve-
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nivano pubblicate nella «Bibliothèque de la Pléiade». Queste edizioni di lusso furono la gioia dei suoi ultimi anni. Le ordinava e acquistava da Flaccovio malgrado il loro prezzo fosse pari (attorno alle £. 6.000, circa £. 200.000 di
oggi) al fitto mensile di uno dei tre piccoli appartamenti che locava in via Butera, fatto questo sospettato dalla moglie. Più di una volta aveva dovuto difendersi dalle sue inchieste ed aveva asserito che il volume incriminato gli era stato offerto ad un prezzo d'occasione. (Il reddito complessivo dei fitti di via Butera non giungeva in quegli anni alle £. 100.000 mensili.) Inoltre Giuseppe sovente si fa forte sulla autorità del Doumic. Per lungo tempo mia moglie Nicoletta, curatrice della Letteratura francese, ron riuscì
a reperire questo testo di riferimento. Fin quando una ulteriore perlustrazione della biblioteca letteraria dello scrittore portò al rinvenimento della Histoire de la Littérature Francaise par René Doumic, ancien élève de l’école normale supérieure, agrégé des lettres, professeur de rhétorique au collège Stanislas, seizième édition, 1900. È questo un manuale per i licei, recante sul frontespizio la firma di Jeanne Sempell, la governante francese chiamata dai Lampedusa per l'educazione linguistica del figlio sull’inizio del secolo. Il manuale è un capolavoro di quel che oggi vien detto con disprezzo un testo nozionistico. La materia è trattata in périodes e ogni periodo è diviso in genres. La trattazione di ogni periodo è seguita da un tableau chronologique e da urna lista di lectures recommandées. Nella prefazione alla sedicesima edizione l’autore conclude: «Ce que nous avons essayé, c'est de guider les jeunes gens à travers tant de belles guvres, et c'est sur-
tout de leur inspirer l'amour et le respect de notre littérature nationale». Doumic e la Sempell ottennero il risultato sperato. Giuseppe Tomasi resterà ancorato a questa
griglia assimilata nella prima infanzia.
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II primo blocco della Letteratura francese ci è pervenuto in un grande raccoglitore per fogli protocollo che reca la seguente intestazione: Letteratura Francese / I — Il Cinquecento / II — Il Seicento / (I La grande svolta — II I co-
lossi instabili) / (25 Gennaio-28 Febbraio 1955). Le date sostanzialmente collimano con le indicazioni della stesura inserite nel diario. Sempre manoscritta su fogli interi ci è pervenuta una terza parte del Seicento, L'età dell’oro; restano ancora l'introduzione al Settecento, Marivaux, Lesa-
ge, Prévost, Chénier; per l’Ottocento Gobineau. Una seconda fonte è costituita da un quaderno di appunti. Questo contiene una prima stesura di alcune parti poi tra-
scritte con rielaborazioni nella ricopiatura su foglio intero (vi è anche una prima stesura di circa metà dello Stendhal), ed alcuni autori che ci sono rimasti soltanto in questo stadio di elaborazione (Montesquieu, La Rivoluzione e la letteratura, Mérimée, osservazioni sparse). La
provenienza da questa seconda fonte è indicata nella presente edizione con «dagli appunti». Risultano smarriti due fogli della stesura a foglio intero, che sono stati integrati dal dattiloscritto della Letteratura francese fatto redigere dalla vedova. Del pari smarrito è il manoscritto della sezione su Stendhal, che viene qui riprodotta dalle edizioni a stampa («Paragone», n° 112, aprile 1959, e poi Sellerio, Palermo 1977). Lezioni su Stendhal, comze il te-
sto è stato titolato nell’edizione Sellerio, fa parte di un blocco di manoscritti appartenenti alla stesura in-folio che Licy affidò a Bassani dopo la pubblicazione del Gattopardo. In questo blocco vi era anche la parte riguardante il Cinquecento. Nel 1979 i saggi relativialCinquecento, con alcuni tagli e qualche errore di trascrizione, furono pubblicati da Feltrinelli a cura della Principessa sotto il titolo Invito alle lettere francesi del Cinquecento. La presente edizione è la prima di tutto il materiale superstite. Le cita-
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zioni sono state per quanto possibile riviste secondo il testo della Pléiade, se disponibile, o di qualche altra edizione moderna. Nel trascrivere il francese del Cinquecento Lampedusa sovente modernizzava la grafia e commetteva delle sviste. È parso pertanto opportuno ripristinare il testo originale laddove possibile. Si avverte che la grafia del francese cinquecentesco varia da edizione ad edizione, ed
a volte anche nella stessa edizione, quindi essa potrebbe non collimare con quella in possesso del lettore. Alcune, poche, citazioni degli autori cinquecenteschi appaiono in francese moderno. Sono passi di cui non si è potuta rinvenire la provenienza. Alcuni sono anche di dubbia autenticità e siamo quindi in presenza di citazioni orecchiate, a volte di citazioni inventate sull’estro della tesi e foga narrativa. Altre volte ancora le citazioni sono riprese da saggi o biografie. Nel caso delle lettere di Mme de Matntenon,
di Guez de Balzac, dei Mémoires di MIle de Montpensier sono personalmente rimasto sorpreso nel constatare che Lampedusa non ne fosse in possesso. Infatti epistolari e mémotres del Grand Siècle francese erano fra le letture più battute negli ambienti di cultura aristocratica della sua generazione. L'assenza di questi testi nella biblioteca dello scrittore poteva far pensare che fossero andati smarriti. Fin quando con il ritrovamento del Doumic il mistero è stato risolto: la sua Histoire de la Littérature è l’opera da cui sono tratte le maggior parte delle citazioni per le quali Lampedusa era privo dei testi. Il criterio adottato nel redigere le annotazioni al testo è stato quello di segnalare soltanto questioni relative al procedimento espositivo di Lampedusa e alla sua biografia. Non si sono messe note relative a opere 0 personaggi o ad autori poco noti. I nomi sono stati tutti ricontrollati, dimodoché il lettore che vo-
lesse saperne di più non avrà bisogno di procedere per tentativi come ha dovuto fare la curatrice nel decifrare il manoscritto. L'ultimo enigma che né io né lei eravamo
riusciti a sciogliere è stato risolto da Francesco Orlando.
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Nel ringraziarlo lo indico qui, soltanto nella presunzione che l’indovinello sia oggettivamente difficile. L’abbé Lantaigne e l’abbé Guitrel (p. 1686) sono due personaggi di Anatole France. L’uno rigoroso, l’altro mondano, ma en-
trambi macchiette, donde le scuse di Lampedusa per aver raffrontato Bossuet e Fénélon, «questi grandi spiriti», agli abbés ideati da un campione dei mangiapreti. Torno alla bottega dello scrittore; dalle fonti suesposte e dai diari si possono trarre le seguenti conclusioni. Lampedusa scriveva prima una traccia negli appunti, a volte
delle semplici annotazioni di lettura. Ad esempio alcuni versi libertini di Chénier che vengono pot inseriti nel testo, o una osservazione suggerita dalla rilettura delle Promenades dans Rome che ricomparirà amplificata nel saggio su Stendhal: «Mancanza di concretezza della letteratura italiana, dopo il Quattrocento. Londra descritta dagli inglesi, come Parigi dai francesi; Puskin ci ha dato versi smaglianti sul fascino fluviale e dorato di Pietroburgo. Romza in tutti i suoi aspetti non è mai stata evocata da italiani: da Goethe, du Bellay, Chateaubriand, Mtlton sè».
Gli appunti venivano poi ricopiati con aggiunte e ritocchi nei fogli. (Nella riutilizzazione del passo sopra citato Lampedusa si ricorderà della Roma del Piacere.) La lettura delle «lezioni» ad Orlando, in senso temporale, non era
collegata strettamente alla stesura dei testi. Le letture da Boileau a Chénier ebbero luogo nel periodo 8 agosto-8 settembre 1955, la loro redazione due mesi prima. La stesura del corso, dopo il blocco compatto Cinque-Seicento, procedeva in ordine sparso. Alcuni autori menzionati nel diario come argomento di una lezione, ad es. Chateaubriand, Gide (settembre 1955), non si trovano nei materiali superstiti. Sul finire dell’anno Lampedusa iniziò con Orlando la lettura del Werther in tedesco, e nel gennaio 1956 il ro-
manzo epistolare fu provvisoriamente messo da parte per alcune sedute dedicate alle battaglie napoleoniche. Dal Werther si passò ad alcune letture del Gattopardo man
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mano che ne procedeva la scrittura. Poi vi fu la copiatura a macchina del romanzo. In autunno le lezioni con Orlando st posson dire concluse. Gli incontri, iniziati tre anni prima con cadenza trisettimanale, saranno d'ora in poi soltanto sporadici. L'assenza del tessuto connettivo, quei minori, appena sfiorati o riassunti dalla Pléiade, dal Lanson e dal Doumic, rende la Letteratura francese ur testo il cui pregio principale sta nei «portratts» dei «colossi», stabili o instabili che siano. Inoltre, come aveva notato il suo unico allievo, Lampedusa non si divertiva più come un tempo. Rispetto alla Letteratura inglese /a francese è zzeno vivace, le divagazioni sono rare, il tono generale più serio. Mancano gli inserti del viaggiatore stupito da usi e costumi diversi, quella facoltà umoristica che abbisogna di una conoscenza vernacola e di prima mano. Anche a giudicare dalla biblioteca dello scrittore la sua conoscenza della letteratura francese era meno minuziosa. Lampedusa, ad esempio, non si era addentrato fin nei dettagli della vita sociale e letteraria del Grand Siècle. Gran perdita, perché egli sarebbe stato un narratore esilarante dei salons e delle querelles, sui quali fornisce poche notizie desunte dai manuali. La storia delle varie «querelles» che imperversarono a Parigi fino alla Rivoluzione non era stata un suo campo d'indagine. Sulla Rivoluzione e l'Impero, invece, la documentazione in suo possesso è ricca, ma questo periodo non è trattato nelle Lezioni. Gli autori amati, i colossi, sono invece sviscerati in «portraîts» a tutto tondo. E qui l’estro innato riprende il sopravvento. Gli ammonimenti ai giovani allievi in cui esplicava la sua malizia sono anche meno frequenti. E d'altra parte vi è stato un solo allievo (Orlando) e un solo lettore di questi testi (io). Dopo l'esposizione della teoria dei «grassi» e dei «magri», che viene adottata come «bypothèse de travail», auspica che le sue conversazioni almeno forniscano agli ascoltatori una guida per motivare i propri giudizi, perché
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«la conoscenza generica di una letteratura è quasi più esi-
ziale della sua ignoranza». E nel far seguire Calvino direttamente a Rabelais avverte che «per amore dei contrasti violenti» si è prefisso di «dare una esemplificazione della teoria sui grassi ed i secchi». Ed ancora ammonisce noi giovani, rei di presunte propensioni per una letteratura al-
la Tropic of cancer. Così a proposito di Scève asserisce che «non si entra nell'intimità dell’arte scèviana come si entra in un postribolo, fischiettando e pensando ad altro;
occorre togliersi il cappello e pulirsi le scarpe sulla stuota, come si fa nelle case per bene». Ritorna alcune volte anche l’odio per il melodramma, forma d’arte corruttrice quant’altre mai; e nel parlare della differenza fra il teatro francese e quello inglese, l'uno manifestazione sociale delle classi colte e l’altro, ai suoi esordi, destinato ai bassifon-
di popolari, asserisce che «il teatro francese è un fenomeno di cultura; e tale resterà sino ai tempi romantici avanzati, sino alia nascita del “mélo”, cioè del melodram-
ma che con il nostro non ha nulla in comune se non il livello artistico», col che il teatro di Scribe ha il benservito.
Ancora una deliziosa «tirade» accompagna l'ingresso in scena dell’«abbé Prévost». Talvolta nelle case muore un topo, nascosto dietro un lambris di legno o sotto un mobile pesante. Un odore pestilenziale si sviluppa in tutto l’appartamento: a finestre aperte non s’avverte, a finestre chiuse soffoca. È infetto e ubiquitario. Si trova nella sala da pranzo, rimbalza in salotto, scoppia in mattinata nello studio e la sera in sala da ballo. Occorre schiodare i tappeti, far venire dei facchini per spostare i mobili e rimuovere la tetra causa.
Tale il melodramma. In ogni angolo della letteratura europea ci imbattiamo in questa minuscola carogna. «Pugnò da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar.» Si nomina Mazon come una delle opere più composte e commoventi che siano state scritte. Ed ecco a un tratto diffondersi il profumino letale.
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Ma dalle sostanze inquinanti non ci si può liberare. Nel costruire l’ultima lettera di Montaigne a Henri IV Lampedusa termina con un «Paix, clémence, pitié», appunto in
odore di grand-opéra. Il rapporto fra l’Italia e il paese esterno è ancora una volta a favore di quest'ultimo. Nel narrare le meraviglie della editoria francese il barbaro costume italiano di non avere a disposizione edizioni dei classici solleva i consueti sarcasmi («Se in una nostra libreria chiedete le opere di Algarotti o di Bertola non sanno di che si tratta»). Lampedusa procede in senso inverso a quello dello Stendhal viaggiatore in Italia, dove tutto era godibile e foriero d’incanti rispetto alla Francia. La storia francese, con le sue violente sollevazioni, gli dà l'opportunità di esporre le sue preferenze ideologiche, ed esse variano secondo l'ammirazione per il personaggio nel cui contesto sono inserite. Parlando di Montaigne si lascia andare ad un commento denigratorio della dea Ragione. Ha trascritto le insolenze ignoranti riserbate a Montaigne da Mussolini e da Hitler e conclude: «Queste sciocche opinioni possono però esserci utili per farci indovinare uno dei pregi principali di Montaigne: la libertà dello spirito. Montaigne adora poco le divinità, anche la dea Ragione ed in ciò si dimostra superiore ai suoi seguaci
del Settecento che erano liberi soltanto di andare a sintstra». Ma parlando di La Bruyère, a proposito dell’osservazione che possano esistere dei compensi, «che la spen-
sieratezza del contadino possa compensare la sua miseria se posta in contrasto con le preoccupazioni perenni “du financier’», conclude la riflessione esortandoci all'anamirazione per questo passo: «Celui qui est puissant et riche, et
à qui il ne manque rien, peut formuler cette question, mais il faut que ce soit un homme pauvre qui la décide». Un’osservazione che sembra una diretta esortazione al suffragio universale. Orlando riferisce che Lampedusa avrebbe motivato la mancata trattazione del Settecento perché la sua letteratura l'annoiava. Questa opinione vie-
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ne giustificata con la preponderanza dell'ideologia sull'arte, con la subordinazione dell'espressione alla propaganda in nome di uno pseudo scientismo. Dirà ancora sulla carenza artistica fra Prévost e Beaumarchais: «Poi sopravviene la luce accecante della Ragione che uccide i fiori proprio quanto (e forse più) della Pazzia». Ma se parla della Rivoluzione torna l'ammirazione per l’«Incorruptible»: «La Rivoluzione è degna di ogni ammirazione, possiamo perdonarle tutto: gli assassini, i massacri, le idiozie per il merito del bene fatto e della sovrumana energia spiegata». Energia, parola chiave dell'adesione nietzschiana, un culto da lui rinvenuto anche nell’adorato Stendbal. Continuano anche gli scherni verso le lettere italiane. Si va dall’osservazione che, mentre La Fontaine ha un sot-
tofondo tragico e disperato, «il Marino e il Filicaia sono realmente lieti di trastullarsi con i loro Amori e le loro Veneri ed i loro Adoni e con le complicatissime rime ed i pesanti paludamenti. È forse per questo che il Seicento italiano è un esemplare unico di vuoto pneumatico applicato alla letteratura». Si continua a considerare l’Ariosto un rimatore di fanfaluche, e la sua tecnica narratologica vien due volte derisa nel saggio su Stendhal. Secondo Lampedusa Ariosto non ha alcuna sensibilità alla rappresentazione del tempo, elemento essenziale della sintassi narratologica: «In converso, uno dei non pochi difetti del Furioso è l'assoluta ignoranza di Ariosto del problema temporale: non si sa se l’azione si prolunghi per un pomeriggio o per venti anni; 0, per essere più precisi, si sa soltanto attraver-
so esplicite dichiarazioni che toccano l'intelletto ma non commuovono il sentimento. Quindi, di nuovo, non si sa».
Né gli va molto meglio a proposito delle soste della narrazione: «Ogni grande autore di opere lunghe ha concesso queste soste: Omero con i suoi episodi intercalati, Dante
sempre, Ariosto, con la sua rozza tecnica, spezzando un racconto al suo culmine per occuparsi di altre fanfaluche destinate ad essere a loro volta tarpate». Rare le lodi, ri-
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serbate soprattutto a Manzoni, del quale lo toccava l’ascendenza giansenista per via materna, e a D'Annunzio. Quanto al primo, Lampedusa lo collocava indubbiamente fra i massimi e giunge ad anteporlo per pregnanza stilistica persino all’adorato Stendhal della Chartreuse: «Quando Fabrizio dopo innumerevoli prove ed intrighi riesce a penetrare nella camera di Clelia, le conseguenze di questa sua vittoria sono espresse in cinque parole: “Aucu-
ne résistance ne fut opposée”. Sobrietà miracolosa che raggiunge il più elevato effetto artistico. Pensate quali universi di aggettivi avrebbe posto in moto Hugo. Stendhal è sorpassato in questa frase soltanto dalle famose parole di Manzoni a proposito di Geltrude». E parlando degli attacchi di Malherbe ai poeti della Pléiade li paragona alle diatribe «degli attuali letterati italiani contro D'Annunzio». Col che abbiamo due botte ugualmente distribuite. Sul «grassissimo» Hugo dirà, riferendosi alla sua rivoluzione teatrale, che «era proprio provvisto di quella specie di talento per il quale l’applicazione delle tre unità sarebbe stata salutare». Mentre irride come vezzo settario l'ostilità della generazione di Moravia verso D'Annunzio. In un paese dove l'alternanza è stata varie volte espressa con la rivoluzione, gli amori di Lampedusa per l’«un-
derdog» vanno all’ascetismo perdente. Il libro di SainteBeuve aveva destato in lui un reale entusiasmo. PortRoyal è da Lampedusa considerato «forse il punto centrale della storia della Chiesa cattolica da Calvino ai nostri giorni e che ancor oggi fa ribollire i fermenti spirituali di Maritain, di Mauriac e di Greene e di Eliot». Indubbia-
mente i suoi favori andavano al quietismo nella battaglia che contrappose Bossuet a Fénelon. Era questo il tratto dell’eroico religioso che pensò di aver ritrovato nel suo monastero di Palma, e che si tradusse in un commosso impatto estetico; seppur la comunità siciliana non poteva
annoverare le «figure titaniche di lottatori, quelle della “mère Angélique”, del “grand Arnauld” e di Nicole», tut-
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Letteratura francese
tavia aveva nella badessa del monastero del Rosario,
Maria Enrichetta la fede assoluta e nuità monastica». contatto europeo,
Fanara, un punto di riferimento, e per per «alcune commoventi scene di ingeLampedusa aveva trovato a Palma un l'appartenenza a una corrente di pen-
siero, quella del misticismo secentesco, i cui tratti eroici si
erano diffusi fino al lontano feudo siciliano. Ma, assolutamente non settario, da uomo d’arte che privilegia la comunicazione e lo stile rispetto ai contenuti, poneva l’eroi-
smo dei principi sopra le scelte di campo. Il commosso passo su Port-Royal non lo esime da una rivalutazione a tutto tondo di Corneille, anche se «Corneille fu educato dai gesuiti; era nato in Normandia e cominciò la propria carriera come avvocato; tre ragioni che lo predisponevano
al culto della libera volontà umana. Port-Royal non poteva, come fece, che raccogliere la sua deplorazione». Osservazione che lo induce a stigmatizzare con veemenza gli ef fetti del contenutismo: «Ai nostri tempi nei quali la credenza al libero arbitrio è ridotta male dal determinismo scientifico, marxista e freudiano, Corneille ha perduto molto del suo fascino; decadimento di fama inevitabile ma non per questo meno deplorevole». Ho riferito come, secondo Orlando, ai tempi della Letteratura francese Giuseppe avesse perso quel gusto per la vita che aveva contraddistinto il suo approccio agli scrittori inglesi. In effetti la morte è dietro l'angolo in molte sue considerazioni. Essa traluce dai due grandi saggi su Montaigne e su Pascal, e soprattutto in quest’ultimo l’eroismo delle scelte non può trovar altro sbocco che la fine. («Fine di tutto» è l’ultima didascalia del Gattopardo.) Ma singolarmente Tomasi è più felice come cantore della vita e i saggi su Racine, su Stendhal sono l'apice dell’ammirazione per l'energia e l'azione, pur se spinta fino al delitto. Egli, che non aveva avuto una vita d'avventura, che aveva tanto sofferto fra forze contendenti al tempo del proprio matrimonio, aveva un reale culto dell’avventuriero. La
Premessa
1853
biografia di Racine è difatti concepita come l’esaltante vicenda di un avventuriero, che ha riunito in sé le doti del
filologo, dell'artista e quelle del satanista e del criminale. Una sorta di incarnazione di Faust a cui non manca anche il patto col diavolo, quel patto senza il quale, come per Adrian Leverkiibn, non si dà arte. Quando il patto sarà infranto a Racine resterà soltanto il silenzio. E a favore di questa tesi Tomzasi altera il senso di un commento di Racine alla modesta recitazione di una delle interpreti di Esther («Ma:s, mademoiselle, cela n’a aucune importance»). Per Lampedusa Racine si disinteressa all’arte per fuggire il peccato, come l’autore di Une saison en Enfer «che non volle più parlare della sua poesia “parce que c'était mal». Il saggio su Stendhal è stato visto da vari commentatori
come uno studio sulla narratologia, come se l’autore si preparasse ad affrontare un romanzo forgiandosi iferri del mestiere. Certo, quando vorrà ripercorrere la propria in-
fanzia, prenderà a modello l’Henry Brulard, e vari tratti del saggio collimano con i desideri del principe. Nel contesto della Letteratura francese esso è un empirico saggio sulla felicità. La felicità come poteva considerarla Lampedusa: significativo in tal senso il passo stendhaliano estratto da Les privilèges du 10 avril 1840, cor le sue ambizioni modeste, i suoi desideri caritatevoli, la richiesta a
«God» del necessario per poter godere il proprio talento. In quegli anni era tutto quel che avrebbe richiesto Lampedusa a Dio, poter vivere in pace, senza conflitti domestici, senza uscieri a caccia di rate di mutuo, senza inquilini a cui sollecitare ilfitto, senza lo strascico della divisione giu-
diziaria Lampedusa. E di contro poter vivere con le proprie letture e comunicare le proprie ricerche. Il principe invocava un apeasement, quello con cui descrive la seconda parte della Chartreuse: «Per me essa è il trionfo dell'“atarassia”; i suoi personaggi si muovono in una calma divina, cigni aggraziati che solcano la corrente letea».
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Letteratura francese
Tutto il passo di qui alla fine è il più lieto che Lampedusa abbia scritto, la levità quale via della conciliazione, che
conduce all’estasi delle pagine estreme del libro. Lo «Entre ici, ami de mon coeur» di Clelia a Fabrizio è contrappuntato dal verso baudelatriano dalla Mort des amants: «et plus tard un Ange, entr’ouvrant les portes». «Ed inftne appare la Chartreuse che ha dato il titolo all'opera, e che non è stata mai quasi menzionata prima: appare di già
come tomba, come asilo di pacifica voluttà. Nella Chartreuse ressuno muore sul serio, ma si allontana per impercettibili gradazioni verso l’immateriale ricordo.» È il sogno di desiderio di un saggio e di un anziano, che chiede un porto, una mort des amants, dopo tante traversie; così era il principe nel 1955. Due anni dopo scriverà il suo ultimo desiderio, e farà dire a Lighea: «e il tuo sogno di sonno sarà realizzato».
Parte prima
IL CINQUECENTO (25 gennaio — 28 febbraio 1955)
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RAGIONI E PRETESTI
La letteratura francese manca di vertice. Unica fra le grandi letterature essa non possiede il pinnacolo, il colosso innalzato in cima al monumento, il genio al paragone del quale tutti gli altri autori appaiono meschini. Non vi è il Dante francese; né lo Shakespeare, né il Cervantes; né il Goethe, né il Dostojevskij. E se dai cinque secoli che essa esiste (per lo meno), se il vivissimo senso propagandistico, se il lungo ascendente politico europeo non hanno saputo plasmare questo super-colosso vuol dire davvero che non c’era. Non che siano mancati i tentativi di scolpirlo, da parte dei critici e del pubblico: volta a volta ci si è affaccendati attorno al capo di Racine, a quello di Voltaire, intorno a Hugo e intorno a Baudelaire per posare sulla loro fronte la corona di diamanti che, senza sforzo, era stata cinta dal grande Italiano, dall’Inglese, dal Tedesco, dallo Spagnolo e
dal Russo. Una certa attitudine polemica, una soverchia aderenza di questi autori al loro tempo ha sempre impedito un riconoscimento universale, sia francese che in-
ternazionale di questi pur colossali spiriti. Detto che sia questo, non vorrei esser frainteso. Scartate le borie nazionalistiche, soffocate le preferenze personali, a me sembra rimanga evidente come la letteratura francese sia la più importante fra le letterature occidentali. Un signore che abbia in portafoglio dieci biglietti da mille lire è più ricco di uno che ne abbia uno solo da diecimila.
Da quando ha echeggiato il canto ambiguo e malioso di Villon (e forse da molto prima, da quando la Chanson
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Letteratura francese
de Roland ha snodato le sue «lasse» solenni e accorate) il flusso non si è più arrestato. E gli scrittori di Francia hanno ininterrottamente specchiato la vita del loro paese, hanno prodotto quasi senza intervalli opere di altissi-
mo significato universale; un rinnovarsi perpetuo della tecnica artistica, una aderenza infallibile alle condizioni storiche conferiscono alla letteratura francese una sorta di perpetua giovinezza. Da Montaigne che incarna lo spirito rinascimentale a Sartre che è la voce dell’attuale sconvolgimento sono diecine gli scrittori francesi che hanno espresso, in opere splendenti, «l’esprit du temps». Questo popolo di «laici» accaniti ha sempre tenuto a portare ogni idea alle proprie ultime conclusioni; nella letteratura francese ritroviamo, sublimato, lo stesso 4/lant, lo stesso coraggio indomito che distingue la storia
politica di Francia. Non c’è che da togliersi il cappello. Togliersi il cappello anche per mettersi le mani ai capelli. Chi voglia, sia pure con somma inadeguatezza, sia pure senza apparato critico, sia pure come chiacchierata fra amici, parlare della letteratura, affollatissima e sma-
gliante, della Francia si trova dinanzi ad un mare di guai; perché oltre ai soliti che ho di già incontrato nella letteratura inglese, vi è nella letteratura francese un’altra du-
plice sorgente di complicazione. Il popolo francese è talmente incline ad «esprimersi» che ha dato facoltà artistiche anche a moltissimi suoi pensatori. Abbiamo potuto parlare della letteratura inglese e non accennare che di straforo a Bacon, a Hobbes, a Locke ed a New-
ton. Sono questi dei grandissimi uomini ma la loro «espressione» non raggiunge l’arte. Se si fosse parlato di letteratura italiana si sarebbe potuto trascurare Vico per la stessa ragione ed in Germania si poteva fare a meno di Leibnitz e di Kant. Occorre giungere a Nietzsche per trovare un autore che abbia uguale importanza come pensatore e come, diciamo così, poeta. In Francia la cosa è diversa. Non è immaginabile una
Il Cinquecento
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sia pure frettolosa storia della sua letteratura che non parlasse di Montaigne, di Bossuet, di Descartes, di Pascal, di Fontenelle, degli Arnauld, di Voltaire, di Diderot,
di Maistre e di Taine, di Claude Bernard e di Bergson. Questi signori non furono soltanto dei grandi pensatori ma, nei loro scritti, degli artisti di primo piano e lo stesso può dirsi degli eruditi e degli storici: una immagine della prosa francese che non tenesse conto di Michelet, di Augustin Thierry e di Renan sarebbe del tutto falsa. Si è formata così tutta una massa di lavoro supplementare (e di lavoro particolarmente arduo) che in ogni altra letteratura sarebbe stato possibile scansare. Una seconda causa di difficoltà fuori dell’ordinario è quella delle influenze straniere, le quali esistono in ogni letteratura, s'intende, ma sono particolarmente visibili nella letteratura francese. (Se si dovesse anche accennare alla situazione opposta, alle influenze francesi nelle letterature europee, non si finirebbe davvero più). Posta al crocicchio dell'Europa, confinante con la Spagna, l’Italia, la Germania, l'Inghilterra e i Paesi Bassi, la Fran-
cia ha subito l'influsso della cultura di questi paesi in modo evidente. Questi semi stranieri germogliati sul suolo francese hanno prodotto fiori singolarissimi, uno studio dei quali sarebbe affascinante ma non soltanto troppo difficile — anche di sproporzionata durata. E non bisognerebbe trascurare l’influenza dello spirito ebraico che in Francia, il solo paese europeo nel quale mai vi sia stata una persecuzione ebraica statale, è di sommo interesse e che ha prodotto opere insigni da Montaigne sino a Bergson ed a Proust. Del resto questo genere di indagini esulerebbe tanto dal compito di queste letture quanto dal vostro interessamento, dato che vi interessate soltanto allo smalto iridescente dell’opera d’arte compiuta, senza curarvi di che cosa sia composto questo smalto, attitudine edonistica che vieta la composizione di un nuovo smalto o
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Letteratura francese
che, per lo meno, lo limita a quello superficiale delle canzonette cantabili. E che d’altronde induce a prendere, per dirlo alla francese, «des vessies pour des lanternes», attribuendo a nativa originalità dell’autore quella
che talvolta è soltanto novità di atteggiamento di un tema estraneo e già svolto. Pur tuttavia non si può davvero fare a meno di accennare alle influenze italiane sulle opere francesi del Cinquecento, a quelle spagnole a cavallo dei secoli XVI e XVII, a quelle inglesi del Settecento e soprattutto a quelle germaniche sulla grande poesia romantica francese sino a (e compreso) Mallarmé. Il grande libro di Pierre Lasserre ha provato queste ultime influenze in modo decisivo. Di fronte a tanta massa di lavoro che farebbe finire queste nostre letture quando voi sarete padri di floride ragazze da marito ed io poco meno che centenario, non resta che ricorrere a due rimedi che adopererò entrambi. Il primo quasi obbligatorio è dettato da due imprescindibili ragioni. Non parlare di tutta la letteratura francese. Operare un crudele ma saggio taglio facendo cominciare queste letture dal Cinquecento. Prima ragione: la mia insoddisfacente conoscenza della letteratura francese anteriore a Villon. Ho letto, come tutti, la Charsor de Roland e dei brani (soltanto dei brani) del Roman de la Rose e della grande poesia arturiana. Conosco Joinville e Villehardouin, Marie de France, Charles d'Orléans e Alain Chartier. Ho sentito il fascino acutissimo, mi sono mera-
vigliato dell’impressionante carattere di «francesità» di queste opere che sono davvero inscindibili dal complesso glorioso della poesia francese. Ve ne sono nelle quali è già integro lo spirito di Apollinaire e di Paul Fort. Ma tant'è: occorrerà farne a meno (se non si avverasse una speranza che formulerò in seguito). Queste mie letture non sono sufficienti per autorizzarmi a parlarne ad altri:
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occorre per questo una «familiarità» con queste opere che mi fa difetto; mi manca soprattutto il tessuto connettivo, la conoscenza cioè degli autori minori senza la
quale la fisionomia delle opere maggiori appare falsata. Conosco invece abbastanza bene Villon e la sua opera. Qui interviene la seconda ragione di limitazione: il riguardo personale. Fra i nostri amici più cari si trova un conoscitore profondo e un traduttore eccellente di questo poeta. Sarebbe davvero peccare di presunzione osat parlare da indotto dinanzi a questo specialista «que je n’ose nommer». E non mi rimane che da sperare che egli si decida a colmare lui questa lacuna ed a concederci alcune letture sulla letteratura francese fino a Villon.” Del che, sicuro del vostro consenso, gli rivolgo formale invito. Quindi, simile a quell’altro grande uomo che una volta decretò: «Quest'anno Natale sarà il 10 gennaio», io qui decreto: «La letteratura francese nasce con Rabelais». Il secondo sistema per addentrarsi nella selva fiorita delle lettere francesi è quello di precostituirsi una traccia. Intendo dire formulare una ipotesi, poco importa se valida o no, ma che serva a raggruppare i fatti caotici intorno a delle idee e che attenui un po’ il fastidio di uno svolgimento meramente cronologico. Insomma ciò che i francesi, coniatori illustri di definizioni, chiamano una «hypothèse de travail». * Tomasi si riferisce al barone Bebbuzzo Sgadari, il quale aveva pubblicato una traduzione del Testazzent di Villon in una edizione suo bisnonno, il principe Giulio Tomasi, modello del protagonista del Gattopardo. Questi, in un momento di malumore, avrebbe de-
cretato il 23 dicembre alla famiglia, figli e moglie già eccitati per il prossimo Natale: «Quest'anno Natale sarà il 10 gennaio». E pare abbia mantenuto il proposito.
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Letteratura francese
Io questa «hypothèse de travail» ce l'ho già bella e pronta. In tutto il corso della letteratura francese si nota con stupefacente chiarezza una alternanza dialettica fra due tipi di opere: quelle asciutte, discorsive, scettiche e quelle emozionali, estroverse e quindi cariche di ornamentazione. Tutte e due le correnti hanno dato opere di primissimo piano. La preferenza per una corrente o per
l’altra è quistione personale. Alla prima maniera appartengono Montaigne, Pascal, La Bruyère, Saint-Evremond, Fontenelle, Prévost, Voltaire, Chénier, Constant, Courier, Mérimée e giù giù si-
no ad Anatole France e Camus. L’altra stirpe s'inizia con Rabelais e prosegue con Corneille, Aubigné, Rotrou, Bossuet, Saint-Simon, Diderot, Rousseau, Chateaubriand, Hugo, Zola ed ha il suo più recente fiore in Marcel Proust, dopo essere pas-
sata per Balzac e Gautier. Vi sono poi i due miracoli: due scrittori che hanno costretto il temperamento incandescente e l'animo sfrenato nella veste più rigida: Racine e Stendhal; e congiungendo nelle loro opere le opposte tendenze francesi hanno prodotto quel che hanno prodotto. E vi è Flaubert, l’unico scrittore che abbia saputo alternare le due maniere. Poi vi sono gli anti-Racine, coloro che hanno espresso un temperamento frigido mediante l'abbondanza delle immagini e la ricchezza delle parole. E questi non sono eccezione: sono tutti i cattivi scrittori. Questa traccia di una interpretazione generale vale quel che vale, cioè assai poco. Potrà tuttavia servire ad alleggerire il compito, permettendo raggruppamenti e favorendo alcuni paragoni. Finite queste conversazioni, ognuno di voi prenderà i testi e giungerà a conclusioni differenti, talvolta opposte. Ma vi sarà stato fornito del lievito per uscire dalla pa-
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sta informe del «mi piace assai» e del «non mi piace affatto» non motivati, che rende la conoscenza di una letteratura più esiziale quasi che la sua ignoranza.
E intraprendiamo il cammino che per la sua lunghezza e complessità incute timore.
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Non è certamente possibile dire che la letteratura francese sia poco conosciuta. Essa possiede una forza di attra-
zione, «une gràce primesautière» che fa preferire, a pari merito, le sue opere ad altre equivalenti in altre lingue.
Essa è dotata di una forza di continuità stupefacente che continuamente, attraverso le opere nuove, volge l’attenzione del pubblico verso le opere antiche. (Esempio recentissimo: La recherche du temps perdu che ha di nuovo attirato il pubblico verso i Mérzozres di Saint-Simon.) Gli studiosi francesi la hanno risvoltata, scrutata,
commentata in ogni suo angolino. Critici illustri ne hanno scritto, da Rapin a Thibaudet e a Du Bos (attraverso
Sainte-Beuve), delle storie che sono a loro volta opere d’arte. Edizioni su edizioni hanno messo a disposizione dei lettori gli autori anche meno accessibili. Se si entra in una libreria francese e si chiede un libro di Restif o di Nodier ve lo danno subito. Se in una nostra libreria chiedete le opere di Algarotti o di Bertola non sanno di che si tratta. E vi sono le edizioni critiche, monumentali;
le edizioni di lusso «sur papier pur Chine numeroté», le edizioni «fac-similé» di quella originale, le edizioni illustrate da artisti antichi o contemporanei, le edizioni cor-
renti, le edizioni scolastiche, le edizioni popolari che prima della guerra costavano un franco al volumetto. Le collezioni di monografie sui singoli autori sono innumerevoli; le antologie’pure. E vi è financo una pregevolissima raccolta chiamata Les grands événements littéraires
che in volumi separati si occupa del momento di pubblicazione di ogni importante opera e che raccoglie tutte le
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opinioni, tutte le critiche che furono sia pure tre secoli fa dirette pro o contro le opere chiave della letteratura. Vi è però un secolo della letteratura francese che soltanto da poco si comincia a scoprire: il Cinquecento. Montaigne, no. La sua fama non subì mai un momen-
to di eclissi: adoperato come arma antigiansenista nel Seicento, come strumento di irreligiosità nel Settecento,
all’epoca romantica fu apprezzato per la spontaneità e la sincerità delle sue espressioni. In tutte le epoche egli passò per quell’insuperato maestro di stile e di lingua e di spirito e di comprensione umana che egli è. Montaigne a parte, però, fino all’epoca romantica il Cinquecento figurava come terra incognita. Si sapeva
che vi era stato «un bouffon grossier» (Rabelais) e un poeta che scriveva «des vers barbares» (Ronsard); ma ci
si guardava bene dal leggerli. L’attitudine del pubblico francese sembrava davvero riassunta nell’emistichio famoso di Boileau «enfin Malherbe vint!» che sembrava proclamare la nascita del «Grand Siècle», che poneva fine ad un’epoca di goffaggine e di disordine. Come poi si potesse giustificare l’esistenza di Montaigne (che tutti riverivano), unico fiore fra tanti sterpi, non so. Verso il 1830... «enfin Sainte-Beuve vint». Fu il suo gusto infallibile, fu il suo prestigio inattaccabile ad imporre l'ammirazione per Rabelais, il gusto per la poesia squisita di Ronsard e di du Bellay, aiutato, s'intende, dal
gusto romantico per l’enorme e il grottesco (Rabelais) e per i metri liberi e fantasiosi che si discostassero dall’alessandrino ormai consunto, il quale aspettava la riviviscenza in esso operata da Lamartine e Hugo. Da Sainte-Beuve in poi Rabelais e Ronsard e i poeti della Pléiade ebbero il loro giusto posto nel Parnaso francese. Essi soltanto, però. È stato necessario aspettare que-
sto secolo perché la sensibilità di Gide e di Larbaud sco-
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Letteratura francese
prisse altri poeti nel Cinquecento del loro paese. Maurice Scève, Jean de Sponde, du Bartas, Louise Labé, Pa-
pillon, Rémy Belleau sono risuscitati da poco e ci incantano con i loro ritmi aerei, con le immagini coloritissime,
con le loro alte meditazioni religiose. Siamo giunti al punto che adesso il Cinquecento passa per uno dei più grandi secoli poetici francesi, secondo soltanto all’Ottocento ed alla pari col «Grand Siècle». E le scoperte continuano: quella di Papillon, ad esempio, è di un anno fa. Era quasi del tutto ignota l’esistenza di questo notevole poeta che fu in vita (malgrado il suo nome primaverile) un soldataccio la cui crudeltà faceva spicco anche in quella crudelissima epoca, ma che ha lasciato una breve raccolta di liriche nelle quali si esprime una sensualità convulsa e sapiente mista a subitanei ravvedimenti ed a timori angosciosi della morte. Né i prosatori sono inferiori ai poeti in questo felicissimo secolo: anche a prescindere dai colossali Rabelais e Montaigne, ci si presentano le alte figure di Calvino e di Monluc; il primo espresse in una prosa asciutta e solenne, di piglio decisamente moderno, le sue sgradevoli ma non certamente mediocri concezioni religiose; il secondo nei suoi Corzentaires narrò la propria vita battaglie ra e feroce (anche lui fu un condottiero cattolico nelle guerre religiose) con una vivacità di linguaggio, un crudele compiacimento, una sincerità di istinti che lo ren-
dono un maestro della prosa francese. Questo tessuto di sangue e di astuzie viene interrotto da improvvise aspirazioni alla pace conventuale, «aux larmes pénitentielles qui effaceront le sang que j'ai versé», tanto efficaci che sembra quasi di vedere quel ceffo di lanzichenecco ravvolto in un saio monacale. Figura caratteristica e notevolissima come vedrete quando dovrò occuparmi di lui. Il rovescio della medaglia (e intendo dire non l’opposto della crudeltà ma la crudeltà diretta in senso inverso) troviamo nelle memorie dell’intransigente ugonotto
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d’Aubigné, l’eretico nonno dell’ultra-cattolica Madame de Maintenon. Queste memorie ci restituiscono un qua-
dro allucinante di quella torbidissima epoca. Le sue poesie vanno generalmente incluse fra quelle del Seicento, non si capisce bene perché; ed esse sono noiose e troppo lunghe, traversate però da frequenti versi desolati e tragici che non si può fare a meno di annoverare tra i massimi della poesia francese. Amyot è il quarto grande prosatore meno conosciuto
del Cinquecento. Umanista eminente, la sua figura artistica ci è nota attraverso la sua traduzione delle Vite parallele di Plutarco, scritta in una prosa pacata, familiare e maliziosa, simile, il genio in meno, a quella degli Essazs. L’ingiusta trascuratezza che ha pesato sulla letteratura del Cinquecento è forse dovuta a due cause: la prima è che questo è il secolo nel quale l’influenza esterna (in specie quella italiana) è più visibile. Petrarca fu il nume di questi poeti, e financo il vocabolario si risentì dell’influenza nostra. La nazionalità francese non era ancora abbastanza vigorosa per assimilare senza danno i nutrimenti esotici. Il danno vi fu: ma l’incorreggibile vivacità francese, il senso ironico dello spettacolo vitale, sprizza fra ogni maglia della intelaiatura sapiente; e vi è un senso di fluente vitalità, di aderenza al proprio tempo che ritroviamo in ben poca della nostra produzione cinquecentesca. Una seconda causa del prolungato distacco del pubblico francese dagli autori del Cinquecento è la lingua, che appare troppo arcaica e di difficile comprensione. Per fortuna questa causa per noi italiani gioca poco: il francese del Cinquecento è più simile all’italiano odierno di quanto possa immaginarsi. È ben raro per noi il dover ricorrere al glossario che segue le buone edizioni di quelle opere. Superate le effimere difficoltà ortografiche il testo ci appare quasi del tutto limpido e siamo in
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Letteratura francese
grado di apprezzare la maliziosa bellezza della lingua, ricca, capricciosa e colma di sorprese di squisito gusto; il periodo forse più affascinante della lingua francese dal punto di vista del pittoresco, prima che la inflessibile opera dei grammatici del Seicento la potasse, purificasse e raggentilisse facendone quell’ammirevole strumento di precisione che è adesso, elegante, efficiente e puramente
intellettuale, a scapito della ricchezza e della espressività immediata. La lingua è una delle più affascinanti particolarità della letteratura francese del Cinquecento.
FRANCOIS RABELAIS
La vita di Rabelais è quanto mai esemplare, non già nel senso che essa si distingua per particolari virtù, ma per-
ché essa è tipica per significato sociale e politico. Mi duole, ma dovrò propinarvene alcuni fatti. Egli nacque nel 1494 a La Devinière, presso Chinon, nella regione della Loira. E qui occorre far notare come l’origine e lo svolgimento intellettuale di quasi tutti gli autori del Cinquecento sia prevalentemente provinciale. Parigi non aveva raggiunto la posizione di «cerveau de la France» che essa detiene ancora. Era soltanto una capitale politica, troppo esposta alle incursioni nemiche dal Nord e troppo sorvegliata dalla corte e dalla Sorbona per permettere il libero sviluppo di un centro intellettuale nazionale. Lione, nel Cinquecento, Bordeaux e Montpellier superano Parigi come luogo di adunata degli artisti. Tre sono questi centri di pensiero: Lione, con la scuola poetica di Maurice Scève, Jean de Sponde, Louise Labé ed altri minori; Bordeaux che ebbe la gloria di avere Montaigne come sindaco e La Boétie come consigliere comunale; e quel dolcissimo paese della Loira, il più tipicamente francese di tutti, percorso da fiumi azzurri, raggentilito dai filari di pioppi, fitto di castelli sontuosi e di operose città che diede i natali a Ronsard, a du Bellay e a quasi tutta la Pléiade. Queste stesse colline della Loira, i cui abitanti parla-
no anche adesso la più pura lingua francese, questa Toscana d’oltr’ Alpe, fu la culla di Rabelais.
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Letteratura francese
Figlio di un avvocato e magistrato ricco e colto, Rabe-
lais aveva però per nonni dei veri e propri contadini e ciò è tipico per spiegare da una parte il gusto popolaresco di una larga sezione della sua opera e dall’altra per riprovare quel potente flusso di rinnovamento sociale e di espansione culturale che irruppe in Francia alla conclusione della Guerra dei Cento Anni. Quali siano stati gli studi di Rabelais, non sappiamo. Dovettero però esser buoni se lo vediamo nel 1520 rivolgersi per lettera a Guillaume Budé, il più illustre grecista francese di quel tempo. Anche questa lettera è sintomatica: in essa il giovane Rabelais chiede all’illustre maestro aiuto per ottenere da lui testi e dizionari greci «qu’on ne peut avoir qu’amenés à grand frais d’Italie» e dimostra da una parte la soggezione francese alla cultura italiana e dall’altra il desiderio circolante di creare un umanesimo autonomo nazionale. Una sudditanza culturale minore ma pur essa notevole vi era nei riguardi dei Paesi Bassi nei quali la presenza di Erasmo aveva impiantato un grande centro umanistico.
Quale sia stata la risposta di Budé, non sappiamo. Ci sorprende però il constatare come in quell’epoca Rabelais diventasse monaco, addirittura francescano, fra quei
monaci che già allora erano notori per la loro ignoranza. Egli entrò nel conventino di La Baumette, presso Angers (la rustica grazia di questi nomi, La Devinière, La Baumette mi incanta!). Solitario fra questi monaci illetterati, Rabelais proseguiva i suoi studi greci. Mal gliene incolse. Quando Erasmo pubblicò il proprio commento al testo greco dell’Evangelo di San Luca e ne trasse alcune deduzioni scarsamente ortodosse, la Sorbona fulminò contro gli studi ellenistici e fece sequestrare tutti i testi greci che potessero trovarsi nei conventi. Fra essi quelli appartenenti a Rabelais. I libri, a dir vero, gli vennero restituiti poco dopo ma egli, disgustato dalla rozzezza dei francescani, uscì dal convento e decise di pas-
Il Cinquecento
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sare all’ordine benedettino, ordine eminentemente stu-
dioso. Uscito da La Baumette divenne precettore del nipote
di un vescovo, Geoffroy d’Estissac, e con la protezione
del prelato superò la difficile pratica per il cambiamento d’ordine. Accompagnando il proprio allievo percorse in largo e in lungo la Francia acquistando quella vasta conoscenza del paese e delle varie sfumature della lingua che costituisce uno dei fascini della sua opera futura. Nella compagnia che si riuniva attorno a d’Estissac e nel suo nuovo convento benedettino di Ligugé, dove ogni tanto risiedeva, Rabelais trovò finalmente un ambiente di cultura che gli si confaceva. Nel 1528, però, non sappiamo per quale causa, egli si allontanò da queste amicizie e si recò a Parigi per frequentarvi l'università. Nel contempo la propria irrequietezza lo spingeva di nuovo ad abbandonare l’ordine benedettino; dopo mille difficoltà ottenne un’ambigua e dubbia autorizzazione a diventare prete secolare. Nel 1530 lo ritroviamo a Montpellier, iscritto a quella famosa facoltà di medicina. Sei settimane dopo l’apertura dei corsi egli ottiene, non già la laurea, ma una autorizzazione ad esercitare «escluso l’uso del ferro e del fuoco». Questa veramente sorprendente rapidità di studi apparirà meno incongrua se si rifletta che ai primi del Cinquecento la medicina non era una scienza sperimentale ma, per così dire, un ramo della filologia. Basata, co-
me era, non già sull’osservazione dei fatti ma sulla pedissequa obbedienza ai precetti della medicina classica, una buona conoscenza della lingua greca come Rabelais possedeva era sufficiente per nove decimi ad una cultura medicale. Sia come sia, Rabelais tenne anche un corso
all’Università di Montpellier commentando (filologicamente, s'intende) gli aforismi d’Ippocrate e l’Arte z2edicale di Galeno sul testo greco e non sulle versioni latine
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che erano in uso e che egli trovava difettose. Il che fece impressione come di grande arditezza «scientifica». Con il soggiorno a Montpellier può considerarsi chiuso il periodo formativo della vita di Rabelais. Da Montpellier si trasferì a Lione dove ottenne un posto di medico all’ospedale. Lione era, in quegli anni, il massimo centro intellettuale della Francia. E questi anni lionesi furono il momento più felice della vita del nostro scrittore. Strinse intima amicizia con Etienne Dolet, Salmon Macrin, Saint-Gelais, entrò in corrispondenza con
Erasmo; si tuffò insomma in quell’ambiente coltissimo e vivace che preparava in Francia l’avvento della Riforma protestante, della quale appunto Étienne Dolet doveva essere uno dei più insigni martiri. Era assillato però dal bisogno di denaro: lo stipendio che gli pagava l’ospedale era scarso: 40 franchi annui. Girando una volta per una fiera notò come si vendessero a centinaia esemplari di un libretto popolare, Les Grandes et inestimables chroniques du grand et énorme géant Gargantua. «Il s'en est vendu plus d’exemplaires en deux mois qu’il ne sera acheté de Bibles en neuf ans.» Unicamente per guadagnare soldi egli, grande intellettuale, risolse di scrivere libri di quel genere. Nel 1532 venne stampato a Lione un libriccino: Les horribles et épouvantables faîts et prouesses du très renommé Pantagruel, roi des Dipsodes. Trattenuto da un (per noi) inspiegabile pudore scelse uno pseudonimo, un anagramma di Rabelais: Alcofribas Nasier. Il nome di Pantagruel non è una invenzione rabelaisiana: era quello, già noto, di un folletto che soleva ver-
sare del sale in bocca agli ubriaconi; una personificazione della sete, insomma. Nella tradizione Pantagruel era un essere minuscolo: Rabelais ne fece un gigante per ragioni puramente commerciali, perché i giganti allora erano quanto mai popolari, e nel folklore non vi era lago che non fosse uno sputo di gigante, valle che non fosse
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l'impronta di un piede gigantesco, cattedrale che non fosse un oggetto dimenticato per terra da un colosso. Il successo fu netto: il pubblico evidentemente trovava
«qualche cosa» nell’opera di Alcofribas Nasier che mancava alle rozze narrazioni consimili che si vendevano nelle fiere. Le edizioni si succedettero l’una all’altra, le contraffazioni ed imitazioni incalzarono. Poi venne il suggello massimo: la condanna del libro da parte della Sorbona. L’anno seguente (1533) Rabelais stesso pubblicò La Pantagrueline Prognostication pour l'an 1533, almanacco cosmico ma anche profetico nel quale si faceva finta di predire l’avvenire; in quei tempi agitati ed ansiosi il mestiere di profeta era redditizio; Nostradamus, poco dopo, farà fortuna. Frattanto Rabelais si era procurato un potente protettore: Jean du Bellay, il futuro cardinale, fratello" del delizioso poeta che incontreremo fra poco. Questi risiedeva a Lione e fu affascinato dalla vivacità e dalla cultura del prete-medico, tanto che gli propose di accompagnarlo a Roma dove era costretto a recarsi in una missione semi-diplomatica, semi-ecclesiastica. Rabelais rimase a Roma tre mesi e di questo viaggio ci sono rimaste parecchie sue lettere. Esse, per esser sinceri, ci sconcertano un poco: è completamente assente la vivacità di spirito e la ricchezza di vocabolario che si trovano nel Pantagruel
pubblicato due anni prima. Non vi si mostra alcuna curiosità intellettuale. Vi si tratta lungamente delle piante italiane e delle possibilità di coltivarle in Francia (e per almeno una di esse il tentativo riuscì: per il platano, che era ancora ignoto in Francia e che appunto Rabelais vi introdusse); e Rabelais si sorprende di non aver trovato in Italia quella abbondanza di eruditi che si aspettava. Queste lettere sono però molto interessanti perché vi si mostra la ripugnanza per la vita romana che soggiace4 Jean du Bellay era in realtà cugino del padre di Joachim.
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va in tutti questi spiriti, anche inconsciamente, riformatori e che spiccherà più nettamente nei sonetti illustri di
du Bellay come era già dilagata focosa negli scritti di Lutero dopo il suo soggiorno romano (Montaigne soltanto, superiore anche ai malumori riformistici, si sottrae a
questa consuetudine); Rabelais parla delle amanti del Papa e dei suoi figli naturali con una semplicità e una freddezza che ci lascia stupiti. Nel maggio 1534 egli riprese il suo servizio all’ospedale di Lione e lo stesso anno pubblicò il Garganzua la cui azione precede quella del Parzagruel ed ha del resto con essa dei legami assai lenti, puramente esteriori. Gargantua era una figura folkloristica ben più popolare di Pantagruel e Rabelais fu costretto a seguire molto più da vicino il proprio modello. Nel 1533, intanto, si era manifestato in Francia il pri-
mo segno della riforma: manifesti contro il Papa, contro i cardinali e contro la messa erano stati affissi in tutta la capitale e fin sulla porta della camera del re. La Sorbona (cioè la facoltà di teologia dell’università parigina) reagì con vivacità. Si fece una retata di simpatizzanti per la Riforma protestante, e si tentò di acchiappare anche Rabelais, il quale con i manifesti non aveva nulla da vedere. Egli, avvertito, poté fuggire e rifugiarsi presso il suo antico patrono d’Estissac. Mentre stava nascosto si venne a sapere che «l’Affaire des placards» era opera di agenti provocatori e Rabelais poté ricomparire in pubblico. Intanto du Bellay era diventato cardinale e propose a Rabelais di accompagnarlo di nuovo a Roma, dove doveva recarsi a far l’omaggio «ad limina apostolorum», in qualità di medico personale. Rabelais fu lieto di sottrarsi ai sospetti che continuavano a circondarlo, e accettò. Passò da Ferrara dove incontrò Clément Marot, il poeta, che si era rifugiato lì presso «la bonne duchesse Madame Renée» insieme ad altre persone intinte di calvinismo. Poi rimase sette mesi a Roma, e ne approfittò per
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regolarizzare la propria posizione ecclesiastica che in seguito alle sue scorribande fra i vari ordini religiosi era rimasta alquanto dubbia. Nel 1537 lo ritroviamo a Lione dove assiste a un banchetto offerto a Etienne Dolet che era stato assolto da una imputazione di omicidio colposo. E dopo ritornò a Montpellier dove ottenne la laurea vera e propria in medicina e dove diede lezioni di anatomia su cadaveri, il che, allora, era un’arditezza e provocò attenzione e scan-
dalo, in specie perché era un prete. Dopo di che si aggira attorno al re, assiste alla famosa intervista fra Carlo V e Francesco I ad Aiguesmortes della quale ci ha lasciato una vivacissima relazione. Poi va di nuovo in Italia, insieme al suo cardinale, e abita sei mesi a Torino. In quel tempo gli muore un figlio naturale, Teodulo, all’età di due anni. Segno dei tempi, questo ecclesiastico-padre riceve lettere di condoglianze da due cardinali e tre vescovi. Nel 1542 si ripubblica, per la prima volta con il vero nome dell’autore, una edizione di Gargantua e Pantagruel congiunti. Poiché però la lotta contro la Riforma in Francia si era intensificata, Rabelais, il quale come
Montaigne teneva alle proprie idee «jusques au feu, inclusivement», vi arrecò numerose correzioni ed attenuazioni. Le saporosissime e numerose frecciate contro «la Sorbonne, les sorbonicoles et les sorbonagres» divengono anonime rivolte, come lo sono in questa edizione, «aux sophistes». Tutto ciò non bastò, però, ad evitare una nuova condanna della Sorbona, nel 1543. Dovettero però intervenire i potenti du Bellay, perché Rabelais non venne personalmente disturbato, anzi ottenne la licenza di far stampare il seguito di Pantagruel, Le Tiers Livre. Qui cominciarono, però, i guai. Benché Le Tyers Livre
fosse dedicato alla regina di Navarra (o forse appunto per questo perché essa era calvinista) e benché la Sorbona vi fosse risparmiata, il libro venne condannato ad es-
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sere bruciato per mano del boia, e Rabelais stesso dovet-
te fuggire. Si rifugiò a Metz, al confine con i paesi protestanti e lì fu nominato medico comunale allo stipendio di 120 franchi annui, allora opulento. Nel 1547, però, riparte per l’Italia insieme al cardinale du Bellay e questa volta fa una permanenza a Roma di due anni. Nel 1552 vien pubblicato Le Quart Livre. La situazione dei protestanti in Francia era migliorata e le satire contro la Santa Sede e gli ordini religiosi abbondano in questa opera di Rabelais. E vi si avverte anche l’influenza delle narrazioni dei viaggi in America di Jacques Cartier che vennero pubblicate in quegli anni. Sulle carte del Canada di quel tempo si può seguire esattissimamente il viaggio di Panurge. Il buon Rabelais però, benché avesse fatto il profeta per burla, non era un buon fiutatore degli avvenimenti. Quando il Quart Livre venne scritto il dissidio fra il re di Francia e la Santa Sede era acuto; quando venne stampato, però, la pace era stata fatta. Il Quart Livre venne sequestrato, l’autore fu privato dei due benefizi ecclesiastici che possedeva; du Bellay era morto e il nostro autore si trovò in miseria. Così tristemente morì a Parigi, nel 1553, questo grande «rieur».
Si ignora dove venisse sepolto. Vita quanto mai significativa, come ho detto. Vi si sente l’irrequietezza, il disorientamento degli intellettua-
li del tempo antecedente alla Riforma. E ci si avverte anche l’equilibrio morale, il desiderio di compromesso che ebbe, in quegli anni, la sua espressione massima in Erasmo e che se avesse allora trionfato avrebbe evitato le calamità delle guerre religiose. Consoliamoci pensando che questo spirito era destinato a vincere più tardi mediante quel «tiers parti» che donò la corona a Enrico IV ed assicurò pace e prosperità alla Francia durante un secolo.
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L’opera di Rabelais
Rabelais è uno degli scrittori francesi attorno alla cui opera si è più combattuto. La indecisione stessa dei giudizi suoi sulle istituzioni del suo tempo, la forma scher-
zosa (e quindi ambigua) che egli conferisce a questi giudizi, la mancanza di una linea di condotta costante nella sua vita stessa, hanno favorito l’accaparramento che si è tentato di fare di lui da parte tanto degli anticlericali che dei conservatori. Questa lotta intorno al ridanciano «curé de Meudon» costituisce del resto la riprova della larga umanità e vitalità della sua opera. Nessuno si az-
zuffa per rapire dei morti. La lotta però è stata altrettanto vivace intorno al carattere culturale della sua opera: chi vedeva in essa un fiore compiuto del Rinascimento, chi la salutava come espressione suprema del Medioevo agonizzante. Ad esser sinceri, queste polemiche mi sembrano vane. Una grande parte dell’opera rabelaisiana è «divertissement pur» e sarebbe disonesto voler estrarre significati profondi da ciascuna sua parola. Occorre limitarsi ad osservare le parti della sua opera nelle quali egli fa, evidentemente, sul serio. Soltanto da queste potranno trarsi deduzioni sulle vere opinioni dello scrittore. Si cercherà di farlo in seguito. Rabelais è uno scrittore di crisi. Mi sembra assai esagerato vedere in lui un puro artista del Rinascimento: le tracce della mentalità medievale sono per lo meno altrettanto frequenti in lui quanto gli influssi dei tempi nuovi. Medievalesco è in Rabelais il desiderio enciclopedico: il tentativo cioè di ammassare in una sola opera la «summa» delle conoscenze del suo tempo. Questa ansia di accumulare, di accantonare, di preservare il salvabile è tipica della mentalità medievale (la Divina Commedia ne è l'esempio sommo) ed è commovente. Essa perdette la sua ragion d’essere con l’invenzione della stampa ed è
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appunto per questo che la sua riapparizione nell’opera di Rabelais (opera «nata stampata», per così dire) non ci commuove più, anzi ci dà fastidio. Pregna di medievalismo è anche la critica rivolta esclusivamente alla Chiesa. Per Rabelais, malgrado le sue tendenze libero-pensatrici, la Chiesa è ancora la società universale, e se tutto va male è colpa di essa. Gli in-
numerevoli problemi politici, sociali ed economici estranei alla comunità religiosa non lo colpiscono. E, malgrado la sua larghezza di idee, tipicamente medievale è il suo «esser contro», mai esser «a favore» di
qualche cosa. Vi sono alcune pagine che smentiscono questa asserzione, lo so, e sono le migliori di Rabelais; ma non sono sufficienti a mutare la fisionomia del complesso dell’opera. D'altra parte è patentemente «tempo nuovo», rinascimentale, l'interesse scientifico, biologico di Rabelais. Una
gran parte delle sue insopportabili grossolanità deriva dalla appassionata curiosità con la quale questo medico osserva il lavorio del corpo. Rabelais, in fondo, non augura all’uomo che la salute, il «medium» per poter godere a fondo dei piaceri della vita; e la coltura della mente anche essa è considerata come strumento di piacere vitale. E questo è «Rinascimento» nel senso anche etimologico della parola. Moderna anche è, appunto, la sua ansia rivolta ai sistemi educativi. Una educazione, quella da lui vagheggiata, che fosse un adiuvante, un accompagnamento al naturale sviluppo delle facoltà dell’alunno, e non una costrizione perpetua, un «refoulement» (per dirla con Freud) senza scopo e senza risultati. È sulla educazione che Rabelais ha scritto le sue pagine più serie (o meno burlesche) e in esse s’intravede un primo chiarore dell’immortale Érz/le. La libertà di parola è un altro degli affioramenti moderni. Appena mascherata dal tono scherzoso, essa è
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universale e dinamica. In Rabelais non vi sono «tabù»: tutto è detto, ciò che si deve e ciò che non si dovrebbe dire, tutto è soggetto a critica derisoria, ciò che è rispet-
tabile quanto ciò che lo è assai meno. In una età non sviluppata, chi voglia pensare con la propria testa è per forza un anarchico.
Questa duplicità di ispirazione di Rabelais si manifesta anche, anzi si esalta, nella scrittura della sua opera: la più alta cultura del suo tempo, le ansie tanto dei pensatori medievali che di quelli moderni, sono espresse in un linguaggio a metà erudito, a metà plebeo, sempre miracolosamente parlato. Fu Rabelais il primo ad impiegare questo andazzo dialogico, questa umanizzazione dell’Umanesimo (mi si passi il gioco di parole in omaggio al grande giocoliere verbale)? Forse no. Fu certamente però il primo ad avere un talento sufficiente per farlo come si deve. La scorza degli scritti di Rabelais è avventurosa e popolare, quel che immediatamente vi sottostà è talvolta serissimo, impregnato di tutta la serietà del Medioevo agonizzante, dell’Umanesimo fiorente, della Riforma in-
cipiente. In questo modo leggero ed aereo di trattare, quando li tratta, ipiù impegnativi problemi egli si dimostra il vero padre di quell’«Ariele armato» che è la grande letteratura francese. Si fa torto al loro significato considerando i cinque libri del Gargantua e Pantagruel come un’opera unica. Scritti in un periodo di venti anni, nei quali il loro autore subì varie crisi ed i tempi mutarono grandemente, essi sono in realtà cinque opere differenti, talvolta divergenti, tenute insieme da un filo di omonimie e di analogie di situazioni non maggiore, come impegno, di quello che raggruppa la Comzédie Humaine o i Rougon-Macquart. È chiaro che, premesso questo, non starò a raccontar-
vi la trama dell’opera di Rabelais, trama che del resto è tenuissima, come ho detto, e che tutti conoscono.
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A parer mio il migliore dei libri è il primo, quello che tratta della educazione di Gargantua. Come abbiamo visto esso è il secondo scritto da Rabelais e ci mostra uno spirito di già maturo ma non ancora inacidito. Esso inoltre è pieno di allusioni autobiografiche: lo stato di abbrutimento nel quale il giovane Gargantua è posto dall’educazione scolastica ed ottusa di maître Jobelin è una chiara allusione alla miseria spirituale della vita di Rabelais nel convento dei francescani di La Baumette; e Ponocrates, il saggio precettore nuovo, rappre-
senta l'elevazione intellettuale che rifoggiò la personalità di Rabelais quando egli poté guazzare nell’ambiente colto lionese. Questi capitoli e quelli che seguono a breve distanza sull’«abbaye de Thélème» sono i soli che siano nello stesso tempo positivi e seri dell’opera rabelaisiana. Altri ve ne sono, seri ma negativi; molti altri non seri, ma
puro gioco, del resto spesso incantevole. Il sistema educativo propugnato da Rabelais, di libertà assoluta, di mancanza di costrizione, di «débridement» degli istinti è, come tutti i sistemi pedagogici, eccellente e pessimo. Non può esistere un sistema unico applicabile alla universalità degli alunni: ciò che è medicina per alcuni sarà veleno per gli altri. Dalla «abbaye de Thélème» alcuni giovani usciranno cavalieri compitissimi ed umanisti dilettevoli; altri diventeranno libertini
impenitenti e soldatacci di ventura. Sintomo minuscolo ma grave è che Thélème col suo fatidico «Fay ce que vouldras» sia divenuto il nome di un ritrovo notturno parigino nel quale la «vertu» immagino si trovi ad un livello non molto alto. D'altra parte dalle pessime scuole dei francescani uscirono Calvino e Rabelais stesso. Le parti serie ma negative di Partagruel sono tutte
quelle nelle quali si scaglia contro il clero. La facilità verbale, la bile ammassata negli anni hanno fatto di Rabelais uno dei più temibili avversari che i preti abbiano
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avuto da molti secoli. Quando Rabelais trova un avver-
sario non lo abbandona sinché non sia letteralmente traformato in una montagna d’immondizie. Metodo divertentissimo, certo; serio, non molto.
Altre delizie ci aspettano nel famoso viaggio; ed altre immagini, del resto puramente verbali; la felicità glottologica di Rabelais non ha mai trovato nulla di migliore della «Isle sonnante» e degli «Extracteurs de Quintessence». Paragonate però queste peregrinazioni con i
viaggi di Gulliver e vi accorgerete della differenza di sentimenti fra l'irlandese e l’angioino. Poche, anzi nessuna felicità verbale in Swift, ma disperazione e sdegno sinceri; immense, meravigliose trovate di vocabolario in
Rabelais, ma nel fondo niente di più del consueto chiacchiericcio di un parroco contro il proprio arciprete. Ma che parroco! rido pensando al desiderio espresso da Sainte-Beuve che avrebbe voluto ascoltare una messa detta da Rabelais. Disgusta un po’ in tutta l’opera di Rabelais il frenetico culto bacchico; so bene che ciò era dettato dal carattere
popolaresco del libro, ma trovo che egli esagera; l’odore del vino bevuto, sparso, versato e vomitato riempie un
po’ troppo le pagine che talvolta finiscono per somigliare a quelle orrende tovaglie macchiate di vino rosso. E che questa non sia una mia idiosincrasia di astemio è provato dalla strana allegoria che Eugène Noél ha voluto riscontrare in quella «soif éternelle» di Rabelais: essa simboleggia la sete del popolo per la verità razionale, di quel popolo che non poteva più dissetarsi nelle acque del fiume cattolico, ormai disseccato. Vi convince? me, no. Fatte rilevare le mende, spirituali ed artistiche, di Ra-
belais mi rimane adesso il compito ben più gradevole di indicarvi i pregi formali. Che sono immensi ma possono essere riassunti in una sola parola: giovinezza. Giovinezza anzitutto dello spirito che si affacciava ad un mondo
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nuovo, sconcertante e pericoloso, annusandone tutti gli odori nuovi, ritrovando il valore del corpo, rigustando la
sapienza antica che, dissepolta da poco, sembrava nuovissima. Nessuno più degli uomini del Cinquecento ha dovuto avere la sensazione della «modernità». Giovinezza, poi, della lingua; gioia di maneggiare parole fresche, nuove nuove, che portano il conio nitido di
monete uscite il giorno prima dalla Zecca. Mai la lingua francese è in se stessa più bella, più arguta, più inaspettata che in Rabelais (con la sola, consueta eccezione di
Montaigne). Il materiale è così abbondante che Rabelais vi si tuffa e ne fa spreco; allinea cinquanta sostantivi, cento aggettivi, miriadi di diminutivi e di accrescitivi (ricchezza questa perduta dal francese), giochi di parole a palate, espressioni d’icastica oscenità seguite da appellazioni di struggente tenerezza; e quando le parole francesi sono esaurite Rabelais le prende in prestito a Folengo ed al Cyrzbalum Mundi, le crea interamente nuove su modelli greci o latini da lui travestiti con gusto ed opportunità somme. Giovinezza del perpetuo «divertirsi», corse del fanciullo ubriaco di gioco, creazione incessante di macchiette spassose (sinché non si vuol loro attribuire una
profondità di significato che raramente hanno) e talvolta di «tipi» immortali come Frère Jean des Entommeures e Panurge.
L’opera di Rabelais apre la letteratura moderna francese come un’ostessa sorridente augura il benvenuto al viaggiatore.
E ci sembra che dalle stanze lontane ancora ci giunga il riso aperto, l’eco della burla bonaria che è tanta parte del genio gallico da Rabelais, appunto, sino a Courteline e Anouilh.
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JEAN CALVIN (1509-1564)
È un po’ per amore dei contrasti violenti che mi piace far seguire queste poche pagine dedicate a Calvino a quelle che parlano di Rabelais. Jean Calvin (detto, latinamente, Calvino) è una figura d'importanza primaria religiosa e storica, ma anche tutt'altro che secondaria dal punto di vista letterario. Facendo seguire uno sguardo alla sua opera all’occhiata gettata su quella rabelaisiana mi piace anche dare una esemplificazione della teoria sui grassi ed i secchi, gli asciutti e i carnosi della letteratura francese. Carnoso e carnale è indubbiamente Rabelais: asciutto, secco, mo-
nocorde, rigido Calvino. Grandi artisti entrambi: un grande pittore di «bambochades» a olio l’uno; un grande disegnatore a punta secca, un astrattista emerito, l’altro.
Non so se conoscete dei ritratti di Calvino: il profilo è fine e duro, le labbra sottili e chiuse, le mani bellissime, affusolate e nervose; una sottile barbetta rossastra intro-
duce una lieve punta di colore militaresco in un insieme tutto astratto ed esclusivamente intellettuale. Un viso implacabile che dimostra uno spirito preciso, forte, ragionatore, rettilineo da sotto il quale possono erompere terribili collere. Non è qui il caso di esaminare le idee teologiche di Calvino, ancora meno quello di rinfacciargli per la ennesima volta i roghi di Serveto e di Gruet, la prigione di Castellion. Egli istituì a Ginevra una repubblica teocratica a fianco della quale il Protettorato di Cromwell appare una Abbaye de Thélème. Fu uno di quegli uomini che ap-
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paiono ammirevoli a distanza di secoli; necessari ad ogni modo, in un certo senso anche sacrali. Rarissimi in Fran-
cia: io ne conosco un altro solo: Saint-Just. Grande scrittore, come si è detto, tanto in latino che in francese, con-
siderato da alcuni come il creatore della prosa polemica tanto serrato è il suo argomentare, tanto impassibilmente rudi i colpi che avventa sul capo dell’avversario. Temperamento opposto a quello sensuale, fantasioso, violento di Lutero, la teologia, il ragionamento astratto è maneggiato da lui come una spada. «Si ce que je dis ne vous plaist pas, je ne scay qu’y faire. C’est moy, pourtant, qui exprime la verité.» Le sue Institutions de la Religion Chrétienne che redasse due volte, in latino prima, in un ammirevole fran-
cese dopo, sono un capolavoro di sobrietà, di limpidezza, di forza persuasiva. Un libro grande, forte e triste: una sostenuta gravità di tono, una veemenza logica, un fraseggiare ampio, una folla di espressioni concise, vigorose, penetranti. Odiato e combattuto, la sua influenza letteraria si avverte, chiaramente, anche nei suoi avversari, quando siano scrittori di talento: essa è evidente in Pascal, chiarissima in Bossuet.
Unicamente intento ad inculcare la retta fede non fa sfoggio di moralismi: la retta via sgorgherà da sé negli uomini quando essi conosceranno la verità. Egli pone la giustificazione mediante la sola fede; il servo-arbitrio, la predestinazione. Concezione religiosa cupa, affine a quella degli stoici, madre di quella giansenista. Non adatta a chi voglia esser consolato, esaltante per spiriti impavidi. Così dalle prime pagine ci siamo imbattuti nei due tipi opposti di scrittori francesi.
CLÉMENT MAROT (1496-1544)
Figlio di un aggraziato e dotto poeta, Jean Marot (le cui opere esulano dal quadro cronologico che mi sono prefisso ma che spero vi vengano rivelate dal nostro amico quattrocentista)," Clément presenta molte affinità con Rabelais. Affinità, intendo dire, sul piano spirituale, su
quello di tipo umano, non certamente affinità artistiche. Egli, come Rabelais, appartiene a quella prima generazione di riformatori, timidi ancora e cautelosi, desiderosi
più di conciliare le tesi opposte che di veder schiacciarne una, calvinisti sì (in specie il Marot la cui posizione è più netta di quella di Rabelais) ma che si avvalgono di larghe protezioni nel campo cattolico, ammiratori della inflessibile morale ugonotta ma inclini ad esprimere nelle loro opere i piaceri non penitenziali del corpo, solleciti alle ritrattazioni ma fondamentalmente fedeli. Si avrebbe torto a chiamarli doppiogiochisti: anzitutto perché non ritraevano alcun vantaggio personale da queste loro fluttuazioni (all’infuori della sopravvivenza), ed inoltre perché erano fatti ad immagine del loro tempo nel quale la frattura completa fra le due confessioni religiose non si era ancora prodotta e nulla di irreparabile era ancora avvenuto. In questa loro attitudine si rivelava, del resto, l’avve-
nire, il sentimento che spinse i francesi, cinquant’anni dopo, a venire ad una conciliazione e ad un compromesso che costituisce la gloria imperitura del bon roi Henri. “ Altra allusione a Bebbuzzo Sgadari, i cui lavori letterari ed umanistici non venivano presi troppo sul serio.
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Sarà inutile riferire i particolari della sua vita che fu assai agitata: si aggirò sempre nella brillante corte di Francesco I, conobbe molti e felici amori, commise pa-
recchie imprudenze religiose (come quella di mangiare del prosciutto durante la Quaresima) che, malgrado la protezione del re, lo condussero più volte in gattabuia; passò in vita per il migliore poeta di Francia; acutizzatasi la controversia religiosa, si trovò implicato nella oscura e sinistra Affaire des Placards alla quale già accennai e dovette fuggire. Si rifugiò a Ferrara, alla corte di Madame Renée; poi ottenne il perdono e ritornò a folleggiare a Parigi; gli capitò poi un grosso guaio (Dolet pubblicò senza la sua autorizzazione un suo virulento poema anticattolico, l’Enfer) e dovette di nuovo esiliarsi; questa volta a Ginevra, sotto la pesantissima protezione della Repubblica di Calvino. Ritornò in Francia discreditato e andò a morire a Torino, nel 1544, lasciando una figlia... monaca. Queste sue oscillazioni, più pronunziate ma analoghe a quelle subite da Rabelais, si riflettono sulla sua opera che presenta caratteri ampiamente divergenti. Se da una parte le sue superbe traduzioni dei Salmi di Davide sono divenute opere quasi liturgiche, adoperate come sono tuttora nei servizi religiosi della Chiesa Evangelica francese, di lui abbiamo alcune fra le liriche più... libertine della poesia del suo paese. i Ingegno duttile e sorvegliatissimo seppe piegare la sua vena poetica a questi generi opposti di lirismo, sfruttando, evidentemente, stati alterni di sincerità. Fu, insieme a Ronsard, più giovane di lui e suo successore al comando della lirica francese, il più italianizzante dei poeti del tempo; innamorato del Petrarca ne imitò i ritmi e le movenze; e di Marot è il primo sonetto scritto in Francia.
La forma è quella, infatti. Il contenuto è del tutto diverso da quello dei nostri petrarchisti del Cinquecento. Si aggiunga a questo che egli non abbandonò mai com-
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pletamente le vecchie fogge della poesia medievale e ci ha lasciato dei Rondeaux di una freschezza miracolosa. Nelle sue Charsons egli fissa con incomparabile leggerezza la sfumatura di un ricordo, di un rimpianto, di un colloquio. Egli inoltre fu il promotore di una singolare gara fra poeti, ciascuno dei quali doveva redigere una poesia in lode di una parte del corpo femminile. Questo Blason du corps féminin è una delle opere più vive della poesia francese, ed in esso la Louarge du beau tétin di Marot stesso brilla per un libertinaggio giocoso e fresco che incanta. Sull’altro sportello del dittico, quello religioso, troviamo solenni, magnifiche traduzioni dei salmi biblici e Les Oraisons composte durante tutto il corso della sua vita, una specie di breviario segreto durante il quale il poeta si duole delle sue molte sconfitte morali ed esprime con sommessa umiltà la speranza di un perdono finale. In Marot vi è lo stesso va e vieni fra sensualità e religiosità che tre secoli dopo ritroveremo nella poesia di Verlaine. Le poesie di Marot non si trovano facilmente (intendo dire che non si trovano in questa Thule australe). Perciò poiché parlare di un poeta senza farne conoscere almeno un minimo mi sembra un assurdo, mi permetterò di trascriverne qui alcune brevi che vi daranno almeno un’idea dell’arte di questo poeta interessantissimo. Rondeaux XII
Avant mes jours mort me fault encourir, Par un regard dont m’as voulu ferir, Et ne te chault de ma grefve tristesse: Mais n’est-ce pas à toy grande rudesse, Veu que tu peulx si bien me secourir?
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Auprès de l’eau me fault de soif perir; Je me voy jeune, et en aage fleurir,
Et si me montre estre plein de vieillesse Avant mes jours. Or, si je meurs, je veulx Dieu requerir Prendre mon ame, et, sans plus enquerir,
Je donne aux vers mon Corps plein de foiblesse; Quant est du coeur, du tout je te le laisse,
Ce nonobstant que me faces mourir Avant mes jours. XXXIX
Dedans Paris, ville jolie, Un jour passant melancolie, Je prims alliance nouvelle
A la plus gaye damoyselle Qui soit d’icy en Italie. D’honnesteté elle est saisie, Et croy, selon ma fantasie, Qu'il n’en est gueres de plus belle Dedans Paris. }Jo
è)
Je ne la vous nommeray mye, Sinon que c’est ma grand’amie; Car l’alliance se feit telle Par un doulx baiser que j’eus d’elle, Sans penser aucune infamie, Dedans Paris. LVII
En la baisant, m’a dit: Amy, sans blasme, Ce seul baiser, qui deux bouches embasme,
Les arres sont du bien tant esperé. Ce mot elle a doulcement proferé, Pensant de tout appaiser ma grand’flamme. Mais le mien cueur adonc plus elle enflamme, Car son alaine, odorant plus que basme,
Il Cinquecento
Souffloit le feu qu’Amour m’a preparé, En la baisant. Bref, mon esprit, sans cognoissance d’ame, Vivoit alors sur la bouche à ma dame, Dont se mouroit le corps enamouré;
Et si la levre eust gueres demouré Contre la mienne, elle m’eust succé l’ame En la baisant.
Chansons VII
Celle qui m’a tant pourmené A eu pitié de ma langueur: Dedans son jardin m’a mené, Où tous arbres sont en vigueur; Adonques n’usa de rigueur: Si je la baise, elle m’accolle;
Puis m’a donné son noble cueur, Dont il m’est advis que je vole. Quand je vey son cueur estre mien, Je mys toute crainte dehors, Et luy dys: Belle, ce n’est rien, Si entre voz bras je ne dors.
La dame respondit alors: Ne faictes plus ceste demande: Il est assez maistre du corps, Qui a le cueur à sa commande. I
Plaisir n’ay plus, mais vy en desconfort; Fortune m’a remis en grand’douleur. L’heur que j’avois est tourné en malheur, Mal heureux est qui n’a aucun confort. Fort suis dolent, et regret me remord; Mort m’a osté ma dame de valeur;
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L’heur que j’avois est tourné en malheur, Mal heureux est qui n’a aucun confort. Valoir ne puis, en ce monde suis mort; Morte est m’amour, dont suis en grand’langueur,
Langoureux suis, plein d’amere liqueur; Le cueur me part, pour sa dolente mort. XVII
Mais quand a mon gré vous aurois En ma chambre seulette, Pour me venger, je vous ferois
La couleur vermeillette. XIX
Mauldicte soit la mondaine richesse, Qui m’a osté m’amye et ma maistresse. Las! par vertu jay son amytié quise, Mais par richesse un autre l’a conquise: Vertu n’a pas en amour grand’prouesse. Dieu gard de mal la nymphe et la deesse: Mauldict soit l’or où elle a sa liesse, Mauldicte soit la fine soye exquise,
Le dyamant et la perle requise, Puis que par eulx il fault qu'elle me laisse. XXXIV
Puis que de vous je n’ay d’autre visage, Je m’en voys rendre hermite en un desert, Pour prier Dieu, si un autre vous sert, Qu’autant que moy en votre honneur soit sage.
Adieu amours, adieu gentil corsage, Adieu ce tainct, adieu ce frians yeulx! Je n’ay pas eu de vous grand advantage; Un moins aymant aura peult estre mieulx.
Il Cinquecento XXXVI
Pourtant si je suis brunette, Amy, n’en prenez esmoy, Autant suis ferme et jeunette Qu’une plus blanche que moy. Le blanc effacer je voy, Couleur noire est tousjours une: Jayme mieulx donc estre brune Avecques ma fermeté, Que blanche comme la lune, Tenant de legereté.
Du beau Tetin Tetin refaict, plus blanc qu’un oeuf, Tetin de satin blanc tout neuf,
Tetin qui fais honte à la rose, Tetin plus beau que nulle chose; Tetin dur, non pas tetin, voyre, Mais petite boule d’ivoyre,
Au milieu duquel est assise Une fraize, ou une cerise, Que nul ne veoit, ne touche aussi,
Mais je gaige qu'il est ainsi. Tetin donc au petit bout rouge, Tetin qui jamais ne se bouge, Soit pour venir, soit pour aller, Soit pour courir, soit pour baller. Tetin gauche, Tetin mignon, Tousjours loin de son compaignon, Tetin qui portes tesmoignage Du demourant du personnage. Quand on te voit, il vient à maintz Une envie dedans les mains De te taster, de te tenir;
Mais il se fault bien contenir D’en approcher, bon gré ma vie, Car il viendroit une autre envie. O Tetin ne grand, ne petit,
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Tetin meur, Tetin d’appetit, Tetin qui nuict et jour criez: «Mariez moi tost, mariez»;
Tetin qui t’enfles, et repoulses Ton gorgerin de deux bons poulses, A bon droict heureux on dira Celluy qui de laict t'emplira, Faisant d'un Tetin de pucelle Tetin de femme entiere et belle.
MAURICE SCÈEVE UN MALLARMÉ DEL RINASCIMENTO
Si tratta davvero di un risuscitato. I suoi contemporanei
lo apprezzarono: Marot e du Bellay lo considerarono l’uno come suo pari, l’altro come suo maestro. Ronsard si vanta di averlo sorpassato.
Nel secolo XVII la fama di Ronsard e di du Bellay crolla e Scève vien trascinato fra le macerie. Dalle storie letterarie scompare financo il suo nome. La razionalità della poesia settecentesca, l’emotività di quella romantica gli sono egualmente nemiche. Sainte-Beuve, il sagacissimo, risuscita e ripone al loro posto Ronsard e tutti i suoi seguaci della «Pléiade», si accorge dell’esistenza di Scève ma lo riseppellisce sotto un frettoloso «à peu près illisible»; Brunetière sul finire dell'Ottocento lo ri-discopre per anatemizzarlo; Faguet al principio del nostro secolo dice che egli è «à peu près un grand poète». Intanto però il pubblico (intendo dire i circoli letterari) sono venuti abituandosi ai versi difficili; Gide prima, Larbaud poco dopo lo leggono e rimangono sorpresi dall’arcana bellezza del suo verso. Larbaud ne cura una edizione degna che fa precedere dal suo saggio famoso. Adesso Scève passa per il più grande lirico del Cinquecento francese, dopo Ronsard. Maurice Scève è nato a Lione, non si sa bene in quale anno, ma certo fra gli ultimissimi del XV secolo, come Rabelais e Marot. Di buona famiglia e assai facoltoso,
appassionato di letteratura italiana, egli condusse la vita umbratile del vero letterato, ebbe vari amori fra i quali uno per Pernette du Guillet, valente poetessa lionese della quale mi occuperò in seguito. Compose la sua Dé-
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Letteratura francese
lie che è il suo capolavoro, ed altri poemi (La Saulsaye e Le Microcosme) assai inferiori, e morì non si sa bene neppure quando ma dopo il 1563. In vita egli fu il capo di quell’umanesimo di Lione che superava quello stesso di Parigi. Anche adesso questa gaia città, luminosa e ventosa, alla confluenza dei suoi possenti fiumi, è la sola che non olezzi di provincialismo. Nel Cinquecento batteva nettamente Parigi: in facile comunicazione con la Provenza, l’Italia e la Germania, dotata di franchigie municipali che rasentavano l'autonomia, opulenta, opponeva vittoriosamente ai Budé e agli Amyot parigini i suoi Scève, i suoi Dolet, i quasi-suoi Rabelais. Priva allora di una università, la sua cultura era più libera, «più volontaria» di quella parigina che la Sorbona, in quei tempi, asfissiava.
I poeti lodavano Lione in cento modi e voglio qui ricordare la graziosa lode che Matrot rivolge alla città, avviluppandola in un ingenuo gioco di parole: Gentil Lyon qui ne mords pas, Lyon plus doux que cent pucelles...
Infine, segno supremo, le signore di Parigi erano invidiose dell'eleganza di quelle lionesi. Adesso sembra inverosimile; allora fu vero.
In questo ambiente, dunque, colto, gioioso e libero, fiorì il genio di Scève. Egli si acquistò subito notorietà perché si credette che egli avesse scoperto la tomba della Laura del Petrarca. Può immaginarsi l'emozione che la notizia produsse fra le eleganti signore lionesi, tutte colte, molte poetesse, ed unanimamente petrarchiste. Scève non scrisse molto; o per esser più precisi, scris-
se soltanto tre opere, due delle quali molto lunghe. Ed in esse troviamo una strana inversione di maniera. L’ultima sua opera, il Microcoszze, che fu pubblicata postuma, è un lunghissimo poema in tre canti di mille versi precisi ciascuno che narra le peripezie di Adamo ed Eva
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dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Esso sembra un’opera scritta cinquanta anni prima, impiantata su di una volontà di enciclopedia prettamente medievale e, a quanto pare, rimpinzata di significati esoterici e di furiose, ma nascoste, invettive contro la Chiesa Romana. Io
non la ho letta, ma Valery Larbaud (che è il contrario di un imbecille) ne va pazzo, la riassume minuziosamente nel suo famoso saggio su Scève e, debbo dire, i versi che
ne cita sono di eccezionale bellezza. Uditene qualcuno. Ecco come si prepara il primo temporale scoppiato sulla terra dopo la cacciata dal Paradiso: Vapeurs jusques au bas de la region vaine Montees s’assembloyent, comme monceaux de laine
e ancora la descrizione di un tramonto Jusqu’au blanc crépuscule humidement vermeil
Adamo spiega l Astronomia a Eva «sa Mignonne»: ... Il sembloit, que le Cieux, et leurs cours Tournoyoient à sa main, et suivoyent son discours
e soprattutto questi, carichi d’infinito languore, che descrivono un lento fiume pigro: Et vous, eaux qui dormez sur un lit de pavots, Vous qui tousjours suivez vous mesmes fugitives
Larbaud, entusiasmato, li chiama addirittura i due più bei versi della poesia francese; non so; ma che siano
di primissimo ordine non vi è dubbio. Ci vien detto anche che nel Microcosmze vi sono passi che rivaleggiano per potenza evocativa e splendore d’immagini con la Divina Commedia e il Paradiso Perduto; non ne dubito ma vorrei leggerli. Indubitata però mi pare la nobiltà dell’ispirazione, prettamente laica malgrado il travestimento medievale, che esalta il travaglio e la vittoria dell’uomo anche quando abbandonato dalla
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Letteratura francese
divinità; e la complessa bellezza del verso che indubbiamente è una lontanissima anticipazione di quello di Mallarmé. Ad ogni modo il Microcosme è l’opera meno riuscita di Scève, per confessione dello stesso Larbaud. La gloria di Scève è fondata su Délie e La Saulsaye che egli fece pubblicare nel 1548 e nel 1552. Che cosa sia veramente Délze non si sa. Essa è composta di 449 strofe di dieci versi ciascuna, versi decasillabi. Vi è insomma la stessa tendenza al raccorciamento,
all’imposizione volontaria di una stretta cornice che ha spinto tanti poeti a scrivere dei sonetti; tendenza qui resa più severa dalla naturale concisione dell’autore che avrebbe trovato sovrabbondanti i quattordici versi, co-
me infatti spesso lo sono, quando si sia trovato necessario esser brevi. Quel che non si sa è se si tratta di un poema unico in moltissime strofe o di una raccolta di poemi separati, di
una specie di «canzoniere». Quando la fama di Scève venne riscoperta i commentatori si accanirono a interpretarlo nel suo complesso e vi scoprirono mille belle cose sulla vita intima del poeta, sulle sue convinzioni religiose, allusioni politiche e simboli a centinaia. Larbaud li ha cortesemente presi in giro, ha detto che a noi tutto ciò non importa nulla, che anche se i «dixains» sono col-
legati fra loro, ogni singolo di essi è sufficiente a darci una emozione estetica e questo basta.
Liberata dalle sovrastrutture interpretative, Délie si presenta a noi nella sua pudica e velata bellezza. Poesia difficile, si capisce; non si entra nell’intimità dell’arte scèviana come si entra al postribolo, fischiettando e pensando ad altro; occorre togliersi il cappello e pulirsi le scarpe sulla stuoia, come si fa nelle case per bene. Ma una volta entrati non si trovano flaccide baldracche graveolenti di volgari profumi, ma «gentilles pucelles» che lasciano intravedere corpi perfetti ed intatti, sorrisi gravi e malinco-
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nici, proprio come quelle che Pierre Charron scolpiva in quegli stessi anni sugli stipiti di Fontainebleau. So che quest’atto di togliersi il cappello e pulirsi le scarpe è riputato troppo faticoso; e va bene; però bisogna accontentarsi delle baldracche. Questo cerimoniale introduttivo ci viene egregiamente spiegato da Larbaud; e del resto, modestia a parte, l’opinante ve ne aveva detto qualcosa parlando di Hopkins. Parentesi: Carneade, chi era costui? Larbaud, chi era
costui? Larbaud non è un pedante, e non è un pazzo. Valery Larbaud era, prima della sua morte prematura nel 1930, uno dei migliori prosatori francesi: ha scritto tre o quattro romanzi (Firzzina Marquez, Barnabooth, Amants, beureux amants) di assoluto prim'ordine; era
uno stilista innovatore e perfetto, ed un critico (uno di quei letterati-critici tipo Lamb) di prim'ordine. Se fosse vivo sarebbe senza dubbio il più alto esponente della letteratura francese. Chiusa la parentesi.” Dunque Larbaud ci dice che per penetrare nel tempio di Scève occorrono anzitutto una certa familiarità con il francese antico ed una certa conoscenza della letteratura italiana anteriore al Cinquecento. Queste due condizioni noi italiani le possediamo ad un più alto grado del francese di media cultura: la prima per la forte rassomiglianza del francese antico con l'italiano moderno, la seconda non foss’altro che per gli studi liceali. Quindi, da questa parte, niente sforzo: una delle due scarpe può considerarsi già pulita. Armati di questa conoscenza bisognerebbe aprire il voluminoso esemplare di Délie e leggere il primo «dixain» che vi capiti sott'occhio. Non se ne capirà niente. Se ne cerchi un altro, un altro ancora, e si arriverà dopo breve tempo a trovarne uno, non già chiaro come «T’amo, pio “Il povero Larbaud, sulla cui morte prematura Tomasi sparge una lacrima, era in realtà ancora vivo; morirà infatti nel 1957.
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Letteratura francese
bove», ma abbastanza trasparente da lasciare intravedere nobili fantasmi, ritmati in un modo inconsueto. Rileggiamolo: senza che ce ne siamo accorti le peculiarità della sintassi di Scève diventano meno nebbiose, il suo vocabo-
lario si giustifica, il suo mondo particolare comincia ad apparire. Tutto questo avverrà certamente: potrà darsi
però che il poema non sia bello, benché compreso. Ritorniamo ad uno di quelli scartati perché troppo oscuri: lo troveremo meno tenebroso; rileggiamolo: sarà quasi limpido; e se un po’ di fortuna ci aiuta rimarremo ad un tratto trafitti da una straordinaria sensazione di bellezza: la ninfa che si celava fra i cespugli si rivelerà nella sua nuda grazia ed i cespugli stessi e le spine si mostreranno elementi necessari a sottolineare il ritmo delle sue forme. Vogliamo provare? Apriamo il libro: 418. «Soubz le carré d’un noir tailloir couvrant / Son chapiteau par les mains de Nature» e così di seguito. Turco. Torniamo indietro: 255: «De la clere unde yssant hors Cytharée / Parmy Amours d’aymer non resoulue». Turco? Forse... eppure quel secondo verso... Ma andiamo avanti: 344. Leuth resonnant, et le doulx son des cordes,
Et le concent de mon affection, Comment ensemble unyment tu accordes Ton harmonie avec ma passion! Lorsque je suis sans occupation Si vivement l’esprit tu m’exercites, Qu'ores a joye, ores a dueil tu m’incites Par tes accordz, non aux miens ressemblantz. Car plus, que moy, mes maulx tu luy recites, Correspondant à mes souspirs tremblantz.
Siamo cascati bene. Bisognerebbe, credo, esser sordi
per non intravedere subito delle immagini altissime, un tono di malinconia rassegnata ma ancora altera, per non notare «le charme certain des vers faux» (il 2° e il 4°).
Riascoltiamo di nuovo questa confidenza che Scève ci fa all'orecchio.
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Leuth resonnant, et le doulx son des cordes, Et le concent de mon affection, Comment ensemble unyment tu accordes Ton harmonie avec ma passion!
e continuiamo. Nessun siciliano, nessuno cioè di quegli uomini dotati:
di particolarissima sensibilità (come ho sentito dire) mancherà di accorgersi alla seconda lettura che la «stoffa» che ci si trova fra le mani è ben altra cosa che la «cretonne» graziosamente stampata di Marot e anche che la seta-mista-cotone di Ronsard. Sarebbe forse il velluto, soffice e cupo, dei Sonetti di Shakespeare? Chi lo sa... Ad una terza lettura sono sicuro che ciascuno di voi avrà trovato «a joy for ever». Ed anche una lezione di arte poetica in quel prodigioso terz’ultimo verso che esprime tutta una estetica.
Con l’acquolina in bocca, voltiamo la pagina: 345. Ma questo è facilissimo! è evidente! è palmare! Dopo aver parlato al proprio liuto il poeta si rivolge a quello di Delia, e anche da esso trae accordi di somma delicatezza. Chi diceva che Scève è incomprensibile? Lo è, in verità,
spesso. Ma l’abitudine vi ha di già dato la chiave per aprire la porta del tempio. Andiamo avanti. Siamo su di un buon terreno di caccia. Vediamo il 346, che fa seguito. A si hault bien de tant saincte amytié Facilement te debvroit inciter...
È meno facile che il cordiale 345, pareggia in difficoltà il 344. Un po’ di pazienza: rileggiamolo: non vi è che una parola veramente perenta: «lassus»; perenta per i francesi ma non per noi: è semplicemente «lassù». Certo già vi si affaccerà l’alta spiritualità non religiosa, tradotta in grandiose immagini di natura, la passione che culmina e si spegne nel portentoso ultimo verso con quell’indimenticabile pronome.
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Jusqu’a leur Mer, où tous deux vont mourir?
Avrei rimorso ad indicarvi altri «dixains» perfetti; in Scève oltre al piacere di conoscere opere d’arte di assoluto prim'ordine si aggiunge quello di scopritore di tesori; e non vorrei togliervelo. Ma per restare sempre nella medesima «sezione» di Délie desidero indicarvi il 375 con i suoi ultimi versi addirittura «verlainiani» e il 378 con la severità del suo ritmo scandito e l’oscura bellezza delle sue immagini funebri. Nella Délze vi è da leggere per un anno con la sicurezza di trovare ogni giorno forse un «dixain» supremo, certamente un gruppo di versi di uno stile impareggiabile. E ricordate che i più oscuri son quasi sempre i più belli; quando il guscio ruvido sarà stato infranto gusterete la mandorla verginale e candida che vi è contenuta. Così il 418, il primo nel quale ci siamo imbattuti. Deélie non è il solo titolo di gloria di Scève, benché pienamente sufficiente per qualsiasi ambizione. Vi è anche La Saulsaye (il Saliceto, nome della campagna appartenente a Scève). I versi, meno oscuri, sono
anche meno significativi di quelli di Délze. Ma quale fascino! Ascoltatene qualcuno. Mont costoyant le Fleuve, et la Cité Pendant ma veue en longue prospective, Combien m’as-tu, mais combien incité
A vivre en toy vie contemplative?”
(e che nessuno dica che l’ultimo verso zoppica: sarebbe bastato scrivere «la vie contemplative» per renderlo giusto... e brutto). Sentiamolo ancora: * In realtà la citazione non proviene dalla Sau/saye bensì da Délie (CCCCXI). Scève era ricorrente nelle declamazioni di versi cui si abbandonava Lucio Piccolo, e Tomasi ha citato probabilmente a memoria.
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... Ce champestre Lieu solitaire, où la Saulsaye espaisse Soubs doulce horreur est de mort une espece Où nul (fors toy, et tout desespoir) vient.
che si chiude, dopo lunghi meandri affascinanti e parentesi colme di senso, su quell’unico verso monosillabo.
Scève collaborò anche al Blason du corps féminin indetto da Marot con cinque bei poemi, tre dei quali (La Gorge, Le Soupîr, Le Sourcil) di prim'ordine. E scrisse un’ode di circostanza, Arion, bruttissima. Poi morì e scomparve.
Grande fortuna la sua scomparsa per noi che lo abbiamo ritrovato con la sua bellezza intatta e non macchiata da secoli di pedanterie e d’incomprensione. (Credo di essere il primo che ha parlato di Scève nei «siculi lidi»).
DUE BELLE POETESSE LIONESI PERNETTE DU GUILLET (1520-1545) E LOUISE LABE (1524-1566)
Fin dal suo inizio la letteratura francese ci mostra la grande influenza della donna. Influenza diretta esplicantesi con l’attività artistica di molte donne (non però paragonabili per calibro alle grandi scrittrici inglesi), influenza assai più vasta indiretta manifestantesi con l'influsso intellettuale di molte donne, amanti o protettrici che fossero, su poeti e pensatori. Basterà fare i nomi di Mme de Rambouillet, di Mme Marchesa di Pompadour, di Mme du Chatelet, di MIle de Duras e Mme Récamier per evocare alcuni
de La Fayette, della d’Houdetot, di Mme quello, massimo, di di quei «salons litté-
raires» nei quali si veniva formando l'opinione artistica (e non soltanto artistica) del paese, salotti dominati da una personalità femminile che dettava legge. SainteBeuve asseriva, scherzando, che la Récamier mostrava
tracce del suo spirito in ogni pagina che Chateaubriand, Constant e Ballanche avessero scritto. Lione, nel periodo del suo fiorire culturale, non fa eccezione. Abbiamo la sensazione che la vita letteraria della città brulicasse di belle signore, raffinate, colte, ama-
torie e (ripetiamolo per soddisfare le loro ombre gentili) più eleganti delle signore parigine. Due di queste signore ci hanno lasciato qualcosa di più del ricordo della loro bellezza o della propria cultura. Pernette du Guillet si riconnette direttamente al grande Scève. Sappiamo, che essa era bionda con magnifici occhi del color del mare, nobile e ricca, e perfetta conoscitri-
ce dell’italiano, dello spagnolo e delle lingue classiche. Aveva sedici anni quando incontrò l’illustre poeta, parec-
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chio più anziano. Da allora e fino a quando essa morì pare non passasse giorno senza che s’incontrassero. Si stabilì fra essi una relazione certamente amorosa, sensuale anche
ma che sembra non giungesse mai ad atti definitivi se non, forse, per un periodo brevissimo. Lei lo chiamava «Jour», lui la chiamava «Cousine»; essa sposò Monsieur du Guillet il che non cambiò affatto le reciproche relazioni. Nove anni durò questo gioco fra essi, lei recitando la parte della «grande coquette», lui roso da voglie normali subito sublimate nel suo strano spiritualismo laico. Quando essa morì, il buon Monsieur du Guillet scoprì nei cassetti una grande quantità di manoscritti. Saggiamente timoroso e forse poco amante della poesia, incaricò un suo amico, du Moulin, di leggerli e di pubblicarli se ne valeva la pena. La bella Pernette aveva notato giorno per giorno, quasi, le alternative e le peripezie del suo gioco perverso con Scève in uno stile raffinatissimo ed alquanto prezioso. Du Moulin li fece pubblicare sotto il titolo di Ryrzes de gentille et vertueuse dame, Pernette du Guillet Iyonnoise, nel quale l’aggettivo «gentille» è esattissimo ma quello «vertueuse» è abusivo, perché se forse Pernette conservò una virtù fisica il
suo gioco di bella gatta con il topolino Scève è di sapore piuttosto sadico. Dimenticavo quasi di dire, talmente la cosa è ovvia,
che Pernette è la «Délie»; e fa grande onore all’intelletto di Scève che, trattato con tanta crudeltà, il suo canzoniere sia dopo tutto mite e privo di melodrammatiche ire. In fondo non vale la pena di leggere Pernette du Guillet. Però, per scrupolo di coscienza ne trascriverò alcuni versi, addirittura delle terzine, quelle che aprono la sua elegia La Nuict. La nuict estoit obscure, triste et sombre,
Toute tranquille, et preste à malefice,
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Letteratura francese
Tous animaulx reposantz soubz son umbre: Mais mon esprit, tres prompt à son office, Ne permettoit au corps de sommeiller Un tant soit peu pour chose que je feisse. Parquoy, contraincte en mon lit de veiller,
Entray si fort en contemplation, Qu’on ne m'eust sceu en veillant resveiller
etc,'etc. La partenza però è assai bella, mi pare. Ben altro era il temperamento, tanto amoroso che poetico, di Louise Labé. Figlia di un ricco fabbricante di cordami essa diventò, ancor giovanissima, l’idolo della
società lionese. «La belle cordière» era elegante (quasi più delle dame parigine, ricordatelo), coltissima e spregiudicata. Suonava il liuto in modo da rapire gli ascoltatori «en un paradis qui semblait peuplé de gentil démons» (come dice graziosamente Baiîf), cavalcava in modo superbo e prendeva parte ai tornei, conosceva «les plus rares subtilités de la langue italienne» ed il latino così bene da poter far circolare come autentica una orazione ciceroniana da essa stessa composta.
Soprattutto era bella e sapeva amare («un baiser de Louise / est chose acquise / pour tous les temps»).
I contemporanei, intendo dire i pedanti e moralisti contemporanei, la hanno ricoperta di quelle solide e succose ingiurie cui tanto si prestava la lingua immagi-
nosa del Cinquecento. Essi le hanno attribuito la gloria di esser stata la prima cortigiana intellettuale di Francia. E financo Calvino, dal suo tetro covile ginevrino, le lan-
ciò alcune ingiurie che, per esser redatte in assai bel francese, non sono per questo meno volgari. Pare che essi abbiano grandemente esagerato. Casta certamente no, la Labé non fu che una donna emancipata di stile moderno che ebbe l’impudenza di dire che preferiva «caracoler comme une autre Marphise» o leg-
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gere poemi d’amore a filare la lana o ad occuparsi della sua «mesnagerie» come con involontaria ironia si chia-
mava nel Cinquecento il «ménage». Col decadere della società lionese, verso il 1560, anche la simpatica Louise decadde. Si ritirò in campagna e dei suoi ultimi anni rimane solo il ricordo di una signora un po’ malinconica e molto caritatevole. Morì nel 1566. La sua opera poetica è breve ma di grande valore. Si compone di tre elegie e di ventitre sonetti. All’opposto delle elegie di Marot, che sono troppo spesso sottili dissertazioni su quesiti di casistica erotica, quelle della Labé sono delle pagine di un diario intimo, nelle quali essa esprime tutta la sinuosità di un pensiero di peculiarissima materia, affettivo ad un tempo e sensualissimo. Senza preoccuparsi troppo della moralità cattolica, essa sente
che la sua condotta urta e ferisce molta gente alla quale vuol bene, e se ne duole e si affligge non senza un nascosto masochismo. Non avrebbe trovato serenità che in una sorta di sovrumano immoralismo che le permettesse ad un tempo il traviamento dei sensi e il rispetto delle persone per bene. Non le rimane quindi che da estrarre un moroso e tenero diletto dalle tenebre delle sue colpe, che sono poi colpe per gli altri ma non per se stessa. Di egual vena e valore sono i sonetti. Essi rendono al lettore il servizio utilissimo di fargli conoscere ciò che pensa una donna nel letto, argomento di supremo interesse ma che resterrebbe interamente ignoto ai maschi non fosse che per Saffo, per la Browning e, appunto, per Louise Labé. Va da sé che occorre leggerne tutta la breve opera. Eccone uno, dei sonetti, fra i più infiammati. Baise m’encor, rebaise moy et baise:
Donne m’en un de tes plus savoureus, Donne m’en un de tes plus amoureus: Je t’en rendray quatre plus chaus que braise.
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Las, te pleins tu? ga que ce mal j’apaise,
En t’en donnant dix autre doucereus. Ainsi meslans nos baisers tant heureus Jouissons nous l’un de l’autre à notre aise. Lors double vie à chacun en suivra. Chacun en soy et son ami vivra. Permets m’'Amour penser quelque folie: Tousjours suis mal, vivant discrettement, Et ne me puis donner contentement,
Si hors de moy ne fay quelque saillie.
e infine il commovente xxmM, che pur cela una certa malignità. Ne reprenez, Dames, si jay aymé: Si jay senti mile torches ardantes,
Mile travaus, mile douleurs mordantes. Si en pleurant, j'ay mon tems consumé. Las que mon nom n’en soit par vous blamé. Si jay failli, les peines sont presentes, N’aigrissez pas leurs pointes violentes: Mais estimez qu’ Amour, à point nommé, Sans votre ardeur d’un Vulcan excuser, Sans la beauté d’ Adonis acuser,
Pourra, s’il veut, plus vous rendre amoureuses: En ayant moins que moy d’occasion,
Et plus d’estrange et forte passion. Et gardez vous d’estre plus malheureuses.
LA PLÉIADE SUA NASCITA E SUA TEORIA
La Francia era ormai matura per avere dei letterati professionisti. La prosperità crescente (non ancora lesa dal disordine delle guerre religiose), la cultura affermata (la Sorbona è oggetto, in quell’epoca, di un giusto disprezzo per i suoi atteggiamenti religiosi oltranzisti, ma era di già, come fu di poi ed è ancora, un vivacissimo centro di studi) anzi accresciuta dalla fondazione del «Collège de France», facoltà di lettere parigina destinata ad una gloriosa attività, e non solo accresciuta ma diversificata col sorgere dei centri umanistici di Lione e di Bordeaux; i contatti in-
timi e frequenti che le guerre d’Italia avevano prodotto fra essa e il nostro paese dove il Rinascimento aveva ormai cancellato il Medioevo, e soprattutto quell’inafferrabile fermentazione degli spiriti, quella sensazione di pane che lievita che precede ogni grande affermazione culturale, avevano posto la Francia nella necessità di raggrupparsi attorno ad una scuola poetica per poter procedere verso un avvenire letterario autonomo.
Clément Marot, troppo tormentato spiritualmente, era d’altronde, anche per ragioni ataviche, soverchiamente legato alle forme poetiche medievali per essere un caposcuola. I «rondels» e le «chansons», gioielli della poesia medievale, avevano perduto il loro lustro e c’era voluto
tutto il suo talento per ridare loro una effimera voga. Scève era un grandissimo poeta; ma troppo schivo, troppo anziano anche per prender la spada per la punta e iniziare una campagna guerresca. Le condizioni richieste di gioventù, cultura, talento,
spregiudicatezza, orgoglio nazionale e anche influenza
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sociale si trovarono riunite in un gruppo di poeti quasi tutti nati sulle rive della Loira. Essi formarono un sodalizio che dapprima prese il nome di «Brigade», in seguito quello più poetico e divenuto glorioso di «Pléiade». Erano sette, appunto come le stelle delle Pleiadi: Ronsard, du Bellay, Baif, Belleau, Jodelle, de Thyard e Daurat. I due primi dotati di grandissimo talento, quasi tutti gli altri buoni poeti, di rango normale. Come era inevitabile in un paese istintivamente superlaico e che già a questo bisogno di precisione aveva dato espressione creando lo stato più saldo e forte che fosse allora in Europa, tutto cominciò con un manifesto nel quale i principi della «scuola» erano chiaramente enunciati. Della redazione del manifesto fu incaricato du Bellay, il più giovane del gruppo” ma anche quello che, dopo Ronsard, aveva maggior talento e più influente posizio-
ne sociale. La Deffence et Illustration de la Langue Francoyse venne pubblicata nel 1549. Non so se qualcheduno di voi l’ha letta. È veramente un nobile documento, la più antica opera della critica francese, ridiventato ai nostri giorni di una «frappante» modernità. Du Bellay comincia col prendere le difese della lingua francese contro coloro che ne contrastano il progredire e «l’illustration». Di questi nemici della lingua ve ne sono di due specie: i poeti ignoranti che vivono a corte e che «se vire-voltant» in insipidi giochi di parole lasciano che la lingua s'impoverisca ogni giorno. Gli altri nemici sono i professori, i sapientoni, i pedanti «qui deprisent et rejetent d’un sourcil plus que stoîque toutes choses ecrites en Francois». Du Bellay ammette che il francese non possiede abbastanza termini astratti (a pensarci ora " Il più giovane era in verità Jodelle, nato nel 1532.
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sembra impossibile!) per opere religiose o filosofiche, ma ciò non deve essere una ragione per abbandonar la lingua alla sua povertà, ma spinta per lavorare ad arricchirla. Per questo occorre esser moderni e romperla col passato: «Laisse toutes ces vieilles poesies frangoyses [...] comme Rondeaux, Ballades, Vyrelais, Chansons, et au-
tres telles episseries». Il colpo era diretto contro Marot. AI loro posto vengono installate le forme nuove: elegie, odi, egloghe, tragedie e commedie, sonetti, «cette docte et plaisante invention italienne». Occorre abbandonare i secoli passati e riattaccarsi all’antichità classica. (Per apprezzare questo giudizio occorre tener presente che l’antichità, la statua dissepolta dalla terra, era la suprema «novità» per gli esteti del Rinascimento). Per ciò che riguarda il metro delle poesie, du Bellay deve suo malgrado ammettere che l’indole della lingua francese non permette la versificazione quantitativa e
deve rassegnarsi ad usare i vecchi metri che il Medioevo aveva di già sperimentati; gli rincresce, in particolare, che non si possa più sradicare l’impiego della rima, ma se rima vi ha da essere, che sia buona, giusta e piena;
vengono egualmente escluse le assonanze sulle quali ci si era compiaciuti e la ricerca di rime difficoltose e strambe all’uso medievale. Per rimediare alla povertà della lingua (sempre povertà di termini astratti) non bisognerà esitare a prenderne in prestito al latino, francesizzandoli con accortezza. E si dovranno anche resuscitare parole espressive del linguaggio passato che sono cadute in disuso (p.e. «anuyter», «asséner», «isnel»: in questi tre casi soltanto «asséner» è rimasto vivo in francese, mentre le altre due
sotto la forma di «annottare» e «snello» sono quanto mai vive in italiano). Vien consigliato anche di attingere parole ai vari dia-
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letti, e per ottenere maggior precisione e vivezza «hanter quelquefois non seulement les savants, mais aussi toutes sortes d’ouvriers et gens mécaniques, comme mariniers,
fondeurs, peintres, engraveurs et autres, savoir leurs inventions, les noms des matieres, des outilz et les termes
usités en leurs arts et mestiers pour tirer de là ces belles comparaisons et vives descriptions de toutes choses». Vorrei far notare quanto aderente fosse la concezione di du Bellay all’indole della lingua francese che ancora oggi si arricchisce continuamente con influenze del linguaggio popolare e dell’«argot», tanto che capitatomi fra le mani un dizionario di «argot» di sessanta anni fa sono stato sorpreso dal constatare quanti vocaboli vi fossero registrati che io credevo, e che adesso sono, di
buona lingua.
Il manifesto si chiude con una divertentissima esorta-, zione di piglio guerriero che intende eccitare i francesi ad impadronirsi delle ricchezze delle civiltà morte. «Pillez moy sans conscience les sacrez thresors de ce temple Delphique.» Questo programma, naturalmente, andava bene sinché chi l’applicava fosse gente di talento e di gusto che sapesse istintivamente fondere il «bric-à-brac» risultante da quel tale «pillage» con le parole tecniche e dialettali; al principio del Seicento di già l’impeto creativo era venuto a mancare, e la lingua si era fatta davvero strana,
mescolanza adinamica di parole invecchiate e di neologismi (intendo dire parole di derivazione classica adattate al francese). S'imponeva una riforma che fu quella di Malherbe; essa, conformemente alla attualità politica,
non poteva essere che nel senso di un maggiore rigore. Di essa, che fu la creatrice del francese «ufficiale», par-
leremo a suo tempo, Basti per ora dire che in questa reazione vennero trascinati, non solo i cattivi autori poste-
riori, ma anche i Ronsard e i du Bellay (senza parlare di Scève) che dovettero attendere due secoli perché si re-
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e
stituisse loro il debito posto, che è fra i più eminenti, nella letteratura. Di Maurice Scève ho già parlato. Adesso ci toccherà guardare un po’ davvicino i poeti della Pléiade, e quelli, meritevoli, che vennero dopo.
PIERRE DE RONSARD (1524-1585)
La fama di Ronsard, in vita, fu immensa. Venne chiama-
to «le Pindare frangois»; Tasso, nel 1575, gli volle leggere le proprie poesie, Maria Stuarda, dal carcere, gli inviava doni; fu scritto anche che la sua nascita nel giorno preciso in cui si combatteva la battaglia di Pavia, che pose fine alla supremazia francese in Italia, compensava largamente, per la Francia, quella tremenda sconfitta; re
Carlo IX, che fu anche lui poeta non spregevole, gli indirizzò un’ode della quale son rimasti famosi i due ultimi versi: Tous deux également nous pourtons des couronnes: Mais, roi, je la recus; poète, tu la donnes...
Anche la sua vita privata fu fortunata. Tranne brevi missioni diplomatiche in Scozia, Germania e Piemonte, visse quasi sempre nelle proprie terre, sulle rive della Loira; afflitto da precoce sordità, si consolava con la fre-
quentazione di dotti amici e con i suoi molteplici amori; si recava ogni tanto a Parigi dove il re-poeta Carlo IX aveva prescritto che lo si ricevesse con il cerimoniale spettante ad un sovrano. E morì, carico di allori.
Vent'anni dopo, il suo nome era ignorato da tutti. E si dovette aspettare trecento anni sinché la rivoluzione romantica lo disseppellisse e gli attribuisse quell’alto posto che gli spettava nella ricca lista dei poeti francesi. Malgrado questa fortunata esistenza e la sua attuale gloria, Ronsard è un poeta fallito. È necessario che mi spieghi: non intendo con ciò dire
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che non è un poeta, né che il posto attribuitogli sia superiore ai suoi meriti. Intendo dire soltanto che la sua gloria attuale è fondata (giustamente) su di una ventina di liriche alle quali lui stesso non attribuiva nessuna importanza, scritte di get-
to nelle sue «horae subscrivae», mentre le grandi poesie epiche, le lavoratissime odi pindariche sulle quali egli fondava le sue pretese all’immortalità, sono (giustamente, ma non del tutto) dimenticate. Le sensazioni di Ron-
sard nei Campi Elisi debbono essere molto simili a quelle di un signore che ha speso dieci milioni per una Cadillac fuori serie e che si accorge poi che gli amici lo invidiano soltanto per l’ingegnoso sistema di accensione elettrica delle sigarette che la macchina possiede. Direte voi che questa sorte rassomiglia un po’ a quella di Petrarca, ammirato soltanto per le sue liriche italiane che egli stesso trascurava; ma non sarebbe del tutto esatto, perché Petrarca ha a proprio sostegno la riputazione di esser stato il primo uomo del Rinascimento in Italia, e ciò è, in fondo, la consacrazione di quanto egli, inconsciamente, perseguiva. Mentre agonizzava Ronsard volle, come tanti, far del-
le profezie: disse: «Je vivrai encore gràce à mes Odes et à ma Franciade». Quell’eccellente e valentissimo uomo si sbagliava totalmente. Alcuni suoi versi teneramente sensuali («Ca, ca que je les baise et vostre beau tetin / Afin de vous aprendre à vous lever matin» e «Fleur Angevine de quinze ans...») vivranno eternamente finché vi saranno giovinotti intraprendenti (1° citazione) o signori maturi
che molestino le contadinotte nei prati (2° citazione). Ma le Odes e La Franciade ahimé! sono oggetto soltanto di studio. La Franciade venne pubblicata nel 1572, quando Ronsard era di già vecchio e avrebbe dovuto rappresentare (e per un momento rappresentò davvero) il corona-
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mento della sua opera. Esso è un poema sbagliato da cima a fondo. Sbagliato nel contenuto anzitutto: se si vuol risuscitare un genere letterario morto, occorre almeno
che il soggetto sia vivo, atto a toccare alcune corde sempre pronte a vibrare. Non soltanto Tasso, ma financo
Voltaire con la sua Henriade si attennero a questo imperativo precetto. Ronsard, no: andò a imbastire la sua
Franciade su di un soggetto interamente estraneo al sentimento del pubblico. Non che in Francia non fosse già vivace, in quegli anni, il sentimento nazionale; da più di cento anni, da Giovanna d’Arco in poi, la Francia sentiva di esser se stessa, si sentiva diversa dagli altri popoli circonvicini. Ma pretendere che questo sentimento si esaltasse per le mitiche avventure di un preteso eroe Francus, mitico figlio del mitico Enea sbarcato in Gallia
per fondarvi la monarchia francese, era davvero pretendere troppo. Respinte così le cause dell’interessamento dell’epica, il sentimento religioso cioè o quello cavalleresco, Ronsard ne conservò tuttavia i peggiori artifici, proprio
quelli che fanno arricciare il naso quando li troviamo sia pure in Omero o in Virgilio: le profezie. Allo scopo di esaltare la casa regnante di Francia, al buon Francus
vengono da varie parti rivelati tutti i fatti futuri della storia francese, con un effetto di scarsa genuinità e di sforzo concettuale davvero insopportabile. Questo sia detto circa il fondo. La forma, essa, è altret-
tanto sbagliata. Ronsard non volle servirsi dell’alessandrino che trovava trop «énervé et flasque» e pieno di «trop de caquet» per l'epopea. E scelse un verso decasillabo la cui brevità mal si adatta all’incedere lento dell’epica, reso qui ancora più lento dalla costante (o quasi) noncompartecipazione dell’autore alle bubbole narrate. Pur vi sono dei momenti nei quali il tono si eleva, co-
me nel Discours de l’équité des vieux Gaulois: ma anche in questi momenti il livello più alto che si raggiunge è
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quello dell’eloquenza, non certo quello della poesia. Quando si pone sulla pianta dei piedi Ronsard, epico, giunge a grattare la pianta dei piedi di Lucano o di Claudiano, il che davvero non è molto. Gli errori sono riprovevoli non soltanto in sé, ma an-
che in quanto sono cagione di altri errori. Lo scacco poetico della Frazciade è stato causa di un abbaglio di molte generazioni susseguenti: quello cioè di credere che la poesia francese non fosse capace di produrre opere epiche. Da settanta anni a questa parte, però, ci si accorge
che la Chanson de Roland è il più alto poema epico che sia stato scritto in qualsiasi letteratura post-classica (la Divina Commedia e il Paradiso Perduto sorpassano il poema epico benché «raccontino»). E insieme ad essa parecchie delle altre «chansons de geste» e non poche pagine di Hugo formano un cospicuo patrimonio epico nella poesia francese. Un fallimento quasi eguale fu quello delle grandi Od; pindariche di Ronsard. È penoso constatare come un poeta della sensibilità, del gusto, dell’abilità tecnica di Ronsard si venga a trovare con tutte queste sue doti pa-
ralizzate quando vuol mettersi ad imitare gli antichi. Si direbbe quasi che egli non sia «intelligente», il che del resto è forse vero, dato che è facile essere nello stesso tempo grandi artisti e leggermente deficienti. Ronsard voleva imitare Pindaro e Orazio; e vada pure. Ma non capiva che allora bisognava imitarli nello spirito, adeguarsi al volo sereno dell’uno ed alla ristretta ma limpida umanità dell’altro. Invece volle imitarli anche nella forma, servendosi per questo di uno strumento come la lingua francese che, allora specialmente, era quanto di meno adatto esistesse. Ed abbiamo delle interminabili sequenze di strofe, antistrofe ed epodi differenziate tra loro soltanto dal variare delle rime e che generano, con l’abuso di immagini mitologiche non sentite, una noia
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davvero eccezionale. Per corrispondere alla magnifica frase brusca ma mai volgare di Pindaro egli ha reso la frase francese, di sua natura leggera e scorrevole, pesante, dura e oscura. E per di più tutto ciò è un tessuto di ricordi di lettura, di adattamenti di pensieri di già meglio espressi. Leggendo queste Odes (ed è stato mio penoso compito in questi giorni) si comprende e si giustifica l’anatema che da Malherbe a Sainte-Beuve fu scagliato contro Ronsard; i classici, iveri grandi classici del secolo di Luigi XIV che dei poeti antichi tesero ad assimilare lo spirito dovevano inorridire dinanzi a queste pesanti, a queste veramente barbariche imitazioni. Ronsard è per altro abbastanza grande perché possa sopportare alcune crude verità. Vi sono del resto delle eccezioni: una eccezione, per essere precisi. L’Ode à Michel de l’Hépital (che è lunga ben 816 versi) è una bella cosa; non alta poesia, s’intende, ma elevata, dignitosa, suadente, spesso commovente
eloquenza. Forse l’alta dignità dell’uomo cui si rivolgeva (una delle più chiare ed austere figure della storia francese) influì bene sul poeta. Però non vi è altro.
Masarà forse utile farvi ascoltare una strofe di questa ode.” È una delle meno contorte; in essa Ronsard ha tro-
vato il ritmo, il movimento della grande strofe lirica francese, intendo dire della lirica celebrativa; e questo ritmo lo troveremo intatto nelle grandi odi di Lamartine e di Hugo. Comme un qui prend une coupe, Seul honneur de son tresor,
Et de rang verse à la troupe
" La citazione in realtà non è tratta dalla Ode è Michel de l’Hopital, ma dalla seconda Ode au roy Henry II.
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Du vin qui rit dedans l’or, Ainsi versant la rousee Dont ma langue est arrousee, Sur la race des Valois, En son doux Nectar j'abreuve Le plus grand Roy qui se treuve Soit en armes, ou en lois.
Adesso mi spetta il compito, ben più gradevole, di parlarvi di ciò che è vivo nella lirica di Ronsard. Sono vivi, non tutti, si capisce, i due libri de Les
Amours, le Elégies, le Eclogues ed i Discours. De Les Amours parleremo alla fine. Le E/égies contengono cose squisite, come per esempio l’Adore, che è stato illustrato dalla traduzione di un nostro amico, e le
elegie Decima e Sedicesima nelle quali il discorso poetico si snoda e luccica con veramente sorprendente grazia. Ed in esse si trovano in copia quelle argute sorprese verbali alle quali la deliziosa lingua del Cinquecento si prestava tanto volentieri. (Vi è una «rousse lionne», ad esempio, che fa le mie delizie.) Occorre, certamente, una specie di stato di grazia per leggerle ed estrarne il miele: se ci si trova impazienti od irritati quando si apre il volume, si potrà trovarle troppo lunghe e non precisamente divertenti. Ma se, per caso, si ha del tempo dinanzi a sé ed un umore sereno, si sarà facilmente rapiti dalla malinconia maliziosa di questi versi, del resto puramente decorativi. Lo stesso può dirsi delle Ec/ogues. Per queste anzi occorre una preparazione in più: occorre mettersi un po’
nella pelle di un lettore del Cinquecento, esser preparati ad ammettere il «genere pastorale» e non sentirsi urtati
dal perenne divario fra la condizione rustica dei personaggi (perpetuamente riaffermata) e l’elevatezza colta * Bebbuzzo Sgadari aveva pubblicato anche una traduzione dell’Adone.
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del loro linguaggio. Quando ci si sia convinti che non parlano qui dei veri mandriani ma illustri umanisti come Ronsard, du Bellay e Daurat tutto va bene e possiamo liberamente ammirare la fattura squisita del verso e alcuni quadretti spiritosi e ironici come quello che udrete adesso e che tengo a trascrivere perché sono sicuro che le Eclogues intere non le leggerete mai. Je gage mon grand bouc, qui par mont et par plaine Conduit seul un troupeau, comme un grand Capitaine; Il a le front severe et le pas mesuré, La contenance fière et l’oeil bien assuré;
Il ne doute les loups, tant soient ils redoutables, Ny les mastins armez de colliers effroyables, Mais planté sur le haut d’un rocher espineux, Les regarde passer, et si se mocque d’eux.
Et guide les chevreaux qu’ grands pas il devance Puis les rameine au soir à pas contez et longs, Faisant sous ses ergots poudroyer les sablons. (Eclogue I)
Ricorda veramente quelle squisite opere di oreficeria con le quali gli artisti del Rinascimento adornavano i cofani e le coppe regali. E di minuti bassorilievi simili abbondano le Eclogues che, fatto lo sforzo cui accennavo più su, sono interamente godibili e dovrebbero esser lette da chi volesse conoscere una delle più perspicue fonti della lirica francese susseguente. Ma voi credete alla bella «opera» che nasce come un fungo, senza seme e senza terriccio, e perciò non le leggerete. Di molto maggiore vigore sono i Discowrs. In essi Ronsard si libera interamente del travestimento ellenico e s'ispira al tragico fatto della guerra religiosa che tormentava la Francia. La libertà della forma dei Discowrs
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equivale all’altezza del pensiero. Finora ci era apparso soltanto un poeta erudito, raffinato, preoccupato di cesellare preziose incisioni o di ascoltare i battiti (forse non sempre genuini) del proprio cuore. Di fronte all’orrendo martirio al quale è sottoposto il paese egli si sente, per la prima, per l’unica volta, in comunione di sentimenti col popolo «écartelé, pantois, sanglant». Fervente cattolico quale era, nondimeno si ribella alla cieca intolleranza che imperava allora sul popolo francese: ed in versi di altissima levatura indirizzati alla regina Caterina de’ Medici ed al giovane re Carlo IX, implora pace e perdono. Spesso in questi versi disadorni, «parlati», egli esprime con incomparabile vigore lo spettacolo dei campi sconvolti e delle città saccheggiate e la pena della gente umile «qui croit au seul bon Dieu sans aucune autre jointe» e che si trova massacrata e spogliata per delle quistioni teologiche che non comprende e cui non partecipa. In questi Dzscours sono frequenti i grandi versi tragici come quando descrive una chiesa profanata e semi-arsa nella quale si scorge soltanto «un Christ empistollé, tout noirci de fumée». Vi è di già molta della sof-
ferente bellezza dei Tragiques di d’Aubigné e nelle parti amaramente satiriche un presentimento dell’indignato brio dei Chatiments. Attraverso i Discours Ronsard si rivela come un’alta coscienza e come poeta sobrio, il che non sarebbe stato
facile indovinare dalle altre sue opere. Vi sono inoltre nei Discours dei versi magnifici esprimenti una esaltata passione monarchica che potrebbero anche adesso e qui essere adoperati come slogans: Ou pour l'amour de Dieu, ou pour le droit de mon Prince, Navré, poitrine ouverte, au bord de ma province.
Les Amours sono la prima raccolta di versi di Ronsard e senza dubbio la sua migliore. Essi sono dedicati ai tre grandi amori che successiva-
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mente lo possedettero per Cassandre (che era una italiana, Cassandra Salviati, venuta in Francia al seguito di Caterina de’ Medici), per Marie, una ignota ragazza del
suo paese, e per Hélène (Hélène de Surgères), una nobile giovinetta francese. Inframmezzati a questi tre blocchi amorosi, o racchiusi nella continuazione de Les Amzours
che venne pubblicata postuma, vi sono poemi rivolti ad altre donne, generalmente di umile condizione, perché l'eccellente Ronsard, non bello e completamente sordo fin dall’età di venti anni, era quanto mai intraprendente e «positivo» in amore, come stanno a dimostrare nume-
rosi poemi (non raccolti da vivo) che sono di una raffinata sensualità d’ispirazione e di quasi incredibile esplicitezza di espressione. Per quanta voglia ne abbia non trascriverò dei versi de Les Amours ché occorrerà ve li leggiate da voi; perché occorre che sappiate che quelli che probabilmente di già conoscete sono appena un saggio del ricco tesoro di canto racchiuso in questa raccolta. Che il sentimento sia proprio profondo, non direi. Si tratta quasi sempre di una malinconia sensuale, di un vagheggiare in modo poetico delle concessioni che lo sono meno, di un’attesa smaniosa di beni precisi: non il canto di un passionale, ma il diario di un libertino. Di un libertino però per il quale la tenerezza era ingrediente fondamentale del piacere. Del resto sincero, perché assai po-
che sono le volte nelle quali si dichiara pronto a morire per la sua bella come avrebbe voluto la convenzione dei versi galanti. La tecnica poetica de Les Arz0urs è perfetta: raramente i mezzi sorrisi, le lagrimucce, le carezze
furtive o no sono stati espressi in versi di maggior delicatezza e di suono più suasivo. E la varietà ritmica, l’adattamento del metro alle più sottili mutevolezze della sensazione è perfetto. In Les Azz0urs Ronsard si dimostra grande psicologo: e apre non indegnamente il corteo glorioso di quegli analisti delle passioni e del «beha-
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viour» umano che è da lui sino a Proust il più glorioso insieme della letteratura francese, della letteratura di questo popolo osservatore, deduttivo e lucido nella sua
sensualità. Malgrado i suoi travestimenti greci e le parole un po’ grosse che talvolta egli adopera (mai però in Les Amours), Ronsard appartiene alla categoria n. 1 (quella degli analisti) della letteratura francese. Il valore dell’eredità di Ronsard è grandissimo: è stato lui ad estrarre le lettere francesi dall’involucro popolare nel quale il Medioevo le aveva rinchiuse; è stato lui a formare una lingua letteraria, pieghevole ed espressiva, è stato lui a sperimentare tutti i ritmi dei quali è capace il francese. Il suo dominio dell’alessandrino, per esempio,
è assoluto e dovremo attendere Hugo per trovare chi in questo campo lo superi. Ad ogni modo egli è il più grande lirico francese tra Scève e Chénier.
JOACHIM DU BELLAY (1522-1560)
Abbiamo di già incontrato il suo nome: fu egli a redigere quella Défense de la langue francaise che fu il manifesto della Pléiade. Egli è un grande poeta che non ha potuto dare tutta la misura del suo talento a causa della morte precoce. Incominciò come teorico e come sfegatato imi-
tatore di Ronsard. Ma con l’andare degli anni la vena della sua poesia si purificava ed egli via via andava rivelandosi per ciò che era: un intimista. E degli intimisti possiede la dolorosa ricerca dei propri sentimenti ed il verso non splendente ma pervaso di una commovente luce argentina. Plus que le marbre dur me plaist l’ardoise fine.
Questo verso della più nota delle sue poesie esprime bene l'atteggiamento poetico che era venuto prendendo du Bellay. Nato nel 1522 a Liré, sempre sulle rive della Loira, du Bellay aveva cominciato male. La sua prima raccolta di versi è L’Olive, versi d'amore dedicati a Mlle Viole, del-
la quale il titolo è l’anagramma; sono dei versi programmatici scritti, si direbbe, al solo scopo d’incarnare i precetti da lui enunciati nella Déferse. E tali pure sono le sue Odes, appesantite da un rigido rispetto delle regole da lui stesso formulate. Da allora però l’opera di du Bellay inizia un continuo e rapido miglioramento: egli si spoglia via via dei precetti di scuola, rigetta i molti orpelli e lascia adito al suo sentimento reale. Assai utile, per questo, gli fu il soggiorno di quattro an-
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ni che fece a Roma, al seguito del cardinale du Bellay, il protettore di Rabelais, che era suo zio.’ Il soggiorno all’estero lo sottrasse alle influenze di scuola e il contrasto stesso tra Roma (che era ed è proprio la città del «marbre dur») e i suoi ricordi della gracile bellezza dell’Anjou natale aiutò a rivelare a se stesso il suo vero essere. Roma non gli piacque; come tutti gli spiriti penetranti che vi si recarono in quegli anni, restò disgustato alla corruzione, dal fasto ostentato di questa capitale in crisi. Scrisse sì alcuni sonetti di grande bellezza (Les anti quités de Rome) nei quali esalta la maestà delle rovine romane (sonetti che per la loro oscurità sono stati una cava di pietre da costruzione per tanti poeti successivi, da Goethe a Carducci). Ma la Roma del suo tempo, la Roma viva, lo nauseava, ed egli vi si annoiò crudelmente. In questo spirito fra satirico ed elegiaco, scrisse, a Roma stessa, i suoi Regrets, libro di una qualità rara e formato tutto dalle confessioni più intime del suo cuore. Ricordate come egli nella Défense eccitasse alla imitazione degli antichi e dei poeti italiani. Tutto questo adesso è mutato. Je ne veulx feuilleter les exemplaires Grecs, Je ne veulx retracer les beaux traicts d’un Horace, Et moins veulx-je imiter d’un Petrarque la grace, Ou la voix d’un Ronsard, pour chanter mes regrets. Je me contenteray de simplement escrire
Ce que la passion seulement me fait dire, Sans rechercher ailleurs plus graves arguments.
Questa vena di effusioni intime è del tutto nuova ed è destinata a rimanere isolata: fino al Romanticismo essa sarà soffocata dal grande soffio della lirica impersonale. I Regrets debbono essere letti per intero: vi si troveran-
" V. nota a p. 1373.
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no poesie di vivacissima satira, ma soprattutto vi si po-
tranno ammirare molti poemi dai toni smorzati e delicatissimi, richiami alla memoria del paese natale, effusioni
sentimentali appena accennate. I Regrets sono un libro quasi unico nella letteratura francese: non vi si teorizza
niente, l’autore non si atteggia a «tipo» di checchessia. La poesia «intimista» fiorisce con una certa scarsezza in
Francia e quando fiorisce è spesso deturpata da un’enfasi romantica. I Regrets sono quindi doppiamente preziosi: per la lo-
ro intrinseca qualità e per la loro rarità. Du Bellay ritornò in Francia completamente sordo (come Ronsard) e ammalato: morì quattro anni dopo. Ma in questi quattro anni compose i suoi Jeux rustiques,
raccolta di prim'ordine nella quale il poeta, pur continuando nella sua vena personalissima, affina la propria tecnica che si manifesta compiuta nella famosissima Chanson du vanneur de blé, nella quale la pratica dell’agricoltura è resa nel suo peso e nella sua arsura e nello stesso tempo spiritualizzata da un ritmo di veramente magica originalità, Morì il 1° gennaio 1560, lasciando un vuoto incolmabile nella lirica francese che doveva aspettare più di due secoli per trovare (se mai lo ritrovò) un canto della pudica bellezza che traspare dai suoi versi migliori.
ALTRI POETI DELLA PLÉIADE
Come abbiamo visto, i componenti del gruppo erano sette: Ronsard, du Bellay, Baîf, Belleau, Jodelle, Ponthus
de Thyard e Daurat. Dei primi due, che sono di gran lunga i più notevoli, ho di già parlato; degli ultimi due, Ponthus de Thyard e Daurat, non parlerò perché erano degli eruditi e non dei poeti; del terzultimo (Jodelle) si parlerà a proposito dei conati teatrali del Cinquecento. Ci rimane quindi da occuparci di Baîf e di Belleau. Jean-Antoine de Baif (1589) fu peggio che dimenticato durante il Sei e Settecento; fu preso in giro. Egli era il più «teorizzante» dei sette della Pléiade: si mise in testa di riformare l’ortografia francese rendendola più affine alla pronunzia; savia idea che però non essendo stata applicata, ha avuto come risultato di rendere i suoi versi indecifrabili; volle introdurre i comparativi e superlativi latini che tanto contrastano col carattere leggero della lingua francese; e lo si trova citato ancora come «le docte, doctieur et doctime Baif> come con scherno lo chiamava du Bellay; s'impuntò a scrivere in versi misurati sulla quantità non riuscendo a produrre che una monotona sequenza di parole senza ritmo.
Figura patetica di fallito; tanto più patetica in quanto non privo di erudizione solida (la sua traduzione dell’Antigone è un capolavoro di fedeltà e di comprensione) e anche di un certo estro poetico che si manifestò soprattutto nella sua raccolta Les Mzes. Persuaso che mai lo leggerete, desidero farvi udire una sua canzone, che non è cosa grande ma che è fresca e gentile:
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Si d’une petite oeillade toute d’amour et désir Tu me daignes resjouir, — Alors je vi, hé Dieu, je vi.
Si d’une parolette mignonette de faveur Tu me flates, mon amour, — Alors je vi, hé Dieu, jé vi.
Si ta face poupinette claire de vive couleur Sadinelette je voy, — Alors je vi, hé Dieu, je vi. Si ta belle, molle, sereine, divine voix Tu me daignes faire ouyr, — Alors je vi, hé Dieu, je vi. Si legere, proprelette, d’un agile mouvement Baler, alegre, te voy, — Alors je vi, hé Dieu, je vi.
Si ta rubine bouchette playne de sucre et de miel Jolivette me rit, — Alors je vi, hé Dieu, je vi.
Rémy Belleau (+1577) val di più; anzi se la poesia puramente descrittiva, se l'abilità tecnica portata sino al prodigio bastassero a creare un artista, varrebbe addirittura
moltissimo. Nella rinascita della Grecia invocata dalla Pléiade, Belleau bruciò le tappe; non si fermò ad Alceo ed a Pindaro; fece un salto troppo lungo e si ritrovò in pieno alessandrinismo, in quella dopo tutto affascinante epoca nella quale la forma era tutto. Fu un greco della decadenza, e, sembra, non soltanto dal punto di vista letterario.
Non sempre, però; esistono di lui versi rigorosi e austeri; ascoltiamolo: L’homme nay de la femme en vivant peu de temps Est plein de mille maux et de mille tourments. Il est comme la fleur qui naissant est coupee Et fuit ainsi que l’ombre, et n'a point de duree.
O anche versi di aerea leggerezza ma non affettati: Avril, l’honneur et des bois et des mois,
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Avril, la douce espérance Des fruits qui sous le coton Du bouton Nourrissent leur jeune enfance...
Ma la sua fama in vita (e il rinovellarsi di essa adesso)
è legata alla sua raccolta Les Pierres Précieuses, nella quale ogni pietra preziosa è esaltata e cantata nella sua bellezza esteriore e nelle sue qualità magiche, con un virtuosismo di rime e di ritmi che potremmo anche chiamare spaventevole. Ronsard però ne era affascinato e vi allude nell’epitaffio che scrisse per il poeta. < Ne taillez, mains industrieuses, Des pierres pour couvrir Belleau: Luy mesme a basty son tombeau Dedans ses pierres precieuses.
Sentite come parla del Rubino: ... son feu vivement brillant,
Qui rayonne et vif estincelle, Ainsi que fait une chandelle Par les tenebres de la Nuit Ou comme au vent d’une fournaise On voit rougir entre la braise Le charbon blùettant qui luit
o del Corallo: Soudain ces branches Couralines Au baiser devindrent sanguines Par les rayons d’un beau soleil.
(Sembra davvero Théophile Gautier.) In fondo in fondo, queste Pierres Précieuses di Belleau meriterebbero di essere lette: non avreste la sensa"Il manoscritto è mancante del foglio 14. Il testo tra parentesi uncinate (che si estende fino all’inizio del capitolo successivo) è condotto sull’Invito alle lettere francesi del Cinquecento.
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zione di aver avvicinato la Poesia, ma quella assai gradevole e (in un altro senso) estetica di aver passeggiato davanti alle vetrine di un raffinatissimo orefice. Con Belleau si chiude, se non sotto il segno della bellezza, almeno sotto quello dell’abilità e del colore, la rassegna della Pléiade. Ne troveremo più tardi i seguaci, gli epigoni, gli avversari.
Per il momento dovremo rivolgere la nostra attenzione a due poeti notevolissimi che con la Pléiade non ebbero relazioni di sorta, neppure come antagonisti.
DUE RISUSCITATI FRESCHISSIMI JEAN DE SPONDE E MARC DE PAPILLON
In Francia l’anno scorso è successa una strana cosa: i due migliori poeti dell’anno furono due scrittori morti
da quattrocento anni circa. Jean de Sponde (1595) rappresenta, insieme a du Bartas e d’Aubigné, la poesia degli Ugonotti di Francia. La sua vita fu tragica: fervente calvinista dapprima, credette opportuno passare alla confessione cattolica quando Enrico IV si convertì. La sera stessa della sua prima comunione cattolica si ebbe la notizia che il padre suo, che era rimasto calvinista convinto, era stato massa-
crato da partigiani cattolici. Un anno dopo lui stesso moriva. Grande ellenista quale era, la sua poesia rimane del tutto immune da imitazioni umanistiche: è piuttosto nel-
le Bibbie che egli va a cercare ispirazione. Poche sono le poesie di de Sponde: severe, spoglie di ornamenti vani sono alte meditazioni sulla morte e sull’Eucarestia, di una bellezza scabra, interamente in-
tellettualistica. Vi sono sì sue poesie amorose scritte in gioventù, ma sono davvero pessime e del resto rinnegate da lui. Ascoltiamo un suo sdegnoso sonetto contro i «mondani», contro coloro che non aderivano alla severa morale calvinista.” Qui sont, qui sont ceux là, dont le coeur idolatre
Se jette aux pieds du Monde, et flatte ses honneurs? “ Fine della lacuna nel manoscritto. V. nota a p. 1427.
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Et qui sont ces Valets, et qui sont ces Seigneurs? Et ces ames d’Ebene, et ces faces d’ Albastre? Ces masques desguisez, dont la troupe folastre S’amuse è carresser je ne scay quels donneurs
De fumees de Court, et ces entrepreneurs De vaincre encore le Ciel qu’ils ne peuvent combatre? Qui sont ces louvoyeurs qui s’esloignent du Port? Hommagers à la Vie, et felons à la Mort, Dont l’estoille est leur Bien, le vent, leur Fantasie?
Je vogue en mesme mer, et craindrois de perir Si ce n’est que je scay que ceste mesme vie N°est rien que le fanal qui me guide au mourir.
Figura assai più pittoresca ma infinitamente meno ri-
spettabile è quella di Marc de Papillon de Lasphrise ($1599). Sotto questo nome primaverile si nasconde uno dei più crudeli soldatacci di quell’efferato periodo. Di famiglia nobile ma poverissima, cattolica, a quattordici anni scappa da casa e va ad arruolarsi in una di quelle numerose bande semi-militari, semi-brigantesche che affliggevano la Francia. Più energico e provvisto di minori scrupoli dei suoi stessi immoralissimi compagni, non tarda a diciotto anni a diventarne il capo. Si può dire che non vi sia battaglia, imboscata o massacro di quelle atroci guerre alle quali non abbia preso parte «la bande Lasphrise». Ferito diecine di volte, non possono contarsi gli omicidi, gli stupri, i saccheggi dei quali fu autore: il suo nome divenne famoso (e diffamato) in tutto il paese; ugonotti e cattolici lo temevano ugualmente e, sia detto a onor del vero, egli fu anatemizzato da ambedue i partiti che talvolta si unirono per dargli la caccia. Ma, abile negoziatore non meno che spietato combattente, riesce sempre a salvarsi, e l’amnistia proclamata da Enrico IV alla fine delle guerre lo mette al riparo; si ritira nel suo castelletto sulle rive della Loira, si gode le
ricchezze tanto male acquistate, si cura le innumerevoli ferite e la gotta che lo ha assalito, diviene pio ed osser-
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vante e muore a meno di cinquanta anni dopo aver composto una Oration chrétienne pour dire en mourant che trovo divertente ricopiare e che vi prego di ascoltare pensando che chi l’ha scritta era il più fiero delinquente in quel secolo di violenza. Miséricorde, è Dieu! pardonne à mes erreurs, Je m°en repens en cris, en tourmens, et en pleurs, Et ma constante foy est en toy seul fondée. Que mon dernier souspir vante ta Trinité, Recoy ce qui est tien à ceste extremité, Cherissant par Jésus mon ame, ton idée...
Questo attribuire ad una «idea» di Dio la formazione
della sua animaccia è di una impudenza o di una incoscienza senza pari. Eppure è di una bellezza fuori del comune. Il nome del «capitaine Papillon de Lasphrise» era noto a chiunque avesse una sia pur superficiale conoscenza di quei torbidi tempi; ed era un nome di orrore. Che sotto la disonorata corazza dello sgherro si celasse un cuore di poeta era ignoto a tutti. Del «capitaine de Lasphrise» si conoscevano soltanto i sei versi che abbiamo letto or ora; e nessuno vi prestava attenzione. Sul finire del 1952, Jean Baudot, archivista del Dépar-
tement della Garonna, rovistava nell’archivio privato del «chaàteau» di Naujac quando trovò due volumi stampati chiusi in una custodia di pelle del secolo XVII. Erano due copie uguali. Il loro titolo era: Les prezzières oeuvres poétiques du Capitaine de Lasphrise, stampate a Parigi nel 1597. In nessuna biblioteca pubblica o privata di Francia ed a quanto è dato sapere anche di altri paesi esistevano copie di quest'opera. Forse l’autore fece ritirare tutto il pubblicato presso lo stampatore stesso e lo distrusse, risparmiando soltanto questi due esemplari. Baudot si avvide subito del valore della sua scoperta e dopo pochi
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mesi una edizione sparse ai quattro venti la notizia della nascita di un nuovo poeta... vecchio di quattro secoli. Nel volume si trovano due serie di poesie, la prima composta di 169 pezzi, la seconda di 172, quasi tutti sonetti. Nella prima il poeta si rivolge ad una novizia che egli chiama Teofila, della quale è pazzamente innamorato. La novizia resiste a tutte le lusinghe dell’intraprendente soldato e finisce col pronunziare i voti. Nella seconda serie troviamo il poeta innamorato di una giovanissima ragazza, Noemi, con la quale ha delle relazioni molto precise. Egli riesce in seguito a farla sposare da un vecchio barbogio accomodante. Alcuni dei sonetti sono rivolti a delle altre donne, amanti effimere.
Quasi tutte le poesie sono di contenuto licenziosissimo, molte mostrano addirittura una vena sacrilega. Sono proprio le poesie che potevano esser composte da un tipo come il «capitaine de Lasphrise». Però questo crudele soldato, questo sudicio libertino era un artista. Raramente passioni puramente fisiche, prive di qualsiasi rivestimento sentimentale, sono state espresse
con maggior eleganza di linguaggio, con più perfetta evidenza di colorito. Papillon è anche un umorista: egli sa ridere di se stesso; vi è un sonetto nel quale si descrive inginocchiato dinanzi al muro del convento della sua amata novizia, ed assorto in meditazioni tutt’altro che religiose, ed ascolta gli edificati commenti dei passanti commossi dalla sua religiosità, che è un vero gioiello del più puro umorismo. Ve ne è un altro tutto scritto in linguaggio infantile che suscita impressioni di rara perversità. Ve ne sono moltissimi nei quali l’esasperazione sensuale è resa con un vigore ed una icasticità da far restare trasecolati. Grande analizzatore dei moti più semplici del corpo e dello spirito in stato di erotismo, Papillon ha a sua disposizione un linguaggio di una ricchezza e di una energia davvero rare. Di questo Cinquecento fran-
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cese, così francamente sensuale, egli è uno dei più autorizzati interpreti. Volevo ricopiarvene uno, di questi sonetti. Mi accor-
go che non è possibile; neppure dei versi separati possono essere offerti in pasto al pubblico. Qualcheduno, forse, non offenderebbe le caste orecchie; ma allora non. significherebbe nulla. Vi leggerete Papillon de Lasphrise per conto vostro.
DUE ALTRI POETI UGONOTTI
Guillaume de Salluste du Bartas (1544-1590) era un ricco proprietario terriero del Mezzogiorno francese. È notevolissimo, perché in lui vediamo congiunti il «gongorismo» che già prima di colui che gli diede il nome premeva sulle lettere francesi ed un forte residuo di enciclopedismo medievale. Due forze particolarmente efficaci ad Auch, patria di du Bartas, vicinissima alla Spagna per un canto, e fortemente provinciale per un altro. La congiunzione di queste due energie in un unico poe-
ta produsse effetti esplosivi: un poema d’impressionante lunghezza e di sconvolgente fasto: la Serzazze, il primo e in un certo senso l’unico poema barocco francese; dico l’ultimo perché la severità dei precetti di Malherbe impedì l'ingresso in Francia dei futuri seicentisti o, per meglio dire, li limitò nelle sfere più basse della letteratura. (È sempre il n. 1 che trionfa.) Du Bartas fu un calvinista fervente. Ma la sua poesia apparve così nuova, tanto carica era di ricchezza verbale e di sontuosità da arazzo, che egli conservò amici ed am-
miratori nei due campi in lotta. Eccellente persona, del resto, ed esente da quella lebbra del fanatismo che allora deturpava tanto gli ugonotti quanto i cattolici. È interessante pensare che egli fece parte di quella accademia di Néruc che doveva poi esser presa in giro da Shakespeare nel Love’s Labours Lost. A parte alcune odi celebrative, la Serzaine è l’unica opera di du Bartas. La sua composizione fu ritardata da molteplici incarichi militari e diplomatici dell’autore, e non giunse neppure ad essere compiuta. Era, del resto,
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di tale mole che, nonché compierla, non si riesce a capire come possa essere stata iniziata.
Nella Serzaine du Bartas ha voluto narrare la storia della creazione del mondo, riferendo tutto ciò che è avvenuto durante i sette giorni di quella infausta settimana. Ha voluto, insomma, rifare quell’opera divina dopo la quale il creatore stesso si dichiarò stanco.
Conoscitore profondo della Gezesi, eruditissimo di quanto scrissero gli scrittori antichi e medievali sulla fisica, la botanica e la zoologia, du Bartas conosceva anche le innumerevoli relazioni sui viaggi in Asia e in America che si venivano stampando in quegli anni. Era del resto dotato di una memoria ferrea, che lo riforniva sen-
za posa di particolari e di parole, di un senso dell’armonia imitativa che gli permetteva di compiere le variazioni fonetiche più azzardate, di una potenza retorica che gli fa contorcere il periodare e gli fa trovare sempre nuovi atteggiamenti d’idee e di stile. Dal cosmo esistente du Bartas ne estrae un altro personale a se stesso e poetico, formicolante di aspetti caricaturali, che si evolve, si metamorfosizza, si convolve, s’inabissa e si ingigantisce. (Sono diventato dubartasiano anch'io.) L'effetto ottenuto non è certo poetico, ma artistico lo è: ci si trova dinanzi ad un formidabile arazzo tessuto dai Serafini, ove
ogni metro quadrato rigurgita di piante, di uccelli, d’insetti, di quadrupedi e di minerali, ognuno strano ed ognuno significativamente atteggiato. La Francia letteraria, abituata all’arte ancora un po’ gracile del tempo, fu colpita dall’opera di du Bartas, come da una randellata sul capo. Per un momento du Bartas fu proclamato il più grande poeta mai esistito. Poi l’innato cartesianesimo francese riprese il sopravvento e du Bartas fu deriso. Derisione ingiusta, perché poeta non è, ma grande «imagier» lo è certamente. Adesso va riprendendo quota, ma la diffusione della sua opera è resa difficile dalla mole che è di sei volumi.
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Nella collezione della «Pléiade» è stata ristampata la quinta giornata della Creazione, quella dei pesci e degli uccelli. E desidero qui trascriverne un saggio. Si parla degli uccelli. [p. 771] La gentile Alouete avec son tire-lire, Tire l’ire à l’iré, et tire-lirant tire
Vers la vouste du Ciel: puis son vol vers ce lieu Vire, et desire dire: adieu Dieu, adieu Dieu. Le peint Chardoneret, le Pincon, la Linote Ja donnent aux frais vents leur plus mignarde note. Mais tout cela n’est rien, au prix de tant d’accords Que Philomele entonne en un si petit corps, Surmontant en douceur l’harmonie plus douce Qui naisse du gosier, de l’archet ou du pouce. O Dieu, combien de fois sous les fueilleux rameaux “ Et des chesnes ombreux, et des ombreux ormeaux,
*
Jay tasché marier mes chansons immortelles Aux plus mignards refrains de leur chansons plus belles! Il me semble qu’encor j'oy dans un vert buisson D'un sgavant Rossignol la tremblante chanson, Qui tenant or la taille, ore la haute-contre,
Or le mignard dessus, ore la basse-contre Or toutes quatre ensemble, appelle par le bois Au combat des neuf Soeurs les mieux disantes voix. A trente pas de là sous les feuilles d’un charme, Un autre Rossignol redit le mesme carme: Puis, voulant avec luy pour l’honneur estriver,
Chante quelque motet pourpensé tout l’hiver. Le premier luy replique, et d’un divin ramage Ajouste à son doux chant passage sur passage, Fredon dessus fredon, et leur gosiers plaintifs Despendent toute l’Aube en vers alternatifs. Mais souvent le vaincu porte si grand’envie A l’honneur du vainqueur, qu'il perd et voix et vie Tout en mesme moment: et le Joyeux vainqueur
Est des autres prisé comme maistre du choeur. Sur la pointe du jour, d’un chant plein de delices, Il enseigne la game à cent gentils novices
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Et puis les conoissant dignes d’un plus haut son, Il leur baille, sgavant, quelque obscure lecon, Que, verset par verset, studieux, ils recitent
Et la bouche maistresse exactement imitent.
Mi fermo per dovere di cortesia. Ma confesso che avrei continuato a lungo. Trovo questi versi assai belli ed in particolare quelli segnati con un asterisco sono di mano maestra. Mi dispiace per gli odiatori del barocco e gli amanti dell’arte magra. Agrippa d’Aubigné (1552-1630) è #/ poeta ugonotto. Figura umana di altissimo rilievo, combattente valoroso
ma decente nelle guerre religiose, ferito orrendamente, rifiutò di seguire Enrico IV, che pur era suo grande amico, nella conversione al cattolicesimo, e visse appartato, facendosi vedere a corte «seulement pour rudoyer». Quando, con Richelieu, la persecuzione anticalvinista ri-
prese, se ne andò a Ginevra «pour y respirer l’air pur de la liberté» e lì morì. Poiché la sua opera principale (Les Tragiques) venne pubblicata nel 1616 egli è generalmente incluso fra i poeti del primo Seicento, il che non ha senso, anzitutto
perché Les Tragiques erano stati compiuti molto prima della loro pubblicazione, e poi perché la sua personalità storica e la sua arte sono patentemente cinquecentesche. Di quasi trent'anni più giovane, egli è nondimeno un discepolo di Ronsard. Ebbe la sua stessa educazione e si nutrì alle stesse fonti. Con risultati diametralmente opposti. Cattolico non molto osservante, Ronsard era, di fatto, un pagano e i suoi dèi erano quelli dell’Ellade; la sua lingua religiosa, il greco. Calvinista credentissimo e rigido, d’Aubigné è immerso nella conoscenza della Bibbia. Conosceva l'ebraico alla perfezione ed in questa lingua scrisse anche delle poesie, assai lodate da chi può comprenderle. E dalla Bibbia gli deriva il tono austero,
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l'energia di certi suoi giri di frasi, ed anche alcune con-
torsioni sintattiche del più felice effetto. Dalla Bibbia l'abitudine di mascherare i personaggi suoi contemporanei sotto appellativi ebraici, sempre ingiuriosi: Caterina de’ Medici è sempre Jezabel, Parigi sempre Babilonia; il che dona subito un accento di grandiosità alle sue tonanti invettive. Dalla Bibbia pure deriva il movimento d’ispirazione religiosa, la continua forza esaltante, che
rendono la sua opera tanto dinamica. Dall’ebraico l’uso del genitivo come superlativo («le méchant des méchants», «le Roi des Rois») che conferisce solennità al
suo testo. Non che fosse ignorante delle letterature classiche: ma là dove Ronsard e i suoi rivolgevano le loro preghiere, agli altari di Pindaro, d’Aubigné non vedeva che perdizione; e il suo cuore andava verso Tacito, per l’aspra concisione, verso Giovenale e Svetonio per l’asprezza
dei giudizi. Egli ci mostra una faccia inattesa dell’Umanesimo, la faccia virile ed aspra che gli altri avevano troppo trascurato. D’Aubigné scrisse una Histoire Universelle che non ho letto e della quale non ci occuperemo; Le Baron de Foeneste, satira spietata dei cortigiani raffinati e mondani («il n’allait à la Cour que pour rudoyer»), liriche sparse e Les Tragiques, la sua grande opera. Scrisse anche delle gustose memorie delle quali parlerò a suo tempo. Les Tragigues sono un lunghissimo poema che non si sa se chiamare epico o satirico; si potrebbe coniare per
esso l'appellativo di poema «vendicatorio». Ricorderete che ho parlato dei Discours di Ronsard sulle guerre religiose e che ne ho fatto rilevare l’altezza della nobile ispirazione. Les Tragiques sono uno sviluppo dei Discours con due differenze essenziali: Ronsard era, dopo tutto, un pacifico intellettuale che aveva sentito narrare,
non constatato o partecipato di persona alle stragi ed alle devastazioni; in lui la coscienza soltanto è indignata.
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D’Aubigné, combattente e vittima delle guerre civili, ha constatato con i suoi occhi; ed in lui non soltanto la coscienza è turbata, ma la vista, l’udito, l'olfatto sono nau-
seati: fra i Discours di Ronsard e Les Tragigques di d’Aubigné passa la stessa differenza che fra il panegirico funebre pronunciato in una chiesa ed il racconto di un uomo che abbia visto il corpo del fratello maciullato dal treno. Altra differenza: Ronsard apparteneva dopo tutto al partito vincitore; d’Aubigné era un vinto; ed in lui il rancore e il rimpianto si sommano alla nausea morale. I titoli dei sette canti dei Tragigues bastano ad indicarne il tono: Mzisères, Princes, La Chambre dorée, Les Feux, Les Fers, Vengeances, Jugement. Sembrano titoli
della Légende des Siècles. I primi tre canti sono satirici: una satira spietata, tri-
ste, crudelissima del Papa e del partito cattolico. Gli ultimi quattro, descrittivi, vogliono esprimere l’effetto che la dissennata politica ha avuto sulla vita e sugli averi della gente di Francia, proprio sui più umili qui «n’étaient pas mélés à la querelle». D’Aubigné nello stato di calma, nello stato normale
non è un grande poeta: è pedante, è pesante, è rozzo, è inabile. Ma fate sì che l’indignazione gli gonfi le vene delle tempie e tirerà fuori alcuni dei versi più alti che si siano mai uditi in Francia. Alcune sue scene di guerra e di desolazione trovano il loro equivalente soltanto nelle acqueforti di Goya. Udiamolo. J'ai veu le reistre noir foudroyer au travers Les masures de France, et comme une tempeste, Emporter ce qu'il peut, ravager tout le reste; Cet amas affamé nous fit à Mont-moreau Voir la nouvelle horreur d’un spectacle nouveau. Nous vinsmes sur leurs pas, une troupe lassee
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Que la terre portoit, de nos pas harassee. Là de mille maisons on ne trouva que feux, Que charongnes, que morts ou visages affreux. La faim va devant moi, force que je la suive. Joy d’un gosier mourant une voix demi-vive: Le cri me sert de guide, et fait voir à l’instant D’un homme demi-mort le chef se debattant,
Qui sur le sueil d’un huis dissipoit sa cervelle. Ce demi-vif la mort à son secours appelle De sa mourante voix... Voici apres enter l’horrible anatomie De la mere assechee: elle avait de dehors Sur ses reins dissipez trainé, roulé son corps,
Jambes et bras rompus, une amour maternelle L’esmouvant pour autrui beaucoup plus que pour elle. A tant elle approcha sa teste du berceau, La releva dessus; il ne sortoit plus d’eau
De ses yeux consumez; de ses playes mortelles Le sang mouilloit l’enfant; point de laict aux mammelles, Mais des peaux sans humeurs; ce corps seché, retraict, De la France qui meurt fut un autre portraict.
Una atroce descrizione della notte di San Bartolomeo termina con questi versi: Le jour effraye l’oeil quand l’insensé descouvre Les corbeaux noircissans le pavillon du Louvre.
Non voglio prolungare le citazioni; esse non sono molto allegre; benché forse non nuocerebbe conoscere che vi sono sventure più grandi che appuntamenti mancati o lodi ritardate. Ma vivamente vi prego di procurarvi Les Tragiques e di leggerli. (Ve ne è una edizione contenente lunghi estratti, di Larousse, che costa meno di
cento lire.) Ho citato il primo brano che mi sia caduto sott'occhio, al principio del libro. Ve ne sono diecine di analoghi e diecine di versi di alta bellezza tragica, del resto diventati famosi.
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Nos tyrans aujourd’hui entrent d’une autre sorte. La ville qui les voit a visage de morte.
Ironia della storia: Agrippa d’Aubigné fu il nonno paterno di quella Mme de Maintenon che, convertitasi al cattolicesimo, molto si adoperò per la revoca dell’Editto pacificatore di Nantes e per la cessazione della tolleranza religiosa in Francia.
POETI MINORI
Non è facile designare i poeti minori del Cinquecento. Questo secolo sotto l'indagine critica moderna è in continuo movimento: i valori si elevano e precipitano come in Borsa. Come si fa a dire che Desportes è minore se due anni fa si poteva dire che Papillon de Lasphrise non esisteva? Vi dirò dunque quali sono i 72/ef minori. Non mi rimprovererete se fra due anni essi saranno stimati di primo rango.
Philippe Desportes (1546-1606) è il perfetto tipo del poeta di corte. Ricco di nascita, molto colto, svolse una
grande attività politica, destreggiandosi con astuzia fra i partiti avvinghiati in una lotta mortale. Fiutando il vento mutato, piantò la «Ligue» e si mise al seguito di Enrico IV, negoziò con abilità (e grandi profitti per se stesso) la resa a questi delle piazzeforti di Normandia; e, favorito del focoso Bearnese come lo era stato dell’indolente Enrico III, si ritirò ricco a milioni in una delle sue abbazie.
La sua poesia non mostra una grande originalità se non ritmica: la musicalità del verso desportiano è davvero tutta sua. Mi sembra che non basti. Ecco un suo sonetto, musicalissimo e, dopo tutto, bello. Insufficiente,
però, non so bene perché. Autour des corps, qu’une mort avancee Par violence a privez du beau jour, Les Ombres vont, et font maint et maint tour, Aimans encor leur despouille laissée. Au lieu cruel où jeu l’ame blessee Et fu meurtri par les fleches d’ Amour,
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J’erre, je tourne et retourne à l’entour, Ombre maudite, errante et dechassee. Legers esprit plus que moy fortunez, Comme il vous plaist vous allez et venez Au lieu qui clost vostre despouille aimee, Vous la voyez, vous la pouvez toucher, Où las! je crains seulement d’approcher L’endroit qui tient ma richesse enfermee.
Mentre lo ricopio mi sembra assai migliore di quando lo leggevo soltanto. Può darsi e forse non sarà ingiusto che Desportes divenga un «Maresciallo di Francia». Chi, credo, resterà sempre un sottufficiale, è Bertaut ($1611) benché sia stato vescovo e famoso. Le sue opere spirituali sono un po’ troppo spirituali: con i termini astratti non si fa della poesia. Mi annoia ricopiarlo; ma vi garantisco che è così.
Né maggior valore ha Vauquelin de la Fresnaye (+1608) come poeta. Ne ha però uno grande come criti-
co: scrisse un Art poètique in 3650 brutti versi che è però di grande interesse, anzitutto perché vi viene abbozzata quella reazione, o per meglio dire quella corre-
zione dei principi della PIéiade che Malherbe doveva compire; e poi perché, benché in versi, è la più antica storia della letteratura francese. Vauquelin aveva una conoscenza vastissima e quasi sempre esatta della letteratura medievale e, corretta e controllata, la sua dottrina è ancora fondamentale. E sono finiti i Poeti del Cinquecento. Non ci rimane che un breve capitoletto sui Blasons.
LES BLASONS
Mi rincrescerebbe di chiudere questa rapidissima scorsa della poesia francese senza avervi un po’ parlato del B/ason. Anzi del Blason du corps féminin che è il suo vero nome. L’argomento è scabroso, ma dilettevole. Anzitutto che cosa è un «blason»? Il termine proviene dall’araldica. «Blasonner» significa descrivere con parole uno stemma, impiegando quei termini speciali atti a far immediatamente comprendere all’interlocutore di quale stemma si tratta, di farlo comprendere con tale precisione da poter immediatamente disegnarlo, assolutamente esatto. Per esempio: lo stemma della casa reale di Francia è «d’azur, à trois lys enferrés d’or, deux et un». L’araldista udendo queste parole può sul momento disegnare lo stemma, precisamente com'è. Che cosa dunque è il «blason» poetico? Una descrizione sintetica, allusiva di una cosa che ne renda imme-
diata l’immagine. Era una forma di poesia medievale caduta in disuso. Clément Marot la risuscitò. Esternamente il «blason» poetico ha l'andatura di una incantazione, di una litania, di una serie di parole magiche. Interiormente si presta alle più ardite colorature; mediante una serie d’invocazioni o monotone o sapientemente varie-
gate, tende a catturare la realtà dell’oggetto cantato, a rinchiuderlo nella rete d’oro delle parole; a presentarlo così all’uditore. Ad evocarlo, per dirlo in breve. Clément Marot, nel 1535, come forse ricorderete, si
era dovuto rifugiare a Ferrara per sfuggire a persecuzioni religiose. Lì si annoiava, lontano dal proprio ambien-
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te. Gli venne in mente di riunire attorno a sé, spiritualmente almeno, i suoi amici poeti, e li invitò tutti a invia-
re a lui un «blason» evocante una qualsiasi parte del corpo femminile. A Ferrara si sarebbe costituito un giurì che avrebbe proclamato il vincitore; questi riceverebbe in dono un paio di guanti da parte di Madama Renata di Francia, duchessa di Ferrara. Il successo di questa gara poetica fu grandissimo.
Tutti i poeti francesi furono presi da emulazione e si misero ad evocare le più attraenti parti dei corpi delle loro belle amiche. Il premio venne assegnato a Maurice Scève per il suo poema Le Sourcil. Vi prego di tener presente che questo si svolgeva nel 1535 e che quindi non potevano partecipare alla gara i
poeti dei quali abbiamo parlato. Di noti a noi vi sono soltanto Marot e Scève. Questi poemi sono piacevolissimi. Il tema era ben scelto per porre in valore l’elegante libertinaggio del Rinascimento; ed i poeti si sorpassarono l’un l’altro in allusioni tenere ed ardite, in immagini fresche. Scève, benché vittorioso, non mi sembra sia stato il
migliore. Era troppo intellettuale, troppo pensoso per riuscire in un genere di poesia nel quale una buona dose di «animal spirits» deve sorreggere l’arguzia ed il buon
gusto. Il migliore di questi «blasons» è, dopo tutto, quello di Marot stesso: Le beau Tétin e dopo quello di Héroét, di
Des Périers e di Aurigny. Ad ogni modo essi formano una raccolta gradevolissima, non indegna delle bellissime cose che essa illustra.
Siamo già lontani, benché contemporanei, dall’abbastanza grossolana sensualità di Rabelais; siamo sulla strada dei capolavori libertini del Settecento. A differenza di questi, però, i poemi del B/asor sono di una sensualità perfettamente sana esente da qualsiasi perversità.
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Letteratura francese
Non è facile sceglierne uno da far udire ad un così costumato auditorio. La Maîn (par Charles Chappuys) O belle main, main blanche, main polye, Main qui les cueurs et corps lye et deslye, Main qui le mien a pris sans y toucher, Main qui embrasse, et semond d’approcher, Main qui à moy doibz ouvrir, o main forte, Qui fors à moy, à tous ferme la porte; Main qui souvant en estraignant le doy, Sans dire mot, m’as dit je say bien quoi.
E qui è giocoforza fermarci.
IL TEATRO FRANCESE DEL CINQUECENTO
Premessa
Il teatro francese del Cinquecento è assai importante, dal punto di vista storico più che da quello estetico. In questo periodo vennero accumulandosi i semi che portarono alla impareggiabile e singolarissima fioritura del Seicento. La scuola della Pléiade aveva rivolto particolare attenzione al teatro che essa tendeva a ricondurre alle forme classiche; un caprone veniva addirittura sgozzato prima che s’incominciassero
certe rappresentazioni
all'aperto. Come questi precetti della Pléiade fossero destinati ad incarnarsi in opere d’arte, tuttavia in un modo che quei dottrinari non prevedevano, sarebbe studio di particolare interesse. Disgraziatamente, io non ne so niente. Non ho letto un rigo di qualsiasi poeta drammatico del Cinquecento. Debbo quindi pregarvi di voler accontentarvi di quanto ho appreso di seconda mano. Prendo queste poche notizie dal Doumic. Etienne Jodelle (+1573) fu uno dei sette fondatori della Pléiade; poeta lirico, fu uomo di straordinaria vanità e dissolutezza. I suoi versi non sono notevoli, tranne
uno che si trova in una supplica in versi al re Enrico III, che pare si servisse della sua opera letteraria senza ricompensarlo adeguatamente: Qui se sert de la lampe, au moins de l’huile y met.
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Letteratura francese
A Jodelle si devono tanto la prima tragedia quanto la prima commedia francese imitate dagli antichi autori classici. Nel 1552 venne rappresentata C/éopatre, nel cortile di un collegio. Le finestre servivano da palchi, la corte stessa da platea. Fin qui vi è una rassomiglianza con l’ambiente scenico del teatro elisabettiano. Da qui in poi, tutto è diverso. Alla recita assisteva il re insieme alla cor-
te, gli attori non erano veri attori ma Jodelle stesso ed i suoi amici Belleau, Grévin, Denisot; tutta gente coltissi-
ma e per bene. Il teatro francese, per l’epoca che ci riguarda, è un fenomeno di cultura; e tale resterà sino ai tempi romantici avanzati, sino alla nascita del «mélo», cioè del melo-
dramma che con il nostro non ha nulla in comune se non il livello artistico. La Cléopdatre fu seguita dalla Didon se sacrifiant (1555) e dopo ancora dall’ Eugère, commedia questa. In queste opere teatrali non vi è nessuna qualità drammatica. I personaggi raccontano l’azione ben più che non la vivano. È quasi interamente una serie di monologhi enfatici, inframezzati da cori che esprimono luoghi comuni moralistici. I caratteri dei personaggi sono tutti eguali fra loro, la versificazione esitante. Jodelle si ispira a Seneca ben più che ai tragici greci. Pur tuttavia l’importanza storica di questo teatro di Jodelle è notevole: in genere vi troviamo tutta la tragedia francese del Sei e Settecento: la divisione in cinque atti di durata quasi eguale, i racconti, imonologhi, il dialogo svolgentesi per antitesi, l’uso soprattutto dell’alessandrino a rime baciate. Soltanto queste tragedie primordiali non studiano le passioni, ma le narrano. Esse sono im-
pregnate di lirismo di secondo ordine. La recita dell’Eugère fu accolta con entusiasmo. Ronsard scrisse:
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Jodelle le premier, d’une plainte hardie, Frangoisement chanta la Grecque Tragédie, Puis en changeant de ton chanta devant nos Rois La jeune Comedie en langage frangois. Il lettore di oggi, a quanto pare, rimane assai sorpreso
di questa lode. Perché se le tragedie di Jodelle, malgrado il loro scarso valore, sono veramente «nuove» cioè
differenti dal teatro del Medioevo, l’Eugère è, a quanto pare, una semplice farsa di tipo nettamente passatista: vi si parla della corruzione di un ricco abate e della cattiva condotta di due giovani donne. Il tutto in prosa, variegata da brevi scene in alessandrini. Un più deciso impulso verso un miglioramento della tecnica teatrale venne dall’Italia. Pierre Larivey era un italiano. E «Larivey» non è che la traduzione del suo cognome italiano, Giunta. Fu un ecclesiastico esemplare, di vita intemerata ed autore di trattatelli edificanti. Ci ha lasciato nove commedie in prosa, scritte dal 1579 al 1611, tutte di straordinaria licenziosità. Esse non sono del resto che adattamenti di commedie italiane, di
Razzi e di Grassini, di Dolce e di Bonaparte (proprio così, si tratta di un antenato di Napoleone). Le Laquais, La Veuve, Les Jaloux, Les Escolliers, Le Fidelle e le altre so-
no divise nei cinque atti tradizionali, ma condotte con ben maggiore brio dell’Ewgère. L'intreccio ha una certa solidità e si sviluppa quasi tutto in scena. Doumic con la consueta buona educazione dice: «L’Italie nous enseigne “l’imbroglio”». La lingua pare sia eccellente, netta e viva, smaltata da locuzioni popolari. Molière si ispirerà ad alcune di queste commedie per il suo Avare. Pare che il migliore dei drammaturghi di quest'epoca sia Robert Garnier (11601). Egli ha scritto unicamente per il teatro. Ha lasciato otto tragedie, scritte in una se-
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rie continuamente progrediente. Le prime (Porcie, Cornélie, Marc-Antoine) di argomento romano sono ispirate a Seneca e sembra non siano molto migliori di
quelle di Jodelle. Le tre seguenti di argomento greco (Hyppolite, La Troade, Antigone) sono di già sciolte e più semplici. Ma sono le ultime due che gli danno un posto veramente di riguardo nella storia del teatro francese. Bradamante (tragicommedia, cioè tragedia a felice risoluzione) è ispirata al noto personaggio ariostesco e sembra vi
si trovi di già quanto è finora mancato nel teatro cinquecentesco: azione, scene variate con abilità, dialoghi di un
certo rilievo, e particolari di osservazione personale sugli uomini e la società. Ancora migliore sarebbe la tragedia Les Juzves che si potrebbe addirittura considerare un primo abbozzo di Saint-Genest e di Polyeucte per la sincera emozione religiosa e l’impeto lirico dei cori. Doumic dice che se è vero che Jodelle ha tracciato la cornice della tragedia francese futura, Garnier è il primo che in questa cornice abbia saputo piazzare alcunché. Antoine de Montchrestien (1575-1621) ebbe una vita tragica. Fu uno spadaccino e una testa calda. E morì ucciso in una imboscata. Egli è un seguace di Garnier dotato di minor talento. La sua opera migliore è l’Ecossazse, tragedia sulla vita di Maria Stuarda, nella quale in particolare il carattere della regina Elisabetta è disegnato con vigore. La responsabilità di quanto sopra spetta al signor René Doumic che del resto, accademico di Francia e di-
rettore della «Revue des Deux Mondes», ha spalle abbastanza larghe per sopportarla.
NARRATORI FRANCESI DEL CINQUECENTO
A parte Rabelais che, naturalmente, è il più grande, i narratori francesi del Cinquecento sono soltanto due: Marguerite d’Angouléme, sorella del re Francesco I, e Bonaventure Des Périers. Possiamo trascurare i diretti imitatori di Rabelais che seppero seguirlo soltanto nelle molte volgarità e mai nella vera arguzia e nelle occasionali profondità. Noél du Fail, nella vita privata degnissimo magistrato, sfogò gli istinti repressi nei Cortes et Discours d’Eutrapel, accozzaglia di sudicerie. Béroalde de Verville pretende di insegnare col suo Moyen de parvenir l’arte di sedurre le donne ma non riesce che a distogliere da queste imprese, tanto è sozzone e volgare. Con Marguerite de Navarre ci troviamo su un ben altro piano. La figura sua è quanto mai attraente: donna di testa forte e di forte carattere, sapeva essere nello stesso tempo seria e scherzosa. Per un momento fu attratta dal calvinismo ma poi se ne distaccò; ma sempre in seguito impiegò la propria influenza sulla famiglia reale e sui potenti per salvare quanti più dei suoi amici protestanti poté. Attorno a lei si formò tutto un circolo letterario composto di quanto di meglio si trovava in Francia in quell’albore di Rinascimento. La sua raccolta di versi (Les Marguerites de la Marguerite des Princesses) godette un tempo di fama ma è adesso illeggibile. La sua fama attuale riposa tutta sull’Heptaméron, raccolta di novelle raggruppate dal solito artificio boccaccesco di una lieta brigata nella quale a turno si racconta-
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no storielle divertenti. Queste novelle sono settantadue, tutte trattano di amore e moltissime sono licenziosissime ed espresse in termini di estrema chiarezza. Si rimarrebbe sorpresi che simili «biricchinerie» potessero esser scritte da una donna certamente virtuosissima; ma tali erano le abitudini del secolo XVI.
La parte più viva del libro è racchiusa nelle conversazioni che fanno da intermezzo alle novelle; sotto nomi in-
ventati parlano, oltre alle regina stessa, tutti gli amici del suo salotto; e parlano bene, di amori platonici e di sottigliezze galanti. Le novelle stesse sono spiritose e vivaci, prive delle grandi doti di Boccaccio, ma ravvivate da una malizia e da una perspicacia psicologica del tutto femminile. Lo stile è chiaro, lento, pigro, non privo di fascino; si
comprende bene comela regina le scrivesse nella sua lettiga, portata al lento passo delle mule su per i passi dei Pirenei, durante le sue innumerevoli imprese benefiche. Assai più aspro lo stile di Bonaventure Des Périers che della regina Margherita fu segretario. Fu questi una figura tragica e un po’ misteriosa, uno di quei riformatori estremisti che intendevano distruggere ogni religione più che riformarne una. Così pensando dispiacque tanto ai cattolici quanto ai calvinisti, fu abbandonato da tutti eccetto che dalla buona Margherita e finì col togliersi la vita. Queste sue idee oltranziste sono esposte, in modo oscuro ed allegorico, nel suo Cybalun Mundi, quattro dialoghi fra Mercurio, Atteone, Cupido e due cani. L’opera fece scandalo e venne condannata. Dopo la di lui morte vennero pubblicate Les nouvelles Recréations et joyeux devis (1558), centodieci novelle di estrema brevità, tutte ambientate nel popolo ed espresse con estrema asciuttezza e violenza. Racconta fatti rivol-
tanti e atroci senza curarsi mai di fare la morale. Indubbiamente uno scrittore della categoria n. 1.
MEMORIALISTI FRANCESI DEL CINQUECENTO
È divenuto luogo comune l’enunciato che il Rinascimento significa, insieme a tante altre cose, la valorizza-
zione dell'individuo in contrapposto all’anonimato, alla diluizione nella massa che caratterizza il Medioevo. Anche dei luoghi comuni, però, è necessario dimostrare la fondatezza. Una prova della realtà obiettiva di questo riaffermarsi dell’individuo ci vien fornita dal pullulare di «memorie» personali durante il Cinquecento. Il Medioevo le aveva ignorate. Allora si scrivevano «cronache», non memorie. Ed anche quando scrittori
quali Giovanni Villani, Joinville, Villehardouin o Commynes avevano avuto parte preponderante nelle azioni narrate, essi hanno avuto somma cura di sfumare
il più possibile la loro quota d’interesse personale per fonderla nel quadro complessivo degli avvenimenti narrati. A questa volontà d’immergere la propria individualità nella collettività si deve l'anonimato che ancor oggi conservano i grandi architetti ed i grandi scultori delle cattedrali gotiche; e se il nome di molti artisti italiani (ed unicamente italiani) ci è stato conservato si deve in gran parte a ricerche di eruditi rinascimentali innamorati, di
già, dell’individualità. Nel Cinquecento l’Ego desidera inghiottire il Cosmos; ogni individuo si reputa il centro dell'universo; financo in Italia, paese quanto mai restio a questo ramo della letteratura, abbiamo un capolavoro dell’autobiografia; financo una Santa rinascimentale si mette a scrivere in Spagna
la propria «Vita»; il che sarebbe stato paradossale da par-
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te di San Francesco d'Assisi; Lutero autorizza addirittura
la pubblicazione dei propri Tischreden. Figurarsi cosa succedette in Francia, presso un popolo per propria natura egocentrico e conversatore.
I primi sintomi furono il favore incontrato dalle traduzioni di Plutarco e da quelle di Svetonio; egregiamente tradotte, le prime, da Amyot, in una lingua familiare e saporosa che conserva ancor oggi il suo fascino, queste esaltazioni delle personalità greche e romane coincidevano con la nuova direttiva della psiche rinascimentale. Subito dopo, durante ed al termine delle guerre di religione, un profluvio di «Mémoires» inondò il paese: capi militari, capi politici, personalità delle opposte confessioni religiose, umanisti, scienziati e financo l’illustre ceramista Palissy, vollero render pubbliche le loro avventure
ed impressioni personali. E financo Les Essazs di Montaigne, nel loro disordine pittoresco, nell’affastellamento di richiami culturali, nella loro mancanza di uno schema ideale, nelle frequenti confessioni personali, che cosa sono se non dei «Mémoires» non già di fatti della vita attiva, ma di una lunga e complessa esperienza ideale? Tutte queste «memorie» sono preziose per lo storico;
molte di esse sono opere letterarie di buono ed alto rango. Sono ben lungi dal conoscerle tutte, e mi dovrò accontentare di parlarvi soltanto di alcune che del resto sono, a giudizio generale, le migliori. Fra le memorie occorrerà situare Les baut faits du chevalier, seigneur de Bayard benché non scritte da Bayard stesso. Esse apparvero al principio del Cinquecento poco dopo la morte del guerriero; e il «Loyal Serviteur» narra con incantevole semplicità le gesta di quel prode cavaliere e la sua morte a un tempo eroica e cristiana. Il «Loyal Serviteur» conserva però ancora molta della rusticità medievale: egli è un Froissart che abbia concentrato la sua attenzione su di un solo personaggio invece che su un’epoca.
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Pienamente rinascimentale è invece l’attitudine di Pierre de Brantòme (1614): privo di fede cavalleresca e di attaccamento al suo paese, egli percorre tutto il mondo allora conosciuto in cerca di fortuna, ma soprattutto per curiosità, allo scopo di poter ammirare tutti gli egoismi purché si esplichino con vigore o con grazia. Nulla lo esalta all’infuori della sensazione del flusso vitale, l’espandersi dell’«io». E perciò nelle sue due opere La vie des hommes illustres et des grands capitaines e La vie des Dames galantes egli narra con eguale calore di stile la vita di Don Giovanni d’Austria o dell’austero L’Hospital come le marachelle galanti delle signore della corte e delle forosette del contado; riuscendo a darci, con eguale passionalità stilistica, sia ritratti di personalità di alto stile come i due nominati, sia scenette di alcova a cospetto delle quali le memorie di Casanova sembrano caste come dei romanzi vittoriani. Egli costituisce una miniera inesauribile per gli storici del costume; il semplice lettore potrà divertirsene un momento ma finirà col restarne alquanto nauseato (intendo parlare della Vie des Dames galantes; l’altra sua opera è succosa e piacevole). Sono le memorie di Blaise de Monluc, pubblicate sotto il titolo di Corzzzentaires al modo cesareo, a costituire
il vertice di questo genere letterario nel Cinquecento. Esse ci danno un quadro quanto mai vivace della vita di uno di quegli spietati condottieri che dopo aver valorosamente combattuto le guerre francesi in Italia finirono col disonorare la propria vecchiaia durante le carneficine delle guerre religiose. Nato nel 1502, in Guascogna, da famiglia di piccola nobiltà provinciale, Monluc fuggì dalla miserabile casa paterna a quindici anni, entrò nell’esercito e si acquistò presto una tale fama di coraggio ed astuzia che diventò uno di quegli uomini sempre chiamati per imprese di-
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sperate che gli altri avevano «dropped like a hot brick». Di questo genere fu la difesa di Siena contro gli Imperiali, onorevolmente conclusasi dopo rischi terribili. Finite le guerre straniere, egli entrò nel periodo di attività per le guerre religiose, durante le quali mostrò un incredibile rigore che confina con il sadismo. Raggiunge i più alti gradi, diviene Maresciallo di Francia ed all’assedio di Rabastens si busca una fucilata in piena faccia che gli fracassa denti e naso «et démantibula tout le pourtour». Divenne così brutto da vedere «que j’aurais fait avorter les femmes»; dovette ritirarsi dal servizio, portare perpetuamente una maschera di velluto nero, e si ritirò nelle sue terre occupandosi a scrivere i suoi Comzzentaires.
Come stile egli è uno dei predecessori di Saint-Simon. Ha le stesse noncuranze sintattiche, la stessa trascuratez-
za della forma, ed anche il medesimo dono di vivificare ciò che narra, di evocare un individuo o un paesaggio con dieci parole. Ci sembra di averlo conosciuto personalmente. Bruttissimo, asciutto, vivacissimo, dotato di un ardire pazze-
sco ma anche assai abile negli intrighi e nelle «coperte vie», soldataccio adorato dagli inferiori, in rivolta, spesso, con i superiori, devoto unicamente al re, in fondo
non cattolico quanto non protestante, esecutore appassionato degli ordini qualunque essi fossero. In fondo, neppure crudele, semplicemente spietato, uno di quei tipi non sai se supremamente saggi o supremamente stu-
pidi che credono di eliminare ogni disordine con la violenza. Certo si è, però, che i consigli che dava a Carlo IX per terminare le guerre religiose, cioè quello di perdonare i delitti da qualsiasi parte commessi e di accordare la libertà di culto ai calvinisti «en quelque lieu que ce soit» non sono di un fanatico. Sono poi quelli che la saggezza di Enrico IV doveva attuare. Queste memorie sono piene di scene terribili e di scene giocose: Monluc rivive la sua feroce vita con chiara
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comprensione e senza nessun pentimento. Ma chiude le sue opere con un periodo che direi commovente e che certo è bellissimo: Il me ressouvenoit tousjours d’un prieuré assis dans les montagnes, que j’avois veu autres-fois, partie en Espagne, partie en France, nommé Sarracoli. J'avois fantaisie de me retirer là en repos; j'eusse veu la France et l’Espagne en mesme temps. Et si Dieu me preste vie, encore je ne scay que je feray.
Sarà il solo brano che vi ricopierò. Ma farete bene a leggere i Corzentaires; è grande prosa francese e per giunta divertentissima.
ENRICO IV, SCRITTORE
Alla fine delle pagine dedicate ai memorialisti possono essere collocate queste note su Enrico IV quale scrittore, cioè quale autore di lettere. Il fascino degli scrittori non letterati di professione è grande. Quando siano delle persone intelligenti, troviamo in essi una vivacità di piglio, spesso una felicità di espressione per la quale è necessario risalire molto in alto sulle pendici del Parnaso propriamente detto al fine di trovare degli equivalenti. Non è certamente dovuto ad una soverchia reverenza per l'istituto monarchico il fatto che molti fra questi letterati di complemento siano dei sovrani. Questo accade soltanto perché le lettere dei re vengono conservate assai di più che quelle dei comuni mortali. Sono sicuro che nello stesso momento in cui Enrico IV vergava i suoi indiavolati bigliettini diecine di droghieri e di apotecari ne scrivevano di altrettanto gustosi ma che si sono smarriti. Eppure, no. A rifletterci bene un re o qualsiasi altra persona eminente finisce con l’acquistare (sempre che sia provvista di talento personale) una specie di indipendenza spirituale, un istintivo disprezzo per l’opinione altrui che può facilmente rendere affascinante il suo stile. Sovrani (od equivalenti) grandi scrittori involontari ve ne sono parecchi: mettiamo da parte Cesare o Federico il Grande che erano più che a metà dei letterati, ci restano ancora Cromwell, Richelieu, Luigi XIV, Caterina di Russia e Napoleone che hanno saputo esprimerci nella brevità della lettera la propria personalità in modo stupefacentemente artistico.
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Luigi XIV è certo uno dei più grandi scrittori del suo pur illustre secolo, e di lui dovrò riparlare a suo tempo, la corrispondenza di Napoleone è universalmente celebre. Le lettere di Caterina di Russia, specialmente quelle a Voltaire, sono una delizia: la vecchia signora d’infinita esperienza e di lucidissimo intelletto vi prende in giro il suo temibile interlocutore con una grazia, una bonomia ed una dignità che non è facile eguagliare. La corrispondenza di Enrico IV occupa un posto eminente fra quelle regali. Sono quasi sempre dei brevissimi bigliettini scritti in fretta, si direbbe quasi al momento di salire a cavallo per andare altrove. Lo spirito vivacissimo, la libertina tenerezza, l’ingegnosità focosa di questo re che fu una delle più attraenti figure della storia francese, saltano fuori ad ogni rigo. E niente peli sulla lingua. Sentite come scrive ad una delle sue amanti, alla bella e bizzarra comtesse de Gramont, «la belle Corisandre»: Il est venu un homme, de la part de la Dame aux chameaux, me demander passe-port pour passer cinq cent tonneaux de vin, sans payer taxe, pour sa bouche. C'est se desclarer ivrognesse en parchemin. De peur qu'elle ne tombast de si hault que le dos de ses bestes, je le luy ay refusé.
Per apprezzare la spregiudicatezza di quanto è scritto è necessario sapere che «la Dame aux chameaux» era «la reine Margot», moglie di Enrico IV stesso e che la parola «chameau» è una delle più ingiuriose della lingua francese. In un altro biglietto: Je n’attends que l’heure d’ouîr dire que l’on aura envoyé estrangler la feue reyne de Navarre [sempre la propria moglie]. Cela, avec la mort de sa mere [Caterina de’ Medici], me fairoit
bien chanter le cantique de Simeon.
Queste frasi feroci, così dissonanti dalla sua natura clemente, sono del resto rare in Enrico IV, e mai seguite
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da fatti corrispondenti. Generalmente se la sbriga in quattro frasi che scivolano via, affettuose ed ironiche. Je fais anuit force depesches. Demain à midy elles partiront, et moy aussy, pour vous aller manger les mains. Bonjour, mon souverain bien. Aimés Petiot.
«Petiot», il piccolino, è lui stesso.
In un momento di grande pericolo, mentre era stretto fra due eserciti nemici, eccolo scrivere a uno dei suoi fedelissimi: Mon cher de Batz, mets des ailes à ta meilleure beste; j'ay dit à Montespan de crever la sienne. Pourquoy? tu le sauras de moy à Nerac. Haste, cours, viens, vole: c'est l’ordre de ton mai-
stre et la priere de ton amy. Ancora alla «belle Corisandre»: Bonyere est allé à Poictiers pour acheter des cordes de luc pour vous; il sera à ce soir de retour. Mon coeur, souvenésvous tousjours de Petiot. Certes, sa fidelité est un miracle.
E quest'altra, sempre alla stessa, scritta due mesi dopo: J'arrivis arsoir de Marans. C'est un lieu de très grand trafic et tout par bateaux. La terre très pleine de bleds et très beaux. L’on y peut estre plaisamment en paix, l’on s’y peut resjouir avec ce que l’on aime, et plaindre une absence. Ha! qu'il y faict bon chanter! Je pars jeudy pour aller è Pons où je seray plus près de vous. Mon ame, tenez-moy en votre bonne grace;
croyez ma fidelité estre blanche et hors de tache: il n’en fut jamais sa pareille. Si cela vous aporte du contentement vivés heureuse. Votre esclave vous adore violamment. Je te baise, mon coeur, un million de fois les mains.
E ancora quest'altra scritta subito dopo la vittoria di Coutras: Mes amours, je vous mande en toute haste que jay defaict l’ennemi à Coutras. On luy a prins maints enseignes, drapeaux
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et gonfanons. Je vous les apporteray demain. Ce sont de belles soies et ce sera bon coucher avec vous dessus.
Un poeta che avesse voluto fabbricare la leggenda del re vittorioso e galante non avrebbe potuto immaginare niente di meglio di questa frusciante realtà. «La belle Corisandre» intrigava contro alcuni dei fedeli del re. Ecco come lui la sgrida: Je vous fais une priere: que vous oubliés toutes haines qu’avés voulu à qui que ce soit des miens. Ne croyés ni craignés que rien puisse jamais esbranler mon amour. Jen ay plus que je n’en eus jamais. Bon soir, mon coeur; je m’envoy dormir, mon ame plus legere de soins que je n’ay faict despuis vingt jours. Je baise mes beaux jeus par millions de fois.
Ecco ancora un biglietto scritto nella critica annata 1588 quando tutto sembrava perduto per il Bearnese. Le preoccupazioni assillanti non riecono a spegnere il buon umore: Dieu sait quel regret ce m’est de partir d’icy sans vous aller baiser les mains! Certes, mon coeur, j’en suis au grabat. Le Diable est deschainé. Je suis à plaindre et est merveille que je ne succombe sous le faix. Si je n’estois Huguenot, je me ferois Turc. Ha! les violentes espreuves par où l’on sonde ma cervelle. Je ne puis faillir d’estre bien tost fou où habile homme. Cette année sera ma pierre de touche.
Queste sono le lettere private, e si potrebbe continuare a lungo nelle citazioni. Poi vi sono le lettere ufficiali, evidentemente scritte
da altri in stile serio, corretto e pomposo. Ma evidentemente revisionate da Enrico IV in persona che vi introduce frasi briose che stonano col contesto e che sono senza dubbio sue. E poi vi è la sua conversazione della quale ci rimangono numerosi ricordi. Ve ne citerò una sola che è eccellente. Enrico IV era stato costretto a concedere il «Saint
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Esprit», il più alto ordine cavalleresco, al conte di Soissons che lui sapeva incapace e malevolo. Al momento dell’investitura il conte, inginocchiato davanti al re,
mormora la frase di rito: «Domine, non sum dignus». É il re: «Je le sais bien; mais c’est que je n'ai pu m’en empécher». E così Enrico IV, «le seul roi dont le peuple ait gardé la mémoire», ci ha lasciato una immagine perfetta della sua anima clemente, sagace e scettica.
Non per niente aveva passeggiato, solo a solo, durante tre ore nel giardino di Montaigne, insieme a quel grandissimo uomo.
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Una delle famose cinque firme di Shakespeare si trova su di un esemplare della traduzione inglese degli Essais di Montaigne. Come avviene talvolta il caso è stato benevolo ed intelligente: ha acconsentito a darci una prova fisica della conoscenza che Shakespeare aveva degli Essazs. Prova, del resto, quasi superflua. Una lettura anche non eccessivamente attenta delle opere dell’uno e dell’altro basta a convincerci, non dico della derivazio-
ne, ma della assoluta identità di Weltanschauung fra questi due quasi contemporanei geni. Lo spirito del Rinascimento portato al suo supremo stato di distillazione e versato in un vino ancora rude e profumato di rusticità
ha formato il liquore inebriante che questi due scrittori ci offrono. La loro arte è diseguale. Le loro idee sono identiche. In ambedue troviamo la stessa a-religiosità unita alla stessa commozione davanti le sensazioni religiose degli altri, la stessa compassione universale non disgiunta da una lieve tintura di disprezzo, lo stesso accanimento a
smontare il meccanismo della psiche umana, lo stesso scetticismo sereno, quello, voglio dire, che non rigetta
tutto con un «no» aprioristico, anzi che accoglie tutte le. opinioni con un «sì» ironicamente condiscendente. Tutti e due gettano uno sguardo acuto sul formicaio umano e confessano che non riescono a trarne alcun concetto esatto («Life is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing») all’infuori dell'obbligo della pietà; ambedue si lasciano spesso distrarre da questa
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contemplazione amara e ridono un momento dinanzi alle smorfie ed ai capitomboli di queste povere scimmie bastonate. Ambedue sono quanto mai sia possibile esserlo alieni da sistemi prefabbricati. Non fosse che per questa identità di vedute il culto di Montaigne non può disgiungersi dal culto di Shakespeare. Montaigne, d’altra parte, ha un valore artistico suo personale che, se non raggiunge quello shakespeariano, è certamente del più alto rango dopo il suo. E infine gli Essazs sono uno di quei libri che presentano una personalità viva, parlante e sommamente piacevole; uno di quei libri che potrebbero bastare da soli a riempire una vita.
Quando, dopo aver pubblicato una parte degli Essazs, Montaigne venne presentato al re Enrico III, questi gli disse che il suo libro gli era molto piaciuto. Montaigne rispose: «Sire, il faut donc que je plaise à Votre Majesté, puisque mon livre lui est agréable, car il ne contient autre chose qu’un discours de ma vie et de mes actions». Montaigne: la vita Cominciamo dallo sbarazzarci di una difficoltà: la pronunzia. Nel francese antico la parola «montaigne» si pronunziava «montagne». Dopo, l'ortografia si adeguò alla pronunzia e si scrisse «montagne». I nomi propri, naturalmente, mantennero molto più a lungo la loro ortografia originale. Dunque il nostro caro scrittore, se potessimo udire la sua voce, si presenterebbe come «Michel de Montagne». Ma poiché, sventuratamente, la sua voce non possiamo udirla, dobbiamo chiamarlo come si chiamerebbe adesso: Michel de Montègne. Fate la prova: andate a Parigi e dite al taxì di portarvi
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«avenue Montagne»; non saprà dov'è. Dite «Montègne» e sarete direttamente portati nella bella ed elegante strada ombrosa che porta quel nome.
Michel Eyquem de Montaigne è nato a Bordeaux il 28 febbraio 1533. La sua famiglia era di recente ma assai ricca nobiltà e possedeva appunto il feudo di Montaigne, nel Périgord, del quale portava nome e dove Michel passò gran parte della sua vita. Sua madre era una ebrea, Antoinette de Louppes (Lopez), di una famiglia di ricchi ebrei toledani o portoghesi. Di questa ascendenza per metà ebraica rimangono notevoli tracce nel pensiero di Montaigne: la mancanza di pregiudizi, l’acutezza della percezione, il frequente piglio satirico. Con tutte le differenze di tempo e ambiente, molte pagine di Montaigne rassomigliano a quelle di Heine. Il padre, Pierre, prese parte a tutte le guerre d’Italia e scrisse un lungo e minuzioso diario durante quegli anni bellicosi, diario che sventuratamente si è perduto e del quale abbiamo soltanto notizia assai ammirativa nelle opere del figlio. Michel fu il maggiore di parecchi fratelli e sorelle dei quali non ci occuperemo perché non ebbero influenza alcuna sulla sua opera. Fece degli eccellenti studi umanistici e si rese padrone a fondo del latino e delle scienze naturali, assai meno del greco. A ventun anni fu ammesso a far parte della Corte dei Conti di Périgueux, da dove passò al Parlamento di Bordeaux (i parlamenti francesi, sino alla Rivoluzione, avevano mansioni giudiziarie e non politiche). Insomma, era un magistrato. Al Parlamento di Bordeaux Montaigne fece cono-
scenza di Étienne de la Boétie, coltissimo umanista più giovane di lui, e questa amicizia durata sei anni ebbe una grandissima influenza sul suo sviluppo intellettuale («L’idée de ces Essais est née des longues conversations
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à propos de tout et de rien que j'entretenais avec mon ami Étienne de la Boétie»). Negli anni 1559 e 1560 la situazione politica francese si aggrava in seguito ai dissensi religiosi. Avvengono torbidi nel Perigordino e nella Guyenne: Montaigne ha incarico di sedare i primi, La Boétie i secondi. Dopo tre mesi, a loro immortale onore, vengono revocati ambe-
due «parce que ils voulaient agir par la persuasion et non par la force». In quell'epoca Montaigne compie parecchi viaggi a Parigi ed in Normandia per incontrare il re. È questo il periodo della sua ambizione politica. Non conclude niente ma incontra alcuni indigeni del Brasile che gli fanno grande impressione «par leur dignité et simplicité». Nel 1565 prende per moglie Francoise de la Chassaigne, figlia di un suo collega al Parlamento, e cura la pubblicazione delle opere, sia latine che francesi, del defunto amico La Bottie. Nel 1571, avendo raccolto una importante biblioteca, si ritira in campagna, nel suo castello di Montaigne, e fa scrivere al disopra dell’ingresso della casa questa iscrizione: L’an de Christ 1571, àgé de trente-huit ans,... Michel de Montaigne, las depuis longtemps déjà de sa servitude du Parlement et des charges publiques, en pleines forces encore se retira dans le sein des doctes vierges où, en repos et sécurité -il passera les jours qui lui restent à vivre. Puisse le destin lui permettre de parfaire cette habitation des douces retraites de ses ancétres qu'il a consacrées à sa liberté, à sa tranquillité, à ses
loisirs.
I frammenti di questa lapide sono conservati al museo di Bordeaux. i Questo ritiro di Montaigne era quanto mai tempestivo: l’anno dopo la guerra civile scoppiava in Francia con feroce violenza. Montaigne non vi prende parte alcuna,
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è nominato da Carlo IX gentiluomo di camera, e comincia la redazione del libro I degli Essats. Nel 1576 fa coniare una medaglia in bronzo che porta su una faccia il suo stemma, e sull’altra una bilancia con i piattelli scrupolosamente equilibrati e sotto «aréyo», mi astengo, evidente allusione al disgusto che gli incutevano i due partiti in lotta. Nel 1580, tuttavia, la sua carica di corte lo costringe a
venir fuori dal suo rifugio ed a prender parte all’assedio di La Fère, dove corre, a quanto pare, grandi pericoli. Per evitare, probabilmente, il ripetersi di una nuova forzata presa di posizione, decide d’intraprendere un lungo viaggio in Svizzera, Germania ed Italia insieme ad un amico. Prima di partire, però, pubblica i primi due libri degli Essazs, che riportano un fulmineo successo. Visita Baden, Innsbruck, Verona, Padova, Venezia e Ferrara. Qui è ricevuto dal duca e si reca a fare omaggio
a Torquato Tasso, allora pazzo, del quale parlerà poi nei suoi Essazs con commossa intuizione. Il 30 novembre arriva a Roma dove risiede sei mesi. È
ricevuto dal papa Gregorio XIII del quale ci ha lasciato un «ritratto» penetrantissimo.
Il papa gli rivolge alcune miti osservazioni sui suoi Essais e gli rimprovera specialmente quello sulla «Liberté de conscience» consigliandogli di introdurvi alcune modifiche. Montaigne gli dice «que je préfererais plutòt avaler ma langue». Durante la sua assenza egli è stato eletto sindaco di Bordeaux, carica ben più importante di quanto possa sembrare data l’autonomia della quale allora godevano le città. Egli rifiuta la carica ma poiché viene eletto una seconda volta è costretto a rientrare in patria. Nel 1582 pubblica una seconda edizione degli Essais di molto aumentata e nel 1585 è assai occupato a frenare una grave pestilenza che dilaga a Bordeaux. Nel 1584 l’ugonotto re di Navarra, il futuro Enrico IV,
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diviene erede del trono di Francia; questo fatto segna una svolta nella condotta politica di Montaigne che, scorgendo in Enrico il campione delle proprie idee di compromesso e di clemenza, reputa suo dovere appoggiarlo. Nel 1584 egli incontra il futuro re che viene a visitarlo nella sua casa di campagna. «Nous nous promenàmes pendant trois heures dans le jardin, devisant le coeur ouvert et songeant à la facon de rémédier les plaies qui couvraient le corps de la France». Nel 1586 riceve in dono dall’umanista Pierre Charron un esemplare del Catechismo di Bernardino Ochino, il celebre eretico italiano. Il libro esiste ancora. Sulla prima pagina Montaigne scrisse: «Le livre est hérétique; je ne vais point le lire». Sull’ultima è scritto: «L’ai lu et en ai eu grand profit». Montaignismo puro. Nel 1588 si reca a Parigi per curare la quarta edizione degli Essais. È assalito, svaligiato e spogliato dai ladri «qui m’ont laissé nu comme un ver». Anche il manoscritto degli Essazs viene rubato, ma dopo tre giorni un contadino lo ritrova sotto un cespuglio e glielo rende «très mouillé par la pluie mais encore lisable». Il nome di questo contadino, che è stato uno dei grandi benefattori dell’umanità, è Jean Forest. L’attività politica di Montaigne diviene intensa: egli si adopera in favore di Enrico IV, viene imprigionato (per un giorno solo), e continua a comporre il terzo libro de-
gli Essais, il più personale ed intimo. È ammalato al cuore ed al rene. Nel giugno 1590 scrive ad Enrico IV una nobilissima lettera che è il suo testamento politico: «Je finis, Sire, par vous crier à l’oreille ce que point vous n’avez besoin d’ouir: Paix, clémence, piti&».* * La citazione è in realtà una libera elaborazione di Tomasi: nella
costruzione del portrait l’autore antepone l’efficacia del verisimile alla verità documentale. Le successive citazioni in francese antico
sono state confrontate con il testo originale, mentre quelle in francese moderno sono citazioni a memoria o rielaborazioni di Tomasi.
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Il 13 settembre 1592 muore durante la messa, al mo-
mento dell’elevazione. Questa fu la nobilissima vita dell’autore degli Essazs,
in tutto degna dell’alto senno e della umana comprensione della sua opera. La sua fama non si è mai spenta: subì una eclissi per cinquanta anni, dal 1669 al 1724, durante i quali non vi furono nuove edizioni degli Essais. Dopo, riprese per non più cessare. Sino al giorno d’oggi le edizioni francesi di Montaigne sono 1734. Nel 1837 il duca di Aumale trova, da un «bouquiniste» dei «quais» di Parigi, un esemplare dei Corzzentari di Cesare con seicento annotazioni di pugno di Montaigne. Lo acquista per 95 centesimi. Esso si trova adesso nella biblioteca di Chantilly, fra l’Aristofane annotato da Rabelais e l’Eschilo annotato da Racine.
Montaigne: la dottrina Nella loro apparente svagatezza e nella loro genuina bonomia gli Essais debbono contenere una qualche essenza che ferisce subito le narici di quei temperamenti sicuri di sé, autoritari e tenacemente illusi che sono la sventura dell’umanità. Napoleone, già, elencava Montai-
gne fra quegli «idéologues» che egli odiava. Mussolini, in quella enciclopedia dell’ignoranza e della presunzione che è la Prolusione all'anno accademico dell’Università per stranieri di Perugia, lo chiama «vacuo rètore» dimostrando che non aveva mai letto un rigo de-
gli Essais perché se qualcuno non è rètore questi è proprio Montaigne. Hitler, per conto suo, nei suoi Tischreden lo chiama «ein ungezàhmter jùdischer Rebell». Se il «jiidischer» è per metà vero, «l’indomato» e il «ribelle» sono di una falsità degna, davvero, di Hitler. La sola cosa che sorprende di questi spropositi è il
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fatto che Mussolini e Hitler conoscessero il nome (il nome soltanto) di Montaigne. Queste sciocche opinioni possono però esserci utili per farci indovinare uno dei pregi principali di Montaigne: la libertà dello spirito. Libertà totale in quanto esente anche dal vincolo del «non-dovere credere». Montaigne adora poco le divinità, anche la dea Ragione ed in ciò si dimostra superiore ai suoi seguaci del Settecento che erano liberi soltanto per andare a sinistra. Gli Essazs, a prima vista, sono un libro di ricerca, non
di conclusioni. Di ogni idea che gli passa per la testa Montaigne elenca tutte le ragioni per approvarla; dopo di che, piano piano, queste ragioni cambiano tono e quasi sempre senza che ce ne accorgiamo esse son divenute ragioni-per-non-approvare. Egli osa confessare che il fondo delle nostre conoscenze è instabile, «un souffle de printemps me fait croire à toutes les fables d’Ovide». Montaigne è la natura allo stato puro. Bisogna sentirlo quando parla e come parla degli animali e dei selvaggi. Sentiamolo intanto quando con gentile rassegnazione parla della propria vita: «J’en ay veu l’herbe et les fleurs et le fruit, et en vois la secheresse. Heureusement, pus sque c'est naturellement». Non è uno scrittore sistematico: attratto dallo scintillio delle idee, interrompe un suo ragionamento filato per inseguire fuochi fatui. Il ricordo di un passo di Plutarco o di Cicerone provoca in lui cento associazioni ed egli trascina il lettore per un itinerario che spesso ha soltanto vaghe relazioni col soggetto trattato; divagazioni dilettosissime perché sempre condotte con un brio e una voluttà nell’esprimersi che superano l’interesse del tema originario abbandonato. Lo vediamo infatti contemporaneamente in ammirazione di Platone e di Aristotele, di Zenone di Elea e di Epicuro, di Seneca e di S. Agostino; non già, si capisce, perché non veda come ciascuno di essi contradica l’altro
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ma anzi proprio per questo, perché nelle opposizioni di questi grandi pensieri egli scorge, per così dire, un archetipo delle contradizioni e dissonanze che sono nella natura delle cose. Contradizione che non lo dispera affatto anzitutto perché è nella natura delle cose e poi perché è manifestazione della libertà di pensare, solo piace-
re che esista quaggiù. Nulla, inoltre, vi è di più ingannevole che i titoli dei saggi. Molto spesso si occupano di tutt'altra cosa di quello che viene annunziato nel loro principio. Nel saggio V del libro II intitolato De /a conscience si parla delle torture giudiziarie (con accento che precede di due secoli Beccaria) e di alcune pur troppo svelte procedure. In quello sulla Liberté de conscience (che dispiacque al papa Gregorio XIII) non vi è in fondo altro che una difesa dell’imperatore Giuliano l’Apostata. Sta al lettore dedurre il significato riposto di queste che possono sembrare elucubrazioni in margine al soggetto. Il significato c’è, e non è marginale, ed è assai amaro. In conclusione chi pretende riassumere l’intera opera di Montaigne nel suo detto famoso «Que sais-je?» ha, alla superficie, ragione. Egli ha dato forma duratura all’angoscia dell’uomo dinanzi alla scarsità della propria conoscenza. Questo, come ho detto, alla superficie. Nel fondo della sua opera, nascosto sotto precauzioni, prudenze, esitazioni e sorrisi, un fondamento incrollabile c'è. Nel sag-
gio II del libro III (Du repentir) se ne lascia sfuggire la confessione: Mon jugement en a la coulpe ou la louange entiere; et la coulpe qu'il a une fois, il l’a tousjours, car quasi dès sa naissance il est un: mesme inclination, mesme route, mesme force. Et en matiere d’opinions universelles, dès l’enfance je me logeay au poinct où javois à me tenir.
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Questo fondo perenne del pensiero di Montaigne è l’a-religiosità. Egli è troppo penetrante per negare il fenomeno religioso negli altri, troppo prudente per conclamarlo ad alta voce per se stesso, ma il fenomeno reli-
gioso gli è personalmente estraneo. (È l’attitudine di Shakespeare.) Ma una presa di posizione nettamente ateistica gli avrebbe ripugnato: il barone di Holbach gli sarebbe sembrato altrettanto fanatico di Filippo II. «Ce sont des affaires privées dépendant de la configuration de nos humeurs». Il nocciolo intimo degli Essazs è contenuto nella Apologie de Raymond Sebond, il più lungo e il più impegnativo dei saggi, il dodicesimo del libro II. È questo saggio la difesa di un libro di apologetica cattolica contro i suoi detrattori. Questi si dividevano in due campi: alcuni dicevano che Sebond aveva errato volendo appoggiare la religione alla ragione: nella religione tutto è fondato sulla rivelazione e la fede, la ragione non deve averci nulla
da vedere. Altri obbiettavano che i ragionamenti di Sebond erano deboli e che non riuscivano a provare ciò che si voleva dimostrare. Montaigne si occupa dapprima di confutare i primi obbiettori: con quanta «dévotion» professata, con quanti riguardi! Mi rendo conto, dice, che la fede soltanto,
venuta all'uomo per via soprannaturale, può convincerci. Ma quanti hanno questa fede? «Les moyens humains sont les seuls par lesquels nous jouissons de la religion.» Se tutti credessero per rivelazione divina non ci sarebbe tanta varietà di opinioni, tanto divario fra parole ed azioni. Poiché questo divario c’è vuol dire che nella maggior parte degli uomini la religione è creduta per ragioni umane. E qui si abbandona a citare innumerevoli esempi con un piacere malizioso e finisce col concludere che finché la fede è posseduta da pochi tanto vale appoggiare la religione con argomenti umani. In seguito
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«la foi venant à teindre et illustrer les arguments, elle les rendra fermes et solides». ‘ È una ridda di conclusioni che si contradicono; il lettore rimane confuso; quando le idee gli si chiarificano si accorge lentamente che Montaigne, in religione, non crede né alla fede né alla ragione. Dopo Montaigne attacca quelli che trovavano deboli i ragionamenti di Sebond. E qui il suo brio e la sua malignità non conoscono limiti: i ragionamenti, dice, sono deboli, è vero, ma sono i migliori che si potessero fare. «Quels sont les raisonnements auxquels on n’en puisse opposer d’autres aussi concluants, ou plutòt aussi peu concluants?» E qui si abbandona ad una lunga (apparente) divagazione: si mette ad enumerare diecine di ragioni per le quali la mente umana isolata rimane nel dubbio rispetto alla religione. Quel che egli vuole è proprio distruggere la possibilità di provare razionalmente le cose religiose: «la religion doit étre à pic, seule sur la pointe d’un rocher, fantòme à étonner les gens». Una risata nascosta percorre tutto il saggio, quella risata sulle cose religiose nella quale doveva morire Molière, nella quale invecchiò e prosperò Voltaire. Che questo sia il saggio che più ha influenzato Pascal, il discepolo-nemico, non vi è dubbio. Gli argomenti delle Pensées
rintuzzano
uno
per uno
gli argomenti
dell’Apologie. Li seguono passo passo, spesso li superano in vigore polemico ed in vivacità; concludono differentemente ma la trama è quella indistruttibile tessuta da Montaigne.
Questo per il nucleo centrale della dottrina degli Essais. Che non si mostra soltanto nell’Apologie ma più marcatamente nel saggio sulle Prières («ces tristes et di-
vines chansons!») ed in quello sul Repenzir (libro III, saggio Il). E in diecine di passi in tutta l’opera, a propo-
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sito di qualsiasi cosa, nei quali si vede sprizzare la precisa (una volta tanto) convinzione dell’autore. Altre dottrine collaterali sono la compassione sdegnosa, ma costante, per gli uomini; un senso di fraternità (la parola non è esagerata) per gli animali «qui sont ce que nous sommes, excepté dans le parler» che fa così vivo contrasto con la teoria dell’automatismo che regnerà nel secolo seguente; e una tolleranza universale «qui est un devoir découlant de la faiblesse de notre entendement». Dottrine tutte che riallacciano Montaigne, fiore del Rinascimento, al secolo XIX, che furono soffocate dalla Controriforma e dall’asciuttezza ideologica dell’Illuminismo ma che erano destinate a rifiorire, speriamo per sempre malgrado la rinnovata voga dei fanatismi nel nostro secolo. E mi perdonerete se terminerò trascrivendo alcuni versi
di
Marceline
Desbordes-Valmore,
poetessa
dell'Ottocento ingiustamente ignorata, che se non li trascrivessi ignorereste per sempre e che rendono assai bene una parte dell’impressione che una lettura sostenuta di Montaigne può darci. A travers les vieux pins qui peuplent la campagne, Des pas qu’on n’entend plus sont restés imprimés: Je crois suivre les pas du paisible Montagne, Je crois saisir dans l’air ses accents ranimés. Aux lèvres des vieillards je cherche son sourire, Sa railleuse vertu, sa facile pitié, Ces préceptes du coeur que son coeur sut écrire, et son amour pour l’amitié. Il est doux, en passant un moment sur la terre
D’effleurer les sentiers où le sage est venu; D’entretenir tout bas son malheur solitaire Des discours d’un ami qu’on pense avoir connu...
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Montaigne: la sua arte Le idee di Montaigne possono essere belle e buone; altri le avevano avute prima, altri le avranno dopo. Se fossero state espresse da un «vacuo rètore» o da un asciutto «idéologue» nessuno se ne ricorderebbe più. Le idee sono sempre in numero limitato, come le sensazioni, come le confessioni. Unica droga che imbalsami per secoli le mummie delle idee, è lo stile. E bene scrive Sainte-Beuve, proprio a proposito di Montaigne: Le style, quand on l’a au degré de Montaigne, devient la boîte d’indulgence plénière auprès de la postérité... Le style, c'est un sceptre d’or à qui reste, en définitive, le royaume du monde.
Più che qualsiasi altro prosatore Montaigne ha posseduto il dono di esprimersi e di dipingere: il suo stile è una perpetua figurazione rinnovata ad ogni rigo; soltanto attraverso immagini ci comunica le proprie idee; e
tutte immagini differenti, facili e translucide. Appena ogni tanto un breve intervallo, nudo ed astratto, un fos-
sato soltanto da saltare fra due prati fioriti. Il famoso «obbiettivo correlativo» celebra in lui uno dei suoi maggiori trionfi. E che immagini! fresche, rugiadose, solatie; immagini
dello scrittore che vive in campagna e che respira le resine ed il rosmarino invece del lezzo di umanità e degli scoli delle cucine cittadine. Non vorrei che sembrasse esagerato il dire che gli Essais danno innanzitutto la sensazione di un’opera compiuta con voluttà dal suo autore. Del resto lo ha detto lui stesso: «les idées sont mes maîtresses». Quegli otto anni che egli trascorse nel dotto e comodo eremo della sua villa in campagna, dovettero essere anni di amorose rela-
zioni con quelle che lui chiama, come abbiamo visto, «les neufs vierges soeurs» e gli Essazs con il loro lusso di
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immagini non sono che un dono di riconoscenza per gli alti piaceri goduti. Nello stile degli Essais troviamo tanto il gusto che l’uomo prova nell’accumulare argomenti in favore della propria tesi, quanto quello dell’artista che gode nel vedere il proprio pensiero esprimersi in immagini lucide. Come tutto ciò che è il prodotto del piacere, gli Essazs sono disordinati. Per la loro natura stessa di ricordi di «pensieri», scritti in un lunghissimo tempo, ripresi, corretti, aumentati o rifatti interamente, l’idea di piano costruttivo ne è assente. Montaigne stesso ne era cosciente;
sentiamo come si scusa dopo uno dei suoi soliti scarti di pensiero: Cette farcisseure est un peu hors de mon theme. Je m’esgare, mais plustot par licence que par mesgarde; mes fantaisies me suyvent, mais par fois c'est de loing, et se regardent, mais d’une veué oblique... J'ayme l’alleure poètique, à sauts et à gambades...
Cosa obiettargli dinanzi a tanto candore espresso con cinque festose immagini? Abbiamo già parlato dell’inganno dei titoli che stanno al principio di ogni saggio. In un capitolo sui Cannibali troviamo il brano famoso e solenne sulle «quatre victoires soeurs», e le pagine più squisite che Montaigne abbia scritto sulla lingua francese le dobbiamo ripescare in un saggio Sur des vers de Virgile, provocate dal ricordo di un verso di Lucrezio e impostate nel centro di alcune considerazioni fra le più arrischiate che mai siano uscite da mente umana. L’Apologie de Raymond Sebond è il più sostenuto sforzo che Montaigne abbia compiuto per seguire un disegno logico; ed anche in esso, tuttavia, le divagazioni ed i «fuori tema» sono numerosissimi. Alcuni volenterosi studiosi hanno cercato di rimediare a questo disordine pubblicando delle edizioni degli Essais nelle quali il libro venerando è squartato e le sue
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«disiecta membra» di nuovo razionalmente raggruppate. Abbiamo così dei nuovi «Saggi» di argomento unitario e coerente: un saggio sull'amore, uno sulla religione, uno sull’amicizia, un quarto sulla religione, un quinto su se stesso, un altro ancora sulla morale e così via di seguito. È facile immaginare quale orrore ne sia risultato: la bella creatura viva e capricciosa è divenuta una mummia
rigida e muta; senza neppure che si sia
guadagnata una certa coerenza, perché il buon Montaigne cambiava opinione con gli anni, come qualsiasi persona d’ingegno, e nello stesso capitolo troviamo cinque o sei opinioni discordanti che così presentate appaiono arbitrarie mentre sono quanto mai plausibili ed accettabili tutte se presentate nel flusso vitale degli Essais successivi.
Del resto il sapientissimo uomo conosceva se stesso ed il suo stile benissimo: Je prends de la fortune le premier argument; ils me sont egualement bons, et ne desseigne jamais de les traicter entiers; car je ne veois le tout de rien. De cent membres et visages qu’a une chose, j'en prends un, tantost à leicher seulement, tantost à effleurer, et par fois à le pincer jusqu’à l’os: jy donne une poincte, non pas le plus largement mais le plus profondement que je sgais, et aime plus souvent à les saisir par quelque lustre inusité.
Tutte immagini, come vedete! Talvolta se lo rimprovera lui stesso questo lusso d’immagini: «Moi-méme me suis dit: “Tu es trop épais en figures”» e il rimprovero stesso è formato di una immagine evidente e umoristica. E altrove dice: «Mon style est comique et privé, serré,
désordonné, coupé, particulier: sec, rond et cru, apre et dédaigneux, non facile et poli... [J'ai] une condition singeresse et imitative».
Il suo stile è stato grandemente favorito dalla lingua che egli impiegava: vocaboli attinti a tutte le fonti, classi
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che, auliche, medievali, dialettali e tecniche; ogni parola scelta con gusto squisito e casereccio nello stesso tempo,
posta in luce dall’accorgimento istintivo con la quale vien collocata nella frase. C'est aux paroles à servir et à suyvre. Et que le gascon y arri-
ve, si le francois n’y peult aller... Le parler que j'aime, c'est un parler simple et naîf, tel sur le papier qu’à la bouche, un parler succulent et nerveux, court et serré, non tant délicat et peigné comme véhément et brusque;... plustost difficile qu'ennuyeux, esloigné d’affectation; desréglé, descousu et hardy; chasque loppin y face son corps; non pedantesque, non fratesque, non plaideresque, mais plustost soldatesque.
Vi è mai stata «Ars poetica» più poeticamente espressa?
Va da sé che gli Essazs bisogna leggerli, rileggerli e ri-rileggerli cinquanta volte, dalla prima all’ultima parola. Si può cominciare dal primo saggio o dall’ultimo: fa lo stesso. Se vi è uno scrittore che, letteralmente, dia un eguale piacere a ciascuna sua pagina, questi è Montaigne.
E mi piace finire queste brutte pagine non esplicative ma esortative con il bel passo di Sainte-Beuve nel Port Royal nel quale s'immagina il funerale di Montaigne, seguito da tutti gli scrittori di Francia, del passato e dell’avvenire: A còté du cercueil, Shakespeare, son aîné par le génie, son camarade par la sagesse; suivent les autres qui plus ou moins se rattachent à lui, qui ont profité en le lisant, et y ont pris pour un quart d’heure de plaisir; ceux qu'il a guéri du solitaire ennui; ceux enfin qu'il a fait penser en les faisant douter; Racine qui a osé montrer ses larmes, Molière qui a osé montrer son doute; La Fontaine qui comme lui aimait les bétes, Mme de Sevigné qui comme lui avait le coeur au bout de sa plume; La Bruyère, Montesquieu et Jean-Jacques qu'il a piqués d’émulation et qui l’ont imité avec gloire. Voltaire à part, qui pour une fois, n’ose pas se moquer, car il se moquerait de lui méme;
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beaucoup de moindres, péle-méle, parmi lesquels nous tous, les vivants. Pascal, seul, dans un coin, a prié.*
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Tomasi ricostruisce a memoria l’impressione che aveva provato alla lettura delle «funérailles» di Montaigne oniricamente ipotizzate da Sainte-Beuve. Il testo di Sainte-Beuve è il seguente: «Montaigne est mort: on met son livre sur son cercueil; le théologal Charron et MIle de Gournay — celle-ci sa fille d’alliance, en guise de pleureuse solennelle, — sont les plus pròches qui l’accompagnent, qui mèment le deuil ou portent les coins du drap, si vous voulez. Bayle et Naudé, comme sceptiques officiels, leur sont adjoints. Suivent les autres qui plus au moins s’y rattachent, qui ont profité en le lisant, et y ont pris pour un quart d’heure de plaisir; ceux qui’il a guéris un moment du solitaire ennui, qu'il a fait penser en les faisant douter; La Fontaine, Mme de Sévigné comme cousine et voisine; ceux comme La Bruyère, Montesquieu et Jean-
Jacques, qu’il a piqué d’émulation, et qui l’ont imité avec honneur;
- Voltaire à part, au milieu; - beaucoup de moindres dans l’intervalle, péle-méle, Saint-Evremond, Chaulieu, Garat..., j’allais nommer nos contemporains, nous tous peut-étre qui suivons... Quelles
funerailles! s’en peut-il humainement de plus glorieuses, de plus enviables au 7707? Mais qu’y fait-on? A part Mlle de Gournay qui y pleure tout haut par cérémonie, on y cause; on y cause du défunt et de ses qualités aimables, et de sa philosophie tant de fois en jeu dans la vie, on y cause de soi. On récapitule les points communs: “Il a toujours pensé comme moi des matrones inconsolables”, se dit La Fontaine. — “Et comme moi, des médecins assassins”, s’entredisent à la fois Le Sage et Molière. — Ainsi un chacun. Personne n’oublie sa dette; chaque pensée rend son écho. Et ce 720f human du défunt qui jouirait tant s'îl entendait, où est-il? car c'est là toute la question. Est-i/? et s’il est, tout n’est-il pas changé à l’instant? tout ne devient-il pas immense? Quelle comédie jouent donc tous ces gens, qui la plupart, et à travers leur qualité d’//lustres, passaient pourtant pour raisonnables? Qui mènent-ils, et où le mè-
nent-ils? où est la bénédiction? où est la prière? Je le crains, Pascal seul, s'il est du cortège, a prié.»
Tomasi ha introdotto nel «cortège» il prediletto Shakespeare, montaignista principe per affinità e grandezza, mentre Sainte-Beuve si attiene ad un Parnaso rigorosamente francese.
Sezione prima
LA GRANDE SVOLTA
LA LETTERATURA DURANTE IL REGNO DI ENRICO IV
Troppo facilmente si è dimenticato lo stato miserando nel quale le guerre religiose avevano lasciato la Francia, quando ebbe inizio il regno riparatore di Enrico IV. Le campagne devastate sino all'osso, la nobiltà decimata dalle battaglie e dai supplizi, le larghe stragi del popolo minuto, le carestie e gli eserciti inglesi e spagnoli accampati nel paese e combattenti sul suolo e fra le case francesi, la
caduta a picco della civiltà e del prestigio nazionale. Ma non dovremo qui occuparci dei danni economici e politici: soltanto di quelli culturali che erano altrettanto vasti. Parigi, tre volte assediata e tre volte ripresa dal nemi-
co, aveva perduto qualsiasi influenza civilizzatrice. I centri provinciali di cultura che abbiamo visti così floridi erano moribondi: Lione, rovinata dalla mancata esportazione dei suoi manufatti di seta, agonizzava; la vallata della Loira, culla della Pléiade, era stata selvaggiamente percorsa dalle bande opposte dei combattenti; «en nul endroit les dégàts de la guerre sont plus hideux qu’ici»; Bordeaux, che si onorava del nome di Montaigne, era sede di un governatore spagnolo, era devastata dalle pestilenze e dalle carestie; Pierre Charron scrive nel 1591: «On ne voit ici que corps sans sépulture, men-
diants affolés et chiens faméliques». Nelle regioni meno devastate erano sorti dei centri intellettuali minori: ad Agen sopravviveva una accademia poetica, a Caen in Normandia un nucleo di intellettuali era riuscito a superare la bufera; da questo gruppo uscirà fra poco Corneille.
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Letteratura francese
La Corte che sotto Francesco I e gli ultimi Valois era stata un potente centro di incivilimento, errava, impove-
rita, da castello devastato a castello incenerito.
Sulla lingua francese stessa gli effetti di questi tempi tragici erano stati deleteri. In quell’epoca di analfabetismo all’ottanta per cento le influenze straniere dei soldati di passaggio e dialettali erano vivacissime. «Dans les campagnes on entend parler l’espagnol et l’anglais; et les termes les plus crus du jargon infime sont montés sur les lèvres des plus belles dames» scrive lo stesso Charron. I numerosi vocaboli stranieri che troviamo nel francese odierno sono stati tutti adottati in quello scorcio del XVI secolo. L'italiano fornì: «escorte, courtisan, spadassin, bouffon, costume, infanterie, cavalerie, grotesque,
charlatan, réussir»; lo spagnolo «colonel, amiral, algarade, habler, bizarre, parangon»; i mercenari tedeschi e
svizzeri molte delle innumerevoli parole vituperose che il francese possiede, «chenapan» per esempio che è il tedesco «Schnapphahn». Nel 1539 si era avuto il famoso decreto di Francesco I che rendeva obbligatorio l’uso della lingua francese «telle qu’on la parle à la Cour» nei dibattiti giudiziari, detronizzando così il latino fino allora in uso. Nel 1592 si dovette, per un breve periodo, ritornare al latino: i dialetti avevano risommerso la lingua che pochi ormai comprendevano. La lingua si era enormemente arricchita ma in modo ineguale: un francese di Rouen possedeva un bagaglio linguistico del tutto differente da un francese di Bordeaux. In Inghilterra un simile stato della lingua non avrebbe spaventato nessuno: il tempo, si sarebbe detto, aggiusterà tutto. Non così in Francia dove l’amore per la logica e la precisione era innato; bisognava ad ogni costo pareggiare le varie parlate, fornire ogni abitante di un utensile linguistico comune a tutti; mettere in ordine le cose, in poche parole.
Il Seicento
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In quel tempo due lingue europee sembravano destinate a diventare «lingue universali» della società colta: l'italiano e lo spagnolo. L’italiano per la vetustà della propria cultura, per le opere letterarie che in esso si producevano, allora grandemente ammirate, ed anche per l’indiretta ed involontaria influenza della Chiesa il cui personale direttivo era tutto di lingua italiana; lo spagnolo per l’egemonia politica del paese e la sua influenza sui costumi della gente. Né l’una né l’altra lingua si affermò. Nella corsa all’egemonia culturale vinse un «outsider»: il francese, che rimase durante i secoli XVII, XVIII e XIX la lingua
che ogni persona colta conosceva, la lingua della politica e della diplomazia, la lingua della civiltà. Nel Settecento un francese colto poteva girare tutta l'Europa, da Londra a Pietroburgo e da Stoccolma a Cadice, e frequentare tutte le accademie ed i salotti senza conoscere altro che il suo linguaggio materno. Come mai poté il francese prendere un tale sopravvento uscendo dallo stato di rimbarbarimento e di dominio di dialetti nel quale lo aveva trovato Enrico IV salendo al trono? Mercé l’opera instancabile e superiormente intelligente di un gruppo di scrittori che dal 1595 al 1640 circa rifecero la lingua, la ripulirono delle sue escrescenze, fissarono un criterio di purezza, imposero dei dogmi, e crearono quella lingua del Seicento (che è poi ancora quella attuale colta) che è supremamente precisa, lucida ed inossidabile come uno strumento chirurgico ben adatto a quelle dissecazioni di pensieri e sensazioni dei quali lo spirito francese è avido. Uno dei più sobri, asciutti e meravigliosi strumenti
dello spirito umano. Questi scrittori non furono dei grandi artisti. In un certo senso formarono una generazione di sacrificati che spesero le loro forze per creare lo strumento del quale si
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servirono poi grandi artisti della leva seguente, cominciando da Corneille. Nessuno sforzo deve essere dimenticato, anche quando non ha dato risultati estetici (eppure in Malherbe, Régnier, Racan e Saint-Amant i risultati estetici spesso esistono); è un dovere morale.
Quindi dovrete sottostare per qualche pagina ad una dieta alquanto coriacea: niente pasticcini e «Leckerbissen», ma odori di cucina, sgradevoli, che però condizionano i banchetti futuri. Dovrò però uscire talvolta fuori tema: raggrupperò tutti quegli scrittori che formarono la lingua francese del Seicento anche se si trovano al di fuori del regno di Enrico IV.
GLI SCRITTORI RIFORMATORI
Adesso diciamo, tanto per esser brevi, che la riforma della lingua francese, della sua grammatica, della sua metrica è stata fatta da Malherbe, Racan, Balzac, Voiture, Descartes ed altri. Ma questi scrittori, per quanto go-
dessero di un prestigio che nessun autore possiede ai nostri tempi, non avrebbero potuto farlo così, di punto in bianco, se non si fossero serviti di due organizzazioni che a noi adesso sembrano invecchiate ma che allora erano fresche e nuove come lo sono per noi la bomba H e l’aviogetto: l'Accademia e i salotti. Tutte e due queste istituzioni potentemente coadiuvate dal governo che ad un’opera di riassestamento e di unità nazionale aveva evidente interesse. Anche questi riformatori del Seicento sapevano quel che sappiamo noi: che la lingua non è cosa artificiale, che essa si crea da sé, e che tutto ciò che il singolo uomo
può fare è d’incanalare l’«uso». Ma l’«uso» di chi? Vi era l’«uso» dei galeotti di Tolone, quello degli insegnanti della Sorbona, quello dei magistrati e quello dei delinquenti; vi era l’«uso» (anzi gli «usi») dei contadini, mol-
teplice, variegato, incomprensibile da una parte all’altra della Francia. Occorreva scegliere un «uso» il più possibile comune a tutti, non troppo intinto di termini tecnici ignoti alla maggioranza, non appesantito da termini giuridici e teologici, un «uso» un po’ astratto, disossato. Non vi era che l’uso delle persone bene educate se non sempre colte, delle persone che giornalmente ne frequentavano molte altre senza per questo parlare di bottega, che fossero costrette ad una certa ritenutezza di
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Letteratura francese
termini dalla presenza del re e delle signore. L’uso della corte.
Perché, cessata la bufera, la corte si andava riformando. Il re risiedeva di nuovo a Parigi, attorno a lui si anda-
va riunendo la nobiltà, a lui affluivano per forza di cose i magistrati, i dotti, gli amministratori, gli sfaccendati eleganti. Era una corte ancora assai militaresca, nella quale i vecchi «ligueurs» e ivecchi ugonotti che la saggezza regale aveva costretto a riconciliarsi si stringevano la mano ricordando quanti colpi di moschetto si fossero tirati; una corte rude, povera, ben dissimile da quella raffinata e colta di cinquant'anni prima e di cinquant'anni dopo, ma che dopo tutto radunava quanto di meglio vi fosse in Francia, quel ristretto numero di persone che per la loro posizione sociale, per la loro fortuna, erano sfuggite al rinselvatichimento del resto del paese. Questa cerchia di persone, come avviene dopo i grandi cataclismi, era percorsa da fremiti di rinnovamento,
da sete di novità. Ci si burlava del vecchio d’Aubigné che ancora rimasticava i propri rancori calvinisti in versi arcaici, si aspirava ad una temperatura mite ed eguale che aiutasse a dimenticare i vecchi guai, si aveva, come
sempre in Francia, una vivace curiosità intellettuale. Come sempre dopo la guerra, i poeti della Pléiade, che pure erano morti da dieci anni soltanto, sembravano lontanissimi nel tempo; si desiderava della poesia nuova magari mediocre. Il re, di spirito vivacissimo ma alieno da impulsi culturali, era ben lieto di derivare nei canali letterari e linguistici l’attenzione dei suoi vicini sempre pronti a scattare in rissa al riaffiorare di tremendi ricordi. «Et puis je veux régner sur un pays où chacun puisse
me comprendre quand je parle.» Saggio e modesto desiderio. Questa politica letteraria fu continuata ed intensificata da Richelieu che finì addirittura col fondare l'Accademia di Francia.
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Dopo tanti decenni passati o in combattimenti o in
compagnia di donne di malaffare, molti personaggi della corte aspiravano alla frequentazione di signore, belle certamente e non bigotte, ma costumate, colte e dotate di uno spirito che non fosse quello corrente nei corpi di guardia. D'altra parte un certo numero di signore trovarono troppo rude e libertino il tono di quella corte non del tutto dirozzata e si ritirarono nei loro appartamenti privati, dove potevano incontrare soltanto chi loro piacesse. Da queste due serie di transfughi, ciascuna delle quali rappresentava la parte più fine della società, nacquero i famosi «salons» che per più di due secoli ebbero tanta importanza nella letteratura francese. Il più famoso di questi salotti fu quello della marquise de Rambouillet, che venne affiancato da quello di Mme des Loges, calvinista, di Mme de Sablé, di Mlle de la
Croix, della viscontessa d’Auchy e, più tardi, di MIle de Scudéry. La marchesa di Rambouillet (romana di nascita, cir-
costanza che i libri francesi puerilmente tacciono) era una donna virtuosissima, colta senza pedanteria (non scrisse mai niente e di lei non rimangono che biglietti insignificanti), di carattere gaio e che faceva alla perfezione la sua parte di padrona di casa, costituendo un centro senza mai far pesare la propria importanza. «La chambre bleue d’Arthénice» (anagramma di Catherine) divenne presto celebre. Vi frequentavano altre signore, anzitutto le due sue figliuole, Julie d’Angennes e Angélique; MIle Paulet, la bellissima donna chiamata «la lionne» a causa della capigliatura fulva, MIle de
Bourbon, Mlle de Coligny. Fra gli uomini i maggiori frequentatori erano Montausier ed il principe di Marcillac (cioè quello che poi divenne il famoso La Rochefoucauld). Gli scrittori più famosi vi erano tutti: Malherbe, Racan, Gombauld, Balzac, Chapelain, Benserade, Godeau, Rotrou; sul tardi vi
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Letteratura francese
comparve Corneille; Pascal vi fece qualche fugace apparizione; Voiture era il più assiduo ed il vero dominatore del salotto. Questo «salon» di Mme de Rambouillet costituiva una novità assoluta: perché in esso non si veniva per pranzare, per giocare, per assistere a rappresentazioni: ciò si era sempre fatto, ovunque. Dalla marchesa di
Rambouillet si veniva unicamente per chiacchierare o meglio (per evitare la punta di biasimo che vi è nel nostro «chiacchierare») per «causer», per conversare. È
facile indovinare i vantaggi che arrecava questa istituzione: i gran signori allargavano le proprie idee avvicinando i begli ingegni del tempo; gli scrittori erano sottratti alla frequentazione delle taverne ed apprendevano le belle maniere; gran signori e scrittori dovevano sorvegliare i primi i propri scatti di alterigia, i secondi l’irresistibile maldicenza letteraria, davanti alle signore che erano sorridenti sì, ma severe.
Fu dal salotto di Mme de Rambouillet e da quello di Mme des Loges che si produsse quella tradizione dell’aristocratico-uomo di lettere e dell’uomo di letterebene educato che fiorì così vigorosamente nel Sei e Settecento francese e che, del resto, non è scomparsa anco-
ra in Francia. Si venne a creare così una forma sociale di letteratura del tutto diversa da quella italiana ed inglese: una forma di letteratura evolventesi su idee astratte, che rifugge da qualsiasi volgarità di espressione, dedicata alla quintessenza dei movimenti d’anime di creature elette; letteratura che diede fiori magnifici nel suo vigoreggiare ma che doveva, fatalmente, disseccarsi presto e che non poté esser rinvangata da altro che dall’influsso romantico venuto dal di fuori. Poiché da Mme de Rambovillet si conversava, occorreva conversare bene. Occorreva maneggiare un lin-
guaggio preciso, spiritoso, rapido e di buona compagnia. Occorreva saper criticare senza offendere, lodare
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1493
senza adulare, cose che richiedono una grande finezza di espressione. La funzione creò l’organo; il salotto creò «le beau langage». Le quistioni di lingua finirono con l’appassionare la società: l'eliminazione dei barbarismi, della tracce dia-
letali, dei giri sintattici italiani e latini divenne una necessità; e quando Voiture o Benserade avevano finito di declamare il loro nuovo sonetto, le discussioni più vivaci si aprivano sulla esattezza più o meno grande di un tale aggettivo, sulla efficacia di un certo verbo, sulla esattezza metrica.
Discussioni che adesso possono sembrare sciocche; ma che lo sembreranno meno ove si pensi che da esse è uscita quella lingua duttile, precisa e sfumata che è la lingua francese. Le discussioni linguistiche finirono con l’assumere una tale ampiezza che alcuni letterati (Conrart, Malherbe, Godeau, Vaugelas) decisero di formare un circolo se-
parato dove essi, i loro colleghi ed alcune personalità dell’aristocrazia e della politica potessero riunirsi e parlare soltanto di questo. Il cardinale di Richelieu, letterato anche lui ed autore di pessime tragedie, accordò la sua protezione nel 1634: questo circolo venne approvato con
decreto regio e venne chiamato «Académie francaise». Molte delle critiche che vengono rivolte a questo celeberrimo istituto cadrebbero se si riflettesse che esso non intende essere una raccolta dei migliori scrittori di Francia, ma un circolo di amatori della bella lingua e del bello
scrivere nel quale gli scrittori hanno, come è naturale, una parte preponderante ma nel quale hanno diritto di accesso le celebrità politiche, militari e della buona società. Vediamo un po’ adesso chi furono i protagonisti di questo singolarissimo movimento letterario e mondano.
FRANCOIS DE MALHERBE (1555-1628)
È un personaggio strano e poco simpatico. Nato a Caen,
in Normandia, e dotato di grandi beni temporali, vien formandosi in quel piccolo centro culturale di provincia, fino al momento in cui i suoi versi attirano l’attenzione di alcuni amici parigini. Vien chiamato a corte, vi riceve una carica e da allora segue la carriera del perfetto cortigiano con tutto ciò che di basso e di ridicolo va adesso congiunto a quel nome. Adulatore sfrenato dei potenti ed insultatore velenoso di questi stessi potenti quando siano caduti in disgrazia, sempre alla caccia di favori e di pensioni, avendo sempre in tasca un’ode celebrativa o un sonetto calunnioso. Del resto non amava neppure la poesia: «Un bon poète n'est pas plus utile à l’état qu’un bon joueur de quilles». «Les vers seront beaux pour moi, s’ils me procurent une augmentation de pension.» Ed un poeta infatti non era, se come poeta intendiamo una sensibilità acuta ed una facoltà di esprimere questa sensibilità in immagini.
Ma allora che cosa era? Un uomo di gusto, un perfetto artigiano, un tempera-
mento di legislatore. Doti minori ma indispensabili a forgiare la gabbia dorata nella quale vedremo muoversi, feroci ma composte, queste bellissime tigri, Corneille, Racine, La Fontaine.
Nel 1606 egli si inimica decisamente con Despottes, ultimo epigono della Pléiade. Egli accusa Desportes (e attraverso lui Ronsard, du Bellay ed altri) di avere «la forme latine et la pensée patoise», di essere disordinati,
Il Seicento
sovraccarichi di ornamentazione,
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sentimentali e «en
somme inutiles». Sembra udire una delle diatribe degli attuali italiani letterati contro D'Annunzio. Malherbe esige dallo scrittore tre cose: purità (cioè eliminazione dei residui dialettali, esclusione delle licen-
ze poetiche); chiarezza (il verso deve essere istantaneamente comprensibile da qualsiasi persona colta); precisione («ne dites pas que vous mourez d’amour si seulement vous languissez»). Inoltre sobrietà nell’uso degli ornamenti («du moment que le goùt pervers du public ne peut s’en passer»). Precetti magnifici che sembrano profetizzare il più puro Racine. Precetti pericolosi che recheranno con sé l’essicamento della poesia francese iniziatosi nel Settecento e che del resto anche durante l’età dell’oro vieteranno il formarsi di una grande lirica. Circa la lingua da usarsi egli consigliava di ascoltar parlare i facchini del porto fluviale di Parigi, e di parlare come loro «après avoir nettoyé le discours de tout mot sentant le corps». Disgraziatamente «les mots sentant le corps» erano troppi per il gusto di Malherbe; e questa frase contribuì a quel dirozzamento della lingua che ci ha dato le meravigliose fioriture astratte di La Rochefoucauld e di Racine, ma che dopo ha prodotto le-
gioni di scrittori piatti dato che nessun miracolo può durare a lungo. Guerra alle parole arcaiche. Coéffeteau rimproverato con ira da Malherbe per aver adoperato la parola «ains» in un sonetto, dovette passare una settimana a letto. Questo precetto purificò ma impoverì la lingua. Guerra ai latinismi ed ai grecismi. Malherbe vuole si vieti l’uso della locuzione «larges pleurs» («Bon en latin qui ne vaut rien en frangais») senza sospettare che da essa, più di due secoli dopo, sarebbe nato uno dei più magici versi della lirica francese. Guerra anche ai neologismi ed ai diminutivi.
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Letteratura francese
Il suo orecchio era teso per acchiappare le minime improprietà di linguaggio: Desportes, il poveretto, aveva scritto: un seul cri ne m’échappa aux plus fortes langueurs
Malherbe s’inviperisce! «Les langueurs sont de leur nature indolentes et peu criardes.» E così via di seguito per trecento pagine in ottavo.
Poi si occupa della metrica. Scarta la maggior parte dei metri inventati nel Cinquecento; ne mantiene soltanto alcuni, scelti, occorre dirlo, con gusto perfetto; impone regole severissime per le rime (divieto di far rimare vocali lunghe con vocali brevi [«àme» con «dictame»], divieto di far rimare parole sorelle [«père» con «mère»], divieto di far rimare la parola semplice con la composta [«père» con «compère»]; e mille altri divieti). Si va co-
struendo quella tale gabbia dorata. Guerra agli iati, severa restrizione degli scavalcamenti di versi. Un visibilio di «verboten»; una potatura severissima: durante le due stagioni successive la fioritura sarà magnifica; poi l'albero si disseccherà. Malherbe stesso, irretito dai propri divieti, evidentemente pativa nel comporre le sue odi; lui non era, come sarà poi Racine, tanto gonfio di sentimento poetico da apparire libero pur fra le mille strettoie. Talvolta però l’artigiano valentissimo che egli era riesce a dare alla sua stessa manifattura un tale lucido e una tale levigatezza da trasformare il mobile in una quasi-opera-d’arte. Non vi citerò l’ode famosa a Monsieur du Périer che è nella memoria di tutti e che infatti è la sua migliore. Udite invece queste melodiose considerazioni sulla morte: Tout ce que la grandeur a de vains équipages, D’habillement de pourpre et de suitte de pages, Quand le terme est écheu n’alonge point nos jours; Il faut aller tout nus où le destin commande;
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Et de toutes douleurs la douleur la plus grande C'est qu'il faut laisser nos amours.
Oppure queste aggraziate visioni campagnole in un’ode celebrante il ritorno della pace: b)
.
è
La terreur de son nom rendra nos villes fortes,
On nen gardera plus ny les murs ny les portes, Les veilles cesseront aux sommets de nos tours; Le fer, mieux employé, cultivera la terre, Et le peuple qui tremble aux frayeurs de la guerre, Si ce n’est pour danser, n’aura plus de tambours. Tu nous rendras alors nos douces destinées: Nous ne reverrons plus ces fascheuses années, Qui pour les plus heureux n’ont produit que des pleurs; Toute sorte de bien comblera nos familles, La moisson de nos champs lassera les faucilles, Et les fruits passeront la promesse des fleurs.
O questa visione pastoralmente libertina: L’air est plein d’une haleine de roses, Tous les vents tiennent leurs bouches closes,
Et le Soleil semble sortir de l’onde Pour quelque amour plus que pour luire au monde. On diroit, à luy voir sur la teste Ses rayons comme un chapeau de feste, Qu’il s’en va suivre en si belle journée Encore un coup la fille de Pénée.
Il fait chaud, mais un feuillage sombre Loin du bruit nous fournira quelque ombre, Où nous ferons, parmy les violettes, Mepris de l’ambre et de ses cassolettes. Près de nous, sur les branches voisines Des genests, des houx et des espines,
Le rossignol, deployant ses merveilles,
Jusqu’aux rochers donnera des oreilles.
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Et peut-estre, à travers les fougères, Verrons-nous de bergers à bergeres, Sein contre sein, et bouche contre bouche,
Naistre et finir quelque douce escarmouche.
Non sono gran cosa, me ne avvedo. Ma vi è una certa freschezza ed una ingenuità assai bene imitata.
HONORAT DE RACAN (1589-1670)
Racan, anzi Honorat de Bueil, marquis de Racan, fu il tipo perfetto del discepolo. Seguì con entusiasmo le dottrine di Malherbe, raccolse i suoi detti, pubblicò dopo la morte di lui le sue opere complete, lo esaltò al di sopra di tutti gli altri poeti e soprattutto al disopra di se stesso. Invece come poeta Racan valeva più di Malherbe. Non ha, va da sé, l’importanza che il suo maestro ebbe
nella evoluzione della poesia francese, ma i suoi versi (rigidamente «malherbiani», non occorre dirlo) valgono di più. Egli ha un sentimento genuino della natura che Malherbe ebbe soltanto attraverso gli arazzi (ai quali tanto rassomigliano le poesie citate or ora), il suo verso scorre più facile e meno agghindato, riesce talvolta a commuoverci. Vogliamo assaggiarlo? Que cette nuict est longue et fascheuse à passer! Que de sortes d’ennuis me viennent traverser! Depuis qu’un bel objet a ma raison blessée, Incessament je voi des yeux de ma pensée Cet aymable Soleil, autheur de mon amour,
Qui fait qu’incessament je pense qu'il soit jour. Je saute au bas du lict, je cours à la fenestre, Jouvre et hausse la veué et ne vois rien parestre Que l’ombre de la nuict, dont la noire pasleur Peint les champs et les prez d’une mesme couleur; Et cette obscurité, qui tout le monde enserre,
Ouvre autant d’yeux au Ciel, qu'elle en ferme en la terre. Chacun jouyt en paix du bien qu'elle produit, Les cocgs ne chantent point, je n’entens aucun bruit,
Sinon quelques Zephirs qui le long de la plaine
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Vont cajolant tout bas les Nymphes de la Seine. Maint phantosme hideux, couvert de corps sans corps, Visite en liberté la demeure des morts. Les troupeaux, que la faim a chassez des bocages, A pas lents et craintifs entrent dans les gagnages; Les funestes oiseaux qui ne vont que la nuit Annoncent aux mortels le malheur qui les suit;
Les flambeaux éternels qui font le tour du monde Percent à longs rayons le noir cristal de l’onde, Et sont veus au travers si luisans et si beaux Qu'il semble que le Ciel soit dans le fonds des eaux.
È un bel notturno campagnolo, non c’è che dire, e gli alterni scoramenti ed incantesimi delle notti d’insonnia sono resi con vera arte. Racan tradusse anche in versi i Sa/zz7 con grande varietà di ritmi e di metri, dando così inizio a quella lirica religiosa del Seicento che, con Corneille e con Racine,
sarà la sola che raggiungerà un qualche livello d’arte.
Frangois Maynard (+ 1646) fu un altro dei discepoli diretti di Malherbe (indirettamente lo furono quasi tutti i poeti francesi sino a Chénier). Magistrato, dispiacque a Richelieu che gli ordinò di ritirarsi nelle sue terre ad Aurillac. Di lui sopravvive nella memoria di tutti un sonetto irregolare che è accorato e assai dolce: Mon àme, il faut partir. Ma vigueur est passée, Mon dernier jour est dessus l’horizon. Tu crains ta liberté. Quoi? n’es-tu pas lassée D’avoir souffert soixante ans de prison?
e così via di seguito.
ALTRI POETI «MALHERBIANI»
Sono molti, e benché tutti abbiano la loro importanza nel processo formativo della lingua francese moderna e dello spirito classicistico, non posseggono alti valori estetici. Così faremo a meno di parlare di Benserade, di Godeau, di Conrart, di Chapelain e di Voiture in quanto poeta. Essi scatenavano grandi odi celebrative o confezionavano madrigaletti zuccherati per le dame del loro cuore o per le loro «mecenatesse». Sempre corretti, molto spesso spiritosi, s'incontra talvolta in essi qualche bel verso sognante che dev’esser scappato loro per puro caso. Ma non è inutile conoscere il loro nome perché se non si sapesse chi sono una parte delle opere posteriori, di Molière, di La Fontaine e financo di Bossuet nelle
quali sono spesso citati, rimarrebbe enigmatica. Di tre di essi occorrerà parlare un po’ più a lungo perché posseggono un reale seppur limitato valore.
Théophile de Viau (1590-1626) fu assai malfamato mentre visse. Le sue poesie sono di una estrema licenziosità ed egli fu anche accusato di esser ateo. Tecnicamente però è perfetto e quando dimentica per qualche tempo (per breve tempo) di essere quasi per obbligo un poeta libertino diviene un poeta senza aggettivi. Vogliamo sentirlo? (niente paura, è tutto ben scelto): Mon Dieu que tes cheveux me plaisent, Ils s’esbattent dessus ton front, Et les voyant beaux comme ils sont Je suis jaloux quand ils te baisent.
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Letteratura francese
Belle bouche d’ambre et de rose Ton entretien est desplaisant, Si tu ne dis en me baisant, Qu’aymer est une belle chose
Je baigneray mes mains folastres Dans les ondes de tes cheveux,
Et ta beauté prendra les voeux De mes oeillades idolastres. e ancora
Dans ce Parc un valon secret Tout voilé de ramages sombres, Où le Soleil est si discret Qu'il n’y force jamais les ombres,
Presse d’un cours si diligent Les flots de deux ruisseaux d’argent, Et donne une fraischeur si vive A tous les objets d’alentour, Que mesme les martyrs d’Amours Y trouvent leur douleur captive. Un estanc dort là tout auprès...
Un froid et tenebreux silence Dort à l’ombre de ces ormeaux Et les vents battent les rameaux D’une amoureuse violence
e questa delicata notazione psicologica: Dieux! que c'est un contentement Bien doux à la raison humaine Que d’entraler si doucement La douleur que nous fait la haine!
Théophile de Viau scrisse anche una tragedia, Pyramze et Thisbé, della quale sopravvivono due versi ridicoli:
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AR! voici le poignard qui du sang de son Maistre S'est soilillé laschement: il en rougit, le Traitre!
Anzi è soltanto per questi due versi infelici e per la sua riputazione licenziosa che il ricordo di de Viau sopravvive. Come avete visto egli merita miglior fama. (Scusate il mio culto per i «minori».) Saint-Amant (* 1661) rimane noto come autore di poesie bacchiche (quelle famose «chansons à boire» che ancora godono di tanto favore nel grosso pubblico francese) e come iniziatore di quel genere di poesia burlesca che doveva, poco dopo, svilupparsi nella prosa di Scarron e di Furetière. Anche egli però ha scritto dei versi delicati e sfumati. Leggiamone quattro (anzi tre). Jescoute à demi transporté Le bruit des ailes du silence Qui vole dans l’obscurité
Tristan l’Hermite ($ 1655) in parecchie storie della letteratura non viene neppure nominato. Ne ho disseppellito una canzone in un’antologia e ve la offro, in frammenti; mi sembra il miglior prodotto di quello stile di silenzio e di vaga fantasticheria che si ritrova con strana frequenza in questi «minori» del principio del Seicento. Ascoltiamola: è un gracile capolavoro; e rendiamo omaggio a questo quasi ignoto poeta: Auprès de cette Grote sombre Où l’on respire un air si doux, L’onde lutte avec les cailloux,
Et la lumière avecque l’ombre. Ce flots lassez de l’exercisse Qu'ils ont fait dessus ce gravier,
Se reposent dans ce Vivier Où mourut autre fois Narcisse.
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L’ombre de cette fleur vermeille,
Et celle de ces joncs pendants Paraissent étre là-dedans Les songes de l’eau qui sommeille. Dans ce Bois, ny dans ces montagnes Jamais Chasseur ne vint encore:
Si quelqu’un y sonne du Cor, C'est Diane avec ses compagnes. Ce Rossignol melancholicque Du souvenir de son malheur,
Tasche de charmer sa douleur Mettant son Histoire en musique.
UN POETA DI PARER CONTRARIO: MATHURIN REGNIER (1573-1613)
Non bisogna credere che l’autorità di Malherbe si stabilisse senza resistenza. Boileau, è vero, dirà più tardi:
«Tout reconnut ses lois» e questa perentoria affermazione è vera ma soltanto per il tempo di Boileau stesso, non per quello in cui visse Malherbe. Durante la prima metà del Seicento esiste un centro di resistenza alle leggi poetiche moderne: esistono dei poeti, esistono anche dei salotti nei quali si rimane fedeli all’estetica della Pléiade e magari anche a quella di Marot. Sono gruppetti di persone anziane alcune delle quali avevano personalmente conosciuto gli ultimi poeti della Pléiade e che rimangono affezionati ai canoni estetici della loro gioventù. Adesso questi fan figura di spiriti rivolti verso l'avvenire, di antesignani della rivolta romantica contro Malherbe e Boileau. In realtà erano dei «passatisti»; soltanto che adesso la prospettiva storica è cambiata. Il salotto anti-modernista è quello di MIle de Gournay, vecchia zitella assai colta che aveva conosciuto Ronsard da bambina e Montaigne quando era già adulta. A Montaigne soprattutto essa aveva votato un culto meritato ma fanatico: ne aveva curato un’edizione degli Essazs, aveva
pubblicato alcune lettere di lui in suo possesso. Essa reagiva alle «novità» malherbiane per ragioni sentimentali: non ammetteva che venissero espunte dalla lingua parole delle quali Montaigne si era servito né che venissero bistrattati quei Ronsard e quei du Bellay che egli aveva ammirato. Malherbe in principio aveva frequentato il salotto della de Gournay; poi cessò di andarvi perché, scrisse a
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Letteratura francese
un amico, «j'y suis mal à mon aise; je crois toujours qu’il y
a des faux sous mon fauteuil». Il poeta che maggiormente personificò questa tendenza arcaicizzante fu Mathurin Régnier che morì a meno di quaranta anni dopo una vita disordinata e squallida che ha punti di contatto con quella di Villon come del resto ne ha la sua poesia. Fu poeta prevalentemente satirico e Boileau (che pure era al suo polo opposto) riconosceva in lui il proprio maestro. Satira, quella di Régnier, priva di veleno e quanto mai divertente, nella quale ci vengono presentati tutti i tipi di quell’epoca pittoresca: è l’elegantone, stivalato e impennacchiato che si pizzica la barba, mordicchia la punta dei suoi guanti, fa tinnire la propria spada ma che è poi un ingenuo che scambia le sgualdrinelle per dame del gran mondo e i cui discorsi sono luoghi comuni cuciti l’uno all’altro; sono i poeti di terz’ordine che vi accostano nella strada e vi salutano dicendo «Monsieur, je
fais des livres!» o quelli intenti solo a fini materiali come chi «meditant un sonnet, medite un evesché». È la famosa Macette, la serva bigotta e falsa che ha molto contribuito alla creazione del Tartuffe, come d’altronde tut-
te le opere di Régnier hanno servito a Molière, cosa che questi, del resto, riconosceva ampiamente.
La lingua usata da Régnier è saporosa. Anche lui era un discepolo linguistico degli scaricatori di porto, come Malherbe, ma da essi apprendeva appunto tutti quei vocaboli energici e salaci che Malherbe dimenticava. Così vigorosa era la sua espressione icastica che molti suoi versi son rimasti nella lingua allo stato di proverbi: «Son oeil tout pénitent ne pleure qu’eau bénite» che è un delizioso ritrattino d’ipocrita. Il ricco finanziere è descritto come «le Vice en carrosse et en housse». Tutto questo, ripeto, senza fiele e senza attacchi personali: nelle satire di Regnier non vi è mai un nome di
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persona. Egli è passato alla storia con l’appellativo di «bon Régnier», il che è alquanto eccezionale per un satirico. L’antagonismo con la scuola di Malherbe è dichiarato. Régnier ci dice chiaramente che «en toute opinion je fuis la nouveauté» e anche che «je vais le grand chemin que mon oncle m’apprit». E contro i malherbiani sono diretti alcuni versi che li prendono graziosamente per il bavero. Dice che non son buoni ad altro: Qu'’à regrater un mot douteux au jugement, Prendre garde qu’un qui ne heurte une diphtongue, Espier si des vers la rime est breve ou longue, Ou bien si la voyelle, à l’autre s’unissant, Ne rend point à l’oreille un vers trop languissant... C'est proser de la rime et rimer de la prose.
Vale senza dubbio la pena di leggere le satire di Régnier che si trovano facilmente. Molière, come ho detto, Hugo, e financo Rostand nel Cyrazo vi hanno attinto a piene mani. Ho detto che Régnier aveva alcuni tratti in comune con Villon; desidero provarvelo trascrivendo alcune sue desolate strofe: La douleur aux traits veneneux,
Comme d’un habit epineux Me ceint d’une horrible torture; Mes beaux jours sont changés en nuits Et mon coeur tout flestry d’ennuys N’attend plus que la sepulture.
Enyvré de cent maux divers, Je chancelle et vays de travers, Tant mon ame en regorge pleine; Jen ay l’esprit tout hebeté, Et, si peu qui m’en est resté, Encore me fait-il de la peine.
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Seigneur, aux traits de ton couroux Je suis plus fragile que verre. Je ne suis à tes yeux sinon Qu’un festu sans force et sans nom, Qu’un hibou qui n’ose paraistre, Qu’un fantosme icy bas errant, Qu’une orde escume de torrent,
Qui semble fondre avant que naistre.
Ed ecco l’epitaffio da lui stesso scritto: J'ay vescu sans nul pensement, Me laissant aller doucement A la bonne loi naturelle, Et si m’estonne fort pourquoy La mort osa songer à moy Qui ne songeay jamais en elle.
Dovremo aspettare Verlaine e Apollinaire per riudire nella lirica francese questa ironica malinconia.
I RIFORMATORI DELLA PROSA FRANCESE
Verso il 1620 si poteva dire che in Francia, dopo il medioevo, vi erano stati almeno tre grandi scrittori in prosa: Rabelais, Amyot, Montaigne. Ma non era possibile dire che esistesse una prosa francese tipo. Ciascuno di questi tre scrittori aveva scritto a modo suo, intendo dire non soltanto a modo suo seguendo l’impulso del proprio talento e formandosi il proprio stile, ma a modo proprio anche per quanto riguarda la sintassi, la scelta dei vocaboli, l'adozione o meno delle formule dialettali o latine. Finché si trattava di scrittori di quel calibro intellettuale tutto andava bene: il genio trasforma in legge anche gli arbìtri. Che cosa però sarebbe avvenuto della prosa francese quando essa doveva essere adoperata da comuni scrittori volonterosi quanto si voglia e anche dotati di un normale talento ma privi di quell’unghia leonina che dava un’impronta inconfondibile ad ogni loro frase? La prosa francese priva di guida e mancante di tradizione si sarebbe dispersa in mille vie divergenti, non avrebbe mai acquistato quel sapore particolare ed omogeneo nella sua diversità che caratterizza la prosa di ogni letteratura come si deve. Ho detto «cosa sarebbe avvenuto». Avrei dovuto dire «cosa era avvenuto». Perché Brantòme, per dirne uno, e Des Périers, e lo stesso Monluc presentano una accozzaglia ron armonica di solecismi, dialettismi, incorrettezze, imprecisioni che a noi adesso non fanno impressione, anzi piacciono perché li mettiamo in conto della vetustà del linguaggio e della «stramberia» degli antichi, ma che
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Letteratura francese
ai loro immediati successori dovevano dare maledettamente sui nervi.
Come si era riformata la poesia, così doveva riformarsi la prosa. Con maggiore urgenza, anzi: perché la prosa oltre che un’arte è anche un utensile la cui precisione ed efficienza è indispensabile; ed anche perché di sua natura essa è più soggetta alle alterazioni della moda, dell’imitazione straniera, del gergo curialesco, teologale e militare di quanto non possa essere la poesia. Balzac prese su di sé questa opera di fissaggio e di ripulitura della prosa, come Malherbe si era assunto questo compito per la poesia. Non vi farò l’ingiuria di dire che questo Balzac del quale si parla adesso non è il grande romanziere. (L’autore del Lys dans la vallée che si chiamava veramente Honoré Balssa, senza «de», si ricordò del suo lontano predecessore e si fece chiamare «de Balzac» ma qui cessano le relazioni fra questi due, ineguali, valentuomini.)
Jean-Louis Guez de Balzac (1594-1654) fu puramente e semplicemente uno scrittore. Dopo aver avuto in gioventù le solite missioni diplomatiche subalterne a Roma, si ritirò nella sua terra di Balzac, sulla Loira, e si mise a
scrivere. Che cosa scrisse? Delle lettere, o, per esser più precisi, delle «epistole» composte per esser stampate, indirizzate agli uomini politici ed ai letterati suoi amici. Si potrebbe dire che scrisse degli Essazs se la presenza di Montaigne non fosse tanto vicina e se si potesse anche
da lontano paragonare il culto esclusivo della forma a tutto scapito del pensiero che aveva Balzac con la sovrumana indifferenza di Montaigne che raggiungeva la forma perfetta appunto perché non la inseguiva. Ciò non toglie:che l’importanza di Balzac è somma: lui e il suo contemporaneo Descartes gettarono i canoni di una prosa nazionale o piuttosto delle due prose francesi esistenti: la prosa d’arte, elaborata, sonora e drap-
Il Seicento
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peggiata, e la prosa di pensiero, stringata, sobria ed efficace. Balzac non è più letto all’infuori degli specialisti. E ciò è, paradossalmente, la sua gloria: è inutile leggere le sue interminabili frasi, le sue sapienti costruzioni sintattiche, ammirare l’esattezza del suo vocabolario, nelle sue
opere stesse nelle quali queste ammirevoli doti non sono sostenute da alcun soffio spirituale, quando quelle stesse volute barocche, quegli stessi drappeggiamenti serici di così sontuoso effetto li ritroviamo presi di peso in Bossuet, per esempio, ma gonfi di un sangue impetuoso ed
al servizio di un’altra coscienza. Balzac era simile a quegli scultori che cesellano in creta il modello delle monete: di essi è l’arte, l'equilibrio del disegno, i movimenti delle figure: l’oro vi è versato dentro da altri. Da tutti gli altri in questo caso: da Bossuet a Chateaubriand a Flaubert a Proust. Balzac non ha mai avuto una idea originale. Aveva letto Montaigne e si vede. Ma era un grande volgarizzatore: ed ai gran signori che frequentavano più i reggimenti di cavalleria che la Sorbona, alla dame che ignoravano il latino egli forniva il succo della saggezza greco-romana e la conoscenza degli scrittori contemporanei, da lui predigeriti e risputati fuori sotto forma di attraenti pasticcetti.
Del resto uomo di gusto e buon uomo. Le sole pagine veramente personali che abbia scritto gli fanno onore: la difesa del Cid contro i bassi attacchi, e la lettera a Corneille medesimo in lode del Cirra. Egli è l’eloquenza scritta personificata. Là dove Montaigne se la sarebbe sbrigata con dieci parole, Balzac ne impiega cinquecento. Tutti i trucchi della retorica li ha sempre a portata di mano: l’iperbole, il chiasmo, la si-
neddoche, l’antitesi, l’enumerazione. Il guaio è che ha
sempre poco da dire.
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Letteratura francese
Ecco come ringrazia Mme de Rambovuillet che gli ha regalato un paio di guanti: Madame, en conscience je n’eus jamais tant besoin de cette officieuse figure qui aide les bonnes intentions, qui acquitte les dettes des pauvres, qui non seulement égale les choses par les paroles mais qui les sait agrandir jusqu'à l’infini. Vous la connaissez, Madame, sous le célèbre nom d’hyperbole. Je l’abandonnai lachement il y a près de dix-huit ans et cela a été à mon grand dommage, et je vois bien que manquant de son secours pour vous remercier magnifiquement comme je le désirerais, je serai contraint de me servir de la simplicité de ma langue naturelle et de vous dire, comme ferait un autre
homme, que je vous suis très obligé de votre présent et que les gants me vont à ravir.
È veramente un po’ troppo lungo ed inutilmente teso. Ma osservate la differenza con la cattiva prosa di Brantòme o di Marguerite de Navarre: tutto è a suo posto, tutto è ordinato, il filo del pensiero segue con faci-
lità i meandri della forma, le parole sono appropriate, precise e mai esagerate (le singole parole, beninteso). È uno scrigno di ebano e di avorio che diviene ridicolo se contiene soltanto un paio di guanti. Ma fate che Bossuet vi deponga le Sacre Scritture o Vauban la sua Dîrze royale e lo vedrete risplendere di luce e di sangue vivo come il Graal nelle mani di Vinay. Aveva poche idee, ma aveva il sentimento della forma solenne e dignitosa. Fabbricava i manichini di carta sui quali venivano poi tagliate le porpore cardinalizie.
VINCENT VOITURE (1597-1648)
Questo è tutto l'opposto di Balzac, nella vita. È un po’ il Brummel del Seicento: figlio di un tavernaio di Amiens, pervenne a forza di cultura e di spirito a farsi un posto nei salotti più chiusi. Anche a questo riguardo egli è notevole, come il primo letterato francese che si sia con-
quistato un posto nella società per il solo merito del proprio ingegno. Le signore del salotto Rambovuillet andavano pazze di quest’omiciattolo piccino, spadaccino, giocatore e bevitore, ma pieno di umanità, di cortesia raffinata, che sapeva sull’istante architettare un complimento in versi, un epigramma contro un avversario, o
spandere migliaia di spiritosaggini dalla sua sacrosanta poltrona di velluto azzurro. Non pubblicò neppure un rigo durante la vita: ma suo nipote nel 1650 fece stampare le sue opere complete che costituiscono del resto uno smilzo volumetto. Vi sono due poesie delicate nelle quali sfumature psicologiche e galanti sono disegnate con ironia e buon gusto; sono soprattutto dei dialoghetti (Les deux lions du Maroc, Lettre de la Carpe au Brochet) e delle lettere. Queste operette erano note a tutti perché egli le aveva lette in gran pompa nei salotti famosi suscitando ammirazioni tremende. Allora in esse si ammirava soprattutto lo spirito. Ma lo spirito (differente e quasi all’opposto dell’humour) ha la vita breve, legato com'è alle allusioni personali, alle condizioni dell'ambiente; e noi non possiamo più ritrovarcelo. Quel che sopravvive invece negli scritti di Voiture è
la forma della prosa, un’altra delle faccette della prosa francese, non quella oratoria, non quella scientifica, ma
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Letteratura francese
quella leggera, scivolante, svagata e tutta irta di graziosissimi spilli. La prosa di Voltaire, quella di France. Con molta minore profondità la prosa di Voiture è di già quella di la Bruyère, scarnificatrice, indagatrice, maliziosa. Voiture rimane ancor oggi una figura attraente: e
sembra ancora di vederlo, minuscolo nell’immensa poltrona azzurra, reduce da un duello, raccontare storielle
decentemente galanti alle belle signore che lo coccolavano. Con lui, soprattutto con lui, la letteratura penetrò in Francia nei salotti, in quei salotti che non doveva più lasciare.
RENÉ DESCARTES (CARTESIO) (1596-1650)
Con Descartes veniamo ad incontrare un grossissimo cane, il cane più grosso prima di Pascal. Noi italiani abbiamo il diritto di vantarci di Galileo,
gli inglesi giustamente esaltano Bacon, i tedeschi Leibniz. Ma chi ha veramente posto il pensiero moderno sulle proprie basi è stato Descartes. Ma di Descartes filosofo non dovremo occuparci. Ci basterà gettare uno sguardo su Descartes scrittore.
Con Descartes la Francia si crea il proprio linguaggio per il pensiero astratto, con un tale successo che Leibniz, poco dopo, proverà il bisogno di scrivere in francese i suoi Essazs sur l’entendement e che ancora oggi molti tedeschi preferiscono leggere Kant e Hegel nelle versioni francesi. Perché Descartes ha saputo porre in luce la dote massima, insostituibile ed inimitabile dello spirito francese: la chiarezza. Questa famosa «clarté francaise» è interpretata come superficialità da alcuni tedeschi di malumore; non occorre ascoltarli; sono quegli stessi che chiamano servilismo la gentilezza italiana. Vi è in Descartes l’equilibrio perfetto fra il pensiero e la sua espressione. Nessuna ornamentazione fittizia: la
frase non serve che all’espressione esatta del pensiero. Questo equilibirio preciso fra idea e forma è il segno caratteristico della prosa classica. Il Discours de la méthode ne è un esempio perfetto. Quando Descartes proclama l’autorità suprema della ragione egli si trova in linea con Malherbe; in linea con tutto il suo secolo uscito ancora
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Letteratura francese
insanguinato dalle guerre religiose che erano state l’ultimo sussulto della età scolastica. Il Discours de la méthode è un esempio forse unico di un libro di alta filosofia immediatamente comprensibile da chiunque; e non già, come è stato detto, per superficialità ma per intera padronanza del soggetto e per il deciso rifiuto di lasciarsi attrarre da qualsiasi attitudine misticheggiante e quindi nebbiosa. Balzac ha creato la forma della prosa d’arte, Voiture quella della prosa leggera e d’indagine psicologica, Descartes ha creato più che la forma: ha realizzato la grande prosa francese di pensiero. Nel 1650 la prosa francese aveva di già tutte le sue armi in arsenale: lucide, moderne, pronte all’uso. L’im-
piego che ne faranno le generazioni future sarà meraviglioso.
I ROMANZI: SCUDÉRY E D’URFÉ
Novelle ce n’erano state parecchie nella Francia cinquecentesca; molte d’imitazione italiana, d'altronde. Ma romanzi, niente ancora; perché sarebbe un po’
troppo ardito chiamare romanzo il Pantagruel. Nel Seicento comincia il romanzo francese; e, diciamolo subito,
comincia male. L’Astrée di Honoré d’Urfé e l’Alaric di MIle de Scudéry (una oriunda italiana, Scuderi) sono quasi, non del tutto, al di fuori della letteratura. In primo luogo sono interminabili: dodici, sedici, trentadue,
sessantaquattro, centoventotto, duecentocinquantasei volumi. Gli innamorati si incontrano, si perdono, s’inseguono, si ritrovano, si riperdono, si rinseguono e così via di seguito all’infinito. E mentre s'incontrano, mentre
s'inseguono, mentre si ritrovano non fanno che chiacchierare, «expliquer leur tendre amour», discutere a
perdita di fiato problemi di casistica amorosa loro ed altrui, incontrarsi con leoni filantropici e pastori eruditi,
vincere battaglie che sono balletti e danzare balli che sono battaglie vere e proprie in quanto la vita di ciascuno di essi dipende dall’esattezza con la quale «ils coupent l’entrechat». Tutto narrato con uno stile insipido talvolta e tal altra zuccheratissimo, imbottito di spiritosaggini incomprensibili, di «feux de l’aurore» e di «flammes du crépuscule», di allusioni mitologiche di sorprendente astrusità. E poi ci sono le carte, vere carte geografiche, «les cartes du pays du Tendre», che mostrano l'itinerario di un amore perfetto dalla frontiera «du Premier regard» alla cittadella della «Flamme couronnée» attraverso «le bois du Dou-
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Letteratura francese
te», «le marais de l’Indifférence», la larga strada «des Pe-
tits Soins» e mille altre cose del genere. Il successo di questi romanzi fu incredibile; a noi danno la nausea; a De-
scartes che era quel che era, a Malherbe, a Richelieu che certo non era un idiota piacevano alla follia. Perché? Il perché c’è ed è quello che costituisce il merito dell’Astrée. Erano queste sciocche avventure, queste
disquisizioni galanti, queste insipide «cartes du Tendre» un grande, un vigoroso segno d’incivilimento. Leggete un capitolo di Brantòme; leggetene subito dopo uno dell’Astrée e vi sembrerà che non cinquanta anni ma tre secoli siano passati. La foia brutale era divenuta galanteria, l’imboscata selvaggia era divenuta un balletto, il desiderio che si ergeva brusco fra una porta e l’altra era divenuto... «la carte du Tendre». I passi fatti dalla civiltà francese fra Enrico IV e Luigi XIV erano stati prodigiosi; e Scudéry e d’Urfé ne erano garanti.
DEGENERAZIONI
E REAZIONI
La diffusione, anzi la creazione, della letteratura attraverso i salotti ha i suoi meriti: rapidità, eleganza, obbligatoria ritenutezza di espressione.
Presenta anche i suoi pericoli: quello, per esempio, di una rapida degenerazione. Bastò infatti che donne del senno di Mme de Rambouillet e di MIle des Loges morissero perché lo scettro della conversazione cadesse in mani inadatte, in mani di persone che, incapaci di comprendere il fondo e la serietà della loro opera, si avviticchiavano a quistioni di pura forma scioccamente intese, volevano raffinare ancora sul già raffinato, tagliare ogni capello in quattro, e si abbandonavano ad una nauseante scioccaggine ornata — «les Précieuses». Il preziosismo fu una malattia degenerativa che lasciò fortunatamente immune la vera letteratura che si era già formata le ossa. Comparve alla fine di questo periodo, verso il 1650 (la Roxane del Cyrazo, preziosa, è un anacronismo). La sua importanza del resto ci appare adesso più grande di quel che fosse in realtà perché Molière se ne è occupato; in realtà fu un fenomeno limitato e presto soffocato. L’affermarsi dell’arte classica, disossata, come ho det-
to, liscia liscia, scabra, tutto spirito e idee generali, provocò una reazione realistica, salace e spesso volgare in scrittori di second’ordine. Scarron (1610-1660) fu il principale di questi neo-realisti. Figura patetica di povero diavolo, paralitico, condannato a rimanere in una poltrona, fu il primo marito
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Letteratura francese
di quella Frangoise d’Aubigné, calvinista convertita, che, rimasta vedova di lui, doveva diventare sposa mor-
ganatica di Luigi XIV e a tutti gli effetti pratici regina di Francia. Vi è così un legame assai stretto tra i fastigi di Versailles e l’infimo strato della letteratura del tempo. Le opere di Scarron (Recuerl de quelques vers burlesques, Typhon e Le Virgile travesti, 1648-1653) sono una reazione vivacissima al culto per l’antichità classica ed all’ammirazione per i capolavori latini. Essi sono delle parodie dei vecchi poemi e gli dei, Enea e Didone e tutti quanti vi sono posti in ridicolo. La loro crudezza di linguaggio è grande, ma non mancano di spirito e di brio. Il nostro Domenico Tempio è un pedissequo imitatore, talvolta traduttore, sempre «aggravatore» di Scarron, col consueto ritardo di cento anni. Ascoltate un sonetto burlesco di Scarron, grazioso: Superbes monuments de l’orgueil des humains, Pyramides, tombeaux, dont la vaine structure A témoigné que l’art, par l’adresse des mains Et l’assidu travail peut vaincre la nature; Vieux palais ruinés, chefs-d’oeuvre des Romains Et le dernier effort de leur architecture,
Colisée où souvent les peuples inhumains De s’entr’assassiner se donnaient tablature; Par l’injure du temps vous étes abolis Ou, du moins, la plupart, on vous a démolis: Il n'est point de ciment que le temps ne dissoude. Si vos marbres si durs ont senti son pouvoir, Dois-je trouver mauvais qu’un méchant pourpoint noir Qui m’a duré deux ans soit troué par le coude?
Scarron scrisse anche, in prosa, Le roman comique
(1651) che narra l’odissea di una compagnia di guitti, con tipi ben osservati e con molto brio e malizia.
Il Seicento
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Furetière scrisse (1666) Le rorzan bourgeois che è assai inferiore al Rorzan comique e, davvero, troppo volgare e graveolente.
Charles Sorel alla stessa epoca scrisse delle parodie del romanzo idealista (1’Astrée) con vero talento e mordacità (Le Berger extravagant e Francion).
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Sezione seconda
I COLOSSI INSTABILI
CONDIZIONI LINGUISTICHE, LETTERARIE (E POLITICHE) DELLA FRANCIA NEI PRIMI TRENT'ANNI DEL SECOLO XVII
Verso il 1630 (le date sono per forza di cose arbitrarie e soggette a cauzione quando si tratta di argomenti tanto fluidi) il riassesto economico e politico della Francia era compiuto. La monarchia aveva riacquistato il dominio in tutto il paese, aveva domato sporadiche rivolte nobiliari, ultimi tizzoni del grande incendio trascorso, aveva dimostrato di poter anche mettere alla ragione senza provocare conflagrazioni interne e residui tentativi separatisti degli Ugonotti. Sotto la guida dell’illuminato e buon re Enrico IV, sotto quella susseguitagli del meno buono ma altrettanto illuminato cardinale di Richelieu le finanze erano state restaurate ed un alto prestigio riacquistato al paese, prestigio che tra pochi decenni si muterà addirittura in egemonia europea.
Doveva ancora sopravvenire il turbine della Fronda, avventura di scervellati che è rimasta memorabile per il suo carattere romanzesco ma che ebbe minor importanza di quanto si dicesse; e che venne del resto largamente compensata dal contemporaneo infiacchimento inglese causato dalla Rivoluzione e dall’ormai innegabile declinare della potenza spagnola. La Francia era alle soglie di quel periodo di pace interna che durò un secolo e mezzo. Era il tempo in cui anche in Italia si cantava: «Venite all'ombra dei gran gigli d’oro!». La lingua si era stabilizzata, lo spirito classico della letteratura trionfava con opposizioni soltanto sporadiche. I dialetti non erano certo scomparsi, ma erano or-
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Letteratura francese
mai privi di potere espansionistico e relegati in ceti sem-
pre più incolti della popolazione. La Rivoluzione francese li spazzerà via senza difficoltà in pochi anni. Che la lingua si fosse stabilizzata lo dimostra il successo inaspettato delle edizioni di dizionari e di grammatiche. Vaugelas, il grande filologo, e Furetière, il
grande grammatico, pontificavano sulle quistioni di lingua non soltanto senza contrasti ma con una strana adesione appassionata. Non soltanto si fissava la lingua, ma si annunciavano regole precise per il «beau langage». L’eloquio veniva ad ogni passo spiato, emendato e corretto. Questo di una classe colta infervorata a tal punto per le quistioni linguistiche è un fenomeno credo unico nella storia. I risultati furono cospicui: né Vaugelas né Chapelain si illusero mai di «fissare» definitivamente la lingua che è un fenomeno di sua natura mutevole ed in perpetuo fluire, ma volevano che l’inevitabile rinnovamento e il
rammodernamento s’incanalassero nelle vie da loro tracciate; ed a ciò riuscirono pienamente. Il francese di Proust, a circa trecento anni di distanza, è ancora nelle
sue grandi linee il francese di Guez de Balzac, mentre il francese di Villon era compreso con difficoltà dallo stesso Balzac dopo appena cento anni. Stava per iniziarsi un secolo d’oro letterario, una età «vittoriana» di sicurezza, di pacifico sviluppo, di assenza di catastrofi. Ma proprio come l’età vittoriana (come, credo, tutte
le età vittoriane) essa fu preceduta da un breve periodo di effervescenza disordinata, popolata da altissime figure letterarie molto travagliate e molto inquiete. I Byron, gli Shelley, i Coleridge inglesi pre-vittoriani trovano il loro riscontro francese nei Pascal, nei La Rochefou-
cauld, nei Retz, nei Corneille pre-secolo d’oro. Questi scrittori, tutti di primo piano, sono da molti
inclusi sommariamente fra gli autori del «Grand Siècle»;
Il Seicento
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dal punto di vista cronologico, esattamente: essi sono
tutti alquanto più anziani di Racine, di Bossuet, di Mo-
lière, di La Fontaine ma non al punto di non poter essere inclusi nello stesso periodo letterario che, dopo tutto, non deve avere l’esattezza di un’anagrafe. Non è per ragioni cronologiche, quindi, che io vorrei distinguerli ma per ragioni spirituali: in essi vi è un’angoscia, un travaglio di qualità differente da quelli di Racine o di Molière. Essi sono ancora al dubbio del «perché». I loro successori dubitano soltanto del «come». Da Montaigne in poi, per cinquanta anni, non abbiamo incontrato colossi, se si eccettui Descartes che del resto acquista tutta la sua statura se considerato al di là
della letteratura. Da adesso ad ogni passo ci verrà incontro un grande colosso; anzi non ne incontreremo che grandissimi. Pensate un po’: Pascal, La Rochefoucauld, Retz, Corneille, La Fontaine, Racine, Molière, Bossuet, Fénelon,
La Bruyère, Saint-Simon, Mme de Sévigné. Fortunatamente sono tutti «bene educati» malgrado la loro mole; quasi tutti, a dir vero (i due meno rassicuranti sono appunto i due duchi). Ma ce n'è abbastanza per «far tremare le vene e i polsi», per ripetere una locuzione doppiamente illustre.
* Citazione dantesca usata frequentemente da Bebbuzzo Sgadari
nelle sue recensioni musicali su «Il Giornale di Sicilia», e burlata
da Tomasi per l’uso tanto frequente da risultare spropositato.
BLAISE PASCAL
(1623-1662) E BREVI ACCENNI A PORT-ROYAL
Pascal, per molte persone, è il più grande dei francesi. Non ho nessuna voglia di cacciarmi nel gioco poco proficuo e immensamente ridicolo di decretare diplomi di grandezza o di negare la sufficienza a scrittori il minore dei quali vale spiritualmente cento volte noi, povere scimmie.
(Ricordate Max Jacob? «Moi, qui ne suis pourtant qu’un babouin.») Primo, secondo, terzo o quarto che sia, Blaise Pascal
è certamente uno dei primi cento uomini che siano mai nati all’immortalità, uno, soprattutto, degli uomini che potrebbero essere «le plus grand témoignage que nous puissons donner de notre dignité», come disse un suo
pari, se vi fosse alcuno cui questa testimonianza potesse interessare.
Il genio di Pascal ha un carattere unico. Non che egli non abbia caratteri che lo avvicinino ad altri; però in Pascal vi è sempre un elemento in più che lo distingue. Per esempio egli possiede il temperamento inquisitivo, la tendenza scientifica al dubbio di Montaigne; in più però egli possiede il vantaggio di aver risolto il dubbio. Ha la curiosità scientifica, la larga simpatia umana di Goethe; in
più ha di suo l’aver potuto sintetizzare scienza ed umanitarismo in un più alto insieme; Pascal ha traversato le angosce fisiche e il tedio della vita come Leopardi; ma lo supera in questo, che angosce e tedio sono state da lui utilizzate (e non dico utilizzate a scopi scientifici, ché ciò anche Leopardi ha fatto) proprio in funzione vitale. Per dirla più in breve, Pascal ci presenta il fenomeno
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rarissimo (forse unico) di un temperamento analitico di scettico che viene a sboccare nelle conclusioni sintetiche di un credente. Pascal non ha posseduto la sua verità come dono venuto dal di fuori: se la è creata lui pezzo per pezzo, scartando questo materiale, accettando l’altro dopo averlo soppesato e cagliato. Non sua è la credenza nell’«ipse dixit» di chicchessia; non per niente era cartesiano sino
al midollo delle ossa, matematico altissimo e indagatore scrupoloso dei fatti fisici. La differenza con gli altri che hanno indagato il buio è in questo: che egli la luce poté scoprirla. Occorre dire che se vi è esempio di pensiero che possa scuotere l’eterno «ignorabimus» dello scettico, questo è quello di Pascal. Da questa sua doppia natura (perfettamente fusa) oltre che dal suo straordinario talento di espressione, deriva il fatto che non un rigo di Pascal è invecchiato; i suoi dubbi iniziali, la sua fede conclusiva sono egualmente giovani. Dopo aver detto tante parole inutili bisogna adesso occuparsi un po’ della sua opera. Ma prima di far questo sarà necessario sfiorare l’imponente ambiente di PortRoyal che condizionò Pascal e trovò in lui il proprio difensore e la propria espressione massima.
Un milligrammo di fatti su Port-Royal Port-Royal era una abbazia cistercense di monache, situata nelle vicinanze di Versailles, in quel che a noi postromantici appare un gradevole valloncello ombroso, proprio al margine della strada nazionale Parigi-Dreux; nel Seicento questo posto appariva straordinariamente sel. vaggio ed incolto e veniva catalogato sotto l'etichetta di «désert affreux».
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Letteratura francese
Il valloncello è solitario; fra le alte erbe ed all'ombra
dei bei faggi si scorgono pochi frammenti di edifici: l’abbazia venne scoperchiata e demolita dai dragoni di Luigi XIV, scatenati in quel luogo dall’inespiabile rancore della Compagnia di Gesù. Il «vallon» di Port-Royal, deserto e rinselvatichito com'è, deve essere annoverato fra i più alti santuari dello spirito umano, come il Partenone, come Firenze, co-
me Parigi lì d’accanto, come la grigia casa di Weimar. Attorno a questo monastero che fu sempre poverissi-
mo come fu sempre altero s’impernia e gira tutto il pensiero francese del Seicento: non vi è grande figura di quel tempo che ad esso non si annodi, come discepolo o come avversario, talvolta come devoto e nemico nello
stesso tempo, come successe a Racine. Corneille, Rotrou, La Rochefoucauld, Molière, Bossuet, Fénelon, Mme de Sévigné, La Bruyère, Saint-Simon, infiniti minori, e poi San Francesco di Sales, Luigi XIV, Colbert, Louvois, la Maintenon scorsero in questo sparuto convento un faro o uno scoglio. Per non parlare di Pascal o di Racine che sono i veri «genii loci». Ma la forza spirituale di Port-Royal è tanto grande da estendere la sua attrazione al passato e all’avvenire: Montaigne si illumina di nuova luce se considerato in rapporto alle «bonnes filles», Rousseau, Sainte-Beuve e Mauriac ne sono stati feriti. Questo basterà a farvi capire come tentare qui una sia pur sommaria storia di Port-Royal e del movimento spirituale che in lui si incarnò, sia totalmente al di fuori delle possibilità obiettive di tempo. Quindi vi esporrò i fatti puri e semplici; se vorrete saperne di più potete leggere Sainte-Beuve che nel suo Port-Royal ha scritto il proprio
capolavoro e forse quello della critica di tutti itempi, ed i circa ventimila altri volumi che su questo argomento sono stati composti in tutti i paesi, senza esaurirlo.
Il Seicento
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Questa abbazia era stata fondata nel 1200. E per quattro secoli aveva vivacchiato santamente senza un particolare lustro. Alla fine delle guerre di religione essa si trovò devastata non soltanto materialmente ma anche dal punto di vista spirituale: molte suore si erano allontanate, quelle che restavano adempivano con fiacchezza e noia gli obblighi derivanti dai loro voti. Nel 1608 venne eletta abbadessa la giovane mère Angélique, figlia del magistrato Arnauld, una delle più alte figure di donna di tutta la storia. Nello stesso periodo di tempo, Jansénius, il vescovo di Ypres, nelle Fiandre, andava svolgendo un'attività re-
ligiosa meritoria ma singolare: nel quadro della Controriforma, dichiarandosi perfettamente ligio alle dottrine
cattoliche, egli veniva scartando l’autorità di tutti i Padri della Chiesa e di tutte le decisioni dei Concili, e accetta-
va come dottore infallibile Sant’ Agostino. Egli formò accanto a sé un circolo di discepoli, tutti uomini di alto intelletto e di assoluta purezza di costumi che lentamente incominciarono a propagare i suoi insegnamenti. Uno di
questi discepoli fu Du Vergier de Hauranne, passato alla storia sotto il nome di «abbé de Saint-Cyran». Questi divenne il direttore spirituale del rinnovato Port-Royal e l’intero convento aderì alle dottrine di Giansenio.
Che cosa erano queste dottrine che il vescovo di Ypres aveva derivato da Sant'Agostino? In pochissime parole queste: non si può essere salvati se non mediante la Grazia. E questa Grazia è prederminata fin dall’eternità, mediante criteri divini assolutamente imperscruta-
bili all’ingegno umano. Per così dire gli uomini, la maggior parte degli uomini, è dannata già prima di nascere. Le varie virtù e l'osservanza dei dettami della Chiesa sono sì obbligatorie perché ribellarvisi sarebbe ribellarsi alla volontà divina, ma non efficaci se non sono sorrette
dalla Grazia che nessuno sa se la ha.
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Letteratura francese
Questa dottrina, che è naturalmente infinitamente più complessa di quanto può apparire dalle precedenti dieci righe, si riallacciava alla dottrina di Lutero ed a quella di Calvino (benché vi fossero delle sensibili differenze che i giansenisti tenevano a mettere bene in luce) e accontentava le anime più austere e più realmente religiose fra i cattolici, nelle quali la Riforma aveva lasciato tracce indelebili e che erano ostili agli accomodamenti ed al sistema di «riduzioni di viaggio» per il Paradiso che erano sostenuti dai gesuiti. Le conseguenze non soltanto religiose ma anche politiche e sociali di un diffondersi di questi insegnamenti erano incalcolabili: l'autorità della Chiesa cattolica sarebbe stata destinata a perire, se tutte le decisioni dei Concili, tutte le opere sacramentali e le osservanze fossero state dichiarate vuote di significato se non protocollare. La Riforma risorgeva non già dal di fuori, come era stato il caso di Lutero e di Calvino, ma dal di dentro, in
modo più pericoloso perché più inafferrabile. Nel 1640, dopo la morte di Giansenio, venne pubblicata la sua opera principale, lAugustinus, che consisteva di cinque colossali volumi latini «in folio». I gesuiti vi saltarono sopra, li spedirono a Roma e chiesero che la Santa Sede li condannasse. Il Vaticano non li condannò ma ne estrasse venticinque proposizioni contenenti idee
eretiche, condannò queste e chiese a tutti i vescovi e a tutti i religiosi di Francia di firmare una dichiarazione che accettasse la condanna. A questo punto scoppiò la tempesta. L'enorme maggioranza firmò; alcuni vescovi non firmarono sostenendo che le venticinque proposizioni biasimate non si trovavano nell’opera di Giansenio, che esse erano state dedotte in mala fede da alcune pagine innocue ad opera dei gesuiti; che se vi fossero state ne avrebbero volentie-
ri firmato la condanna, ma poiché non c'erano non potevano condannare il nulla.
Il Seicento
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Il monastero di Port-Royal non volle firmare senz’altro. Non ammetteva che si imponessero alla coscienza individuale dei vincoli. Ubbidientissime, reverentissime figliole della Chiesa: ma la credenza individuale non po-
teva essere sforzata. Atto altamente rivoluzionario, compiuto da un pugno di umili religiose, guidate dal temperamento di fuoco della «mère Angélique». Naturalmente, dopo numerosi e patetici interventi dell’arcivescovo di Parigi che costituiscono uno dei più elevati drammi spirituali, il monastero venne sciolto, le suore riprese in altri conventi. Ma la vittoria dei gesuiti fu una vittoria di Pirro: il movimento giansenista aveva avuto ripercussione nulla
sul clero secolare, scarsa sul clero regolare (una parte dei padri oratoriani fu la sola ad appoggiare le intrepide ribelli di Port-Royal) ma vastissima sul laicato. Numerosissime personalità appartenenti alle classi più alte della società, tanto per influenza sociale come per cultura, tutti coloro, insomma, che ancora sentivano
il cristianesimo come dramma e non come commedia a lieto fine, come predicavano i gesuiti, avevano più o me-
no palesemente aderito al giansenismo; molti avevano addirittura abbandonato le loro occupazioni mondane e, costruendosi delle casette nei pressi di Port-Royal, si erano ritirati, da laici, a far vita solitaria, devota e studio-
sa. Furono i cosiddetti «solitaires», «ces Messieurs de Port-Royal», che rinnovavano in piena epoca moderna i fasti del cenobitismo dei primi secoli cristiani. Così fitta era la popolazione di uomini dotti attorno al convento che venne spontanea l’idea di crearvi delle scuole per ragazzi, scuole che, dato il sapere degli insegnanti e la straordinaria modernità dei metodi pedagogici, divennero le migliori di Francia. In esse fu educato il giovinetto Racine. Naturalmente le scuole vennero chiuse quando il mo-
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nastero fu sciolto; ma molti dei «solitaires» seguirono le loro direttrici spirituali nelle più remote province francesi quando esse furono inviate al confino. Questo esilio volontario di una cospicua parte della intellettualità francese commosse grandemente l’opinione pubblica ed i gesuiti divennero sempre meno popolari. D'altronde la Compagnia stessa si trovava, malgrado la propria vittoria, in crisi. Erano state allora tradotte in francese le opere dei casuisti gesuiti spagnoli. Sapete cosa sono le opere di casistica: dei manuali per i confessori nei quali i più rari e sottili peccati vengono analizzati, scomposti in parti e scrutati per diagnosticarne la maggiore o minore perversità. Famoso fra questi casuisti era il padre gesuita Escobar, che era del resto una santa e
degna persona. Però, fedele alle direttive della Compagnia che voleva, come essa stessa diceva, «batir un chemin de velours pour arriver aux paradis» accumulava sofismi su sofismi
per permettere ai confessori di assolvere peccati davvero ributtanti. Lo scandalo fu immenso. Non si parlava che di questo. Fu allora che Pascal scrisse le sue Lettres provincia les nelle quali, con una dottrina illimitata ma ancora inferiore allo spirito caustico e alla indignazione morale, prendeva in giro e additava educatamente al disprezzo pubblico le teorie gesuitiche. Les Provinciales, pubblicate senza nome di autore e stampate alla macchia, ebbero un successo incredibile. Dalla loro pubblicazione prende data la fama poco simpatica della Compagnia di Gesù. Successo quanto mai meritato perché esse sono ?/ ca-
polavoro della letteratura polemica nel quale Pascal, già infermo e prossimo alla morte, si dimostrava schermido-
re abilissimo e creatore di una serie di piccole commedie spirituali del più alto valore artistico. Intanto la situazione mutava, a favore di Port-Royal.
Non soltanto l’indignazione creata dallo scioglimento
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del convento (contro il quale mai era stato possibile elevare il minimo sospetto di manchevolezze morali) aveva risvegliato l’opinione pubblica, ma anche necessità politiche avevano allontanato Luigi XIV da troppo intime relazioni con Roma; e ciò, oltre al prevalere del gallicanesimo che, benché acerrimo nemico del giansenismo in campo teologico, era d'accordo con questo nella immediata politica ecclesiastica, portò ad un ristabilimento del convento di Port-Royal da parte del re ed al ritorno degli esiliati al loro beneamato «désert». L’odissea di Port-Royal era però lungi dall’essere finita: polemiche accanite continuarono a svolgersi fra «le grand Arnauld» e Nicole da un lato, campioni dei giansenisti, e gli innumerevoli scrittori e scrittorucoli che i gesuiti scatenavano contro quel convento che era un rimprovero (non si può dire però «muto rimprovero»)
contro la progressiva «mondanizzazione» della vita spirituale. Finché i gesuiti ripresero forza (la carica di confessore del re era sempre assegnata a un gesuita) e finirono con l’ottenere la definitiva dispersione del convento e financo la sua materiale demolizione che venne eseguita «manu militari».
Perfino il cimitero di Port-Royal venne distrutto e gli ossami di quegli alti esemplari di umanità versati alla fossa comune; fra questi gli avanzi di Racine che aveva chiesto di riposare insieme ai suoi maestri, spesso da lui vituperati ma sempre ricordati.
Durante il Settecento il giansenismo visse di una vita semi-clandestina; andò via via affievolendosi e scompar-
ve del tutto ai primi dell'Ottocento non senza che l’abbé Grégoire, ultimo quasi di quella indomabile setta, riuscisse, come deputato della Législative, a far cancellare l'antico ordinamento ecclesiastico francese. Questa che avete udito è una specie di caricatura della storia di Port-Royal ed evidentemente non posso
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averne reso il senso di alto interesse spirituale che da esso fluisce. Vi sarà sufficiente però per poter inquadrare la figura di Pascal nelle lotte del suo tempo. Blaise Pascal era nato a Clermont-Ferrand, in Auver-
gne, il 19 giugno 1623. Il padre era un alto magistrato, assai dotto in scienze matematiche ed in fisica. Trasferitosi a Parigi nel 1631 egli fu il solo educatore del figlio, adoperando il metodo, strano in se stesso ma, per caso,
adattissimo al formidabile ingegno del figlio, «de lui imposer des tàches toujours au-dessus de lui». Così fin dalla prima infanzia la vita intellettuale di Pascal si atteggiò a quel tracciato di spirale sempre ascendente che costituì la sua sofferenza e la sua gloria. Tutti conoscono i vari aneddoti sulla straordinaria precocità di Pascal; come a dodici anni egli riscoprisse da sé, senza l’aiuto di nessuna lettura, le prime trentadue proposizioni geometriche di Euclide; come a sedici anni redigesse un trattato sulle sezioni coniche che fece lo stupore di Descartes; e come inventasse a venti anni la prima macchina calcolatrice e poco dopo per proprio conto e senza averne avuto previo sentore i famosi espe-
rimenti sul vuoto di Torricelli. A venticinque anni Pascal era famoso come uno dei primi matematici del suo tempo, il che non è poco dire, dato il grande fervore matematico di quegli anni in Francia e in tutta Europa (ed anche in Sicilia con G. B. Odierna), anni che appunto videro, con la collaborazione di Pascal, la creazione del moderno calcolo infinitesimale. E superfluo insistere sull'importanza di questa formazione rigorosamente scientifica di Pascal che valorizza e
sottolinea tutta la sua successiva evoluzione spirituale. Perché la vita di Pascal è una continua ascesa spirituale, nella quale ogni gradino è conquistato con aspra lotta. Al principio di questa ascensione lo vediamo com-
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piere un'azione vilissima che non voglio neppur riferire; due giorni prima della morte uscì volontariamente da casa sua per cederla a un povero diavolo di «sfrattato». Conquista della santità che è ben più ammirevole delle santità possedute fin dalla nascita. Si suol parlare a torto della prima, della seconda, della terza conversione di Pascal: non vi sono svolte brusche in questa vita ma un continuo purificarsi, accelerato soltanto, non condizionato, da alcuni avvenimenti esteriori. In questo suo processo di elevazione egli fu grandemente aiutato dalla sorella minore, Jacqueline, che finì
monaca a Port-Royal e che dalle sue azioni e dalle lettere rimasteci si dimostra pari in dolorosa comprensività al suo illustre fratello. Fino al 1654 dura il periodo mondano di Pascal; ha degli amici nell’alta società, pare fosse un giocatore accanito, e non rimase insensibile alle grazie femminili, dato che nel 1650 compose un Discours sur les passions de l'amour che è di rara profondità psicologica. Nel 1654 sopravviene uno di quegli incidenti esteriori che accelerano la già esistente ascesi. Passando sul ponte di Neuilly i cavalli della sua vettura s’imbizzarriscono: egli rimane con la carrozza sospeso fra il ponte ed il fiume, trattenuto da una cinghia; fu salvato mezzo minuto prima che la cinghia si spezzasse. Là dove uno spirito vanitoso avrebbe visto un miracolo, cioè un segno di predilezione divina, Pascal non vide che un «avvertimento». Si ritirò dal mondo, si riavvicinò a Port-Royal, scrisse in difesa di questo le sue immortali Provinciales. Poi, martoriato da innumerevoli dolorosissime malattie, si diede a scrivere la sua opera sulla religione; gli appunti e le note preparatorie di quest'opera, la cui stesura organica non venne neppur cominciata, costituiscono le sue Pensées, che sono uno dei massimi risultati del pen-
siero e dell'anima umana. Il 19 agosto 1662 morì, a trentanove anni.
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I{ pensiero di Pascal
Il pensiero di Pascal è tanto complesso che è indispensabile cercare di distinguere le varie componenti di una tale personalità, dopo aver sfrondato le leggende che si sono accumulate attorno a questa figura apparsa subito tanto al di sopra degli altri uomini. Pascal è un ammalato. Non soltanto soffriva di tubercolosi ossea ma aveva anche una forte nevrosi: sofferenze fisiche e sofferenze morali che saltano fuori evidenti in ogni sua pagina, non fosse altro che nell’ardore febbrile, in quella fretta di apostolato che è comune a tutti coloro che avendo qualcosa da dire temono inconsciamente di non avere il tempo per farlo. Pascal è uno scienziato. Intendo dire che ha la posizione spirituale dello scienziato, oltre che le conoscenze: anche quando lo crediamo rapito nel misticismo, lo spirito matematico, lo spirito di ricerca, l'ansia di andare al
fondo delle cose lo riprendono ad un tratto. Spirito scientifico lievitato da una profonda sensibilità poetica («le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie») che lo spinge sempre a cercare la via più ardua ma più breve per i suoi ragionamenti, ed a portare i risultati raggiunti
sino alle loro estreme conseguenze là dove la logica sembra (e non è) essere una sfida al nostro pedestre buon senso («il y a plus de bon sens sous le semelles des Parisiens qu'il n°y a de pensées dans leurs tétes», orgogliose parole del Santo-Matematico). Pascal ha il temperamento dello scettico. («Je croirai qu’une mouche est une mouche lorsque l’ayant comparée avec cent autres insectes et après avoir contròlé ma
vue, je m’apercevrai qu'elle a des caractères individuels et constants.») Egli è ildiscepolo di Montaigne che conosce a fondo, del quale cita lunghi brani. Crede poco agli strumenti di indagine dell’uomo («après avoir contròlé ma vue»!). I sensi «abusent la raison par des fausses appa-
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rences; et cette méme piperie qu’ils apportent à l’àme, ils la regoivent d’elle à leur tour: elle sen revanche». Il giudizio? «Il ny a qu’un point indivisible qui soit le véritable lieu, la perspective l’assigne dans l’art de la peinture. Mais dans la vérité et la morale qui l’assignera?» L’immaginazione? «C'est cette partie décevante dans l'homme, cette maîtresse d’erreur et de fausseté, et d’autant plus fourbe qu'elle ne l’est pas toujours.» A fianco di queste cause immanenti di errore, vi sono delle cause secondarie, sempre presenti benché accidentali: l'abitudine, l'età, le malattie, l’interesse («merveilleux instrument pour nous crever les yeux agréablement»; «voilà pourquoi les institutions purement humaines n’ont qu’un fondement ruineux»;° «Plaisante justice qu’une rivière borne. Vérité en decà des Pyrenées, erreur au delà»).
Montaigne non avrebbe potuto dir di più. Pascal è un tronista. Nelle Provinciales vi sono scene di altissima commedia. Pascal è maestro nel ricercare,
per porlo poi a nudo, il punto debole, il «punctum dolens», onde farlo apparire nella sua miseria e nella sua squallida comicità. Di questa facoltà d’ironia feroce egli si serve dapprima contro i gesuiti, ma in seguito la rivolgerà contro l’umanità intera. Motteggiatore spietato, metterà alla berlina la vanità e le piccinerie dell’uomo. Pascal è un asceta. Si rallegrava delle sue sofferenze fisiche («qui sont une augmentation de l’esprit»; verissimo... quando si è Pascal, però) e volontariamente le raddoppiava. Quella che egli ama è la fede raggiunta attraverso la sofferenza («Je méprise les douillets. Je n’approuve que ceux qui cherchent en gémissant»). Pascal, infine, è un credente. Fede duramente conqui-
stata («je me suis jeté en désespéré aux pieds de la * Questa frase non è una citazione da Pascal, bensì dal manuale del
Doumic, che la pone a commento della successiva celebre citazione pascaliana.
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Croix»), ma assoluta infine e matematicamente sicura.
Egli è forse il solo scettico che abbia trovato risposta a tutti i suoi dubbi. Non ci ha detto come perché queste cose sono ineffabili anche per un genio dell'espressione quale era lui. È fraintenderlo completamente,
è anzi insultarlo il
mettere in dubbio la sincerità della sua fede. Ai pensatori del suo calibro la verità sulle proprie opinioni s'impone. Pascal è la grande vittoria della Fede sul Dubbio. La sola forse. Ma ben grande. Pascal sintetizza in sé molte antinomie e senza precedenti. Les Provinciales
Sono diciotto lettere «de Louis de Montalte à un Provincial de ses amis et aux R.R.P.P. Jésuites sur la morale et la Politique de ces Pères». La prima fu pubblicata il 3 gennaio 1656. L’ultima quattordici mesi dopo. Le prime quattro sono dedicate alle liti giansenistiche, alla quistione della Grazia. A cominciare dalla quinta Pascal abbandona la tattica difensiva ed attacca con un acume ed un brio senza precedenti la morale dei gesuiti e la casistica. Egli immagina un padre gesuita, uomo eccellen-
te e mite, che esponga in un dialogo le teorie più insostenibili con candore e bonomia. Pascal fa da interlocutore e trascina sempre più avanti l’ingenuo gesuita, finché V’assurdità appare lampante. Non vi è una contradizione della ricchissima letteratura gesuitica che non sia posta in mostra e che non sia oggetto del più urbano scherno. Un vero gesuita, le père Bouhours, lo confessa: «Nous sentîmesla terre trembler sous nous». Dalla nona lettera in poi il gesuita-capro espiatorio scompare e Pascal si rivolge direttamente all’intera Compagnia di Gesù. Le ultime due lettere trattano di nuovo della quistione della Grazia. Les Provinciales fecero uscire le dispute teologali dal
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chiuso delle scuole e ne mostrarono al pubblico l’estrema importanza ed il riverbero sulla morale spicciola. E per far questo Pascal ha creato una lingua nuova, non più rigida come quella dei dottori in teologia, non più puramente astratta come quella di Descartes, ma pieghevole, duttile, capace di rendere tutte le risonanze,
che si eleva talvolta alla più alta indignazione, che scende spesso al tono della beffa amara e spietata. E che procede per mezzo di frasi corte, rapide, nervose. La lingua della polemica è stata creata da questo grande mistico. Les Pensées
Les Provinciales non dovevano essere che un episodio della attività letteraria di Pascal. L’opera conclusiva della sua vita doveva essere l’Apologze de la Religion chrétienne. Cominciò a lavorare intorno ad essa sin dal 1658 ma la malattia feroce gl’impediva ogni altra fatica all’infuori di quella di fissare i propri pensieri, seguendo il filo delle sue meditazioni, su qualsiasi pezzetto di carta che gli capitasse fra le mani. L’autografo delle Persées è composto da centinaia di straccetti di carta e di stoffa, coperti dalla sua scrittura febbrile ed incollati poi malamente sui fogli di un registro che è esposto adesso con grande e meritatissima pompa alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Quel che doveva fare l’originalità dell’opera era il piano costruttivo. «Aux incroyants il faut s'adresser avec le langage de l’incroyance.» E da questo proposito d’indirizzarsi ai miscredenti è nata la straordinaria arditezza del famoso «pari» che a torto è stata guardata come prova di dubbio dell’autore ma che è un metodo di estrema audacia adoperato non già per far credere ma per indurre gli indolenti in materia spirituale ad occuparsi dei problemi religiosi. Per un logico della forza di Pascal le quistioni di metodo erano importantissime e sarebbe quindi di capitale
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interesse conoscere la disposizione che egli aveva intenzione di dare ai suoi pensieri.
Disgraziatamente manchiamo di informazioni su questo punto; o meglio, ne abbiamo troppe e discordanti. La sorella di Pascal, Mme Périer, ci assicura di aver udi-
to dal fratello l'esposizione dello schema logico della sua Apologie de la Religion. Il giansenista M. de Saci afferma aver ricevuto personalmente delle confidenze sullo stesso argomento. E le due disposizioni proposte sono in netto contrasto. Poiché questi due testimoni sono della più grande rispettabilità ed evidentemente in buona fede si deve credere a due progetti successivi di Pascal; e quindi non possiamo esser sicuri di quale sarebbe stato preferito, o se addirittura non sarebbe stato adottato un terzo od un quarto a noi ignoti. Del resto il danno è minimo; men che minimo anzi,
perché dalla forma spezzettata e convulsa nella quale il trattato ci è giunto emana una tale sincerità, una tale vio-
lenza di convinzione che avrebbe soltanto potuto essere diminuita dall’armonia e dalla levigatezza di una composizione studiata. Venuto meno il fine apologetico, rimane una massa colossale di pensieri di una profondità e di un’amarezza inaudita sulla «condition humaine» (questa espressione,
anch’essa sovraccarica di pessimismo e passata adesso allo stato di luogo comune, è di Pascal). Non starò a dirvi che ogni persona che voglia essere qualcosa di più di un bipede implume deve leggere Les Pensées. E perciò sarebbe inutile trascriverne qualcuna. Però non vorrei lasciarvi andar via con la mia prosa nelle orecchie quando potete invece ascoltare qualcuna di queste «poignantes» e talvolta sconvolgenti enunciazioni: «Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement.»È )
“ La citazione non è tratta dalle Pensées, ma dalle Maxizes di La Rochefoucauld.
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«Le dernier acte est sanglant, quelque belle que soit la comédie en tout le reste; on tire un drap sur le visage, et tout est dit.»" «Les hommes n’ayant pu guérir la mort, la misère, l’ignorance, ils se sont avisés, pour se rendre heureux, de n°y point penser.» «La condition humaine ici-bas est misérable, et la tristesse y est si parfaitement inhérente, que l'homme ne saurait en supporter la connaissance et rester en repos en face de soi. Le jeu, la chasse, le travail du savant, les occupations du magistrat, du conquérant, du roi, tous ces biens prétendus n’ont d’autre utilité que de détourner l'homme de lui-méme et de le “divertir”».È Questo è il pessimismo pascaliano. Ma vi è anche il suo aspetto ottimista, non certo ridanciano, ma quell’ottimismo che può provenire da un alto senso della dignità umana: «L’homme connait qu'il est misérable; il est donc misérable puisqu’il l'est; mais il est bien grand puisqu’il le connaît». «L'homme n°est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c'est un roseau pensant. Il ne faut pas que l’univers entier s'arme pour l’écraser: une vapeur, une goutte d’eau, suffit pour le tuer. Mais, quand l’univers l’écraserait, l'homme serait encore plus noble que ce qui
le tue, puisqu’il sait qu'il meurt, et l’avantage que l’univers a sur lui, l’univers n’en sait rien». Il contrasto fra la miseria dell’uomo ed il suo valore è l’enigma al quale, secondo Pascal, la sola risposta è Dio. «Quelle chimère est-ce donc que l’homme? Quelle nouveauté, quel monstre, quel chaos, quel sujet de contra* La citazione è errata, ma si preferisce riportarla come scritta da Tomasi perché faceva parte del deposito di massime che formava la sua stella polare. La citazione corretta è la seguente: «Le dernier acte est sanglant, quelque belle que soit la comédie en tout le reste; on jette enfin de la terre sur la téte, et en voilà pour jamais». ** Il testo non è una citazione ma un sunto del cap. II, 8 («Le divertissement»).
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diction, quel prodige! Juge de toutes choses, imbécile ver de terre, dépositaire du vrai, cloaque d’incertitude et d’erreur, gloire et rebut de l’univers.»... «La nature confond les phyrroniens, et la raison confond les dogmatiques.» «Toutes ces misères-là mèmes prouvent sa
grandeur. Ce sont misères d’un grand seigneur, misères d’un roi dépossédé.» Mai si erano udite prima, mai più udiremo simili grida di angoscia. Per uscire dal tormento, Pascal ha trovato Dio. «C'est le coeur qui sent Dieu, et non la raison. Voilà ce que c'est que la foi: Dieu sensible au coeur.» E, dopo, subito, il pensiero supremo: «Tu ne me chercherais pas, si tu ne m’avais trouvé». Tutto, passando attraverso la mente di Pascal, prende un aspetto diverso. Montaigne parla come lui della miseria e della ignoranza umana; ma se ne diverte. Pascal
ne soffre. La sua mentalità è drammatica: le Persées sono un dramma, uno dei più alti, la lotta della fede con-
tro il dubbio, e la forma dialogata viene spesso spontanea alla sua mente. «Je pensais à toi dans mon agonie, j ai versé telles gouttes de sang pour toi.» Dello stile è inutile parlare: idea e stile qui sono la medesima cosa, come la luce ed il sole.
Parecchi pensieri sono del resto dedicati al modo di scrivere. Tutti impongono la necessità della naturalezza: «la vraie éloquence se moque de l’éloquence». «Quand on voit le style naturel on est tout étonné et ravi, car on s’attendait de voir un auteur, et on trouve un homme.»
Mi sono riletto circa la metà delle Pensées; e davvero preferisco tacere. «Seul le silence est grand; tout le reste est faiblesse.» Lasciamolo dunque solo, Pascal, sulla sua cima sca-
bra più alta di qualsiasi montagna. Lasciamolo solo, dilaniato dal duplice uragano della Fede e del Dubbio.
LA ROCHEFOUCAULD
Lasciando Pascal si scende, verso qualunque punto ci si diriga. Ma in quella età degli «eguali» che è il Seicento francese la discesa non è mai molto lunga. Percorriamo un centinaio di metri ed arriviamo ad un alto picco, un
po’ più basso di quello dove abbiamo lasciato il Matematico-Mistico. Questa seconda cima non guarda l’infinita distesa del cielo, i vortici abbaglianti nei quali si crede di scorgere Dio: è rivolta verso una vallata nella quale si vedono faticare gli uomini; ed alla vertiginosa altezza alla quale ci troviamo il chiasso del loro egoismo, il tinnire dei loro traffici perde ogni nota individuale e ci giunge come un solo suono caratteristico: quassù percepiamo soltanto la «dominante» nel loro grido. Questa cima è quella di La Rochefoucauld. Mi sembra di aver capito che voi temiate che La Rochefoucauld sia un seccatore. Il titolo della sua opera, Les Maximes, vi fa sospettare che vi s'impartiscano dei principi di saggezza; che le Maxzrzes siano dei precetti di vita come «È vietato sputare sul pavimento» o «Non parlate al manovratore». Occorre che vi disinganniate. Le Maximzes di La Rochefoucauld hanno un titolo sbagliato: esse non insegnano niente; non sono precetti di condotta, sono constatazioni. Constatazioni, d’altronde, fatte non a tavolino da un professore rinsecchito, ma enunciate, dopo una vita tu-
multuosa, dal capo di una delle più antiche e illustri famiglie feudali di Francia («je suis en état de justifier
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qu'il y a trois cent ans que les rois n’ont pas dédaigné de nous traiter en parents»; e non sembra di sentire la voce di Charlus?). Constatazioni, dunque, preziose per l’esperienza che vi è racchiusa; constatazioni, va da sé, amare.
Frangois VI de La Rochefoucauld nacque a Parigi il 15 settembre 1613, prese moglie a quindici anni, a diciotto guidava, spada in pugno, le colonne d'assalto che conquistarono Casale, a venti era l'amante della duches-
sa di Chevreuse. Questa delle amanti illustri era una specialità del nostro ottimo duca: ebbe la Chevreuse, bella e intrigante; ebbe la duchesse de Longueville, ancora più bella e ancora più politicante; ebbe Madame de La Fayette, buona e intellettuale, autrice del primo romanzo francese di vero valore. Le prime due trascinarono il loro amante in una serie di avventure politiche che avevano del romanzesco: complotti, duelli, tentati rapimenti di regine, guerre civili, intrighi e raggiri di ogni sorta. La Rochefoucauld, giovane, coraggioso e rompicollo, vi ebbe parte precipua; ma un po’ per incuria di gran signore, un po’ per mancanza di penetrazione politica,
non riuscì mai ad affermarsi al posto supremo di Primo Ministro al quale, forse, in principio aspirava. Cosicché,
deluso, quando una schioppettata lo ferì fra i due occhi all’assurda battaglia di Porte Saint-Antoine, fu ben lieto di avere un pretesto per abbandonare la vita politica. La sua ferita lo rese del tutto cieco; ma dopo due mesi riacquistò la vista «quoique j'eusse appelé beaucoup de médecins». Da allora in poi visse calmamente, si riappacificò con Luigi XIV, frequentò la corte dove andò acquistando grande prestigio, e scrisse.
Frequentava il salotto di Mme de La Fayette della quale era l’amante e lì, durante un gioco di società, redasse il proprio ritratto «parlato» che ci è stato conser-
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vato. Leggiamolo, e conosceremo un po’ meglio quel che era (o quel che egli desiderava si credesse che fosse) questo cattivissimo duca: ..J'ai les cheveux noirs, naturellement frisés; et avec cela as-
sez épais et assez longs pour pouvoir prétendre en belle téte. Jai quelque chose de chagrin et de fier dans la mine: cela fait croire à la plupart des gens que je suis méprisant, quoique je ne le sois point du tout. ... Pour parler de mon humeur, je suis mélancolique, et je le suis à un point que, depuis trois ou quatre ans, à peine m’a-ton vu rire trois ou quatre fois. ...Je suis fort renserré avec ceux que je ne connais pas, et je ne suis pas méme extrémement ou-
vert avec la plupart de ceux que je connais. C’est un défaut, je le sais bien, et je ne négligerai rien pour m’en corriger. ... J'ai toutes les passions assez douces et assez réglées; on ne m’a presque jamais vu en colère et je n’ai jamais eu de haine pour personne. Je ne suis pas pourtant incapable de me venger, si l'on m’avait offensé... Au contraire, je suis assuré que le devoir ferait si bien en moi l’office de la haine, que je poursuivrais ma vengeance avec encore plus de vigueur qu’un autre. L’ambition ne me travaille point. Je ne crains guère de choses, et ne crains aucunement la mort. Je suis peu sensible à la pitié, et je voudrais ne l’y étre point du tout. Cependant il n’est rien que je ne fisse pour le soulagement d’une personne affligée; et je crois effectivement que l’on doit tout faire jusqu’à lui témoigner méme beaucoup de compassion pour son mal; car les misérables sont si sots, que cela lui fait le plus grand bien du monde; mais je tiens aussi qu'il faut se contenter d’en témoigner et se garder soigneusement d’en avoir. C'est une passion qui n’est bonne à rien au dedans d’une àme bien faite, qui ne sert qu’à affaiblir le coeur et qu'on doit laisser au peuple, qui, n’exécutant jamais rien par raison, a besoin de passions pour le porter à faire les choses. ... Jai une civilité fort exacte parmi les femmes et je ne crois pas avoir jamais rien dit devant elles qui leur aurait pu faire de la peine. Quand elles ont l’esprit bien fait, jaime mieux leur conversation que celle des hommes: on y trouve une certaine douceur qui ne se rencontre point parmi nous; et il me semble, outre cela, qu’elles s’expliquent avec
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plus de netteté, et qu’elles donnent un tour plus agréable aux choses qu’elles disent. Pour galant, je l’ai été un peu autrefois; présentément je ne le suis plus, quelque jeune que je sois. J'ai renoncé aux fleurettes et je m’étonne seulement de ce qu'il y a encore tant d’honnétes gens qui s’occupent à en débiter. J'approuve extrémement les belles passions; elles marquent la grandeur de l’àme et quoique dans les inquiétudes qu’elles donnent, il y ait quelque chose de contraire à la sévère sagesse, elles s'accommodent si bien d’ailleurs avec la plus austère vertu, que je crois qu'on ne le saurait condamner avec justice. Moi qui connais tout ce qu'il y a de délicat et de fort dans les grands sentiments de l’amour, si jamais je viens à aimer, ce sera assuré-
ment de cette sorte; mais, de la facon dont je suis, je ne crois pas que cette connaissance que j’ai me passe jamais de l’esprit au coeur.»
Quando questo «portrait» venne letto, tutti lo approvarono, perché «parfaitement vrai». «Parfaitement vrai» è esagerato. A parte due dichiarazioni che sono patentemente false («L’ambition ne me travaille point... Je n’ai jamais eu de haine pour personne») il ritratto pecca di omissioni. È un ritratto di apparato rappresentante «le duc de la Rochefoucauld, pair de France, chevalier des ordres du Roi». Molti tratti della fisionomia morale sono disegnati con l’impavida accuratezza di tutta la letteratura francese. Molti altri sono sorvolati. La forma è magnifica; e l’ultima parte che comincia in tono patetico, pre-raciniano, ma si corregge
presto nell’alterigia del gran signore, è una meraviglia. Ma La Rochefoucauld stesso ci ha detto altrove: «Nos ennemis approchent plus de la vérité dans les jugements qu’ils font de nous que nous n’en approchons nous-mèmes», E per questo sarà utile in seguito paragonare que-
sto autoritratto con lo schizzo che di lui ha fatto il cardinale di Retz, suo vecchio accanito nemico. Lo leggeremo al capitolo seguente. La Rochefoucauld era, in primo luogo, un deluso.
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Molto aveva avuto dalla vita ma quel che aveva ricevuto gli sembrava poco in paragone di quanto aveva sperato. E si rinchiudeva in una malinconia altera, un disgusto di tutte le cose che, attraverso il suo stile spoglio di ornamentazione e rigidamente classico, ce lo fa sentire come un romantico. Poche lettere di lui ci sono rimaste; ascoltiamone una
(breve) e ci accorgeremo come ci sia di già in lui la malinconia sprezzante, il «taedium vitae» che sarà duecento anni dopo espresso da Chateaubriand, quell’altro aristocratico deluso: A la comtesse de Clermont. «... Pour peu que vous soyez curieuse de ce qui se passe ici, je vous l’aurai bientòt appris: on y joue, on y chasse et l’on s’y ennuie, au moins moi, indigne, pauvre gentilhomme limousin. Molière nous joua hier soir l’Ecole des maris; que je ne vis point. Quant à Monsieur de Créqui s'il ne fait effort, et s’îl ne profite de ce voyage ici, ses affaires iront mal; mais que m’importe et à vous aussi?»
Non è il tono dei grandi «désabusés», il tono ironico e amaro? Ascoltiamo la risonanza di queste parole «moi indigne, pauvre gentilhomme limousin»; e l'eco disincantato delle ultime parole «Mais que m’importe, et à vous aussi?». Malgrado questa sua indifferenza, o proprio per causa di questa indifferenza, il duca era l'idolo dei salotti, ed i giovani gli chiedevano aneddoti, racconti su
quell’epoca turbolenta e romanzesca della Fronda che sembrava di già tanto lontana. La Rochefoucauld raccontava volentieri, e bene; ed alla fine riassumeva il sen-
so della narrazione in una breve frase. Erano le Maximes che infatti hanno spesso il tono di confessioni o di ricordi suscitati da una narrazione. Fu pregato di raccogliere questi suoi detti che davvero erano carichi di esperienza.
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Lo fece volentieri e venne pubblicato il libro che ne contiene cinquecentoquattro.
Senza farlo di proposito ma spinto a ciò da quanto aveva potuto constatare, La Rochefoucauld smonta vite per vite il meccanismo delle azioni umane, e giunge a trovare la molla motrice di tutto: quella che lui chiama «l’amour propre» e che adesso noi chiamiamo l'amor di se stessi, l’egoismo. È una umanità brutale quella che ci vien presentata qui, malgrado la perfetta urbanità del linguaggio e lo stile di diamantina semplicità e chiarezza. Un libro da leggersi e da rileggersi senza tregua, che porrà bene in guardia contro molti trabocchetti della vita; bisognerebbe non leggere mai più di una diecina di Maximes alla volta, per lasciar loro il tempo di essere da noi bene assimilate e perché con la riflessione ne possiamo apprezzare la triste ma innegabile verità. Verità che non deve, però, esser interpretata oggettivamente, come
credo facesse il perverso duca, ma soggettivamente; ed allora porterà dei frutti anche etici. Vediamone qualcuna; scelgo quelle che più hanno la risonanza di una conclusione di narrazione, di «morale
della favola». 271. La jeunesse est une ivresse continuelle: c'est la fièvre de la raison. 231. C'est une grande folie de vouloir étre sage tout seul. 113. Il y a de bons mariages, mais il n’y en a point de délicIeUX. 121. On fait souvent du bien pour pouvoir impunément fai-
re du mal. 149. Le refus des louanges est un désir d’étre loué deux fois. 49. On n'est jamais si heureux ni si malheureux qu’on s’imagine.
23. Peu de gens connaissent la mort. On ne la souffre pas ordinairement par résolution, mais par stupidité et par coutume, et la plupart des hommes meurent parce qu’on ne peut s'empécher de mourir.
Il Seicento
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(Epigrafe) 138. Ce que nous prisons souvent pour des vertus, n’est en
effet qu'un nombre de vices, qui leur rassemblent, et que l’orgueil et l’amour-propre nous ont déguisés. 195. Ce qui nous empéche souvent de nous abandonner è un seul vice est que nous en avons plusieurs. (Atroce ma innegabile)
235. Nous nous consolons aisément des disgràces de nos amis lorsqu’elles servent à signaler notre tendresse pour
euX. 294. Nous aimons toujours ceux qui nous admirent, et nous n’aimons pas toujours ceux que nous admirons. 303. Quelque bien qu’on dise de nous, on ne nous apprend
rien de nouveau. 312. Ce qui fait que les amants et les maîtresses ne s’annuient point d’etre ensemble, c’est qu’ils parlent toujours d’eux-mémes. 330. On pardonne tant que l’on aime. 420. Nous croyons souvent avoir de la constance dans les malheurs, lorsque nous n’avons que de l’abattement, et nous les souffrons sans oser les regarder, comme les poltrons se laissent tuer de peur de se défendre. 19. Nous avons tous assez de force pour supporter les maux d’autrui.
Queste Maxizzes, folgoranti per il loro senso come per la loro forma, fecero scandalo; la gente non gradisce di aver la propria anima posta in piazza. I più indignati furono i giovani, per i quali un certo giulebbe di sentimentalità è necessario alla vita come l’acqua salmastra ai girini. E del resto, non avendo conosciuto abbastanza «casi clinici», possono più facilmente credere alla cattiveria di chi constata la loro propria. Più tardi i veli rosa cadranno; purché non sia troppo tardi. Il fatto è che con le Maxizes l'egoismo, appena mascherato sotto il nome salottiero di «amor proprio», acquista le proprie lettere di cittadinanza nella letteratura.
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Letteratura francese
Era sempre esistito, si capisce, ma non se ne osava parlare. «Che cosa vuoi ancora, uomo?» «Una maschera, un’altra maschera.» La Rochefoucauld non fornisce maschere. Ed il timore è ancora misto alla ammirazione che si concede al suo
pensiero impavido ed al suo stile senza aggettivi. La Rochefoucauld scrisse anche i suoi Mémotres, che sono una narrazione asciuttissima e acuta dei fatti nei quali fu impelagato nella sua gioventù. Ma nei quali si astiene da qualsiasi indagine psicologica. E davvero che cosa gli poteva ancora rimanere da dire?
LE CARDINAL DE RETZ
Anche questo è un bel tipo di gran signore cinico. Tanto cinico da non essersi neppure espresso in massime che lo avrebbero rivelato; ma da aver nascosto fra le pieghe dei suoi Mémoires tutta l’esperienza e le tristi constatazioni fatte durante una agitatissima vita che trascorse appunto nel partito avverso a quello di La Rochefoucauld. Paul de Gondi, che divenne arcivescovo di Parigi e più tardi cardinale, era di fatto un italiano, nipote di un membro della grande famiglia fiorentina che seguì in Francia Maria de’ Medici quando questa venne sposa ad Enrico IV. Era nato nel 1613; ed entrò negli ordini sacri. Con quanta vocazione ce lo dirà lui stesso nei suoi Méyzotres. Comme j'étais obligé de prendre les ordres, je fis une retraite à Saint-Lazare, où je donnais à l’extérieur toutes les apparences ordinaires. L’occupation de mon intérieur fut une grande et profonde réflexion sur la manière que je devais prendre pour ma conduite. [...] Je pris après six jours de réflexion le parti de faire le mal par dessein, ce qui est sans comparaison le plus criminel devant Dieu, mais ce qui est sans doute le plus sage devant le monde.
Queste frasi vi faranno comprendere il tono dei suoi Mémoires: l'ambizione senza scrupoli, e quel che è peggio, l'ambizione sconfitta, non si è mai mostrata con tan-
ta spregiudicatezza. Gli avvenimenti politici dal 1640 al 1650 sono di una complicazione e di una varietà di motivi che dà le vertigini: tutto vi è compreso, la guerra ci-
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Letteratura francese
vile, la guerra estera, le sommosse di strada e le congiure di palazzo, le pretese liberali (per modo di dire) dei Parlamenti e l’estrema rivolta della società feudale, una cru-
deltà enorme accompagnata dalle più raffinate maniere, regine innamorate, cardinali astuti e soprattutto il predominio fisico e sentimentale delle donne, delle belle e
corrotte dame altolocate, che si agitavano, intrigavano, combattevano e sparavano financo il cannone (come fece MIle de Montpensier) non si sa bene perché, forse solo per il desiderio di far parlare di sé, come, di fatto, sono riuscite ad ottenere. Agitazione vivacissima ma, in
fondo, superficiale e che non lasciò traccia: non per niente Dumas ha situato ai tempi della Fronda i suoi romanzi più spericolati. A tutte queste tempeste Retz prese gran parte. Di già
arcivescovo di Parigi, la sera si vestiva in borghese e, spadino al fianco, andava a cospirare con voluttà. Eccitava il popolino di Parigi contro il cardinale Mazzarino, i grandi aristocratici contro la Reggente, si batteva in duello, costruiva barricate. Mai si vide prelato meno sa-
cerdotale. Gioco del resto pericolosissimo che lo condusse più d’una volta alla Bastiglia e lo mise a un pelo dal perdere la testa. Cromwell, indignato nel proprio puritanesimo, lo chiama in una sua lettera «the he-Jezabel». Retz, in fondo, non riuscì a niente: il suo compa-
triota Mazzarino era più in gamba di lui. Però una delle condizioni della pace che concluse queste rumorose agitazioni della Fronda, fu che un cappello cardinalizio dovesse essere ‘dato a Retz. Ed egli lo ebbe, si dimise dall’arcivescovado di Parigi, si ritirò in un suo feudo a Commercy, scrisse i suoi Mérzotres e morì santamente.
Mme de Sévigné, nella sua bontà, non lo chiama che «le bon Cardinal». ‘ Questi intrighi, queste cavalcate notturne, questi patteggiamenti e mercanteggiamenti narrati da Retz sono
tanto complicati ed estranei alla nostra mentalità da riu-
Il Seicento
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scire quasi incomprensibili. I Mé0zres di Retz potreb- . bero essere noiosissimi. Invece sono uno dei libri più dilettevoli che esistano perché questo turbolento prelato era uno psicologo ed un artista. In questo mondo complicatissimo nel quale viveva egli si aggirava non soltanto per ottenere vantaggi di ambizione, ma anche per un gusto intellettuale di osservare tipi e situazioni fuori del comune. È un grande indagatore di caratteri e tutti i personaggi di quell’epoca fantasiosa egli li ha scrutati fino in fondo al loro animo, amici o nemici che fossero, regine, cardinali, grandi capitani o belle signore. E ci ha lasciato una galleria di ritratti, alcuni composti di due o tre linee soltanto («mes portraits de profil», diceva lui), altri sviluppati con tutti i colori della paletta e con tutti gli acidi della sua bile («mes portraits de face») che sono tutti vivi e parlanti. Ma non soltanto sa discernere le varie ragioni della condotta degli uomini, ma sa rendere (cosa rarissima nel Seicento francese) il movimento delle masse, la psicologia collettiva, gli ondeggiamenti delle battaglie. Nutrito da Sallustio e da Plutarco, ammiratore fervente e confesso di Machiavelli, egli ha adottato la
composizione per via di antitesi dei primi, e la nervosità indagatrice del secondo, fondendo questo materiale in un suo stile variatissimo che talvolta è solenne, talvolta scivola nel popolaresco e volutamente triviale, adoperando le parole della plebe che egli aveva evidentemente apprese dai suoi amici barricadieri. Ecco alcuni dei suoi ritrati di «profilo»: il vescovo di Beauvais è «une béte mitrée»; d’Elbeuf «un grand sal-
timbanque de son naturel»; «Turenne avait presque toutes les vertus comme naturelles, il n’a jamais eu le brillant d’aucune». Ed ecco per finire il suo «portrait de face» del nostro ottimo duc de La Rochefoucauld:
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Letteratura francese
Il y a toujours eu du je ne sais quoi en tout M. de La Rochefoucauld: il a voulu se méler d’intrigue, dès son infance, et dans un temps où il ne sentait pas les petits intéréts, qui n’ont jamais été son faible, et où il ne connaissait pas les grands, qui, dans un autre sens, n’ont pas été son fort; il n’a jamais été capable d’aucune affaire, et je ne sais pourquoi, car il avait des qualités qui eussent supplé, en tout autre, celles qu'il n’avait pas. Sa vue n’était pas assez étendue, et il ne voyait pas méme tout ensemble ce qui était à sa portée; mais son bon sens, et très bon dans la spéculation, joint à sa douceur, à son insinuation et à sa facilité de moeurs, qui est admirable, devait compenser plus qu’il n’a fait, le défaut de sa pénétration. Il a toujours eu une irrésolution habituelle, mais je ne sais méme è quoi attribuer cette irrésolution: elle n’a pu venir en lui de la fécondité de son imagination, qui n’est riens moins que vive; je ne la puis donner à la stérilité de son jugement, car, quoiqu’il ne l’ait pas exquis dans l’action, il a un bon fonds de raison: nous voyons les effets de cette irrésolution, quoique nous n’en connaissons pas les causes. Il n’a jamais été guerrier, quoiqu’il fàt très soldat; il n’a jamais été par lui-méme bon courtisan, quoiqu'il ait eu toujours bonne intention de l’étre; il n’a jamais été bon homme de parti, quoique toute sa vie il y ait été engagé. ...Il eùt beaucoup mieux fait de se connaître, et de se réduire è passer,
comme il l’eùt pu, pour le courtisan le plus poli qui eùt paru dans son siècle.
E difficile demolire un uomo con migliori maniere.
ALTRI MEMORIALISTI
I principali sono due: due donne. Madame de Motteville (1621-1689) ci racconta pressappoco gli stessi avvenimenti del cardinale de Retz; però visti dall’altra parte delle barricate, non solo, ma visti da una donna buona, semplice, fedele e che quindi non sempre si rendeva conto degli intrighi e delle complicazioni psicologiche. Bastava che un cortigiano o un uomo politico rendesse omaggio alla sua adorata regina, perché diventasse un puro e grande uomo; quando poi si avvedeva che aveva tradito, «Jen fus on ne peut plus surprise».
Malgrado questa cecità psicologica le memorie della Motteville sono preziose per la grande onestà e veridicità, e sono una delle fonti indispensabili per la storia del tempo. Ben diverse sono le memorie di MIle de Montpensier. Figlia unica del duca di Orléans, cugina del re, favolosamente ricca, essa avrebbe potuto pretendere a tutto, anche a diventare regina di Francia. Disgraziatamente per lei, essa non era un personaggio reale, ma un’eroina dell’Astrée che per un momento vestisse panni umani. Romanzesca,
illusa, capricciosa, battagliera, forse non
molto intelligente, si buttò a capofitto nelle agitazioni della Fronda, comandò (male) degli eserciti, si fece prendere in giro da amici e da nemici. E la sua grottesca odissea è narrata da lei con semplicità, senza sintassi, ma con vivacità e spirito, senza mai un pentimento e senza aver
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capito nulla. Per un momento si parlò di un suo matrimonio con l’Imperatore. Ascoltatela come ne parla: Le désir d’étre impératrice qui me suivait partout me faisait penser qu'il était bon que je prisse par avance les habitudes qui pouvaient étre conformes à l’humeur de l’empereur. J'avais cui dire qu’il était dévot et, à son exemple, je le devins si bien après en avoir feint l’apparence quelque temps, que j’eus pendant huit jours le désir de me faire religieuse aux Carmelites.
Più sinceramente ingenui di così, non si può essere.
CORNEILLE
Le anime virtuose (o candide) sono scandalizzate dal cinismo di La Rochefoucauld e di Retz; adesso potranno
trovare consolazione nella figura di Corneille che, certamente, cinico non fu ed anzi ebbe tutta la vita l’anima
ingombra da severi fantasmi che parlano di doveri e di onore. Corneille è il poeta, il grande poeta, del libero arbitrio; posti dinanzi a un conflitto i suoi personaggi discutono, deliberano, scelgono; e la loro scelta motivano con copia di argomenti, dei quali ahimè! il massimo è la morte, che tutto è tranne argomento. Corneille fu educato dai gesuiti; era nato in Normandia e cominciò la propria carriera come avvocato; tre ragioni che lo predisponevano al culto della libera volontà umana. Port-Royal non poteva, come fece, che raccogliere la sua deplorazione. Ai nostri tempi nei quali la credenza al libero arbitrio è ridotta male dal determinismo scientifico, marxista e freudiano, Corneille ha perduto molto del suo fascino;
decadimento di fama inevitabile ma non per questo meno deplorevole. Quanti secoli dovranno ancora passare prima che l’umanità si abitui ad ammirare gli artisti di opinione diversa da quella corrente? In quale ventiquattresimo o venticinquesimo secolo il credente ammirerà Candide o l’ateo Athalie? Quando, per rallegrare un’orgia, si declamerà il Canto del pastore errante fra coppe di spumante rovesciate e seni di donne scoperti? Quando, per solennizzare un funerale, si leggerà ad alta voce Bou-
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Letteratura francese
bouroche? Ahimè, credo mai. Il contenutismo è predeterminato anche lui. Corneille, inoltre, è poeta quanto mai virile e che impone (cerca di imporre) una linea di condotta dignitosa, se proprio non fosse possibile quella eroica; gli uomini del nostro tempo, pronti a tutte le rinunzie spirituali pur di conservare un minimo di esistenza, sia pur spregevole, sono da lui infastiditi; egli è un ciottolino nella loro
scarpa adatta alla fuga; dicono che è retorico e abbandonano Chimène per la servotta «fresca come una prugna» (scusate, cito a memoria).
Il fatto è che gli uomini chiamano facilmente «retorica» la dialettica che si occupi di sentimenti che non condividono o per elevarsi ai quali dovrebbero fare uno sforzo. Ma di questo parleremo in seguito.
Corneille non ha quasi esistenza al di fuori della sua opera. Nacque a Rouen nel 1606, da famiglia di magistrati. Cominciò a fare l'avvocato, ma lasciò presto il tribunale per la scena. Scrisse delle commedie che ebbero un grande successo, andò a Parigi, fu dapprima protetto e in seguito vessato da Richelieu; provocò con il suo Cid la più grande zuffa letteraria del suo secolo; e si diede poi ad esprimere nelle sue tragedie il suo alto ideale di libertà spirituale e di onore; nel 1602 lasciò Parigi, offeso dai fischi che accolsero il Pertharite e si ritirò a Rouen, vivendovi in dignitosa ma dura povertà e traducendo in versi l’Irzitazione. Nel 1659 ritornò a Parigi dove le sue nuove tragedie non ebbero successo (fra esse è, d’altronde, il Nicorzède, suo capolavoro). I tempi erano mutati e il genio passionale e femmineo di Racine aveva stregato tutti. Il vecchio leone morì, poverissimo, nel 1684.
Si dice che era di modi semplici, goffo nella conversazione e maldestro nei suoi rapporti con i potenti del
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giorno, ingenuo nell’esprimere la stima nella quale teneva il proprio talento; ben diverso dal levigato, prudentissimo e sagace Racine. L’opera di Corneille
Corneille è ancora recitato con frequenza: ma di lui si recitano (e si leggono) per solito soltanto Le Cid, Horace, Cinna ed eccezionalmente Polyeucte. Sono opere di prim'ordine, senza dubbio, ma insufficienti a dare un’idea dell’attività corneliana. Corneille si trova, anche in Francia, nella condizione in cui si trova Dante all’estero, dove l’autore del Paradiso è stimato solo come
il poeta del canto del conte Ugolino. Si trascura troppo il fatto, anzitutto, che Corneille è il
vero creatore di quel teatro classico francese che, prima di insabbiarsi nelle insopportabili ripetizioni e super-stilizzazioni, ci ha dato le opere, singolari al punto di essere miracolose, di Corneille stesso, di Racine e di Molière
e che è stato, insomma, uno degli «attimi stellari» dello spirito umano.
Abbiamo visto di scorcio (o piuttosto Doumic ci ha detto) a quali magri risultati era giunto il teatro francese del Cinquecento e del primo Seicento. Da allora sino a Corneille il miglioramento era stato scarso: la tragedia francese era influenzata dal dramma spagnolo, e la commedia dai lazzi della Commedia dell'Arte italiana (quella Commedia dell'Arte che è espressione genuina di quello stesso filone dello spirito italiano che, incupitosi ma eguale a se stesso, doveva generare i Pantaloni e gli Arlecchini lacrimosi, travestiti da eroi, del melodramma
ottocentesco). Jean Mairet fu il solo che tentasse di dar forma con la sua Sophonisbe ad un teatro rispondente a delle regole fisse.
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L’opera di Corneille precedente il Cz4, opera varia, freschissima, arieggiata e poetica, è del tutto negletta. Non parliamo di rappresentazioni, ma anche la lettura di essa era resa difficile dalla mancanza di ristampe e bisognava andare a scovarla nella monumentale collezione dei Grands écrivains de France che non è certo alla portata di tutte le borse e che, del resto, si trova soltanto di
seconda mano. Occorre essere grati alla collezione della «Pléiade» che in due soli volumi ha pubblicato l’intera opera corneliana, vero tesoro di gioielli, dico io; cassa di risonanza, di retorica, dicono i nostri contemporanei.
In queste opere precedenti il Cid Corneille ha dato la sua forma al teatro classico. Sono quasi tutte delle commedie, eccetto la tragedia di Médée, che seguono le unità aristoteliche con quella saggia larghezza che Corneille usò sempre, che ripudiano le buffonerie e i lazzi della Commedia dell'Arte, che per la comicità (che punta sul sorriso e non sullo «scoppio di risa») si affida alla eccentricità dei caratteri e non alla sciatteria dei fatti. Mélite (1629) è, come trama, un imbroglio galante nel gusto del tempo. Ma il lettore è sorpreso di trovare in mezzo alle vicende di cartapesta dei personaggi reali, che parlano un linguaggio comune e che, fra le fiabe dell'intreccio, conservano un buon senso e una ragione-
volezza che apparve sovrumana tanto era, appunto, semplicemente umana. Clitandre (1632) ha gli stessi pregi ed eguali difetti, come il suo titolo pastorale lascia facilmente indovinare; ma La Veuve (1633), La Galerie du Palais (1633), La Sui-
vante e La Place Royale, tutte e due dello stesso anno (1634) trattano argomenti «moderni» e concreti, disegnano figure gustose di parigini contemporanei che sono più che un preludio all’arte di Molière e che fecero impazzire di gioia il pubblico che vedeva allontanarsi i belanti fantasmi di drammi pastorali. Quattro comme-
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die interamente godibili, piene di malizia e di buon umore, nelle quali già comincia a mostrare il naso il grande verso sentenzioso e drappeggiato dell’autore. Ma l’ultima di queste commedie (La Place Royale) richiede un momento di arresto. In essa per la prima volta appare un personaggio «corneliano», Alidor, un personaggio cioè per il quale la vita consiste nel gioco della libera volontà e nella libertà spirituale che in questo gioco si atteggia. Si può anzi dire che Alidor, modesto borghese parigino che non regge imperi e non sparge sangue, è,
insieme a Nicomède, il più caratteristico personaggio di Corneille, quello in cui più apertamente viene espresso l'ideale dell’autore; qui, si capisce, in chiave comica. Questo Alidor ama, riamato, una ragazza, Angélique;
ma ama di più la propria libertà spirituale che l’amore porrebbe in pericolo; e perciò fa ogni sforzo per allontanare da se stesso l’amata, la propone ad altri, e quando essa, disperata, entra in convento, Alidor prorompe in esclamazioni di gioia per la libertà finalmente riconquistata. Ha ragione Benedetto Croce di osservare che Alidor è di già Corneille in pieno; l’esperienza non aveva ancora insegnato all’autore a creare una trama «corneliana»; in modo che la povera Angélique, che è una donna come tutte le altre, innamorata del giovanotto e non della volontà deliberante, appare pietosa e stritolata da questo essere più che umano. In seguito Corneille farà le innamorate o i rivali dello stesso metallo del protagonista ed avremo così quei magnifici cozzi di arieti di bronzo che riempiono del loro austero clangore le tragedie seguenti.
A questa significantissima Place Royale fece subito seguito Médée (1635), la prima tragedia di Corneille, imitata sì da Seneca ma che nella sua scrittura reca già tutti i tratti caratteristici dello stile corneliano. In essa troviamo il primo dei famosi «mots» di Corneille, di quelle risposte brevissime che dipingono in una sola parola il ca-
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rattere del personaggio ed ancora di più quello dell’autore. NÉRINE
Votre pays vous hait, votre époux est sans foi: Dans un si grand revers que vous reste-t-il? MEDÉE Moi.
È facile ridere di tanta perentorietà. Troppo facile. So bene che adesso una ragazza nelle disperate condizioni di Medea non risponderebbe «Moi» ma «il mio conto in banca» oppure «le altrui lettere compromettenti chiuse nella mia scrivania», ma lasciate che si ammiri (per non condividerla) l’alterigia di questa solitudine umana e la fiducia nella forza della propria personalità. Dopo Médée Corneille si concede un momento di riposo: dalla tragedia della Maga compone la commedia del Mago: L’illusion comique, che è uno dei suoi capolavori e che, non si capisce perché, è scomparsa dalle scene (l’ultima sua rappresentazione è di circa sessanta anni fa) e quasi del tutto dalla lettura. In questa commedia (e sarebbe meglio chiamarla «favola») abbiamo un Corneille disteso, che ha per un momento dimenticato i problemi della volontà deliberante e che gioca deliziosamente, con una levità di tocco che non gli è consueta. Imitata dal Magico prodigioso di Calderén, la favola si svolge in un clima irreale e imprecisato, campagnolo e incantato che ricorda a noi il delizioso Intermzezzo di Giraudoux. E che versi volutamente arzigogolati, che ad un tratto si aprono in squisiti paesaggi verbali; che personaggi assolutamente improbabili, capeggiati da Matamore che è certamente il più dilettevole, il più adorabile spaccone di tutto il teatro. Ascoltate con quanta grazia esprime le proprie rodomontate; è innamorato e per un momento si concede la grazia di non esser feroce:
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Et ce petit archer qui dompte tous les Dieux Vient de chasser la Mort qui logeait dans mes yeux. Regarde, j'ai quitté cette effroyable mine Qui massacre, détruit, brise, bràle, extermine; Et, pensant au bel oeil qui tient ma liberté, Je ne suis plus qu’amour, que gràce, que beauté.
e racconta le sue galanterie passate: Quand je veux, j'épouvante; et quand je veux, je charme; Et, selon qu'il me plaît, je remplis tour à tour Les hommes de terreur, et les femmes d’amour.
Du temps que ma beauté m’était inséparable, Leurs persécution me rendait misérable: Je ne pouvais sortir sans les faire pàmer. Milles mouraient par jour à force de m’aimer: J'avais des rendez-vous de toutes les princesses; Les reines à l’envi mendiaient mes caresses;
Celle d’Éthiopie, et celle du Japon Dans leurs soupirs d'amour ne mélaient que mon nom. De passion pour moi deux sultanes tremblèrent; Deux autres, pour me voir, du serail s'échappèrent; Ten fus mal quelque temps avec le Grand Seigneur.
L’illusion comique è un gioiello di libera fantasia e meriterebbe davvero di esser risuscitato; alla recitazione deve fare il più giocondo effetto e, fra l’altro, si presterebbe alla più estrosa e divertente regia. Nel 1636 venne rappresentato Le Cid. Come sapete esso è imitato dal dramma spagnolo di Guillén de Castro, trasformato completamente con l'adozione delle unità aristoteliche, con l'eliminazione di molte brutalità
e deviando la forza patetica dai fatti all'anima dei personaggi. Il successo fu strepitoso e Corneille entrò a trent'anni nella gloria. Successo più che meritato: dopo trecento anni Le Cid conserva una immortale freschezza,
è il vero poema della gioventù, con i suoi slanci temera-
ri, con la sua tenerezza, con i suoi dolori foderati di spe-
ranza. Rodrigo, Chimène, Don Diègue e anche la più
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smorta «Infante» sono delle persone vere e proprie con le loro caratteristiche nettamente distinte. E al di sopra della trama patetica si alza un cielo di perenne poesia, espresso in versi adorabili, spesso lirici anche nella loro forma, talvolta epici come nel famoso racconto che sembra una pagina della Légerde des siècles, percorso, nelle scene di violenza come nelle magnifiche scene d’amore, da un soffio perenne di entusiasmo e di generosità. «Beau comme le Cid» fu un modo di dire usato in Francia per due secoli; e verissimo.
Malgrado il suo successo popolare, e forse a causa di questo, Le Cid dispiacque alla critica. Per ragioni del resto opposte a quelle per cui dispiace ai nostri non-entusiasti contemporanei. Lo si trovò troppo violento, non
abbastanza rispettoso delle unità aristoteliche (Rodrigo aveva commesso il delitto di allontanarsi per qualche ora per combattere i Mori!) e «manquant de cette gravité qui doit étre essentielle à la tragèdie». Inoltre, orro-
re! il dramma è a lieto fine. Richelieu pare avesse montato la cabala avversa a Corneille: sia, da una parte, per gelosia di letterato dilettante cui il successo del suo ex-collaboratore dava ai nervi (si dice che il cardinale non esitasse ad andare personalmente, travestito, al teatro per fischiare Le Cd), sia
per ragioni politiche perché non vedeva di buon occhio l'esaltazione della Spagna ed una certa corrente anti-dittatoriale che circola in tutta la tragedia. Gli animi erano incredibilmente esaltati: i duelli furono molti, e gruppi di «cidistes» e di «anti-cidistes» si picchiarono più di una volta nelle strade. Si finì col deferire all Académie Frangaise, di fresca costituzione, un
giudizio letterario sul dramma: ed essa, dopo molte tempestose sedute, emise un giudizio quanto mai equilibrato, redatto da Chapelain, nel quale si biasimavano con cortesia le infrazioni alle regole della tragedia classica, ma si riconosceva l’alto valore dell’opera e si lasciava
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comprendere a Corneille che presto egli sarebbe stato ammesso a far parte «de cette illustre Compagnie». Di fatto, poi, passarono ancora dieci anni.
Ho dovuto trattenermi un poco su questa «querelle du Cid» perché essa fu l’ultima manifestazione della resistenza al neo-classicismo francese. Non solo, ma essa è la prova evidente dello straordinario interessamento del pubblico «à la chose littéraire», interessamento che è nobile caratteristica francese e che esiste ancora, soprav-
vivendo a rivoluzioni e guerre. In quanto alla questione delle tre unità aristoteliche occorre dire che l’osservanza di esse concentra e doma quanto di troppo svagato e discorsivo era (ed è) nel temperamento francese; impedisce il «rambling» e quando applicata da un uomo di superiore talento produce opere d’insuperato vigore (Cima, per esempio, e tutto il teatro di Racine). Il teatro francese venne danneggiato tanto dalla loro troppo prolungata applicazione (tragedie di Pradon, di Voltaire, di M.J. Chénier) quanto dalla loro brusca eliminazione (teatro, per esempio, di Victor Hugo che era proprio provvisto di quella specie di talento per il quale l'applicazione delle tre unità sarebbe stata salutare). Mentre vedremo Racine muoversi a suo agio nella ristretta gabbia delle unità aristoteliche, Corneille le avvertì sempre (o quasi) come una violenza e tentò con
sotterfugi di esimersene. Questa contrastante attitudine fra i due poeti rivali è, d’altronde, perfettamente logica: Racine aveva da rappresentare lo scoppio delle passioni che è di sua natura improvviso e breve; la tragicità di Corneille, invece, risiede nell’applicazione della volontà, procedimento che richiede il fattore tempo. Le polemiche attorno al Cid costrinsero al silenzio Corneille per quattro anni. Nel 1640 venne rappresentato Horace che fu preceduto da una ossequiosa dedica al
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cardinale di Richelieu: i due rivali si erano pienamente riconciliati. Horace è meno bello del Cid benché faccia parte del famoso «quadrilatère cornélien» (Le Cid, Horace, Cinna
e Polyeucte) nel quale con grande ingiustizia si vuol assommare tutto il talento di Corneille che invece è sparso, inegualmente, su tutta la sua opera. Malgrado la vivezza della narrazione, la forza delle caratterizzazioni, lo
splendore drappeggiato di molti suoi versi, vi è nell’Horace una certa rigidità programmatica, una assoluta mancanza di tenerezza che ci sorprende dopo il Cid e prima di Czrna. In definitiva la migliore critica (inconsapevole) che sia stata fatta ad Horace la si può trovare nel famoso quadro di David che è al Louvre e nel quale i tre giovani e il vecchio padre loro s’incastrano l'uno dentro l’altro con una precisione che sa più di schema meccanico che di viva opera d’arte. Il ricordo di Horace è rimasto tuttavia assai vivo in Francia, molti versi («Rome,
l’unique objet de mon ressentiment!») come pure l’altro («Que vouliez-vous qu'il fît contre trois?» «Qu'il mourùt») sono sulla bocca anche delle persone che non sanno da dove provengono. E la figura del «vieil Horace» (la cui attualità venne rinfrescata dai «vieux de la vieille» e dai «médaillés de 70») è rimasta popolare non senza lunghe sfumature di canzonatura. Horace è, poi, la prima delle tragedie corneliane dedicate alla storia romana: esse saranno diciotto e studieranno la storia di Roma antica in tutti i suoi aspetti e in ogni sua epoca, spesso con grande acume tanto che si è potuto parlare di un «Corneille historien»; storico niente, va da sé, ma è innegabile una viva attrazione di Cor-
neille per la storia romana che offriva ai suoi tempi delle esemplificazioni illustri e quasi mitiche di quella volontà deliberante che sempre più diventerà il centro del pensiero di Corneille. Nei due anni successivi vennero rappresentate Cina
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e Polyeucte, di argomento romano anch'esse, e che costi-
tuiscono gli ultimi due bastioni del famoso quadrilatero. Esse sono di molto superiori ad Horace e, se non vi fosse Nicomède, rappresenterebbero le massime affermazioni
del poeta. Attorno a Cirna ed all’interpretazione che dev'esser data all’enigmatico personaggio di Augusto le dispute si sono susseguite da secoli e non sono ancora chiuse; ad esse prese parte acutamente (e cinicamente) anche Napoleone che di sentimenti imperiali era esperto. Dispute che sono un segno indubitato della «vita» del personaggio, che appare diverso quando si presenta a temperamenti di lettori diversi. Conoscete tutti l’intreccio semplicissimo di Cinza: Augusto viene a scoprire che Cinna, suo antico amico,
cospira per ucciderlo. Malgrado le molteplici pressioni cui è sottoposto dal proprio ambiente, lo fa chiamare, ragiona con lui, e gli perdona. È tutto. Ed è molto. Augusto, sul crudele passato del quale Corneille insiste molto, perdona veramente in omaggio a una legge morale o perdona per pura politica col solo scopo di allargare la sua base politica e di dare a se stesso l’aureola della magnanimità? Corneille, in generale, non può certamente passare per un autore ambiguo e provvisto di parecchi significati: i suoi versi migliori hanno il conio nitido di medaglie di buona epoca. Nel Cirr4 però Augusto è fatto esprimersi con una sapiente serie di sottintesi, sempre con qualche parola rattenuta in petto, che conferiscono un’aria di ambiguità ai suoi discorsi senza togliere nulla alla suprema dignità della sua figura che costituisce forse il più bel «r6le» maschile del teatro francese. Sainte-Beuve era d’opinione che il perdono fosse genuino «et pour ainsi dire chrétien»; Napoleone era di parer contrario e propendeva per la mira politica. Ambedue citano copia di versi convincenti in favore
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Letteratura francese
della loro tesi. Io, personalmente, in quistioni di condot-
ta politica ho più fiducia in Napoleone. In ogni caso, dettata da un motivo o dall’altro la «clemenza di Augusto» (e questo è il significativo sottotitolo della tragedia) è frutto di una deliberazione della volontà. Augusto stesso lo dice, orgoglioso: Je suis maître de moi comme de l’univers, Je le suis, je veux l’étre...
E questa alta discussione sulla magnanimità, genuina o disinteressata che sia, rimane uno dei vertici del teatro
di tutti i tempi. Polyeucte è un’altra cima. Il teatro classico francese con questa, con l’Azbalie e con il Saint-Genest di Rotrou ci ha dato le tre più alte tragedie religiose, a prescindere dai drammi spagnoli che più che largamente religiosi sono strettamente cattolici. Il meccanismo morale dei personaggi del Polyeucte è grandioso nella sua continua tensione verso la perfezione. Pauline ama dapprima Severo; ma quando la sua cartesianissima «raison» le mostrerà le superiori virtù di Polyeucte, convertito, ribelle e martire, essa si accorge delle componenti volgari di Severo e tutto il suo amore si trasporta verso il martire, da dove subito dopo prenderà il volo verso il «punto geometrico» dei veri amori, Dio. Una eguale conversione era avvenuta in Polyeucte: sinché la sua fede era vacillante egli amava Pauline «cent fois plus que moi-mème»; adesso che Dio gli si è rivelato appieno, il suo amore ha mutato colore; egli ama Pauline Beaucoup moins que mon Dieu, mais bien plus que moiméme.
Tutti effetti della volontà deliberante che, sorretta
dalla ragione, sceglie il più nobile e più convincente amore. Questa tragedia del sacrificio delle passioni umane ad un ideale divino è espressa in versi di una bellezza
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di immagini e di una turgidezza di significati che ha po-
chi riscontri; Pauline è, insieme a Chimène, la più alta fi-
gura femminile del teatro di Corneille che, anche qui all'opposto di Racine, si esprime compiutamente, per solito, soltanto nei personaggi maschili. Vorrei parlarvi adesso di Nicorède che, benché compiuta nel 1651, si riannette, per la sua perfezione, al Cid ed a Cinna. Nicomède, che non è mai rappresentata e che comincia ad esser letta sul serio da una ventina d’anni, è forse
(e senza forse) il capolavoro di Corneille. Essa è una di quelle opere, rarissime in tutti i tempi, nelle quali l’autore ha osato essere interamente se stesso (Measure for measure è un’altra di queste opere) e che appunto per questa mancanza di ossequio alle regole correnti passano sempre per opere zoppe, mentre sono proprio quelle nelle quali il poeta ha corso da solo. All’amore Corneille non si era mai soverchiamente interessato, se non per osservare i cambiamenti che la ra-
zionalità rivelata può arrecare in questa passione. Le altre grandi passioni, vendetta, rancore, e soprattutto quella (che passione non è) che tiene tanto posto nelle tragedie altrui, la fatalità, gli sono estranee. Quel che lo
attira sono le oscillazioni della volontà, il suo progressivo affermarsi, il suo trionfo quando in suo soccorso
giunge la facoltà raziocinante. In Nicorzède egli ha avuto la sincerità di rifiutare d’intrattenersi di tutte le altre bagattelle, e di mostrare soltanto la tragedia implicita nella discussione e nella adozione del più razionale disegno. Un puro dramma di idee, uno svolgersi dialettico di convinzioni, a mala pena ambientato in una fantomatica reggia di Bitinia. Altro che retorica! Sembra assistere a una di quelle notti di Descartes delle quali egli ci ha detto «le raisoni nement produisait en moi les effets de l’ivresse». Se proprio non volete leggere tutto Corneille, come in
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Letteratura francese
fondo sarebbe il preciso dovere di ciascun non-analfabeta, posso raccomandarvi di non voler almeno ignorare: La Place Royale, L’illusion comique, Le Cid, Horace, Cinna, Polyeucte e Nicomède.
Adesso invece di parlare partitamente delle altre opere di Corneille, farò alcune considerazioni generali sulla
sua opera, con particolari riferimenti a questi lavori non nominati.
Il poeta, nel passato, è stato molto lodato per aver posseduto «le sentiment de l’histoire» e per questa ragione Saint-Évremond lo anteponeva a Racine. SaintÉvremond è un grand’uomo, lo sappiamo tutti, ma in questo caso ha sbagliato. Anzitutto anteporre Corneille a Racine non ha senso comune, ed in secondo luogo trovare che Corneille ha più «senso storico» del poeta di Britannicus è falso: nel solo Britannicus infatti vi è più realtà storica, più sentimento della vera personalità di Nerone e del suo torbido ambiente di quanto ve ne sia in tutto il teatro di Corneille riguardo a qualsiasi figura della storia. La verità è che si tratta, come sempre, di una questio-
ne di parole. Dove Corneille primeggia non è già nel senso storico ma nel senso politico; la storia è una scien-
za la cui assenza o presenza in un’opera d’arte ha valore relativo; la politica (così come Corneille la intendeva e come il suo secolo la praticava) è una passione; non solo, ma è anche proprio quella passione che più doveva attirare il nostro poeta perché sottomessa assai più delle altre alle influenze della volontà deliberante. Corneille, questo avvocatuccio di provincia, aveva l’anima di un grande politico; la sua attività letteraria si svolgeva in un’epoca (quella, all’ingrosso, della Fronda) dove la politica passionale era quanto mai allo scoperto ed egli osservava le mutazioni, le virate, le astuzie e le ra-
re magnanimità degli uomini politici con l’occhio attento del compartecipe e con la facilità di assimilazione del
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talento. Questo interessamento alla passionalità politica s'inizia in Corneille col Cinna e va via via facendosi più acuto. Molte delle sue ultime tragedie sono delle amplificazioni travestite degli avvenimenti del suo tempo: Sertorius e Rodogune sono le vicende, ingigantite, del «grand Condé» e di MIle de Montpensier; ed i moventi confessati come i moventi segreti di questi personaggi
sono visti dal poeta, modesto e non partecipante, con la stessa chiarezza e penetrazione di Retz, che in quegli imbrogli guazzava. Ma se la politica passionale è la nota dominante, non
mancano
altre passioni, fortemente espresse talora:
amori di uomini anziani, profondi e discreti, che Cor-
neille ha saputo preservare dal ridicolo come Sertorius, ed il Martian di Pu/chérie; amicizie fiduciose e forti contro le quali l’amore e l'ambizione non possono prevalere (Séleucus e Antiochus di Rodogune); quelle speciali amicizie di corte, fondate su comunità di interessi o di egoismi, che pur si rivelano solide sinché durino le condizioni che le hanno create (Attale, nel Nicorzède; Viriate nel Sertorius; Othon nella tragedia omonima); e poi funzionari egoisti, cortigiani scaltri, ministri intriganti e timidi
(Ptolomée del Pompée; Arsinoé di Nicomède); ma con questi ci siamo riavvicinati alla passione politica. Tutti tipi tratteggiati con verità di espressione, talvolta con sottile umorismo; la figura di Attila, per esempio, nella ingiustamente disprezzata tragedia omonima, è un capolavoro di selvaggeria cosciente che si crede destinata da Dio a flagellare una società corrotta e che questa missione adempie con una voluttà crudele sostenuta dall’illusione che essa sia «missione». Eccetto che nei drammi ispirati alla Spagna (L'illu-
sion Comique, Don Sanche d’Aragon, Le Cid) vi è poco colore locale, vi è poco colore addirittura in Corneille; il descrivere ambienti, il farci respirare l'atmosfera di un'epoca o di un ambiente, le prodigiose intuizioni de-
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Letteratura francese
scrittive di Britanzicus e di Bajazet non lo interessano;
diagrammi egli ci mostra, sione della volontà e il dall’intrico, dall’associarsi nee di forza vien formato compiuta bellezza.
diagrammi esprimenti la tenvoltaggio delle decisioni; e e dallo svolgersi di queste liun disegno che talvolta è di
Corneille collaborò con Molière alla redazione della Psiché; e Molière, con il suo perpetuo fascino e la costante bonomia, riuscì a tenerlo sempre amico, benché
Corneille fosse alquanto rospo. E di recente Louys ha pubblicato un libro che tenderebbe a provare (e non prova) che è stato Corneille a scrivere tutte le opere di Molière. Abbiamo anche delle liriche di Corneille: alcuni madrigali che sono celebri («Vous souvenez-vous, Marquise / de votre robe de blanc satin») che fra l’altro non sono indirizzati a una marchesa ma ad una attrice che si chiamava Marquise per nome di battesimo. E una traduzione dell’Imzitazione di Cristo e dell’Ufficio della Vergine. Niente immagini anche qui; niente adornamenti; soltanto il ritmo che non è altro che il moto delle idee. Lirica asciutta e tutta concetti, assai bella.
"Il verso evocativo dell’immagine femminile non si trova fra le opere poetiche di Corneille. Tomasi procedeva sovente a memoria, sollecitato a volte dall’ironia e volte, come in questo caso, da tenera
ammirazione. Le poesie dedicate da Corneille a Marquise d’altra parte traboccano di tenerezza ed ironia godibili. Ad es.: «Marquise, si mon visage / A quelque traits un peu vieux, / Souvenez-vous qu’ mon age / Vous ne vaudrez guère mieux». Oppure: «Allez,
belle Marquise, allez en d’autres lieux / Semer les doux périls qui naissent de vos yeux».
I SEGUACI DI CORNEILLE: ROTROU
Attorno a Corneille (e contro Racine) si raggruppano alcuni poeti drammatici. Scudéry è il peggiore di essi; egli era il fratello della famosa romanziera Mlle de Scudéry; ma mancava anche di quella aderenza ai gusti del tempo che ha reso il nome della sorella indispensabile in una relazione sulla letteratura francese. Poco valeva anche Du Ryer che come il maestro si specializzava nella tragedia romana e politica, con risultati ben diversi; un po’ più vale Tristan l’Hermite, che abbiamo già incontrato come lirico. Scrisse due tragedie: La wz0rt de Sénèque, (1644) e Oszzan (1657) che sono esemplari per certi effetti ottenuti mediante la sovrapposizione dell’atrocità tragica ad una familiarità di linguaggo pittoresca. L’effetto è quasi quello del dramma romantico ma occorre confessare che esse si trovano ad un livello ancora più basso del teatro di Hugo.
Poeta di grande, seppur non eccelso, valore è invece Jean Rotrou (1609-1650) che fu inoltre uomo di grandi virtù filantropiche e morì per essersi prodigato nella cura dei malati infettivi durante una pestilenza che devastò Dreux, città della quale era sindaco. Bisogna conoscere il suo Verceslas, una stupefacente tragedia che ci mostra un’anima violenta che raggiunge la generosità attraverso la ragione e la volontà; due sue tragicommedie, una di soggetto storico siciliano, Do Bernard de Cabrère, e l’altra di soggetto spagnolo, Laure persécutée (1637), che hanno un sapore originalissimo e che, Dio mi perdoni, fanno talvolta, nei loro momenti
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Letteratura francese
migliori, pensare a Shakespeare, cosa rarissima nella intera letteratura francese, e assolutamente unica nel Sei-
cento. Ma occorre soprattutto conoscere la sua opera principale, Saint-Genest (1646), che è davvero magnifica e una delle maggiori tragedie del teatro francese. La storia del santo-attore che, chiamato a rappresentare davanti all'imperatore, al tempo delle persecuzioni dei cristiani, la parte di un credente martirizzato, si esalta talmente nell’arte da confessare la sua nascente fede e subire realmente il martirio, è narrata con una ricchezza di notazioni psicologiche grandissima e con un perpetuo on-
deggiare fra i sentimenti scenicamente espressi e quelli intimamente sentiti, tanto da rasentare Pirandello. E la
conclusione tragica è rischiarata da così intense espressioni di fede e di felicità nel martirio da fare di questa tragedia uno dei massimi capolavori del teatro religioso. Rotrou è lungi dal godere la fama che gli spetterebbe. L’eloquente capitolo su di lui nel Port-Roya! di SainteBeuve suscitò un certo interesse attorno al suo nome che era ridicolizzato quando non era ignorato. Poi la negligenza lo avvolse di nuovo. Sarebbe augurabile che un attore coraggioso riprendesse questo ruolo e ridesse al pubblico francese uno dei capolavori impietosamente dimenticati del suo teatro. Adesso la seconda sezione di questo sguardo sul Seicento francese è conclusa.
JEAN DE LA FONTAINE
Tutti noi abbiamo l’impressione che, durante il Seicen-
to, in Francia il teatro abbia interamente assorbito le fa-
coltà poetiche del paese; e che, all'infuori della tragedia e della commedia, non vi siano poeti sotto Luigi XIV, eccetto, si capisce, dei piccoli rimatori insignificanti. Tutti noi dimentichiamo, sempre, La Fontaine. Ce ne
ricordiamo dopo qualche tempo e con un certo sforzo. Invece La Fontaine è un poeta vero, un poeta che figurerebbe con onore in qualsiasi altra epoca liricamente ricca. Perché, allora, lo dimentichiamo?
La colpa è della scuola. Ogni bambino che incomincia leggere, in Francia quanto all’estero, è sottoposto alle Fables. Ne ricava l'impressione indelebile che La Fontaine sia uno scrittore per bambini. Ed occorre un certo sforzo, poi, per riuscire a convincersi che, raffinato, crudele e spesso cinico, La Fontaine è proprio l'opposto di uno scrittore per asili infantili. Il malinteso è aggravato dal
fatto, misterioso e spiegabile soltanto con la pigrizia dei compilatori di antologie, che le favole che si propinano alla gioventù sono sempre le stesse e quasi tutte estratte dal Primo Libro; per ragioni che vi dirò dopo, esse sono rigide, meccaniche e prive appunto di quella deliziosa scioltezza che è così grande merito delle altre seguenti. Vi è però anche un’altra ragione, più intrinseca, per la quale non si pone mai La Fontaine al suo giusto posto di unico grande «lirico» (dico «lirico» per far più presto) del suo secolo: il fatto è che del suo secolo egli non è. Quando avrete fatto l'orecchio al linguaggio bellissimo ma disossato di Racine, di La Bruyère, di Corneille e di
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Letteratura francese
Quinault e vi capiterà di aprire il volume delle Fables vi vedrete venire incontro una folla di parole saporose, ridenti ed espressive che evidentemente si trovavano, come si trovano oggi, nel linguaggio parlato ma che evidentemente Racine e Boileau avrebbero, anche a costo
della morte, escluso dalle loro opere. Quando La Fontaine parla di un commerciante ecco comparire i termini di «facteurs, associés, ballots, fret» ed eccolo ad evocare ciò che il commerciante vendeva: «du tabac, du sucre, de la porcelaine e de la cannelle». La Fontaine conosce
gli appellativi rustici degli animali e dice «bique» e «loquet» senza paura e anzi con diletto, ci parla in termini sapidi del «tripotage des mères et des nourissons» e financo del «jupon crasseux et détestable d’une misérable vieille». Osa avvertire il cattivo odore del concime; e delle parole basse ma pittoresche come «goujat, hère, racaille» le favole ne sono piene. Egli cita i proverbi contadini, dice del dio Borea «enflé comme un ballon»; i
suoi topi affamati «ne mangent que le quart de leur soùl». Le sue metafore sono quelle che impiegherebbe un sarto: «il était tout cousu d’or», o una fruttivendola: «il n’était ambre, il n’était fleur qui ne fùt ail au prix». Tutti gli altri scrittori del Seicento amano la metafora elegante, luminosa e, quando sia possibile, sublime; e quando sono, come Racine, dei geni l’effetto è, appunto, sublime. Quando non lo sono l’effetto è ridicolo.
La Fontaine se ne infischia dell’eleganza: desidera l’icasticità: Helas! on voit que de tout temps Les petits ont pàti des sottises des grands.
oppure
) Ainsi certaines gens qui font les empressés S'introduirent dans les affaires, Ils font partout les nécessaires, Et partout importunes devraient étre chassés.
“Il Seicento
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Un’altra ragione per cui La Fontaine non appartiene al Seicento è la sua estrema libertà metrica. Egli scrive, di fatto, in versi liberi; che questi versi siano degli alessandrini misti a ottonari e decasillabi non cambia niente alla cosa; le spezzature, le cesure, gli «enjambements», la
frequenza o l’assenza delle rime gli permettono, in linea di fatto, di rendere ogni pensiero con il ritmo che egli voleva. Sentite: Un rat des plus petits voyait un éléphant Des plus gros, et raillait le marcher un peu lent De la béte de haut parage, Qui marchait à gros équipage. Sur l’animal à triple étage, Une sultane de renom, Son chien, son chat et sa guenon, Son perroquet, sa vieille, et toute sa maison
Sen allait en pèlerinage.
Se pensate alla inflessibile simmetria, visiva e auditiva,
degli altri poeti che si rivela anche a colpo d’occhio sulla pagina che sembra una facciata di Mansard, vi accorgerete quale diversità vi è fra quelle ordinate marce e il trotterellare, pesante e vispo insieme dell’elefante, ritmato dalle sue triplici rime. E quanta maliziosa grazia in ogni verso, grazia così sottile che occorre stare attenti ad ogni parola per non lasciarla sfuggire (per esempio «sa vieille» posta al medesimo rango possessivo con «son chien, son chat» etc., «s’en allait en pèlerinage» che comprende anche le bestie). Vi è ancora un’altra ragione per la quale l’arte di La Fontaine è estranea al Seicento: il suo amore, la sua
comprensione per gli animali. Lo so, gli animali di La
Fontaine non sono altro che uomini travestiti; ma accan-
to a questa che è l’idea ovviamente centrale delle Fables vi è l'osservazione affettuosa di questi travestimenti. Ora questa affettuosità verso le bestie, questo sentire come
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Letteratura francese
esse siano omogenee a noi, se era stata vivissima nel Me-
dicevo, si era affievolita durante il Rinascimento ed era
estinta nel Seicento, tanto che Descartes aveva potuto formulare la sua (ormai smentitissima) teoria dell’automatismo animale che interpretava come apparenti o e fittizi imovimenti ed i sentimenti delle bestie, puri automi. Ed in base a queste teorie Malebranche, il buono e dotto discepolo di Descartes, diceva che quando egli dava un calcio alla sua infelice cagna i guaiti di lei non avevano niente in comune con gli strilli di un bambino picchiato ma erano piuttosto simili allo scricchiolio di una sedia sottoposta allo stesso trattamento. Tale era la degenerazione del culto della ragione il cui possesso bastava a creare una differenza essenziale fra creatura e creatura. E corrispondente a questo era il trattamento incredibilmente inumano cui erano sottoposti i pazzi, che avendo perduto la ragione erano divenuti «cose». La Fontaine, invece, era di parer diverso: considerava gli animali come fratelli, incapaci soltanto di produrre idee astratte, ma dotati delle stesse sensazioni, affetti, sofferenze e vizi di noi. Li prendeva in giro spesso, con quella ironia che è un grande segno di affetto incomprensibile ai gonzi. E si lascia spesso sfuggire termini fraterni («l’àne qui est un bon garcon», «le chien qui a l’àme proprette») che dovevano riuscire incomprensibili ai suoi contemporanei come lo sono ancora adesso in Sicilia che è, di fatto, la Francia del Seicento, anche a que-
sto riguardo. Indicate marginalmente le caratteristiche originali di La Fontaine, occupiamoci un poco di lui. Jean de La Fontaine nacque a Chàteau-Thierry nel
1621, a poche miglia di distanza dal luogo di nascita di Racine.
Egli si sposò presto, successe al padre nella carica di «Maître des Eaux et des Fòrets» (una specie di ispettore
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forestale) e passò i suoi primi trenta anni in campagna, acquistando quell’amore per la natura e per gli animali tanto caratteristico della sua opera. Egli è passato alla storia come «le bonhomme La Fontaine», «le bon La Fontaine» e simili espressioni che bisogna stare attenti a non prendere troppo alla lettera. La sua era una bontà tutta speciale rassomigliante alla crudele innocenza del bambino più che alla matura benevolenza dell’uomo. Il fatto è che a un certo punto piantò moglie e figli e se ne andò a Parigi dove visse alle spalle di vari mecenati, principale fra i quali Fouquet. Benché nella vita pratica trasandato e dotato di una distrazione divenuta proverbiale, era di vivacissimo e pronto spirito nella «res» letteraria e si rese presto famoso per la grazia e lo spirito con i quali improvvisava versi d’occasione alla minima richiesta. Era insomma ancora un poeta del rango di Benserade e Chaulieu, a metà strada fra il parassita e l’artista. A suo onore, però, bisogna dire che quando Fouquet, nel 1660, cadde in disgrazia, perdette il posto di ministro delle finanze (aveva rubato) e finì in prigione, egli rimase fedele al suo protettore; e anzi la catastrofe di Fouquet gli ispirò i primi versi geniali, quella E/égie aux Nymphes du Vaux (1661) che è poesia non soltanto formalmente bella ma anche proveniente da ispirazione non vile. Leggiamone un poco: Sous les lambris moussus de ce sombre palais Echo ne répond point, et semble étre assoupie: La molle Oisivité, sur le seuil accroupie, N’en bouge nuit et jour, et fait qu’aux environs Jamais le chant des cogs, ni le bruit des clairons, Ne viennent au travail inviter la Nature;
Un ruisseau coule auprès, et forme un doux murmure.
Nel 1664 cominciò a pubblicare i suoi Cortes, ai quali dovette durante la sua vita e per molto tempo dopo la sua
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morte maggiore fama. In realtà essi valgono assai poco: il loro libertinaggio a freddo, la loro licenziosità astratta disgustano; non che non siano ammirevolmente congegnati
eversificati, ma rimangono essenzialmente frigidi malgrado il pepe delle loro intenzioni. Le trovate psicologiche, quelle ritmiche e verbali, il brio, gli occasionali squarci di lirismo, tutto ciò insomma che costituisce il fascino duraturo delle Fab/es manca; sono delle barzellette sudicette,
in versi. E come ogni barzelletta, mai inventati dal poeta stesso: imitati in parte da Luciano, in minima proporzio-
ne da Boccaccio e dai più infelici passi di Ariosto, essi non hanno fatto subire al loro modello quella trasformazione artistica che giustifica qualsiasi imitazione. Nel 1668 vennero pubblicati i primi cinque libri delle Fables, nel 1678 e 1679 cinque altri libri che sono i migliori; l’ultimo, del 1694, è assai inferiore. La Fontaine
da vecchio era ricaduto nelle leziosità e nelle scioccherie dei versi della sua gioventù. Anche il primo libro della prima raccolta è di qualità inferiore, benché sempre migliore dell’undicesimo. Vi era allora a Parigi un barbassore, Patru, che aveva assunto, insieme a Boileau, la parte di dittatore letterario.
Egli voleva che ogni cosa letteraria si adeguasse ai modelli greci e poiché le favole di Esopo sono scritte in prosa e assolutamente prive di qualsiasi accorgimento letterario, Patru, che era venuto a conoscenza di qualche favola di La Fontaine prima della loro pubblicazione, fulminò contro i bei versi che adornavano ed ingentilivano questi componimenti e ne deplorò l’uso. Il povero La Fontaine si spaventò e corresse tutte le sue favole del primo libro, riducendole a quegli scheletri che sono; e stava procedendo alla mutilazione delle altre quando Boileau, l’altro e maggiore dittatore, che era, oltre che suo amico, artista e uomo di gusto, lo rincuorò («il m’a
remis du coeur au ventre» dice efficacemente La Fontaine) e lo indusse a sospendere la sacrilega operazione. La
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Fontaine però tenne a pubblicare il primo libro così secco secco com'era, ma si vendicò prendendo per il bavero Patru nella sua prefazione. Sono proprio le favole del primo libro che s’insegnano ancora ai ragazzi: La cigale et la fourmi, Le renard et le corbeau, Le loup et l’agneau. Taine ha scritto un buon libro, La Fontaine et ses fables. Accanto a molte idee giuste e brillanti, Taine emette la sua teoria sul significato globale delle Fables: cioè che esse siano una vasta satira simbolica della corte e del regno di Luigi XIV. A me (e ad altri) sembra che qui il grande Taine si sia lasciato trasportare dai suoi, del resto rispettabili, preconcetti di storiografo. Che vi siano accenni satirici contro Luigi XIV è in-
dubbio; ve ne è anzi uno esplicito e divertentissimo quando il poeta descrive il minaccioso apprestarsi al combattimento di due robusti caproni: Je m’imagine voir, avec Louis le Grand, Philippe-Quatre qui s’avance Dans l’île de la Conférence. XII. 4
Nelle Fables vi è anche l’ispirazione politica; ma essa è lungi dall’essere la principale. In generale il numero di ispirazioni e di precedenti che sono venuti a confluire in esse è rilevante: la fabulistica di Esopo e di Fedro, cela va sans dire, ma anche i «fabliaux» francesi medioevali,
il rinnovato interessamento per l'Oriente suscitato dalla traduzione delle Mz/le e una notte fatta dal Galland in quegli anni," ricordi del Boccaccio e dell’Ariosto come nei Contes, racconti uditi da contadini, l’affettuosa osservazione personale del poeta, una sua maliziosa pro* Le Mille et Une Nuits apparvero in verità dopo la morte di La Fontaine, fra il 1704 e il 1717.
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pensione a scandalizzare i pontefici della lingua e dello stile classico, le sue illimitate e disordinate letture: Jen lis qui sont du Nord et qui sont du Midi.
Tutti questi elementi sono stati bruciati o fusi dal talento di La Fontaine ed è così che le Fab/es sono un’opera quanto mai omogenea nella sua diversità: Une ample comédie à cent actes divers.
Sarebbe troppo lungo e difficile (per me) parlare di ogni singola favola. Bisognerà accontentarsi di accennare alle migliori: Le Paysan du Danube (XI-7) non è, a
propriamente parlare, una favola; animali non ce ne sono. Un contadino germanico si presenta al Senato romano e con inaspettata eloquenza invoca pietà contro le
vessazioni cui sono sottoposte le popolazioni dominate da Roma. Il discorso si chiude con esplicite minacce. Il Senato, con la saggezza senile delle istituzioni morenti, non lo punisce, anzi lo fa «patrizio». E subito dopo se ne dimentica, ed il poeta sorride. La presentazione del contadino incolto e barbuto, la franchezza del suo discorso sono resi con incomparabile vivacità: il termine «paysan du Danube» è rimasto corrente in francese. Questa favola, oltre al suo valore intrinseco che è grande, possiede l’attrattiva di mostrarci il modo col quale La Fontaine trasformava il materiale grezzo che utilizzava. È quanto mai istruttivo e appassionante paragonare i cambiamenti, le soppressioni, gli sviluppi che La Fontaine ha portato alla tetra narrazione, fino a farne quel modello di sapidità e di forza cheè il suo racconto. Perché La Fontaine, sotto le apparenze svagate, era un lavoratore instancabile del suo verso; anche lui doveva aver imparato l’arte difficoltosa «de faire avec difficulté des vers faciles»; di una sua favola abbiamo due versioni:
su ventun versi della prima, solo due son rimasti intatti nella seconda (Le Rerard, les Mouches et le Hérisson).
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Les deux pigeons (IX-2): anch’essa non è quasi più una favola, tanto è trasparente il velo che ricopre i personaggi umani. E una delle più delicate e pensose elegie che vi siano, nella quale l’impazienza ed i pentimenti inclusi in ogni amore sono espressi in versi di grandissima delicatezza e musicalità. La forét et le bàcheron (XII-16) ci mostra La Fontaine nel suo stato di massima sensibilità: non soltanto egli sente la propria fraternità con gli animali ma estende anche alle piante questa comunità di sensazione: «Elle gémit à tous moments». Ronsard soltanto, nella sua famo-
sa elegia «du Gatinais», ci aveva fatto avvertire la tragicità wzana dei grandi boschi assassinati dall'uomo e delle grandi forme verdi e benefiche degli alberi abbandonate alla furia della scure degli uomini. E questi sono alcuni esempi della poesia di La Fontaine quando vuol fare sul serio. Gli esempi del suo stile vivace e brioso potrebbero essere senza numero. Le chat et le renard (IX-14) nel suo inizio da «allegretto» ci fa davvero vedere il trotterellare vispo delle due bestiole e la loro innocente malizia. Les animaux malades de la peste (VII-1) è allegra sino a un certo punto; ma la vivacità con la quale è narrata la triste sorte dell’asino rende gaia la triste storia. L’alouette et ses petits (IV-22) è una delle migliori; in essa sembra davvero di vivere nei campi, a livello dei solchi, con le bestiole miti e perseguitate (e questa volta, per fortuna, salvate).
Le mulet se vantant de sa généalogie (VI-7), Le chien qui porte à son cou le diné de son maître (VII-7), con le bestie che si chiamano «Messieurs», Le sirge et le léopard (IX-3), Les deux rats, le renard, et l’ocuf (IX-21) sono le
prime che mi sono capitate sott’occhi in questa mia rapida rilettura e sono ognuna un capolavoro, del resto non superiori a dieci altre. Poche cose sono più gradevoli del-
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Letteratura francese
lo sfogliare lentamente un volume delle Fab/es; dopo un certo tempo sembra veramente di veder guizzare, formicolare, arrampicarsi attorno a voi tutto un modo di be-
stiole argute rese con humour, precisione e colore. Qual è la morale complessiva delle Fables? Tristemente cinica. Il mondo è il regno dei forti; alla forza bruta tutto cede, anche l’astuzia, benché questa possa
servire ad allontanare il colpo alla nuca. Si può, si deve anzi, deplorare questo stato di cose; la deplorazione non lo rende meno signoreggiante. Rimane la consolazione che ci offre Pascal: «l’homme est le plus noble des étres parce qu'il sait qu'il meurt». È una consolazione da disperati; ma è l’unica: accet-
tiamola. Sotto le sue forme solenni, i parrucconi e gli abiti di velluto, il Seicento è un secolo come gli altri: disperato. Strano a dirsi, non in Italia; il Marino e il Filicaia sono
realmente lieti di trastullarsi con i loro Amori e le loro Veneri ed i loro Adoni e con le complicatissime rime ed i pesanti paludamenti. È forse per questo che il Seicento italiano è un esempio unico di vuoto pneumatico applicato alla letteratura. Di La Fontaine ci sono state conservate parecchie let-
tere che come valore letterario stanno alla pari con le Fables; per la maggior parte narrano un lento e pigro viaggio nella Loira. Sono di grande semplicità e intrise di un perpetuo buonumore. Talvolta questa allegria prorompe in versi che subitamente illuminano una pagina; versi di una trasandatezza e di una ingenuità che li fa rassomigliare agli indimenticabili paesaggi di Rousseau le Douanier: Ce n°est pas une petite gloire
Que d’étre pont sur la Loire.
Anche qui questa singolarissima comunione di La Fontaine con l’universo; financo con i ponti.
BOILEAU (1636-1711)
Prima di occuparci di Racine, Molière, Bossuet e Saint-
Simon, i veri giganti di questo periodo d’oro, desidererei sbarazzarmi di Boileau e delle quistioni di critica letteraria. Non per disprezzo; mi dispiace di aver adoperato il termine «sbarazzarmi». Boileau fu un fenomeno inevitabile come lo è la pioggia quando il vapore acqueo ha raggiunto una certa densità. E mai pioggia fu più onesta, più moderata di lui. La letteratura francese nei quattro secoli che consideriamo è tanto fitta di grandi figure e di movimenti letterari da occasionare delle maree. Intendo dire che in essa si notano vari flussi e riflussi: abbiamo già visto la Pléiade anatemizzare il Medioevo e cambiare l’aspetto della letteratura; e Malherbe cominciare a maledire la Pléiade ed a riformare tutto; la sua opera sarà stabilizzata da Boileau. Ma un anno dopo la morte di questi nasce Rousseau che inizia la rivolta romantica che porterà la fama di Boileau nella tomba letteraria; e sotto i nostri
occhi abbiamo visto Gide e Du Bos estrarlo dalla sepoltura e cominciare a srotolare le bende della sua mummia. Risusciterà del tutto? Certo, ma con un volto cam-
biato. (Così ricca di nomi è la letteratura francese che siamo già arrivati all’epoca degli omonimi.)
Nicolas Boileau nacque a Parigi nel 1636, l’anno del Cid. Figlio di un cancelliere di tribunale acquistò nell'ambiente paterno quella vasta conoscenza procedu-
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Letteratura francese
rale che egli farà brillare nel Lutrin. A diciotto anni si rovesciò addosso, proprio sulla parte più delicata del corpo, una pentola d’acqua bollente; taccio delle conseguenze che del resto sono visibili nella sua opera.” Era destinato alla carriera del padre; ma quando questi morì si diede tutto alla letteratura. La famille en pàlit et vit en frémissant, Dans la poudre du greffe, un poète naissant.
Prese il nome di Despréaux (cosa alla quale bisogna stare attenti perché, indifferentemente chiamato con l’uno o l’altro dei due nomi, si può scindere in due personalità). Le sue Sazzres, L’Art poétique, le Epistres, Le lutrin ebbero immediato e grande successo. Entrò all'Accademia, divenne il dittatore letterario di Francia, come lo era in quegli anni Dryden in Inghilterra: i suoi detti erano oracoli, la sua coda, avvolgendosi, scagliava nell’Erebo o nell’Empireo. Del resto dittatore pieno di forme, di buon senso ed anche di umanità. Se non ve ne
fossero altre prove, basterebbe la sua amicizia intima con Racine e Molière, la sua generosità verso Corneille a dare evidenza al suo buon gusto. Fu nominato «historiographe du Roi» insieme a Racine e doveva per obbligo di ufficio seguire il re nelle sue campagne di guerra allo scopo di fissare per l’eternità le gesta gloriose di Louis le Grand. Questo dei due super-letterati grugnanti nel fango delle trincee attorno a Namur e a Lille è uno degli episodi più comici del Seicento del quale ci rimangono echi nelle lettere edu* L’aneddoto è riferito secondo la tecnica narrativa di Tomasi, per il quale una battuta di spirito o la vividezza narrativa erano preferibili alla verità. Nei Portrazts Littéraîres di Sainte-Beuve l'incidente occorso a Boileau è così riportato: «... on le mit bientòt au collège, où il achevait sa quatrième lorsqu’il fut attaqué de la pierre; il fallut le tailler, et l’opération, faite en apparence avec succès, lui laissa cependant pour le reste de sa vie une très grande incommodité».
Il Seicento
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catamente esasperate che i due grandi uomini scrivevano a casa. Sul finire della sua vita egli cadde in una semi-disgrazia agli occhi del re; come Racine, era (giustamente) so-
spettato di simpatia per Port-Royal. Venne impedita la pubblicazione di alcune sue opere; sopravvisse tristemente a tutti i suoi grandi amici; e si spense nel 1711 in casa dell’abate giansenista Lenoir. La sua vita, come la sua arte, fu quella di un galantuomo; niente in lui dell’alterigia di Corneille e ancora meno dei tenebrosi doppi fondi del suo amico Racine: essendo
caduto
in
miseria
Patru,
l’altro
dittatore
letterario, Boileau ne acquistò la biblioteca e gliene lasciò l’uso; cedette la sua pensione a Corneille inesplicabilmente impoverito. La sua franchezza e la sua libertà (relativa) di parola piacquero financo a Luigi XIV. Il guaio di Boileau fu che volle essere poeta. Se avesse scritto in prosa la sua fama sarebbe più limpida. E il bello è che lui stesso lo sapeva: Souvent j'habille en vers une maligne prose.
Non che gli manchino occasionali aperture poetiche («la canicule en feu devaste nos campagnes»); ma in lui il senso critico, «la raison», «le bon sens» soffocano
troppo spesso il linguaggio. Le sue Sazires sono quanto abbia scritto di meglio. Non che sia satirista profondo; ma nessuno quanto lui ha meglio saputo cogliere il ridicolo superficiale, i piccoli fatti caratteristici e comici. Les enzbarras de Paris, La Noblesse, Les folies humaines sono (come il Lutrin) delle opere divertentissime e piene di spirito. Profondità etica e poesia, niente. Non esiste di lui nessuna poesia anche
lontanamente amorosa. Dove veramente si afferma il talento di questo che fu letterato fino all’ultimo ricciolo della sua parrucca, è nella satira letteraria.
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Letteratura francese
Ci dice egli stesso che «dès quinze ans j'ai eu la haine d’un sot livre». Non cessò mai di predicare la sua teoria: quella della perfezione formale ottenuta mediante il lavoro di lima. Questa passione per la compiutezza e quest’odio per il mediocre diveniva frenesia che talvolta mutava la fisionomia di questa eccellente persona. Nel Seicento le satire letterarie di Boileau provocarono un compiaciuto scandalo. Il fatto che Boileau stampasse «tous vifs» i nomi di coloro che criticava sembrò «un attentat inouî et sans example». Fin dal 1660, fin dalla sua prima satira scriveva: Je suis rustique et fier, et j'ai l’ame grossière. Je ne puis rien nommer, si ce n’est pas son nom.
Jappelle un chat un chat, et Rolet un fripon.
E infatti i nomi dei suoi nemici letterari (nemici privati non ne aveva) Placez comme en leurs niches Vont de vos vers malins remplir les hémistiches.
E attraverso Boileau appunto questi nomi, quelli di Scudéry, di Pradon, di Colletet, di Chapelain, di Quinault, sono giunti a noi coperti da un ridicolo che anche al più tenace amatore della letteratura di second’ordine
riesce difficile scuotere. La coda di Minosse li ha precipitati nell’eterno Inferno; è della loro pelle fustigata che è formata la trama della Sazire II (à Molière) e della IX (à son Esprit). Circostanza notevole: anche quando nell’Ottocento Boileau cadde dal suo piedestallo questi poveri poeti non furono riabilitati, mentre per Ronsard e gli altri del Cinquecento la risurrezione fu spontanea. Ammiratore entusiasta di Orazio, alle Sazzres fece se-
guire le Epistres. Esse non sono altro che una continuazione delle Satires con gli stessi difetti ma con una forma
I Seicento
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più matura. La sua migliore ispirazione deriva anche qui dalla critica letteraria e nella settima Epistre, dedicata e rivolta al grande Racine, raggiunge non la poesia ma certamente l’eloquenza. Spietato contro i mediocri, Boileau fu invece comprensivo e privo d’invidia verso i veri talenti ed ho già detto come Corneille, Racine e Molière trovassero in lui costante generosità, amicizia e un validissimo difensore. L’opera principale di Boileau è L’art poètigue. Sono quattro canti nei quali egli espone la propria teoria: nel primo si parla dell’arte di scrivere in versi, in generale; nel secondo si tratta dei generi secondari (per lui): l’elegia, l'ode, la satira, il sonetto; il terzo abborda i grandi argomenti: la tragedia, la commedia, l’epopea; il quarto contiene dei precetti morali. Tutta la sua dottrina è largamente esposta. Quale era? Boileau non ammette che il gusto sia cosa particolare e
personale, relativa a certi individui ed a un certo tempo. Il Bello letterario esiste in sé, al di fuori della personalità. Esistono quindi delle «regole» che s'impongono e che è necessario seguire, a rischio, non obbedendo loro, di re-
stare per forza di cose al di fuori del Bello. Da questo punto di vista è legittimata l’esistenza del critico; non solo del critico come lo ammettiamo noi, lettore e rischiaratore, ma del critico-guida, che sta sempre al fianco dell'autore per trattenerlo dall’imboccare i vicoli ciechi dove il suo estro potrebbe trascinarlo. Questa dottrina è assoluta: tutto ciò che non vi si conformi è brutto, perché dissimile dall’archetipo fissato «ab aeterno». Alla perfezione letteraria nessuno è giunto, nessuno giungerà mai. Chi si è maggiormente avvicinato sono i
greci e i romani (Omero, lui, è considerato con una certa suspicione e lodato proprio per quelle qualità — «gràce», «retenue» — che non possiede). Dopo, in grado minore, Petrarca, Ariosto e Tasso (gli italiani contemporanei sono giustamente biasimati perché «ce ne sont
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que Festons, ce ne sont qu’Astragales») e, si capisce, Corneille, Racine e Molière. La poesia, dice Boileau, è un'arte difficile, risultato di sforzo e di lavoro, nella quale si possono cogliere fiori soltanto a prezzo di una lunga perseveranza. Agli occhi di Boileau la poesia ha minori relazioni con la fantasia che con la ragione. La ragione è la facoltà poetica per eccellenza: Descartes infuria. Apriamo a caso L’Art poétique e troviamo: Aimez donc la raison. Que todjours vos écrits
Empruntent d’elle seule et leur lustre et leur prix. Ilfaut mesme en chansons du bon sens et de l’art.
Mais la Scene demande une exacte raison Que Action marchant où la raison la guide 0 dépens du bon sens gardez de plaisanter Jaime sur le Theatre un agreable Auteur (Quito Plaist par la raison seule, et jamais ne la choque
e si potrebbe continuare a lungo. Perché quest’amore della «raison»? Perché essa aiuta, è anzi la sola via, a trovare il vero; ed il vero è l’essenza del bello. Rien n’est beau que le vrai. Le vrai seul est aimable L’esprit n’est point émù de ce qu'il ne croit pas.
L’arte, dunque, riposa sull’osservazione. Quasi quasi Boileau sta per dire che si deve dipingere soltanto ciò che si è provato da sé: C'est peu d’estre Poéte, il faut estre amoureux.
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Ma la «raison» è facoltà immutabile e che vale per tutti i tempi. Quindi gli scrittori di qualsiasi epoca e di ogni paese lavorano (o dovrebbero lavorare) su un fondo comune e perseguendo il medesimo ideale. Da ciò la liceità dell’imitazione dei grandi modelli, che non sono personalità umane, ma approssimative incarnazioni di
quel tale archetipo. Bisogna guardare all’«éternel artistique» e quindi fuggire come la peste «les faux brillants», «la fausse plaisanterie» e «les burlesques», che son tutti cosa effimera. Questa teoria della «raison» in arte Boileau la applica non soltanto al disegno generale delle opere ma anche allo stile. La «raison» presiede alla scrittura e v’introduce l'ordine. Il faut que chaque chose y soit mise en son lieu; Que le début, la fin, répondent au milieu; Que d’un art délicat les pieces assorties N°y forment qu’un seul tout de diverses parties.
Lo stile (e qui Boileau ha piena ragione) avrà per regola sua suprema di essere l’espressione esatta del pensiero; la parola dev’esser serva dell’idea: essa dovrà tradurre il contenuto senza aggiungervi, senza sottrargli niente. Selon que nostre idée est plus ou moins obscure, L’expression la suit, ou moins nette, ou plus pure. Ce que l’on congoit bien s'énonce clairement Et les mots pour le dire arrivent aisément. La Rime est une esclave, et ne doit qu’obeir.
Tale è questa dottrina, fortemente ragionata, nella quale tutto deriva dall’amore della verità generale. È in fondo una dottrina realista ed è quella che è designata nella storia letteraria francese come dottrina classica.
Prima che le nostre anime, che hanno subito l’espe-
rienza romantica, si tuffino nella derisione occorre di-
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Letteratura francese
scernerne la necessità. Che cosa conosceva della letteratura passata, Boileau? I greci e i latini. Dante non esisteva e gli Elisabettiani neppure. Petrarca, Ariosto e Tasso. Il dramma spagnolo era considerato «un vulcan qui jette feu et flammes, mais qui ne raisonne pas». Cervantes era un «amuseur» di basso rango. La civiltà francese era una civiltà di corte; le buone maniere letterarie erano una recessità culturale. Ci è facile infierire adesso, quando abbiamo la doppia esperienza della sterilità letteraria (poetica, dovrei dire) francese del Settecento (sterilità che in quell’epoca razionalistica fu del resto universale: dalla morte di Luigi XIV ad Alfieri, Goethe e Byron non vi fu un solo vero
poeta in Europa), e del magnifico rifiorire della poesia dopo. La dottrina di Boileau (che come tutte ie dottrine estetiche è la formulazione di tendenze già in atto) era perfettamente adeguata ai suoi tempi e fu non l’incitatrice ma la risultante delle opere insigni di Racine, Molière e La Bruyère. Essa non mostrò il suo malefizio sterilizzante se non quando la si volle applicare ad un corpo in piena crescita, cioè nei primi dell'Ottocento. Essa non è in alcun modo responsabile della sterilità poetica del Settecento che fu dovuta a ben altre cause ed operò in paesi nei quali Boileau non era né stimato né conosciuto. Fu su tutta l'Europa che dal 1720 al 1780 si rovesciò la pentola di acqua bollente: Francia, Inghilterra, Italia, Germania e Spagna ne furono inondate.
LA QUERELLE DES ANCIENS ET DES MODERNES
Boileau fu la manifestazione critica più importante del Seicento. Ma non l’unica. Come è già stato fin troppo detto il secolo diciassette simo era letterario sino al midollo delle ossa. Numerose furono quindi le dispute letterarie: di quella del Cid si è detto qualcosa; vi fu anche quella fra Benserade e Voiture, «la querelle des jobelins et des uranistes»; SaintEvremond ne capeggiò un’altra famosa che bizzarramente rassomiglia a quella italiana fra «strapaese» e «stracittà».
Di gran lunga la più importante fu però «la querelle des Anciens et des Modernes». Indubbiamente la corrente generale del secolo portava i letterati all’imitazione degli antichi. Questa corrente non era però senza oppositori. Anzitutto vi era il reale merito dei contemporanei, cioè dei moderni, che auto-
rizzava e talvolta imponeva il sottrarsi alla supina subservienza degli antichi. Poi vi era la, dopo tutto, diffusa ignoranza degli autori latini e greci; una percentuale molto più elevata di adesso, è vero, conosceva le lingue classiche; ma pochi le
conoscevano al punto di poter gustare direttamente la bellezza degli autori che pur venivano continuamente esaltati dalla critica. Le traduzioni c'erano, ma mal fatte
e adatte a scoraggiare la venerazione per gli antichi. Le donne, inoltre, che tanta influenza avevano sulla letteratura, erano meno colte ed avverse all'influenza antica («Qui donc voudrait avoir une couturière grècque? et
pourquoi alors choisir là nos poètes?» diceva con più
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Letteratura francese
spirito che logica Mme de Tencin). Infine vi erano gli scrupoli religiosi che vietavano di credere che la perfezione artistica avesse potuto essere raggiunta da infedeli. (Sì, proprio così!)
I «Modernes» hanno per portavoce Charles Perrault, l’autore dei famosi Cortes de fées, che in piena Acadé-
mie Francaise nel 1687 lesse il suo Szècle de Lowis le Grand nel quale i moderni trionfavano: Que l’on peut comparer, sans crainte d’étre injuste, Le siècle de Louis au beau siècle d’ Auguste.
È facile figurarsi lo sdegno dei «classicisti» puri; essi scesero in campo guidati da Boileau, Huét e, strano a dirsi, La Fontaine. Il dibattito durò a lungo e si chiuse
con una riconciliazione fra Perrault e Boileau; vi fu un banchetto e si bevve «aux gloires conjointes d’Horace et de Monsieur Racine». La disputa doveva riaprirsi quindici anni dopo. «Les anciens» sembravano vittoriosi su tutta la linea: Mme Dacier aveva tradotto l’Iliade e il successo del Té/ér2aque di Fénelon aveva travolto il paese. Perrault era morto, ma trovò un successore in La Motte che, per dispetto a Mme Dacier, tradusse in versi di nuovo l’I/iade, abbre-
viandola molto «afin d’y faire disparaître des redites et des longueurs». Apriti, cielo! Mme Dacier scattò come una molla d’acciaio, e dietro di lei si mossero i battaglioni dei «classicisti». I «Modernes» salirono al contrattacco. E la zuffa diventò davvero omerica. Intervenne l’onnipresente re. E per far cessare la zuffa, diede l’incarico a Fénelon di arbitrare la questione. Questi emise il suo verdetto in una sua Leztre è l’Académie redatta con grande prudenza ma nella quale la sua parzialità per gli antichi traspare ad ogni pagina. Per Fénelon il primato della lingua e della versificazione classica è fuori dubbio. Gli antichi hanno l’inversione dei pe-
-Il Seicento
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riodi, le vocali brevi e lunghe, innegabili vantaggi sui poeti francesi; la stessa vita politica degli antichi favoriva lo sviluppo della eloquenza e creava una tradizione oratoria che ai francesi mancava. «Enfin ils étaient plus proches de Platon et de ses Idées que nous ne le sommes; cette gràce-là nous manque»; strana affermazione in bocca a un così (realmente) pio arcivescovo. Lo stesso numero infinito di citazioni, tutte di classici, che infioravano la lettera basta a provare come per Fénelon i modelli insuperati fossero i greci ed i latini. E quando a conclusione della sua opera egli declina di ergersi ad arbitro «entre ces deux potentats» lo fa nascondendosi dietro la citazione di un oscuro brano di Terenzio Varrone. La vittoria era, di fatto, rimasta nelle mani «des Anciens».
Ma la disputa conserva anche adesso il suo interesse. Anzitutto perché ci dimostra il vivido interessamento francese per le cose letterarie; interessamento che, quando questa nostra civiltà sarà scomparsa, varrà a Parigi
una gloria sorella di quella di Atene. E poi perché porre simili problemi è di già dar loro una risposta; la disputa fra gli antichi e i moderni introdusse nella letteratura l’idea del «progresso». E gli scrittori francesi si sentivano pienamente armati e pari a
chiunque. Ricordate le altezzosamente umili esortazioni di du Bellay a saccheggiare i templi colmi della sapienza antica? Adesso sembra che dei secoli siano trascorsi. I templi sono stati svuotati, il nutrimento spirituale assimilato, ed assimilato a tal punto che adesso i satolli osano metterne in dubbio il valore. L’età dell’oro francese è incominciata; al giorno d’oggi essa non è ancora cessata.
JEAN RACINE (1639-1699)
* «Jo non so quale idea vi siate formati del carattere di Racine. Probabilmente quella che si può desumere da una lettura dei fatti principali della sua vita: un uomo colto, tranquillo, che ebbe grandi successi teatrali, che a un certo punto cessò di scrivere per scrupoli religiosi, che fece una discreta carriera alla corte di Luigi XIV e che poi morì in santa pace, accompagnato financo da alcune parole di simpatia del terribile duca de Saint-Simon. Questi fatti sono veri, non c’è niente da dire, ma sono
incompleti. La vera vita di Racine fu assai più complessa: fu una vita di travagli spirituali, di cattiveria, di aridità sentimentale; essa sfiorò, forse toccò, il delitto.
Così per la sua poesia: essa appare liscia, luminosa, quasi prosaica a chi la conosca per fama o anche per una
lettura affrettata. Anche ciò è vero. Ma è ancor più vero che il teatro di Racine, letto come va letto con l’attenzio-
ne» rivolta ad ogni virgola, ogni sillaba che questo scrittore di suprema abilità e di superiore segretezza abbia scritto, si rivela qual è sotto la superficie di marmo: carico di miele e di veleni, greve di sensualità repressa che esplode in crimini, agitato nel contempo da una religiosità morbosa che non si risolve mai in preghiera, gravato da un senso della Grazia che, attinto ai Giansenisti, si è tra-
sformato attraverso la cultura classica in un sentimento del Fato, e intanto imbevuto di sangue e di lussuria. * Il testo fra parentesi uncinate è trascritto dal dattiloscritto fatto redigere dalla principessa Tomasi di Lampedusa. Il foglio manoscritto originale è mancante.
©’ Fine della lacuna nel manoscritto.
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Nelle tragedie di Racine si vede agitarsi una ristretta
cerchia di criminali di alto bordo, spietati, astuti, gover-
nati da istinti irrepressibili, cui la sveglia spiritualità serve soltanto da elemento di strazio e non di salvezza; criminali che la inflessibile potentissima tecnica della tragedia classica costringe a vivere e ad odiare perpetuamente legati l’uno all’altro. Vi è questo, vi è soprattutto questo. Ma Racine non sarebbe, è chiaro, l’artista supremo che è, se vi fosse soltanto questo. Vi è anche l'indagine psicologica più penetrante che si possa immaginare, una indagine imparata nei tremendi confessionali di Port-Royal; vi è l’amore studiato in tutte le sue forme, pure criminali, tragiche sempre, vi sono alcune figure di vittime nelle quali l’occhio di Racine ha però saputo discernere la tara che avrebbe fatto di esse, in seguito, dei mostri pari ai loro
carnefici. «Le doux Racine.» Così era chiamato dai romantici. Sembra di sognare. Questi personaggi si esprimono nel modo più «classico» che si possa desiderare: il loro discorso fluisce limpido, espresso nel più perfetto francese che si sia mai scritto, cadenzato dagli alessandrini più perfetti, più modulati che esistano. Occorre per gustare Racine risalire alle origini dei modi di dire come egli, grande filologo, certamente faceva. Se Nerone giovinetto dichiara a Giunia «ses feux» occorre sorpassare la convenzionalità della frase: «ses feux» non sono dei vaghi sentimenti amorosi; sono appunto ciò che essi significano: «fuoco». Un triste fuoco interiore che lo spingerà al delitto. Le passioni, sempre mortali, dei personaggi raciniani sono pur sempre passioni di persone supremamente ben
educate: esse sono canalizzate fra sponde di granito; non restano per questo meno impetuose e meno torbide; anzi la loro canalizzazione ne aumenta la profondità. E attraverso i «Madame, je vous supplie», i «retitons-nous
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Letteratura francese
dans nos appartements», Racine ha saputo, a colpi di piccole sillabe quasi inavvertite, mostrarci il fondo fisiologico e infernale delle passioni. Di Racine è il verso più impudico che esista, che per altro rimane inavvertito dal lettore agganciato all'idea del «poeta di corte». Quando Roxane, la crudele sultana, confessa il proprio amore a Bajazet, nel fastoso e lugubre serraglio, essa gli dice: Ecoutez, Bajazet, je ses que je vous aime.
Un esempio, fra mille, dell’arte della sfumatura pec-
caminosa nella quale Racine è maestro insuperato. Egli è il solo poeta che abbia saputo formulare «l’oggettivo correlativo» nel giro di un unico verso. Racine è il solo autore che possa esser letto dalla più riservata educanda e che possa anche far meditare il più incallito cinico. Racine è forse il più grande dei francesi. Lo sarebbe senz'altro se non esistessero Pascal e Baudelaire. E non è senza timore che il sottoscritto vostro servo si
avvicina a questo imparruccato e melato poeta che nasconde del sangue fra le pieghe delle grasse mani.
Jean Racine: la vita La tragedia spirituale di Racine venne determinata quattordici anni prima della sua nascita. Nel 1625, infatti, una sua prozia, rimasta vedova e sola, volle rifugiarsi
in un convento e scelse il primo che le indicasse il proprio confessore. Quando si presentò per pronunziare i voti, sulla soglia della povera cappella del monastero fu accolta dall’abbadessa, «la mère Angélique Arnauld».
Quel convento era Port-Royal des Champs. Avrei dovuto patlarvi di Port-Royal che è uno degli «high places» della religiosità occidentale; che è anche il pernio attorno al quale ruota tutta la vita spirituale della Francia in uno dei momenti suoi più luminosi; che costi-
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tuì la cellula dell’opposizione ideologica all’assolutismo barocco. E un argomento tanto venerabile che toccarlo senza approfondirlo costituisce sacrilegio. Questi appunti sulla letteratura francese saranno privi del capitolo su Port-Royal, cioè mutilati della loro testa. E sarà peccato. Avreste visto questa comunità religio-
sa di donne, ispirata dal misticismo più acceso e armata, paradossalmente, della più scaltrita arte diplomatica, lottare durante settanta anni contro le forze congiunte della Santa Sede, dell’assolutismo borbonico e della
Compagnia di Gesù; alternare vittorie conquistate a forza di purezza e di genio a tregue ingannatrici ed a sconfitte più esaltanti delle vittorie; avreste avuto le vertigini dinanzi agli abissi teologici di Giansenio e di Saint-Cyran; avreste ammirato figure titaniche di lottatori, quelle della «mère Angélique», del «srand Arnauld» e di Nicole quasi pareggiate da quelle dei loro avversari, laici e gesuiti; avreste gustato, in mezzo a tanto fervore d’idee, alcune commoventi scene d’ingenuità monastica. E
attorno a quella umile ed orgogliosa casa di preghiere avreste visto combattere tutto quanto la Francia del loro tempo ha prodotto: S. Francesco di Sales, il genio di Pascal e quello di Racine, il calmo prepotere del re, la diffamata signora de Maintenon, La Bruyère e Boileau, Molière e il duca de La Rochefoucauld. E chiamati a rincalzo i grandi morti come Montaigne e i grandi dell’avvenire, Voltaire, Diderot e il nostro Manzoni. Dramma spirituale di altissima levatura che è forse il punto centrale della storia della Chiesa cattolica da Calvino ai nostri giorni e che ancor oggi fa ribollire i fermenti spirituali di Maritain, di Mauriac e di Greene e di Eliot. Di tutto questo, da me, non saprete niente; e ciò vi apprenderà a scegliervi un miglior «lettore». Dal momento in cui la prozia di Racine ebbe fatto il suo ingresso a Port-Royal le relazioni fra il cenobio e la
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Letteratura francese
famiglia paterna e materna di Racine non fecero che intensificarsi; attratte dallo straordinario fascino di quelle recluse (fascino che punge ancora a tre secoli di distanza noi, miseri scettici per indolenza), numerose ragazze e moltissime vedove della famiglie Racine, Sconin, Des-
moulins e Vitart (le famiglie dei quattro nonni del poeta) andarono a cercare la pace dell’anima fra le lotte mondane dell’Abbazia. E il non aver potuto per fralezza di carne seguire il loro esempio costituì la spina nel fianco di Racine che lo spinse nelle profondità del vizio e sulle cime della gloria. Ma non soltanto i familiari di Racine andarono a Port-Royal, Port-Royal venne da loro: durante una delle prime persecuzioni venne ingiunto ai «Messieurs de Port-Royal», cioè a quella magnifica compagnia di intellettuali che erano andati a vivere attorno al monastero, di disperdersi. E molti furono ospiti delle famiglie degli ascendenti del poeta, allora ragazzo, che certo dovette vederli sfilare, racchiusi nella loro sorri-
dente spiritualità, per le strade del suo paese. Racine crebbe in un clima di battaglia ideologica. Egli era nato il 22 dicembre 1639 a La Ferté-Milon, da Jean Racine e Jeanne Sconin. La Ferté-Milon è adesso un grosso borgo ad un’ora di macchina da Parigi, verso il nord; allora era un villaggio di millesettecento anime, non privo però di importanza economica. Esso era infatti
sede di un deposito di sale la cui vendita era monopolio dello Stato che su questa umile mercanzia prelevava forti tasse; ed attorno a questo deposito, uno dei più antichi di Francia, vivevano quattro o cinque famiglie borghesi (i Racine appunto, gli Sconin, i Vitart, iDesmoulins) che alternandosi nelle non estenuanti cariche di direttore, procuratore, esattore, geometra del deposito, finivano con l’accumulare una certa sostanza e potevano sperare di ac-
cedere alla nobiltà di toga. Il nostro poeta infatti vi accedette, ma per ragioni ben diverse. La
Ferté-Milon
si trova
nel Valois,
sulle
rive
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dell’Ourcq, al centro delle più vecchie terre francesi. Modeste colline incoronate da boschi, lunghi filari di pioppi nelle vallatelle vi disegnano un paesaggio composto e distensivo, che suggerisce una segreta poesia, mai
declamatoria, che venne poi fissata per sempre da Corot. Fu questo paesaggio del Valois che Nerval doveva immortalare in seguito nelle pagine della sua Sylvie. In esso i corsi d’acqua sono frequenti e gonfi; hanno l'aspetto di placidi stagni ombreggiati dai salici; ma sotto la superficie loro idillica, le correnti sono rapide e pericolose; il Valois era chiamato «le pays des noyés». Questi fiumiciattoli sono di già dei versi di Racine. Il principale di questi piccoli fiumi è l’Ourcq, sulle cui sponde si trova La Ferté-Milon; il suo nome non dice niente a voi. A quelli della mia generazione ed a me esso ricorda i combattimenti frenetici fra tedeschi e francesi durante la Prima Guerra Mondiale; fu appunto sulle rive dell’Ourcq che apparvero nella storia i primi carri armati, nel 1918. In tutto questo putiferio La
Ferté-Milon venne rasa al suolo e insieme con essa la casa dove era nato il poeta e che fino ad allora si era conservata. Adesso al suo posto sta accovacciata una casa moderna a tre piani, una di quelle ritrose case della provincia francese, dalla facciata liscia affinché lo sguardo non vi si posi e dalle persiane grigie perennemente chiuse. Su di essa vi è una lapide che dice: Tci nacquit Jean Racine le 22 Décembre 1639
Concisione che sarebbe da ammirare se non fosse unicamente dettata, come tante cose in Francia, dal desiderio di economia. (Chi scriverà un trattatello dal titolo «Dell’influenza
dell’avarizia sulle belle arti?» Vi troverebbe posto un capitolo rivelatore sull’architettura fiorentina.)
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Racine a quattro anni rimase orfano di padre e di madre. Per giunta senza un soldo perché il padre non aveva saputo ammassare i risparmi che, nella sua carica, pare fossero consueti. Il bambino e la sorellina minore furono accolti dal nonno paterno presso il quale stettero sei anni. Ne aveva dieci infatti quando fu inviato al collegio di Beauvais. Port-Royal aveva fondato, come propaggine del monastero, delle scuole, dirette da «ces Messieurs», nelle
quali una magnifica educazione morale e classica veniva impartita a dei ragazzi che dovevano poi formare la classe dirigente francese. È da pensare quanto le numerose parenti che Jean aveva fra le recluse di Port-Royal si dettero da fare perché il ragazzo venisse accolto in queste scuole! Invano. «Ces Messieurs» erano assai severi sulle qualità morali dei candidati alle loro scuole ed i rapporti che il collegio di Beauvais trasmetteva sul giovane Racine erano poco
incoraggianti: pigro, violento, invidioso; così essi lo dipingevano. Racine fu ammesso dopo sette anni di esitazione. Egli aveva diciassette anni, l'età pressappoco alla quale da queste scuole si usciva. Egli però seppe presto riguadagnare il tempo perduto, sia dal lato affettivo che da quello culturale. Il ragazzo avrà avuto (aveva certamente; anzi) tutti i difetti dei
quali gli si faceva carico, ma era dotato di un grande fascino, fascino fatto di ambigua tenerezza, di comprensione. Fascino da «felino» che nasconde le unghie sotto il velluto del pelame: lo conserverà tutta la vita e i suoi più aridi detrattori glielo riconosceranno sempre. Inoltre sprizzante di intelligenza, assetato di cultura, animato da sincera fede religiosa. Queste doti erano più che sufficienti per accattivargli il cuore dei suoi maestri,
Lancelot e Le Maître, uomini ambedue del più alto valore spirituale e culturale che lo ebbero allievo prediletto. Sotto la loro guida Racine divenne quel prodigio di co-
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noscenze classiche che egli fu; la lingua e la letteratura greca non ebbero più segreti per lui e ce ne rimane, prodigiosa testimonianza, il quaderno nel quale tutta la vita annotò e commentò i tragici greci, quaderno che il recente studioso tedesco Hildebrandt non ha esitato a qualificare «la raccolta più profonda di filologia greca che esista». Racine rimase meno di tre anni a Port-Royal; ma le tracce lasciate sul suo spirito da quell’ambiente furono incancellabili e decisive; attraverso tutta una vita carica
di peccati, di successi e di dolori, lo vedremo sempre guardare a Port-Royal, spesso per esaltarlo, più spesso per denigrarlo con strana ferocia, sempre però come alla grande preoccupazione della sua esistenza. «J'ai PortRoyal dans le sang; rien ne l’en fera jamais sortir.» Ma non fu per mezzo di Lancelot e Le Maître, i sa-
pienti, che Port-Royal agì sul giovane. Fu per mezzo di Jean Hamon, il santo. Era questi un medico che si era ritirato dal mondo per vivere all’ombra del chiostro. Anima più francescana che giansenista egli ci ha lasciato i suoi Souvenirs, testimonianza affascinante di un'anima semplice e santa. Egli faceva grandi passeggiate con Racine: «je lui donnais des conseils». Quali fossero questi consigli non sappiamo; è certo però che non furono seguiti ma nondimeno rimasero a fermentare sotto il peccato e l’orgoglio di chi li aveva ricevuti. Nel testamento scritto quaranta anni dopo, pochi mesi prima della morte, Racine supplica («je supplie», sono le parole testuali; e non dimentichiamo mai il valore che il senso originario delle parole ha per Racine e quindi quanta umiltà e cordoglio esprima questa frase), Racine dunque «supplie» di essere seppellito a Port-Royal «aux pieds de la fosse de M. Hamon». Le influenze di Port-Royal non furono però tutte edificanti come quelle che derivarono da Monsieur Hamon: più profondamente e più funestamente agirono su
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di lui altri influssi provenienti dal celebre monastero, influssi non buoni. Perché anche Port-Royal aveva i suoi difetti: la violenza polemica e l'orgoglio intellettuale. Difetti che possono apparire di carattere nobile quando si riferiscano ad una comunità che realmente era una élite e che, spietatamente attaccata da ogni parte; aveva bisogno della «ferocia» polemica per sopravvivere; ma che diventano sgradevoli da vedere se fioriscono in un individuo isolato che li adoperi ai propri fini personali. Tutta la vita di Racine è colma di orgoglio, colma di violenze spietate: egli non cesserà mai dall’attaccare Corneille che, in decadenza intellettuale, non si decideva ad abbandonare le scene dinanzi al giovane rivale; Molière,
che sarà colui che «lancerà» Racine, non raccoglierà in seguito che disprezzo e insulti; Racine tenterà, con per-
vicacia, con intrighi, di far interdire dal re la rappresentazione di qualsiasi tragedia che si chiami Phèdre o Iphigénie; egli sembra aver piacere a farsi dei nemici; e quando in Pradon egli vede un nemico per il solo fatto che non pensava come lui, sono i metodi alteri ma pericolosi di Port-Royal che egli adopera. L’impronta del giansenismo si ritrova ad ogni passo nella sua opera nella quale passano tanti mostri trasportati dalle loro passioni. Ascoltate Giansenio, il maestro: «La rage de l'homme changé en béte par ses passions, dépassera celle des chiens, sa cruauté celle du scorpion, son venin celui du serpent». Sembra un elenco delle dramatis personae raciniane.
Ossessionato dal problema del bene e del male come veniva sentito dai giansenisti, sarà nel loro fosco universo che Racine cercherà molti dei suoi personaggi: innocenti schiacciati, giusti senza soccorso contro il potere
del vizio e della depravazione. Fatemi la grazia, Signore, di esser compreso dal piccolo numero dei Vostri «eletti»: così dicevano i «Solitaires» nelle loro orazioni notturne. Come a Port-Royal vi sono pochi eletti nella poe-
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sia di Racine. Il dramma di un cristiano che non crede più alla libertà della scelta si muta spesso nella tragedia pagana della schiavitù al destino. La predestinazione è diventata dvdayxn. Ma non voglio anticipare sulle opere di Racine; desideravo soltanto indicare alcune delle influenze di PortRoyal che si rilevano in esse. Nell’ottobre 1658 Racine uscì dalle scuole religiose e si iscrisse al Collège d’Harcourt, il più prospero dei collegi che formavano l’Università di Parigi: egli si destina va alla carriera di avvocato. Ma questi studi durarono poco: Racine aveva gustato il frutto della poesia e presto abbandonò le pandette. Andò a vivere con un lontano cugino, Nicolas Vitart, che fu l’unica persona che conservasse la sua amicizia per tutta la vita. Egli era «intendant», noi diremmo amministratore, del duc de Che-
vreuse-Luynes che gli era assai affezionato e che introdusse lui e Racine fra i suoi altolocati amici. Luynes era sì giansenista, ma giansenista mondano;
non aveva creduto di dover rompere le proprie relazioni personali con la gente che non la pensava come lui circa la «grazia efficiente». Quindi fra gli amici cui presentò Racine vi erano delle eccellenti persone che da PortRoyal erano considerate come dei «démons à la mode». E «ces Messieurs» scrissero all’allievo uscito da poco dalla loro tutela una lettera che lo invitava a troncare,
per il bene della propria anima, quelle relazioni esecrate. Racine non rispose. Fece anzi di peggio: quando il cugino Vitart prese moglie invece di fare un regalo alla sposa le rivolse un sonetto che fece stampare. Non solo, ma ebbe la sbadataggine (così dicono i biografi, io dico l’ardire) di inviarne una copia a Port-Royal. Ricevette come risposta una lettera gelida di Lancelot che s’iniziava con il giudizo che «votre sonnet est au-dessous de tout» (il che era perfettamente giusto) e continuava ordinandogli di cessare queste occupazioni colpevoli e di applicare il
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proprio ingegno a pratiche meno frivole. Sei mesi dopo troviamo ancora una lettera di Racine nella quale si duole così: «Je regois encore lettres sur lettres, cu, pour mieux dire, excommunications sur excommunications,
à cause de mon triste sonnet». Vi era però assai peggio del sonetto e forse «ces Messieurs» lo sapevano, e ciò spiegherebbe la costanza della loro indignazione. Racine stava verseggiando addirittura una commedia dal titolo inquietante Azzasie e frequentava i camerini delle attrici per farla accettare e rappresentare. Aveva anche scritto un’ode, La nymphe de la Seine, per le nozze del giovanissimo Luigi XIV. Chapelain la presentò al re che accordò un dono di seicento «livres» (circa mezzo milione di oggi). Ma queste erano occupazioni letterarie riprovevoli soltanto al cospetto di «ces Messieurs». Racine però sprofondava pure nella deboscia, nella deboscia vile della gente con pochi denari che si svolgeva fra mezzani, prostitute e accoltellatori: si buscò un colpo di pugnale in una coscia e ruppe la testa a parecchi avventori a colpi di bottiglia in una taverna. «Il recherchait les querelles comme les canards recherchent l’eau.» Il buon cugino Vitart cercò di strapparlo a questo ambiente nefasto e lo fece inviare a Chevreuse allo scopo di sorvegliare i lavori che il duca faceva eseguire nel suo palazzo in previsione delle nozze. Ma Chevreuse era troppo vicino a Parigi: gli amici e le amiche malfamate del poeta vi giungevano in due ore si finì col gozzovigliare «dans les appartements que l’on prépare pour Madame la Duchesse». Su Port-Royal, frattanto, si scatenava di nuovo la tempesta. La polizia eseguì perquisizioni nel monastero e nella sua filiale di Parigi. Novantadue suore furono arrestate. Esistono i loro interrogatori: unanimamente mirabile il contegno della religiose: serene, semplici, inattaccabili. Monsieur Le Maître morì di dolore quando le «Petites Ecoles» vennero chiuse. Ma una
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sventura ancor maggiore colpiva Port-Royal poco dopo: il 6 agosto 1661 la mère Angélique Arnauld moriva. In questi frangenti la condotta di Racine fu abietta. Una lettera scritta in quei giorni ce lo mostra pieno di crudele gioia. Egli lancia nugoli di frecce avvelenate contro i grandi perseguitati, mostra di aver dimenticato quanto loro dovesse. Egli credeva che Port-Royal fosse finito per sempre, obiettivamente e soggettivamente. L’ira o il rimorso questa volta accecarono il futuro grande psicologo: Port-Royal risorse dalle ceneri poco dopo più vigoroso che mai, e Racine ne conserverà l’impronta nel cuore sino alla morte. Gli scandali a Chevreuse continuavano tanto che il duca, seccato, volle che Racine si allontanasse. E l'ottimo
Vitart pensò che un esilio più lontano sarebbe stato utile. Racine fu spedito a Uzès, nel cuore della Provenza, presso un prozio, gran vicario del vescovo. Si sperava che lì avrebbe potuto procurarsi un beneficio ecclesiastico che gli desse modo di vivere con la semplice formalità di una tonsura che non lo avrebbe obbligato a niente. Alla fine di ottobre partì per Uzès. Di questo periodo si sono conservate molte lettere sue, dirette al cugino e
ad altri amici parigini meno rispettabili. Esse sono quanto mai divertenti: vi si vede Racine come un pivello pretenzioso che prende le attitudini scandalizzate del parigino dinanzi alle rustichezze provinciali. Il paesaggio, il clima, la cucina provenzale gli piacevano; «mais il est impossible que je me forme des amitiés parmi ces rustres»; va a caccia di ragazze e ne trova, va anche a caccia
di benefizi ecclesiastici e ritorna col carniere vuoto. Intriga, mente, compone versi men che mediocri. E sospira per la vita libera di Parigi. Però è in questa medesima lettera che, di fra le nebbie di cose sgradevoli, cominciamo a scorgere i lineamenti del poeta che il mondo intero amerà un giorno. In una lettera al cugino Vitart scritta il 17 gennaio
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1662 troviamo il miracolo del primo verso «raciniano». Esso serve a chiudere una brutta ode che vanta il clima di Provenza. E fiorisce improvvisamente carico della semplicità, del suono, del significato sempre vagamente ambiguo delle sue migliori ispirazioni: Et nous avons des nuits plus belles que vos jours.
In un’altra lettera a Le Vasseur (uno degli amici bricconi) del 30 aprile 1662 vi è una strana e sottile disquisizione sulla carnagione delle donne, un breve capolavoro di schifiltosa delicatezza; in un’altra lettera allo stesso s'introduce improvviso un grande sentimento tragico, il sentimento puramente raciniano della incontrollabilità delle passioni. Ascoltiamolo, sono soltanto due righe ma ci mostrano nel ragazzo ventitreenne cattivo soggetto il futuro poeta di Bayazet: «En ce pays-ci on ne voit guère
d’amours médiocres; toutes les passions y sont démesurées».
Ricordate queste parole quando un amico sordo vi dicesse che i sentimenti di Racine sono «artificiali». L’ultima lettera di Racine da Uzès è in data 25 luglio 1662. Ma egli dovette rimanere lì qualche mese ancora. Nel novembre era però certamente ritornato a Parigi perché di quella data è la stampa di due sue liriche, Ode sur la Convalescence du Roi e La Renommée aux Muses, delle quali gli ammiratori del poeta preferiscono tacere ma che valsero a lui una pensione da parte del re. Di qualche giorno posteriore è una sua lettera (28 novembre 1663) che ce lo mostra di già introdotto a corte,
presentato al re, in relazioni intime con Molière. Frequenta la casa del duca di Luynes, del conte di Saint-Aignan, è presentato al grande Condé, a La Rochefoucauld, ai Rohan. A forza d’intrigo egli è già riuscito ad essere «lanciato» senza aver scritto nulla che in qualsiasi modo potesse distinguerlo dai mediocrissimi fra i con-
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temporanei, poveri diavoli che continuarono a tirare avanti fra la taverna e il Monte di Pietà. Caratteristico per il modo di procedere di Racine è il
fatto che divenne intimo amico di Toussaint Rose, uomo senza lettere e senza fascino, che era però il segretario particolare del re, del quale sapeva imitare la scrittura con tale perfezione che questi se ne serviva per esimersi dallo scrivere da se stesso le lettere che dovevano essere di suo pugno. Personaggio che già allora appariva assai losco, che era divenuto ricchissimo, e che passava per
«le parfait répertoire de cour et d’affaires». Amicizia proficua per un giovane privo di scrupoli. Di questa singolare amicizia rimane traccia anche in una favoletta anonima che scherza malignamente su «la Rose et la Racine» e lascia intravedere prospettive di ricatti e di scorretti affari. Benché «uomo di lettere» sino al midollo delle ossa, Racine non frequentava i letterati e i poeti; si accontenta solo di corteggiare Chapelain che era l’«esperto» letterario del Ministero delle Finanze e che aveva l’incarico di designare i meritevoli di soccorsi. Le «pensioni» di Racine si eleveranno sino a duemila «livres» annue, somma ragguardevole, prima che egli avesse scritto una sola tragedia. Insomma un vero «maneggione» della letteratura; soltanto che, eccezione unica fra i maneggioni, era un uomo di genio.
Tutte queste «coperte vie» portarono finalmente alla rappresentazione di una sua tragedia, pessima, La Thébaide, che fu rappresentata nella compagnia teatrale di Molière il 20 giugno 1664. Fu fischiata. Ma Molière, caso unico, perché era un capocomico molto severo, conti-
nuò a rappresentarla, non solo, ma anche la mise in scena a Fontainebleau alla presenza del re. Sempre senza SUCCESSO. Per niente scoraggiato e sostenuto dalla potente pro-
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tezione di Molière, l’anno seguente Racine fece rappresentare, sempre alla «Maison de Molière», la sua tragedia Alexandre le Grand. Egli con questa entrò nella gloria. Gloria immeritata per il momento, perché anche Alexandre val poco; però contrariamente alla Thébaide essa è nettamente «raciniana»; la melodia del verso è già quella che durante tre secoli i poeti francesi (tutti) ritroveranno soltanto nei loro momenti migliori. La sua prima rappresentazione ebbe luogo il 4 dicembre 1665 davanti ad un pubblico imponente. Racine, che sapeva fare, aveva ottenuto che vi assistessero Monsieur, fratello del re, con Madame, il principe di Condé con i figli, marescialli di Francia, e tutto il pubblico ele-
gante. Il buon Molière, che aveva perduto tanti soldi con la
Thébaide, era raggiante e sicuro di rifarsi. Quando scoppiò una bomba: due settimane dopo, il 18 dicembre, lo
stesso Alexandre veniva rappresentato alla presenza del re dalla compagnia dell’Hòtel de Bourgogne, rivale di quella di Molière. Racine aveva tradito. Pochi giorni dopo egli tradì più gravemente. PortRoyal non era morto; grondante sangue si difendeva come un leone ferito. Nicole, uno dei grandi polemisti giansenisti, scrisse in quei giorni un trattatello, violentissimo, diretto contro l’arte drammatica, nel quale ogni autore di tragedie veniva designato come «empoisonneur public... coupable d’une infinité d’homicides spirituels», tanto più pericoloso quanto più dissimulava i vizi e le passioni criminali sotto il velo della decenza. Racine comprese che il colpo era diretto contro di lui; esasperato da questa voce che tanto più lo feriva in quanto echeggiava i suoi stessi rimorsi, decise di farla finita, di schiacciare questi suoi carnefici spirituali. Tanto più che il vento era contrario a Port-Royal e contribuire ad ucciderlo poteva essere utile non soltanto alla pace del suo spirito ma anche alla sua carriera mondana.
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Racine aveva, tecnicamente, ragione. E sarebbe stato facile difendere con dignità e misura i diritti dell’arte, proprio come fecero nel contempo molti letterati che pubblicarono le proprie difese contro le accuse di Nicole. Ma a Racine non bastava la difesa: egli voleva uccidere, far tacere la voce dei maestri che aveva rinnegato; «he was out for murder». La sua Lettre a M. Nicole è un capolavoro di intelligenza e di bassezza. Il talento, la logica, l'ironia con le quali egli smonta il meccanismo della polemica giansenista sono insuperabili; insuperabile pure è l’abiezione con la quale la memoria della santa mère Angélique viene diffamata e il suo antico maestro Le Maître viene mostrato «pleurant ses crimes» (!) e infliggente a se stesso le penitenze più duramente ridicole. Nicole tacque; ma fece chiedere a Racine se egli aves-
se avuto parte nella nefanda pubblicazione (la Lezzre a M. Nicole era stata formalmente anonima). Racine, in
un biglietto scritto al cugino Vitart, che era stato il mediatore, smentì ogni paternità dell’opera ma nel contempo preparò una seconda Lettre più violenta della prima. Nicole, disgustato dalla vile bassezza del poeta, scrisse
ancora una lettera a Vitart nella quale minacciava grosse rivelazioni a carico di Racine se la polemica fosse continuata: «ce que Monsieur Racine a fait il le sait autant que nous». Racine comprese. La seconda Lettre rimase nel cassetto dove fu ritrovata dopo la sua morte. Racine aveva pubblicamente rinnegato i suoi maestri, moribondi. Era libero di iniziare la sua vera vita. Il genio di Racine sembra esser stato inversamente proporzionale all’influsso di Port-Royal; quando, adesso, egli se ne fu liberato, il genio fiorì nelle sue opere massime; quando, lentamente, i richiami degli antichi maestri ricominceranno a mormorare nel suo cuore, il
genio appassirà.
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E poiché Port-Royal fu l’unica esperienza etica del nostro poeta, può anche dirsi che il genio poetico di Racine fiorisce solo quando della morale egli si è (o dice di essersi) sbarazzato. Certo è che dal 1667 appare quella serie mirabile di capolavori drammatici che come numero e continuità di colore ha soltanto riscontro nel grande periodo shakespeariano. 1667: Andromaque, 1668: Les Plaideurs, 1669: Britannicus, 1670: Bérénice, 1672: Bajazet, 1673: Mttbridate,
1674: Iphigénie; 1677: Phèdre. In dieci anni precisi, otto capolavori. Nella Phèdre si notano delle preoccupazioni etiche che non esistevano nelle altre opere: subito dopo il poeta tace per dodici anni. Si potrebbe credere davvero che con la Letftre a M. Nicole Racine abbia venduto la sua anima al diavolo: tutto gli riesce, le sue tragedie salgono di trionfo in trionfo, le sue ricchezze aumentano, la sua carriera a
corte progredisce, egli diviene amico dei più grandi spiriti della Francia, amante delle donne più desiderate,
sconfigge e calpesta il vecchio triste rivale Corneille, vede morire Molière che odiava come tutte le persone cui si è fatto del torto. Non appena, però, Racine incominciò a voler tradire il diavolo, introducendo elementi etici nelle sue tragedie, velatissimi nella Iphigénie, espliciti nella Phèdre, la protezione gli venne ritirata e non solo il suo talento subì una lunga eclissi ma anche vennero scoperti i suoi due omicidi e soltanto la protezione del re lo salvò dall’equivalente del «mandato di cattura» che era già stato, come si dice, «spiccato».
Interprete di Alexandre era stata MIle Du Parc. Era questa la figlia di ùn saltimbanco salita gradualmente sino al grande teatro non mercé il proprio talento, che pare non vi fosse, ma in grazia della sua straordinaria bellezza. Di essa fu pazzamente innamorato Corneille, già
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vecchio, che le dedicò i commoventi versi noti a tutti che cominciano Allez, belle Marquise, allez en d’autres lieux Semer les doux périls qui naissent de vos yeux
e si concludono con l’orgogliosa (e un po’ pietosa) osservazione Car vous aimez la gloire et vous savez qu’un roi Ne vous en peut jamais assurer tant que moi.
Non si sa se la belle Marquise (nome di battesimo e non titolo nobiliare) cedesse alla passione del glorioso vecchio. Si sa però che essa fu l’amante di Molière, oltre che di cento altri. Dopo aver interpretato il magnifico Nicomède di Corneille dinanzi alla corte, essa interpretò Les Fécheux, L’école des femmes, Le mariage forcé del suo amante Molière. A questo punto entrò in scena Racine che, con l'appoggio del diavolo, la strappò a Molière ma non prima che essa fosse stata la prima interprete di Célimène. Per lei creò la parte di Axiane nell’Alexandre e per lei, soltanto per lei, l’innamorato Racine scrisse lAxdromaque nella quale il ruolo della protagonista è brevissimo (250 versi appena) che il poeta insegnò uno per uno alla bella ma stupida amante ottenendo, pare, un ef-
fetto straordinario. (Sia detto per inciso, il talento di «lettore» di Racine era fuori classe.) La Du Parc andò a convivere maritalmente con il poeta e ne ebbe una figlia, Jeanne, che fu battezzata il 12 maggio 1668 a Auteuil, allora villaggetto a una certa distanza da Parigi e la cui parrocchia sembra si fosse specializzata nell'assistenza religiosa alle coppie illegittime. Poco dopo questa nascita la Du Parc lasciò Racine: l’imprudente attrice aveva ascoltato le preghiere del chevalier de Rohan, famoso seduttore di donne, ed era
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andata a convivere con lui. Ma questa relazione durò poco: nel dicembre essa ritornò dal poeta che misericordiosamente la aveva perdonata. Tre giorni dopo la Du Parc fu assalita da vomito e da atroci dolori viscerali: in due ore era morta, amorevolmente assistita da Racine
che le fece avere tutte le consolazioni della religione e badò anche a che essa, negli ultimi istanti, «rinunziasse
al teatro», formalità religiosa senza la quale gli attori, allora, non potevano essere seppelliti in terra benedetta. I funerali ebbero luogo il 13 dicembre 1668: il feretro era seguito da una immensa folla di ammiratori. In prima fila vi era Racine «à demi trépassé» che dava il braccio al vedovo della Du Parc.” Nel febbraio 1669 la piccola Jeanne moriva: essa era stata da pochi giorni accolta nell’appartamento del padre. Essa doveva aver ereditato dalla madre delle predisposizioni alle violente enteriti: morì fra crisi di vomito e doglie allo stomaco." Nel primo anniversario dei funerali della povera Marquise, il 13 dicembre 1669, venne rappresentato Britarnicus. Questa opera splendente ha per centro l’Anticri-
sto, Nerone, privo di scrupoli e di compassione, vincitore, esperto in veleni... Sarebbe inutile raccontarvi quel che avvenne a Racine negli anni che seguirono: gli uomini felici non hanno storia. I capolavori sgorgavano dalle sue mani con una facilità miracolosa; e non capolavori affrettati, disordi" L'attrice era già vedova Du Parc quando aveva conosciuto Racine. Il tratto è un’altro dei consueti motti di spirito tomasiani, sempre compiaciuti di situazioni scabrose che lo sollecitano a costruire una realtà virtuale. ‘La piccola Jeanne morì in verità a 8 anni, e mentre per la morte della Du Parc circolarono sospetti di veneficio, non sembra che questi possano esser estesi alla figlia. Evidentemente Tomasi aveva ritenuto più affascinante fantasticare una stagione di Racine avvelenatore.
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nati, basati sull’estro, ma capolavori composti, voluti, nei quali le più sanguinose passioni si ordinano e cantano guidate dalla autorità sovrana del poeta. E queste tragedie sono accolte dal furioso consenso
del pubblico, dalla sovrana benevolenza del re, dall’apprezzamento esperto degli uomini di lettere; nel 1673 Racine entra nell Académie Frangaise della quale subito diviene il direttore spirituale; due anni dopo il re gli concede una ricchissima sinecura, poi ancora gli concede le «lettres de noblesse» e subito dopo lo nomina «gentilhomme ordinaire»; l’oro si accumula nelle sue
casse; egli trova nella Champmeslé l'interprete ideale per le sue opere e, naturalmente, diviene l’amante di questa che era la donna più desiderata della Francia. Port-Royal intanto lottava ancora. Sottoposti alle vessazioni più atroci, i religiosi si difendevano a forza di genio e di purezza; ma perdevano piede. I grandi erano morti: Arnauld, Nicole, Hamon non c'erano più ed era-
no stati sostituiti da altri di eguale santità ma di minore talento. Ma nell’animo di Racine, sazio di gloria e di amore, inavvertitamente si risvegliano le voci soffocate
che avevano affascinato la sua prima gioventù: un’ombra, appena un’ombra, di sentimento religioso si può scorgere in Iphigénie; ma nella Phèdre il senso del peccato erompe ed informa di sé tutta l’opera; è vero che il peccato è chiamato, qui, Fato; ma per Port-Royal non erano queste due parole dei sinonimi? Fu la rappresentazione di Phèdre il primo gennaio 1677 a fare precipitare la crisi. Racine, il meno «prezio-
so» dei poeti, aveva sempre, nella conversazione e con l'esempio, mostrato la vuotaggine di quella accolta di poetini che furoreggiavano nei salotti. Al momento della rappresentazione di Phèdre essi avevano trovato un potente protettore nel duca di Nevers e decisero di mettere in pericolo la gloria di Racine facendo rappresentare un’altra Phèdre; opera mediocrissima di Pradon, mentre
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si dava ancora la tragedia di Racine. Manovra meschina che un autore di buon senso avrebbe semplicemente ignorato tanto abissale era la differenza tra i due autori. Ma Racine era troppo orgoglioso per aver buon senso; s’infuriò, suscitò una lite letteraria di vaste proporzioni, corse dal re per ottenere il divieto alla rappresentazione
della tragedia di Pradon. Il re rifiutò. Racine ritirò la propria tragedia, si ritirò dal mondo letterario e per mostrare la sua completa conversione si sposò. Durante dodici anni non scrisse nulla all’infuori d’insipide odi d’occasione. E dire che Phèdre, prima della splendente schiera delle tragedie sue pari, mostrava Racine al meriggio del suo genio! Questi i fatti esteriori. In realtà vi era dell’altro di ben maggiore importanza. Due forze agivano in quel momento su Racine, due forze di origine ben diversa ma
tutte e due convergenti a farlo ritirare dalla notorietà: la religione e la paura. La religione era rispuntata nel cuore peccaminoso del poeta: le parole dolci e tristi di Monsieur Hamon come semi gettati in una terra ingrata avevano tardato a germogliare; adesso esse spaccavano l’humus arido e insan-
guinato e mostravano «il fior del verde». Era giunto al momento, che viene per tutti, dell’«esame di coscienza»:
e dovette essere un esame straziante tanto per le enormità commesse, tanto per l’acutezza psicologica di chi lo faceva, quanto per l’immane orgoglio del poeta. Risultato dell’esame fu la condanna: Racine si trovò peccatore,
risolse di abbandonare l’arte. Ma vi era anche la paura. In quegli anni fece esplosione la famosa «affaire des Poisons», velenoso bubbone che, scoppiato, mostrò le sanie e la corruzione che lo splendore esteriore del regno aveva celato. Venne scoperta una associazione di fattucchiere che esercitava le proprie arti magiche sulle più note personalità della corte. Non solo questo: la
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Voisin vendeva alla gente, a carissimo prezzo, dei veleni
che servivano ottimamente a togliere di mezzo rivali, ad affrettare eredità. Tre giorni di vomito e di dolori, e poi tutti i problemi erano risolti. Lo scandalo fu mostruoso. Scandalo seicentesco ben inteso, limitato ad una cerchia ristretta di persone e un intervento della stampa limitato a dei libelli e a delle poesie satiriche. Centinaia di persone erano coinvolte: principi del sangue, amanti del re, alti prelati, fornai, fabbri, duchi ed anche un poeta illustre. Le vittime identificate salirono a parecchie diecine: padri che tardavano a morire, fratelli che occupavano i maggioraschi, giovani donne delle quali si temeva il successo, amanti che erano venute a noia...
Il re tenne il solo contegno che poteva tenere: non impedì la condanna delle venditrici di veleno né quella dei parricidi. Ordinò invece la soppressione delle procedure contro tutti gli altri: i colpevoli erano troppi, erano la metà della classe dirigente. Fra i salvati vi era Racine contro il quale vi erano state precise deposizioni. La benevolenza del re per il poeta, per l’ex poeta sarebbe meglio dire, non fece che accrescersi: fu padrino del primogenito, nominò Racine storiografo di corte, gli assegnò un appartamento a Versailles, lo nominò suo «lettore»; la sera, mentre il re era a letto, Racine, nascosto da un paravento, leggeva. Sette volte felice re! Racine, del resto, continuava a tradire. Ma questa vol-
ta in senso inverso. Nominato storiografo del re scriveva invece la storia di Port-Royal, componeva cioè, ma non pubblicava, quel suo Précis nel quale, in prosa di altissimo valore, raccontava le lotte, esaltava le virtù di «ces
Messieurs»; visitava segretamente l’abbazia, pubblicamente si recava all’Arcivescovado per cercare di parare i colpi più gravi che minacciavano il cenobio; accusato finalmente da Madame de Maintenon colse l'occasione per difendere insieme a se stesso anche i suoi antichi
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maestri. Si condusse insomma, per la prima volta, da galantuomo. L’acutissima Maintenon credette o no alla «cattolicità» del poeta? Pare di no. Ma su di essa il famoso «charme» raciniano agì con la consueta efficacia: erano dei «Monsieur Racine par-ci, Monsieur Racine par-là». Esercitando forse un velato ricatto la Maintenon riuscì a compiere quel che sembrava impossibile: il ritorno del poeta al teatro! Oibò! un teatro ben addomesticato e morale. Figuratevi un po’: delle tragedie per educande! Madame de Maintenon aveva fondato a Saint-Cyr un educandato nel quale parecchie dozzine di ragazze nobili erano allevate secondo i principi della più rigida morale cattolica. Ma un qualche svago queste povere fanciulle dovevano averlo: perché non organizzare delle rappresentazioni teatrali? Le ragazze stesse avrebbero recitato e come sarebbero state orgogliose di rappresentare una tragedia che Monsieur Racine avesse scritto apposta per loro! «Que Monsieur Racine choisisse un thème dans les Saintes Ecritures, qu'il y ajoute les charmes avec lesquels son génie sait tout parer.» «A tanto intercessor nulla si niega.» Monsieur Racine scelse il suo tema, lo drammatizzò, lo verseggiò, le ragazze lo impararono a mente, furono ordinati dei grandiosi scenari e dei costumi «à la persane» e la recita avvenne. Fu un grande avvenimento: la sala di ricreazione di Saint-Cyr era affollata delle più belle dame e dei più brillanti cavalieri della corte; in prima fila Madame de Maintenon riceveva le congratulazioni per aver riporta-
to alle scene, sia pure private, il grande poeta; e il re, ritto in mezzo alla platea, accoglieva le signore e con la sua insuperata cortesia'le accompagnava ai loro posti. Die-
tro il sipario Racine impartiva le ultime raccomandazioni alle attrici giovinette (la più vecchia era diciottenne) con la stessa soavità e competenza con la quale aveva
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spiegato i suoi testi alla Du Parc o alla Champmeslé. Anche le parti da uomo erano impersonate da ragazze (proprio l'opposto del teatro elisabettiano) e i visi freschi delle fanciulle si ornavano di vezzose barbe. Il successo fu prodigioso. Il re salì sulla scena «et a bien voulu complimenter Monsieur Racine et les jeunes actrices». La stessa sera Madame de Maintenon scrisse a un’amica: «Je suis bien aise d’avoir procuré un divertissement qui n’aura rien couté aux bonnes moeurs».
Soddisfazione un po’ affrettata: una settimana dopo Mademoiselle de Marsilly, che aveva interpretato con
tanto di barba e corona la parte di re Assuero, si lasciava rapire dal marquis de Villette. La tragedia rappresentata era Esther ed essa servì a dimostrare due cose: anzitutto che Racine non aveva perduto nell’inazione neppure un’oncia del suo genio: la tragedia è costruita con matematico rigore, i versi sono della consueta perfezione, i cori (poiché vi sono dei cori, introdotti allo scopo di dare a un maggior numero di ragazze il piacere di recitare) sono fra le più alate liriche francesi. In secondo luogo si vide che, in fondo, Racine non
aveva perduto nulla della sua crudeltà. Nella Bibbia era andato a pescare proprio l'episodio di Esther, il più feroce e, diciamolo pure, il più indecente che vi sia. Sotto una vaga corteccia religiosa, esso narra uno spietato in-
trigo di harem, la prostituzione di una vergine per ottenere il trionfo di un partito, e si chiude con un feroce massacro, fuori scena sì, ma non meno deplorevole per
questo. Era inutile: Racine non poteva essere che il poeta della morte. Ancor più lo dimostrò in quella che fu la seconda tragedia che scrisse per Saint-Cyr, e l’ultima sua opera di teatro: Azbalie, la cui glaciale implacabilità è pari alla fulgida bellezza, il che non è poco dire. Tragedia cupa,
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estratta da un oscuro episodio biblico, si avanza inesorabilmente verso la conclusione che è poi il linciaggio di una vecchissima signora. Mai lo spirito teocratico è stato
reso in modo più altero e fosco. Essa condivide con Phèdre il vanto di essere la più alta fra le tragedie di Racine. Dopo Atbalie Racine non scrisse altro per il teatro, neppure per quello addomesticato di Saint-Cyr. Visse fra casa, chiesa e Accademia nella quale tiranneggiava i colleghi; e doveva tiranneggiare anche i suoi figli, a giudicare almeno dalle frigide lettere che ci son rimaste indirizzate al figlio che era diplomatico in Olanda. Pubblicò soltanto un volume di Cantiques spirituels dei quali parleremo dopo e preparò un'edizione completa del suo teatro. È stato miracolosamente salvato il suo studio, rico-
struito alla Bibliothèque Nationale nelle sue esatte proporzioni e mobiliato con il mobilio autentico. È una stanza non grande, quadrata, con un parato di seta verde. Sulle porte sorridono alcune composizioni mitologiche «en grisaille». Una parete intera è occupata da una libreria nera e oro con i suoi 1727 volumi: quasi tutti classici latini e greci annotati di sua mano; vi è anche un
Petrarca e un Ariosto che egli amava molto e che frequentemente cita nelle sue lettere (di gioventù); ambiente solido, per bene, rassicurante, vero ambiente del peccatore riuscito interamente, che è riuscito anche a far penitenza dei propri peccati. Racine cominciò a soffrire molto nel 1697: erano dolori continui allo stomaco, che finirono col divenire
atroci. Nell’ottobre 1698 scrisse il suo testamento, quello nel quale supplica di essere seppellito «aux pieds de Monsieur Hamon» e il 21 aprile 1699 morì. Il suo desiderio'fu esaudito; il suo corpo fu inumato nel cimitero di Port-Royal, vicino alla tomba di Hamon. Pochi anni dopo, però, la ferocia degli aguzzini regi violò financo le tombe di Port-Royal: le ossa del disce-
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polo ingrato e pentito furono disperse insieme a quelle del maestro senza macchia. Racine: l’opera
Nel parlare della vita di Racine mi son lasciato prendere la mano e vi ho anche parlato della sua opera. Adesso non potrete udire che delle ripetizioni e degli sviluppi. Vorrete scusarmi: Racine è il più grande genio che abbiamo incontrato dopo Shakespeare; insistere un po’ su di lui non farà male a nessuno. Della prima tragedia di Racine, La Thébaide (1664), rappresentata quando l’autore era venticinquenne, è superfluo parlare: vi troviamo i grandi conflitti di ambizione, i più grandi sacrifici, l'esposizione di teorie politiche, i racconti di combattimenti, i dialoghi ad antitesi, tutto
ciò che troviamo in Corneille; meno la profonda convinzione, l’intellettuale sincerità e l’esperienza della vita del vecchio poeta. Il verso è corretto, niente di più; siamo
lontani dalla incomparabile, inspiegabile musicalità dell’autentico verso raciniano. La sola cosa veramente grande della Thébaide è la demoniaca ambizione dell’autore che vi traspare in ogni pagina. Questa ambizione procedeva ancora nel buio; non si era ancora accorta della sua luce interiore; annaspava e
si atteggiava secondo modelli. Almeno il modello della Thébaide era un Grande; quello di Alexandre le Grand fu un minore: Quinault. Come le tragedie di Quinault (il cui innegabile talento doveva brillare in altra direzione) l’Alexandre raciniano (1665) è una tragedia romanzesca,
assai più ricalcata sull’Astrée che su Euripide. Tutte le successive opere di Racine (e saranno tutte capolavori) le troveremo dominate dall’amore, nel quale il poeta evi-
dentemente scorgeva la passione disequilibrante che provoca e giustifica tutti gli eccessi a lui cari. Ma
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Alexandre non è soltanto sotto il predominio dell’Eros,
ne è addirittura infettato, come una cattiva acqua è infettata dai microbi durante una epidemia. «L’homme couvert de femmes» come dice Drieu in una frase famosa che volutamente ricorda la dizione «l'homme couvert de poux». E si tratta di un amore tutto libresco, di convenzione, non definito e non analizzato e i cui effetti si limitano a fornire materia a versi arzigogolati. Versi arzigogolati, è vero. La maggior parte. Non tutti. Ogni tanto il lettore trasalisce: fra i rovi e le spine giunge al suo orecchio un suono di timbro inconsueto: Pan nel bosco accenna ad alcuni motivi unici: dall’orecchio il suono scende nell’anima, denso di sovrumana dolcezza, carico di non cristiane allusioni. Uno di questi versi lo conosciamo di già da una lettera: «et nous avons les nuits plus belles que vos jours». Sono i primi versi raciniani che si aprono la via fra le
convenzioni, come sorgenti fra i sassi. Salutiamoli: sono i primi di una schiera di immortali. Due anni dopo scoppia come un fulmine il capolavoro. E durante un decennio si vedranno sorgere all’orizzonte questi misteriosi astri. Incomprensibili, inanalizzabili, frammenti di universo venuti a visitare gli uomini per recare loro messaggi perversi racchiusi in raggi di incomparabile purezza. Sono i dieci anni nei quali Racine si è venduto a Satana. E questi ha pagato da re. Andromaque (1667) ci mostra di già un Racine completo. Padrone della sua lingua incomparabile per l’espressione che vibra nelle parole più consuete, padrone della metrica, rigorosamente classica, ma che la luce
interna di ogni verso illumina di sfumature infinite, padrone soprattutto della sua cattiveria: le anime ed i corpi di Andromaca, di Ermione, di Pirro, di Oreste sono in balia del loro creatore che le anatomizza muscolo per muscolo, nervo per nervo e trasforma le loro urla di do-
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lore in una musica che, prima, poteva udirsi soltanto in cielo. Vi è di già in Andromaque il predominio dei personaggi femminili: tutto il teatro di Racine è teatro di donne: non che egli le amasse o rispettasse più degli uomini o le conoscesse meglio: conosceva tutti, uomini, donne e dei, non amava nessuno, né uomini, né donne, né dei.
Soltanto trovava nell’anima femminile una più pronta rispondenza alla passione, uno strumento più sensibile per arpeggiare le sue melodie sadiche. Non vi citerò un solo verso di Andromaque; anzitutto bisogna leggerla, e poi il suo tessuto è talmente fitto che è difficile isolarne i bei versi. Lasciamo ai concerti «di musica operistica» la
gloria di discettare singole arie di opera. È altrettanto impossibile trascrivere Racine quanto fischiettare la Va/chiria. Il successo fu trionfale: la Francia vittoriosa, giovane, dura, degli anni 60 comprendeva al volo ogni espressione di animo superiormente aspro. Eppure obiezioni furono formulate: si disse che Racine insisteva tanto sulle passioni erotiche per impotenza nel far parlare passioni più nobili. Racine, che questa critica esasperò, tacque durante un anno, perché tacere voglio caritatevolmente chiamare scrivere Les plaideurs, l’unica sua infelice (e del resto anch’essa crudele) commedia. E nel 1669 in risposta ai critici che, in poche parole e con immensa cecità lo avevano accusato di sentimentali smo, si rivolge al più aspro degli storici: e da Tacito estrae una terrificante tragedia, Britannicus, e ci mostra
cosa siano le «passioni più nobili» che egli dicevano non sapeva trattare; ci mostra quale congerie di vizi, di ambizioni, di tradimenti, sia secondo lui l’«alta politica» della
quale Corneille andava pazzo. È la sola «tragedia politica» di Racine che dovrebbe togliere ai politicanti qualsiasi desiderio di ascoltarne un’altra. Con sinistro com-
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piacimento Racine penetra in una corte corrotta, con in-
superabile penetrazione disegna il formidabile personaggio di Nerone, del giovinetto ancora tremulo e di già perverso, bocciolo del fiore velenoso che sta per schiudersi; nessuno ha mai più tentato di farci assistere allo spettacolo affascinante e nauseabondo del serpentello che rompe il guscio del suo uovo; e quanti orrendi cobra già sviluppati assistono alla nascita! Agrippina carica di ogni peccato e di ogni dignità, timorosa del mostro che ha messo al mondo e per questa sua paura divenuta miserabilmente pietosa; Narciso, il solo personaggio del teatro di tutti i tempi la cui perversità possa gareggiare con quella di Jago, e che continua ad esprimersi con tanta nobile dolcezza. E le vittime: quella Junia, inutilmente pura, e quel Britannico, nel quale il germe serpentino è soltanto meno sviluppato che in Nerone e che perciò, perciò soltanto, soccombe. Racine in Britannicus si prova alla pittura di ambiente; ci si prova come i grandi artisti, senza descrivere, ac-
cennando con mezze sillabe. Ed appunto per questo restano per sempre incisi nella nostra memoria i corridoi oscuri del palazzo imperiale, quelle porte inesorabilmente chiuse, quei tremolii di fiaccola che rendono indimenticabile il ratto di Junia.
Opera polemicamente composta, opera di assoluto valore. Racine ha dimostrato di sapere, se vuole, scrivere
la tragedia politica, sftrondandola dalle pur nobili illusioni corneliane. E la scrisse nell’anno più criminoso della sua vita, proprio mentre conosceva le Locuste, con la mano forse non ancora asciutta del veleno versato. Non ritornò più a questo genere di tragedia. L'amore gli offriva sviluppi di situazioni ben più crudeli dell’ambizione. i La crudeltà di Bérézice è tutta mentale: non perisce nessuno, i corpi rimangono intatti, le anime soltanto sono distrutte. I personaggi principali sono tutti puri, tutti
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nobili; ciò non li salva dall’infierire l’uno contro l’altro,
di straziarsi non con pugnali ma con il loro stesso amore. Tutta la tragedia è una incomparabile elegia, un canto funebre degli amanti sulla sconfitta reciproca della loro passione. Opera stellare, nella quale il crudele Racine ha dimostrato di poter uccidere senza veleni e senza armi: con le nude parole. Debbono però essere le sue parole, queste api d’oro onuste di miele avvelenato. Vi è in Bérénice una malignità seconda, estrinseca all’opera. Il vecchio Corneille, bisognoso, aveva composto un Tite et Bérénice e l'aveva fatto rappresentare. Negli stessi giorni Racine pubblicò la sua tragedia quasi omonima che schiacciò quella del glorioso vecchio e ne fece cessare la rappresentazione. Bajazet è del 1670. Questa tragedia costituiva una novità assoluta dal punto di vista della tecnica, in quanto essa rappresentava un fatto veramente svoltosi in Turchia non molti anni prima. La consuetudine voleva che soltanto argomenti dell’antichità classica potessero fornire motivo di tragedia, essi soltanto possedendo quell’allontanamento nel tempo che dava garanzia che essi fossero ridotti a puri stati psicologici. Racine, nella prefazione da lui scritta per la pubblicazione in volume, si scusa di questa infrazione alle regole e sostiene la tesi che un così grande allontanamento nello spazio «et dans les moeurs» equivale all’allontanamento nel tempo. Queste cose ormai ci interessano poco; vorrei soltan-
to fare notare che se l’allontanamento nello spazio è vero (nessun paese adesso è lontano quanto la Francia lo era dalla Turchia del Seicento) quello della lontananza «dans les moeurs» è una pia illusione di Racine. Sotto i loro turbanti e dietro il loro velo, i turchi e le turche di
Bajazet tentano di nascondere, invano, la loro anima che
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è tutta cristiana, occidentale, francese e anzi della corte
di Versailles. Per nostra fortuna. Per ovviare a questo difetto (cioè pregio) della sua tragedia Racine vi ha magistralmente introdotto un’atmosfera orientale: il serraglio di Bayazet è, insieme al palazzo di Nerone, una impressionante evocazione di un mondo chiuso e cupo, tutto cancelli e persiane, con il
boia («les muets») che attende dietro ogni stipite di porta. Ravvivata da un regista in gamba (Dullin) quest’atmosfera diviene realmente oppressiva e da incubo e fa vedere quale pittore di ambienti oltre che di climi psicologici sarebbe stato Racine se non avesse preferito, in ge-
nerale, scrutare le membra palpitanti delle sue vittime anziché i loro palazzi. Eccetto che in Britannicus ed in Bajazet, Racine non
descrive ambienti fisici; ma eccelle sempre nel tracciare «ambienti psicologici» come quello della fatalità guerriera che domina Iphigénie e quello del mito peccaminoso che si manifesta in tanti eterni versi di Phèdre. È veramente superfluo parlare della crudeltà di Bajazet. Si potrebbe esser tentati di dire che essa è la più crudele opera di Racine se non si pensasse subito anche a Iphigénie, a Britannicus ed a Bérénice. In verità non vi sono gradazioni: l’anima implacabile di Racine è al proprio diapason in tutte le sue tragedie (tranne le due prime) e la prodigiosa concentrazione di passioni imposta dalle regole aristoteliche in lui non impedisce anzi esalta al massimo l’espandersi della fiamma divoratrice. È stato notato che tutte le tragedie raciniane potrebbero chiamarsi «les dernières vingt-quatre heures des condamnés à mort». Questo è particolarmente vero di Bajazet nel quale i personaggi sono letteralmente già condannati a morte prima che il sipario si alzi. Essi non lo sanno ed il loro divincolarsi, i loro urli di passione, i loro frenetici atteggiamenti assumono un significato co-
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smico, sono una rappresentazione di scorcio di tutta la «condition humaine». Roxane, immersa nella passione sensuale della quale
l'ambizione stessa non è che una derivazione, è una delle più potenti creazioni di Racine; essa giunge ad eccessi d’impudicizia che sono rari anche in questo teatro di pruriginosi. Come sempre in Racine, Atalide, l’innocente, non è altro che un tipo di grande sensuale non ancora sviluppato. Racine era del tutto privo di illusioni. Bajazet, lui, è il vero tipo femmineo della tragedia, esitante, sfibrato, dotato solo della inutile facoltà di saper
ben morire. Osmin è il solo personaggio di Racine che abbia un sottinteso umoristico: egli solo, svelto e immorale, probabilmente un eunuco, se la cava e riesce a sfuggire alla strage. Con Mttbridate (1673) si scende in un’atmosfera meno frenetica. Se vi è tragedia raciniana che possa pretendere al diritto di aver fatto chiamare il suo autore «le doux Racine» è questa: ancor più di Bérérice essa è tutta nel modo elegiaco nell’espressione e assai meno di Bérénice essa è di intenzioni crudeli. Se si tolgono le sfuriate di quel burbero benefico di Mithridate, non vi è una sola parola veramente aspra; e neppure Pharnace, che è così intelligentemente traditore, si lascia sfuggire parole di odio troppo manifeste. In Mztbridate il tema è, se non giuridicamente certo psicologicamente, incestuoso; alla dolce Monime occorreva soltanto una formalità presso lo Stato Civile per trovarsi nella posizione di Phèdre; anzi di una doppia Phèdre. Ma un'insolita misericordia ha impedito a Racine di porre il problema. Nella sala di tortura tutti gli strumenti sono pronti, in bell’ordine e lucidi; il carnefice però non ha voluto adoperarli. E tutto si risolve in bellissimi discorsi e con un solo morto ammazzato, quel tonante Mithridate che del resto ci appariva di già come un condannato prima che avesse sen-
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tore delle complicazioni sessuali che attorno a lui si formavano. Ho detto «bellissimi discorsi» e qui occorre fermarsi un poco. I versi di Mithridate sono indubbiamente fra i più alti di Racine. Monime non può aprire bocca senza che le più.composte, sideree armonie vengano a colpire il nostro orecchio. Fin dalle prime parole: «Seigneur, je viens à vous. Car enfin aujourd’hui / Si vous m’abandonnez, quel sera mon appui?/ Sans parents, sans amis, désolée et craintive...» Racine ci presenta con sicurissimo disegno questa desiderabile figura di donna, ingenua sì ma fortemente passionale, che si sacrifica sì ma con avvincente riluttanza, e che sotto delle maniere deliziosamente gattesche ha in riserva una così forte carica passionale da riuscire, sia pur effimeramente, a risolvere a proprio vantaggio tutti i problemi. Debbo dire che ogni lettore di buon gusto non può che condividere per Monime i sentimenti dei tre personaggi maschili della tragedia, che sono sentimenti di pura e semplice adorazione.
Vi è nella quarta scena del quarto atto un discorso di Monime, tutto una sottilissima variazione della metafora
del «feu», che è quanto di più delicatamente poetico Racine abbia mai scritto e che basterebbe da solo a porre Mithridate fra le più alte tragedie, dato che fosse lecito far graduatorie in questo scintillante gruppo di nove capolavori. Basterebbe da solo, dico; col che non voglio dire che è il solo. Tutta la parte di Monime è tessuta di versi consimili, ed i versi che pronuncia Xipharès e quel-
li selvaggiamente grandiosi che sono in bocca di Mithridate non sono di lega meno preziosa. Si direbbe quasi che in Mzthridate Racine, rallentata per un attimo la corrente della sua crudeltà, si sia abbandonato un poco al
puro piacere del canto. Quello che era stato soffocato nel Mitbridate, esasperato, irrompe nelle due tragedie seguenti e spezza ogni diga.
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Iphigénie (1674) è una tragedia che potrebbe servire da paradigma per tutta l’opera di Racine. Se si facesse leggere ad una persona che di Racine non conoscesse né la vita né le altre opere né la fama passerebbe quasi senza commenti: è ben fatta, si direbbe, solida; gli dei sono
compassionevoli, si chiude quasi senza spargimento di sangue. La flotta salpa felicemente verso la grande avventura. In realtà Iphigénie è una delle più fosche fra queste opere spietate. Il sentimento del terrore divino circola in ogni suo verso. Essa è tutta percorsa dalla «fear of things to come» e gli dei, ben lungi dall’essere comprensivi, sono assetati di sangue, non importa di quale sangue. E avutolo cadono in sopore e per un momento si placano. Lo spirito di Racine si manifesta anzitutto nella costruzione della tragedia. Essa è tratta da quella di Euripide: in questa Ifigenia è all'ultimo momento salvata da Diana che proprio sull’altare del sacrificio sostituisce il corpo di una cerbiatta a quello di lei. Euripide insomma ha aderito a uno di quei miti che si formarono quando la coscienza umana cominciò a trovar rivoltanti i sacrifici umani e volle rimpiazzarli con sacrifici di animali. (Il sacrificio di Isacco è un altro di questi miti di transizione.) Racine non si contentava però di sangue di cervo, voleva sangue umano, e voleva gustare l’ansia disperata di una fanciulla sacrificata. Respinse il pietoso sotterfugio euripideo come inadatto alla scena e la sua prodigiosa ‘cultura classica gli fornì una vaga leggenda secondo la quale un’altra vergine di sangue regale sarebbe stata uccisa in luogo di Ifigenia. Come gli dei, sono i personaggi: piangente ma inesorabile Agammenone, cerebralmente spietato Ulisse, impietoso Achille, carica di odio e di invettive Clitennestra, pietosa ma perfida Erifile; anche Ifigenia ha pochi scrupoli. Ed il selvaggio ringraziamento al Cielo elevato da
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Clitennestra negli ultimi versi della tragedia! Bisognerà attendere cento anni perché a proposito di questa stessa Ifigenia un altro poeta pronunzi le parole umane e rasserenanti che ogni anima non efferata vorrebbe gridare durante la rappresentazione della Iphigénze di Racine: Alle menschliche Gebrechen Sihnet reine Menschlichkeit.
Naturalmente in Ipbigénie (come in tutte le altre tragedie di Racine) la crudeltà è tutta interiore: niente avviene sulla scena che ad uno spettatore sordo possa apparire di men che dignitoso: i pugnali, le coppe di veleno, gli occhi cavati rimangono appisolati nel deposito del trovarobe. La bellissima pantera si presenta a noi nella mollezza delle sue forme, nel color di miele del suo pelame. Re dell’eufemismo (dell’eufemismo, badiamo bene, non
dell’ipocrisia) Racine dice tutto; ma con garbo, belle parole e belle maniere. Un’arte davvero senza eguale. Sarebbe inutile parlare della bellezza formale di Iphigénie. Essa e Phèdre rappresentano il punto più alto della straordinaria «dizione» di quest'epoca d’oro. Tutto è detto, tutto è evocato, le passioni, l’ambiente, i venti e le bonacce, l’orrore di futuri incendi, il cordoglio
delle morti precoci, la gioia di provocarle anche; tutto è detto servendosi delle parole più scarne, con rarissime metafore, con un’abilità musicale che utilizza soltanto le cesure del verso, che col semplice ritardo di frazioni di secondo nella propria musica riesce a diventare volta a volta impetuoso, largo, elegiaco, intriso di lagrime o grondante sangue. Un miracolo. L’arte di Racine è assolutamente inimitabile: essa è un dono... di chi? I due più grandi artisti francesi sono stati in ottime relazioni... con chi? Il donatore segreto non è mai stato più generoso che in Phèdre; non è mai stato anche più presente.
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Tragedia cosmica, se mai ve ne fu una. In quella reggia di Tebe gli dei sono a contatto quotidiano con gli uomini; la loro oscura volontà (e la volontà degli dei si manifesta con gli istinti) dirige tutto; e spesso essi sono evocati ver-
balmente con i più tremendi versi. Si comprende benissimo come a Phèdre dovesse seguire un silenzio più che decennale. Seguendo contemporaneamente due vie, quella palese delle passioni e quella occulta della penitenza, Racine era giunto ad una parete invalicabile. Nel momento in cui la sua arte di «dire» aveva raggiunto le massime possibilità, egli si trovava senza aver più nulla da dire: si sentiva dannato per volere imperscrutabile. Phèdre si uccide; per un artista della forza di Racine il silenzio è l’esatta equivalenza del suicidio. Quando Racine colse il pretesto delle beghe seguite alla rappresentazione di Phèdre per sospendere la sua attività teatrale, egli aveva già in cantiere due tragedie: una Alceste e una Iphigénie en Tauride. Vien voglia di rimpiangere le armonie crudeli che egli avrebbe profuso nella prima al cospetto di quel marito che lascia morire la moglie invece di se stesso; e «one wonders» come se la sarebbe cavata dinanzi al mito di Ifigenia salvata e salvatrice che è il primo precristiano dell’antichità. Racine si occupò di ricostruire la propria vita spirituale scrivendo la sua Histoire de Port-Royal, sconfessione di una sconfessione, e quei suoi canti spirituali nei quali egualmente brilla il suo genio e la sua acidità. E fu soltanto quando questo travaglio interiore fu composto
che poterono venire fuori le sue ultime opere. Il temperamento era rimasto lo stesso; e fu questo che lo spinse a scegliere i due più atroci argomenti della Bibbia. Le conclusioni morali erano diverse: Racine continuava a scrivere da poeta supremo perché ciò era con-
naturato con lui come il correr bene per un purosangue.
Ma l’arte non era più per lui che una forma di divertissement, un quasi illecito riposo sull’aspra via della reden-
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zione interiore. Quando Mile de la Maisonfort, una del-
le giovani interpreti di Esther, scoppiò in lacrime perché sentiva di non aver bene recitato, Racine le carezzò la testa e disse: «Mais, mademoiselle, cela n’a aucune impor-
tance».' Quindici anni prima passava le notti intere a insufflare ogni cadenza ed ogni sfumatura d’espressione della Du Parc e della Champmeslé. Queste parole ci ricordano quelle di Rimbaud, un altro grande inibito, che non volle più parlare della sua poesia «parce que c’était mal». Parole, queste di Rimbaud come quelle di Racine, che possiamo non comprendere a fondo, ma che dobbiamo incondizionatamente ammirare. Come Faust, come tutti i veramente grandi spiriti, Racine ha ingannato Satana, nel solo modo possibile: disprezzando i suoi doni, dopo averli sfruttati. Gioco pericolosissimo nel quale pochi hanno avuto la meglio. Si contano sulle dita: Shakespeare, Racine, Rimbaud, Holderlin, Manzoni. Alla fine della vita di questi vi è il silenzio. Altri lo avrebbero fatto, credo, ma la morte li colse
troppo presto: non vi è da dubitare che Baudelaire, pet esempio, avrebbe finito col tacere. Avevano compreso come l’essenza spirituale intima è più grande dell’arte. Esther venne rappresentata nel 1689; è già stato detto dove e per quale ragione. Quanto mai scrupoloso circa gli insegnamenti morali da impartire alle educande di Saint-Cyr, Racine non introdusse in questa tragedia altri sentimenti amorosi che quelli coniugali. Vero è che l’ottimo re Assuero non propriamente sposa Esther ma la presceglie a sua favorita fra le altre donne del suo harem; ma queste sono sottigliezze giuridiche che l’«inge)
* La frase è stata alterata da Tomasi probabilmente a favore della sua tesi del pentimento. Si riporta infatti che Racine avrebbe detto: «Ah! Mademoiselle, quel tort vous faites à ma pièce!».
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nuo» Racine sperava (evidentemente a torto) non fossero notate dalle sue giovani attrici. Ridotto alle proprie linee essenziali l'argomento di Esther congiunge la crudeltà alla sconvenienza: gli ebrei della città di Susa, minacciati da un pogrom, costringono una bella figliola israelita a prostituirsi al re Assuero; così essi riescono non soltanto ad evitare il loro massacro ma a provocarne uno peggiore a danno dei loro nemici. E tutto finisce in cori di ringraziamento a Dio: Que l'on célèbre ses ouvrages Au delà du temps et des ages, Au delà de l’éternité!
Come si vede la conversione non aveva diminuito il gusto di Racine per gli argomenti cinici. Dette che siano queste cose, Esther è quanto mai no-
tevole. Il taglio della tragedia è del tutto originale: gli atti sono ridotti a tre, e vi sono introdotti i cori che sono
delle meraviglie. Essi erano in gran parte cantati, su musica di J. B. Moreau; la partitura musicale si perdette non molto dopo la rappresentazione, ed è stata ritrovata poco tempo fa. Pare che le arie di Moreau non siano male ma certamente non eguagliano la flessuosità del ritmo, il composto impeto del testo raciniano. Bisogna confessare che il valore di Esther consiste soprattutto nel verso. Lo studio dei caratteri, l'atmosfera
tragica vi appaiono compressi tanto dallo scopo, direi così, «ricreativo» delle rappresentazioni quanto dalla prevista incompetenza delle giovani attrici dilettanti cui era ovviamente impossibile affidare parti cariche del dinamismo umano di Phèdre o di Roxane. La parte di Esther è di una certa consistenza ed il carattere di una giovinetta timida e compiaciuta di se stessa costretta dalle circostanze a caricarsi di tremende responsabilità è reso con intuito e grazia. Ma siamo lontani dalle magni-
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fiche leonesse che abbiamo visto azzannarsi nelle tragedie precedenti, folli di crudeltà e di foia. Le altre parti sono, a dir vero, mediocri. In questi stampi d’inferiore creta Racine ha colato il complesso metallo del suo verso. Questo verso ha conservato durante gli anni di silenzio tutta la sua duttilità e tutto il suo pericoloso fascino. In Esther troviamo alcuni dei versi più dolci di Racine: Je ne trouve qu’en vous je ne sais quelle gràce...
alcuni dei versi più spietati anche (molti detti da Mardocheo, qualcuno da Aman, uno o due da Esther stessa)
che rifulgerebbero in qualsiasi delle grandi tragedie. Peccato che in Esther essi siano posti in bocca a personaggi che non hanno diritto ad un così alto ed armonioso parlare. Tanto staccati essi ci appaiono dall’essenza da educandato di chi li pronuncia che possiamo considerare i moltissimi versi di primo piano che possiede Esther come delle pure liriche. Se li consideriamo pronunziati dal loro tormentato autore essi riacquistano tutta la loro efficacia. Ben altra potenza troviamo in Athalie (1690). Affermare come è affermato da molti che essa è la più grande tragedia raciniana a me sembra una posa; ma è evidente che essa si siede da pari a pari fra le sue sconvolgenti sorelle. Scritta anch’essa per le rappresentazioni private di SaintCyr, reca ben poche tracce d’intenti educativi e di edulcoramenti, ed in essa la lava sotterranea di Racine sussulta e «boateggia» quanto in Britannicus ed in Phèdre. La tigre dopo anni di vegetarianesimo ha ripreso gusto al sangue. Come si possa interpretare Azbalie quale tragedia edificante e religiosa rimane per me un mistero. Questa atroce vicenda, che si svolge nell’anticamera del tempio di Geru-
salemme, è colma di quanto di meno religioso possa immaginarsi. Il tempio nasconde schiere di armati che per quanto siano incessantemente chiamati «tendres Lévites»
InSeicento
1639
hanno per solo scopo la rivolta e la strage, e attraverso ipocrisie, ammirazione del candore infantile e intenerimenti
tutta l’azione punta verso il linciaggio di una vecchia, linciaggio che una volta compiuto è accolto dai più armoniosamente selvaggi cantici di gioia. L’aver fiutato una preda da dilaniare dopo tanta astinenza ha tolto a Racine una parte della sua sovrumana compostezza. E sarebbe opera meschina ma utile il conteggiare quante volte la parola «sang» torni ad echeggiare in questa che è pur la più breve delle tragedie raciniane. Tutte le stragi sono evocate, quelle passate, quelle presenti e quelle del futuro. Vi sono dei versi che evocano addirittura il mattatoio («de princes égorgés la chambre était remplie»). I caratteri dei personaggi sono prodigiosamente costruiti, dominati da quello insigne di Athalie che nei soli 250 versi che pronunzia si disegna con un vigore incomparabile. Essa è proprio l’opposto del personaggio di Nerone, la serpe giovinetta che sente spuntare i propri denti velenosi: essa è la vecchia criminale divenuta timorosa e saggia, prudente e tollerante e che perisce miseramente appunto al momento in cui non era assolutamente più la belva che era stata. Le simpatie di Racine, le complicate simpatie di Racine, vanno ad essa tanto quanto criminale quanto quale penitente e forse in questa regina imperiosa e sperduta, crudele e «pitoyable» egli ha tracciato il proprio ritratto. Né gli altri personaggi sono da meno: Joad, inflessibile e colmo di sacra efferatezza, un Torquemada ante litteram, Josabeth martoriata da atroci ricordi di sangue che soltanto attraverso altre stragi crede poter dimenticare, Mathan che così plausibilmente espone le proprie apostasie ed i propri tradimenti ed infine Joas il fanciulletto che dev'essere il simbolo della purezza trionfante ma del quale Racine ha buona cura di farci profetizzare la carriera sanguinosa ed obbrobriosa.
1640
Letteratura francese
L’azione è condotta con stupefacente vigore: il terzo atto, per esempio, suscita un’angoscia quasi da GrandGuignol; le mura massicce del tempio, carico di volontà
crudeli, opprimono lo spettatore come un incubo; e la fine sincopata per la brama dell’ultimo sangue ricorda il famoso biglietto di Robespierre al boia: «Plus vite, encore plus vite». I versi sono quel che sono: i più belli possibili. Meno che in qualche punto nel quale la ritrovata crudeltà ha scomposto la sua bella parrucca e le sue belle maniere, essi sono quei capolavori di eufemismi e di sotterfugi atroci ai quali Racine ci ha abituati senza saziarci. Anzi direi che in Athalie il «doux Racine» (che è una realtà altrettanto innegabile quanto quella dell’«atroce Racine») non si trova. Perché spero che nessuno scambierà per miti le parole cariche di untuosa cattiveria di Joas. Con questa tragedia cupa come il fanatismo e rutilante come il sangue, si chiude l’opera poetica di Racine. Dopo aver tanto inadeguatamente parlato delle singole opere sarebbe il momento di gettare uno sguardo sul complesso della poesia di Racine. Debbo confessare che non ho il coraggio di farlo, di farlo, almeno, come sarebbe doveroso. Quando stavo fuori di Palermo ho parlato per mesi interi di Racine con un mio amico” che lo poneva come superiore a tutti i poeti, ben più in alto di Shakespeare. Giovane, romantico, inesperto ed illuso come ero allora
questa affermazione mi pareva blasfematoria. Invecchiato, dis-romantizzato, sperimentato e disilluso continuo a credere che il mio amico avesse torto; ma considero la sua opinione come un semplice errore veniale, non più
come bestemmia. ,
L’amico è Bruno Revel.
IlSeicento
Racine è unico non già come poeta ma Mai prima certamente, mai dopo forse, un to vulcanico come il suo è stato espresso più composta. Egli è uno di quei vulcani
1641
come ibrido. temperamenda una forma antartici che,
coperti di ghiacci, vomitano fuoco. Spettacolo, sembra,
di notevole paurosità. E questi vulcani si chiamano «Erebus» e «Terror», nomi che non sarebbero disdicevoli al complesso dell’opera raciniana. Non disdicevoli, ma non esaurienti nemmeno. Racine non sarebbe quel che è se fosse unicamente monocorde. Vi è anche «le doux Racine» dal quale abbiamo udito i versi più accorati e teneri che echeggiano nella nostra memoria, versi trasparenti, tenui, disincantati espressi da
Monime, Andromaque o Esther. Accanto al Racine spietato vi è il Racine delicato osservatore delle passioni femminili che egli (momentaneamente) colloca e carezza. È anzi proprio questo aspetto tenero del poeta che colpisce dapprima (noi pure scorgiamo il velluto delle zampe feline prima degli artigli). E ciò scusa in parte (in minima parte) l’accecamento dei romantici che posero al bando Racine perché «trop tendre» e inabile a rendere «les grands passions qui sont toujours impitoyables». Sembra di sognare nel leggere queste righe straripanti di sciocchezze che Gustave Planche scrisse nel 1836. Non può esservi dubbio: Planche aveva letto Racine una sola volta, a scuola.
Questa stessa critica romantica esaltava poi quali creature drammatiche i fantocci composti in egual misura di vento e di cartapesta che Hugo spasseggiava sulle scene francesi. Chi su Racine volesse scrivere adesso non sarebbe infastidito da questa critica romantica. Si trova invece imbarazzato dal profluvio di ottimi studi su di lui che sono comparsi dalla fine dell'Ottocento ad oggi. Io ne ho letti molti e volta a volta mi sono lasciato convincere dalle ragioni esposte da Lemaitre e da Faguet, da Thierry Maul-
1642
Letteratura francese
nier e da Mauriac, da Giraudoux e da Brisson per ammirare Racine. E non vorrei dimenticare i frequenti succosi accenni di France. Ragioni tutte convincentissime,
tutte esposte con la maestria poetica dei critici francesi e tutte discordanti fra loro. Per sintetizzare le quali occorrerebbe un potere di astrazione che mi manca. Ho preferito rimettermi al mio intuito personale, valga esso quel che valga. Ma non posso che raccomandare di leggerli, specie quelli di Giraudoux e di Maulnier. Racine è un poeta ermetico, nel senso che il suo pudore verbale e la estrema
sottigliezza della sua indagine possono trarre in inganno. Ed è bene avere qualcuno che vi prenda per mano e vi guidi nei meandri incantati di questo palazzo. Questa disponibilità di opinioni serve del resto a provare la profondità della poesia raciniana, pronta ad esaurire tutti i desideri di bellezza anche discordanti che il lettore vorrà cercarvi. È tempo di chiudere queste lunghe se pur affrettate note su Racine. Nel corso ancora lunghissimo e fenomenalmente ricco della letteratura francese non troveremo un suo maggiore: e soltanto uno, forse due, suoi pari. Al cospetto di questo signore ammodo che così ben nasconde le unghie insanguinate sotto i merletti che fluiscono giù dalle maniche, personaggi della natura di Voltaire, Chénier, Chateaubriand, Vigny, Mallarmé, Rim-
baud appaiono un po’ piccini.
LA COMMEDIA FRANCESE PRIMA DI MOLIÈRE
Si dice, giustamente, che la tragedia fu creata in Francia da Corneille e Rotrou. La tragedia d’arte, però; perché di tragedie informi, prive di disciplina, intinte di imitazioni italiane o spagnole ve ne furono anche prima ed a loro, sulla guida del Doumic, ho accennato.
Comunemente si dice pure che la commedia francese sia figlia di Molière. Questo punto è più delicato ed occorre soffermarcisi un poco. Prima di Molière la commedia francese esisteva. Ne esistevano anzi tre tipi: la commedia all’italiana (la nostra Commedia dell’arte) direttamente importata dall’Italia, recitata da attori italiani, francamente chia-
mata «italienne». Una «Comédie italienne» sopravvisse a Parigi fino a poco più di cento anni fa e ancor oggi il «boulevard des Italiens» perpetua il ricordo del luogo ove questo teatro aveva sede. Al repertorio, ai modi, alle maschere di queta commedia italiana Molière attinse largamente, specialmente nelle sue prime opere. Vi era inolte una commedia di stampo puramente francese, tarda e degenerata derivazione del teatro comico medievale. Essa sopravviveva soprattutto in provincia e, più grossolana ancora della commedia italiana,
aveva però il pregio di non essersi lasciata imbastardire dalle «maschere» e di conservare, pur senza arte e attraverso molte volgarità, una certa aderenza con la vita quotidiana effettivamente vissuta dai francesi, il che la Commedia dell’arte non aveva e del resto non pretendeva di avere. Questa sarà la madre di Molière. Nelle prime decadi del Seicento sorse a Parigi la com-
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Letteratura francese
media «colta», soprattutto ad opera di Corneille. Essa fu in buona parte un adattamento del teatro classico e per un’altra quota un’imitazione del teatro spagnolo, non senza intromissione di alcuni personaggi derivati dalle maschere italiane. Questa terza specie di commedia era semplice, rifuggiva da effetti farseschi e manteneva una stretta aderenza alla vita normale. Nelle mani di artisti del valore di Corneille e di Rotrou essa produsse opere notevoli: vi ho di già un po’ parlato della Illusion comzique e della Place Royale. La commedia «colta» era però un genere difficile da scrivere e poco redditizio da rappresentare. E quando Corneille si volse al teatro tragico, era urgente che avvenisse un qualche rivolgimento se il teatro francese non voleva rimanere in balia «des Italiens» o vegetare nella scurrilità del teatro provinciale. Come sempre quando una cosa è urgente, essa venne. Molière era nato ed aveva compiuto i suoi studi a Parigi; ma i primi dodici anni della sua vita teatrale si svolsero in provincia, e lì egli fu costretto a recitare e a dirigere quelle tali commedie anonime che erano piene di mende ma profondamente francesi. Ne prese il gusto, seppe estrarne quanto di vitale era ancora in esse; e, coadiuva-
to dal suo talento e dalla sua cultura, creò quella sua commedia nella quale lo studio dei «caratteri» si innesta su un fondo farsesco, nella quale la realtà quotidiana è seguita da presso e che gli permise nello stesso tempo di attirare le folle, di soddisfare i raffinati, e di creare fra le trenta sue opere quattro o cinque capolavori immortali.
Mi affretto a dire che la commedia «colta» subì una sincope ma non morì. La vedremo risorgere quando,
educatosi maggiormente il pubblico, essa avrà delle possibilità economiche. E ad essa saremo debitori delle deliziose commedie di Marivaux e di quelle notevoli di Sedaine, delle quali parlerò al momento opportuno e cioè quando saremo giunti al secolo seguente.
JEAN BAPTISTE POQUELIN, DETTO MOLIERE
Si tratta di uno scrittore di fama universale, ma anche di
uno scrittore sul quale pesano parecchi malintesi. Malintesi prodotti dagli ammiratori, anzitutto. I francesi hanno molte qualità: sono intelligenti, acuti, razionalisti, coraggiosi, pieni di slancio, supremamente
civilizzati e ottimi cuochi. Ma non sono modesti. E quando si entusiasmano per un loro scrittore, generale o cuoco tanto lo vantano, tanto lo esaltano, così bene lo sviscerano e con tanta prepotenza lo impongono che
spesso finiscono col porre in sospetto il pubblico estero. Così è avvenuto con Molière: «Molière par ci, Molière par là»; Molière «seul homme de théatre comique»,
«Molière pour le moins égal à Shakespeare», «Molière le grand révolutionnaire», «la langue de Molière», «la maison de Molière». I miserelli inglesi, italiani e spagnoli che nelle loro magre scarselle non possedevano altro che uno Shakespeare, un Goldoni, un Lope de Vega, si son sentiti umiliati, ed hanno voluto un po’ accertarsi; e tanta era stata la loro depressione morale che la loro vista si è turbata: si son trovati dinanzi ad un super-eccellente commediografo, ma poiché egli non era Shakespeare hanno detto che «valeva poco». Primo malinteso. Il secondo equivoco ha invece origine nei suoi nemici, che furono, durante la sua vita, innumerevoli. Egli (e ciò sia detto a suo grandissimo onore) si era messo contro tutti; peggio ancora si era messo contro tutti i potenti. Si
attirò l’inimicizia dei bigotti, dei cortigiani, delle civette,
1646
Letteratura francese
dei medici, degli arricchiti, delle saputelle, dei don Giovanni e degli avari, dei borghesi compiaciuti e dei cornuti. Cioè dei nove decimi dei frequentatori di teatro. Ciascuna di queste (e di molte altre) categorie rideva quando vedeva prese in giro le altre, ma quando, ritirandosi a casa e guardandosi allo specchio, scopriva di rassomigliare molto a Monsieur Jourdain, al Marquis de Mascarille o a George Dandin (per non citare che dei cari benigni), prendeva cappello. Il male che, anche in Francia, si è detto di Molière:
«Chez Molière tout est plagiat», «Molière ne connait pas le francais», «Molière ignore la syntaxe», «Molière ne peint que des caractères faux», «Molière est Tartuffe» ed altre simili baggianate. Sgombrato che sia il terreno dei paragoni con Shakespeare, occorre anche restituire a Molière il suo vero vol-
to di grande artista, cercare nella sua opera quanto vi sia di eternamente vivo e di compiutamente bello, esaminare e poi lasciar cadere molte sue opere, e porlo al suo giusto posto che è, in media, ben lontano da quello di Shake-
speare e anche di Racine, ma ancor più distante da quello del nostro Goldoni e, per esempio, di Ben Jonson. Molière: la vita (1622-1673)
Molière non si chiamava Molière. Questo è un nome d’arte che egli assunse secondo il costume, allora, di tutti
gli attori. Si chiamava Jean-Baptiste Poquelin ed era figlio di un tappezziere della Corte, carica più onorifica di quel che possa sembrare a prima vista. Il giovane JeanBaptiste (che non era ancora Molière) fece degli ottimi studi e prese la laurea in legge all'università di Orléans. Dopo di che, preso da un’irresistibile attrazione per la vita teatrale, scappò di casa a ventun anni e si unì ad una compagnia di attori girovaghi della quale presto diventò
IlSeicento
1647
capocomico; egli fu anche l’amante della prima attrice, Madeleine Béjart. Durante dodici anni la compagnia per: corse la Francia, specialmente la Francia meridionale, e durante questi anni Molière svolse soprattutto un’attività di attore, scrivendo poco e male. Ma sotto la sua direzione la compagnia acquistava fama e nel 1658 la troviamo installata a Parigi e fortemente protetta dal re. Ha inizio così la duplice gloria di Molière attore e scrittore: nel 1658 egli crea per Corneille la magnifica parte di Nicomòède e l’anno dopo viene rappresentata Les précieuses ridicules. Nel 1661 Molière con la sua compagnia si stabilisce al Palais-Royal, la migliore sala di Parigi, che si trovava proprio sul posto dove ora è la Comédie Francaise che della compagnia di Molière è effettivamente il seguito anche dal punto di vista legale. Viene rappresentata Dom Garcie de Navarre che è un fiasco e L’école des maris che ha invece un grande successo. Nel 1662 Molière ha un vero trionfo con L’école des femmes. Nello stesso anno sposa la bellissima Armande Béjart, sedicenne figlia della sua amante Madeleine e, sembra, di lui stesso. Questo matrimonio (anche a parte l’incesto che sembra, ahimè!, innegabile) era quanto mai male assortito: lui era attempato, ombroso e, come molti scrittori comici, cupo, lei era giovanissima, graziosissima, capricciosissima, corteggiatissima e leggerissima.
La coppia Molière prende posto fra le grandi sventurate della storia. Altre angustie oltre a quelle coniugali vennero ad assalire Molière: ogni sua commedia gli suscita un vespaio di nemici, il cancro allo stomaco fece la sua apparizione. Malgrado queste sventure egli lavorava indefessamente: trenta commedie in quattordici anni, oltre alla sua incessante attività di attore, nei propri lavori e in quelli altrui. Nel 1664 abbiamo Tartuffe, il primo capolavoro, che suscitò un’agitazione inaudita: tutti ne furono offesi: i bi-
gotti quanto i veri credenti, i gesuiti quanto i giansenisti.
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Letteratura francese
La rappresentazione ne venne vietata; il re la volle ascoltare personalmente ed alla fine disse : «Cela m’a l’air très bien» e volle congratularsi con l’autore. Dopo di che, si capisce, le rappresentazioni poterono divenire pubbli-
che. La condotta di Luigi XIV verso Molière fu sempre improntata alla più simpatica comprensione: egli volle persino esser padrino di un figliolo di Molière, e ciò dopo che il presunto incesto gli era stato ufficialmente denunziato. Nel 1666 ecco il Misantbrope, secondo dei capolavori indubitati che aizza l’animosità dei circoli di corte e dei poetini senza talento; sempre nel 1666 Le médecin malgré lui, nel 1668 Arzphitryon ed il terzo capolavoro, George Dandin; nel 1670 Le bourgeois gentilbomme, commedia di assoluto primo piano che suscita le ire degli arricchiti; nel 1672 Les ferzzzes savantes e nel 1673 Le ma-
lade imaginaire. Molière era ormai distrutto dalla sua malattia e dai suoi dispiaceri; alla quarta rappresentazione del Malade imaginatre si sentì male e quasi svenne verso la fine dell'ultimo atto; si riprese e continuò a recitare ma
quando il sipario calò sugli ultimi applausi i compagni lo trovarono morto sulla poltrona. Un prete venne a dare la benedizione alla salma sulla scena stessa, fra i costumi di
apotecario e le siringhe. Era il 17 febbraio 1673. Le ire non disarmarono dinanzi a questa morte valorosa: gli si volevano negare i funerali religiosi. Ed occorse un biglietto autografo del re perché queste onoranze gli venissero rese. Non ho nominato tutte le opere di Molière, soltanto quelle che suscitarono più aspre controversie e che, come tali, ebbero effetti sulla sua vita e sulla sua morte. Non bisogna dimenticare che si deve a questa serie di
angustie e di lotte se metà almeno dell’opera di Molière ha un’apparenza gaia insieme a un fondo di amarezza e, non di rado, di tragicità.
II Seicento
1649
L’opera di Molière
La Bruyère fu il primo suo contemporaneo che accusasse Molière di «manquer de style»: «il y a en lui du barbarisme, du jargon, des phrases forcées, des entassements de métaphores, du galimatias, des impropriétés, des incorrections, des chevilles, des répétitions fatigantes». Fénelon si precipita all’attacco anche lui e scrive: «Molière est aussi mauvais écrivain qu’on peut étre».” Occorre dire che nessuno di questi due critici nega a Molière il genio drammatico e che le due osservazioni si riferiscono soltanto alla scrittura di Molière. La Bruyère e Fénelon sono dei grossi autori e Dio mi guardi di dir male di loro; mi tocca però insinuare timidamente che, fuorviati dall’estetica di Boileau, essi non
hanno compreso niente. Boileau stesso del resto più chiaroveggente di loro, fu sempre intimo amico e valido sostenitore del commediografo. Né La Bruyère né Fénelon hanno voluto rendersi conto che le opere di Molière sono opere drammatiche; e che lo stile di un commediografo deve essere lo stile dei suoi personaggi; a questo linguaggio detto dagli attori egli può, se ha talento, aggiungere un’«aura» personale che lo distingua, ma fondamentalmente la commedia,
se è buona, possiede nel linguaggio lo stile individuale delle parti che in essa recitano. " Abbiamo qui un altro esempio di manipolazione tomasiana. G. Lanson, nella sua Histoire de la littérature francaise, scrive: «Il y a
d’abord une question dont il faut nous débarasser: celle du style de Molière. La Bruyère, Fénelon, Vauvenargues, Schérer l’ont accusé
de mal écrire. On a lui reproché du barbarisme et du jargon, des ph-
rases forcées, des entassements de métaphores, du galimatias, des
impropriétés, des incorrections, des chevilles, des répétitions fati-
gantes, un style inorganique. “Molière est aussi mauvais écrivain
qu’on peut etre” (Schérer)». Tomasi rielabora il brano secondo le proprie necessità narrative e «crea» dalle osservazioni del Lanson due citazioni che attribuisce, in modo arbitrario ma verosimile, a La
Bruyère e a Fénelon.
1650
Letteratura francese
Sono verità così evidenti che è financo vergognoso ripeterle. Se Molière voleva prendere in giro la conversazione affettata delle «précieuses» non poteva, evidentemente, far parlare a Magdelon e Cathos la lingua pura e castigata di La Bruyère e Fénelon; e se in Oronte voleva mostrare la vanità e la nullità di un mediocre poetino non poteva porgli in bocca poemi della appassionata semplicità di Racine, ma appunto, come ha fatto, redigere un sonetto costruito su sentimenti falsi e torturato da rime stiracchiate. La grandezza e l’originalità di Molière, ciò che appunto lo oppone alla commedia «colta» e dimostra la sua discendenza dalla farsa provinciale, è il suo stile franco e solido, formato di arcaismi misti a neologismi,
di modi di dire e di metafore popolari e provinciali, il suo stile sostanzioso e saporito, più caldo che fine, più colorito che puro. Le sue regole stilistiche sono assai differenti da quelle seguite dal bel mondo letterato: egli vuole ottenere la precisione e l’energia, l’effetto scenico e soprattutto l’aderenza del linguaggio al personaggio; e per ottenere questo si eleva (o si abbassa) in modo mirabile anche al linguaggio dei salotti. Leggendo Molière non bisogna mai dimenticare un attimo che le sue opere non sono libri ma commedie; fatte per esser dette e dette bene; e che sono state scritte
da una personalità che non era soltanto uno scrittore ma il maggiore attore del suo tempo. Alla rappresentazione i suoi difetti cadono: i nastri ed i riccioli biondi di Mascarille spiegano ed impongono gli arzigogoli dei suoi versi; e la dizione ed i mutamenti di
accento dell’attore che interpreta Harpagon fanno passare in un attimo gioioso i suoi discorsi che, alla lettura, effettivamente stancano. Le opere di Molière sono opere di un attore scritte
Il Seicento
1651
per attori. E i lumi della ribalta conferiscono ad esse la loro vera luce. Dopo le accuse allo stile sorgono le accuse di plagio. Sono le solite che si rivolgono a Dante, a Shakespeare, a Goethe: tale commedia è una imitazione di tale farsa medievale (Le médecin malgré lui); tal altra è presa di peso dalla Commedia dell’arte (L’étourdì); la terza contiene scene intere prese in prestito a Boisrobert (L’école
des femmes) o a Cyrano de Bergerac (L’avare). Conosciamo queste accuse: l’A7z/eto che è rubato a Kyd, la Commedia che è ispirata dai mistici musulmani, la Phèdre di Racine che è stata borseggiata ad Euripide, Der Gott und die Bayadere che è la trascrizione di una leggenda indiana. Accuse tutte vere, accuse tutte vacue. I
mediocri soltanto inventano temi nuovi; Salgari e Montépin ne traboccano. I geni hanno altro da fare che inventare situazioni nuove (che del resto non possono mai esser nuove sul serio). Quando verrà il giorno in cui gli dei permetteranno agli uomini di capire che nella grande arte il 720do di dire soltanto conta? Con le unità aristoteliche di tempo, luogo ed azione Molière prende le più grandi libertà: talvolta le trascura del tutto, come nel Médecin malgré lui e nel Dom Juan che sono costruite come le opere di Shakespeare. Più spesso rende loro un omaggio formale, «a lip service»: egli crea un luogo fisso ma del tutto irreale che può essere sia questa strada che quel salotto: l’Ecole des femmes e il Tartuffe insieme alle Femznes savantes sono degli esempi illustri di questa noncuranza per il luogo. Se gli fa comodo, osserva rigorosamente l’unità di luogo (Le malade imaginaire). Circa il tempo, Molière lo adatta alle necessità interne della sua opera: l’azione del Misanthrope dura esatta-
mente tre ore, quanto la commedia; è il racconto di una
crisi nella vita di Alceste che dura appunto tre ore. Nel
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Letteratura francese
Dom Juan V’intricarsi delle vicende e lo sviluppo del carattere richiedono un tempo maggiore: la commedia narra la storia di un paio di mesi. Nel Dorz Juan stesso, per esempio, il corteggiamento contemporaneo e nella medesima posizione di Charlotte e Mathurine può sembrare assurdo. È pura convenzione scenica: le due contadinelle furono corteggiate separatamente e successivamente, ma l’ingrandimento necessario alla creazione del mito dongiovannesco rendeva utile la contemporaneità. Sulia verità formale si impone la verità artistica. Ma Molière esercita il proprio arbitrio di creatore su una regola ben più rispettabile di quella delle unità: quella che ci sembra indiscutibile e cioè che una commedia debba essere a lieto fine. Molière era troppo in gamba, e, nei suoi momenti mi-
gliori, troppo acuto indagatore degli uomini, per non giungere al livello della tristezza e dell’amarezza. Egli, come si sa, non era un uomo allegro e molte sue commedie non lo sono neppure. I difetti, i vizi, le passioni dei personaggi di Molière sono una cosa seria e grave: essi
martirizzano gli individui, rovinano le famiglie. Arnolphe nell’ École des femmes, Alceste, ed il grande
George Dandin sono profondamente, irrimediabilmente infelici; l'ipocrisia di Trissotin e di Vadius, di Béline
nel Malade imaginaire, di Tartuffe rovina e distrugge la famiglia e il patrimonio sui quali essa si esercita. Vi è soltanto da meravigliarsi che con un fondo così fosco Molière abbia saputo creare tante commedie allegre. Talvolta,
del resto,
non
vi riesce
e Dom
Juan,
Le
misantbrope, Tartuffe, Le malade imaginaire sono francamente tristi, per lo meno sino alla fine artificiosa che
rischiara alcune di esse e assume l’aspetto patetico di un padre che dice al bambino spaventato dal terremoto che si tratta soltanto del cane che si gratta nella stanza attigua. E non parliamo del George Dandin che ci rimanda
II Seicento
1653
a casa senza che noi sappiamo se quell’infelice creatura si butterà o no nel fiume. Mi accorgo di aver elencato fra tutte queste commedie malinconiche tutti i veri capolavori di Molière. Un bel bilancio per un «amuseur». Un lettore (o meglio ancora uno spettatore) attento potrà financo commuoversi a constatare gli sforzi che spesso Molière compie per alleviare l’angoscia dei momenti
critici introducendo
l’elemento farsesco, come
quando incarica Sganarelle di far da contrappeso alla tragicità di Dom Juan, di Elvire e di Dom Luis, come quando Du Bois prende su di sé il compito di alleggerire l’angoscia psicologica del IV atto del Misantbrope, quando Dorine con il suo buon umore tenta, ahimè invano!, di ri-
schiarare le pietose scene del Tartuffe, quando Argan cerca di dissipare la nebbia prodotta dalla odiosità di Béline e dal fascino condannato di Angélique. Sono questi i momenti supremi, i momenti poetici di Molière, quelli che gli danno il diritto di essere contato fra i grandissimi. Sono i momenti che mancano a tanti altri commediografi pur notevoli, Sheridan, per nominarne uno. Altro segno della non evidente ma fondamentale grandezza di Molière è la sua noncuranza dell’intreccio: sono sempre le stesse storie di innamorati osteggiati da un padre, o una madre, o un tutore o un rivale tirannici
o ridicoli; ed aiutati da un servo o da una servetta allegri ed imbroglioni. Non che Molière non sappia tenere un intreccio robusto quando vuole: Le rzisanthrope, George Dandin, Dom Juan ne sono esempi illustri. Ma in generale non vi bada: la sola cosa che lo interessi è la personalità umana e le sue contorsioni sotto i colpi di una fata-
lità soltanto in apparenza buffa. Eguale alla sua noncuranza per l’intreccio è la sua
noncuranza per la soluzione: Tartuffe e Don Juan vedono il loro nodo tragico (e non sembri parola esagerata)
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Letteratura francese
sciolto soltanto da interventi assolutamente estranei all’azione: da miracoli operati dal Re o da Dio. E siccome ai miracoli né Molière né lo spettatore credono le convenzioni e la morale tradizionale si salvano, e V'ama-
rezza rimane: il che appunto era nei voti dell’autore. Altre volte sono miracoli meno clamorosi ma non molto più credibili che sciolgono i nodi: riconoscimenti fortuiti, lettere provvidenziali ritrovate. Che cosa importa a Molière, ed a noi: abbiamo assistito a qualche triste capriola della scimmia. Talaltra volta la soluzione non vi è neppure: Alceste rimane libero di ritornare l'indomani a farsi torturare nel salotto di Célimène, Dandin rimane di fronte alla moglie. Quale soluzione volete mai che vi possa essere? sembra dirci Molière. Adesso occorre non spingere troppo uno dei piatti
della bilancia e creare la piena illusione che Molière sia un autore soltanto malinconico. Molte sue opere sono opere di evasione. Poche commedie sono altrettanto spassose del Bourgeois Gentilhomme, di Pourceaugnac, delle Précieuses ridicules, poche più cariche di fantasia maliziosa delle Fourberies de Scapin e dello squisito Amphitryon. E quale folla di personaggi vivi, caricaturati con mano leggera e talvolta affettuosa. Tutta la Francia di Luigi XIV si presenta ai nostri occhi in questa serie di commedie che, su di un altro piano, presentano un panorama vasto quanto i Mér0tres di Saint-Simon. S'intravede il contadino ingenvo e furbo, che avvolge d’innocenza la propria umanità bisognosa, rapace e spesso viziosa; la contadina che civetteggia quanto Célimène la gran signora, ma che essendo anche vanitosa (il che l’altra non è) casca nella pania nella quale l’altra non si lascerà mai prendere; s’indovina tutto un mondo di spadaccini, ruffiani, truffatori, mondo dal quale esco-
no i famosi servi svelti e infedeli. Ma vi è anche la parte
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sana, rude e leale del popolo, rappresentata dalle serve fedeli ma ostinate. Vi sono i borghesi innumerevoli e diversi. M. Dimanche il commerciante, lieto di esser creditore di un nobile e quindi da questi ingannato; Monsieur Jourdain, l’arricchito in fondo onesto ma al quale la vanità fa perder la testa; e sua moglie, più vicina di lui al popolo, rumorosa e piena di buon senso; Arnolphe che, a parte di essere un personaggio tragico, è anche un personaggio ri-
dicolo, che prende falsi nomi di terre che non gli appartennero mai, e si strofina ai nobili che lo prendono in giro; Chrysale, l’imbecille tutto materia, che si occupa della cucina ed è marito senza dignità né autorità; Or-
gon che rappresenta l’alta borghesia, ricca quasi opulenta, che ama di già, sinceramente non come Jourdain, le
buone maniere e la vita comoda. E ci sono gl’intellettuali, assai maltrattati: Vadius, il pedante irritabile, Trissotin, un pedante acidulo; e medici, i grandi nemici di Molière, uno differente dall’al-
tro, tutti però rapaci ed ignoranti; vi sono le donne che giuocano con la cultura, Cathos, Magdelon, Armande, Philaminte, e che trascurano i loro doveri. Poi vi è la nobiltà provinciale: i Sotenville, fieri del loro
nome, rigidi, solenni, insolenti; la loro figlia Angélique una civetta di piccola città che non è altro che una sgualdrinella; Monsieur de Pourceaugnac, vanitoso, pesante e
scimunito; la contessa di Escarbagnas che scimmiotta in modo grottesco il linguaggio e le maniere parigine; poi vi è la società di corte: Dorante, il nobile rovinato che diviene losco; Alceste, il nobile anche lui rovinato ma che conserva la propria fierezza; Oronte, il gran signore che fa l’intellettuale e compone versi; Clitandre, Eliante, persone per bene; ed infine l’indimenticabile Célimène, la gran signora civetta, feroce e adorabile. Tutto un mondo rappresentato con scarsa indulgenza, scelto anzi nei suoi lati più deteriori; ma vivo, fre-
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Letteratura francese
mente, che parla la sua vera lingua e compie le proprie vere azioni; e se alcuni personaggi ci appaiono conven-
zionali è perché essi sono adesso scomparsi e non ne ritroviamo i modelli; allora erano di una evidente verità,
tanto che i frustati guaivano. In questa sfilata di personaggi manca il prete: non era permesso di portare il clero sulla scena. Molière girò l'ostacolo creando Tartuffe, che prete non è ma riassu-
me in sé tanto bene alcuni dei difetti di un certo clero che, appunto perché non è prete, si presta ad incarnare tutto lo spirito bigotto, falso, interessato che sonnecchia
in certi uomini di qualsiasi varietà essi siano. Lo spettacolo che questi bigotti diedero per la pubblicazione del Tartuffe risultò del più alto interesse: tutti si ribellarono, tutti s'indignarono, cattolici, protestanti, gesuiti e gian-
senisti, eleganti dévotes e pinzochere umilissime. Fu come se ciascuno di essi si fosse recato da un notaio a firmare un atto attestante la veridicità di quanto aveva narrato Molière. La morale di Molière
Bisogna cominciare col chiedersi se una morale di Molière esista. Questa che si chiama così non è forse la morale dei singoli personaggi, adatta a loro ma non forzatamente quella dell'autore? Tuttavia da un esame sia pur frettoloso del complesso dell’opera si sprigiona un certo senso etico unitario, si finisce col notare l’insisten-
za su alcuni temi. Anzitutto si nota l'assenza di alcuni argomenti. O, per esser più precisi, la concentrazione, il parcheggiamento, per così dire, dell’idea religiosa. Se dalle opere complete di Molière estrarrete il Do Juan ed il Tartuffe (un paio di centinaia di pagine) verrete ad accorgervi che non resta il minimo accenno non
Il Seicento
1657
soltanto alla morale religiosa ma alla religione stessa.
Meno ancora che in Shakespeare. Si potrebbe dire che questo silenzio non implica un giudizio sulle idee di Molière ma indica semplicemente la difficoltà che una idea religiosa potesse essere discussa (nel 1670 o giù di lì) sulla scena e, ancor peggio, in una commedia. Allora però si possono tirar fuori le due commedie stralciate e si chiede: «Queste due opere (che sono fra le più importanti dell’autore) che cosa vengono a significare?». Bisogna un po’ esaminarle. Anzitutto noteremo come esse siano contemporanee (i primi tre atti del Tartuffe furono rappresentati nel 1664, Dorz Juan è del 1665) e corrispondono quindi a un momento nel quale Molière si trovò costretto a fare una specie di esame di coscienza: due anni dopo il suo sfortunato matrimonio. Dom Juan è una commedia edificante. Il libertino è punito da Dio e trascinato all’inferno. È necessario però osservare il fatto ovvio ma, appunto per questo, trascurato, che Molière non aveva inventato né la trama né il dénouement ma che si era accontentato di versare la sua parola nella stampo già preparatogli di una commedia italiana. Quindi la sola testimonianza della idea di Molière può
esser
dedotta
soltanto
dalla parola sua,
non
dall’azione che è di altri. Quali sono queste parole? Un ateismo deciso, solido,
espresso da Dom Juan. Un’assenza di sentimenti religiosi o, al massimo, alcuni luoghi comuni senza significato
ideale da parte degli altri personaggi. Una cinica difesa della religione vien fatta nientemeno che da Sganarelle. Dopo trecento anni di continue manipolazioni e rielaborazioni il personaggio del servo di Dom Juan, Sganarelle o Leporello che sia, si è del tutto trasformato e ades-
so, forse, non vi sarebbe nulla d’incongruo se un autore
1658
Letteratura francese
credente ponesse, in una sua commedia, la difesa della
religione in bocca al servo contro il dissoluto padrone miscredente. Nel 1665 in Francia la situazione era del tutto differente: Sganarelle, non ancora trasformato, era proprio quel che appare nella commedia: un pagliaccio che ha come funzione di moderare con i suoi lazzi il soverchio patetico di certe situazioni e di ricondurre la scena nei limiti della commedia così come doveva essere. Proprio da questo villanzone, presentato come tale, Molière fa provenire l’unica apologia religiosa della sua opera. Vi è da rimanere perplessi. Tartuffe, si sa, è, ufficialmente, una satira rivolta contro i bigotti, contro i falsi credenti. In essa vi è, come
contrappeso al protagonista, la figura del vero credente, Orgon. Ma questi non soltanto è presentato come un
imbecille ma le parole che egli pronunzia, che sono chiaramente parole in buona fede, sono la negazione della vera religione: essa è interamente ridotta a una questione di morale, di virtù sociali; Voltaire e Diderot non parleranno diversamente. La fiamma della vita interiore, la
tenerezza mistica, l’ascetismo che respinge e doma la natura sono ignorate. O meglio, in pensiero, assimilate alla false penitenze di Tartuffe. In poche parole: secondo Orgon per esser religiosi, nel senso etico, occorre star lontani dalla religione nel senso dopmadeni Del resto, da altre fonti, si sa che Molière frequentava
l’ambiente dei cosiddetti «libertins» (parola che nel Seicento non ha nulla da vedere con la scostumatezza, e
che significa soltanto «liberi pensatori») come Gassendi e l'abate Bernier che continuava in sordina l’opera degli scettici religiosi del Cinquecento e che servirà da legame fra questi e il razionalista Settecento. Questo per ciò che riguarda la parte negativa della morale di Molière. Positivamente egli è interamente dalla parte degli istinti, che sono e non possono essere altro
Il Seicento
1659
che il bene. Quando nelle sue commedie egli difende gli innamorati contro i raggiri e le proibizioni dei genitori e dei tutori egli non segue soltanto le convenzioni della commedia classica ma esprime i suoi sentimenti sinceri.
Sarebbe facile presentarlo come un precursore, in questo, di Jean-Jacques: e più semplice mostrarlo come un diplomato della scuola di Thélème. Queste idee di Molière quali si possono desumere dalle sue opere coincidono con quanto conosciamo del suo carattere: era di modi semplici, aperti, di carattere malinconico; quando divenne ricco, non alieno dal lusso e da una certa ostentazione. Accomodante, molto benvoluto dagli amici, «facile à vivre». Un istintivo, insom-
ma, privo di aspirazioni metafisiche che rimpiazzava con i famosi libretti che teneva sempre in tasca per annotarvi i modi di dire pittoreschi che udiva per le strade. Un temperamento che avrebbe dovuto nascere sotto un altro regime. Intrappolato in un formalismo stretto non ebbe il genio di Racine che seppe volgerlo a proprio profitto, ma ebbe abbastanza talento per rompere spesso la crosta e produrre alcune opere eterne.
CONTEMPORANEI E IMMEDIATI SUCCESSORI DI MOLIERE
Molière non creò una scuola. Durante la sua vita e dopo la sua morte la commedia francese seguì la propria evoluzione come se lui non fosse esistito. A differenza però della tragedia, che schiacciata dalla potente quercia di Racine non produsse alcun germoglio (Pradon e Quinault come tragici letteralmente ron esistono), la commedia fiorì più vivacemente e produsse opere buone, se non sublimi. Sempre però quale sviluppo della «commedia colta» o della «comédie à l’espagnole». Di questa seconda tendenza Philippe Quinault (16351688) fu il rappresentante più notevole. Egli era un uomo di grandissimo anzi di raro ingegno e rimane triste esempio di una personalità che non ha imbroccato la giusta via. Le sue tragedie (La z0rf de Cyrus, Amalasonte, Astrate) sono degli autentici orrori, anche se non si
paragonano a Racine del quale egli si atteggiava a rivale. Ad ogni verso il lettore sente quanto il poeta si trovi a disagio e come, ornamentale quale era, la profondità psicologica e la foga delle passioni gli fossero estranee. Ad un certo punto Quinault stesso si accorse di questo. Dai paludamenti tragici dei suoi mal nati personaggi fece dei lunghi nastrini e ad un tratto questi nastrini si avvolgono in nodi, «torsades» e fiocchi e l’opera d’arte gli nacque fra le mani, un’opera gioiosa e festevole. Quinault si mise a scrivere libretti di opere. Essi sono i più squisiti libretti che esistano, di una «mièvrerie» piena di grazia, di svolazzi, di trovate verbali, di ritmi serpentini. Puramente decorativi, va da sé, ma di un decorativismo
che sembra precorrere i tempi e di già sostituire al ba-
«Il Seicento
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rocco sontuoso e greve del regno di Luigi XIV il rococò delicato e fiorito di Luigi XV. Due di questi libretti sono di facile accesso: quelli di Ampbytrion e di Psyché scritti in collaborazione con Molière per la musica di Lulli; e si può esser sicuri che le leziosità e le moine che vi si trovano sono tutte di Quinault, perché Molière di nastrini non s’intendeva. Di eguale senso del colore e del disegno fa uso Quinault nelle commedie che scrisse sul finire della sua vita: esse sono del genere «spagnolo» e mostrano caratteri e situazioni sottoposte a un ingrandimento caricaturale che il gusto di Quinault rende sopportabile.(La Mère coquette).
Ma il più notevole dei contemporanei di Molière fu J.F. Regnard (# 1709). Pur mantenute nella compostezza verbale del Seicento, le sue commedie sono di quel genere tipicamente francese che in Italia vien chiamato «pochade» ed in Francia «vaudeville», cioè delle commediole nelle quali la «trovata» è l’essenziale ed il dialogo comico il suo più forte sostegno mentre i personaggi sono dei semplici abbozzi, schizzati giù alla brava. («Pochade» in francese designa appunto lo schizzo fatto in fretta da un disegnatore.) Le Joueur, Les folies amoureuses, Le légataire universel sono dei fuochi d’artificio di motti di spirito, di situazioni buffe, a «couplets» vivacissimi. Ebbe il torto di posarsi a successore di Molière, e di essere accettato come tale: in realtà ne è diverso soprattutto per la sua sincera e perpetua allegria e poi per la assoluta mancanza di profondità psicologica. Opere di un ricco borghese capriccioso che morì d’indigestione dopo aver vissuto da dilettante, esse non mancano del fascino effimero dello scherzo ben fatto e felicemente riuscito; ma a sipario calato (si rappresentano ancora, di quando in quando) esse hanno lasciato il
tempo che trovano.
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Letteratura francese
Dancourt ($ 1725) dovrebbe trovar posto ad un livello ancor più basso, perché manca totalmente di stile. D'altra parte era dotato di un’acuità di visione e di un interesse verso le capriole umane che lo pongono ben più vicino a Molière di quanto non fossero Quinault e Regnard. Nel tardo Seicento era venuta di moda in Francia una sorta di commedia puramente cittadina,
vorrei quasi dire giornalistica nella quale si metteva in scena, generalmente in un solo atto, un qualche aneddoto, una breve storiella realmente avvenuta, non so con quanto piacere di coloro cui i fatti erano realmente accaduti; la situazione era ancora aggravata dal fatto che gli attori, in queste tali recite, portavano sul volto delle maschere di cera riproducenti i tratti delle persone implicate nel caso. Dancourt ricava una grande materia comica da questi fatterelli; e malgrado la sua cattiva scrittura riesce ad evocare tutto un mondo acidulo di giovanotti a caccia di doti, di giocatori, di ragazzine impazienti di prendere il loro volo nel mondo, di ricconi sfaccendati e cinici, tutti personaggi presi dal vero e ai quali il pubblico era in grado di dare i loro veri nomi. Le rotatre obligeant (1685) narra la comica storia di un notaio che combinava atti falsi, storia vera per la quale il protagonista era stato condannato a vari anni di prigione; La désolation des joueuses pone in scena un vero scandalo su certe signore troppo giocatrici che si erano lasciate abbindolare da un bel baro. Dancourt scrive male, l'ho già detto; ma
possiede quel che in francese si chiama «le coup de crayon», la facoltà di abbozzare un carattere in poche battute. Ad ogni modo queste sue commediole («sketches», li chiameremmo adesso) stanno a dimostrare quella mirabile facoltà della letteratura francese di seguire passo a passo la vita sociale.
Al Seicento
1663
Interessantissima è pure la commedia Le Mercure galant di E. Boursault (# 1701) che ci mostra un ambiente insospettato: quello del giornalismo del Seicento. Io non la ho letta, ma pare vi sia mostrato il desiderio di pubblicità, l’ansia di vedere il proprio nome stampato, tal e quale come avviene nel 1955.
IL ROMANZO DELL'ETÀ DELL’ORO MADAME DE LA FAYETTE (1634-1693)
Abbiamo visto come il romanzo francese fosse cominciato male. Mademoiselle de Scudéry e Honoré d’Urfé conservano un vivo interesse per lo storico del costume, e contribuirono a raffinare il linguaggio; ma il loro valore di arte è poco. La loro incredibile voga e l'interesse che destarono può paragonarsi a quello dei romanzi polizieschi dei nostri giorni. Il romanzo francese opera d’arte si inizia con l’unico libro di valore di Madame de La Fayette, quella stessa signora che fu la tardiva amica del duca di La Rochefoucauld: La prirzcesse de Clèves. Di grande famiglia, Mme de La Fayette ricevette una
educazione eccellente. Conosceva l'italiano, lo spagnolo ed il latino, «Jai quelque teinture de grec». Fece ancora in tempo a partecipare agli ultimi bagliori dell’Hétel de Rambouillet e sposò il conte Frangois de La Fayette dal quale visse sempre praticamente separata; tanto fitto è il silenzio che pesa attorno al marito che per lungo tempo si credette che fosse rimasta vedova da giovanissima. Alla metà dell’Ottocento si scoprì che il marito le era addirittura sopravvissuto.” La di lei relazione col misantropo La Rochefoucauld era nota a tutti e da tutti approvata. Quando lui morì tutti si recarono da lei a farle visite di condoglianze. Mme de Sévigné scrive: «Où Mme de La Fayette retrouvera-t-elle un tel ami, une telle société, une pareille dou)
" Frangois de La Fayette morì nel 1683, quindi dieci anni prima della moglie. Tomasi riporta qui un’informazione errata tratta dal Doumic.
Il Seicento
1665
ceur, un agrément, une considération pour elle et pour son fils? Elle est infirme, elle est toujours dans sa chambre, elle ne court point les rues; M. de La Rochefoucauld était sédentaire aussi: cet état les rendait nécessaires l’un à l’autre; rien ne pouvait étre comparé è la confiance et aux charmes de leur amitié». Si è cercato d’indagare l’influenza che il suo legame con Mme de La Fayette aveva avuto sul cinico duca e si son scrutate le edizioni delle Maxzrzes successive alla loro relazione; si è trovato ben poco: appena qualche mitigazione del tutto formale. È innegabile invece che la parte di La Rochefoucauld sulla Princesse de Clèves sia grande. Essa era quanto mai riservata e pigra, quasi scontrosa.
E detestava scrivere. In una sua lettera dice: «Le goùt d’écrire m’est passé pour tout le monde. Si j?avais un amant qui voulùt mes lettres tous les matins, je romprais avec lui». Essa scrisse, in gioventù, un romanzo, Zaide, che è interminabile e vuoto come i romanzi della Scudéry, pieno di avventure inverosimili e di sentimenti di accatto; poi due novelle, La comtesse de Tende e La princesse de Montpensier, che sono di già migliori: desunte da antiche tradizioni, esse mostrano già nel loro titolo una ripugnanza per i personaggi fittizi che erravano nei romanzi contemporanei. Nel 1678, due anni prima della morte di La Rochefoucauld, La princesse de Clèves venne pubblicato, anonimo. Il romanzo francese aveva imboccato la sua strada, quella dell’analisi psicologica concreta, crudelmente spinta a fondo, alla quale dovremo poi René, Manon, La Chartreuse, Madame Bovary, Pierre et Jean, Bubu, La Re-
cherche e moltissimi altri che è inutile enumerare. Primo merito della Princesse de Clèves è la sua brevità che è notevole anche per oggi, e addirittura fenomenale per quel Seicento nel quale non vi era romanzo più breve di otto volumi. Mme de La Fayette stessa ci ha fatto
1666
Letteratura francese
sapere che per lei «chaque mot retranché d’un ouvrage vaut un louis d’om». La trama è priva di qualsiasi complicazione e introduzione del meraviglioso e può esser narrata in due righe: la princesse de Clèves, amante del duca di Nemours, sente che sta per tradire il marito; e proprio a lui si rivolge per esser sostenuta ed appoggiata. Lui la conforta, ma muore dal dolore. La principessa si ritira in un convento. Tutto è svolto su di un piano psicologico e l’esattezza delle osservazioni morali è grande. Ai raffinamenti della galanteria che avevano edulcorato i romanzi precedenti, è sostituita la rappresentazione dell’amore-passione, espresso in doppio esemplare, nel marito e nella moglie, con grandissima finezza di differenziazioni. Il dovere trionfa ma non come trionfava in Corneille, me-
diante una certa insensibilità nell'anima e nel corpo: qui le creature soffrono veramente e si martoriano. «Je suis vaincue et surmontée par une inclination qui m’entraîne malgré moi.» La passione violenta, fatale si esprime in uno stile astratto e contenuto; la sobrietà del disegno fa
risaltare l’ardire del quadro. Il romanzo della La Fayette è una chiara derivazione della tragedia di Racine; questi è così anche il padre del grande romanzo francese. Vi furono anche altri romanzi notevoli: Les Méwotres de la vie du comte de Grammont (1713) scritti da Hamil-
ton, di lontana origine scozzese, appartengono, malgrado la loro data, al pieno Settecento: asciutti, vivaci e cinici. Notevolissimi.
Vi è inoltre tutto un filone di romanzi realisti, quelli di Scarron e di Furetière, al quale abbiamo già buttato
un’occhiata; debole imitazione dei picareschi spagnoli, essi hanno più valore storico che letterario.
LA LETTERATURA EPISTOLARE MADAME DE SEVIGNÉ - MADAME DE MAINTENON
Raccolte di corrispondenze celebri ve ne sono in tutti i paesi: esse generalmente posseggono un vivissimo inte-
resse sia storico sia psicologico. Basta accennare alle prime che mi capitano in mente: la corrispondenza di Cromwell, quella di Napoleone, il famoso carteggio Goethe-Schiller, l’epistolario leopardiano. Ma soltanto nella letteratura francese una raccolta di lettere, quella di Madame de Sévigné, è assunta a monu-
mento letterario per il suo valore intrinseco, a parte il valore documentario. Le «lettere» di Madame de Sévigné sono uno dei più indubitati classici della prosa francese. Queste lettere abbracciano un periodo lunghissimo, dal 1641 al 1696; per i primi trenta anni, però, la corrispondenza è sporadica, essa diviene sostenuta, puntuale, fittissima dal 1671 in poi. Madame de Sévigné (la «marquise de Sévigné») era una gran signora mal sposata e rimasta presto vedova.
Aveva due figli: un maschio che fece carriera nell’esercito, si sposò e del quale essa si occupa poco; ed una ragazza, Frangoise, che andò sposa al marquis de Grignan, seducente gentiluomo, conquistatore e spendaccione, che fu a lungo governatore generale della Provenza. Madame de Sévigné aveva per la figlia un’adorazione senza precedenti e che aveva indubbiamente delle sfumature morbose. Questa esaltata passione materna era stata notata anche dai contemporanei e Mme de Sévigné stessa ci racconta come una volta Monsieur Arnauld d’Andilly, un vecchio signore di ottantadue anni, la sgridasse du-
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Letteratura francese
rante sei ore per il suo frenetico amore materno che le faceva dimenticare ogni altro rapporto mondano e religioso e come conchiudesse la chilometrica sfuriata dicendole «vous n’étes qu’une jolie paienne». E un’altra volta un prete rifiutò di darle l'assoluzione «à cause de son amour materne». i Essa scrive alla figlia: «Si je suis restée une honnéte femme, c'est à cause de ma passion pour vous». E più volte nelle lettere ritorna questa frase: «Dieu me fasse la gràce de l’aimer un jour comme je vous aime». Su queste basi è facile immaginare lo stato d’animo di Madame de Sévigné che abitava a Parigi mentre la figlia risiedeva in Provenza insieme a quell’affascinante scavezzacollo di marito. Quella distanza era allora reputata maggiore di quella che oggi separa la Francia dall’ Australia e ci voleva infatti più tempo a percorrerla. Madre e figlia si vedevano ogni tanto, ma come riempire gli intervalli se non con lettere? Tre volte alla settimana la madre scriveva alla figlia sia da Parigi sia dalla propria villa «des Rochers» in Bretagna. E cercava di dare a se stessa l'illusione di una convivenza facendo partecipe la figlia di ogni suo pensiero, di ogni avvenimento anche minimo, oltre che di ciò che succedeva alla «ville et à la Cour». Non vorrei che vi faceste l’idea che la corrispondenza di Madame de Sévigné sia una serie di esternazioni d’amore e di frenetiche grida di dolore; tutto l'inverso. Il tono generale è sereno, vivace, «pimpant». Vi sono degli accenni isterici ma sono quanto mai rari. Quel che vi è di raro in questa corrispondenza consiste appunto nella estrema bontà della marchesa. In linea di massima le lettere e le memorie sopravvivono presso i posteri in ragione diretta dell’acidità di chi le ha scritte. Le memorie di Saint-Simon sono una esemplificazione illustre ma tutt'altro che unica di questa legge. Madame de Sévigné è la meno pettegola delle donne.
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Narra tutto, di tutto si diverte, è pronta a lanciare un
motto di spirito su chiunque; di maldicenza non si trova mai neppure un’ombra. Vi è anzi in lei una specie di innocenza, di «gullibility», di facoltà di farsi illusioni sul prossimo. Da ciò risulta che il quadro estesissimo e molto colorato che essa dipinge della sua epoca è alquanto esteriore. Ad essa mancano quei bruschi colpi di sonda psicologica, generati dalla malignità, responsabili d’ingiustizie, ma spesso capaci di andare al fondo dei caratteri, al di là dell’apparenza tranquilla delle acque di superficie. Madame de Sévigné non soltanto è buona ma è anche dotata di grande gusto letterario. I suoi frequenti affettuosi accenni a Montaigne, la sua costante ammirazione
per Racine e per Molière, i suoi non rari giudizi artistici sono sempre notevoli. Essa rispecchia in modo mirabile il buon gusto della classe dirigente francese al tempo di Luigi XIV, quel tale buon gusto che sorresse gli artisti del tempo, nessuno dei quali fu ignorato in vita e scoperto dopo, come talaltra volta è avvenuto, e che ha lasciato nelle dimore francesi del Seicento ancora superstiti così gradevole testimonianza di se stesso. (Sia detto tra parentesi, a Parigi si conserva ancora la
casa che fu di Madame de Sévigné: l’Hétel Carnavalet. Posto in una tranquilla strada del vecchio quartiere «du Marais», esso racchiude adesso quel meraviglioso museo che si chiama appunto «musée Carnavalet»; e le stanze nelle quali viveva la buona marchesa sono state restaurate ed ammobiliate così com'erano quando essa era in vita.) Ma tutte queste cose potrebbero importarci poco. Quel che ci riguarda è l’arte di Madame de Sévigné. Che è grande. Si è molto discusso per sapere se le sue lettere erano 0 no destinate alla pubblicazione. Occorre a questo punto riflettere che la corrispon-
denza privata, fino a metà del Settecento, era, per forza
1670
Letteratura francese
di cose, assai meno privata che adesso. La quasi inesi-
stenza e l’estrema laconicità dei giornali di allora imponevano l'obbligo di trasmettere agli amici lontani notizie di carattere generale ed opinioni letterarie e politiche. Quindi spesso le lettere erano destinate ad esser lette da molte persone. Madame de Sévigné, quindi, sapeva che le sue lettere alla figlia, che recavano notizie spesso preziose sull’andamento della corte e gli avvenimenti della capitale, sarebbero state lette in un salotto, almeno in parte.
Questo è il limite della consapevolezza di pubblicità di Madame de Sévigné. Ad una vera e propria diffusione per mezzo della stampa o anche di copisti essa non doveva neppur pensare; e ciò si vede dalle frequenti trascuratezze sintattiche alle quali spesso si abbandona. Del resto le lettere furono pubblicate la prima volta settant'anni dopo la sua morte, quando furono scoperte in un vecchio armadio dal pronipote. La vivacità è la caratteristica principale di queste lettere: ogni spettacolo, ogni sensazione eccitava la marchesa
e la sua penna sapeva tradurre in modo perfetto le sue impressioni. E quante impressioni! Il processo di Fouquet è narrato dalla marchesa, testimone appassionato, in una serie di lettere che si sentono scritte con angoscia nella considerazione della rovina che inghiottiva quell'uomo cui essa voleva bene e che contro tutte le apparenze continuava a stimare. «Entre ci et là, c'est n’est pas vivre que la vie que nous passerons». Vi è la famosa lettera «des Chevaliers», una delle ultime, nella quale narra la cerimo-
nia del conferimento del Saint-Esprit a diciotto nuovi cavalieri, che ci rappresenta il fasto, l'imponenza e il ridicolo della cerimonia mentre gli aspetti morali e fisici di chi riceveva l’altissima onorificenza vengono discussi senza
acredine ma con divertente senso umoristico. (Abbiamo di Saint-Simon la relazione della stessa cerimonia: un uragano di osservazioni crudeli e di amare previsioni.) È
Il Seicento
1671
dalla Sévigné che ci è stato conservato il racconto della prima rappresentazione di Esther che sembra un moderno «photo-reportage» tanto è immediatamente visivo ed auditivo; in tre frasi si sentono i rumori della sala: «un
grand fracas à chaises, une odeur pénétrante de poudre, un babil continu de la part de ces dames; puis le rideau s'est levé et on n’a plus entendu que la musique de Racine». Ed alla fine ci viene presentato il poeta: «faché, suant à grosses gouttes quoiqu’il gelàt à pierre fendre, baisant la main des dames comme s’il eùt voulu manger leurs mains». L’eccellente marchesa aveva scavalcato l’illusione del «doux Racine». Vi sono le lettere famose: quella sullo scandaloso matrimonio della Grande Mademoiselle col poco raccomandabile Lauzun, nella quale con arte insuperabile è espressa la meraviglia e l'indignazione generale: «le Roi recut la nouvelle juste avant de s’asseoir à table; et l’indignation lui fit refuser méme ses plats préférés». Vien poi narrata la scena famosa durante la quale il re riceve nel suo studio il cinico fidanzato: «il s’indigna fort et n’étant plus sùir de soi méme il ouvrit la fenétre et lanca sa canne dans le jardin afin, comme il le conta après, de ne pas avoir la tentation de battre un gentilhomme dans sa propre maison». Questi sono due o tre esempi fra le centinaia che questa infaticabile osservatrice benevola ci ha raccontato. Poi vi sono le sue osservazioni di lettrice. Leggeva Tacito nel testo «et toute la nuit j'ai senti des frissons sous ma peau». Legge Montaigne ed esclama: «Ah! l’aimable homme! C'est mon ancien ami!». Non si scandalizza di Rabelais «qui me fait mourir de rire tout en me faisant * Si evince dalle lettere che Mme de Sévigné non era presente alla prima rappresentazione di Esther. Non si è potuto stabilire da quale
fonte siano state desunte le citazioni riportate o se esse siano una libera elaborazione di Tomasi. Analoga osservazione vale per le due successive citazioni sul matrimonio della Grande Mademoiselle.
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Letteratura francese
penser». Ammiratrice forsennata dei Giansenisti avrebbe voluto far bollire e ridurre in brodo le opere di Nicole per poterle inghiottire «et m’en nourrir l’àme».' Preferisce Corneille a Racine: «ma fille, gardons-nous bien de lui comparer Racine, sentons-en la différence. Racine fait des tragédies pour la Champmeslé: ce n’est pas pour les siècles à venir. Si jamais il n’est plus jeune, et qu'il cesse d’ètre amoureux, ce ne sera plus la méme chose». Giudizio errato, è chiaro, artisticamente ma di notevole
penetrazione psicologica. Poi vi sono le lettere scritte dalla campagna, dai suoi beneamati «Rochers». Floricultrice appassionata, si alza anche la notte «pour aller regarder, avec une lanterne, comment se portent mes giroflées bien-aimées». Apprezza la bontà dei suoi contadini brettoni «qui sentent le vin; mais la fleur d’orange de Provence ne cache pas de si bons coeurs». E manda per un momento i suoi gioielli al Monte di Pietà per aver del denaro da dare in aiuti durante una carestia. E poi vi sono gli schizzi della nobiltà provinciale, dei suoi vicini «bonnes gens qui mettent six mois à raisonner
sur une nouvelle de Cour mais dont l’hospitalité n’emploie pas un clin d’oeil pour vous tirer d’embarras». Vi sono i ritratti del governatore della Bretagna, duc de Chaulnes, «homme d’une bonté sotte que je préfère à l’intelligente mauvaiseté»; della sua amica Tarente che era ugonotta: «quand on passe près de sa maison la nuit on l’entend chanter les psaumes d’une voix tellement fausse que le chien du voisinage s’inquiètent croyant entendre un de leur amis en détresse». Poi vi sono le lettere d’affari: l'affascinante genero Grignan rovinava allegramente se stesso e sua moglie * Le citazioni da Mme'de Sévigné sono quasi sempre conformi al senso ma non letterali. Ad esempio, parlando delle opere di Nicole, Mme de Sévigné scrive, come riporta in traduzione Tomasi: «Je
voudrais bien en faire un bouillon et l’avaler». «Et m’en nourrir l’àme» è una aggiunta di Tomasi.
I Seicento
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(«il signe des billets de dix-mille francs avec le coeur 1éger d’un gamin qui achète des brioches») e la suocera doveva intervenire e pagare. Scrittrice tutta d’improvvisazione, essa va dove la fantasia la conduce; non ha nessuna difficoltà ad impiegare parole volgari e magari scurrili se la parola scelta non le si presenti immediatamente alla memoria. Ma, nonostante questo estro veloce, la solida cultura e soprattutto l’ambiente permeato di classicismo atteggiano spesso il suo periodare alla più naturale e solenne grandezza. Come tutti i grandi scrittori del Seicento, ignorava l’ortografia. Frangoise d’Aubigné, marquise de Maintenon (1635-1719)
Assai differente è l’interesse che suscitano le lettere di Mme de Maintenon. Essa non descrive e non racconta nulla; nulla, tranne se stessa. Frangoise d’Aubigné, nipote del grande poeta calvinista, era di grande famiglia, ma povera. Nata protestante, si convertì da giovane al cattolicesimo ma tutta la vita essa conservò una estrema riservatezza ed una certa rigidità di contegno di marca calvinista. Dalla miseria dignitosa della sua gioventù essa credette sfuggire sposando Scarron, il poeta comico non privo di talento del quale ho più volte parlato. Lui era vecchio e ammalato, lei giovane e graziosa. Però la sua condotta fu esemplare, pur nell'ambiente equivoco, di attrici ed attori, poetucoli ed intriganti che si riuniva attorno allo spiritoso e malizioso poeta. Dotata di grande cultura e di affabilità essa riuscì a crearsi un «salotto» di second’ordine ma dal quale si diffondeva in città ed a corte la sua fama di virtù e di sapere. In modo che, quando morì Scarron, ad essa, vedova,
venne offerto il posto di educatrice dei figli naturali che
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Letteratura francese
il re aveva avuto da Madame de Montespan. Così essa passò dalla bohème del bisognoso appartamentino di Scarron all’ineguagliato fasto di Versailles; in condizione subordinata, certamente, ma che le sue reali qualità
di educatrice e di «femme du monde» fecero rapidamente migliorare. Migliorare tanto... che una bella notte Luigi XIV, rimasto vedovo anche lui, la sposò segretissimamente nella sua cappella privata. Il re era stanco della vita galante, era maturo negli anni, era stato disgustato dalle follie e dai crimini della Montespan. Desiderava avere presso di sé una donna di testa, calma, discreta, religiosa, che gettasse un’aura di
rispettabilità sopra i fragorosi trascorsi della sua vita. Non avrebbe potuto scegliere meglio. Prima che la voce del matrimonio morganatico si spargesse, le lodi rivolte a Frangoise d’Aubigné, che nel frattempo era stata creata marquise de Maintenon, erano state unanimi. Quando le nozze furono note, tutti le
furono contrari. Madame de Maintenon si era posta contro tutti: contro l'alta aristocrazia che avrebbe voluto fornir lei la quasi-regina, contro le belle signore che erano irritate dalla guardia severa che la nuova moglie montava attorno al re; contro i gaudenti ed i profittatori che rimpiangevano il regime di feste e di spendaccionerie cui essa pose fine; contro i protestanti che odiavano in lei la transfuga e le riversarono addosso le responsabilità delle misure reazionarie che distinsero la fine del regno, misure deprecabili ed erronee, senza dubbio, ma derivate da ben altre sorgenti che non quella composta vecchia signora. La Maintenon ebbe la sventura d’incontrare un calunniatore di genio: Saint-Simon, ed un’avversaria non di genio ma di spirito vivace le cui lettere sono rimaste: la duchessa d'Orléans, la «Palatine». Saint-Simon, in nome dell’aristocrazia soppiantata, ha
Il-Seicento
1675
squartato la Maintenon in innumerevoli pagine immor-
tali: sono nella memoria di ognuno quelle in cui ce la
mostra, affaccendata ai suoi lavori di ricamo al tombolo,
presso il caminetto «laissant de temps en temps tomber de ses lèvres des conseils remplis de fiel et de venin, dans l’oreille trop attentive du Roi»; come le altre, ancor più pittoresche, in cui essa ci vien mostrata in portantina, avvolta nelle sue pellicce, mentre assiste ad una rivi-
sta di truppe, su un’altura in un gelido pomeriggio invernale;” ed il re all’impiedi vicino, pronto ad accorrere quando essa batteva sul vetro, e a darle, scappellato nella bufera, le spiegazioni richieste. «Plusieurs se parlèrent des yeux et du coude en se ritirant, et puis à l’oreille bien bas. On ne pouvait revenir de ce qu'on venait de voire.»
Madame de Maintenon non se ne curava: governava di fatto la Francia, cioè quasi il mondo, con brevi parole e pochi gesti delle mani ricoperte dai famosi guanti di merletto nero; e faceva costruire Saint-Cyr, dove in un
ambiente sontuoso venivano educate nel modo più rigido le ragazze povere della nobiltà francese e dove vennero rappresentate Esther e Atbalie. Fu a Saint-Cyr che essa si ritirò dopo la morte del re. Le sue lettere sono molto meno numerose di quelle di Madame de Sévigné, ma di altissimo interesse. Scritte in uno stile severo e composto, tutto astratto, veramente «grand-siècle», esse ci mostrano una donna del tutto di-
versa da quella dipinta dai suoi detrattori, una donna
piena di buon senso e di moderazione. Al momento della sua più alta fortuna essa scrive: «Je meurs de tristesse dans une fortune qu’on aurait eu peine à s'imaginer... Je
me trouve dans un état à en avoir, comme on dit, jusqu’à ‘ L'episodio riportato da Saint-Simon accadde in realtà il 13 setembre 1698 «par le plus beau temps du monde». Lampedusa non i lascia ancora una volta sfuggire l’occasione di fornirci la sceneg-
riatura che considera più rispondente all’efficacia della narrazione.
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Letteratura francese
la gorge». La sua principale cura sembra essere quella di occuparsi dell’istituto di Saint-Cyr. E trova frasi di singolare tenerezza per questa sua creatura: «Quand il s’agit de Saint-Cyr, il est toujours dimanche pour moi». E non appare neppure bigotta: essa burla quelle maestre che non volevano parlare di matrimonio alle ragazze: «Quand vous aurez passé par le mariage, vous verrez
qu'il n'y a pas de quoi rire». E si scaglia contro l’imposizione di troppo rigidi precetti religiosi, di osservanze e pratiche estenuanti: «On ne peut forcer des jeunes oiseaux à aller aux vépres tous les jours». «Si une fille qui sort du couvent dit que rien au monde ne doit faire perdre vépres, on se moquera d’elle è bon droit; quand elle dira et pratiquera de perdre vépres pour tenir compagnie à son mari malade, tout le monde l’approuvera.» Dopo Descartes, il Seicento francese è interamente per-
vaso dalla ragione. Nessuno sfugge ad essa, nemmeno (e men che mai) Pascal il mistico; e neppure Madame de Maintenon.
LA «PALATINE»
Elisabetta di Baviera, la Palatine, fu la seconda moglie di
Filippo, duca d’Orléans, fratello di Luigi XIV. Fu una donna straordinaria, non tanto per altezza d’ingegno, quanto per la estrema vivacità, sincerità ed onestà. Tedesca puro sangue, insediata nel fasto e nella corruzione di Versailles (fasto e corruzione dei quali suo marito era, del resto, esponente massimo) essa scrisse durante venticinque anni, più volte al giorno, delle lunghe lettere ai parenti bavaresi dicendo corna di tutto e di tutti, mostran-
do nello stesso tempo un talento satirico e una ributtante sentimentalità, entrambe senza precedenti. Benché inte-
ramente francesi per l'argomento, queste lettere, che sono scritte in tedesco, non possono far parte del patrimonio letterario francese. Ed è peccato perché la scioltezza di lingua, le «franc-parler» della Palatine sono degni di ogni rispetto: indicibilmente attaccata agli usi e ai modi della sua povera e provinciale corte tedesca, il lusso e la grandiosità di Versailles la irritano, e finisce col mostrarci spesso il rovescio dell’arazzo sontuoso. Inoltre, senza saperlo, essa dipinge di se stessa un gustosissimo ritratto: donna sincera, irruente, manesca,
moglie mascolina di un marito femmineo, essa fa un po’ a Versailles la figura di un «paysan du Danube»; e finì col conquistarsi l’affetto del re (il quale, checché ne dica
Saint-Simon, era un uomo di prim'ordine) e l’ironico rispetto degli altri. Una lettura delle lettere della Palatine (delle quali esistono innumerevoli traduzioni francesi) è di dovere (unito al divertimento) per chi voglia conoscere il singolare ambiente di Versailles ignorando il quale buona parte della letteratura del Seicento rimane un rebus.
ORATORI E SCRITTORI RELIGIOSI
Il Seicento francese è un grande secolo religioso; esiste-
vano, è vero, anche allora delle correnti di libero pensiero alle quali dovremmo rivolgere la nostra attenzione e che nel Settecento signoreggeranno il panorama letterario; ma questi rari scrittori estranei all’aura spirituale religiosa rimangono atipici, al di fuori delle nettissime caratteristiche del loro tempo. Ma il Seicento francese fu anche un secolo dinamicamente creatore, non soltanto nel senso di aver sviluppato e portato alla perfezione i generi letterari preesistenti ma anche in quello di averne creato di interamente nuovi; intendo dire che esso, la sua concezione estetica, era
talmente aderente a quella data fase dello spirito francese da fertilizzare e trasformare in fiori alcuni prodotti del suolo che prima (e per la maggior parte anche dopo) avevano soltanto l’utile ma dimessa funzione che hanno i legumi. Proverbi, constatazioni succinte della presunta -realtà delle cose, «slogans» come si chiamano oggi, ne sono sempre esistiti e sempre esisteranno; ma essi vivono nella vallata oscura della espressione umana e il sole della bellezza formale non li illumina. Il Seicento francese aveva un impeto creatore tanto energico che queste brevi eiaculazioni intellettive divennero le Maximzes di La Rochefoucauld e La Bruyère, le Pensées di Pascal, cioè presero posto fra le massime creazioni artistiche a noi note; ciò non era mai accaduto
dal tempo di Marc’Aurelio e di Epitteto ed è del resto
It Seicento
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un altro sintomo della parentela spirituale fra il Grand Siècle ed i secoli stoici. Questo genere letterario delle «maximes» è del resto talmente rispondente all’intuito francese, alla sua severità psicologica, alla sua stessa avarizia anche formale, che ha sopravvissuto a Vauvenargues, Chamfort, Joubert, Ballanche che continuarono, dopo, a dare in esso prove illustri. E la tendenza aforismatica, epigrammatica, è così onnipresente nella letteratura francese che sarebbe opera d’infantile facilità estrarre raccolte insigni di «maximes» dalle opere di Constant, di Stendhal e di Proust, per citarne solo tre.
Lettere pure ne sono sempre state scritte; ma, dopo quelle di Cicerone, le lettere di Madame de Sévigné sono state le sole ad avere un valore letterario in sé e per sé, distinto da ciò che esse narrano. Così, predicatori e scrittori religiosi ne sono sempre esistiti; ma quelli del Seicento francese sono i soli ad
avere un valore artistico eminente, indipendente dal loro merito ideologico. Lo spirito classicistico, lo spirito cartesiano alleati hanno per un momento trasformato in oro qualsiasi metallo toccassero.
Predecessore dei grandi scrittori religiosi dell’età dell’oro è il delizioso Saint Frangois de Sales (15671622). Animato della più candida devozione, Frangois de Sales si esprime in una lingua tutta profumata di aromi silvestri cui una certa affettazione da «salon de Mme de Rambouillet» aggiunge un delicato sapore mondano. La sua Introduction è la vie dévote è un capolavoro di grazia letteraria e conserva ancora qualcosa della franchezza stilistica degli Essais dai quali, peraltro, si distingue ideologicamente nel modo più completo. Scegliamone una brevissima citazione:
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Letteratura francese
Comme les mères perles vivent emmi la mer sans prendre aucune goutte d’eau marine, et que vers les îles Chélidoines il y a des fontaines d’eau bien douce au milieu de la mer, et que les pyrautes volent dedans les flammes sans brùler leurs ailes, ainsi peut une Ame vigoureuse et constante vivre au milieu du monde sans recevoir aucune humeur mondaine, trouver des sour-
ces d’une douce piété au milieu des ondes amères de ce siècle, et voler entre les flammes des convoitises terrestres sans bràler les ailes des sacrés désirs de la vie dévote.
BOSSUET
Come spesso avviene, il primo uomo eminente in un dato genere letterario è anche il più eminente di tutti. Jacques-Bénigne Bossuet, nato a Dijon nel 1627, giganteggia fra i suoi emuli e successori; egli è uno dei più grandi scrittori francesi. Disceso da una famiglia di magistrati, fu educato all’università di Parigi ed entrò negli ordini sacri. Arcidiacono a Metz, cominciò a farsi notare per la sua foga oratoria. Dapprima enfatico e non esente da un certo
preziosismo, il suo stile andò rapidamente purificandosi ed è ancora di questo primo periodo della sua attività il Panégyrique de Saint Paul, uno dei capolavori della prosa oratoria francese. Ritornato a Parigi nel 1659 continua a predicare magnificamente, diviene predicatore di corte e nel 1669 è nominato vescovo di Condom. Lo stesso anno pubblica la prima delle Orazsons funèbres, quella per Enrichetta
di Francia, la vedova del giustiziato Carlo I d’Inghilterra, nella quale comincia a mostrare le proprie incomparabili doti di osservatore e sintetizzatore dei fatti storici. Fu nominato precettore del Dauphin ed a questa cari-
ca si diede con tutto l’animo e la dottrina; ma invano. Il
viovane principe non ne approfittò. Il sempre benevolo Saint-Simon ci dice del ragazzo: «il était sans vice ni ver‘tu, sans lumières ni connaissances quelconques, radicaement incapable d’en acquérir,... sans discernement,... ibsorbé dans sa graisse et dans ses ténèbres». Ma se il tempo speso per l’educazione dell’erede al rono fu, riguardo a questi, inutile, esso servì a compor-
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Letteratura francese
re tre ammirevoli trattati, che scivolaron via come acqua sul muschio per quanto riguarda «la graisse et les ténèbres» dell’allievo, ma che rimangono quali pilastri della prosa d’arte francese: Traité de la Connaissance de Dieu et de soi-méme, Politique tirée de l'Écriture Sainte, Discours de l’histoîre universelle. Entrato all’ Académie Frangaise, promosso al vescovado di Meaux, egli occupa una posizione di preminenza nel clero di Francia; cessata la propria attività di predicatore dopo la famosa Oraison funèbre d’Henriette d’Angleterre e quella per il Grand Condé, egli inizia la fase polemica: è a capo del movimento gallicano che tendeva a sottomettere più strettamente la Chiesa allo Stato in materia temporale; inizia la magnifica corri-
spondenza con Leibniz a proposito della tentata riappacificazione fra cattolici e protestanti; lotta acerbamente con Fénelon che inclinava verso il quietismo. Tutti scritti nei quali il suo pensiero vigoroso si esprime in forma splendente. Nel 1704 morì. Bossuet: le opere
Per il grosso pubblico Bossuet è il predicatore delle Oraisons funèbres. Queste sue opere son proprio quelle nelle quali la necessità di esaltare il defunto, l’obbligo, per così dire, di raggiungere lo stile «sublime» falsano il genuino stile dello scrittore e lo inducono a un’enfasi che ai nostri giorni può esser giudicata eccessiva. Bossuet stesso si sottometteva con ripugnanza a pro-
nunciare questi discorsi funebri e celebrativi. «Je me laisse entraîner et je m’enfle» scrive in una sua lettera.
Ed infatti, quando ebbe raggiunto una posizione morale ed ecclesiastica tale che gli permettesse di far ciò che più gli piacesse, non ne pronunziò più uno.
Del resto a questo punto interviene il mio sentimento
Il Seicento
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personale, quello che mi spinge a valutare l’opera letteraria per ciò che essa è in sé e non in riferimento ad un qualche modello ideale che ci si sia costruito in mente. L'orazione funebre è il genere letterario-oratorio più barocco (nel senso storico della parola) che esista: deve essere un monumento elevato con le parole invece che col marmo. Necessità quindi dei grandi periodi elevantisi gradatamente sino ad una affermazione perentoria; opportunità di decorare queste scale marmoree con grandi drappeggi di frasi incidentali, di epiteti sontuosi che diano l'impressione della pesante seta dei catafalchi; urgenza di immergere questa costruzione in una atmosfera funebre e di ritmarla quindi, al di sopra dei ritmi di marcia trionfale che essa tenderebbe ad assumere, di altri ritmi
composti e luttuosi; opportunità di servirsi di questa stessa forma grandiosa per impartire agli ascoltatori insegnamenti morali e religiosi. Tutte queste condizioni inerenti al genere trattato, Bossuet le ha adempiute; in più ha messo in parecchie di esse una erudizione sincera, un evidente senso di smarri-
mento di un cristiano dinnanzi al fulmineo annientamento della potenza e della bellezza (Oraison d'Henriette d’Angleterre), lo sguardo acuto dello storico (Or4isor d’Henriette de France); in tutte senza eccezioni i ripetuti
ammonimenti al re («Vous n’étes que néant quand vous ne vous trouvez pas sous la guide du Seigneur») disegnano un'alta figura di prelato che, investito della potestà divina, può considerare puerili le prepotenze e le albagie mondane. Si può preferire al rimbombare dell’organo sotto le volte delle chiese la «humilis avena» che su tre note si sforza di esprimere una sensazione monocolore; ma non bisogna dire che la polifonia non val niente. Meno sovraccarichi delle inevitabili pieghe oratorie sono i Serzzons di Bossuet che sono, come devono essere, lezioni di morale dogmatica impartite nel più splen-
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Letteratura francese
dente linguaggio e continuamente ravvivate da immagini di prodigiosa bellezza. Ma è nei suoi scritti che Bossuet si rivela pienamente per quel grande spirito che fu. La sua Histozre des variations des églises protestantes, dove acutamente osserva
ed espone le continue variazioni e contraddizioni nelle quali cadono le differenti dottrine protestanti, contrapponendole alla continuità e saldezza dell’insegnamento cattolico, è il suo capolavoro e uno dei massimi libri della prosa francese. L’assoluta padronanza della difficile materia, l'alta imparzialità dei giudizi particolari unita all’assoluta intransigenza sulle questioni fondamentali, il senso di umanità sparso nei frequenti «portraits» dei grandi capi eretici, il potente soffio poetico che percorre tutti i volumi, la mirabile chiarezza dell’esposizione di talvolta astruse teorie, fanno di questo libro un degno successore del Discours de la méthode di Descartes ed un predecessore della sainte-beuviana Histozre de Port-Royal. L’impostazione concettuale è opposta; l’arte è perlomeno eguale. Queste Varzations, che furono libri preferiti di Voltaire, di Sainte-Beuve e di Renan, sono adesso di difficile
acquisto; ed il mondo religioso ed areligioso non bigotto aspetta con l’acquolina in bocca la promessa riedizione della Pléiade. Di pari valore in un genere diverso è il Discours sur l’histoire universelle. È superfluo dire che le basi storiche di questo trattato sono per noi inaccettabili; è ancora più superfluo affermare che di questo non c’importa nulla. Nessuno andrà a cercarvi particolari della vita di Sennacherib o lumi sulle riforme agrarie dei Gracchi; tutti però possono assistere al volo maestoso del pensiero di Bossuet al di sopra del deserto dei millenni, al remeggiare delle sue potenti ali sullo spettacolo delle vicissitudini umane. Un senso di sconsolata mestizia pervade
Il Seicento
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tutto il libro che è un’elegia sul rovinare delle civiltà. Ed è in questo suo Drscours che Bossuet mostra di essere nel cuore della letteratura francese; dalla sua montagna inaccessibile sgorgano i fiumi che più giù nella valle si chiameranno Chateaubriand, Flaubert, Proust.
FÉNELON (1651-1715)
È l’eguale di Bossuet, come grandezza. Il suo contrapposto in tutto il resto; e, d’altronde, suo nemico personale.
Volendo adoperare un epigramma sommario e disdicevole a questi grandi spiriti, si potrebbe dire che Bossuet è l’abbé Lantaigne, Fénelon l’abbé Guitrel.
Bossuet fu, è vero, figlio di un magistrato, ma suo nonno era un contadino. Ed in lui si ritrova una vigoria popolana, un buon senso ed una sorta di familiarità che odorano di costumi provinciali; Fénelon era un rampollo di una delle più nobili famiglie francesi, dotato di tutto, di talento di seduzione, di cortesia intellettuale, fi-
nanco di una specie di civetteria. Egli riuscì a far flettere il ringhioso giudicare di Saint-Simon: «Il fallait effort pour cesser de le regarder». Sarebbe però stato un errore il non scorgere che sotto tanta soavità di modi si nascondeva un animo tenace ed inflessibile. Questa molla interiore era di un acciaio tanto ben temperato che neppure il grande peso di Bossuet riuscì ad ammaccarla. Anche questa volta Saint-Simon ha visto giusto: «une fois ancré et hors des besoins des autres, il eùt été bien dangereux non seulement de lui résister, mais de n’ètre pas toujours pour lui dans la souplesse et dans l’admiration». Dopo i consueti brillanti studi, entrò negli ordini e si creò una tale reputazione di dottrina e di abilità che a solo trentotto anni ottenne l’incarico di far da precettore al giovane duca di Borgogna, nipote del re, figlio appunto del non riuscito allievo di Bossuet. Non si trattava di una sinecura. Il ragazzo era una specie di tigre. Ecco come lo descrive Saint-Simon del quale mi piace riportare dei passi per abituarvi, anche, al suo impareggiabile stile:
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Dur et colère jusqu’aux derniers emportements, et jusque contre les choses inanimées; impétueux avec fureur, incapable de souffrir la moindre résistance, méme des heures et des éléments, sans entrer en des fougues à faire craindre que tout ne se rompît dans son corps; opiniàtre à l’excès; passionné pour toutes especes de volupté... et pour le jeu encore, où il ne pouvait supporter d’étre vaincu. ... Souvent farouche, naturellement porté à la cruauté; barbare en railleries et à produire les ridicules avec une justesse qui assommait. De la hauteur des cieux il ne regardait les hommes que comme des atomes avec qui il n’avait aucune ressemblance.
Venuto alle prese con questo agnellino, Fénelon riuscì a trasformarlo. Là dove Bossuet aveva fatto fiasco col padre, Fénelon riuscì col figlio: Bossuet era come un orologiaio che volesse riparare gli orologi a colpi di martello; Fénelon adoperava oli sopraffini e limette delicatissime. E la posta in gioco non era trascurabile: si trattava di educare il futuro re di Francia con le illimitate conseguenze politiche che, in quell’epoca di assolutismo, comportava la formazione di un carattere individuale. L’opera riuscì fin troppo bene: dieci anni dopo quel ragazzo-uragano era diventato un giovanotto devoto e timido. Riprende la parola Saint-Simon: Le prodige est qu’en très peu de temps la dévotion et la gràce en firent un tout autre homme, et changèrent tant de défauts si redoutables en vertus parfaitement contraires.
Terminato il suo incarico di educatore (il cui successo gettò i primi semi della sua storica discordia con Bossuet), Fénelon s’impigliò malauguratamente nelle liti religiose del tempo. Port-Royal agonizzava; la santissima vittima era di già inchiodata alla croce e non mancava che l'estremo colpo di lancia al costato; e non avremo molto da aspettare che i gesuiti lo vibrino. Presto di Port-Royal non rimarrà nulla; neppure i muri, neppure il cimitero. Soltanto la memoria di Pascal, di Racine e di Arnauld.
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Letteratura francese
Intanto però un’altra (minore) malattia si era sviluppata nel sangue del cattolicesimo francese: quella del «quietismo». Era questa una dottrina teologica, anzi più che una dottrina teologica una dottrina morale e pratica, che era iniziata nella Germania luterana (dove fiorisce tuttora) ed era stata introdotta in Francia verso gli anni 1680. Ossequientissimi all’autorità della Chiesa i «quietisti» però affermavano che lo stato ideale dell'anima, quello che meglio preparava all’inoculazione della Grazia, era lo stato di «quiete», di pura contemplazione della Trinità e che pertanto le «opere», anche le opere sacramentali, potevano essere un disturbo, anzi un pericolo per le anime, «stancandole» ed impedendo la discesa dell’afflato divino che più facilmente penetra nelle anime in riposo. Basta un minimo d’intuito psicologico per rivelare quanto pericolose fossero queste dottrine che hanno un profumo vagamente buddistico: l’autorità della Chiesa ne veniva minata alla base, il clero diventava, più che su-
perfluo, nocivo; anche dal punto di vista etico i pericoli erano gravi perché favorivano un rilassamento generale e permetteva un, sia pur larvato, trionfo dei «tiepidi»,
categoria di fedeli che la Chiesa osteggiava quasi più degli eretici. Centro della diffusione del «quietismo» in Francia era stato il salotto di Mme Guyon, donna per altro di altissime virtù; questa signora era amicissima di Fénelon il quale prese la spada per la punta e si trasformò all’improvviso in difensore del quietismo. Con tanta maggiore autorità in quanto dopo la fine della sua carica a corte era stato ricompensato con l’altissimo seggio di arcivescovo di Cambrai. La Chiesa cattolica teme soprattutto quei movimenti ereticali ai quali partecipano dei vescovi, perché questi movimenti, se riescono a sopravvivere alle prime controffensive, diventano eterni, dato che i vescovi possono crea-
re nuovi sacerdoti e fondare così una chiesa (confronta il
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caso Déllinger in Baviera dopo il 1870, e quello della chiesa giansenista ancora sopravvivente in Olanda). Il giansenismo francese aveva esacerbato i gesuiti più che la Chiesa nel suo complesso; la relativa morigerazione ed i continui procrastinamenti delle autorità superiori ecclesiastiche si spiegano con il fatto che la Chiesa non lo temeva molto perché nessun vescovo vi aveva esplicitamente aderito. Il quietismo invece, benché ideologicamente minore, benché privo della cupa grandiosità del giansenismo, presentava l’estremo pericolo di avere un vescovo fra i suoi aderenti: Fénelon, che aveva addirittura pubblicato la sua
Explication des maximes des saints sur la vie intérieure, una palese pericolosa difesa del quietismo. Occorreva distruggere al più presto questo «nido di mitragliatrici». Occorreva far entrare in azione i carri armati. E fu fatto muovere un carro di 75 tonnellate, l’irre-
sistibile Aigle de Meaux, Bossuet. Il combattimento fu epico. L'armamento (cioè la dottrina) e la corazzatura (cioè il prestigio morale) dei due antagonisti erano eguali. Il carro armato Bossuet si giovava della sua impetuosità, del suo peso schiacciante; il presidio delle mitragliatrici Fénelon aveva per sé l’agilità, la facoltà di manovrare, l’uso di armi piccine ma insidiose. Furono scambiati migliaia di colpi, di opuscoli redatti nella più bella lingua immaginabile; e il risultato restò a lungo indeciso. Finché intervenne la grossa artiglieria papale: il «nido di mitragliatrici» fu inquadrato, battuto, fatto saltare in aria: Fénelon si arrese, si sottomise, si ritirò a
Cambrai. La morte del duca di Borgogna (1712) troncò le sue ultime speranze di rivincita. Nel 1715 morì anche lui.
Bossuet si era lasciato trascinare dalla propria foga al di là della giusta misura, Fénelon aveva sempre conser-
vato una calma cortese nella quale s’intravede in filigrana l’alterigia del gran signore. Fénelon era d’idee assai più aperte che non Bossuet:
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Letteratura francese
anche su di lui si posa un primo raggio del Settecento. Egli discende spesso nel concreto, guarda cercando di rimediarle le piccolezze della vita, mentre Bossuet vola come un’aquila al disopra dei monti e non scorge gli agnellini dispersi nella vallata. Gli agnellini invece erano la specialità di Fénelon: abbiamo visto come egli ne avesse saputo estrarre uno da un tigrotto. Le sue due opere più note sono appunto
trattati educativi. Il Traité de l’éducation des filles mostra la straordinaria penetrazione del suo spirito. Non è un trattato in vera e giusta forma, ma una sequenza di consigli eccellenti, valevoli anche oggi e che contengono in germe quanto di utile vi può essere nell’Émzi/e di Jean-Jacques, spoglio del suo utopismo romantico. «Il faut se contenter de suivre et d’aider la nature.» «Les naturels vifs et sensibles sont capables de terribles égarements: les passions et la présomption les entraînent; mais aussi ils ont de grandes ressources, et reviennent souvent de loin. Toutes les pensées des naturels indolents sont des distractions; ils ne sont jamais où ils doivent étre; ils écoutent tout, et ne sentent rien.»
Queste righe, scritte prima del suo incarico di precettore di corte, ci fanno intravedere come per lui il tre-
mendo compito di educare il duca di Borgogna fosse meno temibile di ciò che immaginiamo noi. Molto in anticipo sul suo secolo, Fénelon indica la necessità di riempire quel vuoto che una educazione formalistica lascia nella mente delle ragazze, «N’ayant pas de curiosité raisonnable, les jeunes filles en ont une
déréglée». «C'est du vide de l’esprit que se nourrissent les genres de la préciosité, du romanesque, des caprices et de l’adultère.»” " Questa citazione e quelle che seguono riproducono il senso del testo, ma non sono letterali.
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Da queste premesse deriva la necessità di una solida educazione intellettuale «qui peut mettre la femme en état d’aider son mari sans seulement l’exploiter» ed anche la necessità di conoscenze scientifiche e in particolar modo giuridiche per le ragazze, conoscenze «qui les feraient descendre du dangereux paradis d’insouciance dans lequel vivent la plupart et leur donneraient la possibilité de manier leurs difficultés intérieures et les troubles du monde». Lotta insomma contro la donna «tipo harem». Il Télémaque è invece piuttosto rivolto all'educazione dei ragazzi. È un’opera interamente artificiale, una di quelle opere interamente composte con la testa e che io trovo deliziose, quando la testa che le ha composte è buona. È una pura allegoria: i personaggi sono scipiti se li interpretiamo come Telemaco, Idomeneo o Mentore; di-
vengono pieni di vita e di sapore se pensiamo che essi sono il duca di Borgogna, Luigi XTV e Fénelon medesimo. Il progresso di quella educazione dalla quale poteva dipendere (ma non dipese) la sorte dell'Europa (che allora era il mondo) si seguono con il più vivo interesse; e la rappresentazione allegorica della vita a Versailles, resa con tanta delicatezza di tinte, èper me una delizia. La prosa è squisita: non ve ne è altra, in quel secolo, che sia tanto facile, scorrevole e pura, che richieda così poco sforzo al lettore. Ma la grande frase del Seicento ha perduto parte della sua interna vigoria per cedere al desiderio di comprensibilità, il gusto di volgarizzazione. Segno importante del passaggio verso il Settecento che fu il grande secolo diffusore d’idee, volgarizzatore appunto.
ALTRI SCRITTORI RELIGIOSI
Bossuet e Fénelon sono i massimi ma non di certo gli unici importanti scrittori religiosi dell’età aurea. Bourdaloue (+ 1704) è il grande predicatore gesuita. Predicava i Quaresimali a Versailles ed aveva un immenso successo, dovuto non soltanto al reale valore della sua
eloquenza, pacata, logica, ma ben lontana dai colpi di genio di Bossuet. La sua voga straordinaria fu dovuta al fatto che introdusse nelle sue prediche l’uso di presentare dei «portraits», anonimi ma riconoscibili, di persone e di fatti contemporanei. Nella famosa predica della Médisance egli parla, di fatto, delle Provinciales di Pascal; in
quello sull’Hypocrisie è il Tartuffe che viene attaccato, ed in quella sulla Prsère il misticismo quietista di Fénelon. È quindi superfluo indicare quale interesse queste prediche presentino. Mirabile letteratura francese che è tanto densa da presentarci i suoi protagonisti riflessi sempre in due o tre specchi e che dà per questo una continua sensazione di vita. Fléchier ($ 1710) è nettamente inferiore. I suoi sermoni sono troppo spesso sfigurati da un inconsulto preziosismo, pieni come sono di particolari frivoli con i quali egli credeva probabilmente di imitare la patriarcale bonomia di Bossuet, senza riuscire ad altro che a delle meschinità. i
Assai migliore è l’ultimo di questi grandi predicatori, Massillon ($ 1742). Egli appartiene però al Settecento
Il Seicento
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non tanto per ragioni cronologiche quanto per lo spirito che anima i suoi sermoni: essi sono delle esortazioni
quasi laiche a condursi pulitamente, e la dipendenza della morale dal dogma, cura suprema di Bossuet, è da lui quasi del tutto trascurata. A lui toccò il pericoloso onore di pronunziare l’orazione funebre di Luigi XIV, di «Louis le Grand». Riuscì nell’intento con somma dignità e riserva. Ed ancor oggi
è nota a tutti la saetta che inizia la sua predica: Dieu seul est grand, mes frères.
Massillon fu l’ultimo dei grandi oratori sacri. Vedremo una effimera reviviscenza di questo genere letterario alla metà dell'Ottocento. Per un secolo esso tacerà del tutto. Ma prima di udire dal pulpito le voci di Lamennais e di Dupanloup, avremo udito dalla tribuna rivoluzionaria i discorsi appassionati di Mirabeau, quelli incendiari di Danton, quelli gelidi e letali di Saint-Just e Robespierre. E la scena sarà del tutto cambiata.
LA BRUYÈRE (1645-1696)
I regni troppo lunghi hanno degli inconvenienti. Poiché essi abbracciano due, talvolta tre generazioni di scrittori, verso la loro fine rassomigliano poco alla fase centrale e caratteristica. A proposito del regno di Vittoria in Inghilterra abbiamo assistito a un fenomeno simile: Gissing o Hardy o Wilde sono pienamente vittoriani, cronologicamente parlando; ma non hanno più nulla in comune con Thackeray o con Trollope, tranne l’accuratezza formale. Il regno di Luigi XIV è stato il più lungo di tutti: settanta anni. E benché la disciplina intellettuale fosse assai più severa che quella imperante sotto Vittoria, gli scrittori della fine del suo regno rassomigliano di meno in meno a quelli del suo periodo centrale. Su questo fenomeno della transizione dal Seicento al Settecento dovrò ancora parlare a suo tempo. Per il momento basti dire che La Bruyère è uno di questi ibridi; in lui però, pur essendo visibili le mutazioni, il nucleo vitale è sempre seicentista ed è indispensabile riannodarlo al secolo di Luigi XIV. Ciò riuscirà impossibile per altri, come Fontenelle e Bayle, che sarà giocoforza aggregare al Settecento che essi hanno partorito e condizionato. La Bruyère fu il tipo perfetto del «letterato» e inoltre un gran galantuomo: due doti che non sempre si trovano unite. Ebbe una vita calma e umbratile che fu passata quasi interamente sotto la protezione dei Condé nella cui casa disimpegnò volta a volta le funzioni di precettore dei ragazzi, di amministratore, rimanendo sempre l’amico di
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tutti imembri di quella affascinante casata di principi. Fu ammesso all’Académie e dopo la morte di Boileau fece per un po’ di tempo figura di dittatore letterario. La sua opera è scarsa, e interamente in prosa. Non si
ha di lui nemmeno un verso. (Primo segno del Settecento avanzante.) Questa opera si limita ad una traduzione o piuttosto ad una rielaborazione ed adattamento dei Caractères di Teofrasto, dal greco, ad un seguito autonomo di questi stessi Caractères, ad alcuni discorsi accademici e a dei
Dialogues sur le quiétisme che egli lasciò incompiuti. Abbiamo, credo, di già udito il nome di La Bruyère quando si è parlato dei detrattori francesi di Molière. Egli rivolgeva al commediografo l’infondata accusa di mancanza di «stile». Perché lo stile, la compostezza ac-
cademica, è l’idolo di La Bruyère; egli possedeva questa qualità a un grado superiore; e davvero la sua prosa rassomiglia a quei fiori delle cactacee che fioriscono lisci e monumentali al momento in cui la pianta muore. Ma, veramente, (stile, va da sé, a parte) egli rassomi-
glia a Molière in modo impressionante. Vi è in lui lo stesso gusto per la creazione di «tipi», lo stesso acume d’indagine morale, la medesima facoltà di giudizio. Ma poiché non era uomo di teatro e quindi parlava sempre in persona propria, poteva permettersi il lusso di conservare il proprio stile. Ma in questo stile dalle proporzioni attiche egli esprimeva (spesso, non sempre) delle idee che stonano fortemente sul fondo asociale, puramente personale del suo secolo. Si trova nelle pagine di La Bruyère un’attenzione rivolta agli umili, un ardore inatteso nel proclamare il loro diritto all’esistenza; un costante appello ad una maggiore giustizia nei tribunali, a un maggior rispetto verso gli intellettuali, un frequente rifiuto ad accettare ad occhi chiusi i privilegi del sangue, un costante odio per la
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Letteratura francese
guerra. Vi è in lui una frase che annuncia la democrazia moderna e magari la dittatura del proletariato. Egli discute sui guai che affliggono le varie condizioni sociali ed ammette che possano esistere dei compensi, che la spensieratezza, per esempio, del contadino possa compensare la sua miseria se posta in contrasto con le preoc-
cupazioni perenni «du financier». Ma termina il periodo con questa frase inaspettata: «Celui qui est puissant et
riche, et à qui il ne manque rien, peut formuler cette question, mais il faut que ce soit un homme pauvre qui la décide». In un’altra pagina si compiace ad intrattenere i ricchi «du temps où l’on montrera les ruines de leurs chàteaux et peut-étre seulement le lieu où ils étaient construits». Nella prima edizione dei suoi Caractères aveva scritto: «Un bon citoyen [la parola avrà un’inattesa fortuna] sait exposer sa vie pour la gloire du souverain et le salut de l’État». Nella seconda edizione «la gloire du souverain» scompare; correzione che ha dovuto costargli molto perché il periodo rimane squilibrato. Ma, lo ripeto, questi accenni sono sporadici, benché frequenti; e, pur ammettendo che La Bruyère avesse una sensibilità diversa da quella dei suoi contemporanei, sarebbe ridicolo voler farne un precursore della Rivoluzione che scoppierà quasi cento anni dopo la sua morte.
È in materia di arte che egli è un vero precursore del Settecento. Stile a parte, sia detto una volta ancora, le
costrizioni ideologiche di Boileau lo infastidiscono. I Caractères di La Bruyère sono il primo dei grandi libri francesi che non sia composto attorno ad un tema centrale. Sento di già che vi preparate ad obiettarmi citando gli Essais di Montaigne, le Maxirzes di La Rochefoucauld; e soprattutto le Persées di Pascal. Mi permetto di dirvi che avete torto. Non parliamo neppure di Pascal i cui frammenti disordinati non sono altro che le pietre sparse nel recinto di un cantiere edile
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dove sarebbe sorto un monumento che lo spirito geometrico dell’autore avrebbe certo creato armonioso ed organizzato. Ma quando vi sarete familiarizzati con la lettura di Montaigne vi accorgerete che la di lui svagatezza è soltanto apparente e gira sempre attorno a tre o quattro temi ben definiti e cercati. E in La Rochefoucauld l’altera noncuranza delle frasi staccate e delle osservazioni buttate sulla carta alla rinfusa non riesce a nascondere la mano che dirige in vista di uno scopo, di una tesi da dimostrare. L’opera di La Bruyère è un quaderno di appunti, senza alcuna idea centrale. Egli sostenne sempre che la sua opera era organizzata, che tendeva allo scopo di glorificare la religione cristiana. Davvero è impossibile accorgersene. E di edizione in edizione La Bruyère limava, poliva, raffinava il suo stile ma non aveva la minima cura di rendere più evidente il suo scopo. Del resto non si comprende che cosa i capitoletti su Ménalque e Giton possano avere da fare con l’apologetica cattolica. In verità La Bruyère è uno di quei deliziosi scrittori di «crisi» che apre un’era nuova (in arte) pur credendo ancora, attraverso la sua formazione, attraverso le sue radi-
ci, a quella di cui inizia la demolizione. Dopo aver parlato delle «idee» di La Bruyère è tempo di parlare del suo stile. È, in prosa, lo stile di un poeta. Le immagini fioriscono continuamente e con le loro ghirlande rendono preziosi i pensieri spesso banali. Ecco come La Bruyère ci dice che per vivere e prosperare a corte occorra abilità e fortuna. La vie de la cour est un jeux sérieux, mélancolique, qui applique; il faut arranger ses pièces et ses batteries, avoir un des-
sein, le suivre, parer celui de son adversaire, hazarder quel-
quefois, et jouer de caprices; et après toutes ces réveries et
toutes ces mesures, on est échec, quelque fois mat; souvent,
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Letteratura francese
avec des pions qu'on ménage bien, on va à dame, et l’on gagne la partie; le plus habile l’emporte, ou le plus heureux.
Si avverte subito la felice dissonanza che si forma fra la sintassi agile ma imponente e le parole che sono quotidiane e familiari, «arranger les pièces», «on est échec, quelquefois mat», «l’on gagne la partie». La Bruyère vuol racchiudere gli oggetti più comuni, talvolta più volgari, nella ornatissima camera del suo periodare; alle pitture generali ed astratte delle quali si era abusato nel Seicento sostituisce i particolari materiali: Gnathon ne se sert à table que de ses mains: il manie les viandes, les remanie, démembre, déchire, et en use de manière
que les conviés, s’ils veulent manger, mangent ses restes. Il ne leur épargne aucune de ces malpropretés dégodtantes capables d’òter l’appétit aux plus affamés: le jus et les sauces lui dégouttent du menton et de la barbe; s’il enlève un ragoùt de dessus
un plat, il le répand en chemin dans un autre plat et sur la nappe, on le suit à la trace; il mange haut et avec grand bruit; il roule ses yeux en mangeant, la table est pur lui un ratelier, il écure ses dents; et il continue à manger.
Siamo alle soglie di Zola. La Bruyère ha creato lo stile «artiste», lavorato, lo stile a immagine premeditata e voluta. È l’antesignano di Flaubert, di Mérimée, dei Goncourt. Lo ha creato con tutti i suoi pregi e con tutti i suoi pericoli, massimo fra i
quali quello della estrema tensione. Il suo discorrere è uno sciamare di frecce, che più rapide e più violente divengono verso la fine del capitoletto. Uomo generalmente buono e compassionevole («Il y a une espèce de honte d’èétre heureux à la vue de certaines misères [come siamo lontani dalle espressioni di La Rochefoucauld, nel proprio ritratto, sullo stesso argomento], ces détresses qui glacent le coeur»), l’idea di riuscire ad affilare bene un epigramma gli fa perdere ogni compassione. Oltre allo stile «artiste» egli ha dunque creato anche
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lo stile «crudele» che duecentocinquant’anni dopo fiorirà con France ed Hermant. A fianco dei suoi colpi di artiglio, possiede anche gli sguardi languidi. «L’harmonie la plus douce est le son de voix de celle que l’on aime.» «Il y a des lieux que l’on admire; il y en a d’autres qui touchent, et où l’on aime-
rait à vivre.» Si vede che i francesi del 1680 covavano di già le uova dalle quali dovevano uscire Rousseau, Cha-
teaubriand e Barrès. Lo stile di La Bruyère è una luce bianca che si eleva alla chiusura dell’età dell’oro; essa reca in sé tutti i colo-
ri degli stili successivi; il prisma dell'Ottocento non farà che dissociarli e mostrarceli distinti.
SAINT-SIMON (1675-1755)
Tutti lo pongono tra gli scrittori del Settecento. E se si sta alle date, tanto della sua vita che della composizione dell’opera, bisogna dar loro ragione. Ma se si vuol prestare attenzione al suo stile ed alla sua mentalità non si può proprio aggregarlo al diciottesimo secolo che, fra l’altro, è una delle epoche letterarie meglio e più chiaramente differenziate dalle altre. D'altra parte non appartiene neppure al Seicento: nella sua opera non vi è ordine, non vi è compostezza;
non vi è lo «stile» di Luigi XIV; vi è soltanto, prepotentissimo, lo stile di Saint-Simon.
Se mai vi è stato scrittore di genio che si trovi a disagio in tutte le classificazioni letterarie, Saint-Simon lo è. Egli è un ritardatario; in lui come uomo e in lui come artista, ribollisce una furia feudale, un anarchismo ari-
stocratico che del suo tempo cortigiano non è più; nella sua opera vi è un disprezzo per i canoni fissi, una perpetuità di estro inventivo, una libertà creativa che lo rende
più vicino a Monluc e magari a Rabelais che non a Boileau ed a Racine che pur personalmente conobbe. Si obietterà che egli è un grande psicologo, proprio come lo furono Racine e tutti gli scrittori dell'età aurea. L’obiezione non è valida: Saint-Simon non è psicologo in quanto seicentista ma semplicemente in quanto francese,
cioè come una delle espressioni di questo popolo il cui vero sport nazionale è la caccia alle sensazioni umane. Riprova della non-appartenenza spirituale del nostro duca al suo secolo è costituita dal fatto che la sua fama quale artista comincia a fiorire nella età romantica, pro-
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prio quella età che aveva così stupidamente svalutato Racine e che fu invece la prima ad accorgersi di quale potenza fosse l’arte saint-simoniana. La prima parziale edizione dei Mémoires è del 1829. Nel 1856-58 Chéruel ne diede la prima edizione completa, seguita poco dopo da quella di Boislisle che rimane ancora insuperata e dalla quale, di fatto, l’edizione attuale della Pléiade è tratta.
L’opera di Saint-Simon è un mondo e come il mondo ammette innumerevoli interpretazioni. Vi è da studiare il suo valore come storico come vi sono da osservare le sue idee politiche: non oso avventurarmi su questo terreno e per questo vi rimando all’eccellente libro del nostro amico Corrado Fatta L’esprit de Saint-Simon. Qui dovremo soltanto occuparci di Saint-Simon artista e questo ci darà abbastanza da fare. Naturalmente occorrerà anche dire qualche cosa della sua vita e della sua «forma mentis» senza una conoscenza delle quali anche il suo valore estetico sarebbe diminuito. Saint-Simon: la vita
La vita di Saint-Simon è presto narrata. Nacque nel 1675 da un padre molto vecchio e che era stato creato duca da Luigi XIII. Ricevette la consueta educazione; divenne ufficiale in un reggimento di cavalleria e partecipò con onore ad alcune guerre. Nel 1702 si dimise (perché non era stato promosso generale) e andò a stabilirsi a Versailles, presso la corte, nella quale il suo rango di «duc e pair» gli assicurava un posto eminente. Nel frattempo aveva sposato una delle tre figlie del duca di Beauvillier e la narrazione del suo matrimonio e delle trattative che lo avevano preceduto è uno dei capitoli i più significativi delle sue memorie. A corte Saint-Simon figurava all’opposizione: più acutamente della maggior parte dei suoi contemporanei
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egli si rendeva conto della fondamentale opposizione della monarchia all’alta nobiltà e vedeva chiaro nel gioco di Luigi XIV che, attirando i nobili a corte, li staccava dai propri feudi, li rovinava economicamente mentre affidava le alte cariche dello stato a dei «borghesi». Per quanto ciò possa sembrare, a prima vista, paradossale, egli biasimava Luigi XIV come «re borghese»; la sua attitudine è simile a quella dei «carlisti» nei riguardi di Luigi Filippo, dopo il 1830. La sua vita a corte trascorse tutta immersa in innume-
revoli intrighi e liti per questioni protocollari: le precedenze, il «tabouret» accordato o meno a tale duchessa, il titolo di «prince étranger», il diritto o meno di avere «les petites entrées» sembrano a noi adesso assolutamente privi di senso; ma non lo erano allora in quanto erano il simbolo di maggiore o minore vicinanza al re, unica fonte del potere. Nemico accanito dei bastardi di Luigi XIV cui il re aveva financo accordato il diritto di successione al trono in caso di estinzione dei legittimi eredi, Saint-Simon si
unì alle fazioni del duca di Borgogna prima e del duca d'Orléans dopo, fazioni che riuscirono, dopo la morte del re, ad annullare il suo testamento, a far proclamare
la reggenza ed a mutare, in modo effimero, la struttura governativa affidando il governo a una serie di «soviet» dell’alta nobiltà nei quali Saint-Simon ebbe gran parte. Ma prima ancora che questo sistema crollasse, Saint-Si-
mon ne era stato estromesso a causa del suo pessimo carattere, della sua intransigenza e, anche, della sua one-
stà. Ebbe ancora la soddisfazione di essere inviato ambasciatore straordinario in Spagna, breve missione puramente onorifica che gli diede modo di abbandonarsi alla sua frenesia per le delicate questioni di precedenza e di profondere a noi fiumi di divertentissima (e maligna) erudizione araldica; alla morte del Régent (1723) si ritirò nelle sue terre e si diede ad elaborare le sue memo-
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rie per le quali, del resto, aveva continuamente preso appunti. Saint-Simon fu uomo di grande rettitudine morale, ma col fegato guasto; di statura minuscola, non ricco, di
nobiltà, in fondo, recente (per ora la sua spoglia si rivolta nella tomba) egli trasse da questi motivi le ragioni del suo perpetuo malumore. Lui stesso non lo sapeva, ma era un uomo di genio. I Mémotres
‘I Mémoires di Saint-Simon sono un’opera immensa: quarantuno volumi dell’edizione Boislisle. Esse sono uno dei più indiscutibili capolavori della letteratura francese. Suscitano l’impressione di un mare. E come il mare intimidiscono chi voglia tuffarcisi. Mai vi è stata più vigorosa costruzione di un’intera epoca. Questa Versailles rivive tutta davanti a noi, formicolante di persone che il
talento di Saint-Simon rende tutte individuali e caratterizzate, percorsa da correnti di intrighi e d'interessi. Il potere evocativo di Saint-Simon è assolutamente fuori dal consueto: dopo aver letto le prime centinaia di pagine siamo come allucinati perché davvero ci sembra di vedere queste miriadi di signori e di signore, di sentire la loro voce, di fiutare i loro odori. Siamo nella situazione paradossale di conoscere la corte di Luigi XIV meglio di come la conoscessero i cortigiani stessi perché abbiamo al nostro fianco una sagacissima guida che tutto conosce delle figure che ci si presentano, ascedenti, discendenti, cariche ricoperte, virtù nascoste, vizi segreti.
La penetrazione psicologica del duca si manifesta soDrattutto nei «ritratti»; appena gli capita un nome sotto
‘a penna, si affretta a presentarcelo intero, così come era >» come lui voleva che fosse, vestito e nudo, con l’indica-
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Letteratura francese
zione delle sue ambizioni represse, dei suoi sogni naufragati, delle sue virtù neglette e dei suoi vizi fortunati. Nel Seicento francese abbiamo incontrati parecchi «ritrattisti» di prim'ordine: La Rochefoucauld, Retz, La Bruyère. Questi però ci presentano sempre dei ritratti ben composti, costruiti; Saint-Simon procede in altro modo: con la sua tavolozza in mano, accumula pennellate su pennellate, scorge particolari quasi invisibili, non vuol trascurare nulla e quindi ritorna instancabilmente a dipingere e non neglige niente, né del fisico né del morale. Il risultato è che ci mostra delle persone assai più plausibili, perché contraddittorie, dei tipi di Molière e che nello stesso tempo raggiungono il pittoresco dei tipi di Dickens. Inoltre egli ha acutissimo il senso del tempo e quando, dopo dieci anni, si accorge che il personaggio è mutato, non esita a farne un nuovo ritratto nel quale scorgiamo i mutamenti che gli anni hanno arrecato, le variazioni che le vicissitudini della fortuna hanno impresso al carattere. Il maresciallo d’Huxelles, per esempio, ci è mostrato
quattro volte e scorgiamo il cambiamento radicale intervenuto e che ha mutato un valoroso e rude soldato in un invertito tremebondo e timido. Fénelon, Monsieur, Monseigneur, suo suocero Beauvillier, il re soprattutto sono
assoggettati a questo esame periodico ed abbiamo tutte le tirature possibili delle stampe che li rappresentano, ogni tiratura essendo colma. di particolari significativi, diversa dalle precedenti, e pur sempre mantenente un’aria comune che le indica come ritratti delle stesse persone, identiche a se stesse e soltanto trasfigurate dal tempo. È superfluo pensare a chi faccia pensare questo metodo evocativo.’ Ecco, per cercare d’invogliarvi, uno di questi «ritratti», quello dell’indegno abbé Dubois, il pernicioso precettore del Régent, destinato in seguito a diventare cardinale:
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L’abbé Dubois était un petit homme maigre, effilé, chafouin,
à perruque blonde, à mine de fouine, à physionomie d’esprit, qui était en plein ce qu'un mauvais frangais appelle un sacre.
Tous les vices combattaient en lui à qui en demeurerait le maître. Ils y faisaient un bruit et un combat continuels entre eux. L’avarice, la débauche, l’ambition étaient ses dieux: la perfidie, la flatterie, les servages, ses moyens; l’impiété parfaite son repos.
E continua per altre venti righe, accumulando tinta su tinta, disprezzo su disprezzo, riconoscendo ogni tanto qualche qualità, fino al momento in cui, saziatosi, lascia l’immagine dell’abbé, incorniciata, pendere al muro per i secoli. | Talvolta, spesso anzi, per i personaggi minori, egli si accontenta di due o tre segni di matita, e delinea profili indimenticabili: «Mme de Castries était un quart de femme, une espèce de biscuit manqué...». «Dangeau, singe du roi, chamarré de ridicules avec une fadeur naturelle entée sur la bassesse du courtisan, et récrépie de seigneur postiche.» Non è vero che tutti i «ritratti» di Saint-Simon sono malevoli; ve ne sono centinaia di riguardosi, nei quali fa notare le virtù dei suoi modelli, memorabile fra questi
quello di Rancé, suo amico, che fu il fondatore dei trappisti. È innegabile però che il suo vero estro si desta nella malignità e che la sua scrittura è veramente vivace e significativa quando la sua penna s’intinge nel fiele. Saint-Simon non è però soltanto un pittore d’individui: a differenza degli scrittori del suo secolo egli è un orande evocatore di «masse». Vi sono di lui molte scene addirittura corali, come quelle oltre ogni dire famose nelle quali ci descrive lo stato d’animo della corte alla subitanea morte di Monseigneur (il non riuscito allievo di Bossuet), mostrandoci potentemente lo stato d’indiferenza di tutti misto all’apprensione dei mutamenti che sotevano avvenire. Sono diecine di pagine, fra le più rrandi della prosa francese, un affresco colossale che
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Letteratura francese
comprende tutti, dal re, il padre, sino all'ultimo cameriere, dipinto con colori di stupefacente evidenza.
Né inferiore è l’evocazione della seduta del Parlamento nel quale vengono tolti i privilegi dei bastardi del re, scena nella quale i contrastanti interessi, le passioni racchiuse sono risuscitate con una vigoria infernale e nella quale ci mostra se stesso, «bavant de joie».
Questo per quanto riguarda le persone; poi vi sono le relazioni di avvenimenti: pochi hanno saputo rendere meglio di lui tanto lo scoppio improvviso di un fatto, quanto le lente macchinazioni che si svolgono nell’ombra. Vi sono dei capitoli sulle sue innumerevoli «cause» araldiche che sono indimenticabili in quanto ci restituiscono la lentezza della procedura, le ansie, la gioia selvaggia della vittoria e lo scoramento dei soccombenti; vi sono quelle lente, ripetute descrizioni del salotto di Madame de Maintenon che rendono in modo strabiliante la noia, il fluire lento degli anni che continuano a svolgersi sotto lo sguardo prudente e riservato della vecchia signora; esse hanno lo svolgimento torpido e indimenticabile della Education di Flaubert. E non bisogna credere che queste felicità stilistiche siano occasionali: si possono aprire a casaccio le quasi settemila pagine dei Mérz0:res e in ognuna ci si imbatterà in
gemme di caratterizzazione, di descrizioni di ambienti o di stati d’animo, in sorprendenti trovate d’espressioni. Questa continuità d’ispirazione è dovuta al fatto che al di là delle notazioni sugli altri, al di là della narrazione potentemente stilizzata della corte di Versailles, Saint-
Simon ci dipinge il proprio ritratto. D’Argenson, un altro signore del tempo che scrisse anche lui i suoi Mérz0zres (ahimè! con ben minore talento!) scrive di Saint-Simon: «Un petit homme sans génie et plein d’amour-propre». Il «sans génie» ci sembra, adesso, ridicolo ma d’Argenson non poteva conoscere i colos-
sali manoscritti cifrati che si trovavano nell’archivio del
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duca; «sans génie» letterariamente parlando è assurdo: riguardo alla vita pratica è esatto: Saint-Simon non riuscì mai ad avere una parte politica importante come desiderava con tutta la violenza delle sue passioni, il che non è poco dire. «Plein d’amour-propre» è espressione di una verità palmare, che rimane anche al di sotto della realtà. Saint-Simon era un gran galantuomo: quanto mai pio,
aveva però una singolare tolleranza religiosa: era un frequentatore della Trappe nella quale andava regolarmente a fare gli «esercizi spirituali» ma parla sempre con rispetto dei giansenisti e dei protestanti e protesta energicamente contro la funesta revocazione dell’editto di Nantes. I suoi intrighi, che furono molti, non furono mai perversi: «il y a
des limites devant lesquelles un honnéte homme doit savoir s’arréter». I suoi odi sono piuttosto cerebrali; alla fin dei conti non fece dei torti a nessuno (nemmeno al duca di Noailles, «his pet hate», del quale dice: «le plus beau et le plus délicieux jour de ma vie serait celui où il me serait donné par la justice divine de l’écraser en marmelade et de lui marcher à deux pieds sur le ventre»). Ma questa tolleranza religiosa e questa rettitudine morale sono le sue due uniche qualità positive. Era di intelligenza mediocre, aveva l'intelletto ristret-
to, deformato dal proprio orgoglio di casta. Questo orgoglio è unito a una grande violenza di sentimenti e di carattere. Lui è duca e pari: null’altro lo interessa, null’altro neppure sfiora la sua sensibilità. Come i veri aristocratici, però, egli odia veramente i falsi nobili. Per Ducasse, pet esempio, che egli stesso dice figlio di un pescivendolo e che raggiunse il grado di ammiraglio ed un’alta posizione a corte, egli non ha che lodi e complimenti; così per Catinat, semplice soldato, che divenne
maresciallo
dopo
trent'anni di guerra; così per molti altri. Ma al solo nome del maresciallo di Villars Saint-Simon sente ribollire il suo sangue. Villars era maresciallo di Francia, divenne duca, era uno degli uomini più in gamba del regno, aveva
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Letteratura francese
salvato la Francia a Denain quando il paese era sull’orlo della rovina totale. Saint-Simon lo sa, e lo dice: ma Villars
era «de petite noblesse», aveva osato rivestire l’ermellino ducale, e quindi non vi saranno mai abbastanza dileggi, insulti e violenze contro di lui. Lo spirito di corpo lo rende intollerabilmente ingiusto. Saint-Simon è inoltre assolutamente sprovvisto di senso critico. Perciò i suoi Mémoires sono, checché se ne dica, privi di valore storico.
Egli crede (o finge di credere) a tutti i pettegolezzi, a tutti i «racontars» che circolavano; non vi è malignità che egli
non raccolga e ponga in serbo per adoperarla, quando sarà il momento, a maggior gloria dei ducs et pairs. I suoi odi sono del tutto intellettuali, è vero, ma sono
di una tenacia diabolica: dopo venti anni da una offesa (e che offesa: aver avuto la pretesa di passare davanti a lui da una porta) egli se ne rammarica come al primo giorno. Convivere con questo individuo, dallo sguardo acuto e dalla bile in perpetua cottura, doveva essere penosissimo. Come Dante egli aveva inoltre un suo inferno privato nel quale inabissava i nemici. Spiccatissima in lui è l'assoluta noncuranza per l’arte. Quella splendida Versailles che ancora oggi affascina per l’eleganza squisita ed il fasto non ostentato era per lui «un ramassis d’ordures»; il suo trattamento condiscendente e sciocco verso la figura di Racine è noto a tutti. Ma vi è un esempio maggiore e quasi incredibile. Nel 1745 egli parla «d’un certain Arouet, fils d’un notaire qui l’avait été de mon père et de moi; et je n’en parlerais pas s'il n’était devenu une sorte de personnage dans les lettres et mème une manière d’important dans un
certain monde très bas».* " Citazione sunteggiata e resa di maggior effetto per la pretesa ignoranza di Saint-Simon a stabilire l'identità fra Arouet e Voltaire. L'originale è: «Arouet, fils d'un notaire qui l’était de mon père et de moi, jusqu’à sa mort, fut exilé et envoyé a Tulle; pour des vers fort satiriques et fort impudents. Je ne m’amuserais pas è marquer
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Ora il «certain Arouet» era semplicemente Voltaire, e non un Voltaire principiante e sconosciuto ma, come lo era nel 1745, il più eccellente scrittore d'Europa. Del resto questo suo perpetuo disprezzo attivo mostrava la sua coda di paglia. La Rochefoucauld che era un signore vero considerava tutto con un distacco divertito e con una indifferenza totale; Saint-Simon, di nobiltà recente, aveva la boria del «parvenu». Detto che sia tutto questo occorre ripetere che, artisticamente, Saint-Simon è un genio. Egli è ingiusto e talvolta calunnioso, ma la sua onestà ritorna integra quando si tratta di esprimere: lì non ha mezze misure,
disdegni: la sua sensibilità è vergine, servita da una facoltà d’espressione favolosa. Come tutti i veri artisti egli fa della sua lingua ciò che gli pare: la doma, la contorce, la offende pur di riuscire ad esprimere. E con questa lingua maltrattata egli ha creato un monumento imperituro, un’opera che rassomiglia a quella di Balzac per il formicolio di vita che rende, a quella di Racine per l’acutezza implacabile della psicologia. Da leggersi dalla prima all’ultima parola.
une si petite bagatelle, si ce méme Arouet, devenu grand poòte et
académicien sous le nom de Voltaire, n’était devenu, à travers for-
ce aventures tragiques, une manière de personnage dans la république des lettres, et méme une manière d’important parmi un certain monde».
I SETTECENTISTI DEL SEICENTO
È necessario adesso ritornare un po’ indietro e cercare d’individuare, di sotto alle ben curate aiuole di Versailles, le ramificazioni delle radici oscure che produrranno
ai primi del Settecento l'improvvisa fioritura razionalista e antireligiosa. Ripeto che, dal punto di vista letterario, questi autori non conformisti sono poco importanti; inoltre essi sono quasi occulti: due di essi, francesi, vivevano all’estero, un terzo portava una maschera sul viso; il quarto, Boulainvilliers, era quasi ignoto ai suoi contemporanei, in ogni caso frainteso, e soltanto recentemente posto in luce da Paul Hazard i cui magnifici studi su questa oscura letteratura non mi stancherò mai di raccomandare. Gassendi (+ 1655) fu un discepolo di Descartes; fu lui
il primo a tirare le dottrine del suo maestro fino alle ultime conseguenze, cioè fino all’ateismo, attirando così su di sé l’ira di Descartes stesso che pubblicamente lo rinnegò. Visse in semioscurità a Parigi riunendo attorno a
sé un ristretto cerchio di simpatizzanti, chiamati talvolta «les libertins», tal altra «les épicuriens». Quando egli morì questo cenacolo si riformò attorno alla vecchia ma ancora bellissima Ninon de Lenclos e risultò composto di due sorte di persone: dei veri e propri gaudenti come Vendòme che giustificavano a posteriori il proprio libertinaggio con sfoggio di massime ateistiche; e dei veri pensatori come Saint-Évremond. Si hanno indicazioni che attorno ed in margine a que-
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ste riunioni si aggirasse Molière; da esse certamente uscì Fontenelle (l’uomo della maschera). Saint-Evremond (#1703) era un settecentista per metà. Antireligioso quanto (e anzi più di) Voltaire, era però rispettosissimo della monarchia. Ciò non impedì che dovesse fuggire in Inghilterra dove rimase quaranta anni e dove morì. Di lui non abbiamo altro che delle lettere, che in fon-
do sono dei trattatelli, scritti in modo squisito, nei quali la religione è attaccata sotto tutti i suoi aspetti e sotto tutte le sue forme. Spirito sarcastico e denigratore, egli è il vero padre spirituale di Voltaire e la sua influenza è ben maggiore di ciò che la scarsità della sua opera può far presumere. Personaggio misterioso e inquietante,
egli è uno dei grossi problemi che si presentano a chi voglia penetrare nello spirito francese un po’ più profondamente di quanto si faccia di solito. Agente del governo inglese? Fondatore della massoneria? Semplice spirito ribello senza secondi fini? Vi sono argomenti per tutte e tre le tesi. Ad ogni modo magnifico scrittore e, lo ripeto, una delle chiavi del pensiero francese. Gide, per dirne uno, lo cita spesso con timore reverenziale. Le sue opere anche in una Francia come quella attuale che non si picca certo di clericalismo sono difficili da trovarsi.
Sommamente da tener d’occhio.
Fontenelle (Bernard de) visse un secolo giusto. Nato nel 1657 quando la Fronda era appena finita, morì nel 1757, pochi decenni prima della Rivoluzione. In questi cento anni di vita scrisse poco, parlò molto, frequentò salotti innumerevoli, passò per uomo spiritoso presso tre generazioni e morì onorato senza che, dopo tutto, si attribuisse molta importanza alla sua attività.
1712
Letteratura francese
Eppure fu importantissimo. La sua influenza fu segreta, insidiosa; essa consistette interamente nel fatto che in
pieno Seicento (il suo periodo di maggiore attività letteraria fu negli anni 1683-1688) egli fu uno spirito imbevuto delle aspirazioni critiche e delle curiosità scientifiche che dovevano caratterizzare il Settecento. Scrittore secondario, senza dubbio, ma scrittore-sintomo, egli ci ap-
pare come la piccola imbarcazione del pilota che prepara e facilita l'ingresso nel porto della grossa flotta, delle navi da battaglia «Voltaire», «Montesquieu», «Diderot».
Fontenelle fu uno scrittore intelligentissimo, privo però della benché minima dose di poesia. Questa frase basta a classificarlo come settecentista puro. La sua attività letteraria si articola in tre fasi: la prima è quella di uno scrittore di libretti per la musica di Lulli, compilazioni di versi aggraziati e gelidi ben lontane dalla magnificenza barocca delle opere consimili di Quinault. Ricordandosi di essere il nipote di Corneille scrisse delle tragedie che non conosco ma per le quali mi basta ricordare la malignità di Racine che sostiene che «ce fut à l’occasion de la tragèdie Aspar de Monsieur de Fontenelle que l’usage du sifflet fut introduit dans les salles de spectacle frangaises». Durante gli anni 1683-88 egli pubblica la parte più notevole della sua opera, dialoghi e trattatelli di volgarizzazione scientifica che sono di importanza primaria
per la diffusione della Weltanschauung illuministica. E ci occuperemo soltanto di questa sezione della sua atti-
vità letteraria. Dal 1688 in poi (cioè per ben settant'anni) regna nei salotti e allAcadémie, redige elogi accademici di notevole bellezza stilistica e tutti pervasi della sua predilezione per le scienze sperimentali, pronunzia miriadi di motti di spirito e muore, come disse, «satisfait du beau et long voyage qu'il m’a été permis d’accomplir dans la réalité». Ma non vorrei abbordare l’esame delle sue opere
Al Seicento
1713
maggiori senza dare un campioncino del famoso spirito di Fontenelle e un altro dell’ovattato ma profondo spirito agnostico dei suoi Eloges académiques. Ecco una lettera di congedo ad un’amante: «Mes souhaits sont accomplis, j'ai un successeur. Je vous assure que j'ai désiré avec un égal empressement votre tendresse et votre indifférence. Enfin je les ai obtenues toutes deux l’une après l’autre; c'est tirer d'une personne tout ce qui s’en peut tirer». Eloge académique de Monsieur Dodart: «Monsieur Dodart était laborieux. Ses plaisirs et ses amusements étaient des travaux moins pénibles. Il lisait beaucoup sur les matières de réligion, car sa piété était éclairée, et il accompagnait de toutes les lumières de la raison la respectable obscurité de la foi». Sembra l’abbé Coignard. A quale distanza ci troviamo dalla tragedia spirituale di Pascal che era ancora vivo quando nasceva Fontenelle! Ho detto di già che le sue opere del maggior periodo sono di volgarizzazione scientifica. Basteranno queste parole per indicarne il carattere patentemente illuministico. Non bisogna però credere che si tratti di scritti aridi o puerili come i nostri manuali Hoepli. La cultura del Seicento è tutta di salotto e chi voleva diffondere le pericolose verità astronomiche di Newton o esegetiche di Van Doel, bisognava che possedesse grazia, spirito ed eloquio discreto ed allusivo: occorreva saper parlare alle signore, insomma; vivaci certamente ed avide di sapere
ma che un tono professorale avrebbe disgustato perché non «de bonne compagnie». «Au dix-huitième siècle les vérités devaient ètre offertes comme des pastilles de chocolat», dice Sainte-Beuve.
Les dialogues des morts sono del Luciano di Samosata ebbe inventato terario, le applicazioni che se ne sono contarsi. E quella di Fontenelle è una
1683. Da quando questo genere letfatte non possono delle più originali.
1714
Letteratura francese
Il suo proposito si rivela di già con la scelta dei personaggi: Socrate vi conversa con Montaigne, Stratone con Raffaello Sanzio, Seneca con Scarron, Alessandro Ma-
gno con Frine, Omero con Esopo, Agnès Sorel con la sultana Roxane. I riavvicinamenti dei personaggi sono di già significativi: più interessanti ancora sono le idee che si scambiano. Sentiamone qualcuna. Omero parla con Esopo e si meraviglia come per tanti secoli gli uomini abbiano potuto continuare a venerare quegli stessi dei ai quali lui stesso ha fatto pronunziare tante sciocchezze. ÉsoPE Cela me fait trembler. Je crains furieusement que l’on ne croie que les bétes aient parlé, comme elles font dans mes apologues. HOMÈRE Voilà une plaisante peur. ÉsoPE Hé quoi, si on a bien cru que les dieux aient pu tenir les discours que vous leur avez fait tenir, pourqoui croira-t-on pas que les bétes aient parlé de la manière dont je les ai fait parler? HOMÈRE Ah! ce n'est pas la méme chose. Les hommes veulent bien que les dieux soient aussi fous qu’eux; mais ils ne veulent pas que les bétes soient aussi sages.
Che queste righe abbiano potuto esser scritte (e ammirate) nel 1683, l’anno stesso nel quale Bossuet pronunciava l’orazione funebre di Maria Teresa, è cosa che fa riflettere: cambiamo il plurale «dieux» nel singolare «Dieu» e più ancora che Voltaire avremo addirittura una frase di Holbach. Nel dialogo fra Stratone e Raffaello vi è una frase dall’aspetto ingenuo ma che distrugge il conformismo religioso del Seicento. «Pour trouver la vérité il faut tourner le dos à la multitude, et les opinions communes sont la règle des opinions saines, pourvu qu'on les prenne à contre-sens.»
Nel dialogo di Alessandro con Frine che cosa si vuole
Il Seicento
Vuligisa — Una d curia unì DO ACI
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La presente Nota si limita agli studi monografici. La bibliografia su Giuseppe Tomasi di Lampedusa è formata soprattutto dalle recensioni e dai saggi apparsi in Italia e all’estero in concomitanza con la pubblicazione delle singole opere (oltre quattrocento titoli). Fra questi si contano anche le opinioni dei maggiori critici letterari e scrittori italiani e di alcuni stranieri, né mancano i notisti politici e
gli storici sollecitati dalla proposta tomasiana di una revisione interpretativa del Risorgimento. Sul caso Gattopardo si può dire che manchino gli astenuti. L’elenco degli interventi comprende fra gli altri: Alicata, Aragon, Asor Rosa, Bàrberi Squarotti, Barilli, Bassani, Bo, Bocelli, Bonsanti, Bufalino, Cecchi, Citati, Consolo, Contini, De Libero, De Robertis, De Rosa, De Pressac, Eco, Fernandez, Flora, Forster, Ganci, La Fauci, Lombardo Radice, Macchia, Magris, Manganelli, Meyers, Milano, Montale, Montanelli, Moravia, Muscetta, Pampaloni, Petrocchi, Piccioni, Piovene, Pomilio, Pratolini,
Prezzolini, Russo, Salinari, Sapegno, Sciascia, Slonim, Spagnoletti,
Tedesco, Titone, Vigorelli, Vittorini. Per la bibliografia di questi testi si possono consultare: Francesco Pavone, Bibliografia di Tomasi di Lampedusa, «Memorie e Rendiconti dell’Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti di Acireale», V, 1985, e la monografia di Andrea
Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo 1987.
Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa, Scheiwiller, Milano 1963.
Andrea Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Flaccovio, Palermo 1963.
Giancarlo Buzzi, Invito alla lettura di Tomasi di Lampedusa, Mursia, Milano 1972.
Sergio Zatti, Torzasi di Lampedusa: Biografia. Itinerario artistico. Cenni sulla fortuna critica, Cetim, Bresso 1972. Simonetta Salvestroni, Tomasi di Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze 1973.
Giuseppe Paolo Samonà, I/ Gattopardo, i Racconti, Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze 1974.
1850
Nota bibliografica
Nunzio Zago, I Gattopardi e le Iene, Sellerio, Palermo 1983.
Basilio Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 1986. Caterina Cardona, Lettere a Licy — Un matrimonio epistolare, Sellerio, Palermo 1987. Andrea Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 19578
David Gilmour, The last Leopard — A Life of Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Quartet Books Ltd, London 1988; trad. it. L'ultizzo Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1989.
Sabino Caronia, Licy e il Gattopardo — Lettere d'amore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Edizioni Associate, Roma 1995.
-
INDICE DEI NOMI
Il presente indice registra i nomi degli autori e dei critici citati nelle
opere narrative e saggistiche di Tomasi di Lampedusa. I riferimenti primari sono indicati con numeri in neretto.
About, Edmond 1766 Addison, Joseph 733, 745, 789,
Andreev,
813, 827, 828-30, 856, 1312, 1823 «AE» 1191, 1195
Anouilh, Jean 1304, 1382 Anselmo d'Aosta 504 Apollinaire, Guillaume 1360,
Agostino,
Aurelio
837-8,
497, 504,
1470, 15531
Ainsworth, William Harrison 1044-5
Alceo 1426 Aleardi, Aleardo 62, 146, 149, 269, 272,301, 304
Alfieri, Vittorio 809, 1596 Algarotti, Francesco 944, 1364 Alighieri, Dante 492-3, 506, DOO
e6/0 2047208
734, 751, 756, 775, 834, 870, 907, 939-40, 967, 970, 1020, 10350
S5A
00
RI
1271, 1280-2, 1284, 1291, 1301137681357 15:11 15967 d'65i1e417/08R0170) 1801, 1812
Allen, Edmund 873 Amith, Adam Amyot, Jacques 636, 727, 1367, 1394, 1454, 1509
Anacreonte 771 Andersen, Hans
1144, 1245
Leonid
1508
Appiano 493 Archer, William 1147
Argenson, René-Louis de Voyer de Paulmy d’ 1706 Ariosto, 1020-1,
Ludovico
634, 954,
1167, 1229, 1584-5,
1593, 1596, 1624, 1798
Aristotele 518, 1272, 1470 Arlincourt, Charles Victor Pérot d’ 976-7 Arnauld, Antoine 1359, 1687 Arnold, Matthew 1078, 1085, 1086-92, 1093-4
Asinio Pollione, Gaio 493 Asser, John 587
Aubigné,
Théodore-Agrippa
de 1362, 1367, 1419, 1429, 1437-41, 1490
Auden, Wystan Hugh
1102,
1263
Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano 520, 1744
Christian
Nicolaevic
1317
493,
497,
502,
Aurigny, Gilles d’ 1445 Austen, Jane 854-5, 859, 867,
Indice dei nomi
1854
979-84, 991, 994, 996, 1005, 1020-1, 1074, 1117
Beaumont, Francis 610, 696-8, 704, 734, 790, 1307
Beckford, William
Austin, Alfred 1163
Awson, Stanley 1065
944, 989,
da
Beda, il Venerabile 587 Beddoes, Thomas Lovell 1054 Bacon, Francis 519, 608, 634, 6820/2924 IZ
1515
Bage, Robert 990-1 Baif, Jean-Antoine
de 1408,
1425-6
Ballanche, Pierre-Simon
1402,
Balzac, Honoré
de 141, 295,
423, 660, 982, 994, 1016, 1020-1, 1081, 1362, 1489, MO Ro OSS So 1526, 1709, 1736-7, 1743, 1765-6, 1769, 1787, 1790; 1803, 1825
Balzac, Jean-Louis
Guez
de
1374, 1393, 1408-10, 1418, 1422-4, 1425, 1505, 1599, 1787
Guillaume-Prosper
Brugière de 1766
1366,
Barbusse, Henri 1317 Bertrand
Belleforest 640
Belli,
Giuseppe
Gioachino
1766
Belloc, Hilaire 733, 830, 1202-4
Bembo, Giovanni 706 Benlowes, Edward 777 Bennett, Arnold 1219, 1224-8, Benserade,
Isaac
de
1491,
Bentham, Jeremy 889 Béranger, Pierre-Jean de 647 Berchet, Giovanni 945
Bergson,
1846
Henri-Louis
Baretti, Giuseppe 1776-7 Barrès, Maurice 753, 1699
Berkeley, George 1316
Barrett
Bernanos, Georges 1197
Browning,
1408,
1493, 1501, 1583, 1597
Barbier, Henri-Auguste 1755
de Vieuzac,
Rémy
1425, 1426-8
1251, 1260
1510-2, 1526
Barère
Beecher-Stowe, Harriet 732 Beerbohm, Max 733, 1145 Bellay, Joachim du 1365, 1369,
Belleau,
1679
Barante,
Bedier, Joseph 1162
Elizabeth
1085, 1105-6, 1113, 1405
Bartoli, Daniello 944 Baudelaire, Pierre Charles 469, 595, 616, 647, 661-2,1775, 9099607 10471151225 IRISE RAMIZIZE MISZEL ISSTA
1602, 1636, 1771, 1833
1209,
121791257, 13:1011359
Bernard, Claude 1359 Bernier, Francois 1658
Béroalde de Verville (Francois Brouart) 1451 Bertaut, Jean 1443
Bertola,
Aurelio
De’ Giorgi
1364
Bayle, Pierre 1694, 1717/-8
Betteloni, Vittorio 1162
Beaumarchais, Pierre- Augustin
Blake, William 474, 662, 723, 839, 866, 874, 884, 890, 893903, 904, 907, 914, 925, 960,
Caron de 1728, 1731, 1739, 1759
Indice dei nomi 979 195
AIN007 11221557
Bloy, Léon 1197 Boccaccio,
Brooke, Rupert 968, 1330 Brosse, Charles de 987 Browne, Thomas 634, 781, 797
Giovanni
592-3,
671,953, 1584-5, 1787
Bodmer, Johann Jakob 524 Boileau, Nicolas 788, 873, 2725 15 o AM.05 05501 1584, 1589-96, 1598, 1603, 1649, 1695-6, 1700, 1725
Boisrobert, Francois Le Metel de 1651
Boissier, Gaston 636 Boito, Arrigo 643, 654, 656
Bonald, Louis-Gabriel-Ambroise de 1197 Boothby, William 776 Borel, Pierre-Joseph, detto Pétrus 908, 1014
Borrow, George 1082-4 Bossuet, Jacques-Bénigne 521, 13591 113625 15/84, 215:019 15. 1-25 2701550801539: 1681-5, 1686-7, 1689-90, 1692-3, 1714, 1725
Boswell, James 870-2, 1787 Boulainvilliers, Henri de 1710 Bourdaloue, Louis 1682
Bourget, Paul 247 Bowen, Elizabeth 867, 1258-9, 1309
Brantéme, Pierre de Bourdeille del 455Mb5 09M, 1829
Bray, Charles 1064 Bresciani, Antonio 1197
1164,
Browning,
Elizabeth
Barrett
1405 Browning, Robert 612, 786, 910, 1055, 1085-7, 1091, 1094, 1100-8, 1116, 1149, 1152-4, 1169, 1183, 1247, 1758
Brunetière, Ferdinand 1393 Bryan, Francis 807 Buckingham III, duca di, 808 Budé, Guillaume 1370, 1394
Buffon, Georges-Louis Leclerc de 519, 944
Bulwer-Lytton, Edward George 993, 1018-9, 1065 Bunyan, John 639, 751, 765-6, 15)
Burger, Gottfried August 975 Burke, Edmund 886-8 Burney, Francis 866-7 Burns, Robert 976, 986, 987-8, 995-6, 1053, 1101
Butler, Samuel 763, 773, 799, 1005, 1091, 1130, 1148, 1208-9, 1262
1134-7,
Buttà, Giuseppe 775, 1049
Boursault, Edme 1663
Bridges, Robert
1855
1264,
1330
Bronté, Anne 867, 1011-4
Byron, George Gordon
338,
595, 833, 840, 866, 874, 883, 885, 887, 890, 892, 906, 909, 911, 913-55, 956, 959-60, 969600 DINT 987, 989-93, 995, 1004, 1006-7, 1016-7, 1049, 1053, 1085, 1117, 1128, 1149-50, [53 een 80R 690) 1526, 1596, 1766
Bronté, Charlotte 867, 1011-4 Bronté, Emily 867, 979, 994, 1011-4, 1128, 1143
Brooke, Henry 867
Calderén
de la Barca, Pedro
792, 1116, 1564
Indice dei nomi
1856
Calvin, Jean 1366, 1380, 13834, 1404, 1532, 1603
Campion, Thomas 713-4 Camus, Albert 825, 1318, 1362
Canosa, Antonio Capece Minutolo principe di 886 Cantù, Cesare 776, 1045
Carducci,
Giosue
651, 667,
490, 647, 660, 944, 1362, 1402; 15.119. 154971642, 1685, 1699, 1743, 1787, 1791, 1827, 1844, 1846
Chatterton, Thomas 880
Chaucer, Geoffrey 502, 582, 591-5, 710, 798, 804, 880, 1161
Chaulieu,
960, 1249, 1423
Carew, Thomas 716-7, 772-3 Carlyle, Thomas 786, 974, 1039, 1046, 1049-52, 1076, 1103
Guillaume
Amfrye
de 1583
Chénier,
André
905,
1421». 1500, 15:67 1731, 1743-57, 1759
1362, 1642,
Caro, Annibale 617
Chénier, Marie-Joseph 1760
Carrer, Luigi 909
Chesterton, Gilbert Keith 733,
Carroll, Lewis, pseud. di Char-
les Lutwidge Dodgson 1169 Casti, Giambattista 944 Castro, Guillén de 1565 Catone,
Marco
Porcio
492,
495-7, 504, 508, 510, 517
Catullo, Gaio Valerio 491, 757, 1007, 1745
Cecchi, Emilio 1116 Cechov, Anton Pavlovic 978, 1258
Cellini, Benvenuto 809, 1778
Cervantes Saavedra, Miguel de AIDS DITER ETA
TLO20=1510425 OG 0
Cesare, Caio Giulio 485-524
Chabot, Francois 1846 Chamfort, Nicolas de (NicolasSébastien Roch) 1679
Chantepleure, Guy 776 Chapelain, Jean 1491,
1501,
1592
Chapman,
George
600, 617,
621, 692, 694-5, 727, 969
774,1043, 1055, 1157, 1159, 1173, 119751206 78412075 22:12 MO 291 4137147 3161 1322-3, 1327
Chettle, Henry 693 Cibber, Colley 805 Cicerone,
Marco
Tullio 487,
489-91, 496, 504, 510-1, 513, 637, 1470, 1679
Cladel, Léon 1187 Clarendon, Edward Hyde 745
Claudel, Paul 1197 Claudiano, Claudio 1415 Cleveland, John 777 Cobbett, William 888, 1224
Coèffeteau, Nicolas 1495 Coleridge, Samuel Taylor 584, 595, 640, 884, 890, 902, 906, 9208-12, 925, 975, 985, 999LOCO 0075 MAL055 TAO SÌ 1091, 1190, 1265, 1526
Colet, Louise Revoil 515, 1049 Colletet, Guillaume 1592 Collins, Wilkie 1048, 1231
Chappuys, Charles 1446,
Commynes, Philippe de 1453
Charles d'Orléans 1360 Charron, Pierre 1468, 1485-6 Chartier, Alain 1360
Condillac Etienne Bonnot de
Chateaubriand, Frangois-René
1745, 1826
Condorcet, Marie-Jean Antoine Caritat marchese di 991
Indice dei nomi
Congreve, William 475, 792, 802-5, 807, 849
Connes, Georges 608
Conrad, Joseph (Teodor Jozef Konrad Korzeniowski) 950,
D’Aroma, Nino 776 Darwin, Charles Robert 1134-6 D’Avenant, William 774, 791 Davidson, Edward 861 D'Azeglio, Massimo 1045,
1031, 1229-33, 1235, 1239
Conrart, Valentin 1493, 1501
Constant de Rebecque, Benjamin 1362, 1402, 1679
Cooper, James Fenimore 748 Corazzini, Sergio 968 Corneille, Pierre 521, 1362, 1485, 1488, 1492, 1494, [5.005 1526-751530! 1559-74, 1575, 1579, 15901, 1593-4, 1608, 1616-7, 1625, 1627, 1629, 1643-4, MCAYPMNLG CR 16727 1123 N20 l
1857
1081
De
Amicis,
Edmondo
776,
MIKA: 1229
Decembrio, Pier Candido 515 Defoe, Daniel 338, 701, 745, 777, 813, 821-6, 827, 837-8, 852, 890, 1079, 1232
Dekker, Thomas 680, 692, 732, 734
Delille, Jacques 1744, 1759 De La Mare, Walter John 595 Delvan, George 776 De Marchi, Emilio 594
Denham, John 774
Courier, Paul-Louis 1362
De Quincey, Thomas 595, 884,
Courteline, Georges (Georges
1000, 1046-9 De Sanctis, Francesco 998
Mainaux) 1382
Cowley, Abraham 773
Desbordes-Valmore, Marceline-Félicité-Joséphe 1474
Cowper, William 891-2, 945,
Descartes,
Coward, Noel Pierce 779
988
Crashaw,
Richard
723, 767,
769, 771, 773, 874, 1284
Croce, Benedetto 847, 1563
Cronin,
Archibald
Joseph
1235, 1260-1
Cross, Walter 1067
Cueva, Juan de la 518 Cyrano de Bergerac, Savinien
René
(Cartesio)
1489, 1510, 1515-6, 2476153 AMA
ITA 2-15 94676; 1684, 1710, 1723, 1837
Desmaulins, Camille 1760 Des Périers, Bonaventure 1445, 1451, 1509 Philippe 1442, Desportes, 1494, 1496
Dickens, Charles 140, 295, 584,
de 1651
Dacier, Anne 1598, 1745 Dancourt, Florent Carton 1662
D'Annunzio,
Gabriele
247,
470, 1113, 1156, 1166, 1183, 12370195)
Danton,
1359, IDA
Georges-Jacques
1760-1, 1761
592, 595, 639, 681, 732, 7856, 804, 8956, 858, 861, 863, 866, 977, 989, 994, 1020-43, 1045, 1057, 1059-60, 10623, 1065, 1073, 1075, 1094, IM00 RINIO3-I5 ONL5:28 13:38 "40676 Ali75_43 1316, 1704, 1787, 1843
Dickens, Monica 1033
Indice dei nomi
1858
Diderot, Denis 833, 855, 1359, 13162111603; +h1653, MI7A2! 1717, 1726, 1729, 1736, 1741
Eckermann, Johan Peter 871 Edgeworth, Maria 991 Edwards, Richard 708 Eliot,
Dierx, Léon 1187
Digby, George 792 Diodoro Siculo 493
George
(Mary
Ann
Evans) 867, 1064-7, 1073-4, 1094, 1102, 1132
Disraeli, Benjamin, lord Beaconsfield 1015-7, 1018, 1067, 1082
Dolce, Ludovico 1449 Dolet, Etienne 1372,
1375,
1394
Donne, John 478, 595, 600,
Eliot,
Thomas
295:
Stearns
DIS
140,
VITO]
1005, 1020, 1041, 1055, 150164) 185, abl95) 12:17; 423/8f- 124211246) 1263, 1270-1303, 1304, 1307-8, 1322, 1325, 1603
685, 712, 719-24, 734-5, 772, 777,786, 1020, 1108
Elisabetta di Baviera (la «Pala-
Dossi Carlo (Carlo Alberto Pi-
Eluard, Paul (Eugène-Emile-
sani Dossi) 594, 1117
Paul Grindel) 1164, 1303
Dostoevskij, Fedor Michajlovic 470, 660, 956, 982, 1048, 1357
1024,
Doumic, René 1450 Dowson, Ernest 1164
Doyle,
Arthur
tine»), 1674, 1677
Conan
994,
Enrico IV, re di Francia 145862
Epicuro Epitteto Eraclito Erasmo
1470 1678 1287 da Rotterdam, Deside-
tO DIS
1314-5
Drayton, Michael 693, 715 Drieu La Rochelle, Pierre 1626 Drummond, William 683, 715, 717
Drydeti, John 663, 681; 750, 758, 789, 790-8, 800, 806, 808, 923, 1055, 1091, 1590
Du Bartas, Guillaume de Sallu-
MLOSORET3:0
gala70)
1372, 1376
Ermoldo Nigello 505 Eschilo 961-2, 1826 Esopo 1584-5 Espronceda y Delgado, José de 909
Euripide 693, 1651 Evelyn, John 811-2
ste 1366, 1429, 1434-7
Du
Bos, Charles
934,
1364,
1589
Dumas, Alexandre (figlio) 1210 Dumas, Alexandre (padre) 141, 295, 974, 1044, 1049, 1081, 1736-7, 1769
Duras, Madame dé 1791-3
D'’Urfey, Thomas 805 Du Ryer, Pierre 1575
Faguet, Émile 1393, 1641
Farquhar, George 792, 805 Faulkner, William 595 Federico II di Svevia 506-7 Fedro 1585 Felltham, Owen 777
Fénelon, Frangois de Salignac de La Mothe
1527, 1530,
1598, 1649-50, 1682, 168691, 1692, 1704, 1726
Indice dei nomi
Fichte, Johann Gottlieb 1050 Fielding, Henry 592, 681, 804, 851, 856-8, 859-61, 890, 97.63 98979957 1020-111135, 1733, 1787
Filicaia, Vincenzo da 1588 Fischart, Johann 518 FitzGerald, Edward 1096, IDE
Flaubert,
Gustave
141, 295,
776, 906, 1024, 1075, 1258, 12 CL 6256897 69 SI O CISA 87, 1842
Fléchier, Valentin-Esprit 1692 Flecknoe, Richard 777, 798
Fletcher, John 610, 669, 696-9, 734, 790, 847
1694,
Ford, Ford Madox (Hermann Hueffer) 1230-1, 1239 Ford, John 676, 701, 734-5, 806, 1000
703-4,
Ford, Thomas 717-8 Forster, Edward Morgan 1234 Fort, Paul 1360 Foscolo, Ugo 715, 861, 876, 1745
Fouqué, Friedrich Heinrich Karl de La Motte 413, 1598 France, Anatole 247, 470, 776, 1169 1362, 1699, 1844
H5 1481642;
Francesco di Sales, san 1679 Freud, Sigmund 640, 862, 900 963, 1014, 1237, 1310, 1800
Froissart, Jean 1454
735,
1263, 1304-8
779,
Fulford, Roger 918
Furetière, Antoine 1503, 1521, 1666, 1724
Galeno, Claudio 1371 Galilei, Galileo 753, 1515 Galland, Antoine Galsworthy, John 1168, 1235, 1251, 1260-2
Garnett, Edward 1235
Garnier, Robert 1449-50 Gascoigne, George 708
Gaskell,
Elizabeth
Stevenson
Cleghorn
846, 867, 1027,
1065, 1074-6
Gautier, Théophile 1362, 1427
Fontane, Theodor 1787 Fontenelle, Bernard Le Bovier 1362,
Fry, Christopher
Gassendi, Pierre 1658, 1710
Florio, Giovanni 728 Fogazzaro, Antonio 1197 Folengo, Teofilo 1382
de 361,1359, 1711-7
1859
Gay, John 842 Gentile, Giovanni
775,
847,
1198
Gentillet, Innocent 726
Géraldy, Paul 1313 Germanico, Giulio Cesare Claudio Nerone 494 Ghislanzoni, Antonio Giacometti, Paolo 374 Giansenio, Cornelio 1531-2, 1608
Gibbon, Edward
856, 877-8,
1224
Gide,
André
IE 1843
Gilbert,
621, 798,
665:
dB
William
862, MIO
Schwenck
1146-7
Gildas, abate 587
Giovanni di Salisbury 502, 508 Giovenale,
Decimo
Giunio
1438
Giraudoux, Jean 413, 1642
1564,
Indice dei nomi
1860
Gissing, George 1130, 1138-9,
Grimald, Nicholas 707 Grossi, Tommaso 1045
1142, 1148, 1159, 1694
Giudici, Paolo Emiliano 1050 Giuliano, Flavio Claudio 498,
Guarini, Alessandro 516
Guedalla, Philip 774 Guérin, Maurice de 968
504, 509
Giuliotti, Domenico 1198 Gobineau, Arthur de 1834-45
Guerrazzi, Francesco Domeni-
Godeau, Antoine 1491, 1493,
Guevara, Antonio de 1738 Guillet, Pernette du 1393, 1402-4 Gundolf, Friedrich ( Friedrich Gundelfinger ) 487-9, 491-
1501
Godwin, Mary Wollstonecraft 867, 1065
885,
887,
959,
961,
Godwin, William 885, 887-8, 990-1, 1014
co 1045
2, 494-5, 497, 504, 506-8, 512-3,515-9, 521, 523-4
Goethe, Johann Wolfgang 524, 640, 659, 809, 853, 880, 885, 907, 944-6, 988, 1020, 1049, 1051109 6624861557 142301528415964M 651 1766, 1787, 1818
Gogol”, Nikolaj Vasileviè 799 Goldoni, Carlo 634, 853, 16456 Goldsmith, Oliver 779, 848, 851, 864-5, 875, 890
Gombauld, Jean Ogier de 1491 Goncourt, Edmond
Huot de
1188, 1698
Goncourt, Jules Huot de 1188, 1698
Gorkij, Maksim (Aleksej Mak-
Habington, William 767 Hakluyt, Richard 733
Halévy, Ludovic 918 Hall, Joseph 777 Hallam, Henry 1096 Hamilton, Anthony 812, 1666 Hamon,
Jean 1607
Hardy,
Thomas
1069, 1150, 1694
477,
1014,
1100, 1130, 1140-3, 1157-9, 1167, 1174,
Harris, Frank 608 Harvey, Gabriel 710
Hathway, Richard 693 Haywood, Eliza 734
simovié Peskov) 1048, 1313 Gosse, Edmund 861 Gozzano, Guido 1162, 1249 Gozzi, Carlo 809
Hazard, Paul 1710 Hazlitt, William 998-1002
Gray, Thomas 874
Heine, Heinrich Helvétius, Claude-Adrien 361
Greene, George
Greene,
Graham
648,
735,
1005, (1757 12049411259) 1309, 1319, 1322-9,,1603
Greene, Robert 687, 731, 734
Gregory, Augusta Persse 1191 Greville, Fulke (lord Brooke) 693, 716
Hegel, Georg Wilhelm Friedricho2241/050 1515
Henley, William Ernest 861 Hennell,
Charles
Christian
1064 Herbert, George 767-70, 773, 786, 1097, 1284
Herder, Johann Gottfried 524 Hermant, Abel 1699
Indice dei nomi
1861
Pi
Héroét, Antoine 1445 Herrick, Robert 772-3 Hervieu, Paul 853, 1317
Ibsen, Henrik
1142, 1147-8,
1209-10, 1217
Ippocrate 1371
Heywood, John 685, 719
Isocrate 727
Heywood, Thomas 685, 691-2,
Jacob, Max 1528
695-6, 701, 704, 806
Hobbes,
Thomas
781,
809,
1358
Hoffmann, Ernst Amadeus 1317
Theodor
Hogg, Thomas Jefferson 957 Holbach, Paul-Henry Dietrich d’ 1714
Holderlin, Johann
Christian
Friedrich 908, 968, 1636
Holland, Philemon 727, 734 Hood, Thomas 1053 Hook, Theodore 1045
Hopkins, Gerard Manley 1102, CA ARTO5 SO T2/655 1264-9, 1297, 1302-3, 1397
Houghton,
William
Stanley
805
Howard, Henry, Earl of Surrey 707
Huét, Pierre-Daniel 1598 Hugo,
Victor 469, 659, 873,
885, 944-6, 1016, 1102, ST ST IS 1557/13 629813.600 014 5 IZ 415.0768815.676615/57 16417478 CAM 17527575 I: 1810, 1827-8
Hugues, Thomas 1078 Hunt, James Henry Leigh 9378, 960
Husserl, Edmund 1217 Huxley, Aldous 735, 830, 996, 1207, 1309-12, 1322-3
Hyde, Douglas 812, 1191
Jacobs, William Wynark 1235 James, Henry 595, 867, 1173, 1176-80, 1181, 1183, 1229, 1257-8, 1271, 1299, 1318
James Montague, Rhodes 1318 Jean Paul (Johann Paul Friedrich Richter) 1842 Jodelle, Etienne
1408,
1425,
1447-9, 1450 Johnson, Lionel 1150, 1163 Johnson, Samuel 677, 735, 789, 813, 844, 847, 868-73, 879, 944, 1117
Joinville, Jean de 1360, 1453
Jones, Henry 1147 Jonson, Ben 582, 601-2, 641-2, 676-84, 686, 690, 692, 694, 696, 699, 4, 734, 747, 158, 770,
789-90, 806, 838, 5 L07070 1646
610, 688, 703773,
1039, SIZE
Joubert, Joseph 1679 Joyce, James 471, 484, 1168, 1238, 1242-9, 1250-2, 12734, 1800
Kafka, Franz 1021 Kant, Immanuel 1358, 1515 Keats, John 469, 595, 606, 710, 760, 866, 884, 890, 902, 907, 914, 925, 942, 946, 96, 965,
967-72, 989-90, 1004-5, 1007, 1085, 1095, 1269, 1750 Khayyam, Omar 1115
Indice dei nomi
1862
Killigrew, Thomas 791 Kinglake, Alexander William
Landor,
Walter
Savage 890,
1103, 1117-8
Langland, William 589, 1266
1084
Kingsley, Charles 1076-8 Kingsley, Henry 1080 Kipling, Rudyard 477, 584, 595, 1102, 1168, 1173, 1175, 1181-6, 1200, 1229-30, 1258
Kock, Paul de 647
Kotzebue, August von 876
La Noue, Frangois de 1828 Lanzi, Luigi 1778 Larbaud, Valery 1365, 1393, 1395-7
Larivey, Pierre de 1449
La Rochefoucauld,
Frangois
Krylov, Ivan Andreeviè 842 Kyd, Thomas 603, 610, 641,
521, 663, 982, 1491, 1495, 1526-7, 1530, 1545-52, 1553, 41555, xl999. 2116058
688, 700, 703, 1317 Kynaston, Francis 777
1612, 1664, 1704, 1709
1678,
1696-8,
Lassalle, Ferdinand 1132 Lasserre, Pierre 1360 Labé, Louise 1366, 1369, 14046 La Boétie, Étienne de 1369,
1465 La Bruyère, Jean 521, 1514, 1527, 15304. 1'979;3.1596; 1603, 1649-50, 1678, 16949, 1704, 1737; 1739
Laclos, Pierre-AmbroiseFrangois Chorderlos de 849, 855. 334-0916079. 1846
La Fayette, Marie Madeleine Pioche de La Vergne de 1546, 1664-6, 1802
La Fontaine, Jean de 361, 521, 842, 1494, 1501, 1527, 157988, 1598, 1725
Lamartine,
Alphonse-Marie-
Louis de 1099, 1365, 1749, 1755, 1758
Lamb, Charles 733, 942, 10013, 1005, 1055
Lamennais, Hugues-FélicitéRobert de 1197 La Motte-Fouqué, si veda Fouqué, Friedrich Heinrich Karl de La Motte
Latini, Brunetto 509
Laud, William 777 Lautréamont,
Isidore-Lucien
Ducasse de 1237 Lawrence, David
Herbert
1237-41, 1242-3
Lear, Edward 1168-9 Lehmann, Rosamond 1257-8 Leibnitz, Gottfried Wilhelm 1358, 1515, 1682
Leopardi, Giacomo 469, 906, 908, 971, 1020, 1035, 1528
Leopardi, Monaldo 886, 1049 Le Queux, William 776 Lermontov, Michail Jureviè 470, 908, 956
Lesage, Alain-René 859, 1731, 1736-9 Lewes, Henry 1065, 1067
Lewis, Clive Staples 1320-1, 131701525
Lewis,
Matthew-Gregory
(Monk) 980, 993, 995
Lewis, Wyndham Percy 1237 Liala (Amaliana Cambiasi Ne-
gretti) 775-6 Linati, Carlo 481 Littré, Emile 872
Indice dei nomi Livio, Tito 489, 494, 727, 1084, 1115
Locke, John 812, 1358
1863
1272,
12:85:2013,03;#618:60}
1642
Lovelace, Richard 772 Lucano, Marco Anneo
Malory, Thomas 590 Malraux, André 1230 Mann, Thomas 753 Mansfield, Katherine 1330 Manzoni, Alessandro 1020- 1,
Luciano
Marat, Jean-Paul 1760 Marco Aurelio, Antonino 498,
Lodge, Thomas 687 Louys, Pierre 1574 492, 495-6, 504, 506-7, 509, 603, 1415
di Samosata
1312,
1584, 1713, 1831
1678
Lucrezio Caro, Tito 960, 1007, 1476, 1745
Luther,
Martin
1603, 1636, 1772
Marguerite
d’Angouléme
de
Navarre 1451-2, 1512
1374,
1384,
1532
Lyly, John 686, 703, 731, 734
Marie de France 1360 Marino, Giambattista 1588 Maritain, Jacques 1603
Marivaux, Pierre Carlet' de Chamblain de 1644, 1727-8, Macaulay, Thomas Babington 866, 983, 1004, 1115, 111921, 1224
Machiavelli, Niccolò 519, 598, 603, 725-6, 1555
Mackenzie, Henry 867 Macpherson, James 879-80 Macrin, Salmon 1372 Maeterlinck, Maurice 479, 595
Maintenon, Frangoise d’Aubigné de 1367, 1673-6
Mairet, Jean 1561 Maistre, Joseph
1621,
1623,
1731-5, 1736, 1738-9, 1827”
Marlowe,
Christopher
496,
595, 601-3, 676, 685-8, 694, CIOTTI ORO N/2.6: 734, 968, 1000, 1074, 1247, TESHILT
Maroncelli, Pietro Marot, Clément 1374, 1385-92, 1393, 1401, 1409, 1444-5
1405,
1407,
Marot, Jean 1385
Marryat, Frederick 860, 1044-5 de
1197-8,
1559
Makepeace, William Malatesti, Antonio 754 Malebranche, Nicolas 1582 Malherbe, Francois de 1410, 1416, 1434, 1443, 1488, 1489, 1491, 1493, 1494-8, 1499) 15.05-/AMS510MM5:15; 1518, 1589
Mallarmé, Stéphane 478, 595, 640, 874, 990, 1165-6, 1187,
Marshall, Bruce 1205 Marston, John 680, 694-5, 1000 Martini, Fausto Maria 1197
Marvell, Andrew 639, 741, 751, 755, 764-5
Marx,
Karl
Heinrich
1074,
1208, 1217, 1290
Massillon, Jean-Baptiste 1692 Massinger, Philip 697, 699-700, 704, 734
Mastriani, Francesco 775
Matthiessen, Francis Otto 1303 Maturin, Charles R. 993
Indice dei nomi
1864
Maugham, William Somerset 7,0751255
Maulnier, Thierry 1641-2 Maupassant, Guy de 1024, 15.0 RS gtizo7 Mauriac, Frangois 1197, 1329, 1530, 1603, 1642
Maurras, Charles-Marie-Photius 886
Maxwell,
William
Hamilton
1235
Maynard, Frangois 1500 Mazzini, Giuseppe 474 Melantone, pseud. di Philipp Schwarzerd 518 Meli, Giovanni 988, 1050 Melville, Herman 595 Mendès, Catulle 448 Meredith, George 477, 773, 995, 1100, 1130, 1131-3, 1140-2 Meres 611 Mérimée, Prosper 1362, 1698, 1793, 1825-33, 1834 Metastasio, Pietro 706
Michelet, Jules 1359, 1846 Middleton, Thomas 524, 692, 695 Milton, John 496, 594, 639, 661, 676, 698, 723, 732, 745, 751-63, 764, 771, 773, 776, 781, 785-6, 788-9, 798-800, 833, 840, 872, 874, 893, 901,
STO RISCOROZO RSS 0205 1097, 1224, 1303, 1787
Mirabeau, Honoré Gabriel Riqueti de 1761, 1846 Mistler, Jean 1844
Molière (Jean Baptiste Poquelin) 792, 856, 1146-7, 1214, 1449, 1501, 1506-7, 1519, 1527, 1530,31561-2} 1574; 158990; 11593-4, 1596, 1603, 1608, 1612-4, 1616-7,
1643-4, 1645-59, 1660-2, 1669111695 17043711, 1772511727 Mommsen, Theodor 524 Monluc, Blaise de LasseranMassencòme de 1366, 1455, 1509, 1700, 1828
Montaigne,
Michel
Eyquem
519, 606, 725, 728, 732, 781, 1312, 1358-9, 1362, 1365-6, 1369, 1374-5, 1382, 1454, 1462, 1463-79, 1505, 1509ili 152784530 MeL533: 1544, 1603, 1669, 1671, 1696-7, 1788
Montale, Eugenio 717, 1106, 1116, 1164, 1303
Montalembert, Charles Forbes de 1197
Montchrestien,
Antoine
de
1450
Montesquieu, Charles Louis de Secondat 522-3, 1712, 1717, 1728, 1736, 1741-2, 1793
Monti, Vincenzo 715, 876, 1249 Montpensier, Mlle de 1554, 55721575
Moore, George 1187-9
Moore, Thomas 1053 Morand, Paul 459-68 More, Thomas (Tommaso Moro) 685-6, 719
Morgan, Charles 1235, 1261 Morike, Eduard 1758 Morris, William 1111, 1160-2, 1165
Motta, Luigi 776 Motteville, Mme de 1557 Munday, Anthony 692 Musset, Alfred de 753, 876, 1304, 1827
Mussolini, Arnaldo 776
Indice dei nomi
Nashe, Thomas 478, 641, 687,
1865
Papini, Giovanni 826, 1198
Parnell, Thomas 1072, 1149
VITATENENSE:
Nekrasov, Nikolaj Alekseevièé 470
Neraco, Michele 776 Nerval, Gérard de (Gérard Labrunie) 908, 1605 Nevinson, Henry 1193
Pascal, Blaise 521, 834, 1158, 1359 K15/62:4M3:84NM473) 1492, 1515, 1526-7, 152844, 1545, 1588, 1602-3, 1676, 1678, 1687, 1692, 1696, 1713, 1717
Newman, John Henry 1199
Pater,
Newton, Isaac 808-9, 1358
1165-6 Patmore, Coventry 1154, 11625)
Nicole, Pierre 1614-5, 1672 Nietzsche, Friedrich 460, 487, 506, 524, 902, 1050, 1133, 1209-10, 1217, 1290, 1313, 1771, 1832, 1842
Walter
1113,
1145,
Patru, Olivier 1584-5, 1591 Peacock, Thomas Love 895, 995-7, 1131
Nodier, Charles 1364
Peele, George 687
Noel, Eugène 1381 North, Thomas 636, 666, 727,
Péguy, Charles 689, 776, 968, 1197
Pellico, Silvio 1813
734
Novalis (Georg Philipp Friedrich von Hardenberg) 968
Pepys, Samuel 791, 809-12, 919 Perrault, Charles 1598 Petrarca, Francesco 469, 510-2, DNS 9205-6375. 1386, 1593, 1596, 1770
O’Casey, Sean 474, 484 Ohnet, George 776
1713675 1624,
Omero 472, 617, 694, 880, 891, 1020-1, 1135, 1414, 1593, 1801
Phillips, Stephen 1149 Piccolo, Lucio 1041,
Orazio
Pigault-Lebrun (Charles-Antoine-Guillaume Pigault de l’Epinoy) 876
Flacco,
TTI 1770
Quinto
O’Shaughnessy,
liam Ottone Otway, Ouida
469,
00781155928
Arthur
Wil
Edgar 1150, 1164 di Frisinga 506 Thomas 792, 806 (Louise de la Ramée )
1145
1164,
1179
Pindaro 1415-6, 1426, 1438
Pindemonte, Ippolito 876 Pinero, Arthur 1147 Piovene, Guido 853 Pirandello, Luigi 1002, 1024, 1576
Pitigrilli (Dino Segre) 776 Paine, Thomas 888
Palgrave, Francis Turner 707 Paolieri, Ferdinando 776
Papillon de Lasphrise, Marc de 1366, 1430-3, 1442
Planche, Gustave 1641 Platone 710, 941, 965, 1221, 1470
Plinio il Giovane o Gaio Plinio Cecilio Secondo 494, 519, 727
Indice dei nomi
1866
Plotino 893 Plutarco 494-6, 519, 636, 666, Poe, Edgar Allan 362, 595, 867, 910, 992, 994, 1314-5, 1317
Poliziano (Agnolo Ambrogini) È
841, 891, 923, 1272
Ezra
Loomis
1273,
1276
Pradon,
Nicolas
794,
1567,
1592, 1619-20, 1660
Prati, Giovanni 149, 272, 304 Prévost, Antoine-Frangois 1362, 1731, 1739-40
Priestley, John Boynton 805, 1550
Proudhon, Pierre-Joseph 177 Proust, Marcel 337, 809, 862, 895, 982, 1020-1, 1031, 1067, 1071,
1173 1176 1181 1187 1190 1197 1207 1219 1229 1234 1237 1242 1250
Parte quinta: Accenni ad alcuni contemporanei Le solite premesse inutili Henry James Rudyard Kipling George Moore William Butler Yeats e il «crepuscolo celtico» Gilbert Keith Chesterton George Bernard Shaw H.G. Wells e Arnold Bennett Joseph Conrad Alcuni «minori» (sarò breve) David Herbert Lawrence James Joyce Tre donne scrittrici: Virginia Woolf, Rosamond Lehmann,
Elizabeth Bowen Un vittoriano in ritardo: John Galsworthy
1260 1263 1264 1270 1304 1309 1313 1322 1330
Gerard Manley Hopkins Thomas Stearns Eliot Christopher Fry Aldous Huxley Detective stories e thrillers Graham Greene Congedo
1555
Premessa
I poeti contemporanei
LETTERATURA FRANCESE
1357 1364 1369 1383 1385 1393 1402 1407 1412 1422 1425 1429 1434
Parte prima: Il Cinquecento Ragioni e pretesti
Il Cinquecento francese Frangois Rabelais Jean Calvin Clément Marot Maurice Scève, un Mallarmé del Rinascimento
Due belle poetesse lionesi: Pernette du Guillet e Louise Labé La Pléiade: sua nascita e sua teoria
Pierre de Ronsard Joachim du Bellay Altri poeti della Pléiade Due risuscitati freschissimi: Jean de Sponde e Marc de Papillon Due altri poeti ugonotti
1442 1444 1447 1451 1453 1458 1463
Poeti minori
Les blasons Il teatro francese del Cinquecento Narratori francesi del Cinquecento Memorialisti francesi del Cinquecento Enrico IV, scrittore
Montaigne Parte seconda: Il Seicento
1485 1489 1494 1499 1501 1505 1509 1513 1515 Spi 1519 1525 1528 1545 1553 1557 19593) 1575 1579 1589 1597 1600 1643 1645 1660 1664 1667 1677 1678
Sezione prima: La grande svolta La letteratura durante il regno di Enrico IV Gli scrittori riformatori Francois de Malherbe Honorat de Racan Altri poeti «malherbiani» Un poeta di parer contrario: Mathurin Régnier I riformatori della prosa francese Vincent Voiture René Descartes (Cartesio) I romanzi: Scudéry e d’Urfé Degenerazioni e reazioni Sezione seconda: I colossi instabili Condizioni linguistiche, letterarie (e politiche) della Francia nei primi trent'anni del secolo XVII Blaise Pascal e brevi accenni a Port-Royal La Rochefoucauld Le cardinal de Retz Altri memorialisti Corneille I seguaci di Corneille: Rotrou Sezione terza: L'età dell'oro Jean de La Fontaine Boileau La querelle des anciens et des modernes Jean Racine La commedia francese prima di Molière Jean Baptiste Poquelin, detto Molière Contemporanei e immediati successori di Molière Il romanzo dell’età dell'oro: Madame de La Fayette La letteratura epistolare: Madame de Sévigné - Madame de Maintenon La «Palatine» Oratori e scrittori religiosi
1681 1686 1692 1694 1700 1710
Bossuet
Fénelon
Altri scrittori religiosi La Bruyère Saint-Simon I settecentisti del Seicento
Il Settecento 1730 1736 1741 1743 1758 1765 1825 1834 1846 1847 1853
Marivaux
Lesage Montesquieu André Chénier La Rivoluzione e la letteratura
Tre autori dell’Ottocento Stendhal Prosper Mérimée Gobineau (Osservazioni sparse)
Nota bibliografica Indice dei nomi
TRUE
1507
Li
5
[ee
ah è Canc? perke serio A sii prole
Gb 19
omelia,
Pec
Vea