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Italian Pages 284 Year 2004
| Saggi
ALESSANDRO DAL LAGO
Nuova edizione
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https://archive.org/details/nonpersonelesclu0000dall
Saggi Universale Economica Feltrinelli
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ALESSANDRO DAL LAGO
Non-persone L'esclusione dei migranti in una società globale Nuova edizione
Feltrinelli
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Interzone” aprile 1999 Prima edizione (ampliata) nell’ “Universale Economica” — SAGGI gennaio 2004 Seconda edizione maggio 2005 ISBN 88-07-81786-1
Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura.
Aggiornamenti quotidiani
Indice Intrada
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Capitolo EMAmctaBlia SOC ia Pitrontealta pra nd er e ia L'“emergenza immigrazione” e le sue vittime ...... [iesclusione democratica, sro aiaaiare Ikscasodell'osulitani a tenera Logiche del senso comune .....................
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Capitolo 2 La macchina della Paura ....................... inlcapodaedianea o inni Fatautologia della‘ paura... nari Cittadinanze:reall'evittuali.... cangia (io'choognitelttadino Salma Cerpedelkeaiea RI
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Sinistra, destra e immigrazione:..................... 123 Gli intellettuali scendono in campo .................... 130
Capitolo 4: SCIENZA EIN
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Scienza, opinione, immigrazione ........................ 143
Retoriche dell’immigrazione .............................. 150 Fa coltira non Centralina
167
Gapitolo 5 Campagne dflbania...... RR Stadi, campi e altre accoglienze .......................... SULTOAdO. orti O Fattinostiiicsr ei
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Capitolo: 6.Non-persime. oo EI Nelimbo silla dae Persone enon-persone; siriana Genealogia delle non-persone ............................ Al mafemideldifitto > 0? lean
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Introduzione
Era cattivo, infatti, perché era selvaggio; era selvaggio perché era brutto. C'era una logica nella sua natura come nella nostra. (V. Hugo, Notre-Dame de Paris)
1. In origine avevo pensato questo saggio come un pamphlet sulla stigmatizzazione sociale dei migranti. Ma un pamphlet non poteva bastare. Contrariamente all'opinione pubblica prevalente, le vere vittime dell'impatto tra migranti e società italiana sono i migranti. Mentre le cronache registrano quotidianamente la morte in mare di decine di “clandestini” (e continue aggressioni, anche letali, contro gli immigrati che vivono in Italia), gran parte dei mezzi di comunicazione di massa alimenta senza sosta il panico sull’“invasione” del nostro paese da parte di “immigrati poveri” del Terzo mondo. “Emergenza clandestini” è il monotono leit-motiv che risuonava sulle prime pagine dei quotidiani italiani nell’estate del 1998, mentre le proteste e i tentativi di fuga degli stranieri detenuti, in attesa di espulsione, nei “campi di permanenza temporanea”, venivano sedati a colpi di manganello. Procedendo nel lavoro, mi sono convinto che la questione non può
essere limitata a un mito contemporaneo alimentato dai mezzi d’informazione di massa, ma riguarda l'atteggiamento di chiusura della nostra società verso gli stranieri e le diverse pratiche sociali con cui i migranti sono esclusi e trasformati in nemici della società.' Secondo un modello ormai comune a tutta l'Europa, i migranti, reali o virtuali, so-
no un pericolo da contrastare con ogni mezzo — dalla militarizzazione dei confini alla moltiplicazione di veri e propri campi di internamento, dall’espulsione generalizzata all’“assistenza economica” prestata ai regimi cui i migranti cercano di sottrarsi. Al rifiuto dei migranti potenziali corrisponde l’esclusione sociale di quelli presenti. Dopo quindici anni di un’immigrazione di qualche consistenza, agli immigrati non sono riconosciuti di fatto i diritti civili (per non parlare di quelli sociali e politici) di cui godono gli italiani e gli altri stranieri, europei o occidentali, presenti in Italia.” La conseguenza principale di questa doppia spirale di panico ed esclusione è stata un’escalation di decreti e provvedimenti di legge che avevano lo scopo più o meno dichiarato di filtrare gli stranieri, accettando in misura limitata quelli “buoni” e chiudendo le porte in faccia a quelli ritenuti pericolosi. In base al decreto Dini del novembre 1995, uno straniero sospettato di turbare l'ordine pubblico o condannato per reati minori poteva essere sottratto al giudice naturale e allontanato dal paese senza possibilità effettive di ricorso.’ Il decreto ha rappresentato una svolta nella cultura politica e giuridica italiana, in quanto trasferiva di fatto alla polizia la soluzione dei microconflitti, reali e im-
maginari, posti dall’immigrazione. Nel febbraio 1997, dopo diverse reiterazioni del decreto Dini, il governo di centrosinistra diffondeva una proposta di legge che, insieme ad alcune misure di integrazione sociale degli stranieri, ribadiva la politica delle espulsioni preventive e introduceva i campi di internamento, pudicamente definiti “centri di permanenza temporanea”, per gli stranieri in attesa di espulsione. La proposta di legge veniva approvata nel febbraio 1998, con la cassazione del diritto di voto amministrativo agli stranieri regolarizzati. Che il governo
di centrosinistra continuasse,
con maggiore risolutezza, il
cammino di quelli precedenti in materia di stigmatizzazione dei migranti è mostrato anche da altri provvedimenti di legge e misure amministrative e di polizia. In base al decreto emanato il 20 marzo 1997,
al tempo dell’arrivo di 15.000 albanesi dopo il collasso del regime di Berisha, qualsiasi migrante o rifugiato, albanese o no, sospettato di turbare l’ordine pubblico può essere espulso dall’Italia su iniziativa di prefetti e questori. Un ruolo decisivo nella creazione del clima di panico da cui sono
scaturiti questi provvedimenti di legge è stato giocato dall’opinione pubblica colta. Gli opirzon-leaders che, senza vantare particolari competenze in materia, hanno chiesto a vario titolo “fermezza” — cioè chiudere le porte in faccia a migranti e profughi, clandestini, delinquenti o no — formano un piccolo Gotha intellettuale nostrano: filosofi, letterati, giornalisti di grido e perfino esponenti della cultura radicale. In altri termini, gli intellettuali, che dovrebbero avere il compito
morale di vagliare criticamente l’azione del sistema politico (e, quando è il caso, di denunciarne gli abusi), si sono rivelati, almeno in questo caso, portavoce dei governi e dell’opinione pubblica dominante.”
Se le politiche dell’immigrazione in Italia hanno mostrato come sia facile ignorare, aggirare o violare di fatto i principi universalistici accolti anche dalla nostra Costituzione, è anche vero che essi sono impliciti, nebulosi o puramente verbali. Si potrebbe pensare che nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, e a più di cinquant’anni dalla sconfitta del nazismo, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo per trovarvi un'esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta.* Ma non è così. L'umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto.’ Grazie a meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti, l’umanità viene divisa tra persore e non-persone. Al mantenimento di questa distinzione contribuiscono oggi anche movimenti culturali che contestano l’universalismo, ovvero la conce-
zione politico-morale secondo cui gli esseri umani sono uguali per diritto. Invece di concepire la diversità come pluralità, articolazione di una condizione umana comune e ugualitaria, il differenzialismo ha spesso ipostatizzato la separatezza culturale, hamitologizzato le radici culturali e nazionali. Per tutti questi motivi era necessario sondare in profondità i processi che fanno degli stranieri esseri umani di seconda categoria. Ma era necessario anche criticare i presupposti di quelle teorie contemporanee che hanno contribuito a rafforzare l'esclusione degli stranieri.
2. In breve, il parzpblet si è trasformato in un lavoro più complesso. Bisognava comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità della nostra cultura. Non
parlo solo delle manifestazioni di razzismo (aggressioni contro stranieri indifesi e perfino contro bambini, sollevazioni dichiaratamente xe-
nofobe nei metodi e negli slogan contro gli immigrati “delinquenti”, proposte insensate di schedare in ogni modo gli immigrati, falsificazione deliberata o implicita delle notizie relative agli stranieri). Mi riferisco anche all’involuzione della nostra cultura politica, che ha saputo concepire solo l'espulsione, il contenimento o il confinamento dei migranti, rifiutandosi di riconoscere in loro non solo degli esseri umani ma, come dovrebbe sembrare ovvio in una società che riconosce come
legge fondamentale la logica del mercato, delle risorse economiche. Preoccupata di mantenere a ogni costo il consenso, la sinistra al governo ha rinunciato ad affrontare la questione dei diritti dei migranti. Non diversamente, la cosiddetta “cultura liberale” ha preteso di risol-
vere il problema dell’immigrazione in termini strettamente polizieschi, mostrando di violare nei fatti i principi cui si richiama a parole, e rivelando così la sua natura autentica di liberismo autoritario.” D'altra parte, se il volontariato cattolico ha dimostrato, in nome dell’universa-
lismo rivendicato dalle religioni monoteistiche, di comprendere la posta nel dibattito sull’immigrazione, le espressioni politiche del cattolicesimo italiano hanno contribuito, seppure con qualche imbarazzo, alla levata di scudi legislativa contro gli stranieri.’ Bisognava dunque comprendere perché, davanti a un fenomeno dalle dimensioni limitate, molti intellettuali e gran parte dei media,
ceto politico e “cittadini” si siano coalizzati in un fronte ostile ai migranti. Era necessario portare alla luce e criticare le categorie scientifiche, politiche e di senso comune che in Italia (ma non solo) vengono impiegate nel dibattito sull’immigrazione, sui diritti degli stranieri e sulla cittadinanza. Un impressionante coro di luoghi comuni, di dati orecchiati se non inventati, di banalità spacciate per realismo, di pregiudizi da trivio, ha infatti caratterizzato, ieri come oggi, il discorso pubblico sull’immigrazione. Di fronte a esso ogni opposizione si è dimostrata irrisoria. Destra e sinistra, intellettuali e politici, giornalisti e cittadini sono apparsi straordinariamente solidali e compatti nel rivendicare, contro “stranieri”, “immigrati”, “clandestini” e “delinquenti”, il privilegio della cittadinanza italiana o europea. A questi sviluppi non è estranea la riscoperta della nazione-Italia e anche della patria italiana, cioè di un sentimento comune su cui si fon-
derebbe l'appartenenza nazionale. Ora, nel caso dell’Italia, non solo questa rivendicazione appare particolarmente debole, data la storia relativamente breve, conflittuale e poco onorevole dello stato italiano (che in poco meno di un secolo e mezzo è stato governato da una monarchia autoritaria, da un regime totalitario e da una democrazia bloccata e corrotta). Il problema è soprattutto che questa riscoperta del 10
sentimento nazionale e della patria coincide con un processo di inferiorizzazione delle altre società: i paesi più poveri, le regioni arretrate della stessa Italia, le aree meno ricche delle regioni dominanti. Un nuo-
vo organicismo si sta affermando a destra e a sinistra. Nella riscoperta della nazione, nell’invenzione di nuovi nazionalismi regionali o subregionali, nell’esaltazione di modelli locali di sviluppo economico (il “Nordest” contrapposto non solo al “Sud” ma anche al “Nordovest”), si afferma l’idea che la società politica possa esistere solo come comunità locale, legata in modo esclusivo a un territorio e soprattutto in competizione o in conflitto con altre comunità territoriali.’ La riscoperta delle patrie non è ovviamente un'esclusiva della nostra cultura politica e tanto meno una conseguenza dell’impatto dei fenomeni migratori. Ma sono questi che conferiscono ai nuovi nazionalismi e patriottismi un’enfasi particolare. Come ho cercato di suggerire in questo libro, i migranti sono un nemico pubblico ideale per ogni tipo di rivendicazione di “identità” nazionale, locale o settoriale. Per il patriottismo urbano o di quartiere sono criminali che minacciano la sicurezza della vita quotidiana. Per il patriottismo regionale o cantonale, alieni che intorbidano la purezza etnica. Per quello nazionale, stranieri che minano la compattezza della società. Per il patriottismo di classe, “parassiti” o “abusivi” che sottraggono alla classe operaia le sue conquiste, un Lumpenproletariat che compete con i nazionali nel mercato del lavoro o sottrae loro gli ultimi benefici elargiti dallo stato sociale. E quasi superfluo aggiungere che si tratta di nemici simbolici (che assorbono i bisogni più disparati di ostilità) e strutturali, necessari per la formazione di identità, di quel
“noi” che oggi si esige a destra o sinistra." Come tutti i fenomeni sociali, l’inimicizia (con tutte le sue motiva-
zioni e i suoi effetti pratici) è un fenomeno costruito e ricostruito incessantemente nella vita quotidiana. Quindi, i suoi contenuti non seguono la logica della “razionalità” (che una teoria dell’azione prevalente nelle scienze sociali ritiene dominante nella società democratica o “liberale”), ma quella del discorso sociale, della doxa, del senso comune, del “si dice”, delle opinioni incontrollate, in breve della mitolo-
gia sociale. Quasi tutte le affermazioni dominanti sulla minaccia costituita dalle migrazioni sono discutibili, se non semplicemente false. Non è vero che l’Italia, a partire dalla metà degli anni ottanta, è stata invasa dagli stranieri, che l’estensione delle sue frontiere favorisce l’in-
gresso dei clandestini più di quanto avvenga in altri paesi mediterranei, che i migranti mostrano una particolare propensione a delinquere, oppure che tendono a portare via posti di lavoro ai nostri giovani. Sofel
no affermazioni generiche e incontrollabili, in sostanza non vere. Ma sarebbe sbagliato pensare che siano vanificate una volta contestata la loro insensatezza. Sono socialmente “vere” in quanto vanno di pari passo con l’elaborazione di identità reattive” da parte di chi le usa. Sono vere perché tautologiche, necessarie in una certa economia retori-
ca, indispensabili a una certa argomentazione. Rientrano nella stessa modalità argomentativa a cui appartengono concetti oggi largamente usati come patria o nazione. È del tutto evidente che il concetto di patria non corrisponde ad alcunché di oggettivo in termini storici, costituzionali, giuridici, sociali, culturali. Ma se si crea il consenso (tra stu-
diosi, uomini politici e opinion-makers) sulla patria come qualcosa di oggettivamente esistente, il solo parlarne, attribuendo a questo guscio verbale dei contenuti “ovvi” (che a loro volta rimanderanno ad altri contenuti, e così via), conferirà oggettività ed esistenza alla patria. Allo stesso modo i migranti, da quando sono diventati bersaglio prediletto da parte di un certo discorso pubblico, sono una “minaccia”, indipendentemente dal fatto che non minacciano alcunché, solo perché il relativo cliché si è affermato nell'opinione pubblica." i Il fatto che si tratti di verità sociali rende abbastanza inefficaci le critiche ragionevoli, che si appoggiano sui dati o su analisi in contrasto con il senso comune. Da una parte, infatti, il discorso sull’ “emergenza immigrazione” riprende luoghi comuni molto radicati nella società contemporanea (come tutto ciò che viene associato alla “sicurezza”! della vita urbana). Dall'altra, è rafforzato e legittimato da analisi “scien-
tifiche” che ammantano ciò che “tutti sanno” con pseudoconcetti tratti dalle scienze sociali. Si pensi, per esempio, alle ricerche sull’inclinazione o propensione a delinquere degli stranieri. “Inclinazione” è un termine di senso comune che può indicare tutt’al più una certa distribuzione dei dati relativi a una determinata “popolazione”. Dati il cui senso dipende quasi esclusivamente dalle categorie impiegate dal ricercatore. In realtà, il solo impostare ricerche del genere significa autorizzare un pregiudizio implicito nei confronti della popolazione studiata. A nessun scienziato sociale serio verrebbe in mente di studiare la “propensione a delinquere dei professori”, nonostante gli scandali emersi in Italia in relazione ai concorsi universitari. E nessuno, anche dopo Tangentopoli, prenderebbe seriamente in esame un concetto come l’“inclinazione a delinquere” del ceto politico. Se ricerche del genere sono di fatto legittimate nel caso degli immigrati, è perché questi ultimi, come categoria (e quindi come insieme cognitivo), sono preventivamente screditati e stigmatizzati dall’opinione pubblica e dalla doxa scientifica. L'immigrazione” non è dunque solo un problema economico, so12
ciale, politico e giuridico ma anche cognitivo, un problema sia per scienziati sociali sia per studiosi di epistemologia. A. Sayad ha sintetizzato il ruolo degli immigrati nella produzione di discorsi scientifici e di senso comune con il concetto di “funzione specchio dei fenomeni migratori”.° I migranti sarebbero coloro che, per il solo fatto di esistere tra noi, ci costringono a rivelare chi siamo: nei discorsi che facciamo, nel sapere che produciamo, nell’identità politica che rivendichiamo. Abitualmente si parla di “funzione specchio” dell’immigrazione, cioè dell'occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale.”'
In altri termini, l'immigrazione, più di ogni altro fenomeno, è capace di rivelare la natura della società detta di accoglienza. Quando parliamo di immigrati, noi parliamo di noi stessi in relazione agli immigrati. È per questo motivo che un'analisi che si occupi di immigrazione senza mettere in gioco chi parla (e con quale diritto, legittimita, presupposti cognitivi, politici, nazionali eccetera) è costitutivamente amputata, e perciò falsa. Di conseguenza, il lavoro che qui presentiamo non si occupa di “immigrazione” come fatto a se stante, ma come meccanismo rivelatore della natura della nostra società. Non pretende tanto di dire la verità, sociale o esistenziale, su queste figure di stranieri,
ma di dire qualcosa sulla relazione che si stabilisce tra chi è “dentro” una società (con tutte le sue sicurezze acquisite) e chi, venendo da
“fuori”, pretende di “entrarci”. Compito difficile, se non impossibile, perché per affrontarlo è necessario mettere in discussione le categorie scientifiche, il sapere, in cui l’analista si è inevitabilmente collocato in
una posizione di sicurezza. 3. Questo libro è dunque un lavoro sui meccanismi sociali, politici e cognitivi che fanno dell’immigrato un (o forse “il’) nemico pubblico nella società contemporanea. Dove si colloca allora l’autore? Benché il mio mestiere sia quello di sociologo, non ho concepito questo lavoro come un mero saggio sociologico. In primo luogo non ritengo, proprio
per quanto detto sopra, che l’idea di una scienza sociale “disinteressata” sia sostenibile, tanto meno di fronte ad aspetti fondamentali della 0)
convivenza umana (come l'uguaglianza e la cittadinanza) che non sono dati, ma oggetto di controversia e di lotta politica. In secondo luogo, ritengo che questi aspetti eccedano, anche dal punto di vista teorico, il piano della mera descrizione scientifica. Essi hanno a che fare con i fondamenti della nostra esistenza, con la stessa definizione di umanità,
qualcosa che non trova posto in una scienza sociale che si vuole operazionistica e “oggettiva”. Non pretendo dunque di basarmi su dati inconfutabili, tanto meno
quantitativi. Il dibattito sull’immigrazione ha mostrato non solo come siano discutibili, almeno in Italia, le statistiche, ma anche come queste
(in particolare sul numero degli stranieri e sulle loro tendenze criminali o antisociali) siano prodotte e usate in base a presupposti, e secondo modalità argomentative, che di scientifico hanno solo la prosopopea. Se un demografo, in base a calcoli formalmente consequenziali, ci informa che tra vent'anni “un’ondata migratoria si abbatterà su un Occidente in pieno declino demografico”, non sta facendo scienza ma retorica. Da una parte, le sue proiezioni sono puramente cartacee (non potendo tener conto di tutte le variabili imprevedibili, politiche, culturali o congiunturali che solitamente vanificano le previsioni demografiche). Dall'altra, egli riveste i suoi dati con un linguaggio che ammicca alle paure dell’opinione pubblica. Gli scienziati sociali dovrebbero sapere che, nell’era dei media, anche il discorso scientifico crea (e
quindi contribuisce a modificare) la realtà. Molto spesso si tratta di una sorta di ingenuità pragmatica, ma talvolta di una deliberata volontà di alterare i fatti, in nome di un’ideologia che non si ha il coraggio di ammettere apertamente. Questo lavoro, insomma, proprio perché non vuole essere solo una
critica del senso comune ma anche della “scienza dell’immigrazione”, si colloca inevitabilmente al di fuori di essa. Qual è dunque la sua legittimità? E poi, su quali dati, qualitativi e quantitativi, può appoggiarsi? Per quanto riguarda la legittimità, la sola che può pretendere è quella che deriva dai suoi risultati. Per quanto riguarda i dati, si colloca piuttosto in una posizione trasversale. Il problema qui non è tanto che i dati sull’immigrazione sono spesso inaffidabili, quanto che, al pari di qualsiasi altro dato, sono socialmente costruiti. Come tali i numeri dicono ben poco, se non si ricostruisce il loro i1pu, ovvero le modalità con cui sono stati raccolti e assemblati, e il loro output, ovvero le tipi-
che modalità argomentative grazie a cui divengono immagine della realtà. Quando userò dei dati, mi sforzerò quindi di mostrarne l’atten-
dibilità rispetto a input e output. Aggiungo che, mentre sono piuttosto scettico sulla possibilità che i dati quantitativi rappresentino la realtà
14
sociale dei fenomeni migratori, ritengo che essi possano darci talvolta un'idea dell'ordine di grandezza di ciò di cui stiamo parlando. Così, per esempio, mentre le statistiche sulla criminalità dei migranti esprimono più che altro l’attenzione delle istituzioni repressive verso i migranti, altri dati, in particolare quelli relativi all’ordine di grandezza dei flussi migratori, possono essere utili per smontare i luoghi comuni sulle “invasioni”. Un discorso abbastanza diverso vale per i dati qualitativi. Quanto possiamo sapere dei fenomeni migratori deriva, oltre che dalle statistiche, dalla letteratura secondaria, dalla stampa e in generale dai media, nonché, quando è possibile, dalla viva voce degli interessati, attraverso
interviste dirette (ai migranti, ma anche ai cittadini nativi o nazionali che hanno a che fare con loro, ai funzionari pubblici eccetera). Ora, anche questi materiali sono costruiti socialmente e si prestano a diverse obiezioni metodologiche. La letteratura secondaria è ovviamente una fonte inesauribile di dati e soprattutto di suggerimenti teorici e analitici, una risorsa primaria per un ricercatore. Ma nelle scienze sociali, e soprattutto in un campo controverso come quello delle migrazioni, è soggetta alle distorsioni e ai pregiudizi dell’opinione pubblica dominante. Si pensi soltanto alla tendenza, oggi molto diffusa, a “etnicizzare” qualsiasi tipo di conflitto o problema sociale, a parlare di etnie, se non di razze, laddove si dovrebbe parlare soltanto di individui
che interagiscono tra loro e con la società. La “letteratura” ci costringe pertanto a un lavoro incessante di critica e di riflessione sulle categorie e sulle retoriche di fondo che talvolta le scienze sociali derivano acriticamente dall’opinione pubblica. Un problema specifico è costituito dall’analisi dei media. Questi formano, soprattutto oggi, la nostra vera Urzwelt, la “pelle” del mondo sociale. Le informazioni scritte o audiovisuali sono un materiale inestimabile per descrivere “ciò che sta accadendo”. Al tempo stesso sono il luogo in cui il “senso comune” viene raccolto, filtrato, ripro-
dotto e trasformato in versione oggettiva della realtà. Canali privilegiati, e insieme deformati, della conoscenza dei fenomeni sociali 17 pro-
gress, i media rendono necessari controlli continui. Il solo modo per utilizzare questi materiali senza farsi catturare dalle loro retoriche, so-
cialmente costruite, è inquadrarli ogni volta nei loro contesti di produzione e di significazione. Così, un articolo di giornale sull’aggressione a un migrante ci dice qualcosa a proposito di “razzismo” e di “xenofobia”, mentre il fatto che nello stesso articolo il poliziotto intervistato o il giornalista escluda la matrice razzista dell’aggressione ci dice ancora di più sulla censura sociale da cui i migranti sono colpiti. 15
Una parte non trascurabile dei materiali empirici utilizzati in questo libro è costituita da articoli di quotidiani e periodici, trascrizioni di trasmissioni televisive e reperti iconografici (volantini, vignette, fotografie). È quasi superfluo aggiungere che questi materiali, pescati nel mare delle informazioni quotidiane, sono il risultato di una scelta e di un montaggio soggettivo da parte di chi scrive. Non so se il lettore proverà il mio stesso sgomento davanti ai documenti qui presentati. Seguire l’informazione quotidiana sull’immigrazione è stato per me un viaggio nel grottesco, nel piccolo orrore quotidiano. Forse queste sensazioni, come la cernita del materiale, sono esclusivamente soggettive.
Ma posso assicurare il lettore che il materiale è ben poca cosa rispetto a ciò che sembra montare nei recessi del senso comune politico, mediale e locale. Se ho riportato un campionario di falsità e di razzismi quotidiani (insieme, ovviamente, a cronache o prese di posizione equi-
librate) non è per amore delle tinte forti, ma perché, semplicemente, il campionario mi è parso rappresentativo, oltre che eloquente. È possibile che qualche appassionato di statistiche o di analisi quantitativa del contenuto rimanga deluso dal mio uso assai parco delle percentuali. Mi è sembrato comunque che un titolo in prima pagina come “CHI FERMERÀ L'INVASIONE EXTRACOMUNITARIA?” 0 “CONFESSA L’UOMO-LUPO MACEDONE?” ci dica qualcosa che nessuna percentuale o tabella può catturare.” Le interviste e le storie di vita sono lo strumento privilegiato di ogni analisi qualitativa della realtà. Esse costituiscono il solo accesso alla voce di chi per definizione è escluso dal discorso pubblico: gli attori quotidiani (e ciò vale a maggior ragione per attori “illegittimi”, marginali o esclusi come i migranti). Tuttavia, non possono che avere
un valore esemplare. Exerzpla, quindi, anche se significativi, più che rappresentazioni oggettive di fatti, esperienze o esistenze. La qualità sociologica delle interviste dipende da fattori soggettivi come la disponibilità degli intervistati e la capacità o l’esperienza degli intervistatori. D'altra parte, dobbiamo ammettere che è praticamente impossibile disporre di un metodo uniforme di conduzione e trascrizione delle interviste. Soprattutto, anche quando riproducono più o meno fedelmente i resoconti degli attori sociali, esse documentano l’elaborazione di punti di vista soggettivi, sono finestre su esperienze eterogenee che risentono per definizione del momento e del luogo dell’intervista. Tuttavia, costituiscono uno strumento inestimabile di documenta-
zione, di approfondimento e di verifica. Ciò vale sia per le testimonianze dei protagonisti (gli stranieri come i cittadini) sia per le “testimonianze privilegiate” degli esperti, degli attori incaricati di specifici 16
compiti pratici e sociali. Per questo motivo trovano qui ampio spazio interviste a poliziotti, magistrati, avvocati, operatori sociali e testimoni
di vario tipo: anche se soggettivi, i loro resoconti ci descrivono le pratiche istituzionali che spesso sono occultate nella divisione specializzata del lavoro sociale, soggette alla segretezza — spesso non intenzionale ma inevitabile — dei mondi plurali di una società complessa.” Per motivi più che evidenti, i nomi e le qualifiche degli intervistati non sono riportati (con l’eccezione di pochi casi, su espressa autorizzazione degli intervistati). Non ho adottato alcun sistema particolare di trascrizione, limitandomi a rispettare il più possibile il parlato e ad introdurre la punteggiatura e i capoversi per rendere più agevole la lettura. Quando mi è sembrato opportuno, ho fatto ricorso a testimonianze
scritte dei migranti (biografie pubblicate eccetera). Più ancora che nel caso delle interviste, la cautela nell’uso di questa documentazione è d'obbligo. Una volta di più, l’uso e il montaggio dei materiali qualitativi sono il frutto di una scelta soggettiva, che può giustificarsi solo nell’argomentazione e nell'economia complessiva del libro. Un’avvertenza terminologica. Definizioni di uso corrente come “immigrati”, per non parlare del neologismo pseudogiuridico “extracomunitari” o del generico “stranieri”, non possono definire la complessa condizione dei migranti nel Nord ricco del mondo e anche in Italia. Un “immigrato” è certamente uno straniero non appartenente alla Comunità europea, ma è anche e soprattutto un cittadino in cerca di occupazione che proviene da paesi subordinati nella divisione internazionale, economica e politica, del lavoro. I termini “immigrato” e
“immigrazione”, oltretutto, comportano la legittimazione scientifica del punto di vista, cioè del senso comune, delle società di destinazione
dei migranti. Tuttavia, i due termini, proprio perché categorie di senso comune, rimandano all'immagine che il nostro mondo si fa dei migranti. In questo saggio userò perciò il termine “migranti” per descrivere la condizione dei soggetti che abbandonano il loro spazio nazionale e il termine “immigrati” per riferirmi al modo in cui le nostre società ricche li trattano e li etichettano. Analogamente, non ricorrerò all’espressione “società d’accoglienza”, ma a “società di destinazione”,
che mi sembra meno ipocrita (gli albanesi internati nello stadio di Bari nell’agosto 1991 e gli altri oggi rinchiusi nei “campi di permanenza temporanea” avrebbero qualcosa da dire sull’accoglienza loro riservata). Non si tratta di scrupoli dettati dalla political correctness, ma di elementari cautele linguistiche necessarie per prendere le distanze da una langue de bois che domina in materia di migrazioni. Spesso le polemiche contro gli eccessi della polzcal correctness nascondono la voCi
lontà di discriminare, a partire dal linguaggio, i soggetti sociali più deboli o indifesi.?° Dedico infine questo lavoro ai suoi veri protagonisti, espliciti e impliciti: gli stranieri che sono trattati come “non-persone” quando cercano di vivere in altre società, e che si sforzano non di meno di vivere come persone. E poi a tutti coloro, come Dragan, amico di un'estate
lontana, che disertano dalle guerre “etniche”, e non accettano di farsi condizionare dal razzismo e dalla stupidità nazionalistica. Essi potrebbero dire, parafrasando il dr. Johnson: “Il nazionalismo è l’ultimo rifugio dei furfanti”.
Note 1
Comecercherò di mostrare in seguito, i diversi miti elaborati sui migranti (l’“invasione”, “la criminalità” eccetera) hanno funzioni pratiche e simboliche precise e ricostruibili. La teoria sociologica offre numerose indicazioni a questo proposito. Cfr. D. Bell, Violenza e politica, Comunità, Milano 1964, uno studio pionieristico
sulla costruzione sociale delle “ondate” di criminalità. Cfr. anche S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics, MacGibbon and Kee, London 1972. Ma si veda anche A.
Dal Lago, a cura di, Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa & Nolan, Genova 1997.
2.
Da questo punto di vista, sono esemplari gli accordi che l’Italia stipula o tenta di stipulare con regimi autoritari come la Tunisia o il Marocco. All’inizio di agosto del 1998, il governo italiano concede alla Tunisia un pugno di miliardi per liberarsi di
3.
Sulla carta alcuni diritti sociali vengono concessi dalla legge sull’immigrazione approvata nel febbraio 1998. Per un'analisi dettagliata cfr. qui il primo capitolo.
4.
Perl’analisi della condizione giuridica degli stranieri prima del decreto Dini, cfr. B. Nascimbene, Lo strarzero nel diritto italiano, Giuffré, Milano 1988 e Id., La legge e oltre la legge, in L. Balbo e L. Manconi, a cura di, I razzismzi possibili, Feltrinelli, Milano 1990 (con testi di M. Forti e B. Nascimbene).
5
Ilsignificato politico del decreto e le sue conseguenze pratiche vengono discussi nel primo capitolo di questo libro. Si veda comunque A. Dal Lago, Ur test d’intelligenza per gli italiani, “Micromega”, 5, 1995.
6
Cfr. il testo del disegno di legge Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizio: ne dello straniero, pubblicato in “il Sole 24 Ore”, 20 febbraio 1998.
7.
Sul ruolo degli intellettuali cfr. E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali è il potere, Feltrinelli, Milano 1995. Ma la questione dell’allineamento di gran parte degli intellettuali italiani non si limita all’immigrazione. Legge, ordine e lotta contro la mi-
1200 migranti.
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crocriminalità sono diventati cavalli di battaglia di professori universitari, filosofi e moralisti sulla grande stampa. Per un inquadramento di queste tendenze cfr. la mia Introduzione, in M. Foucault, Poteri, saperi, strategie (Archivio Foucault, vol. m),
Feltrinelli, Milano 1997. Negli ultimi anni, in Italia, l’universalismo giuridico e politico è stato progressivamente delegittimato, e non solo dalle forze politiche di destra. Ciò è del tutto compatibile con quella riscoperta o reinvenzione di una cultura nazionale che oggi viene opposta anche al diritto dei migranti. Un istruttivo manifesto del neonazionalismo italiano è E. Galli della Loggia, La wz0rte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996. Per una differente posizione, che rivendica il ruolo della cultura antifascista nella ricostruzione della nazione-Italia, cfr. G.E. Rusconi, Patria e repubblica, il Mulino, Bologna 1997. Per uno sguardo d’assieme sul risveglio dei nazionalismi in Europa, cfr. E. Nguyen, Les Nationalismes en Europe. Quéte d'Identité ou tentation de repli, Le Monde-Marabout, Paris 1998. G. Noiriel, La Tyrannie du national. Le droit d’asyle in Europe 1793-1993, Calmann-Lévy, Paris 1994, ricostruisce le vicende che, dall’inizio di questo secolo, hanno portato alla negazione sostanziale del diritto d’asilo in Occidente. 10 Mi riferisco qui alla definizione di condizione umana proposta da Hannah Arendt in La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987 e in Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1988. Hannah Arendt offre ancora oggi spunti interessanti
sulla condizione dello straniero e sul nesso migrazioni-cittadinanza. Cfr. anche H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1992? (soprattutto la Parte seconda).
il Parlo naturalmente della cultura liberale in Italia. Altrove le posizioni liberali sono
più problematiche. Cfr. R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coestone sociale e libertà politica, Laterza, Roma-Bari 1995 e Id., Diari europei, La-
terza, Roma-Bari 1996. 12 Sia organizzazioni del volontariato cattolico come la Caritas, sia altre associazioni
laiche e cattoliche (per l’assistenza o la difesa dei migranti o il rispetto dei diritti umani) si sono dimostrate eccezioni significative nel panorama piuttosto fosco cui sto alludendo. Ma per motivi che dovrebbero risultare chiari in questo libro, la loro influenza pubblica è infinitamente meno efficace delle istituzioni e delle agenzie politico-mediali. 13 Limitate sia in sé sia rispetto ad altri paesi europei. Non dimentichiamo che la per-
centuale degli immigrati presenti oggi in Italia (circa il 2% della popolazione residente) è una delle più basse in Europa. 14 Valga per tutti S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa, Marsilio, Venezia 1996, in cui si tenta di dimostrare, a partire da una ricostruzione del
sentimento patrio nelle trincee francesi della Prima guerra mondiale, la necessità della patria come antidoto alla disgregazione degli stati nazionali e agli effetti perversi della “mondializzazione”. Non è un caso che anche questa perorazione in favore della patria finisca con la questione strategica dell’immigrazione, concepita al solito come minaccia. Da parte sua, M. Viroli (Per azzore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1996) contrappone al “nazionali smo” il “patriottismo”, inteso come “amore” per la libertà e le istituzioni in cui la
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libertà si incarna (si veda anche per una sintesi di queste posizioni M. Viroli, I/ patriottismo possibile, in A. Burgio e D. Losurdo, a cura di, Autore, attore, identità,
QuattroVenti, Urbino 1996, pp. 13-26). Qui mi limito a notare che una conseguenza ovvia di questa posizione (che ha come fondamenti le citazioni di alcuni classici del pensiero politico) è che se uno non ama la “patria” non ama la libertà, e quindi, suppongo, è un nemico delle sue istituzioni. Alla fine di questo processo di reinvenzione della patria c'è sempre l’immagine dello “straniero”, visto questa volta come nemico della “libertà”; esiste infatti una sorta di “xenofobia” democratica e
di sinistra, secondo cui gli immigrati non sono preparati a gustare, come noi, il frutto squisito della democrazia. Alcuni esempi di questo atteggiamento saranno discussi in dettaglio più avanti. 15 Tentativi, non privi di ambiguità e di ammiccamenti localistici, di discutere il nuovo localismo italiano sono due recenti saggi di A. Bonomi, Il trionfo della moltitudi-
ne. Forme e conflitti della società che viene, Bollati Boringhieri, Torino 1996 e I/ capitalismo molecolare. La società al lavoro del Nord Italia, Einaudi, Torino 1997. Sull’identificazione della società con la nazione come esempio di decadenza del pensiero politico e sociale, cfr. N. Elias, Introduzione, in La civiltà delle buone maniere,
il Mulino, Bologna 1982. 16 Cfr. W. Schiffauer, Frewzde in der Stadt. Zebn Essays iber Kultur und Differenz,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, che tratta un tema analogo a quello del mio e di cui condivido l’impianto teorico. Me ne differenzio, in quanto non limito il problema della costruzione dell’inimicizia ai conflitti metropolitani. dai Diversamente da un certo senso comune sociologico, intendo qui con “identità” esclusivamente il processo di costruzione sociale della definizione del “noi”, co-
munque determinata. Identità, dunque, costruite, inventate intenzionalmente o no, agitate o rivendicate, ma in nessun caso appannaggio naturale di qualche gruppo. Sono perciò d’accordo con E.J. Hobsbawm (Nazioni e nazionalismi dal 1870. Pro-
gramma, mito, realtà, Einaudi, Torino 1991) e B. Anderson (Comunità immaginate.
Origini e diffusione del nazionalismo, manifestolibri, Roma 1996) quando si riferiscono alla “comunità” o alla “nazione” come a costruzioni storico-sociali contingenti. Da parte sua, M. Berezin (Eractng political Identity: Public Rituals as Arenas of the National Self, Istituto Universitario Europeo, Firenze 1998) analizza il carat-
tere di rituale pubblico della costruzione delle identità collettive. D'altra parte già M. Weber (in Economzia e società, Comunità, Milano 1968, I, p. 405) notava come il concetto di nazione sia un’idea “vaga”, ovvero un guscio che si può riempire con i contenuti più vari. Tuttavia, ciò non esclude che queste identità proiettive divengano efficaci. La storia culturale della Lega, prima “lombarda”, poi del “nord”, poi “padana”, mostra ampiamente il carattere costruito e al tempo stesso l’efficacia di queste nuove rivendicazioni di identità. Per una discussione del carattere convenzionale del concetto di identità nella ricerca storica cfr. E.J. Hobsbawm, De Historia, Rizzoli, Milano 1997. Per le scienze sociali e l'antropologia, cfr. U. Fabietti, L’?-
dentità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995. Sulla costruzione delle mitologie nazionali vedi anche G. Noiriel, La Tyrannie du national, cit., passim.
18 Quando dico che l’inimicizia è simbolica e socialmente costruita, intendo che l’esi-
stenza del nemico è qualcosa che eccede la razionalità convenzionale dell’azione sociale (convenzionale almeno per i teorici razionalisti). Punti di riferimento essen-
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ziali sono per me la teoria foucaultiana del “razzismo di stato” (M. Foucault, “Difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998) e gli scritti di Bourdieu sulla logica simbolica e sociale dell’esclusione, cfr. in particolare P. Bourdieu, a cura di, La 7772-
sère du monde, Seuil, Paris 1993. 16, Sulla formazione di un senso comune ossessionato dalla sicurezza, cfr. S. Palidda,
Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo/Ismu, Milano 1994. Per un'eccellente discussione di questi aspetti nella teoria sociale, cfr. F. Brion,
Contròle de l’immigration, crime et discrimination. Essai de criminologie réflexive è propos des propriétés et des usages politiques du crime, et de la science qui le prend pour objet, tesi di dottorato in Criminologia, Università cattolica di Lovanio 1995. Cfr. anche i testi raccolti in S. Palidda, a cura di, Délit d’immigration. La construction sociale de la deviance et de la criminalité parmi les immigrés, Cost A2/Migrations, Bruxelles 1996. 20
A. Sayad, L'immigration ou le paradoxe de l’alterité, De Boeck-Wesmael, Bruxelles 1990,
21 22
23
A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, “aut aut”,
275,1996, p. 10.
È stato giustamente notato che la stessa scienza che non ha saputo predire il declino demografico dell’Italia “prevede” instancabilmente la sua invasione da parte dei poveri del Terzo mondo. Sul significato di queste retoriche irresponsabili, cfr. S. Palidda, Verso il “Fascismo democratico”? Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, in “aut aut”, 275, 1996, pp. 143-168. E. Noelle-Neuman, Die Schweigespirale. Offentliche Meinung — Unsere soziale Haut, Piper, Munchen 1980.
24
Naturalmente, la capacità di catturare questi significati è soggettiva e non è esposta da alcun manuale di sociologia. Posso dire soltanto che mi sono ispirato all’impostazione metodologica delle opere di E. Goffman, e in particolare a Frame Analysis. An Essay on the Social Organization of Experience, Penguin, Harmondsworth 1975 e Gender Advertisement, Macmillan, London 1979.
25
Penso al capitolo sul “segreto” di G. Simmel, Sociologia, Comunità, Milano 1989.
26
Su alcune questioni terminologiche e concettuali preliminari all’analisi delle migrazioni contemporanee, cfr. A. Dal Lago, I nostri riti quotidiani. Prospettive nell’analisi della cultura, Genova, Costa & Nolan 1995. Per una critica della mitologia della
political correctness, cfr. F. Baroncelli, I/ razzismo è una gaffe. Eccessi e virtà del “politically correct”, Donzelli, Roma 1996.
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Nemici della società Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi, che vi costringe a sloggiare le fantesche, che non si sa quali intenzioni abbia...
(E Kafka, I/ castello)
Di fronte ai migranti Nell’estate del 1967, dopo la rivolta del ghetto nero di Detroit, esponente del movimento americano per i diritti civili osservò, con timismo forse eccessivo, che “l’uomo nero è un test d’intelligenza l’uomo bianco”. In quell'epoca si sperava ancora che gli abitanti ghetti si integrassero nella great society di Kennedy e Johnson. A
un otper dei di-
stanza di quasi trent'anni, le tensioni culminate nella sommossa
di
South Central Los Angeles, il revanscismo contro i neri, le campagne contro i migranti e la sistematica demolizione dei programmi governativi in favore delle minoranze hanno dissolto la speranza che l’uomo 25
bianco americano abbia superato il test. Tuttavia, limitare queste considerazioni agli Stati Uniti sarebbe ingiusto e provinciale. Anche in casa nostra, in Europa e in Italia, se sostituiamo all’“uomo nero” stranie-
ri, migranti e profughi, gli uomini bianchi si sono dimostrati ampiamente impreparati davanti alla prova. Nel corso degli anni novanta, i governi dei paesi di vecchia immigrazione (Francia, Germania, Inghilterra) adottano politiche sempre più restrittive verso migranti e profughi. Nel 1993 il governo tedesco abolisce di fatto il diritto di asilo, che nel dopoguerra aveva reso la Germania uno dei paesi europei meno chiusi agli stranieri (anche se nella Repubblica federale tedesca migranti e profughi sono sempre stati “ospiti” privi di diritti politici e soprattutto della possibilità di ottenere la cittadinanza).? Di conseguenza, decine di migliaia di stranieri vengono rinviati nei paesi di origine e più di 400.000 respinti alle frontiere.' Il governo tedesco si accorda con i governi di Romania, Polonia e Ucraina per la detenzione dei migranti (che può durare anche mesi in assenza di qualsiasi controllo degli organismi internazionali) in campi di raccolta allestiti sia all’interno sia all’esterno del territorio tedesco.’ Anche il governo inglese riduce drasticamente il diritto d’asilo e chiude migliaia di stranieri in centri di internamento, mentre altre migliaia vivono in clandestinità, in attesa che le loro domande d'’asilo siano accolte. In Francia, la legge Pasqua del 1994 riduce il diritto di cittadinanza per i figli dei migranti. La guerra contro l'immigrazione dell'estate 1996, voluta dal governo Chirac-Juppé, e culminata nell’espulsione dei rifugiati nella chiesa di Saint Bernard a Parigi, non ha risparmiato gli stranieri regolarizzati. La proposta di legge Debré dell’inizio del 1997 prevedeva, tra l’altro, l'obbligo per i cittadini francesi di denunciare i loro ospiti privi di permesso di soggiorno, una misura apertamente totalitaria (in quanto promuoveva la delazione generalizzata), lasciata cadere dopo la mobilitazione di intellettuali e artisti del febbraio 1997.’ Nell'aprile del 1998, il governo socialista di Jospin vara una legge sull’immigrazione che ribadisce sostanzialmente la linea dura contro i clandestini, in accordo con una politica del filo spinato oggi comune a tutti i paesi europei.È
Un'illustrazione eloquente della chiusura dell'Europa nei confronti degli stranieri è costituita dalle politiche migratorie dei paesi di nuova immigrazione, Spagna? e Italia, che rivestono, insieme alla Grecia, il ruolo di sentinelle del “limes” meridionale della “fortezza Europa” codificato dagli accordi di Schengen.'° Nella primavera del 1996, il governo spagnolo si trova in grande imbarazzo quando lo stampa rivela che i clandestini, marocchini e tunisini, venivano narcotizzati prima di 24
essere espulsi. La chiusura delle frontiere ai migranti è indubbiamente una condizione per l'accettazione dei paesi meridionali d'Europa nel club europeo, dominato politicamente e finanziariamente da Francia e Germania." Tuttavia, l'incapacità italiana di affrontare positivamente i
fenomeni migratori è di vecchia data. Nel corso degli anni ottanta, l’afflusso di poche centinaia di migliaia di migranti non suscita in Italia alcuna strategia di inserimento sociale, ma iniziative legislative sporadiche e frettolose. Nessun provvedimento efficace è stato adottato per facilitare l'integrazione sociale degli stranieri sul piano delle politiche lavorative e professionali, dell’abitazione, della salute, della scuola e della cultura. All’inizio degli anni novanta, la sostanziale indifferenza delle istituzioni e della società italiana lascia il posto a un’ostilità, simbolica e ma-
teriale, sempre più decisa — una reazione rafforzata da provvedimenti di ordine pubblico spettacolari che hanno legittimato una cultura dell'emergenza e della chiusura verso gli stranieri: nell’estate del 1991, il rimpatrio di alcune centinaia di albanesi, cui erano stati promessi permesso di soggiorno e lavoro; nel 1995, l’invio di una brigata dell’esercito sulle coste pugliesi per bloccare i clandestini; nel marzo 1997, la decisione di fermare i profughi istituendo il blocco navale delle coste italiane e l’invio di alcune migliaia di militari a presidiare l Albania. Il blocco viene adottato al culmine di una campagna di isteria collettiva contro il pericolo albanese, una campagna alimentata dai partiti di destra (specialmente dalla Lega), sostenuta da gran parte della stampa nazionale e legittimata di fatto dal governo di centro-sinistra, nonostante l’arrivo di poco più di 15.000 albanesi non abbia provocato alcun vero problema di ordine pubblico. L’affondamento di un battello albanese stipato di donne e bambini, scontratosi con un'unità della marina militare italiana nella notte del 28 marzo 1997, suggella la politica dell’Italia verso stranieri e profughi." Dall'inizio degli anni novanta, i migranti sono divenuti per l’opinione pubblica italiana le cause della crisi sociale e delle paure collettive che hanno segnato la fine della cosiddetta Prima repubblica. Se a metà degli anni ottanta i sondaggi segnalavano una generale indifferenza (o ignoranza) nei confronti dei fenomeni migratori, dall’inizio degli anni novanta indicano atteggiamenti diffusi di repulsione, se non di vera e propria xenofobia. Un sondaggio di qualche tempo fa tra gli elettori dei principali partiti e movimenti politici dell’Italia settentrionale mostra la percezione “politica” dell’immigrazione nella zona del paese in cui si sta sviluppando il neonazionalismo della Lega nord:
Tabella 1 Opinioni sugli immigrati e voto (%) Simp.
Troppi immigrati disturbano
Lega
Lega
An
Fi
Ppi
Pds
66:00
0981
5816
4731963
70.7 60,5
669 63,1 584 410 Ad 52,6 54,7 435. 32,8 26,3
012556
Gli immigrati fanno aumentare la delinquenza Gli immigrati dovrebbero andarsene
Fonte: Sondaggi Abacus 1996"
Analisi comparative dell’atteggiamento degli europei nei confronti dei migranti mostrano che in Italia la repulsione si è diffusa. Se nel 1988 solo il 34% degli intervistati riteneva che “ci fossero troppi immigrati”, cinque anni dopo la percentuale era passata al 64%, la più elevata in Europa. Contemporaneamente, l’indice di etnocentrismo che nel 1988 era il più basso d'Europa (1,51 in una scala da 0 a 5), nel 1992 diventa 2,75, permettendo all'Italia di raggiungere il gruppo di testa.” L'ostilità crescente di una parte dell’opinione pubblica italiana verso gli immigrati è stata alimentata e in parte creata da partiti e movimenti di destra capaci di sfruttare le ansie urbane e soprattutto la nuova richiesta di sicurezza di minoranze di cittadini, in prevalenza nel nord del paese. Da parte loro, le forze politiche di centro e di sinistra non hanno contrastato l’ostilità verso gli stranieri, migranti, nomadi o profughi che fossero. Anzi: hanno preferito per lo più assumerla come un dato di fatto indiscutibile e rivelatore delle correnti profonde dell’opinione pubblica e dei suoi umori elettorali. Il cedimento progressivo al panico verso l'immigrazione (un processo reso più acuto dalla vittoria delle destre nelle elezioni del marzo 1994) ha conosciuto due tappe decisive: il decreto Dini del novembre 1995 (che, indipendentemente dalle sue conseguenze pratiche, ha avuto l’effetto di stigmatizzare simbolicamente i migranti come “problema sociale” e soprattutto come nemici, reali o virtuali, da cui la società italiana deve essere protetta) e la legge Turco-Napolitano, del febbraio 1998. Il decreto Dini veniva votato dalla destra e anche da gran parte del centro-sinistra come “male minore” rispetto alle proposte della Lega nord, esplicitamente xenofobe. In realtà si trattava di una misura con limitate conseguenze pratiche (se si esclude il silenzio sul lavoro degli ambulanti, che ha consegnato all’irregolarità decine di migliaia di immigrati). Entro la scadenza del 31 marzo 1996, fissata dal decreto, venivano presentate 26
circa 250.000 domande di regolarizzazione," mentre le espulsioni non erano eseguite per motivi essenzialmente finanziari e per la mancanza di norme che obbligassero le compagnie aeree e di navigazione a farsi carico dei rimpatri. Tuttavia, il decreto Dini ha raggiunto obiettivi politici molto più importanti di quelli previsti dai suoi articoli: da una parte ha sancito'il principio della chiusura delle frontiere e delle espulsioni come risposte all’“emergenza”; dall’altra ha funzionato come banco di prova per una larga intesa tra destra e centro-sinistra in materia di immigrazione, in
nome 1996, della zioni viene
dell’interesse nazionale. Dopo il successo elettorale nell’aprile il governo di centro-sinistra promette un riesame complessivo questione e una legge organica che, infatti, dopo alcune reiteradel decreto Dini e un’elaborazione lunga e soprattutto segreta, presentata nel febbraio 1997 da due ministri del governo Prodi, Livia Turco e Giorgio Napolitano. La proposta di legge è certamente più meditata del decreto Dini, ma ne conferma lo spirito, anche se prevede una serie di misure innovative! di integrazione e di parificazione formale tra stranieri regolari e italiani (tra cui l'elettorato attivo e passivo nelle amministrazioni locali, la possibilità per i regolarizzati di usufruire di assistenza sanitaria, di chiedere l'assegnazione di alloggi popolari, l'obbligo scolastico per i minori). Queste misure presuppongono però non solo le restrizioni degli ingressi (quote, lavoro stagionale, concessione del permesso di lavoro in base a una garanzia fornita da un datore di lavoro italiano), ma un percorso di regolarizzazione tortuoso e ai limiti del sadismo. Ai turisti “poveri” viene concesso un visto di 3 mesi, ai lavoratori stagionali uno di 6 (che può raggiungere in determinati casi i 9 mesi), agli studenti un anno di soggiorno legale, ai migranti con un lavoro garantito un soggiorno di due anni e infine, a quelli che abbiano dimostrato di essere regolari, una carta di soggiorno dopo 6 anni di buona condotta.!* Ma, nella sostanza, la legge Turco-Napolitano riconferma e razionalizza la logica della chiusura perché introduce l’espulsione dei sospetti o dei soggetti socialmente pericolosi e soprattutto l’istituzione di campi di detenzione per gli stranieri in attesa di espulsione." Per qualche mese dopo la sua diffusione, la proposta di legge Turco-Napolitano sembra giacere tra le pratiche inevase del governo Prodi. Improvvisamente, nell’agosto 1997, due o tre fatti di cronaca nera di cui sono protagonisti alcuni stranieri — episodi quantitativamente irrisori nel quadro dei normali misfatti che riempiono le cronache estive — sono l’occasione per una campagna di allarme e di panico che non ha precedenti nella storia italiana. Due stupri compiuti ZI
da “clandestini” sulla riviera romagnola, e successivamente 4 omicidio confessato da un pastore di nazionalità macedone, accendono dapprima le polveri della stampa xenofoba e di destra (ma anche la stampa indipendente non lesina titoli a effetto e generalizzazioni infamanti) e poi l'iniziativa della Lega nord, che mobilita le proprie ronde a caccia di ambulanti senegalesi e di albanesi. La destra moderata o nazionale si unisce al coro fino al punto che tutto il sistema politicomediale inventa, letteralmente, una crisi-immigrazione priva di fondamenti. Partiti e movimenti padani e nazionali propongono soluzioni per la “crisi” che vanno dalla forca alla pena di morte per gli “stranieri assassini” e ai lager per i clandestini. Alcuni sindaci di sinistra della Riviera romagnola propongono l’istituzione, oltre che dei soliti campi, di passaporti “regionali” e di altre amenità legali. E in questo clima surreale che, nell’agosto del 1997, il governo decide di accelerare le procedure di approvazione della legge Turco-Napolitano sull'immigrazione. La legge viene approvata dai due rami del Parlamento tra febbraio e marzo 1998. Nel suo cammino legislativo, ha perso alcuni aspetti timidamente favorevoli agli immigrati. L'articolo sul diritto di voto amministrativo viene eliminato, per l'opposizione della destra. La parte sulla lotta contro l'immigrazione clandestina, sulle espulsioni e sui centri di detenzione rappresenta quasi metà del testo, rivelando così la linea del governo, in accordo con la tendenza alla chiusura delle frontiere dominante in Europa. Come in precedenza il decreto Dini, anche questo nuovo provvedimento sembra avere, nei mesi successivi alla sua approvazione, limitate conseguenze pratiche. Ma si tratta di un'impressione errata. Senza troppo rumore i campi vengono allestiti in Puglia, in Sicilia, a Trieste e in altre località “critiche”. Che cosa sia-
no in realtà viene dimostrato tra luglio e agosto 1998, quando ad Agrigento e Caltanissetta alcune decine di “clandestini” si ribellano alle condizioni disumane in cui sono costretti. Senza aver commesso alcun reato, sono tenuti a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a vista dalla polizia, che interviene con violenza al minimo segno di protesta. Perfino la stampa, che inizialmente parlava di “campi di accoglienza” comincia a chiamare i campi per quello che sono, campi di concentramento o lager. In complesso, questa politica di negazione ‘dei diritti umani non sembra suscitare grandi proteste, nemmeno a sinistra.” L'opposizione agli aspetti più repressivi del provvedimento è stata complessivamente debole, come se associazioni
e movimenti favorevoli agli immigrati non avessero voluto contrastare il governo “amico”.» 21 28
L'’emergenza immigrazione” e le sue vittime Mentre il sistema politico italiano escogitava, sull'onda delle emergenze politico-mediali, misure legislative essenzialmente repressive, l’ostilità verso gli stranieri, nella sostanziale indifferenza dei media, si è manifestata in forme diffuse e capillari di razzismo. Periodicamente, nei cosiddetti quartieri “a rischio” di alcune città del nord (Torino, Mila-
no, Genova e altre minori), i cittadini si mobilitano contro zingari” e “immigrati delinquenti”, e tentano di dar vita a ronde, il cui scopo è allontanare non tanto e non solo spacciatori e ladri, ma i “disturbatori”, cioè stranieri che infastidiscono le cittadinanze per il loro aspetto, per il loro comportamento non conforme alle abitudini degli abitanti o semplicemente per la loro presenza.” Soprattutto, le cronache hanno registrato negli ultimi anni un gran numero di aggressioni ai danni di stranieri. Una lista accurata delle uccisioni, delle aggressioni e dei pestaggi più frequenti (di rappresentanti delle associazioni islamiche, di zingari, di ambulanti e lavavetri) occuperebbe diverse pagine. Solo per avere un’idea della dimensione del fenomeno, si può ricordare che nel solo 1995 sono stati accertati 301 casi di aggressioni contro stranieri.” I dati relativi al 1996 sono ancora più rilevanti. Secondo una ricerca condotta dall'Università di Roma, le aggressioni riportate dalla stampa sarebbero 374, di cui 68 mortali (durante la presentazione della ricerca, il ministro degli interni Napolitano ammette che gli stranieri uccisi sarebbero 111,” e che probabilmente diversi altri casi sono rimasti sconosciuti). Spesso, aggressioni e omicidi vengono minimizzati o ignorati dalla stampa, ciò che rende difficile una valutazione esatta degli episodi di razzismo. Si direbbe che, quando muore un immigrato, scatti una sorta di censura preventiva e automatica, in base a cui gli omicidi vengono derubricati come “fatalità” o fatti di cronaca più o meno neutri e privi di significato. Ecco le cronache di tre morti di immigrati, due “accidentali” e una che
ha acquistato un certo rilievo solo per la figura insolita dell’omicida: MUORE TUNISINO AGGREDITO
Un tunisino, Habib Hammouda, di 37 anni, è morto per un arresto cardiaco nell’ospedale Garibaldi di Catania dove era stato ricoverato per le ferite riportate in un’aggressione — che gli ha causato un trauma cranico e un'emorragia cerebrale — subìta domenica scorsa a Punta Braccetto, in provincia di Ragusa. Hammouda, che lavorava come bracciante agricolo, è stato aggredito e malmenato da sconosciuti intorno alle 18 vicino a un bar dove l’uomo si era messo a fare il posteggiatore. Al pronto soccorso di DI
Punta Braccetto hanno scambiato il tunisino, che sanguinava dalla bocca, per un ubriaco, e non gli hanno prestato alcuna cura. Hammouda è stato poi trasportato nell’ospedale civile di Ragusa e da qui trasferito al Garibaldi dove è morto.” TRE ARRESTATI E POI LIBERATI PER LA MORTE DI UN IMMIGRATO
Torino — “Non volevamo fargli del male, lo abbiamo legato solo per immobilizzarlo. Mi aveva già ferito con un colpo di cacciavite ma mi faceva pena, si vedeva che era disperato”, dice Stefano Ghedini, uscendo dal carcere torinese di Le Vallette, dove con Antonio Lopes, 55 anni, era finito con l’accusa di omicidio preterintenzionale. E torna in libertà anche Maria Mattione, 42 anni, moglie di Ghedina, finita alle Nuove con la stessa accu-
sa. Tornano liberi tutti e tre ma resta il mistero della morte di N°Hammed Chmina, 54 anni, immigrato dal Marocco.
L’uomo era stato trovato mercoledì disteso sull’aia di una cascina. Aveva i polsi e le caviglie stretti da legacci. Più tardi è morto. Un linciaggio razzista? Al Pm Sandrelli è bastato ascoltare i racconti dei testimoni per capire che si trattava invece solo di una grande storia di disperazione. Oggi l’autopsia chiarirà il mistero.” IL FRATE UCCIDE L'AMANTE: “MI STAVA RICATTANDO” Bergamo — La morte di Aminata Harding, 25 anni, emigrata dalla Sierra Leone, residente ad Alzano Lombardo, sarebbe finita in un trafiletto di poche righe se non fosse che a strangolarla è stato un frate
Non è difficile immaginare, nonostante la scarsità di informazioni e di ricerche, in che misura l’ostilità verso gli stranieri si rifletta nelle pratiche quotidiane delle istituzioni repressive e giudiziarie. I pochi dati conosciuti indicano una discriminazione sostanziale degli stranieri indagati, fermati dalle forze di pubblica sicurezza o coinvolti in procedimenti penali (si pensi soltanto ai controlli di polizia e alle denunce per reati minori o tentativi di reato, che riguardano ormai soprattutto la popolazione straniera).? Numerosi episodi di brutalità delle forze di pubblica sicurezza verso gli stranieri sono stati segnalati in questi anni.” Una brutalità che di rado viene pubblicamente condannata e che, anzi, è indirettamente giustificata da alcuni organi di informazione con cronache faziose e ambigue. Ecco due resoconti di procedure illegittime di polizia: È successo un anno fa a un giovane albanese che per vivere puliva i vetri delle macchine presso un semaforo vicino alla mia abitazione. Ebbi così modo di conoscerlo e di scambiare di tanto in tanto qualche parola. Un giorno [...] si avvicinò un’automobile dei carabinieri che gli dissero di sali-
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re. Il giovane salì senza farselo ripete due volte. “Per paura non mi opposi”, mi raccontò poi. I carabinieri portarono il giovane alla centrale, lo fecero sedere in una sedia in mezzo a una stanza e iniziarono a picchiarlo e ancora a picchiarlo, senza permettergli di parlare e di dire solo: “Perché questo?”, e poi lo lasciarono andare.”
Chafik Azilag, 18 anni, immigrato senza fissa dimora, venne arrestato il 22 aprile nel centro storico di Genova mentre tentava di rubare una borsetta a una donna. Arrestato proprio sotto gli occhi di decine di scolari delle due quinte della scuola elementare “Daneo” [...]. I bambini, indignati e sconvolti dai metodi usati dalle forze dell’ordine (che credevano poliziotti mentre si è scoperto che si trattava di finanzieri), hanno inviato una lettera aperta al questore di Genova Antonio Pagnozzi e ai giornali per raccontare quello che avevano visto: “Quel marocchino prima è stato preso a calci e pugni da un poliziotto in borghese, poi ammanettato a una grata e colpito dagli uomini in divisa. Uno di questi lo ha picchiato anche dopo essere uscito da un panificio dove era andato a comprarsi una focaccia”. Il marocchino — si scoprirà successivamente — dopo le botte è stato portato al pronto soccorso dove i medici gli hanno diagnosticato ferite alla testa e al ginocchio, uno stato soporoso (forse era drogato) e una prognosi di 8 giorni. Una scena e metodi di polizia che qualcuno aveva sbrigativamente definito degni delle forze dell'ordine brasiliane o di Los Angeles.
I migranti sono iper-rappresentati nella popolazione carceraria
(una media del 27%, con picchi del 50% in alcune carceri circondariali), anche perché non possono usufruire di misure alternative alla detenzione, se privi di permesso di soggiorno. Come indicano alcune ricerche, la probabilità che gli stranieri denunciati siano condannati è 5 volte quella degli italiani; inoltre sono condannati con maggior severità per gli stessi reati.” La tendenza alla routinizzazione dei processi, implicita nel rito abbreviato e nel patteggiamento della pena, ha conseguenze ancora più gravi per gli stranieri, che già sono oggettivamente discriminati per la mancanza di risorse economiche, le difficoltà di comunicazione e la necessità di ricorrere alla difesa d’ufficio.”? Nelle testimonianze di alcuni magistrati, emerge una discriminazione “normale”, che non dipende tanto dalle scelte soggettive dei magistrati (una discrezionalità che pure esiste, soprattutto in materia di restrizione della libertà), quanto dall’esposizione degli stranieri a una macchina giudiziaria inadeguata e rigida: Ci siamo dimenticati del difensore che casca dal pero più di tutti gli altri, soprattutto in processi a carico di stranieri che vengono gestiti in modi professionalmente discutibili. La qualità della difesa è direttamente pro31
porzionata alla disponibilità economica del cliente, il cliente straniero che ha difficoltà linguistiche, e la nomina degli interpreti viene fatta quando proprio non ci si capisce. Il difensore non si attiva per rendere le cose più semplici [...]. Anni fa era stato disposto una sorta di quaderno informativo dei diritti del detenuto in varie lingue, ma non so se sia ancora distribuito a S. Vittore ed era una iniziativa della pretura di Milano. Certo che se si dice di guardare in biblioteca se si vuole, è meno utile che darlo in mano con le parti più utili evidenziate. Tra i presupposti per cui la misura cautelare viene applicata c'è il pericolo di fuga. Bisogna valutare fra tutte le misure possibili quale sia la più idonea e nei casi di stranieri senza dimora, senza documenti, senza legami la misura idonea diventa il carcere. E discriminante essere straniero non per una questione razziale ma perché ha una serie di elementi che sono quelli stessi che la parte di codice sulle misure cautelari consente di valutare ai fini dell’applicazione della misura. Se lo straniero ha un lavoro fisso o un domicilio certo le cose cambiano.”
Poi la cosa drammatica che concerne anche gli italiani ma essenzialmente gli stranieri, è l’impraticabilità di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, non perché sia l’unica adeguata ma perché le altre non sono praticamente eseguibili; nel senso che ci sono un sacco di reati dove si potrebbe dare gli arresti domiciliari o l'obbligo di dimora invece che il carcere,
ma non è possibile perché non c’è una dimora e non c’è un domicilio noto. Quindi in questo caso, anche sussistendo tutte le condizioni non posso dare altre misure perché non c'è la possibilità pratica, c'è l’impraticabilità in concreto di misure che pur sarebbero adeguate e molto spesso esiste una cultura, che io non condivido, per cui allo straniero non certamente identificato l’unica misura che spetta di diritto è il carcere. Come dire, basterebbe un day-hospital e invece devo metterlo in contenzione, capisce?”
Mi è capitato di andare in udienza. Era stato contestato il fatto che uno straniero aveva prodotto false documentazioni all'ufficio stranieri al fine del rilascio del permesso di soggiorno e mi è capitato di chiedere una pena che è stata disattesa dal pretore nel senso che ha applicato una pena più alta di quella chiesta da me motivandola in questo senso, che è un fenomeno che suscita un certo allarme sociale, che nell’ambito della discrezionalità del giudice sono fattori che possono essere tenuti in considerazione.
Nelle testimonianze di magistrati e avvocati e in quelle degli operatori carcerari (funzionari e guardie, oltre che volontari ed educatori) appare la consapevolezza che, a partire dai primi anni novanta, numerosi migranti, i quanto tali, hanno trovato nel carcere la destinazione inevitabile del loro percorso migratorio, indipendentemente dal fatto di aver commesso dei reati o dalla loro effettiva pericolosità sociale. Per illustrare questo aspetto scegliamo due brani di interviste, una a DE
un avvocato specializzato nella difesa degli stranieri e l’altra a un funzionario di un carcere del Nord Italia. Pur trovandosi in posizioni in un certo senso opposte rispetto agli stranieri in carcere, le loro osservazioni sulla penalizzazione degli stranieri sono concordanti. A un certo punto lo straniero è diventato oggettivamente criminale; su di lui si sono incentrati gli interessi dei vari organi di controllo; ogni organo di polizia (pubblica sicurezza, carabinieri, guardia di finanza, polizia municipale) si è attivato, a volte in competizione, più spesso ritagliandosi settori di competenza specifici nello scovare ogni possibile pratica illegale o comunque sospetta. Significativa a proposito è la criminalizzazione dell’ambulantato operata in particolare dalla guardia di finanza e dalla polizia municipale, così come mi pare significativo il controllo sistematico dei luoghi di ritrovo degli stranieri da parte della polizia e dei carabinieri. Questo mutamento di scenario è avvenuto in brevissimo tempo. Nel volgere di un attimo credo che un po’ tutti gli studi legali siano stati presi d’assalto dagli stranieri alle prese con un’infinità di problemi giudiziari. La stragrande maggioranza di questi non capiva letteralmente cosa stesse succedendo, nel senso che se una serie di attività come l’ambulantato, la ven-
dita di sigarette, la prostituzione, o il semplice dormire su una panchina o bere birra per la strada sono comportamenti che fino al giorno prima nessuno ha trovato criminali e di colpo vengono criminalizzati [...]. Quello che voglio dire è che a un certo punto l’essere immigrato, straniero, extracomunitario, ha cominciato a essere associato a un’idea di crimi-
nalità latente, che l'essere “straniero” e l'essere “deviante” in qualche modo coincideva e che pertanto questo legame andava scoperto e normato.” Intervistatore. Che tipo di evoluzione c’è stata all’inizio degli anni novanta nelle carceri? Risposta. A un certo punto è iniziata a modificarsi completamente la situazione. Un carcere come quello di *** ha finito con l’avere in alcuni momenti più detenuti stranieri che italiani, comunque anche nelle situazioni
non eccezionali la presenza straniera è intorno almeno al 50% della popolazione detenuta. Questo ovviamente ha comportato una serie di mutamenti radicali sia nel rapporto tra italiani e stranieri, sia nel rapporto tra agenti e detenuti stranieri. La prima cosa che va probabilmente detta è che il tipo di straniero che entra in carcere solitamente non è un criminale e questo, anche se può sembrare paradossale, diventa un problema, in quanto mentre il criminale è dentro un codice per cui parla un linguaggio dentro il quale il carcere gioca un suo ruolo definito, la detenzione di soggetti non criminali contribui-
sce a determinare un continuo malinteso che finisce con il diventare esasperante e fonte di conflitti permanenti. Voglio dire che dai primi anni novanta a oggi in carcere sono entrate e vi 35,
rimangono persone che difficilmente possono essere paragonate a quello che solitamente si immagina come detenuto, una persona cioè che vive in qualche modo deliberatamente fuori della legge. Le persone che solitamente entrano sono persone sostanzialmente sfigate, che in molti casi non si rendono neppure tanto bene conto di dove sono perché ci sono, a che cosa vanno incontro, dentro quale tipo di codice sono finiti, per cui la situazione all’interno del carcere è permanentemente esplosiva.‘
In altri termini, le cifre che indicano percentuali in crescita degli immigrati denunciati, condannati e incarcerati non rivelano una maggiore propensione alla delinquenza, ma una vera e propria “penalizzazione” degli stranieri.” D'altra parte, numerosi indizi fanno ritenere che suicidi e morti accidentali degli stranieri incarcerati siano da attribuire a pratiche discriminatorie capillari, favorite dalla cronica situazione di emergenza e di abbandono del sistema penitenziario in Italia.* Pratiche discriminatorie non solo attive e deliberate, ma effetto di
una scadente assistenza legale, della superficialità, del disinteresse e dell’indifferenza di funzionari, magistrati, avvocati e medici. Il carcere
si rivela come una sorta di buco nero, di discarica in cui gli stranieri detenuti occupano naturalmente il rango più basso, quello di deboli tra i deboli. L’accanimento nei loro confronti, come viene riferito dagli operatori giudiziari, non è dunque il frutto di qualche razzismo ideologico ma della logica per cui i deboli pagano più degli altri il funzionamento “normale” del meccanismo carcerario. Riportiamo di seguito una cronaca, che dà l’idea delle condizioni e della sorte degli stranieri incarcerati, e il brano di un’intervista a un operatore carcerario: DIGIUNA
IN CELLA
E MUORE.
SCANDALO
DIETRO
LE SBARRE.
AVEVA
SEMPRE
DETTO: “IO SONO INNOCENTE” Padova —- Melad Meftah, 43 anni algerino. Oppure Mohamed Oussane, 31 anni, palestinese. [...] Detenuto in attesa di giudizio per detenzione di droga, giurava di essere innocente. Senza documenti, senza soldi per pagarsi un avvocato che prendesse a cuore il suo caso, senza amici né parenti. Ha fatto lo sciopero della fame nella speranza che qualcuno lo stesse a sentire. Settimane di digiuno, ridotto a uno scheletro. [...] ma la verità è che è stato ucciso. Non dalla polmonite che ha contratto nell'ospedale dove lo avevano trasferito, ma dallo spietato meccanismo della giustizia e dall’indifferenza di tutti. Lo avevano fermato il 7 febbraio i carabinieri. [...] Dentro [una cascina] erano in sette, tutti magrebini, intenti a confezionare bustine di eroina. Quando c’è l'irruzione, la droga viene buttata dalla finestra, 20 grammi. Melad finisce in manette. “Io non c'entro la droga non era la mia”, giura ma nessuno gli crede. Su consiglio di un altro detenuto, Melad contatta un 34
avvocato padovano, Cesare Vanzetti.[...] Chissà mai se pagherà la parcella questo algerino, ma un incarico non si rifiuta mai. Vanzetti di Melad si ricorda appena. “Era routine,” dice. Fatto sta che non viene neanche presentata richiesta di arresti domiciliari. “E dove lo mettevamo?” spiega il legale, “Non aveva domicilio fisso e non conosceva nessuno”. Così Melad torna nella sua cella. E decide di attuare l’unica protesta che gli è consentita: lo sciopero della fame. “Ma capita continuamente che i magrebini si feriscano o facciano cose così. Poi si mettono tranquilli,” dice ancora il suo avvocato. Invece Melad tiene duro. [...] Cosa voglia nessuno lo sa, perché nessuno lo sta ad ascoltare. Il direttore del carcere manda una segnalazione in procura, ma non accade niente. Finché Melad inizia a star male veramente e decidono di trasferirlo in ospedale. [...] All’inizio di maggio anche a non aver cuore ci si accorge che il poveretto è al lumicino. E che fa l'ospedale? Dà incarico a uno psichiatra di visitarlo. Responso: Melad è capace di intendere e di volere e non ha propositi di suicidio. [...] Gli danno un sedativo e poi lo nutrono con la flebo. Ma ormai il suo corpo è talmente debilitato che è facile preda di ogni malattia e dopo pochi giorni gli diagnosticano una polmonite grave, nessuna reazione agli antibiotici. Lo intubano, quindi lo sorreggono in vita con la macchina per la circolazione extracorporea. Ma non serve. Lo stronca un infarto. Amen. Una noia in meno per tutti. Ma dove era il suo avvocato, dove i giudici o chi poteva convincerlo a smettere con il digiuno quando ancora non sarebbe stato troppo tardi?” Lei ha rilevato in carcere forme specifiche di razzismo nei confronti degli stranieri? No, io penso che i comportamenti razzisti e l’odio per gli stranieri siano il frutto di un degrado di fondo che ha poco a che fare con quella che si può chiamare l'emergenza immigrazione. Il carcere è un terreno fertile per qualunque tipo d’avventura di questo tipo; capisci che quando delle persone [guardie carcerarie] si divertono a bruciare i gatti, a sfottere i malati di Aids, dicendogli “quand’è che muori”, quando delle persone sono così credo che sia difficile ricondurre queste pratiche a un cosciente razzismo. Se domani non ci fossero più neri, non ci fossero più gatti e i malati di Aids guarissero, sicuramente ci sarebbero altri soggetti su cui applicare gli stessi meccanismi. Vengono ancora raccontati con nostalgia, dagli agenti o dai marescialli più anziani, i tempi dei letti di contenzione, si parla di oltre vent'anni fa, eppure allora non c'erano stranieri nelle carceri. Legati ai letti ci finivano i più sfigati o i più ribelli, oggi ci finirebbero gli stranieri e sicuramente tra gli stranieri quelli che ci finirebbero di più sono convinto che sarebbero i marocchini, cioè i più deboli.
Xenofobia e discriminazione istituzionale degli stranieri (ideologiche o effettive che siano) sono divenute dunque fenomeni caratteristi59)
ci dell’Italia, almeno dalla fine degli anni ottanta. Tuttavia, né gli organi di informazione e di comunicazione, né la letteratura sociologica o politologica (salvo poche eccezioni) hanno denunciato o analizzato questa realtà e le sue implicazioni per la nostra società. Così, mentre la stampa italiana ha dato ampio rilievo agli attentati contro gli immigrati che hanno avuto luogo in Germania dopo la riunificazione, tra il 1990 e oggi, e ha riportato singoli episodi di razzismo e di discriminazione avvenuti all’estero, non ha mai svolto inchieste di una certa
portata sulla xenofobia in Italia.” Questa non è visibile in quanto non è oggetto di un discorso pubblico legittimo; in altri termini, è sottoposta a una censura implicita.‘ Così, se i fatti di Rostock o di Lubecca hanno suscitato emozione in Europa e dure reazioni politiche nella Repubblica federale tedesca, le aggressioni contro gli stranieri presenti in Italia sono scivolate più o meno inavvertite tra gli episodi quoti-
diani di cronaca nera. Quando gli immigrati vengono aggrediti, le autorità di pubblica sicurezza e giudiziarie sollevano dei dubbi sulla natura xenofoba delle aggressioni. Da parte sua, la stampa tende a presentare le aggressioni contro gli immigrati, anche le più clamorose, come effetti di una situazione “oggettivamente” grave (ovvero, in ultima analisi, causata dall’immigrazione) e non come azioni deliberata-
mente xenofobe. Quella che segue è la cronaca, per certi versi esemplare, di un raid compiuto da una banda di naziskin a Torino il 17 aprile 1997: Erano una cinquantina, qualcuno dice addirittura ottanta. Teste rasate, giubbotti neri con spillette inneggianti al duce, scarponi militari. Armati di mazze da baseball, tubi di ferro, guanti tirapugni imbottiti di sabbia, i volti coperti da sciarpe e passamontagna, hanno “marciato” sui Murazzi del Po, il lungofiume nel centro della città dove ogni sera, di fronte ai locali notturni frequentati da centinaia di giovani, si affollano anche gli spacciatori e i loro clienti. È successo giovedì sera poco dopo mezzanotte [...]. Un disc-jockey francese originario della Guinea, che era appena uscito dal suo locale per farsi un caffè, è stato picchiato a sangue e ferito gravemente mentre le altre vittime della “spedizione punitiva”, prive di permesso di soggiorno, hanno preferito rinunciare all’ospedale. [...] E che la situazione ai Murazzi sia ormai gravissima lo testimonia l’arresto avvenuto-un’ora dopo il raid, di un marocchino di 21 anni, Rachid Samir,
pregiudicato e già formalmente espulso: in tasca aveva una pistola Beretta 6.35 che ha cercato di gettare via quando gli agenti lo hanno fermato. “Vogliamo ripulire i Murazzi”, hanno gridato i giustizieri durante il raid razzista. Gli investigatori tendono a ridimensionare il numero dei picchiatori (“Erano al massimo una trentina”, dicono in Questura) e qualcuno, come
il capo delle volanti Filippo Dispenza e quello della Digos Antonio De Santis, avanza anche il sospetto che sotto la furia razzista possano nascondersi contrasti tra gruppi di spacciatori.”
Come mostreremo più avanti in dettaglio, la sottovalutazione della xenofobia mediante il ricorrente richiamo al contesto (la situazione “gravissima”), la citazione di fatti che non hanno alcun rapporto con l'aggressione in questione se non “l'immigrazione criminale” (il marocchino armato, “pregiudicato e già formalmente espulso”), oltre che la minimizzazione dei fatti da parte dei poliziotti intervistati, sono caratteristiche costanti dell’informazione sui problemi dell’immigrazione. È per effetto di questo trattamento delle notizie che la xenofobia degli italiani, l'emergenza per gli immigrati, è divenuta letteralmente invisibile e indicibile.‘ Nel luglio del 1997, nelle stesse strade di Torino che hanno visto il raid dei naziskin, un giovane marocchino viene ucciso in circostanze atroci. Durante uno scontro con un gruppo di
giovani italiani, Abdellah Doumi viene colpito e cade nel Po. Da riva, i giovani italiani lo bersagliano con bottiglie di birra e altri oggetti (tra cui un aspirapolvere) per impedirgli di risalire. Il ragazzo annega. Naturalmente, anche questa morte non ha a che fare con il razzismo: L’HANNO FATTO AFFOGARE E RIDEVANO Marocchino muore nel Po: Gli hanno impedito di raggiungere la riva. Torino - Dicono che Abdellah Doumi abbia annaspato a lungo prima di affondare nell’acqua torbida del Po. Che pure non sapendo nuotare abbia disperatamente cercato di raggiungere l’argine ma che abbia dovuto arretrare sotto la gragnuola di bottiglie, lattine e pezzi di legno che il gruppo di ragazzi italiani gli lanciava ridendo. [....] “Di certo non si tratta di un episodio riconducibile a razzismo” sottolinea Claudio Cracovia, dirigente della sezione omicidi della Mobile di Torino,
“ma piuttosto della conclusione tragica e quindi non meno grave di una lite tra ubriachi.”
L'esclusione democratica Esiste tuttavia un altro tipo di discriminazione, se non di ostilità dichiarata verso gli stranieri, che non rientra nelle definizioni correnti di “razzismo” e di “xenofobia” e nel computo delle aggressioni e delle vittime. Benché a prima vista meno letale della violenza, ha probabilmente effetti più negativi sull'esistenza del complesso dei migranti. Si tratta di un’ostilità strategica celata nelle definizioni tecniche, neutre, DI
delle leggi e dei decreti che periodicamente vengono adottati per “regolamentare” la condizione giuridica degli stranieri. Definizioni che non hanno nulla a che fare con il razzismo dei naziskin o con l’intolleranza ideologica, e che anzi vengono adottate per contrastare il razzismo, per ristabilire la legalità, per mettere ordine. Il loro fondamento non è altro che il sentire comune democratico, “ciò che i democratici
pensano” dell’immigrazione: che i migranti costituiscano dei problemi o delle “minacce” oggettive da cui la nostra società deve difendersi, pur all’interno di un quadro di “tolleranza”, di “rispetto per le altre culture”, di “multiculturalismo”.
La legge Turco-Napolitano ci interessa in questa prospettiva perché esprime il punto di vista sull’immigrazione non già della destra e tanto meno di quella xenofoba, ma della cultura politica progressista.” Fssa riassume efficacemente ciò che la società civile democratica, i suoi rappresentanti politici e i suoi esperti pensano dell’immigrazione
e le misure pratiche che essi intendono adottare per regolarla. Si tratta di un provvedimento in cui dichiarazioni di principio garantiste e tentativi di riconoscere alcuni diritti fondamentali coesistono con pure e semplici misure di polizia. Questa doppiezza dipende esclusivamente dalla divisione dei migranti in regolari e clandestini. Ai primi si inizia a riconoscere timidamente una sorta di diritto all’esistenza, mentre ai secondi si applicano esclusivamente norme di ordine pubblico. Nel testo della legge la distinzione può apparire sottile ma comporta conseguenze decisive: Allo straniero comunque presente nel territorio italiano sono riconosciuti i
diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti (art. 2, comma 1). Lo straniero regolarmente soggiornante in Italia gode dei diritti in materia civile attribuiti ai cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali
in vigore per l’Italia e la presente legge dispongano diversamente (art. 2, comma 2).
Distinguere il godimento dei “diritti fondamentali della persona umana” dai “diritti civili” significa tracciare un confine tra chi può essere soggetto a qualsiasi provvedimento di ordine pubblico (fermo, espulsione, detenzione nei campi) senza (si presume) subire maltrattamenti (che violerebbero i diritti della sua “persona umana”) e chi, es-
sendo regolare, è equiparato in materia civile al cittadino italiano. Ora, è ampiamente noto che le convenzioni internazionali vincolano ben 38
poco i singoli stati in materia di diritti “della persona”?! Solo raramente le violazioni più gravi vengono denunciate e diventano oggetto di controversia. Il fatto che gli “stranieri comunque soggiornanti” e non regolari non godano dei diritti civili significa semplicemente che sono sottratti alle garanzie giuridiche ordinarie e affidati alla discrezione degli organi di polizia, che si occuperanno di tutelare i diritti fondamentali “della loro persona”. E infatti negli articoli dedicati alle espulsioni e ai campi di “permanenza temporanea”, la proposta in questione specifica in modo dettagliato che cosa gli stranieri devono attendersi: Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante l’accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua nazionalità o identità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, :/ questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati e costituiti, preferibilmente in prossimità del confine, con decreto del ministero dell'Interno, di concerto con i ministri della Solidarietà sociale e del Tesoro (art. 12, comma 1).
Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità. Oltre a quanto previsto dall’articolo 2, comma 5, è assicurata in ogni caso la libertà di corri-
spondenza anche telefonica con l’esterno (comma 2). [...] Il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata (comma 7). Dalla prosa ministeriale risulta indubbiamente che, nelle intenzioni
dei legislatori, gli stranieri in attesa di espulsione sono internati in campi di custodia, approntati in prossimità dei confini, sotto il controllo della polizia? campi in tutto e per tutto assimilabili a prigioni, benché gli ospiti possano non essere soggetti a procedimento penale. Come si è già visto, si tratta di una misura adottata da altri paesi europei (Germania, Inghilterra), ma che in Italia ha avuto solo dei precedenti ufficiosi ed eccezionali (l’internamento degli albanesi nello stadio di Bari nell’agosto del 1991 e i campi costituiti dopo gli sbarchi del marzo 1997), che ora dovrebbero assumere valore di modello normati-
vo. Candidati a essere ospitati in questi campi sono in primo luogo i “clandestini”, cioè i migranti privi di regolare permesso di soggiorno, gli indesiderabili, perché socialmente pericolosi, quindi i “sospetti”. 5»,
Questi soggetti, in base alla proposta Turco-Napolitano (che qui recepisce l’articolo 7 bis del Decreto Dini), sono espellibili in quanto a essi si applica l’articolo 1 della legge 1423/1956 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità) che definisce chi debba essere considerato “socialmente pericoloso”. 1) Coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a fatti delittuosi;
2) Coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte con i proventi di attività delittuose;
3) Coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono e mettono in pericolo l'integrità fisica e morale dei minorenni, la sanità e la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Qui è importante notare che questa e altre norme (come gli articoli 203 e successivi del Codice penale) autorizzano misure di restrizione della libertà personale (e, nel caso degli stranieri, di detenzione preventiva nei campi in vista dell'espulsione) per soggetti contro i quali non esista denuncia e tanto meno condanna per qualche reato, ma “notizia” di pericolosità, in base a “elementi di fatto” relativi a “comportamenti”, “condotta e tenore di vita” che facciano pensare ad “attività delittuose”, che offendano “l'integrità morale dei minorenni” o la “tranquillità pubblica”. Se applicate agli stranieri queste norme consentono di espellere, su proposta delle autorità di pubblica sicurezza, un ambulante abusivo che vende oggetti su una spiaggia, un immigrato ubriaco oppure un albanese che esibisce, “per il suo tenore di vita” indizi di qualche “delittuosità”. Queste norme, che non sono più applicate agli italiani, fanno degli stranieri dei soggetti pericolosi in base a valutazioni del tutto arbitrarie e discrezionali. Valutazioni prontamente fatte proprie dal senso comune, e in particolare da quello giornalistico (attentissimo al “tenore di vita”), come appare dalla seguente cronaca — vero cammeo di giornalismo sul campo — di un’espulsione di albanesi “socialmente pericolosi” effettuata nel settembre del 1997: ALBANESI ESPULSI CON SOLDI E TELEFONINI
Bari — [...] Un altro, appena fuori dalla stazione passeggeri, si divincola strappandosi la maglietta per fare vedere ai giornalisti due graffi a forma di X sulla schiena: “Non voglio partire, non voglio partire” — si dimena fu40
riosamente — “prima voglio recuperare l’auto che ho lasciato a Torino...”. Molti dei clandestini hanno il telefonino e nemmeno si curano di nasconderlo. Addirittura qualcuno lo usa per comunicare con chissà chi...
Vedremo nel prossimo capitolo come “fatti” inesistenti per noi divengano indizi di pericolo sociale nel caso degli stranieri. Nel testo riportato, il telefonino — che in Italia squilla ossessivamente in ogni luogo aperto al pubblico, è impugnato fieramente da automobilisti, adolescenti, manager e qualsiasi nostro concittadino (giornalista compreso, immagino) non si trovi in condizione di inedia o estrema povertà — diventa indizio evidente di oscuri traffici e di chissà quali strategie criminali, oltretutto arroganti (“... e nemmeno si curano di nasconderlo”).
Ecco quali sono i “comportamenti” che probabilmente destineranno alla detenzione e all’espulsione gli “stranieri” pericolosi. Comunque sia, data la palese affinità dei campi con le prigioni e degli “espellendi” con i carcerati, non sono molte le garanzie che la permanenza degli internati sia “temporanea” e nemmeno che la loro dignità sia assicurata,
come vorrebbe l’articolo 2, comma 5, della legge Turco-Napolitano. A questa condizione di radicale esclusione dovrebbero sfuggire gli stranieri “regolari”, dotati degli stessi diritti degli italiani, ma anche loro non si sottraggono a una legislazione speciale, come appare dall’articolo 6 della legge: Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno, è punito con l’arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a lire ottocentomila (comma 3). Per le verifiche previste dalla presente legge e dal regolamento di attuazione, l’autorità di pubblica sicurezza può altresì richiedere agli stranieri informazioni e atti comprovanti la disponibilità di un reddito, da lavoro o da altra fonte legittima, sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi nel territorio dello stato (comma 4).
Il comma 4 dell’articolo 6 è evidentemente discriminatorio perché attribuisce all’autorità di pubblica sicurezza la facoltà di indagare sul reddito e il sostentamento di chi, teoricamente, dovrebbe godere degli stessi diritti dei cittadini italiani (tra cui la privacy, ora esplicitamente protetta dalla cosiddetta “legge Rodotà”). Ma una minaccia implicita e non meno grave ai diritti degli stranieri è contenuta anche nel comma 3. Esso è del tutto ovvio per una cultura politica che da alcuni anni è ossessionata dalla legalità. Oltretutto, è coerente con una legislazione che attribuisce un'importanza decisiva alla documentazione cartacea 41
dell'identità dei cittadini e assegna alle forze di pubblica sicurezza la facoltà di richiedere a chiunque, in qualsiasi momento, i documenti (si deve anche ricordare, tuttavia, che in altri paesi rom esiste la carta d’i-
dentità e che richieste di questo tipo sono considerate vessazioni, se non violazioni dei diritti civili).° Ma qui il problema è: come può sapere un agente, incaricato di applicare la legge, se il tizio di cui decide di accertare l’identità è uno straniero? Dietro questa norma (e indipendentemente dal suo carattere apertamente vessatorio: arresto fino a sei mesi, ottocentomila lire
di multa) si nasconde a malapena la banale e diffusa realtà dei controlli di strada, in base a cui chiunque, a causa dell’aspetto o della pigmentazione della pelle, può essere fermato ed eventualmente arrestato se, per qualsiasi motivo, non è in grado di giustificare la mancanza di un documento di identità. In realtà, questo articolo non fa che san-
zionare ciò che avviene da anni nelle città o nelle aree urbane considerate, in base a un allarme sociale alimentato in gran parte dai media e
dagli imprenditori politici, “a rischio”: S. Salvario a Torino, il centro antico a Genova, alcuni quartieri di Milano come porta Venezia. Come mi è stato riferito da numerosi immigrati, in queste zone (per esempio nel centro di Genova) può capitare che un immigrato, venga fermato anche venti volte in una settimana (ciò che, se capitasse a noi, cittadini italiani e europei, ci spingerebbe a parlare di stato di polizia). Come chiamare allora, se non discriminatoria, una legge che i proponenti hanno definito, con un certo compiacimento, “favorevole
agli immigrati”? La legge in questione mette in evidenza l’ambivalenza della cultura politica democratica nell’affrontare la questione dell’immigrazione e in generale degli stranieri. Da una parte si accetta dogmaticamente (quando non lo si alimenta) il presupposto dell’“emergenza immigrazione”, si segue la destra sul terreno delle mobilitazioni contro l’invasione, si escogitano misure legislative discriminatorie, si tratta insomma l’immigrazione come una patologia o un “problema”. Dall’altra, si promuovono manifestazioni contro il “razzismo”, si organizzano dibattiti sul “multiculturalismo”, si discute instancabilmente di “diversità”, senza venire a capo dell’evidente contraddizione tra principio di uguaglianza, cui tutti si richiamano verbalmente ma che nessuno vuole riconoscere di fatto, e principio di diversità, che tutti sotto-
scrivono non solo perché soddisfa a buon mercato le attuali mode culturaliste, ma anche perché legittima la sostanziale volontà di separare gli stranieri dai cittadini italiani e gli immigrati regolari dai “clandestini”. 42
Il senso dell’ostilità Di fronte all'immigrazione anche il nostro paese non solo ha reagito, dopo una prima fase di indifferenza, in modo negativo ed escludente, ma ha rovesciato sugli stranieri la propria incapacità di affrontare i fenomeni migratori. La violenza razzista delle minoranze ideologiche, l'indifferenza venata di ostilità delle maggioranze silenziose, la discriminazione giudiziaria, l’esclusione sociale sono forme diverse in cui una società sostanzialmente solidale e compatta nella paura dei migranti (a onta delle sue “differenze” ideologiche e politiche) erige una barriera invalicabile tra “loro” e “noi”, anche se ad alcuni di loro permette di soggiornare temporaneamente tra noi. “Loro” sono tutti coloro che, per qualsiasi motivo, pretendono di vivere tra noi pur non essendo come noi. Questa “diversità” non ha a che fare, almeno in linea di principio, con la “razza” o con la “cultura” (secondo le due varianti, di destra e di sinistra, del differenzialismo) ma esclusivamente con la “loro” estraneità al nostro spazio legittimo, nazionale o sovranazionale.” Ciò che infatti hanno in comune immigrati marocchini, algerini, senegalesi o rumeni, zingari, profughi albanesi, bosniaci o curdi è esclusivamente il fatto di non aver diritto a vivere nel nostro spazio nazionale (o sovranazionale) perché non italiani, non europei occidentali, non sviluppati, non ricchi. È del tutto evidente infatti che quanto stiamo dicendo degli stranieri (della loro discriminazione sociale, politica o legislativa) non vale per giapponesi, nordamericani, svizzeri o altri stranieri che ricadrebbero formalmente nella categoria “extracomunitari”. Dovunque si leggano le parole “stranieri” o “extracomunitari” (nei provvedimenti o proposte di legge, nell’informazione di massa, in gran parte dei dibattiti “scientifici”) si devono perciò intendere migranti in cerca di lavoro, di rifugio o di una nuova esistenza. La barriera che la nostra società erige contro di loro non è costituita soltanto dalle forme empiriche di violenza e di discriminazione che abbiamo esaminato fin qui, ma è in primo luogo politica. Come tale non dispone soltanto delle consuete forme di difesa dei confini (l’apparato repressivo civile e militare), ma di una simbologia che trasforma la distinzione puramente empirica tra noi e loro in una contrapposizione ontologica, cioè tra mondi radicalmente opposti. Prima ancora di essere discriminati nei fatti, migranti e profughi sono discriminati dal linguaggio che la nostra società escogita per rappresentarli. Un linguaggio che, pur modificandosi, mantiene inalterata la caratterizzazione di questi esseri umani come alieni: “immigrati”, “extracomunitari”, “clandestini”, “irregolari” 45
“terzomondisti”, “del Terzo mondo”
eccetera. Queste etichette, diffu-
se sia nel linguaggio ordinario sia in quello pubblico, giuridico, burocratico, politico, non solo falsificano la realtà sociale ed esistenziale dei
migranti, ma catalizzano ogni sorta di significato negativo. Il migrante, grazie a questo linguaggio dell’esclusione, è naturalmente miserabile, minaccioso, disponibile al crimine.” L’inimicizia appare in tutta la sua evidenza quando entrano in gioco i confini dello stato, in quanto contorni della società nazionale. Mentre è obiettivamente complesso fare di un gruppo interno un nemico pubblico, nulla è più facile che trasformare degli stranieri in nemici quando cercano di attraversare i nostri confini. Anche in questo caso, l’identificazione dello straniero come nemico è il risultato di procedure implicite, spesso presentate come descrizioni di situazioni rea-
li. Si consideri il seguente reportage da Lampedusa, che ogni estate diventa la terra di confine in cui l’Italia combatte la sua guerra contro gli immigrati: TERRE DI FRONTIERA. LAMPEDUSA, FALLA D'EUROPA
I tunisini continuano a sbarcare, gli abitanti si ribellano, i carabinieri si devono arrendere a una legge troppo permissiva [...]. A giudicare dai numeri, la situazione a Lampedusa è grave, seria, paradossale. Secondo i carabinie-
ri, da gennaio a ottobre, sono 1874 gli extracomunitari che hanno “conquistato” le spiagge dell’isola. Tutti, adesso, hanno lasciato la Sicilia per andare a ingrossare l’esercito dei clandestini che gironzola nel nostro paese. La situazione è grave, perché nulla è possibile fare per fermare questa ondata di disperati. E ciò comporta malumore negli isolani, intolleranza che sfiora la violenza, un autentico fremito di terrore che la pessima pubblicità causata dal fenomeno “tunisini a Lampedusa” possa provocare la crisi del settore turistico, sostanzialmente unico volano economico di questo spicchio di terra, il più a sud d'Europa [....]. Dove scatta l'aspetto paradossale e grottesco dell'intera vicenda. Allarga le braccia il colonnello Renato Gatti, comandante del battaglione carabinieri di Agrigento: “C'è una legge, la cosiddetta ‘legge Martelli’, e un decreto del settembre scorso che prevede l’espulsione dei clandestini. Ma per respingere devo prima conoscere la corretta e sicura nazionalità del soggetto. Siccome nessuno di loro ha documenti inoltriamo richiesta al consolato di Tunisi. Mentre attendiamo le informazioni dalla Tunisia, l’extracomunitario, arrivato di straforo in Italia è libero di fare quello che vuole.” [...)] Perché non impedite loro di sbarcare? “E come? Quando ci avvicinia-
mo in mare, si gettano in acqua. Il codice di navigazione ci impone il salvataggio. Così li tiriamo su e li portiamo a Lampedusa.” Da qui ad Agrigento, riconoscimento, libertà...
Non un caso quindi, se lo scorso 7 ottobre un gruppo di giovinastri ha as-
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salito alcuni tunisini che si erano rifugiati in un container frigorifero per la conservazione del pesce. L'auto, una Fiat Uno grigia, si è avvicinata, [uno
degli occupanti] ha aperto il container e ha gettato dentro una molotov che fortunatamente non ha funzionato perfettamente. Un solo ustionato tra i tunisini e tanta paura.”
L'equiparazione del migrante al nemico potrà sembrare fuorviante in quanto associata a una definizione politica degli stranieri. Va da sé che nessuna guerra è stata mai proclamata contro i migranti, e che questi non dispongono, come è ovvio, del relativo status di nemici. Ma essi vengono trattati di fatto come nemici perché hanno preteso di accedere al nostro spazio nazionale. È tipico infatti delle legislazioni di guerra internare, espellere o privare dei diritti (pratiche, come si è visto, esplicitamente previste dalle leggi sugli immigrati) i civili nemici, cioè i cittadini non combattenti di uno stato nemico. Ora, si deve nota-
re che nella nostra epoca “pacificata” le guerre sono di fatto combattute ma non riconosciute come tali da chi le combatte. Esse non vengono più dichiarate” e sono considerate ufficialmente come operazioni di “polizia internazionale” (la Guerra del Golfo) oppure “missioni di pace” (Bosnia, Somalia eccetera). Ciò comporta la normalizzazione e la neutralizzazione della violenza esercitata da truppe che ufficialmente non combattono ma sono impegnate a ristabilire l'ordine in nome della pace. “Abbiamo ucciso qualche centinaia di somali”, ha dichiarato un generale italiano quando è scoppiato lo scandalo dei paracadutisti torturatori.” È degno di nota non solo che simili dichiarazioni siano riportate marginalmente, come mere notizie di contorno, nell’ambito di servizi sulle torture, ma soprattutto che non destino particolari emozioni nell’opinione pubblica. Sembra, in altri termini, assolutamente normale, ovvio, che una forza di “pace” uccida centinaia o
migliaia di abitanti del paese che avrebbe dovuto pacificare, perché si trattava, come riportano molte dichiarazioni di militari, di “banditi”
che cercavano di rubare il cibo negli alloggiamenti dei pacificatori. Come vedremo in un capitolo successivo, questa “normalità” presuppone un atteggiamento di razzismo al tempo stesso implicito, non dichiarato e iperbolico da parte dei soldati (e dell'opinione pubblica dei paesi che li inviano) verso esseri umani che di fatto sono considerati e trattati non tanto come razza inferiore ma come una specie animale
di infimo ordine.* In ogni caso, dal punto di vista politico e militare, non c'è soluzione di continuità tra la pacificazione in paesi lontani e la difesa militare delle nostre coste dagli stranieri “clandestini”. Le truppe sono più o meno le stesse e analoga la retorica dell'interesse nazio45
nale. La differenza principale consiste nell’impossibilità di praticare sul territorio italiano la stessa violenza “normale” nei confronti degli stranieri. Ma, come vedremo nel caso dei migranti annegati a migliaia mentre cercano di raggiungere il nostro paese, questo compito è la-
sciato agli elementi naturali e alla fatalità. Benché il migrante sia reinventato quotidianamente come nemico o minaccia (della nostra stabilità demografica, del lavoro dei nostri figli, della sicurezza delle nostre metropoli, della nostra omogeneità culturale, dei nostri valori o di qualsiasi altro aspetto che ci caratterizzi nella realtà o nell’immaginazione), egli è assunto preliminarmente come tale, è cioè un nemico costitutivo. In questo senso A. Sayad” ritiene che l'esclusione dei migranti sia il risultato del “pensiero di stato”. Il migrante viene considerato ontologicamente, ovvero nella sua essenza, un nemico perché visto come minaccia al fondamento stesso dell’ordine statale, cioè alla nazione. Quanto più il “qualcosa” immaginario (volta per volta politico, simbolico, storico, culturale, ideale eccetera)
che i membri di una società chiamano nazione avanza una pretesa di esistere, di essere reale, tanto più avrà bisogno di “nemici” che ne definiscano simbolicamente i confini. Ecco perché, per esempio, un movi-
mento come la Lega nord, che pure difende (o crede di difendere) i prosaici interessi materiali dei suoi elettori, pratica una xenofobia iperbolica, insensata, “irrazionale”, nei confronti degli “extracomuni-
tari” (vedi la figura 1). La trasformazione dello straniero in nemico è un modo per legittimare simbolicamente la pretesa di impadronirsi di un territorio. Proprio perché tipica di un movimento neonazionalista,
la cultura politica della Lega, basata sulla xenofobia, ci mostra come l'invenzione del nemico sia intrinseca al nazionalismo. Quando questo non è in fase di formazione, ma è consolidato, alle forme iperboliche di razzismo si sostituiranno quelle procedurali, democratiche, legali e scientifiche che non hanno bisogno di proclamare l’odio per l’altro, ma si limitano a trattarlo di fatto come nemico.
In breve, i migranti sono nemici della società nazionale perché permettono che essa si definisca e si riconosca come tale. Discriminando i migranti, cioè gli stranieri in cerca di lavoro o di rifugio, la società nazionale cerca una giustificazione essenziale per se stessa, per la propria esistenza. Paradossalmente, le nostre società hanno bisogno dei migranti che escludono, ne banno bisogno per escluderli come nemici. È questo che può spiegare (prima ancora dell’utilità economica, che pure è decisiva, come vedremo) il doppio gioco che le società di immigrazione vecchie e nuove conducono nei confronti dei migranti: la durezza delle norme contro i clandestini e l'accettazione di un certo afflusso 46
FIGURA 1
Manifesto della Lega nord, agosto 1998: “Fermiamoli, arrivano a milioni”.
FERMIAMOLI!!!
ARRIVANO A MILIONI
di migranti, la coesistenza di esclusione e ideologia del multiculturalismo, di negazione dei diritti e di esaltazione della diversità culturale,
di ossessione per il controllo degli stranieri e di tolleranza del lavoro nero, e così via.
Naturalmente, l’esistenza di un nemico ontologico non soddisfa soltanto il bisogno di un’“identità” nazionale, ma ha delle ricadute pratiche di grande importanza. Una volta ammessi di fatto o di diritto all’interno delle nostre società ospitanti, i migranti regolari o irregolari (in quanto temporaneamente privati dello status di nemici) non sono che ospiti malvoluti, moderni 7zeteci* che la società nazionale può trattare a suo piacimento, escludendoli dai normali diritti civili e socia-
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li oppure conferendogliene qualcuno (che poi potrà mantenere o rimuovere), escludendoli dalle norme che regolano i rapporti di lavoro dei membri legittimi, cioè dei cittadini, trattandoli come membri illegittimi oppure di seconda categoria della società. Come ospite più o meno tollerato, un migrante offre degli evidenti vantaggi di tipo economico (in quanto lavoratore sottopagato o in nero che difficilmente rivendicherà i propri diritti) e anche sociale, in quanto attore che farà di tutto per non disturbare e quindi per non essere espulso, per non ricadere così nella categoria di nemico pubblico. Nell’antica Atene, un meteco era appena più di uno schiavo. Nella nostra società di uomini liberi, dove la schiavitù è stata abolita da secoli, un immigrato-ospite è
soggetto a ricadere con grande facilità nella categoria di neoschiavo. Le diverse funzioni (simboliche ed economiche) dei migranti come nemici sono evidenti nella terminologia che la nostra cultura (comunicativa, giuridica, politica) ha escogitato per rappresentarli come cate-
goria. Parlo della distinzione arbitraria e priva di contenuto (eppure ossessivamente usata dai mezzi di comunicazione di massa e dagli stessi politici) tra immigrati regolari (gli “ospiti” legittimi o merzici sospesi)” e i clandestini (cioè gli “ospiti” illegittimi o nerzici infiltrati). I media parlano ossessivamente dell’invasione dei “clandestini”, decreti e leggi si propongono di reprimere l’immigrazione “clandestina”, demografi e istituti di ricerca cercano di quantificare i “clandestini illegali”. Nella realtà, la definizione di immigrato “illegale” si dovrebbe applicare solo a quelle poche migliaia di stranieri che tentano di entrare senza passare dalle frontiere ufficiali, peraltro facilmente individuati (come è del tutto comprensibile nell’era delle reti satellitari e del controllo elettronico dello spazio terrestre e marittimo). L’ossessione per
l'invasione dei clandestini non ha altro fondamento che la rappresentazione più o meno distorta dell’immigrazione nei diversi gruppi sociali o istituzioni. E così per esempio che il volontariato può parlare di 300.000 clandestini mentre la Confcommercio, un’organizzazione che
rappresenta i negozianti ossessionati dagli “abusivi”, parla di 1.500.000 “clandestini” e la Lega nord di “milioni” .?° Ma se gli “illegali” sono poche decine di migliaia, un numero enorme di migranti è “clandestinizzato” nell'immagine che la nostra società costruisce di loro. Infatti, con il termine “clandestino” si defini-
scono normalmente i migranti che escono dalla condizione di regolarità, per esempio tutti coloro che entrano legalmente come turisti e non riescono a conquistare un permesso di soggiorno, oppure i mi-
granti già regolari che diventano irregolari perché non possono soddisfare le condizioni giuridiche e burocratiche imposte dalla legislazione 48
in vigore. Si deve notare comunque che il termine “immigrato clandestino” finisce per connotare non già una condizione formale ma antro-
pologica. “Dall’Albania migliaia di clandestini sono pronti a riversarsi in Italia”, avvertiva un servizio radiofonico nel febbraio 1997. La clandestinità diviene così una caratteristica naturale di chi è temuto dalla nostra società, e quindi una minaccia ubiqua. Troviamo due esempi significativi nella precisazione che il lettore di un quotidiano invia a una popolare rubrica di posta e nelle riflessioni di un noto politologo: Un lettore ci scrive: “In una lettera dei giorni scorsi compare l’affermazione che ‘clandestino non è sinonimo di delinquente’. Mi spiace ma non è atfatto così. Un clandestino già si colloca tra i fuorilegge, e per questa semplice circostanza già ‘delinque’. Inoltre i clandestini sono tutti potenzialmente pericolosi perché sottratti a ogni controllo. È come se si regalasse una cesta piena di funghi mangerecci con frammischiati funghi velenosi a persona non in grado di distinguerli. Poiché sottratti anch'essi a ogni controllo, l’interessato dovrà disfarsene al più presto, accomunando buoni e cattivi”.> 72
Chi è l’immigrante o immigrato clandestino? È una persona che entra in un paese di nascosto, ma è anche chi, pur colto e fermato in entrata, riesce poi a sparire [...]. Se i cittadini sono tenuti a sottostare alle leggi del loro stato, alla stessa stregua /o stato li deve tutelare da persone che sfuggono alle leggi e che sono legalmente inesistenti.”
Qui non mi interessa solo sottolineare le metafore di questi testi (immigrati come funghi “mangerecci” o velenosi di cui disfarsi in blocco, nel primo caso, ed esseri legalmente “inesistenti” nel secon-
do), ma la logica implacabile che li anima. Poiché un clandestino è “fuori legge” è ur fuorilegge, e quindi “delinque”, è pericoloso oltre che “inesistente”. Le conseguenze di questa logica ricordano il romanzo di Joseph Heller Corzzza 22: (“Chiunque voglia essere esentato dal servizio attivo deve appellarsi al comma 22,” ma, “chiunque si appelli a tale comma non può essere esentato dal servizio attivo”). Il “comma 22” dei migranti suona più o meno così: “Accettiamo solo immigrati non delinquenti. Uno straniero che cerchi di immigrare è un clandestino, e quindi un delinquente ‘legalmente inesistente’. Ma se non esiste non può immigrare”. Nell’ossessione per chi non “è in regola” o è illegale confluiscono ovviamente altri fattori tipici dell’organizzazione sociale contempora-
nea: da una parte l'espansione dei controlli, la volontà di conoscere
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virtualmente ogni aspetto della condizione individuale e, dall’altra, la paura dell’ignoto, del refrattario, di chi per qualsiasi motivo si sottrae alla codifica sociale. È così che l'individuo che “non ha le carte in regola”, anche se non commette alcun reato o non ha alcuna colpa da nascondere, scivola nella condizione sociale di pericolo pubblico.”
Logiche del senso comune Nelle pagine precedenti ho descritto alcuni aspetti dell'adattamento della società italiana ai fenomeni migratori. Dapprima, il disinteresse istituzionale e l'indifferenza sociale hanno fatto sì che i migranti (dato anche il loro numero irrisorio) costituissero una realtà del tutto marginale per la società italiana. In seguito, dai primi anni novanta ai giorni nostri, gli “immigrati” diventano non solo degli alieni ma soprattutto il bersaglio di un’ostilità materiale e simbolica crescente. Spiegare questa ostilità — ciò che si può definire la costruzione sociale del migrante come nemico — ricorrendo agli strumenti offerti dalla tradizionale sociologia delle migrazioni è inadeguato. In primo luogo perché la sociologia delle migrazioni tende, salvo qualche eccezione,” a trascurare gli elementi simbolici e politici determinanti nella costruzione di questo nemico della società. In secondo luogo, perché l'immigrazione non è solo un “problema” o un argomento sociologico specifico ma un formidabile catalizzatore di conflitti materiali e simbolici, di retoriche nazionali e locali, di campagne comunicative. In breve i processi attraverso i quali i migranti tendono a divenire nemici della società eccedono i tradizionali interessi della sociologia delle migrazioni, perché riguardano la società nel complesso, di cui finiscono per essere uno specchio più o meno deformante.” La dimensione quantitativa dell’immigrazione, poco più di un milione e mezzo di stranieri (circa il 2% sulla popolazione italiana residente) che sono riusciti ad arrivare nel nostro paese e a restarvi, non
può spiegare 27 quanto tale l’ostilità. Una reazione che prima di essere popolare caratterizza, come mostreremo in dettaglio, il mondo politico e intellettuale e i sistemi dell’informazione di massa. Spiegare l’avversione verso gli stranieri con la presenza di qualche lavavetri agli incroci, con la supposta propensione criminale degli stranieri o con una competizione nel mercato del lavoro che nessuno è mai stato in grado di dimostrare, è qualcosa che potrà soddisfare il senso comune o il nuovo populismo di destra, ma è inconsistente dal punto di vista della teoria sociale. Quando la ricerca passa al vaglio queste “spiegazioni” 50
ne scopre facilmente lo status di luoghi comuni. Così, per esempio, il classico argomento da comitato di quartiere secondo cui gli ambulanti stranieri sono clandestini che competono slealmente con i piccoli commercianti nativi non ha alcun fondamento empirico. E lo stesso vale per l’esistenza di una preoccupazione diffusa nei confronti della criminalità degli stranieri o semplicemente della loro presenza.” Tuttavia, queste opinioni di senso comune, per quanto scientificamente false, sono socialmente “vere” perché efficaci e capaci di cristal-
lizzarsi in dogmi sociali. Secondo la teoria sociologica il senso comune è costituito da “ciò che tutti pensano”, e che acquista un valore tautologico di verità solo per il fatto di essere “pensato da tutti”. Quando la sociologia iniziò a occuparsi delle strutture cognitive del senso comune, scoprì infatti che gli attori sociali erano impegnati nella costruzione di modelli rassicuranti e tautologici del loro mondo quotidiano.” Ulteriori elaborazioni di queste teorie mostrarono che gli attori sociali erano in grado di costruire infinite giustificazioni 44 boc del loro modello di mondo, una volta che questo fosse comunque presupposto come quello vero, giusto e ordinario.” Insomma, le opinioni di senso comune, che dovrebbero descrivere il mondo, lo costituiscono proprio per il loro carattere performativo e produttivo. Ciò sembra vero a maggior ragione nella nostra epoca, in cui i media (televisione e stampa quotidiana) detengono l'enorme potere di orientare gli spettatori o i lettori nella complessità del mondo. Analizzerò in dettaglio nel prossimo capitolo il ruolo dei media nei processi di costruzione degli immigrati come nemici. Per il momento mi limito a illustrare i meccanismi di funzionamento del senso comune quando si applicano a “problemi” delicati come il razzismo o il rapporto tra nativi (gli italiani) e stranieri. Un modello di questa spiegazione emerge dal commento di un quotidiano alla lettera in cui un cittadino italiano denuncia un episodio di razzismo di cui è stato vittima: LA MIA INCREDIBILE STORIA DI RAZZISMO
[...] Favour Iyamu, alla stazione di Parma tenta di vidimare il biglietto ma
la macchinetta non funziona: si rivolge a un ferroviere che lo tranquillizza, marca il biglietto con la penna e lo invita a salire perché il biglietto di andata e ritorno è già stato vidimato all’andata. Al controllo, il capotreno, alla spiegazione di Favour Iyamu, esordisce: “Eh sempre la solita balla di voi negri. Paga la multa o scendi!”. Favour Iyamu rifiuta entrambe le soluzioni e da quel momento decide di non rispondere più alle proteste del controllore. Alla stazione di Bologna le urla: “Dov'è quel negro? Dov'è quel negro”, ben udibili in tutto il vagone, precedono l’arrivo di 4 poliziotti che, saliti sul treno, lo raggiungono e, DI
senza ascoltare le sue spiegazioni, lo afferrano e lo spingono giù, frantumandogli una mano. All’ufficio della Polfer, la scoperta: sui suoi documenti [...] si legge: “Cittadinanza italiana”, “Dipendente della provincia di Firenze, Dipartimento ambiente”. E allora, fatto ancora più grave, il trattamento cambia e Favor Iyamu riacquista i suoi diritti. Dopo le scuse, viene fornito di un nuovo documento di viaggio (a costo zero) e invitato a prendere il successivo Intercity,. [...] Iyamu è stato operato alla mano sinistra, all'ospedale Rizzoli di Bologna, porterà il gesso per 29 giorni e sarà assente dal lavoro per un periodo ancora più lungo. Favor Iyamu, Firenze RISPONDE BARBARA PALOMBELLI
Quando leggo storie come queste, debbo confessare di provare un profondissimo disagio. Da sempre, e sempre di più, soffro i razzismi sulla mia pelle: da quattro anni li vivo anche sulla pelle (nera, ma lui dice marroncina) di un figlio amatissimo. [...] Spero che la mano frantumata di Favor Iyamu non vi lasci indifferenti, che scuota anche le coscienze un po’ addormentate di chi vorrebbe frantumare la mano del lavavetri (4 proposito, se ci fosse maggior controllo ai semafori e maggior rigore contro i clandestini e i delinquenti immigrati, diventeremmo tutti molto più tolleranti... aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle non vuol dire sopportare le illegalità che non permetteremmo ai nostri connazionali).
Abbiamo qui un esempio da manuale di senso comune applicato agli stranieri. Il lettore denuncia, usando la terza persona, un caso di
doppio razzismo (doppio perché avviene sia contro una persona dall'apparenza diversa sia contro un supposto straniero) che illustra ciò che abbiamo definito emergenza per gli immigrati. Un cittadino italiano scambiato per un migrante viene vessato da un dipendente delle ferrovie, e poi malmenato e ferito da quattro agenti di polizia: un episodio per il quale non ci sono giustificazioni e che, in qualsiasi altro paese, avrebbe creato uno scandalo. La giornalista ci informa invece che l’“intolleranza” (fracassare la mano di qualcuno è “intolleranza”) è causata dalla mancanza di “controlli ai semafori”, e quindi in ultima analisi dalla presenza dei “lavavetri”, cioè di persone che commettono “illegalità che non permetteremmo ai nostri connazionali”. Sviluppando i presupposti di senso comune di questo commento si ottengono conclusioni imprevedibili. Qualcuno è vittima di un atto razzista perché sembra uno straniero (pur essendo italiano). Di chi è la responsabilità? Non, per cominciare, di chi gli ha fatto qualcosa, cioè ferrovieri e poliziotti (su cus la risposta non dice una parola) né di altri, D2
a qualsiasi titolo, ma di un’“intolleranza” provocata dall’“illegalità” dei lavavetri stranieri. Si deve perciò concludere che se uno straniero è vittima del razzismo, la responsabilità è degli stranieri, cioè in ultima analisi di quella classe di persone a cui in apparenza la vittima apparteneva. È ovvio che la giornalista non ha scritto nulla del genere e rifiuterebbe con sdegno questa interpretazione. Ma l'ossessione di attribuire le cause di qualsiasi “problema dell’immigrazione” alla “clandestinità” non solo fa dire cose insensate (perché mai lavare i vetri a un incrocio dovrebbe essere un’“illegalità”?), ma produce anche dei ron seguitur (se sei vittima del razzismo, in ultima analisi è colpa tua), che divengono verità per milioni di persone (come vedremo nel capitolo successivo, l'episodio appena commentato è un esempio abbastanza significativo dell’illustrazione giornalistica dei problemi migratori). Come dovrebbe risultare da quanto precede, il senso comune è un modo di spiegare fatti e problemi che non spiega nulla ma che diviene popolare, cioè corzune, perché riproduce incessantemente ciò che il pubblico “pensa” e desidera quindi confermare. Pur nutrendosi comunemente di illogicità, tautologie e mitologie di vario tipo, mostra delle regolarità e si conforma a una sorta di logica. Come abbiamo illustrato nelle pagine precedenti, la discriminazione degli stranieri si attua mediante pratiche molteplici, a cui concorrono attori diversi con punti di vista diversi; pratiche, però, che confluiscono in un meccanismo esplicativo centrale, più o meno esplicito, che finisce per imporsi come indiscutibile. In sintesi, si potrebbe dire che, nel caso di stranieri
e migranti, il meccanismo trasforma le vittime in colpevoli. Il “senso” prodotto dal meccanismo può violare impunemente la logica, la verità o qualsiasi altro valore formalmente sbandierato dagli attori implicati, purché la procedura sia, nelle forme empiriche che analizzeremo, consensuale e quindi inoppugnabile. Uno splendido esempio di meccanismo di colpevolizzazione che non lascia scampo èofferto da un grande studioso di perversione della logica: Il Re impallidì e chiuse il taccuino di colpo. “Emettete il vostro verdetto,” disse ai giurati, con voce fioca e tremante. “Prego, Maestà, ci sono altre prove da esaminare,” disse il Coniglio Bianco, balzando in piedi immediatamente. “È stato appena trovato questo foglio.” “Cosa c’è scritto?” disse la regina. “Non l'ho ancora aperto,” disse il Coniglio Bianco, “ma sembra che sia una lettera scritta dal prigioniero a... qualcuno.” “Dev'essere proprio così,” disse il Re, “a meno che non sia scritta a nessu-
no, il che è insolito, ti pare?”
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“A chi è indirizzata?” chiese uno dei giurati. “Non è indirizzata per niente,” disse il Coniglio Bianco. “Infatti, non c'è scritto niente fuor: [...].” “Sono scritti di pugno del prigioniero?” chiese un altro giurato. “No,” rispose il Coniglio Bianco, “e questo è proprio stranissimo.” (Tutti i giurati parvero perplessi). “Vi prego, maestà,” disse il fante. “Non l'ho scritta io, e non potete provare che l’abbia fatto: non c’è nessuna firma in fondo.” “Il fatto che tu non l’abbia firmata,” disse il Re, “peggiora soltanto le cose. Tu dovevi avere in mente qualche misfatto, altrimenti avresti messo la tua firma come uomo onesto [....].” “Ciò prova la sua colpevolezza”, disse la Regina.® .
Note 1
Frase attribuita al reverendo Albert Cleage, citata in M. Davis, Controllo urbano.
L’ecologia della paura, in Agonia di Los Angeles, Datanews, Roma 1994, p. 25. Per una sintesi di questi sviluppi, cfr. C. West, La razza conta, Feltrinelli, Milano 1995 e B. Cartosio, L'autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, ShaKe, Milano 1998. Ma si veda in particolare M. Davis, City of
Quartz. Excavating the Future of Los Angeles, Verso, London 1991 (trad. it. parziale, La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles, manifestolibri, Roma 1993). Cfr. anche Id., Who killed Los Angeles? A political Autopsy, “New Left Review”, 197, 1993, pp. 23-28, e 198, pp. 29-542, e Who killed Los Angeles. Part two: the Verdict is given, “New Left Review”, 199, 1993 (trad. it. parziale, Chi ha assassinato Los Angeles? La sentenza è pronunciata, “aut aut”, 275, 1996, pp. 103-128). Sulle attuali politiche migratorie negli Usa cfr. L. Ocasio, The Year of the Immigrant as Scapegoat, “Nacla. Report on the Americas”, 1995, n.3. A. Roos, Staatliche Politik gegentiber Fliichtingen, in G. Bòhme, R. Chakraborty, F Weiler, a cura di, Migration und Auslanderfeindlichkett, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1994, pp. 191 sgg.
Cfr. Forschungsgesellschaft Flucht und Migration, Gegen die Festung Europa, Heft 1: Polen vor den Toren der Festung Europa, Verlag der Buchladen Schwarze RisseRote Strasse, Berlin und Gottingen 1995; e Geger die Festung Europa. Heft 2: Rumanien vor den Toren der Festung Europa, Verlag der Buchladen Schwarze Risse-Rote Strasse, Berlin und Gòttingen 1996. Per una ricostruzione del dibattito tedesco sulle nuove migrazioni cfr. K.J. Bade, Homo Migrans. Wanderungen aus und nach Deutschland, Klartext, Essen 1994. Sulla xenofobia dell'inizio degli anni novanta in Germania cfr. B. Nirumand, a cura di, Angst vor den Deutschen. Terror gegen Auslinder und der Zerfall des Rechtsstaates, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1992.
H. Dietrich, La fortezza Europa, relazione non pubblicata, dipartimento di Scienze
dei processi cognitivi, del comportamento e della comunicazione, Università di
54
Genova, maggio 1997; Id., Ferndbild “Ulegale”. Eine Skizze zu Sozialtechnik und Grenzregime, “Mittelweg 36”, 3, 1998. Cfr. anche L. Toller, Gli sbarchi dei migranti senza documenti al sud: modelli di differenzialismo nella fortezza Europa, “Altreragioni”, 6, 1997, pp. 47-61. Contemporaneamente, i migranti residenti in Germania
sono stati sottoposti negli ultimi anni a controlli sempre più capillari. Cfr. Forschungsgesellschaft Flucht und Migration, Geger die Festung Europa. Heft 4: “Sie bebandeln uns wie Tiere”. Rassismus bei Polizei und Justiz in Deutschland, Verlag der Buchladen Schwarze Risse-Rote Strasse, Berlin und Géttingen 1997.
S. Farian Sabahi, Consigli per i clandestini, “il Sole 24 Ore”, 9 agosto 1998, p. 26. i
Si veda Afelse (Association pour la Fraternité, l’Egalité e la Liberté sans Exclusion), La ballade des sans papiers, Paris 1996; e anche D. Fassin, A. Morice e C. Quiminal, a cura di, Les lors de l’inbospitalité. Les politiques de l'immigration è l’épreuve des sans-papiers, La Découverte, Paris 1997. Per un panorama delle misure di polizia (campi di internamento eccetera) adottate oggi in tutta Europa contro i migranti, cfr. Aa.Vv., L'Europe barbelée, L'Harmattan, Paris 1998. L.S. Yoldi, La immzigracion extranjera en Espania: balance y actitudes, Departamento de Sociologia y Antropologia social, Valencia 1997 (testo non pubblicato, trasmesso gentilmente dall’autrice). J. Goytisolo, La frontiera di cristallo, “Internazionale”, n. 247, 1998.
10 Gli accordi di Schengen del 1985 disciplinano l'abolizione dei controlli per i cittadini comunitari alle frontiere degli stati membri della Comunità europea, e di con-
seguenza regolamentano il controllo delle frontiere esterne alla Comunità. Agli accordi, promossi dalla Francia, dalla Germania e dal Benelux, aderiva un gruppo iniziale costituito dai rappresentanti dei ministeri degli interni degli stati contraenti. A questo gruppo, costituito dalle polizie europee, la commissione della comunità europea (in base alla successiva convenzione del 1990) partecipa solo in qualità di osservatore. In altri termini le disposizioni relative al controllo di migranti e profughi sono il frutto di un accordo “operativo” tra gli organi di sicurezza di alcuni stati e non il frutto di una deliberazione comunitaria (cfr. A. Adinolfi, I lavoratori extracomunitari. Norme interne e internazionali, il Mulino, Bologna 1992). Gli ac-
cordi di Schengen, in virtù del loro carattere sperimentale e al tempo stesso vincolante, indicano quali autorità controlleranno in futuro l’ordine pubblico interno ed esterno alla Fortezza Europa (cfr. N. Christie, Il business penitenziario. La via occi-
dentale al gulag, Eléuthera, Milano 1997). Mostreremo più avanti come la militariz-
zazione dei confini mediterranei dell'Europa non sia una risposta all’inesistente “invasione” dei clandestini, ma una conseguenza del tutto logica dell’edificazione dell’Europa come spazio economico concorrenziale (rispetto agli Usa, al Giappone e alle economie emergenti del Sudest asiatico) e dominante rispetto ai paesi poveri. Cfr. D. Bigo, L’Europe des polices, Complexe, Paris 1992 e Id., La ragnatela delle polizie d'Europa, “Le Monde Diplomatique-il manifesto”, n. 10, ottobre 1996. Si veda anche H. Busch, Grenzenlose Polizei? Neue Grenzen und polizeiliche Zusam-
menarbeit in Europa, Westfalisches Dampfboot, Miinster 1995. Da parte sua I. Taylor (The New Virtuality: Cyber-resolutions to the Problem of Euopean Union Border Control, relazione al convegno internazionale “Migrazioni, interazioni e conflitti nella costruzione di una democrazia europea”, Bologna, 16-19 dicembre
1997) interpreta come una conseguenza del nuovo ordine economico europeo la
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tendenza all’inasprimento dei controlli delle frontiere. Ma si veda invece, per una presa di posizione esplicitamente favorevole alla logica del nuovo ordine europeo PP. Portinaro, Interesse nazionale e interesse globale. L'età della competizione geoeconomica, Franco Angeli, Milano 1996. 11 Nell'estate del 1997, l’Italia sottoscrive a pieno titolo gli accordi di Schengen, ma i
rappresentanti tedeschi dichiarano che l’Italia non è ancora in grado di proteggere le frontiere meridionali (cfr. iquotidiani del 25 giugno 1997). Quando, nel gennaio 1998, poche migliaia di curdi arrivano in Italia, il ministro degli interni tedesco mette in dubbio il diritto dell’Italia di rimanere nel sistema Schengen. Come afferma il presidente del consiglio italiano: “Quando vado agli incontri internazionali sono ritenuto responsabile dell'emigrazione in Germania e non solo di quella in Italia” (R. Prodi, Intervento conclusivo, in Presentazione del rapporto annuale, 1997, sui problemi della sicurezza in Emilia-Romagna, Bologna, 1 dicembre 1997, p. 17). Non c’è bisogno di dire che tutto ciò mostra come, in materia di politica internazionale (oltre che finanziaria) la sovranità dei singoli stati dell’Unione europea sia sempre più limitata. Su questi aspetti, cfr. S. Sassen, Losing Control? Sovereignity in an Age of Globalization, Columbia University Press, New York 1996. 12 L’alto commissariato dell’Onu per i profughi ha denunciato l’illegalità del blocco
navale attuato dall’Italia (cfr. i quotidiani del 23 marzo 1997). 13 Per un’analisi di questi mutamenti cfr. A. Dal Lago, The Impact of Migrations on
Receiving Societies. The Italian Case, rapporto di ricerca presentato alla DGXI della Comunità europea, novembre 1998. L'evoluzione degli atteggiamenti nei confronti degli stranieri si può seguire grazie a una serie di ricerche longitudinali curate dalIres Piemonte; cfr. Ires Piemonte, Uguali e diversi. Il mondo culturale, le reti di
rapporti, i lavori degli immigrati non europei a Torino, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; Id., Rurzore. Atteggiamenti verso gli immigrati stranieri, Rosenberg & Sellier, Torino 1992; Id., Le chiavi della città, Rosenberg & Sellier, Torino 1994; Id., Atteggiamenti e comportamenti verso gli immigrati in alcuni ambienti istituzionali, Rosenberg & Sellier, Torino 1995. Tuttavia, come vedremo, le ricerche disponibili non sono sufficienti per parlare di un atteggiamento “xenofobo” di massa, mentre invece è documentabile la campagna condotta contro gli stranieri da gran parte della stampa e dello schieramento politico.
14
Citato in R. Biorcio, La Padania promessa. La storia, le idee e la logica d'azione della Lega nord, il Saggiatore, Milano 1997, p. 158.
15 Cfr. R. Munz, Europa und die groBen Wanderungen des 20. Jabrbunderts, in H.
Minkler e B. Ladwig, a cura di, Furcht und Faszination. Facetten der Fremdheit, Akademie Verlag, Berlin 1997, pp. 296-297, dove vengono richiamati dati di “Eurobarometro”, 1/1988 e 1/1992. 16 Caritas di Roma, Immigrazione. Dossier statistico 96, Anterem, Roma 1996, p. 112.
Cfr. anche G. Di Liegro, Immigrazione. Un punto di vista, Sensibili alle foglie, Roma 1997. 17 Al momento di presentare la proposta di legge, nel febbraio 1997, alcuni esponenti
della maggioranza si sono dichiarati soddisfatti perché la nuova legge riconosce i
“diritti” degli immigrati. E forse la prima volta, dunque, che degli uomini politici italiani ammettono che in precedenza, e nonostante un’immigrazione che dura da circa 15 anni, i diritti dei migranti non sono stati riconosciuti nel nostro paese. Per
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il testo della proposta di legge, più favorevole agli immigrati di quanto sarebbe stata la legge successivamente approvata, vedi G. Napolitano e L. Turco, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, schema di disegno di legge, Roma 13 febbraio 1997. 18 Cfr. G. Napolitano e L.Turco, op. cit., art. 5, 6 e 7, pp. 14-15. Questi articoli sono
rimasti invariati nella legge approvata nel febbraio 1998. Si noti che il potere di concedere visti e permessi è attribuito al questore. 19 G. Napolitano e L. Turco, op. ait., art. 11, 12, 13 e 14. Articoli rimasti invariati nella
legge successiva. 20 Come nota Filippo Gentiloni in uno sconsolato editoriale su “il manifesto” del 5
luglio 1998. DI
Nel marzo 1998 l'Arci pubblica un’inserzione su “il manifesto” in cui rivendica il proprio ruolo nell’approvazione di una “buona legge”.
22
Spesso nelle aggressioni contro gli zingari è coinvolta la malavita locale. Si legga la seguente cronaca: “Nella stagione calda della protesta di Quarto contro gli zingari, quella coppia di manifestanti era sempre in prima fila. Ieri i vigili urbani li hanno denunciati per ricettazione: la loro casa era piena di refurtiva trafugata da appartamenti anche di Quarto alta” (“Il Lavoro”, supplemento genovese di “la Repubblica”, 14 dicembre 1996, p. vi). Fatti di questo tipo non sono isolati. La piccola malavita autoctona favorisce o promuove le mobilitazioni anti zingari o anti immigrati anche perché le attenzioni della forza pubblica diminuiscono nei quartieri da cui sono stati allontanati stranieri o nomadi. Sulla vicenda si veda un accurato resoconto in S. Capra e G. Baroni, Carpi nomadi a Genova, in P. Brunello, a cura di, L'urbanistica del disprezzo. Campi Rom e società italiana, manifestolibri, Roma 1996,
pp. 137 sgg. Cfr. anche A. Giordano, Caccia agli zingari, “Il Venerdì di Repubblica”, n. 184, 1995, pp. 44 sgg. 23
24
Uno dei casi più rivelatori di questa tendenza è la “rivolta” dei cittadini di un quartiere di Milano che si conclude con l’assalto a un bar, frequentato da “marocchini”. Cfr. “Corriere della sera” dei giorni 4, 5 e 6 giugno 1998. Dalle cronache appare evidente che il bersaglio della protesta non è costituito solo dallo spaccio, ma anche dalla presenza di persone che “schiamazzano”, si “ubriacano”, stanno ferme per ore agli angoli delle strade aspettando “chissà chi” eccetera. Caritas di Roma, op. cit., pp. 185 sgg. Il 50% delle aggressioni sono avvenute in
luoghi pubblici. Cfr. anche A. Buso, Rapporto di ricerca sulle manifestazioni del pregiudizio, dell’intolleranza e della violenza razzista in Italia, Istituto Piemontese “A. Gramsci” — Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 1996. 25
Cfr. i quotidiani del 12 giugno 1997. Il giorno precedente, 5000 cittadini di Torino manifestano contro la criminalità degli immigrati urlando lo slogan “Chi non salta marocchino è”. Alla manifestazione, organizzata dai comitati di quartiere e dai partiti di destra partecipa anche il Pds torinese.
26
“il manifesto”, 5 luglio 1995.
27 “la Repubblica”, 2 giugno 1995. Dalla cronaca si desume che legare un immigrato e lasciarlo morire è “normale”. Episodi di questo tipo mostrano come in Italia sia pressoché impossibile stabilire il numero delle vittime del razzismo. 28
“la Repubblica”, 11 settembre 1997, p. 18 (corsivo mio).
57
255) S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Fondazione Cariplo/Ismu, Milano 1994; e Id., Polizia e sicurezza urbana, Istituto Universitario Europeo, diparti-
mento di Scienze politiche e sociali, Fiesole 1995. Il ruolo della polizia nella selezione dei migranti come categoria-bersaglio configura ciò che Skolnick ha definito “giustizia senza processo”. Cfr. J. Skolnick, Justice without Trial. Law Enforcement in a Democratic Society, J. Wiley & Sons, New York 1975. Non condivido le tesi esposte da M. Barbagli in Imigrazione e criminalità in Italia, il Mulino, Bologna 1998. In primo luogo, questo libro parla solo della criminalità degli immigrati, ma non della violenza (e di altre forme di criminalità) di cui gli immigrati sono vittime. In secondo luogo, Barbagli confuta la tesi della stigmatizzazione dei migranti da parte degli organi di polizia e del sistema giudiziario senza addurre argomenti sufficienti. In terzo luogo, la tesi di un ruolo crescente degli immigrati nell’espansione della criminalità poggia quasi esclusivamente su statistiche ufficiali e su testimonianze di attori prevenuti (per esempio i comitati “sicuritari”), oppure attivi nella
definizione istituzionale della realtà (come il ministro degli interni). 30 Il 27 luglio 1997 “il manifesto” riporta la lettera di un turista olandese in cui si denunciano le quotidiane vessazioni a cui gli ambulanti stranieri sono sottoposti nelle
spiagge della Romagna. Per sfuggire ai vigili urbani inviati dalle amministrazioni democratiche per ripulire le spiagge da “abusivi” e clandestini, gli ambulanti si gettano in mare dove restano per alcune ore. 31
La testimonianza è riportata in S. Chistolini, Dal razzismo di strada all’educazione interculturale nell'università italiana, in C. Brusa, a cura di, Immigrazione e muiti-
cultura nell'Italia di oggi. Il territorio, i problemi, la didattica, Franco Angeli, Milano 1997. È abbastanza sconcertante comunque che la testimonianza in questione
sia definita come esempio di “razzismo di strada” (analogamente agli insulti e ad altre manifestazioni di ostilità) e non di razzismo istituzionale. 32 Botte ingiuste, denunceremo quei finanzieri, “Il Corriere Mercantile”, 2 maggio
1997, p. 15 (corsivi miei). L'autore dell’articolo cerca di far credere ai lettori che un ragazzo fermato dopo uno scippo, picchiato da un gruppo di finanzieri e ricoverato al pronto soccorso, è in stato soporoso forse “perché drogato”. 33 A. Caputo, C. Putignano, Immigrazione e aspetti giudiziari, in Caritas di Roma, Immigrazione. Dossier statistico 1995, Anterem, Roma 1995, pp. 205 sgg. 34 M. Lagazzi, D. Malfatti, E. Pallestrini, N. Rossoni, Irmzzigrazione, comportamento
criminale e sanzione penale. Riflessioni sulla figura dell'“immigrato-spacciatore” nella città di Genova, “Rassegna italiana di criminologia”, 1, 1996, pp. 145-164. Come notano questi autori, “... sembra quindi delinearsi una sorta di selezione in negativo degli imputati extraeuropei, i quali rappresentano una parte che appare numericamente ampia e forse ‘qualitativamente’ limitata del mercato genovese della droga, ma che accentra su di sé una parte sostanzialmente prevalente della sanzione penale irrogata” (p. 161). Se le conclusioni di questi autori sono corrette, come credo, si può parlare di una discriminazione di fatto degli stranieri che entrano in contatto con il nostro sistema penale. Per questo motivo, i dati percentuali e assoluti sulla detenzione e sulla condanna degli stranieri non indicano tanto una maggiore “propensione a delinquere” quanto una maggiore selettività negativa dei sistemi repressivi e giudiziari nei loro confronti. Si veda su questo punto M. Pastore, Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati, “Quaderni Ismu”, 9, 1995, pp. 34 sgg.; e S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli
58
immigrati, cit., pp. 161 sgg. Per le questioni metodologiche e politiche implicate da questo tipo di ricerca cfr. B. Bowling, Conceptual and Methodological Problems in Measuring “Race” Differences in Delinquency, “British Journal of Criminology”, 4, 1990, pp. 483-491; e B. Agozino, Changes in the social Construct of Criminality among Immigrants in the United Kingdom, in S. Palidda, a cura di, Délit d’immigra-
tion. La construction sociale de la deviance et de la criminalité parmi les immigrés, Cost A2/Migrations, Bruxelles 1996. 35 C. Sarzotti, Uguaglianza e modelli di processo penale, in A. Cottino e C. Sarzotti, a cura di, Diritto, uguaglianza e processo penale, L'Harmattan Italia, Torino 1996.
36 Intervista a un sostituto procuratore di Milano. 37 Intervista a un magistrato milanese. 38 Intervista a un sostituto procuratore di Milano. 39 Avvocato di Genova. 40 Funzionario carcerario. 41 Per un'analisi degli equivoci provocati dall’uso delle statistiche penali dell’immigrazione, cfr. P. Tournier, e P. Robert, Etrangers et delinquances. Les chiffres du débat, L'Harmattan, Paris 1991. 42
Consiglio d'Europa, Rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia, Sellerio, Palermo 1995; D. Passarella e A. Spinelli, a cura di, GU stranieri in
carcere, Ed. Sinnos, Roma 1994; V. Ruggiero, Flexsbility and Intermittent Emergency în the Italian Penal System, in V. Ruggiero, M. Ryan, J. Sim, a cura di, Western Penal Systems. A Critical Anatomy, Sage, London 1995. Cfr. anche Caritas di Roma-Fondazione Zancan, I bisogni dimenticati. Rapporto 1996 su emarginazione ed esclusione sociale, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 157 sgg. 43
“la Repubblica”, 1 giugno 1997, p. 21. Ma si veda anche G. Lago, Morte di una non-persona, “la Repubblica”, 9 giugno 1997.
44
Tra queste, L. Mura, Italia: di fronte a un crisi generale, in B. Baumgar e A. Favell, a cura di, La nuova xenofobia in Europa. Diversità e intolleranza alla fine del millen-
45
Cfr. M. Maneri, Stazpa quotidiana e senso comune nella costruzione sociale dell'im-
nio, Ponte alle Grazie, Firenze 1995.
migrato, tesi di dottorato in Sociologia, Università di Trento 1995.
46
Ogni fenomeno sociale, per essere visibile, deve essere oggetto di un discorso sociale autonomo, spesso prodotto di iniziative particolari e legittime. In Italia, diversamente dall’ “emergenza immigrazione”, la xenofobia non è ancora oggetto di un discorso sociale legittimo. Per una discussione teorica di questo problema ctr. il n. 5, 1996, dell’“American Journal of Sociology”, dedicato alla “costruzione sociale dei
significati” e in particolare R.N. Jacobs, Civil Society and Crisis: Culture, Discourse, and the Rodney King Beating, “American Journal of Sociology”, 5, marzo 1996. Ma si veda anche T.E. Van Dijk, Racisrz and the Press, Routledge, London 1991.
47 Caccia all'immigrato lungo le rive del Po, “la Repubblica”, 19 aprile 1997, p. 21 (corsivi miei).
48 Mentre diversi sociologi e criminologi si sono appassionati recentemente al tema della “propensione a delinquere degli immigrati”, esistono ben poche ricerche esaurienti sulla violenza contro gli immigrati. Come esempi di tale lacuna cfr. M.
59
Barbagli, Immigrazione e criminalità, cit., e il capitolo sull’immigrazione in $. Segre, La devianza giovanile. Cause sociali e politiche di prevenzione, Franco Angeli, Milano 1997. 49
“la Repubblica”, 20 luglio 1997, p. 6 (corsivo mio). Qualche giorno dopo, a Milano, tre altri marocchini vengono gravemente ustionati da alcune molotov lanciate da giovani italiani. Anche in questo caso, gli inquirenti non sanno spiegarsi l'accaduto, tendendo a escludere però la “matrice razzista”. Perché polizia e stampa si decidano a parlare di razzismo è necessario che gli aggressori si dichiarino razzisti. In caso contrario, tutti questi episodi, se non inspiegabili, sono misteriosi oppure causati dall’ubriachezza, dall’afa estiva o, in generale, dalla “gravità della situazione”.
50 Per un’ampia discussione di questo aspetto, S. Palidda, Verso il “Fascismo democratico”? Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, cit.
51
Non condivido perciò l'opinione di S. Sassen, secondo cui il “regime internazionale dei diritti umani” limiterebbe, al pari della globalizzazione economica, la sovranità
degli stati nazionali. Cfr. S. Sassen, Losing Control? Sovereignity in an Age of Globalization, cit., pp. 68 e 99. Non posso sollevare qui il problema dello statuto internazionale dei diversi atti o dichiarazioni dei diritti umani. Ma cfr. C. Fauré, Ce que déclarer des droits veut dire: histoires, Presses Universitaires de France, Paris 1997.
52 Corsivo mio. 53 Il 1 giugno 1997, il ministro degli interni Napolitano ribadisce, per eliminare ogni
equivoco, che l’immigrazione (dalle pratiche di regolarizzazione ai campi di custodia) è materia di competenza delle questure (“il manifesto”, 2 giugno 1997). Cfr. il testo del decreto Dini, “il Sole 24 Ore”, 2 dicembre 1995, p. 20. “la Repubblica”, 11 settembre 1997, p. 18 (corsivo mio).
Sull’ampiezza e la discrezionalità dei poteri della polizia italiana (0 meglio delle polizie italiane) previsti dal Testo unico di pubblica sicurezza, cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 795 sgg. La discrezionalità è pressoché illimitata nel caso degli stranieri, regolarizzati o no, legittimi o illegittimi. DI Per una critica di questo luogo comune, cfr. S. Rushdie, Patrie immaginarie, Mon-
dadori, Milano 1988. 58 È esemplare, da questo punto di vista, un documento sulla “diversità” diffuso nel
1996 dal governo italiano: cfr. Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento degli affari sociali, Tutti diversi, tutti uguali, Roma giugno 1996, p. 5. 59 Per questa definizione, cfr. A. Sayad, L'immzigration ou le paradoxe de l’alterité, cit. 60 La necessità dei confini come condizione politica della differenziazione etnica è
stata analizzata da Frederik Barth. Per Barth l’etnicizzazione delle culture (e dei relativi conflitti) è un processo che coinvolge l'interazione tra gruppi in divenire. Cfr. F. Barth, Introduction, in Process and Form in Social Life. Selected Essays, Routledge
and Kegan Paul, London 1981. Per una recente messa a punto della questione cfr. anche R. Gallissot e A. Rivera, L'imbroglio etnico in dieci parole chiave, Dedalo, Bamol997A
61
60
Sull’eterogeneità delle giustificazioni che possono essere invocate per qualificare qualcuno come nemico, cfr. G. Simmel in Der Mersch als Feind. Zwei Fragmente
aus einer Soziologie, in Aufsdtze und Abbandlungen 1901-1908, Suhrkamp, Frank-
furt a.M. 1992, vol. Il, pp. 335-343.
62 In realtà, si tratta del decreto Dini del novembre 1995. 63 E. Piervincenzi, Pericolo Lampedusa. Viaggio sull’isola presa d'assalto dagli immi-
grati nordafricani, “Il Venerdì di Repubblica”, 1 novembre 1996, pp. 28 sgg. Cfr. anche, per il punto di vista degli “altri”, C. Quazani, Avec le sans-papier de Lampedusa, “Jeune Afrique”, 10 dicembre 1996, trad. it. in “Internazionale”, 165, 24 gen-
naio 1997 64 E.J. Hobsbawm, in I/ secolo breve, Rizzoli, Milano 1997, fa notare giustamente che l’epoca delle dichiarazioni di guerra è definitivamente tramontata: 65 Dichiarazione del generale Carmine Fiore, comandante del contingente italiano in Somalia nel 1993, “La Stampa”, 8 giugno 1997, p.9. 66 Il periodico che ha rivelato le torture inflitte dagli italiani ai somali ha dato ampio rilievo al fatto che i soldati si accanivano anche contro le tartarughe. I soldati in-
somma trattavano alla stessa stregua somali e tartarughe. Cfr. G. Porzio, Sorzalia. Gli italiani torturavano i prigionieri: ecco le prove, “Panorama”, n. 23, 12 giugno 1997, pp. 20 sgg.
67 A. Sayad, La doppia pena del migrante. Note sul pensiero di stato, cit. 68 Una definizione (priva totalmente di ironia e non problematizzata) dei migranti come “meteci” è offerta da W. Kymlicka, Le sfide del multiculturalismo, “il Mulino”,
n.370, 1997, pp. 199 sgg. 69 Sulle vite sospese dei migranti cfr. A. Luciano, Vite sospese: il rischio dell’emigrante, “Rassegna italiana di sociologia”, 4, 1993. Numerose testimonianze empiriche in T. Campione, Io vivo nell'ombra. L'immigrazione in Abruzzo e le sue voci, Regione
Abruzzo, Assessorato alla promozione culturale, L'Aquila 1997. Eurispes, Rapporto Italia 96, Koiné Edizioni, Roma 1996, pp. 70 sgg. Citato in A. Petrillo, Migranti e città, saggio di prossima pubblicazione presso Costa & Nolan, Genova. “La Stampa”, 26 agosto 1997, p.31. G. Sartori, in “L'Espresso”, 11 settembre 1997, p. 68 (corsivo mio).
Una delle più belle illustrazioni letterarie della trasformazione del “clandestino” in non-persona è il romanzo di B. Traven, La nave morta, Rizzoli, Milano 1981.
715) Penso in particolare ai lavori di A. Sayad già citati. Per i temi discussi in questo li-
bro considero fondamentali le considerazioni sui “popoli senza stato” elaborate da H. Arendt, in Le origini del totalitarismo, cit., soprattutto la Parte seconda. 76 A. Sayad, L’immigration ou le paradoxe de l’alterité, cit., passim. 104 Cfr. La sicurezza in Emilia Romagna. Secondo rapporto annuale 1996, “Quaderni di città sicure”, cit. Ricerche condotte in altri paesi giungono a conclusioni analoghe. Cfr. D. Duprez e M. Hedli, Le mal des banlicues? Sentiment d’insécurité et crise
identitaire, ’Harmattan, Paris 1992; H. Lagrange, La civilité è l'épreuve. Crime et sentiment d'insécurité, Puf, Paris 1995.
78 A. Schutz, Saggi sociologici, Utet, Torino 1979.
61
79 H. Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1967.
80 Per il concetto di performatività cfr. J. Austin, Corze fare le cose con le parole, Ma-
rietti, Genova 1987. Come suggerisce M. d’Eramo (Che cos'è la globalizzazione, relazione non pubblicata, dipartimento di Scienze dei processi comunicativi, del comportamento e della comunicazione, Università di Genova 1997), questo processo è tipico delle costruzioni identitarie nel mondo contemporaneo. Sul carattere performativo del senso comune cfrianche M. De Certeau, L'invention du quotidien 1. Arts de faire, Gallimard, Paris 1990 (seconda ed.). 81
“la Repubblica”, 8 giugno 1997, p. 12.
82 L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie. Dentro lo specchio, Einaudi, Torino
1978, p. 113.
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La macchina della paura La distorsione della realtà nel reportage è il veritiero reportage sulla realtà. (K. Kraus, Pro domo et mundo)
Il sociologo non può disinteressarsi dell’ideologia razziale semplicemente perché dal punto di vista scientifico è una scempiaggine: molte situazioni sociali sono efficientemente controllate dalle definizioni di imbecilli. (P. Berger, Invito alla sociologia)
Qualcuno da odiare Ogni discriminazione o persecuzione degli stranieri, interni o esterni, viene tradizionalmente attuata mediante il ricorso a meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle vittime.’ Gli aggressori sono solitamente “vittime” di torti da raddrizzare o cittadini deboli o abbandonati dalle istituzioni che si coalizzano per fare giustizia, mentre gli aggrediti o i discriminati sono corpi estranei, invasori, corruttori o comunque nemici della società indifesa. Spesso, il ruolo di
difensori o vendicatori della società offesa viene assunto dagli imprenditori morali, avanguardie che si accollano il compito di scuotere un'opinione pubblica passiva e inconsapevole. Talvolta, singole istituzioni o centri di potere influenti mobilitano, mediante denunce appropriate, la società contro individui o gruppi.’ La colpevolizzazione delle vittime assume naturalmente forme diverse e varia di intensità a seconda dell’organizzazione politica della società, dell’esistenza e della forza
di un’opinione pubblica indipendente dal potere politico.° La persecuzione degli stranieri, interni (eretici, streghe e devianti di ogni tipo) o esterni (ebrei e zingari) è un fenomeno ricorrente della storia europea.’ Le prime crociate, e soprattutto quelle popolari, erano ac-
compagnate da una “risoluta” caccia agli ebrei, come ricordano le cronache del tempo.* Il panico suscitato dall’epidemia della peste nera, che spopolò l'Europa intorno alla metà del Quattordicesimo secolo, sfociò nella persecuzione e in un primo sterminio di massa degli ebrei, nell’indifferenza delle autorità politiche che avrebbero dovuto proteggerli.’ Dopo una prima fase di tolleranza, fino al secolo Quindicesimo, gli zingari subirono una persecuzione capillare da parte delle comunità urbane e delle autorità politiche e religiose.'° Anche nei periodi di quiete e di relativa tolleranza, gli stranieri erano ormai identificati come una
fonte potenziale di pericolo, di corruzione della società e quindi di paura." Dicerie incontrollate che si diffondevano passando di bocca in bocca (analoghe alle attuali “leggende metropolitane”)! attribuivano a ebrei e zingari pratiche sacrileghe e crimini atroci, come il rapimento dei bambini. Nell’epoca moderna, la cultura della paura si secolarizza e si estende ai nemici interni, prima alle classi lavoratrici in quanto “classi pericolose” e poi a tutti i tipi di devianti o criminali che periodicamente sono oggetto delle preoccupazioni collettive. Tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, nel lungo processo di inclusione delle classi lavoratrici urbane nella società occidentale, il ruolo dei nemici interni sarà progressivamente riservato, oltre che alle minoranze storicamente
discriminate, agli booligans, cioè ai teppisti e agli sbandati.” L'antisemitismo di fine Ottocento è una delle manifestazioni più vistose del persistere dei meccanismi sociali di persecuzione delle minoranze nell'Europa moderna. Ma l’evento che istituzionalizza la paura di massa del nemico nella cultura europea è certamente la Prima guerra mondiale, con il suo retaggio di odi nazionali e il seguito di guerre civili e rivoluzionarie. È proprio tra i milioni di uomini ammassati nelle trincee che si diffondono le dicerie di massa sul tradimento, sulle
quinte colonne che aiutano dall’interno il nemico esterno. Dopo la Prima guerra mondiale, sono i regimi totalitari a sfruttare la disponibi-
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lità di massa all’odio, imponendo, come nel caso del nazismo, la perse-
cuzione burocratica degli ebrei.” Un elemento comune alla stigmatizzazione degli stranieri interni o esterni (indipendentemente dalle specifiche forme storiche e dalle strumentalizzazioni politiche) è la paura della contaminazione, della mescolanza dei gruppi, della promiscuità sessuale, della diffusione di malattie provenienti dall’esterno. Se in passato questo tipo di paura collettiva ha alimentato le forme estreme di razzismo, oggi rinasce come preoccupazione di senso comune nella richiesta di controlli medici degli stranieri e si esprime in una “patologizzazione” degli stranieri in quanto tali.'* Un esempio di questa procedura di stigmatizzazione di senso comune viene offerto dall’intervista di un’attivista di un comitato di cittadini genovesi, se-
condo cui “nazionalità” degli “extracomunitari” e “malattie” sono sostanzialmente la stessa cosa. C'è stato un convegno di medici a Napoli — di cui io ho una conoscenza medica; mi ha mandato tutto il resoconto di quelle malattie che hanno potuto vedere che si possono... che ci sono... Di come è progredita la malattia, e tutto... Io c'ho proprio un documento così di questo convegno di Napoli. [...] delle malattie extracomunitarie, e queste cose qua [..]. Però mi hanno anche detto questo — mi hanno detto: “Questa cosa tienitela per te” [...] — ma io le dico che il cittadino straniero non mi vuole dire di che nazionalità è — non ce n’è problema: io gli faccio una schermografia, e dalla schermografia vengo a sapere di che nazionalità è. In questo convegno a Napoli hanno tirato fuori anche questo, appunto per tutelarci un pochino. Perciò, quando poi mi mettono alle strette, allora chiederemo anche che per sapere la nazionalità — aggiungeremo alle nostre richieste che per sapere la nazionalità di ogni cittadino di cui non si ha, basta fare la schermografia prodotta — cioè, richiesta — da questo medico nella maniera che la richiede lui... Noi veniamo anche a sapere di che nazionalità è.
Oggi, diversamente dai tradizionali nemici esterni e interni, i migranti entrano in contatto con società ufficialmente laicizzate ed estranee ai miti collettivi. In esse operano però imprenditori morali infinitamente più efficaci che in passato, capaci non solo di comunicare istantaneamente la paura a un numero enorme di persone, ma anche di alimentarla e in alcuni casi di crearla: i mezzi di comunicazione di massa. Dicerie, leggende metropolitane, pregiudizi e paure circolanti nelle società locali possono diventare, per effetto dell’informazione di massa, prima risorse simboliche e poi verità sociali oggettive." Stereotipi che probabilmente hanno sonnecchiato per secoli nella memoria collettiva — lo straniero come untore, vagabondo incontrollabile, orco, 65
ladro di bambini e stupratore di donne? — tornano in circolo grazie ai media e trovano conferma in episodi di cronaca nera, veri o falsi, reali
o virtuali, ma comunque ideali per alimentare le paure profonde. Si consideri, per esempio, l’articolo di un quotidiano che dà conto di “voci” su alcune pratiche criminali e occulte diffuse tra gli zingari: “QUI È FACILE RUBARE” Rispuntano i codici degli zingari ladri. Lo scherzo è davvero maligno e a quanto sembra funziona puntualmente, mietendo decine di vittime. Nelle ultime settimane sono comparsi sulle porte di molti appartamenti di Albaro, Borgoratti, San Martino e Sturla [quartieri di Genova], alcuni misteriosi “simboli” tracciati con matite o oggetti acuminati. Croci, cerchi, triangoli, lettere: sono i segni usati dai ladruncoli zingari, secondo un “codice” che da tempo è stato interpretato da carabinieri e polizia. [...] Quest'estate la notizia è circolata fin nelle aule parlamentari, il mese scorso un volantino con i simboli è finito sul tavolo del comandante dei vigili urbani, che l’ha
distribuito a tutte le sezioni. Ed eccolo qui lo scherzo: il vicino di casa traccia una croce vicino al campanello di quell’antipatico della porta accanto, che quando lo scopre comincia a vivere nel terrore. [...] “Ma di ladruncoli nemmeno l’ombra. Qualcuno avrà voluto fare lo spiritoso,” commentano i carabinieri.”
Ecco un esempio pressoché perfetto di leggenda metropolitana contemporanea, legittimata e riprodotta prima dalle istituzioni e poi dai mezzi di comunicazione di massa. In realtà, non esiste alcuna pro-
va dell’uso contemporaneo di un “codice” di questo tipo. Oltretutto, se si esamina attentamente il volantino in questione (figura n. 3), si
scopre che i famosi simboli non hanno, in quanto tali, alcun significato criminale. Si tratta in realtà della rielaborazione di segni usati in passato dai mendicanti nelle mappe di “questua” (figura n. 2), la cui scomparsa (almeno in Italia) è segnalata già all’inizio degli anni sessanta.? È dunque probabile che, dopo la campagna antinomadi dell’autunno 1995 a Genova, qualcuno abbia ripescato questi simboli attribuendoli agli zingari, per poi trasmetterli al comando dei Vigili urbani di Genova, che li ha diffusi mediante il volantino riprodotto nella figura 3. Ma il punto in questione è un altro. Con l’obiettivo di riferire uno “scherzo”, l'articolo conferma il presupposto che i cittadini vivano nel “terrore” a causa delle attività sinistre e misteriose dei nomadi. Il fatto che di ladruncoli non ci sia “nemmeno l’ombra” non viene invocato per ridicolizzare la leggenda ma per denunciare gli “spiritosi”. In realtà, di che cosa vengono accusati i nomadi, grazie a queste leggende prese per buone, “interpretate” e legittimate dalla polizia municipale e dif66
FIGURA 2e3 Da “mendicanti” e “girovaghi” a “ladri” 2) Uno dei segni convenzionali dei mendicanti, riprodotto in s.a. [Bruno Munari], Alfabeti convenzionali, in Almanacco Letterario Bompiani 1963. La civiltà dell'immagine, Bompiani, Milano 1962. Scrive l’autore: “Sulle lamiere di latta delle baracche di periferia [...] i segni dei mendicanti e dei girovaghi, ormai scomparsi dalle città, si vedono sempre più di rado”. 3) Trent'anni dopo, i segni convenzionali dei mendicanti sono automaticamente attribuiti ai ladri. Volantino diffuso via fax dalle forze dell’ordine, 1997.
X = BUON OBBIETTIVO 9 = CASA MOLTO BUONA ©
CASA CON GENTE GENEROSA
+0 X » CARABINIERI O POUZIA ATTIVA TIT » EVITARE QUESTO. COMUNE % »- PERICOLO SEMPRE ABITATA
(O x CASA CON GENTE AMICHEVOLE — i] = QUISIDA' LAVORO ) « CASA DISABITATA
= QUI VIVONO DONNE CON CUORE
É = DONNA SOLA
® = BUONA ACCOGLIENZA SE SI PARLA DI DIO
—N
NOTTE
) « DOMENICA
4/2 CASA APPENA VISITATA
AH « PoMERIEGIO
© = INUTILE INSISTERE
MH = MATTINA
&= NON INTERESSANTE
[L. » CASARICCA
ANT CANE IN CASA
Oy = CASA CONTROLL TELEFONICAMEN!
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FUSSUICO UFFICIALE
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QUESTI SEGNI VENGONO DISEGNATI] PROBABILMENTE VICINO A CITOFONI O SU PARETI DEGL STABILI PRES! DI MIRA DA ZINGARI PRIMADISVOLGERE FURTI IN
APPARTAMENTI O DITTE. CHIUNQUE SI ACCORGESSE DI QUESTI SEGNI SOPRAINDICATI, AVVISI TEMPESTIVAMENTE IL PIU' VICINO ORGANI DI PUBBLICA SICUREZZA TEL CARABINIERI 112
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fuse dai media? Nient'altro che di tracciare segni sulle porte delle case “n cui è facile rubare”, esattamente come gli untori di manzoniana
memoria erano accusati di “ungere” le porte delle case per contaminare gli abitanti. I fatti di cronaca nera di cui sono eventualmente responsabili gli stranieri non sono che prove empiriche di una verità data per scontata nell’informazione di massa. Se uno straniero compie una violenza su una donna, è perché tutti gli stranieri sono naturalmente stupratori potenziali (se però due stranieri salvano un cittadino italiano da un’aggressione, il fatto non potrà essere generalizzato, in quanto implicitamente valutato come eccezione alla regola).? La paura dello straniero diviene così una risorsa utilizzabile per ogni scopo: per i media, una fonte continua di sensazioni forti, per gli imprenditori morali o politici un'occasione di procurarsi consenso. Solo raramente l’uso della risorsa dello straniero minaccioso è così scoperto da consentirci di mettere in luce l’intreccio perverso di paure collettive, sensazionalismo dei media e strumentalizzazioni pubbliche. Ecco la cronaca di un episodio che si potrebbe confinare nella sfera del boccaccesco locale, se non contenesse implicazioni gravi per le vere vittime, e cioè gli stranieri: UN FINTO STUPRO PER COPRIRE L'AMANTE
La donna confessa: così ho inventato la violenza degli albanesi. Brescia — Cielo, mio marito. Doveva essere un piccolo dramma coniugale,
del tipo buono per alimentare per qualche settimana le chiacchiere di questo paesone che si chiama Capriolo. Ma la signora Maria Angela e quel simpatico balordo del suo amante hanno avuto un lampo di genio. E lì per lì hanno inventato la storia che per due giorni ha seminato il terrore nella vasta e operosa pianura che si stende a sud di Brescia. La banda di albanesi o magari slavi stupratori o razziatori era la copia fedele di quella di Ljiubisa Urbanovic, detto Manolo, che sette anni fa seminò davvero il lutto da que-
ste parti. Ma stavolta il clima è cambiato, e insieme ai carabinieri e alla polizia la notizia scatena anche la Lega nord: l'onorevole Caldiroli annuncia le ronde delle camicie verdi e il sindaco leghista Rigamonti convoca un consiglio comunale straordinario per varare la schedatura degli immigrati.”
Questa è la cronaca di una storia grottesca che finisce apparentemente “bene”. Sulla stessa pagina del quotidiano da cui abbiamo tratto la citazione, Natalia Aspesi ha buon gioco a ironizzare sulla vicenda paesana, anzi padana (“per quanto nella zona ci sia molto risentimento verso gli extracomunitari per ragioni reali, veri fastidi, spaventi e furti”). E anche se gli esponenti leghisti insistono impavidamente a strumentalizzare l'episodio (“Adesso diranno: poverini, li hanno accusati 68
ingiustamente. Poverini un accidente”),° si potrebbe pensare che, per una volta, una fandonia razzista è stata pubblicamente ridicolizzata,
con il conseguente sollievo dell’opinione pubblica democratica. Eppure, questa vicenda di corna e di calunnie ha un retroscena sinistro, che viene facilmente alla luce se si esaminano le cronache pubblicate prizza del lieto fine. Riportiamo i resoconti della presunta aggressione tratti dai due principali quotidiani nazionali: “ARANCIA MECCANICA”. LE RONDE SI MOBILITANO Brescia, dopo l’aggressione a un imprenditore: i banditi, slavi o albanesi, avevano anche tentato di violentare la moglie. Brescia — [...]. La vicenda risale alla notte tra giovedì e venerdì. Oliviero, 42 anni, è un imprenditore che si occupa di import-export di motori marini. Nella notte, intorno alle due, l’uomo si sveglia per alcuni rumori che arrivano da un’altra stanza, dove dorme la moglie e si alza per raggiungerla: la donna è influenzata, può aver bisogno d’aiuto. Sulla porta, però, un uomo con il volto coperto da una calza lo colpisce alla testa. [...] Poi, mentre uno dei due banditi punta il coltello alla gola dell’uomo e minaccia il figlio Massimiliano, l’altro tenta di stuprare la donna. [...] I carabinieri della zona hanno pochi dubbi: si tratta di slavi o albanesi. Parlavano italiano ma erano chiaramente stranieri. I coniugi Signoroni sono anche riusciti a fornire l’identikit dei due rapinatori. Un uomo era alto un metro e 75, aveva capelli lunghi, neri e ricci e occhi scuri. Il complice era più basso, intorno al metro e 60, capelli scuri a caschetto e viso ovale.” DIMESSA
LA DONNA
STUPRATA
DAVANTI
GRATI NELLA ZONA CHE FU TERRORIZZATA
AL MARITO,
È CACCIA
A DUE
IMMI-
DALLO SLAVO
E dopo la notte di violenza Napolitano promette l’arrivo di una task force. Brescia — Certo, non può essere stato Manolo, lo slavo che per anni ha seminato il terrore nelle villette, nelle case isolate del bresciano. [...] Il killer dagli occhi di ghiaccio dovrebbe trovarsi ancora in un carcere della Serbia anche se, dopo la condanna del tribunale di casa (15 anni, scontabili a 5) ha lanciato l’ultima minaccia: “Tornerò in Italia”. Ma l’assalto dell’altra notte all’anonima villetta di Capriolo di quei due che hanno sorpreso nel sonno il piccolo imprenditore Oliviero Signoroni, 42 anni, e la moglie Maria Angiola, 32, porta una “firma” molto simile. [...]
Il nuovo caso “Brescia”, il fai-da-te della sicurezza, rimbalza a Roma. Il senatore del Carroccio Tabladini, dopo un incontro con il sindaco di Capriolo Fabrizio Rigamonti, che annuncia a sua volta un censimento degli extracomunitari, ha telefonato a Napolitano e il ministro ha promesso l’in-
vio di una task force di superinvestigatori da Milano. In mano degli inquirenti solo due identikit ricostruiti a fatica con le testimonianze delle vittime sotto profondo choc. “Stranieri, parlavano un italiano stentato. Ma di pelle bianca.” Slavi come Manolo, oppure albanesi. 69
Magari fanno parte di quel popolo di sbandati accampatisi nei cascinali che si arrangiano con lavori precari e mandano i figli a chiedere l’elemosina. [...] Il neoquestore Gennaro Arena raccomanda ai cittadini la collaborazione. Le indagini puntano sugli extracomunitari? Arena: “In provincia se ne contano 24.000, di regolari. Ma ci sono migliaia di clandestini. Si spostano di continuo, impossibile controllarli”. Maurizio Marinelli, funzionario di pubblica sicurezza a Brescia, è il diret-
tore del Centro nazionale di studi e ricerche sulla polizia. Ha appena pubblicato un’indagine sull’impennata della criminalità nella provincia in seguito alla continua crescita di clandestini. “Ci mancano armi. I provvedimenti di espulsione restano sulla carta e troppi uomini sono impegnati a fare da ‘portinai’ nelle nostre sedi.” [...] A Pontevico, Guido Viscardi, il superstite della strage di famiglia, conta i giorni che mancano alla liberazione di Manolo. “Lui vuole tornare in Italia per uccidermi,” dice. “Quando tornerà fuori datemi almeno una pistola.”
Ecco dunque la versione dei “fatti” che i lettori di due grandi quotidiani hanno potuto apprendere dalle cronache prima che tutto si sgonfiasse. Gli autori dei pezzi ignorano elementari espedienti che dovrebbero far parte del minimo bagaglio professionale di un giornalista, quali l’uso del condizionale o espressioni di cautela quando si riportano fatti non provati (“si dice che”, “sembra che”, “presunto” eccetera). Grazie all’assertività della cronaca, le opinioni dei protagonisti e degli inquirenti (“i carabinieri della zona hanno pochi dubbi”) diventano automaticamente versione legittima della realtà, fino a includere, soprattutto nell’articolo de “la Repubblica”, “testimonianze” su particolari somatici inesistenti, ma dall’evidente simbolismo razziale (“ca-
pelli scuri e ricci”, “occhi scuri”) eccetera. Qui non si tratta di smascherare l’imperizia o superficialità di questi pretendenti a un premio Pulitzer nostrano, ma di rilevare come le cronache siano situate natu-
ralmente all’interno del /razze? “stranieri e immigrati delinquenti come nostri nemici”, un frazze confermato dall’“ovvio” collegamento con un precedente fatto di cronaca nera — le imprese di Manolo, che
non hanno nulla in comune con la presunta aggressione di Brescia se non la nazionalità “straniera” del famoso “killer dagli occhi di ghiaccio” — e legittimato dall’autorevole parere degli esperti, questori e poliziotti vari ché forniscono i necessari dettagli (“migliaia di clandestini”, “ci mancano armi” eccetera). Il particolare del parente della vittima (di una precedente aggressione) che chiede una pistola per difendersi dal ritorno del temibile Manolo aggiunge un caratteristico tocco western all’intera “vicenda”. 70
L'attribuzione agli “stranieri” (“immigrati extracomunitari”, “serbi”, “albanesi”, “slavi” o “nomadi” che siano), di un misfatto che non
c'è stato è dunque nell’esclusiva costruzione dei fatti da parte dei giornalisti. Costruzione, si deve sottolineare, e non mera invenzione,’ per-
ché i giornalisti non fanno altro che ricorrere a un frazze, a una risorsa simbolica, naturalmente
disponibile, come
mostrano
le immediate
prese di posizione dei politici (i leghisti, il ministro Napolitano che promette la “task force”). In altri termini, i giornalisti si limitano a riversare i “fatti” in uno stampo già disponibile.” Si assiste così al fatto curioso che i giornalisti, “naturalmente”, ovviamente “in buona fede”, non fanno che dar credito a uno stereotipo che loro stessi hanno contribuito a creare. Anche se si è risolto nei risolini del paese e nel “sollievo” dei democratici, l'episodio in questione ci mostra limpidamente, una volta tanto, non solo gli stretti rapporti tra chiacchiera locale e informazione nazionale (ciò che, come vedremo subito, si può definire circolarità”? o “tautologia” della paura), ma anche la facilità con cui
degli innocenti astratti, generici, possono essere accusati di crimini inesistenti.”
La tautologia della paura “Fatti” come quelli di Brescia sono esempi suggestivi del circuito tra senso comune locale (“Sono stati gli albanesi”), iniziative politiche (“ronde”) e generalizzazione a opera dei media (“Ritorna l'incubo Manolo”), grazie al quale lo straniero viene incessantemente costruito e ri-costruito come nemico. Indipendentemente dal loro contesto locale, questi fatti acquistano senso, visibilità e realtà solo grazie al rilievo ottenuto dalla stampa, che risulta quindi l'attore decisivo nell’alimentare il circuito. Se nel corso degli anni ottanta le informazioni relative all'immigrazione erano soggette a una grande variabilità,’ a partire dai primi anni novanta la stampa quotidiana dedica all'immigrazione un’attenzione costante e crescente. Si tratta di un’attenzione in gran parte concentrata su notizie negative, che comunicano un'immagine dell’immigrazione come problema sociale “grave”: per esempio, su 824 articoli relativi agli immigrati pubblicati su 7 quotidiani nazionali negli anni 1992/1993, il 47% riporta notizie di reati commessi da im-
migrati o di provvedimenti di ordine pubblico che li riguardano, ma solo 18% episodi di razzismo o di xenofobia.” Ma, prima ancora che dalla prevalenza quantitativa dell’informazione negativa, l’immagine mai
dei migranti come “problema”, “piaga” o “minaccia” è costruita e comunicata dagli organi di informazione mediante l’uso costante di titoli a effetto, di scelte stilistiche che sembrano calcolate per provocare un disgusto “oggettivo” nei lettori. Ecco una breve rassegna di titoli: COSTRETTO A BERE L'ACQUA DEL CANE (“Corriere della sera”, 15/1/1995); NELL'INFERNO DEL TERZO PIANO. BLITZ IN PIAZZA ARBARELLO SVELA UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO TRA CONNAZIONALI. QUATTRO STANZE OSPITAVANO 28 NORDAFRICANI (“La Stampa”, 2/9/1994); VIOLENTATO MINORENNE NORDAFRICANO — DI GIORNO A VENDERE, DI NOTTE FA IL PROSTITUTO (“La Stampa”, 8/9/1994) [...]; IMMIGRATI IN VENDITA. A FOGGIA UN GRUPPO DI TUNISINI GESTIVA PROSTITUZIONE E LAVORO NERO. AI LAVORATORI DEI CAMPI, POCO DENARO, MISERO CIBO E SESSO A PREZZI STRACCIATI (“Il Piccolo”, 1/9/1994); ALBANESI SCHIAVE DELLA STRADA (“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19/9/1994); AGENTE, TI PREGO ARRESTAMI. MAROCCHINO DI 14 ANNI:
COSÌ MANGIO SEMPRE. I RAGAZZI “CAVALLO”. STORIE DI MISERIA NELLA LOTTA AGLI AFRICANI CHE SFRUTTANO I MINORI PER SPACCIARE (“La Stampa”, 20/9/1994); OTTO MESI AL FREDDO CON LA MAMMA MENDICANTE. BIMBA NOMADE RICOVERATA ALL'OSPEDALE IN STATO DI DENUTRIZIONE (“La Stampa”, 24/9/1994)
Questi titoli, relativi all’epoca in cui l' “emergenza” stava montando, sono in realtà ben poca cosa rispetto a ciò che la stampa avrebbe diffuso qualche anno dopo sul nesso “immigrati/criminalità”.? È d’obbligo notare come in Italia si sia ben lontani dall’autoregolamentazione che impone alla stampa americana di non citare il “colore” degli arrestati o dei sospettati quando si riportano fatti di cronaca nera. Poco meno di trent'anni fa, un criminologo americano notava come l’etnicizzazione del crimine da parte dei media (che egli riteneva speculare alla stigmatizzazione delle minoranze nei procedimenti giudiziari) si stesse attenuando, grazie alla pressione dei movimenti per i diritti civili.'* In Italia, mentre nessuno scriverebbe di “veneti fermati per schiamazzi notturni” o di “inclinazione al lancio di sassi tra i tortonesi”,
l'appartenenza “etnica”, “nazionale” e “razziale” è una costante assoluta nella definizione di migranti fermati o arrestati per qualsiasi reato o infrazione (tempo fa, un giornale locale di Genova riportava con grande evidenza, in prima pagina, il titolo: PIRATA ALBANESE TRAVOLGE DONNA).” La variazione quantitativa e stilistica nel trattamento delle informazioni sull’immigrazione corrisponde a un cambiamento tematico decisivo. A partire dai primi anni novanta, l'immigrazione viene quasi esclusivamente definita in termini di illegalità e di degrado, mentre la 72
fonte privilegiata delle notizie è costituita da un nuovo attore sociale, il cittadino che protesta contro il degrado, cioè contro l'immigrazione. Come nota un sociologo che ha studiato in profondità la “costruzione sociale degli immigrati” sulla stampa, le notizie che li riguardano non solo vengono filtrate attraverso queste voci interessate, ma sono soprattutto contestuali, costruite attraverso un’equazione implicita di immigrazione e disordine. Insieme, questi due elementi compongono il canovaccio narrativo tipico degli articoli di una certa consistenza sugli immigrati, un canovaccio che comprende invariabilmente l’“assedio dei cittadini da parte degli immigrati criminali”, la “protesta del quartiere”, l'“arrivo dei nostri” (la polizia) e infine il “sollievo (temporaneo) degli onesti” .'° Da un punto di vista testuale, l’esistenza di un canovaccio narrativo ricorrente rivela un meccanismo stabile di produzione mediale della paura. Definisco come “tautologico” questo meccanismo quando la semplice enunciazione dell’allarme (in questo caso “l’invasione di immigrati delinquenti”) dirzostra la realtà che esso denuncia. Questi meccanismi “autopoietici”* sono noti in sociologia, a partire almeno dal concetto di “definizione della situazione” (coniato da W.I. Thomas), secondo cui “se gli uomini definiscono le situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”. In altri termini, una situazione sociale è quello che gli attori coinvolti o interessati definiscono che sia. Ciò sembrerà meno ovvio considerando che un accordo comunque determinato tra diversi attori ha spesso la capacità di imporre la definizione ufficiale e corrente di una situazione, anche se la definizio-
ne in questione è sotto ogni punto di vista falsa, bizzarra o improbabile (a ciò allude la citazione di P. Berger in esergo a questo capitolo). Nella costruzione autopoietica del significato, le definizioni soggettive di una situazione diventano reali, cioè oggettive, equesto è tanto più vero quanto più riguardano aspetti socialmente delicati, come la “paura del nemico”. A tale intreccio di percezioni soggettive e definizioni oggettive dell’allarme si riferisce Erving Goffman in uno studio sulla “produzione della realtà”: [...] il termine [allarme] è un esempio di quella fastidiosa classe di parole che nell’uso comune indicano sia ciò che causa una condizione del soggetto che la percepisce sia la condizione stessa.’
La capacità di una definizione allarmistica di diventare oggettiva, e quindi predominante, dipende da alcuni fattori strategici. In primo luogo dall’accordo degli attori incaricati a qualsiasi titolo di produrre 73
definizioni. In secondo luogo dalla loro legittimità, cioè dal loro diritto. È del tutto evidente, per esempio, che nel caso di un crimine con vittime, sono queste ad avere il diritto di definire ciò che è accaduto, e
non il presunto colpevole, anche se la sua colpevolezza non è dimostrata. Quando è in gioco una “colpa” (l'allarme sociale ha sempre a che fare con l’individuazione di “colpe” e “responsabilità”), l’accusatore non solo ha il diritto di definire, ma soprattutto di definire per primo, ciò che gli consente di condizionare le definizioni della situazione che seguiranno. Questo è vero ovviamente per l’organizzazione dei processi penali, il rito accusatorio per eccellenza in una società complessa, ma vale anche per il tema che stiamo discutendo, la produzione dell’allarme e della paura, quando le definizioni sono fatte proprie dalla stampa.” Ciò costituisce il terzo fattore strategico di trasformazione dell’allarmismo in pericolo oggettivo. La capacità della stampa di imporre la “definizione della situazione” dipende dalla sua funzione fondamentale di agenda-setting, cioè dalla costruzione del campo di ciò che è rilevante o di pubblico interesse,‘ dalle modalità correnti e implicite di news manufacturing, come la selezione delle notizie, le retoriche usate eccetera. Quanto più queste modalità sono correnti, ripetitive, auto-
matiche, date per scontate, tanto più conferiranno oggettività alla definizioni allarmistiche della realtà, trasformandole in sfondo cognitivo abituale.” La definizione dell’“allarme” da parte dei media, a sua volta, è legittimata e confermata dall’esistenza di attori che rivendicano la rappresentanza della società locale, quella più minacciata dal pericolo, ovvero dalla criminalità degli stranieri. Quando le voci dei cittadini vengono interpretate o rappresentate da un attore politico legittimo (come si è visto nel caso dei “fatti di Brescia”, questo ruolo tende a es-
sere assunto in Italia dalla Lega), il problema dell’“allarme” diventa una zssue politica di rilevanza nazionale che le pubbliche autorità non possono più ignorare. L'intero processo di costruzione tautologica dell'allarme può essere rappresentato come segue: FIGURA 4: “Tautologia della paura” y Risorsa simbolica: “Gli stranieri sono una minaccia per i cittadini” (perché genericamente “clandestini”, criminali eccetera).
Definizioni soggettive degli attori legittimi: “Abbiamo paura. Gli stranieri ci minacciano” (come dimostra il degrado dei nostri quartieri, singoli episodi di violenza, i “fatti di Brescia” eccetera).
Ù
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Definizione oggettiva dei media: “Gli stranieri sono una minaccia, come risulta dalle voci degli attori [legittimi] (sondaggi, inchieste eccetera), nonché dai fatti che stanno ripetutamente accadendo”.
I
Trasformazione della risorsa simbolica in “frame” dominante (è dimostrato che gli immigrati clandestini minacciano la nostra società, e quindi “le autorità devono agire” eccetera). Conferma soggettiva degli attori legittimi: “Non ne possiamo più, che fanno i sindaci, la polizia, il governo?”.
Intervento del “rappresentante politico legittimo”: “Se il governo non interviene, ci penseremo noi a difendere i cittadini eccetera”.
I
Eventuali misure legislative, politiche e/o amministrative che confermano il “frame dominante”.
Grazie alla comparsa del cittadino che protesta, e cioè della “vittima dell’immigrazione”, le reazioni o conferme soggettive si traducono inevitabilmente in risorsa politica, alimentando le retoriche dei gruppi politici che “rappresentano” i cittadini (l’opposizione deve dimostrare che il governo è insensibile alla voce dei cittadini, mentre il governo deve dimostrare, con determinati provvedimenti, di essere consapevole, sollecito, “in guardia” eccetera). Perché la risorsa sia utilizzabile dai diversi attori politici e istituzionali, non è necessario che essa corrisponda a un sentimento di massa, diffuso o radicato, ma semplicemen-
te che sia evocata dall’informazione e confermata dalla viva voce dei “protagonisti”. Le notizie sulle proteste dei cittadini contro il degrado sono sufficienti a fare delle proteste una realtà indiscutibile, dominante, e soprattutto rappresentativa di ciò che la “gente” pensa. L'innesto in questo corto circuito di imprenditori politico-morali (legittimati, come vedremo nei capitoli successivi, anche dagli osservatori “neutrali”) fa sì che la risorsa politica locale conquisti il rango di risorsa primaria e globale nell’agenda politica. È così che l’“emergenza immigrazione”, cresciuta come una sorta di magma o “blob” politico-mediale negli anni recenti, è divenuta una verità indiscutibile, capace non solo di espandersi indefinitamente nutrendosi delle retoriche che l'hanno generata, ma di promuovere accesi dibattiti politici nazionali, interventi governativi e provvedimenti di legge.*
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Cittadinanze reali e virtuali Nel modello della “tautologia del pericolo” un ruolo strategico è assunto dal cittadino nella veste di imprenditore morale o “definitore soggettivo della situazione”, colui che offre incessantemente ai media la “voce” e giustifica la trasformazione di una risorsa simbolica generica in un frame morale e sociale dominante. Prima di vedere all’opera questo personaggio relativamente nuovo (anche se, come vedremo subito, dalla vita abbastanza precaria), è necessario accennare alle speci-
fiche trasformazioni della società italiana che gli hanno consentito di ascendere al ruolo di attore legittimo. La più rilevante è certamente la cosiddetta “crisi della Prima repubblica” che è stata segnata dalla ridefinizione morale e legale della vita pubblica. Uno degli effetti principali dei processi di “Tangentopoli” è stata la messa in stato d’accusa del sistema politico in quanto tale, con la conseguente affermazione di alcune retoriche pubbliche innovative: la “corruzione” e quindi l’inaffidabilità di politici e amministratori, la contrapposizione dei “cittadini” al sistema, la sostituzione del paradigma giudiziario a quello politico nella definizione degli eventi pubblici, e quindi il predominio della “legalità”. Questo mutamento del codice politico tra la “gente” viene colto, ovviamente con diversa sensibilità, da due osservatori privilegiati di questi fenomeni, un funzionario di polizia e un penalista: [...] mi sembra di rilevare questo dal mio ritorno a Milano: sono stato lontano da qui due anni, sono andato via prima dell’esplosione di Tangentopoli e l’ho ritrovata in piena Tangentopoli. Ho rilevato una profonda delusione della gente, giusta, giustissima, no?, che si è tramutata man mano in una insoddisfazione e quindi in una richiesta di pulizia subito.? [...] il potere giudiziario [ha] spesso funzionato da catalizzatore e ordinatore di emergenze dentro le quali, di volta in volta, i vari pool costruivano discorsi che modellavano non tanto e non solo gli ambiti giuridici, ma tendevano, spesso riuscendovi, a modellare la percezione sociale; questo credo lo si possa dire con gran tranquillità per quanto riguarda l'emergenza terrorismo, l'emergenza mafia, l'emergenza mani pulite, fino all’emergenza immigrazione. Le logiche dell'emergenza mi sembrano qualcosa di profondamente radicato nella cultura giuridica di questo paese, una sorta di suo bisogno permanente; quindi l'emergenza immigrazione si è inserita del tutto naturalmente dentro un terreno che di queste logiche si nutre continuamente. Le logiche dell’imbarbarimento della giustizia, ossia il suo giustizialismo, non nascono sull’immigrazione, semmai sull’immigrazione dentro il giustizialismo si inserisce il razzismo e forse diventa tanto più fa-
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cile veicolare l'emergenza nel momento in cui si coniuga giustizialismo ed etnicità; se pensiamo a come si sono aggregati gli “onesti” durante “Mani pulite”, al tipo di logica forcaiola e giacobina che sostanziava una categoria — gli “onesti”, che chiunque ha difficoltà nel riuscire a codificare — è a maggior ragione comprensibile come sia stato possibile aggregare gli “indigeni” contro gli stranieri.”
La Lega è stata capace di sfruttare a suo vantaggio questo mutamento di paradigma nella fase iniziale della sua avventura politica (“Roma ladrona”) e di consolidarlo con l’innesto di contenuti specifici di tipo non solo iperlocalista e secessionista, ma direttamente o indirettamente xenofobo (interpretazione della protesta dei cittadini, mobilitazione di “ronde” eccetera). L'assunzione dell’“autonomia sociale”? dei cittadini come fondamento ideologico, infatti, si traduce nella
lotta a oltranza contro ogni “minaccia” reale o virtuale al senso comune urbano: una lotta più simbolica che reale, gridata più che praticata, ma estremamente efficace dal punto di vista comunicativo. Questo ha fatto sì che la Lega, pur non essendo diretta rappresentante dei cittadini che “protestano contro il degrado dell’immigrazione”, sia stata nel corso degli anni novanta la forza politica più capace sia di utilizzare la risorsa simbolica della “minaccia degli immigrati”, sia di ritradurla in chiave politica, in quella sorta di gioco al rialzo che ne caratterizza la strategia: Negli anni novanta la Lega si è segnalata come la formazione più impegnata nella propaganda e nelle mobilitazioni contro gli immigrati extracomunitari, gli zingari e la microcriminalità [...]. L'impegno leghista su questo terreno si è spesso espresso con la promozione di “ronde” per proteggere le popolazioni e le città del Nord dagli insediamenti di extracomunitari e zingari e, recentemente, dall’arrivo degli albanesi. Anche se prive di effetti concreti, queste iniziative e le polemiche sollevate hanno influenzato le opinioni e gli atteggiamenti popolari e hanno creato simboli forti per caratterizzare la natura e il ruolo del movimento.”
La Lega, in altri termini, ha conquistato progressivamente un ruolo di interprete politico della voce dei cittadini. In origine, tuttavia, il ruolo di “definitori” legittimi della situazione era stato assunto dai “cittadini” generici o “apolitici”, soprattutto nelle città dell’ex trian-
golo industriale, Milano, Torino e Genova. I “comitati” in cui essi si
sono organizzati, all’inizio degli anni novanta, sono abbastanza eterogenei dal punto di vista delle posizioni politiche espresse e delle modalità di azione. A Genova, alcuni nascono da iniziative spontanee di abiuo
tanti del centro storico, spesso su posizioni di sinistra, che si mobilitano contro lo spaccio di droga e poi contro il “degrado” (e quindi implicitamente o esplicitamente contro gli stranieri),” mentre altri hanno avuto una breve vita o si sono identificati in proteste estemporanee (come i comitati “antizingari” dei quartieri del Levante genovese nel 1995); a Milano, hanno radici più lontane, tradizioni organizzative più solide e origini varie dal punto di vista ideologico (tra i fondatori troviamo ex esponenti locali o simpatizzanti della sinistra come della destra); a Torino, sembrano aver alimentato mobilitazioni vistose an-
che se intermittenti, in particolare nel quartiere di S. Salvario (autunno 1995, autunno 1996, primavera 1997 eccetera).
Anche la composizione sociale dei gruppi o comitati di cittadini è molto varia, includendo, a seconda della loro localizzazione e delle fasi di sviluppo, professionisti, commercianti e negozianti, e in alcuni
casi artigiani e operai. In realtà, sia la composizione sociale sia il riferimento ideologico sembrano poco rilevanti rispetto al contrassegno territoriale che permette la loro identificazione. Fin dall’inizio, infatti,
è il quartiere (in alcuni casi la strada o la piazza) che ne determina sia l'ambito di attività sia l'orizzonte simbolico. La territorialità ha qui un doppio senso: da una parte quello specifico del “luogo” in cui si vive e che quindi va protetto da ogni minaccia; dall’altra, l'ambito in cui si
superano le tradizionali distinzioni sociali e politiche e un nuovo tipo di riferimento “identitario”. Il prevalere rialità e l'abbandono delle tradizionali matrici politiche dei “cittadini” appare da alcune interviste a esponenti
che permette della territonella cultura dei comitati
genovesi: Sette-otto anni fa, con l'avvento dei primi extracomunitari, con il degrado del centro storico, le mamme di Sarzano avevano chiesto al prefetto il porto d’armi per difendersi da delinquenti o spacciatori. Da questi primi movimenti si sono susseguiti altri movimenti: il comitato di Fossatello, della Maddalena e altri.” I partiti di sinistra che hanno solitamente appoggiato i movimenti e in qualche caso li hanno addirittura strutturati, con i comitati si sono trovati in grossa difficoltà. Anche grossi personaggi come Burlando si sono trovati in difficoltà perché i comitati lo hanno superato di gran lunga (lui pensava di poter gestire la cosa, di poter fare la strada assieme ma poi [...] ha mollato). La destra, invece ha soffiato sul fuoco dei problemi di ordine pubblico, che sono il cavallo di battaglia della destra in generale, senza offrire alcun tipo di soluzione... Sfruttano il malcontento, vanno in televisione [...] ma poi non sono capaci di fare un passo avanti.”
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I primi comitati sono aggregazioni spontanee che nascono, intorno al 1989, innanzitutto nella zona di Sarzano, perché gli abitanti si rifiutavano
di vedere lo spaccio sotto casa, a cielo aperto, di giorno. Quindi rifiutavano una situazione che ritenevano ingiusta: prima dell’immigrazione lo spaccio era il problema principale per la gente.” Dopo i fatti del luglio 1993, l'atteggiamento delle autorità è cambiato radicalmente, a mio avviso. Nel senso che si è ottenuto di contenere questi fe-
nomeni malavitosi e in particolare si è cominciato a controllare il territorio [...], fenomeni che tuttora ci sono, e però la grossa vittoria è stata certamente vuoi quella del controllo del territorio, vuoi quella del contenere
questi fenomeni in maniera tale che poi la gente normale di Genova può continuare a vivere, andare al mercato eccetera.
La “territorialità” richiamata da queste interviste segna un profondo cambiamento nel comune sentire della società locale. Lo scetticismo verso i partiti tradizionali di destra e di sinistra non esprime solo “l'autonomia dei cittadini” dal sistema politico (una delle retoriche pubbliche prodotte dalla crisi della Prima repubblica), ma la rinuncia ai codici politici di interpretazione dei fatti sociali. Nel “territorio” non si accettano più le definizioni “imposte”, ma ci si contrappone direttamente e immediatamente alle minacce. Il “sapere” della sicurezza elaborato dai cittadini si esprime in equazioni ipersemplificate (“spaccio a cielo aperto... immigrazione”, “avvento degli extracomunitari...
porto d’armi contro delinquenti e spacciatori”, “extracomunitari uguale degrado”) e si risolve nella difesa di bisogni territoriali elementari (“andare al mercato, vivere”). Un “sapere” uniforme, monotono, ubiquo, che risulta da decine d’interviste con i cittadini dei comitati.” Un sapere che, dall'inizio degli anni novanta, viene apertamente legittimato come criterio prevalente di moralità e legalità: Il presidente del coordinamento dei comitati milanesi Barabino, consulen-
te aziendale, in un articolo pubblicato da “la Voce” e intitolato SICUREZZA E LEGALITÀ COME PRESUPPOSTI DELLA SOLIDARIETÀ, cita [a supporto delle
sue posizioni] Vattimo e Veca. [...] E dopo le citazioni Barabino chiosa i filosofi. “In effetti i comitati, che hanno il polso della base, sono testimoni di un profondo cambiamento nel modo di sentire della gente: la maggioranza dei cittadini si è da tempo convinta che la filosofia del vietato-vietare, culturalmente dominante negli anni settanta, ha ormai mostrato la cor-
da.” [...] E la solidarietà? Secondo i comitati dev'essere “esigente e severa. Concepita in questi termini non è più da vedere in contrapposizione all’ordine e alla sicurezza”.®
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Si potrebbe pensare che formule così generiche (che vorrà mai dire una “solidarietà esigente e severa”?) siano inevitabili quando a parlare sono i nuovi imprenditori politici. Tuttavia, questi luoghi comuni hanno conquistato progressivamente il ruolo di definizione ufficiale della realtà, quando sono stati fatti propri sia da quasi tutti i partiti politici (nell’evidente tentativo di disputarsi la rappresentanza dei cittadini) sia dal senso comune “colto”, praticato all'occorrenza da intellettuali generici e perfino da osservatori empirici. Il luogo comune del bisogno di sicurezza ritorna più o meno nella stessa forma nelle parole di due altri “cittadini”, un leader politico locale (di un partito della sinistra moderata) e un sociologo, divenuto portavoce del suo quartiere: “Non è un'esigenza legittima protestare perché un cittadino trova la buca delle lettere piena di preservativi usati, perché ogni sera sotto casa è circondato da spacciatori o è costretto ad assistere a scene di amore mercenario senza veli? O perché rubano la mountain bike di suo figlio e sua moglie ha paura di essere aggredita?” [...] Chi parla è Sergio Chiamparino, 46 anni, segretario regionale del Pds, padre di un ragazzo di 16 anni (che teme per la sua mountain bike) e abita ai Murazzi, uno dei punti caldi di Torino tra piazza Vittorio Veneto e corso Vittorio Emanuele, i cui abitanti hanno protestato contro senegalesi e marocchini.“ Diffuso, in forme diverse, in vari gruppi di immigrati è anche un altro odioso reato, lo sfruttamento dei minori. Nomadi avviati all’accattonaggio, al furto e alla prostituzione, anche con minacce, maltrattamenti e torture; marocchini utilizzati come lavavetri ai semafori, per impietosire gli automobilisti; cinesi impiegati, naturalmente in nero, come manodopera gratuita o sottopagata nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria. Anche contro questi reati [sic/] è difficile, se non impossibile ottenere l’attenzione delle autorità responsabili dei relativi controlli (chi scrive lo sa bene, per personale esperienza, avendo più volte inutilmente sollecitato, anche come responsabile della commissione problemi sociali della Zona 3, l’intervento dei vigili di zona). Consulenti aziendali che invocano, sulla scorta di noti filosofi, una nuova moralità (e che mobilitano i loro vicini di casa in manifestazioni contro gli immigrati “clandestini”),® esponenti locali di partito sdegnati dall’“amore mercenario senza veli”, intellettuali che riprendono
mitologie secolari sui nomadi orchi e richiamano inutilmente l’attenzione delle autorità su “reati” come “lavare i vetri ai semafori”, una re-
torica che ricorda in modo irresistibile il cinema trasb italiano degli anni settanta (Crizziralità all'attacco, la polizia non interviene, il cittadino 80
si ribella): di tutto ciò si potrebbe sorridere se non conferisse una patina politico-intellettuale a quel caratteristico processo sociale di senso comune che ho definito “tautologia della paura”. Con la legittimazione del comune sentire dei “cittadini” da parte dei manipolatori di simboli (forze politiche vecchie e nuove, gli intellettuali, imedia), la funzione pionieristica dei “comitati” è virtualmente finita. E vero che periodicamente essi si “faranno sentire”, per segnalare nuove emergenze, far risuonare i campanelli d’allarme o svegliare l'autorità, ma la primogenitura nella definizione della situazione passa alla politica, alle sue procedure e alle sue retoriche. Gli imprenditori morali di quartiere possono tornare alle loro occupazioni quotidiane o alle loro avventure micropolitiche. La “paura” non è più affare di consulenti aziendali o di attivisti di partito delusi, ma una risorsa primaria del teatro politico mediale, un frazze in cui le emergenze, gli imprevisti o le difficoltà della vita collettiva potranno essere ritradotti e gestiti nella soddisfazione generale.
Cio che ogni cittadino sa... Prima di discutere le funzioni e le retoriche politiche generali del senso comune, è opportuno soffermarsi su alcuni aspetti caratteristici della rappresentazione negativa dei migranti, a partire dalla sua uniformità.“ Qualsiasi intervista in profondità o dichiarazione pubblica dei cittadini (o dei loro se/fappo:nted rappresentanti politici, intellettuali e morali), slogan o volantino dei comitati riporterà un set limitato e comune di doléances: “non possiamo più vivere per la presenza (nel nostro territorio) di (immigrati) criminali, ladri, spacciatori, lavavetri, prostitute”. Questa uniformità non è altro che la versione urbana del frame dominante “l’immigrato come nemico”. Essa cela, tuttavia, delle
operazioni di senso comune meno evidenti. La prima è l'elasticità della categoria di “criminalità”, la sua estensione a comportamenti che non sono criminali o ricadono tutt’al più nell’ambito delle infrazioni amministrative oppure, in termini sociologici, in quella dei “crimini senza vittime” (prostituzione, assunzione di stupefacenti eccetera). Rubare e spacciare droga sono reati dal punto di vista penale e crimini per le scienze criminologiche, mentre esercitare la prostituzione non è un
reato (se non c’è adescamento, almeno in Italia) ed è assai dubbio che sia un crimine, mentre “lavare i vetri ai semafori” può essere tutt’al più un'infrazione amministrativa. D'altra parte, “lavorare in nero” in un 81
ristorante o in un laboratorio, oltre che essere un’attività, come è noto,
assai diffusa nella nostra economia (che comprende un ampio settore informale), configura un reato per il datore di lavoro, ma non per il lavoratore. In altri termini, con “criminalità” si intende genericamente la devianza sociale, una categoria estremamente ampia che va dagli “schiamazzi” allo spaccio di droga. È chiaro che, riferendosi a questo terreno assai ampio, le proteste dei cittadini hanno la funzione di ridurre la soglia di tolleranza di ciò che il senso comune ritiene minacciare la vita quotidiana. In secondo luogo, l’estensione delle categorie criminali è selettiva, perché non si applica genericamente a tutti imembri della società, ma solo agli stranieri. Essa confonde criminalità e devianza, diritto penale e pratiche sociali informali, delitti con o senza vittime, infrazioni leggere e comportamenti tutt’al più discutibili quando tali attività riguardano gli immigrati. E poiché l'estensione è fatta scattare automaticamente solo per gli immigrati, non è difficile dedurre che l’uniformità della loro categorizzazione negativa ha un solo significato: sono gli immigrati in quanto categoria a essere criminali (mentre i comportamenti a lo-
ro ascritti hanno la funzione di “dimostrazioni” empiriche di “ciò che si sa già”). Questo aspetto appare con chiarezza nell’intervista a un esponente dei “comitati”, che risponde con encomiabile sincerità a una domanda sul razzismo dei cittadini: Domanda: Pensa che ci siano anche — in alcuni casi, seppur delimitati — eccessi razzisti, da parte di queste persone [membri dei comitati]? Risposta: Sì. D.: Cioè: c'è una cultura razzista che comunque attraversa la città in qualche modo sotterraneo... R.: In fondo in fondo c'è. È difficile riuscirla a smobilitare da questo cervello. Anche lo stesso compagno, le stesse persone a sinistra [...] sono un po’ razzisti, fondamentalmente. Perché non abbiamo la cultura... [La nostra città], in se stessa, ha sempre ospitato ’ste persone; però con l’avvento di altre persone strane [...] incomincia a essere razzista. [...] Anche se non
ce lo vogliamo dire — diciamo che comunque non siamo razzisti — però fondamentalmente, in fondo in fondo, io vedo dei compagni che dicono: “Ma gli zingari non ci devono stare”. Io, personalmente, sostengo e dico che, effettivamente, così come sono strutturati non va bene: cioè non si può pensare di darci — regalarci uno spazio con i servizi eccetera; però,
fondamentalmente, dico: “Va beh, proviamo a darci una casa come c’'hanno tutti”. Però, a questo punto qua, se tu lo dici non va bene alla piazza, non va bene nemmeno la casa, per la gente, perché la casa è vista come se me la levano [...].
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Allora, cioè, un momentino di intolleranza ce l'abbiamo [...] non è che [...] non è vero che non siamo razzisti. Fondamentalmente, anche se io parlo con quelli di colore, penso sempre che [...] l’altro [...]. Cioè: quando io faccio una considerazione sugli spacciatori do per scontato che ci sono dentro i miei connazionali, però comunque dico sempre che sono extracomunitari.‘
Che immigrazione e criminalità (o devianza in senso lato) siano pressoché sinonimi nel senso comune e nell’opinione pubblica emerge da due articoli rivelatori. Nel primo, in relazione a un episodio di presunto razzismo documentato dalle cronache, un noto commentatore politico risponde alla domanda “Genova è una città razzista e indifferente?”. Il secondo è un resoconto “neutro” sul disagio estivo in città. SIAMO UNA CITTÀ RAZZISTA E INDIFFERENTE?
Genova cinica e razzista? “No, Genova e i genovesi sono molto pazienti e sopportano. Sopportano il problema extracomunitari, inomadi, la mancata soluzione del problema immigrazione.”® ZINGARI, CAMPI ABUSIVI A MARASSI E AL LAGACCIO
Genova — Allarme zingari a Marassi e al Lagaccio. Gli abitanti dei due quartieri denunciano la presenza di nuovi insediamenti di nomadi che da qualche tempo si sono sistemati davanti allo stadio Luigi Ferraris e nei pressi del campo sportivo del Lagaccio. [...] Nella città decisamente poco affollata di fine agosto spiccano, accanto agli zingari, gli improvvisati accampamenti
e bivacchi,
anche
nelle strade
del centro,
di clochard,
“punkabbestia” e sbandati. È molto facile imbattersi in gruppi di giovani che bivaccano seduti per terra, suonando piccoli flauti, e chiedendo — con
poca fortuna — l'elemosina ai passanti. Li accomuna l'abbigliamento trasandato e la sporcizia, oltre che la presenza fissa, come compagni di viaggio, di numerosi cani. i 68
Immigrazione, nomadi ed extracomunitari (al pari di “zingari, sbandati, punk e cani”) sono “qualcosa” che le cittadinanze sopportano, dimostrando la loro tolleranza. L’“immigrazione” è dunque una metafora sociale della devianza, come riconoscono implicitamente o esplicitamente gli esperti, cioè i funzionari di polizia: Oggi c’è stato a mio avviso un netto cambiamento che vede l'opinione pubblica maggiormente interessata a fenomeni di piccola criminalità. Sì, la microcriminalità è diventato un problema prioritario: sono venuti a mancare quei grossi fatti di prima, cioè i sequestri di persona, il terrorismo. Indiscutibilmente sono aumentati i problemi di microcriminalità che hanno una fascia piuttosto ampia. Però è probabile che sia aumentata anche l’in-
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sofferenza della gente, la gente mostra una maggiore insofferenza. [...] La microcriminalità è sempre la stessa, è l’insofferenza della gente, quindi la richiesta di sicurezza che io trovo non nuova ma maggiorata; è nei confronti di questi fenomeni, prostituzione, extracomunitari irregolari, spaccio di stupefacenti, l’uso di sostanze stupefacenti e ovviamente borseggi e furti in genere.® Normalmente la gente ha paura, “Non ti conosco, mi fai paura”, la gente è sospettosa, è particolarmente impaurita dalla presenza di questi personaggi che sono anche individuabili fisicamente, poi magari il criminale bianco, se non sai che è criminale, ti fa meno paura. Lo scuro, lo puoi individuare già e può diventare l’uomo nero delle favole. La gente, soprattutto più superficiale, è particolarmente impaurita. Io vedo mia madre, che comunque ha un’estrazione sociale di un certo tipo [...] spesso si lascia andare ad analisi che mi spaventano [...].”® Nel complesso, i reati degli extracomunitari sono questi: qualche volta lesioni personali, ma non è che sono proiettati verso altri tipi di reato; rapine non ne risultano, perché chi continua a fare rapine, scippi, reati contro la persona sono gli italiani. Gli extracomunitari sono per il piccolo spaccio, lo sfruttamento della prostituzione. Credo che queste attività siano le preminenti. [...] Girando in altre realtà fuori Liguria, mi è capitato di vedere non extracomunitari, ma ho potuto vedere dieci, dodici albanesi. Mi han-
no detto che stanno sempre seduti allo stesso bar tutto il giorno. Stanno lì, non lavorano, non fanno niente. Ce ne sono un paio che lavoravano, che innaffiavano i giardini, ma gli altri stanno al bar, bevono, bisticciano, stanno lì tutto il giorno. Comunque, quei reati che abbiamo avuto con gli albanesi, sono reati già più gravi. Ecco, gli albanesi, sono più violenti, più pericolosi, ci sono parecchi tentati omicidi, usano subito le armi, come d’altra parte i pochi slavi che abbiamo, anche legati a problemi di donne, un po’ legati alla loro cultura, all’uso di bevande alcoliche.”
[...] In quella zona, soprattutto il centro storico, la gente è proprio esasperata, è satura, non ne può più. Infatti a volte capita che in un loro sfogo di rabbia — magari in un intervento, che siamo lì, può essere una rissa, può essere che un gruppetto di questi extracomunitari si ubriaca, spaccano le bottiglie, fanno un po’ di schiamazzo di notte — allora capita di sentire in uno sfogo di rabbia i cittadini che dicono: “Ma potreste dargli delle botte, delle mazzate, portateli via”. Però purtroppo noi siamo tutori dell’ordine, non siamò giustizieri, non possiamo andare lì e dargli delle manganellate sulla testa gratis, perché magari stanno schiamazzando o stanno rompendo delle bottiglie.”
Nelle interviste di agenti, funzionari e ufficiali di polizia e carabi84
nieri la doppia valutazione della criminalità degli immigrati e di ciò che allarma i cittadini è unanime, e indipendente dagli orientamenti culturali o ideologici dei singoli intervistati. Da una parte, questi specialisti sottolineano la specificità dei reati attribuiti agli immigrati (piccolo spaccio, risse, prostituzione e sfruttamento della prostituzione, ubriachezza molesta), dall’altra sono consapevoli che l'allarme urbano, “ciò che i cittadini temono”, si estende all'immigrazione come metafora della devianza sociale — aumento dell’insofferenza, identificazione del diverso (il “nero” della seconda intervista) come criminale,
fastidio di fronte all’ozio. Tra gli intervistati, alcuni funzionari ammettono che molte chiamate al 113” sono dettate dal puro e semplice panico per la presenza di stranieri nella via o nel quartiere, mentre altri notano che la paura dello straniero è tipica degli anziani soli nelle città.” Altri ancora, che pure sottolineano il ruolo crescente di alcuni tipi di immigrati nello spaccio al dettaglio (giovani algerini e tunisini), riconoscono che il problema della droga trascende la questione dell'immigrazione: “Tra le mani degli immigrati ne circola molta [...] ma [la droga] viene dagli italiani [i grossisti]”.” Un’osservazione di buon senso, quest’ultima, che ho visto confer-
mata in un'occasione specifica.
A Genova, dopo l'approvazione del
decreto Dini sull’immigrazione, nel novembre 1995, tra molti immi-
grati non regolarizzati, e ovviamente anche tra quelli che praticavano il piccolo spaccio, si diffuse per qualche settimana la paura delle espulsioni e di un giro di vite della polizia (molti immigrati non uscivano più di casa, e spesso incaricavano della spesa collettiva gli anziani dotati di permesso di soggiorno). Di conseguenza, i “cavalli” (piccoli spacciatori stranieri) sparirono per qualche giorno dai vicoli del centro in cui si spacciava droga, prontamente sostituiti da giovani italiani. Come dice un agente di polizia: che lavorino tutti insieme [gli spacciatori], sì, e che svolgano il lavoro cosiddetto del cavallino, l’ultimo posto della, se la vogliamo chiamare, piramide; aloro compete il lavoro vero e proprio, cioè di girare con le bustine in tasca da distribuire ai tossicodipendenti; chi dà le bustine a loro non ho idea di chi siano e sicuramente ci saranno zone, appartamenti o posti nei quali sicuramente ci sarà più sostanza e sarà organizzata la distribuzione. Certamente un minimo più di organizzazione penso che ci sia, però non posso dirlo [...]. Ci sono magari altri uffici che trattano la materia al di sopra.”
Se si confrontano le testimonianze di poliziotti e carabinieri con le tipiche affermazioni di senso comune sulla “criminalità degli immigra85
ti” emerge una vera e propria “microscopia” morale. Il senso comune, colto o incolto, politico o impolitico, ingigantisce qualsiasi infrazione reale o virtuale che interferisca con il suo orizzonte percettivo, ma si rifiuta solitamente di ammettere l’esistenza di forme di criminalità più serie quando sono organizzate, nascoste, stabili o consolidate. “Vede” lo spaccio al dettaglio, ma non le organizzazioni che lo alimentano; protesta contro i “viados” o le prostitute straniere, ma non vede i clienti, gli affittacamere o gli albergatori compiacenti; si accanisce contro ambulanti o lavavetri, ma, salvo eccezioni, non è capace di vedere il
lavoro nero degli stranieri, oppure, se lo vede, non vede quello degli italiani eccetera. Ma anche quando il senso comune “vede” tutto ciò, trasferisce sui sintomi a portata di mano la sua percezione del grande crimine. In altri termini, l'immigrazione, per fare un esempio, diventa sinonimo di “mafia”: Le dico: l'immigrazione, essenzialmente, che fondamentalmente a Genova
è stata gestita dalla malavita, l'immigrazione ha fatto sì che lo spaccio — che era organizzato in una certa maniera — sia diventato più capillare. Cioè: c'è stato un momento dove non c’era piazza, mattone, macchina dove non ci fosse la presenza di spacciatori. Con l’immigrazione, diciamo che [...] non si poteva nemmeno più chiedere la carta d’identità: tu non sapevi chi era che spacciava, chi era che [...] cioè [...] e di fatto questo dell'immigrazione è stato — è, è tuttora ed è stato — un fenomeno controllato dalla [...] dalla malavita, dalla mafia essenzialmente.”
In breve il sapere dei “cittadini” è sintomatico e quindi tendenzialmente divergente da quello della polizia, almeno quando questa opera strategicamente e non compie mere operazioni di facciata o di rassicurazione (“pattugliamenti” o identificazioni nelle zone a rischio). Nascono qui sia la tipica protesta dei cittadini contro il disimpegno della polizia sia un certo atteggiamento di distanza, se non di fastidio, di alcuni agenti nei confronti dei cittadini: Secondo me, l’italiano che dà lavoro a un extracomunitario è un po’ una
medaglia a doppia faccia. Da un lato può essere uno che dice: “Sì, mi fanno pena poverini, piuttosto che vederli in giro a vendere le rose, gli do qualcosina e mi faccio tenere in ordine il giardino”. [...] Dall’altro, ovviamente, vai a fare lavorare in nero una persona e così anche tu, chiamiamo,
datore di lavoro, non paghi contributi, non ti preoccupi dell’assistenza che deve avere questo lavoratore qua, in caso di, diciamo, accada [...] un infortunio o qualcosa del genere.”
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Il fenomeno sociale più rappresentativo di “ciò che ogni cittadino sa”, del senso comune nei suoi aspetti vistosi o nascosti (l’insofferenza
per i dettagli visibili, l'immigrazione come metafora della devianza, la miopia o microscopia nella ipervalutazione dei sintomi della criminalità), è certamente la prostituzione degli stranieri, uomini e donne. Diversamente da altre forme di devianza, reale o immaginaria, la prosti-
tuzione non è un fenomeno con cui i cittadini siano a diretto contatto, se non nell’eventuale ruolo di clienti. Se si escludono specifiche forme di tensione microsociale indirettamente causate dall’attività di strada (“schiamazzi”), la prostituzione è (o dovrebbe essere) estranea agli interessi dei cittadini. Tant'è che nei quarant’anni seguiti all'abolizione delle case chiuse, alcuni quartieri o strade delle città italiane sono dive-
nute zone franche per la prostituzione (a Genova la zona della Maddalena, a Milano le strade intorno alla Stazione centrale, il parco eccete-
ra).® Indipendentemente dalla diffusione della domanda di questo servizio (uno studio valuta nelle grandi città la clientela occasionale o stabile intorno al 20% della popolazione maschile),*' la prostituzione non ha suscitato particolari allarmi sociali, fino alla comparsa nelle strade degli stranieri, uomini o donne. Mentre la prostituzione tradi-
zionale trovava nuove vie più redditizie e discrete (“massaggiatrici” e “cartomanti”), diveniva vistosa la prostituzione di straniere, viados, donne nigeriane, albanesi. E proprio questo il fenomeno che innesca alcune proteste clamorose dei cittadini. A Milano, negli anni ottanta,
gli abitanti della zona Melchiorre Gioia si mobilitano contro i viados, mentre crescono le proteste contro la prostituzione straniera in genere. Ecco un testo rappresentativo di queste mobilitazioni civiche: In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli stranieri dediti alla prostituzione di strada. I viados brasiliani (e anche gli italiani che li imitano, spac-
ciandosi per sudamericani) l’esercitano principalmente in viale Abruzzi, di notte; le slave e le sudamericane battono i marciapiedi di corso Buenos Aires e delle vie vicine, sin dal primo mattino, assieme alle tossicodipen-
denti italiane; le marocchine, che servono soprattutto i loro connazionali e gli altri magrebini, operano dalle parti di via Benedetto Marcello, assieme alle prostitute italiane più anziane e meno appetibili; i tunisini attendono gli omosessuali sui bastioni di porta Venezia, la sera; le africane, assieme alle slave e alle sudamericane, agiscono dal tardo mattina nell’area di piazza Aspromonte, diventata, come ha scritto uno dei comitati di zona, un
“luna park del sesso” a cielo aperto, per la particolare concentrazione di alberghi e pensioni compiacenti, tollerati (non si sa perché) dalle forze di polizia, anche se senza licenza o con licenza irregolare. [...] Frequenti sono anche le minacce ai pochi abitanti della zona che osano protestare contro
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questa vergogna che avvilisce il quartiere, così come le liti e le risse anche cruente tra individui coinvolti nelle varie attività illegali. [...] Questa situazione ha spinto una parte consistente della popolazione a richiedere un maggior controllo da parte delle forze dell’ordine, ma con scarso esito [...]. I responsabili dell’ordine pubblico, che tendono a sottovalutare la criminalità e i suoi effetti distruttivi sul territorio affermano infatti, apertamente, di aver ben altre scale di priorità (anche se non precisano quali) [...].#
Ciò che è esemplare in questo testo non è tanto il consueto tono allarmistico, né la rituale polemica contro il disinteresse delle forze dell'ordine (e neppure la deliziosa allusione all’“avvenenza” delle anziane prostitute), ma l’assenza dei clienti italiani (vengono citati, a parte gli “omosessuali”, solo i “magrebini”, come se la domanda di prostituzione riguardasse esclusivamente gli stranieri). Il senso comune dei comitati non vede infatti quella cospicua parte della propria cittadinanza che compra ciò che “viados”, “africane” e “slave” vendono. Per spiegare questa rimozione, più che riprendere le analisi di Freud sull’ambivalenza degli uomini verso le prostitute, è necessario ricorrere alla
testimonianza di un conoscitore empirico del fenomeno: Il maschio medio italiano, in una percentuale che mi sembra realistico stimare intorno al 60%, tende a frequentare con insistenza questa nuova prostituzione [straniera]. Ho parlato di quali sono le molle scatenanti: il dominio e l’inferiorizzazione. Nei racconti che raccolgo prevale un desiderio e un diritto di praticare violenza senza che questa venga neppure in qualche modo contrattata. Non ci troviamo pertanto di fronte a degli amanti particolari del genere “sado-maso”, non ci troviamo di fronte a delle richieste “tecniche”, ci troviamo di fronte a un sentirsi padroni completi e totali di un altro corpo, un corpo da poter utilizzare e martirizzare perché per sua “natura” sottomesso. Quello che intendo dire è che le pratiche di violenza fisica — pugni, schiaffi, incatenamenti, utilizzo di coltelli o fruste improvvisate sono estremamente frequenti — così come sono estremamente frequenti le costrizioni a rapporti orali senza preservativo. Non trascurabile come pratica è quella dello stupro di gruppo. Si tratta di una pratica ormai molto consolidata. Solitamente si carica già in gruppo una giovane albanese e dopo averle promesso un premio extra, premio che non viene quasi mai corrisposto, la
si trascina o in una zona molto appartata della città o in una abitazione privata, usandola per tutto il tempo che si ritiene opportuno. Dentro questo utilizzo non vi è quasi limite, nel senso che, per esempio, le bruciature dei seni con la cenere delle sigarette fanno parte di una pratica consolidata. Quello che sembra emergere dai racconti delle giovani albanesi o delle ne88
re è il forte senso di “diritto” che sembra animare il maschio italiano; quello che sembra renderlo particolarmente felice è l’aver trovato finalmente un corpo il cui destino “naturale” è quello di essere sottomesso. Nei loro racconti quello che mi sembra esca fuori è la loro non esistenza, sia che il rapporto avvenga singolarmente o in gruppo, quello che sembra prevalere è una sorta di “competizione” con se stesso o con gli altri, e il corpo della prostituta viene utilizzato come puro strumento “tecnico”.
Queste osservazioni sono confermate sia dalle giovani donne straniere che accettano di essere intervistate, sia dalle testimonianze dei
volontari e dei funzionari di polizia.” Alle note e consuete pratiche di aggressione delle prostitute (il “furto della borsetta”, un tipico rischio professionale) si aggiunge la violenza come pratica comune nei rapporti sessuali con le donne più indifese, giovani o marginali. La normalità di questa violenza appare da un episodio “qualsiasi” cui ho assistito casualmente: Genova, quartiere della Foce [zona in cui è concentrata la prostituzione delle straniere, soprattutto nigeriane e albanesi], un sabato di settembre, mezzanotte circa. Sono seduto al tavolino di un bar all’aperto. Un fuoristrada accosta bruscamente una donna nera sul marciapiede. Due uomini
di mezza età scendono di corsa e afferrano la donna gridando: “Vieni con noi”. Altri due restano in macchina. La donna si divincola. Un uomo seduto vicino a me, a una decina di metri dalla scena osserva: “Devono essere poliziotti” (in realtà hanno l’aria di reduci da una cena). I due uomini scesi dal fuoristrada gridano: “Fagli un p*****0!”, e spingono con forza all’interno del veicolo la testa della donna, che scalcia. Poco dopo la donna viene buttata fuori e cade per terra. Il fuoristrada riparte ssommando.
La condizione delle prostitute straniere è sicuramente terribile. Alla violenza intrinseca nel rapporto con i clienti si aggiunge quella subita normalmente da “fidanzati” e sfruttatori. La stampa riporta quotidianamente punizioni inflitte, per ragioni futili, a giovani donne, spesso prive di permesso di soggiorno e quindi doppiamente ricattabili. Ma anche in questo caso la percezione della violenza è esclusivamente a senso unico, e non solo perché si tratta di un fenomeno confinato ai lati oscuri e notturni della vita quotidiana e soprattutto alla marginalità dell’immigrazione. L'esistenza di queste donne è chiamata per lo più in causa solo quando provoca fastidio nella cittadinanza. Analogamente, lo sfruttamento della prostituzione viene inevitabilmente associato all'attività di “bande” criminali che lottano per la spartizione del territorio. Se si escludono iniziative spettacolari per “ripulire le 89
città”, la realtà della domanda di prostituzione straniera viene normalmente ignorata dai media, dagli imprenditori morali e da gran parte degli osservatori dei fenomeni sociali. La rimozione della violenza subita dalle donne straniere, in cui si manifesta la “microscopia morale” dei cittadini, cela qualcosa di sinistro. Hannah Arendt ha notato, sulla scorta di Péguy, come sia proprio il “padre di famiglia”, il piccolo borghese o cittadino ossessionato dalla sicurezza, il soggetto più disponibile a “sacrificare le proprie credenze, il proprio onore e la propria dignità umana” per seguire ciecamente gli avventurieri politici sulla strada della demagogia.” I “cittadini” contemporanei, ovviamente, non pretendono nemmeno questa sinistra grandezza. Essi tendono piuttosto ad accanirsi contro i marginali e in generale contro quelle figure che sintetizzano, con la loro presenza vistosa, l'erotismo esplicito, l'offerta sessuale palese, la promiscuità, l’esotismo — ciò che il senso comune aborrisce a parole, ma da
cui è irresistibilmente attratto. Come nota Susan Bordo," il corpo femminile è l’oggetto di un vero e proprio double-bind da parte dei maschi. Allo stesso modo in cui il senso comune giudiziario esige che la donna violentata dimostri di essere innocente, di non aver provocato in alcun modo, diretto o indiretto, il suo violentatore, così il corpo del-
la prostituta viene letto dal senso comune come l’oggetto che attrae e che al tempo stesso è possibile offendere e umiliare. Ecco due testimonianze al riguardo che concordano in ogni senso, nonostante l’evidente distanza che separa i testimoni. La prima è di una brasiliana, la seconda di un funzionario di polizia: Erano in mille, forse duemila: Quella tempesta già la conoscevo. S’addensò in lontananza, con tanto di fulmini, tuoni e lampi minacciosi. C'era stata l'invasione, e ora in via Melchiorre Gioia, a San Siro e al Monumentale, gli abitanti della zona erano in agitazione. La polizia non provvede, facciamo noi da soli! Preservativi e siringhe nei parcheggi dove giocano i bambini. File di macchine, clacson, liti e caos fino alle cinque del mattino! Basta,
facciamo pulizia! C'erano stati tanti titoloni sui giornali e proteste alla televisione. Ma era la prima volta che vedevo a Milano una burrasca di bastoni e manici d’ombrello. Ebbi paura, ma non mi sentii persa. Qui in Europa non t'ammazzano per strada. [...] Ma arrivarono sirene e luci lampeggianti, parole concitate tra polizia e manifestanti, accuse e battibecchi. Le urla smorzarono la rabbia e per noi che fuggivamo il rischio divenne soltanto quello di un foglio di via. AI Clara [in albergo] quella notte, erano in molte a essere incazzate. Dicevano di aver visto tra imanifestanti anche i clienti.”
90
I cittadini di *** che utilizzano questi immigrati, che li sfruttano, sono la
stessa tipologia di quelli che vanno con i travestiti, gli stessi che li contestano, quelli che affittano i dormitori ai negri, sono gli stessi che vengono poi a fare l’esposto dove dicono che ci sono i negri accampati; sono gli stessi che prima affittano una stanza marcia a uno, poi quando ne trovano dentro dieci, vengono a denunciarli, dicendo che era un'occupazione abusiva, quando poi il marocchino ti dice che paga pure e pure tanto. E non ha motivo di dire il falso, tanto viene denunciato lo stesso, quindi chi glielo farebbe fare di dire che dà quattrocentomila lire d’affitto per una cantina. Sono gli stessi che beccavo sulla volante con i travestiti, imprenditori brianzoli cinquantenni, con moglie e figli e bella macchina; erano poi la stessa categoria che diceva che bisognava cacciare via negri, travestiti, froci e tutto quanto. Con i travestiti non ho mai incontrato un operaio cassintegrato, un anarchico, no, mai, mai capitato. Sempre capitato il signore cinquantenne, ben vestito, con la bella macchina, che sicuramente votava
Lega, ma comunque quello era il gruppo d’appartenenza.”
Corpi del reato Ogni anno o due, l’estate offre agli italiani, insieme a qualche delitto efferato (e solitamente impunito) e alla consueta strage sulle autostrade nella corsa alle vacanze, una nuova “emergenza immigrazione”. Nel
1993 la caccia allo straniero nel centro di Genova rivelò al paese che gli immigrati esistono e “sono un problema”. Nel 1995 la crociata contro gli zingari fu l'occasione per una campagna da cui scaturì il decreto Dini. Nel 1998 l’arrivo di clandestini in Sicilia ha offerto all’Italia la possibilità di sperimentare i campi di detenzione per stranieri. Ma i “fatti” dell'agosto 1997 superano ogni altro precedente e sfidano l’acume di qualsiasi osservatore dei nostri costumi (soprattutto se vincolato a vetuste teorie della razionalità dell’agire sociale). Per cominciare, la parola “fatti” non è adeguata a un’escalation di furore xenofobo esclusivamente mediale e politico, la cui sola motivazione è qualche episodio isolato di cronaca nera. Per chi, nell’afa dell’estate 1997, abbia letto distrattamente i quotidiani o riposasse in una spiaggia esotica,
riporto il dramma nei suoi tre atti principali: Atto primo: ondata di crimini sessuali commessi da immigrati clandestini. Tra i giorni 11 e 12 agosto 1997, due o tre marocchini vengono
arrestati a Rimini per stupro e tentato stupro ai danni di turiste straniere. Tensione nella capitale adriatica delle vacanze. La polizia e i carabinieri pattugliano le spiagge. Una scazzottatura tra “giovani italiani 91
e clandestini” (così la stampa) è ripresa dai telegiornali (le immagini mostrano un italiano che prende a calci uno straniero, un carabiniere che cerca blandamente di sedare lo “scontro” e una giovane donna all'apparenza straniera che grida: “Perché picchi il mio ragazzo?”). I reportage parlano di degrado della Disneyland d’Italia, di preoccupazione degli albergatori, di disperazione degli immigrati, di paura delle donne, di impotente solerzia delle forze dell’ordine, “che fanno quello
che possono, ma non basta”. Tra i servizi più suggestivi pubblicati dai quotidiani, uno propone, oltre alla descrizione di clandestini ubriachi e bramosi, una singolare analogia tra degrado umano e degrado ambientale. Ne riportiamo due passaggi: C'è puzza di vino e di urina tra gli ombrelloni chiusi e i lettini ammassati dei bagni di Miramare. [...] Cammino sulla spiaggia e ho paura. Eppure dovrebbero esserci le ronde, la polizia. [...] È la sensazione di chi si accorge di essere una preda. Dai mucchi di stracci un giovane si alza barcollando, deve essere magrebino, è ubriaco, si avvicina. “B-bella,” dice in un rantolo di italiano, “v-vieni” e inizia a seguirmi. È veloce. Potrebbe trascinarmi giù, tra i lettini. Cerco di camminare nel cono di luce, so che non
devo sbagliare, so che non devo esitare mai, so che possono saltare fuori dalla spiaggia sul lungomare animato come fosse a mezzogiorno. Si sente il tanfo dell’alcol. È troppo vicino. Scavalco il muretto. Sono uscita dal suo campo di caccia [...]. La paura, mentre la notte si fa più fonda e si avvicina all’alba, si ingrandisce, come quella mucillagine lattiginosa che da qualche tempo è riapparsa appena un po’ fuori dalle aree in cui si fa il bagno. [...] Se continuerà il gran caldo, il terribile manto melmoso è destinato a crescere. Là dove gli extracomunitari si sono fatti il letto di sabbia [...] pochi sono andati a dormire. Eccoli lì, stranamente affratellati, albanesi e neri, ubriachi fradici, che domani mattina cercheranno di fare sparire le loro tracce [...]."
La caccia di cui si parla non è quella agli immigrati (che la Lega nord ha proclamato prima dell’“ondata di crimini sessuali” in agosto), non è quella dei carabinieri agli ambulanti senegalesi nelle stesse spiagge di Rimini pochi giorni prima — ambulanti costretti a fuggire in mare € a restare in acqua “per alcune ore” nel presumibile sollazzo dei difensori della legalità (e a dire il vero tra le proteste dei bagnanti, italiani e stranieri, che hanno dato prova di conservare un briciolo di carità umana) — e non è nemmeno la caccia all’albanese, che è diventata
lo sport nazionale padano nel 1997. È invece la caccia dei magrebini
ubriachi e sozzi (tanfo di alcol, puzza di urina) alla donna bianca, a
una giornalista intrepida, eppure giudiziosa quando si accorge di esse92
re “preda” (“so che non devo esitare, so che non devo sbagliare mai”). Ma in agguato non ci sono solo questi esseri “stranamente affratellati”, benché albanesi e magrebini (cioè “bianchi” e “neri”). C'è soprattutto la “paura” notturna che, grazie a un paragone ardito, si trasforma in “mucillagine lattiginosa”, c'è il manto melmoso disteso sul mare sporco da cui vengono i clandestini. Qualche giorno dopo la marea montante del “manto melmoso”, una rissa tra immigrati a Padova provoca titoli cubitali su tutti i quotidiani. I partiti di destra esigono l’espulsione dei clandestini, mentre la Lega nord propone: “I clandestini nei campi di lavoro”.?? Le camicie verdi “entrano in azione” contro gli ambulanti, ma prudentemente si spostano verso il Mar Ligure, ad Alassio,” visto che i loro tentativi di pattugliare Rimini si sono risolti in una fuga ingloriosa (i marinai della capitaneria di porto devono difenderli dai bagnanti inferociti). Qualche giorno dopo, un pastore macedone (immediatamente definito “uomo-lupo”) uccide nei pressi di Sulmona due turiste venete e ne ferisce un’altra. Commento unanime su tutta la stampa: “Gli era stata intimata l’espulsione ma era ancora qui!”. Come illustrazione riportiamo i titoli della prima pagina de “la Repubblica” del 23 agosto 1997: L'INTERROGATORIO DEL PASTORE MACEDONE. NAPOLITANO: NON POTEVA STARE IN ITALIA. LA CONFESSIONE DEL KILLER. E SCOPPIA LA POLEMICA SUI CLANDESTINI. LA GRANDE INVASIONE [titolo del fondo di A. Cavallari)”
Atto secondo: il governo si decide a intervenire. Di fronte all’“invasione”, il governo si muove rapidamente. Il 14 agosto (due giorni dopo gli stupri e tentati stupri in Riviera), il presidente del consiglio Prodi interrompe le vacanze e incontra a Roma il ministro degli interni Napolitano.” Si decide di accelerare l’iter parlamentare della proposta di legge Turco-Napolitano e di procedere all'espulsione dei clandestini albanesi che si erano allontanati dai campi di raccolta (ressur albanese è stato coinvolto nelle vicende di Rimini e Sulmona). Il sottosegretario agli esteri on. Fassino dichiara che non ci sono soldi per espellere gli albanesi. Il ministro degli esteri Dini che, in qualità di economista, ha un occhio di riguardo per le finanze, propone allora l'istituzione di campi profughi per gli albanesi in Albania.”
Atto terzo: “difendiamo le nostre città”. Sindaci della riviera in rivolta. Un sindaco di sinistra propone che siano istituiti “passaporti regionali” per gli immigrati. Cauto scetticismo del governo. La ministra Livia Turco difende la bontà della sua proposta di legge (e quindi i 93
campi di “raccolta” per gli “espellendi”) ma è contraria ai passaporti regionali. Lon. Borghezio, della Lega nord suggerisce l’istituzione di lager per i clandestini. Un consigliere comunale di An propone la condanna a morte per gli “extracomunitari assassini”. La Lega di Alassio premia il militante delle ronde più attivo nella segnalazione dei clandestini (la spunta una signora disoccupata, che verrà poi denunciata da una bagnante per aver millantato l'appartenenza alla polizia municipale). Il consiglio comunale a maggioranza leghista di Acqui Terme vota (con l'astensione della minoranza di sinistra) la taglia di un milione sugli albanesi che si nascondono (“ma era solo una provocazione,” preciserà il sindaco). I sindaci di sinistra della Riviera adriatica si uniscono al sindaco di destra di Milano in un patto d’azione per la sicurezza urbana. In settembre, rastrellamenti di albanesi e di altri clandestini ini-
ziano a Milano e a Torino. A fine settembre, il sindaco leghista di Mondovì si appella ai cittadini perché denuncino i clandestini.” Per dare un’idea elementare della cornice surreale in cui i “fatti” si sono succeduti è sufficiente inserirli all’interno del modello della “tautologia della paura”. Otterremo così un'illustrazione paradigmatica della capacità di una favola (o leggenda) metropolitana di diventare realtà sociale, politica e normativa: FIGURA 5: “La tautologia della paura all’opera, ovvero come una favola diventa realtà”
I Risorsa simbolica di fondo: “Gli stranieri sono una minaccia per i cittadini”.
Definizioni soggettive degli attori legittimi (sindaci, uomini politici): “Stuprano e uccidono le nostre donne. Abbiamo paura. Cacciamo gli stranieri”. Definizione oggettiva dei media: “Gli stranieri sono una minaccia, assassini in libertà e stupratori, spostati pericolosi e tollerati da uno stato inefficiente”.
Trasformazione della risorsa simbolica in “frame” dominante (“è dimostrato che gli immigrati clandestini sono un pericolo per la nostra società e quindi le autorità devono agire subito”). \ Misure legislative, politiche e/o amministrative che applicano il “frame” dominante. Il governo dichiara: “È ora di dire basta. Applicheremo la legge e cacceremo i clandestini”.
I Intervento supplementare (“variazioni sul tema”) del “rappresentante
94
politico legittimo” (partiti di destra e Lega, sindaci di destra e di sinistra): “Se il governo non fa presto, ci penseremo noi a difendere i cittadini”.
I
Conferma del “frame” dominante che può essere invocato a ogni nuova “emergenza”.
Si noterà che il modello della figura 5 comporta una variazione rispetto a quello precedente (figura 4), cioè l'uscita di scena o l’estraneità dei cittadini comuni che, in quanto attori “legittimi”, sono ora sostituiti dai rappresentanti locali dei partiti di destra o di sinistra. Per il resto, tuttavia, il meccanismo tautologico della paura è lo stesso, con la sola differenza che, nell’estate del 1997, ha funzionato rapidamente,
sintetizzando perciò l’intero processo della costruzione sociale dello straniero come nemico pubblico. La macchina della paura, alimentata
da fattori eterogenei, si è dunque resa autonoma, ed è quindi probabile che funzioni d’ora in poi automaticamente al livello delle pratiche istituzionali e normative. Prima di esaminare questo aspetto, è necessario accennare ad alcune conseguenze culturali dell'intero processo,
in particolare alla nuova dimensione simbolica aperta dall’istituzionalizzazione del “frame” del nemico.
Un razzismo di tipo nuovo La più importante è certamente la ridefinizione implicitamente o esplicitamente neorazzista degli immigrati. In primo luogo l’iconografia quotidiana rappresenta gli immigrati non solo come delinquenti ma come “etnie”, suggerendo così che “delinquenza” ed “etnicità” coincidano. Si considerino per esempio le vignette che i tre più diffusi quotidiani italiani hanno pubblicato sull’“emergenza immigrazione” nell’agosto 1997. Nelle figure 9 e 10 (da “la Repubblica”), i clandestini, stilizzati come “uomini che vanno e che vengono”, sono fantasiosamente suddivisi in “etnie” (“asiatici,” “nordafricani” eccetera). Nella figura 6 (da “Corriere della sera”), uno straniero a capo chino sembra ammettere qualche colpa (il “clandestino”, il nero cattivo), mentre nella 8 (“La Stampa”) una donna nera sorride felice (“la mammy”, la nera buona, cioè la serva). Nella 7, gli albanesi sono raffigurati dalla tipica caricatura del mafioso di una quarantina d’anni fa (baffi, basette e coppola). La distinzione tra stranieri buoni e cattivi ripropone la classica divisione tra le donne “utilizzabili” e gli uomini “nemici” che caratterizza l'iconografia fascista degli africani (“Visioni abissine”, figura 95
FIGURA 6,7, 8,9, 10
Da sinistra in alto a destra in basso: 6) L'uomo nero, 7) il
mafioso, 8) la “mammy” nera. Vignette pubblicate da “la Repubblica”, “Il Corriere della sera”, “La Stampa”. 9) “I clandestini in Italia. Le principali etnie”. 10) “Gli stranieri in Italia. Le principali etnie”, “la Repubblica”, 18 agosto 1997.
TURISTICHE PRINCIPALI ETNIE *ALBANESI *SLAVI *-NORDAFRICANI
- FONTE F- OSSERVATORIO DIMARI
11). Ciò che è significativo nelle immagini contemporanee non è solo il pregiudizio di chi le ha disegnate, impaginate e dotate di didascalie, ma la loro ovvietà, oltre che la loro ubiquità semiotica, il fatto che questi segni sono veicolati da tre quotidiani capaci di raggiungere, insieme, due milioni di lettori.
Dietro l’etnicizzazione degli immigrati c'è però qualcosa di più profondo e inquietante. Se due o tre stupri e un omicidio hanno scatenato la macchina della paura fino alle sue estreme conseguenze è per96
FIGURA 11
Schiave e nemici (tratto da La menzogna della razza, Grafis Edi-
zioni, Bologna 1994).
VISIONI ABISSINE
ché i “fatti”, distaccati dal loro contesto ed esagerati fino al parossismo da stampa e rappresentanti politici, convogliano un enorme e contundente significato simbolico (diversamente dagli stupri compiuti da italiani negli stessi giorni e dalle uccisioni di immigrati che sono continuate durante l'emergenza d’agosto nella totale indifferenza della stampa e dei politici, e che quindi ror esistono perché non inseriti nella macchina tautologica della paura).!® Un significato talmente ingombrante da cancellare un’altra emergenza che aveva tenuto banco a luglio, ovvero l’ondata di omicidi a Napoli e in Campania che aveva spinto il governo a inviare l’esercito per aiutare la polizia nella lotta contro la camorra.! Il marocchino o il macedone (il tunisino, l’albanese o qualsiasi altro straniero) costituiscono nell’intera vicenda di agosto i corpi del reato, o più precisamente i corpi-reato. Corpi omicidi, corpi ipersessuati e fallici, corpi bestiali e sozzi (“l’uomo-lupo”), oppure corpi alieni e informi (“la mucillagine”, “il manto melmoso”), quindi corpi, a seconda delle metafore, da recidere, evacuare, eliminare. Perché la loro pericolosità sia simbolicamente pregnante, perché il frame del nemico sia affettivamente convincente, cioè emozionante, gli 97
stranieri-corpi-del-reato sono assimilati, come nell’ideologia razzista di ogni tempo (o nelle fantasie da Klu Klux Klan), all’animale di colore, se non al mostro cinematografico. Le figure 12, 13 e 14 documentaFIGURE 12, 13, 14 Chi assale la donna bianca, e chi la difende. Ieri e oggi 12) Rimini, controlli in spiaggia, fotografia pubblicata da “la Repubblica”, 12 agosto 1997.
13) Assemblaggio, pubblicato in prima pagina da “il manifesto” del 15 agosto 1997, relizzato con una vignetta pubblicata da “il Giornale” del 14 agosto 1997 e con la riproduzione di un manifesto di propaganda fascista. 14) Nucleo Propaganda, Difendila!, manifesto, 1944. (Tratto da La menzogna della razza, Grafis Edizioni, Bologna 1994.)
98
no la continuità tra l'immaginario dello straniero in epoca fascista e quello di un quotidiano italiano all’epoca dei fatti di Rimini. Casi-limite, certamente. Sopravvivenza di contenuti simbolici residuali che hanno trovato l’occasione per riemergere, forse.'? Ma più ancora che in questi eccessi, la riduzione del corpo straniero a corpo bestiale è implicita nell’iconografia abituale dell’immigrato. Se la donna straniera è corpo da offendere (e quindi la prostituta “sta per” la donna straniera, nella misura in cui questa è visibile, e quindi “osce-
na”), l’uomo straniero è il corpo offensivo. Anche quando non compie delitti o non violenta le nostre donne, egli è sporco e sporca (“il degrado”, “il tanfo”, “la mucillaggine”, “la melma”), è fuori posto (insieme a “zingari” e “cani”), è aggressivamente osceno. In una vignetta “umo-
ristica” degli anni trenta il corpo del “negro” viene civilizzato dall’italiano con una robusta strigliata (figura 15). In una fotografia (figura 16) pubblicata su molti giornali e periodici dell’agosto 1997 i corpi dei marocchini sono esposti nella loro “naturale” indecenza. La figura 16 merita comunque una precisazione. Se nella realtà dei fatti, gli stranieri che vi compaiono sono stati denudati durante una perquisizione della polizia alla ricerca di droga, in un reportage televisivo del settembre 1997 (che riprende immagini trasmesse dai telegiornali del 13 e 14 agosto) la loro nudità viene presentata come “esibizionismo”: Mimetizzati tra le sdraio, due agenti della sezione narcotici della questura di Rimini scrutano le operazioni dei pusher. Arrivano i primi acquirenti. Scattano le operazioni di vendita: prima il pagamento, poi il recupero della dose. Non c’è lo scambio diretto della merce: chi compra viene indirizzato nel luogo in cui è nascosta la droga; gli spacciatori, addosso, non tengono niente. Gli agenti cercano di bloccare alcuni ragazzi che hanno appena fatto acquisti; da loro si fanno indicare gli spacciatori. Inizia l’inseguimento in spiaggia; intanto, arrivano pattuglie in appoggio. I pusher cadono nella rete e reagiscono male. Se la prendono con la nostra telecamera. Non esitano a dimostrare — a loro modo — di essere puliti, anche durante la perquisizione. Un’esibizione gratuita sotto gli occhi increduli di decine di turisti. [Le immagini non provano, ovviamente, che si tratti di spacciatori, anche perché “addosso non tengono niente”, i marocchini stanno
subendo una perquisizione, e per questo sono nudi.]!®
La rappresentazione dello straniero-animale è talmente dominante da condizionare e incorniciare anche la satira antirazzista. Così, in un fumetto pubblicato il 20 settembre 1997 da “Boxer”, un “vu’ cum-
prà” aggredito da un gruppo di italiani razzisti al grido di “negro schifoso” reagisce fulminandoli con la sua magia voodoo (figura n. 99
FIGURA 15 e 16 Corpi immondi ieri, corpi indecenti oggi 15) E. Ligrano, Brusca e striglia, cartolina, circa 1935. (Tratto da La menzogna della razza, cit.) 16) Perquisizioni notturne a Rimini, fotografia pubblicata da “la Repubblica”, agosto 1997. Brusca
e striglia
Sri Sa”
17). Come dire, insomma, che lo straniero-corpo-del-reato è capace di reazioni diaboliche." Non è necessario insistere sul fatto che nell’immaginario popolare, che fa curiosamente capolino nella striscia iperrealista della satira di “sinistra”, il diavolo è rappresentato come caprone. Questo esempio, insieme a infiniti altri, mostra la seconda rica100
FIGURA 17.
Fumetto “antirazzista”
COSA VOLETE CHE FACCIA, CHE VADA ANCH'IO A CHIAMARE MIO I PADRE QUANDO MI ROMPETE UN PO' TROPPO | COGLIONI? =" S
ECCOLO LAGGIU' QUELLO SCHIFOSO
DAI CHE ADESSO CI DIVERTIAMO
BUONASERA, PEZZO DI MERDA NEGRO — LEVATI QUELCAZZO DI OCCHIALI e
CHE TI VOGLIAMO VEDERE
IN FACCIA MENTRE TI FICCO "STO BASTONE IN CULO!
OCCRISTO! MA CHE... NON RESPIROI
NON RIESCO PIU' A RESPIRARE, CAZZO! AIUTATEMI, STO
CHISSA" SE TI PIACE LA ZUPPA DI SORGO,
SOFFOCANDO!
SORELLINA BIANCA... NON... NON
POSSO MUOVERMIL..
RR
UA
duta culturale della campagna d’agosto, la normalizzazione dell’immagine razzista degli stranieri. Il frazze generale del nemico si istituzionalizza nell’opinione pubblica ribadendo, ogni volta, la differenza assoluta tra noi e loro (è del tutto evidente che capovolgere il senso della differenza, come nella vignetta di “Boxer” — gli italiani razzisti sconfitti dal “nero” diabolico — non muti in niente, anzi rafforzi, lo schema dell’inimicizia). Benché la campagna dell'estate 1997 abbia riportato a galla un buon numero di simboli e associazioni tradizionali del razzismo, prenderemmo un vero e proprio abbaglio interpretandola come “rigurgito” o “riflusso”. È vero che, come abbiamo cercato di documentare con le immagini, emerge un parallelismo evidente tra razzismo di ieri e di oggi. Ma se il razzismo di ieri proponeva un taglio iperbolico tra il bianco e le razze inferiori (il gladio della figura 18), quello di oggi assume forme plurali e non necessariamente vincolate alla mitologia razziale.'® Lo spettro della differenza comprende infatti razza e animalità, sporcizia e ubriachezza, devianza e illegalità, disordine e pericolo senza una gerarchia simbolica definita.'* Ed è proprio per questo che il 101
FIGURA 18.
Difesa della razza
razzismo gode di una straordinaria libertà di parola e d'immagine, sconcertando una cultura che non si vorrebbe razzista, e che non è capace di vedere il razzismo nelle nuove forme. Il “cappio” apparso sulla prima pagina de “La Padania” «del 22 agosto 1997 (figura n. 19) ha la stessa funzione del gladio della figura 18, con la differenza che non è immediatamente connotabile come “biologicamente” razzista, mentre lo è sociologicamente in una forma nuova o comunque diversa. In
quanto simbolo della giustizia sommaria (era la forma prediletta della punizione dei neri ribelli da parte del Ku Klux Klan) esso non rimanda solo alla separazione, ma anche alla subordinazione delle razze (“stai al tuo posto, altrimenti...”). La cultura italiana contemporanea non ha protestato (salvo qualche eccezione) contro il nuovo “razzismo” proprio perché la razza in quanto tale vi gioca un ruolo secondario. Se per esempio la Lega e la destra agitano cappi, formano ronde, pongono taglie, incitano alla delazione, danno la caccia ai clandestini (per ora a parole), la cultura de102
FIGURA 19.
Cappio padano
mocratica non è capace di vedervi se non iniziative politicamente illegittime o discutibili (“solo lo stato può esercitare la giustizia”), ma non un razzismo di tipo nuovo. Insomma, l’enormità di quelle iniziative locali non viene alla luce perché esiste un consenso di fondo sui “valori” che esse comportano, anche se non sulle forme e sui metodi. Balza agli occhi che la caccia ad ambulanti e clandestini, illegittima quando è praticata dalla Lega, è normalmente condotta, certamente in forme
meno pittoresche, dalle forze dell'ordine (i rastrellamenti di “extracomunitari” a Milano e Torino del settembre 1997, ampiamente documentati dalla stampa) con la benedizione del 90% delle forze politiche — che al tempo stesso continueranno, nella grande maggioranza, a proclamarsi antirazziste e a stigmatizzare gli eccessi (in questo caso si
potrebbe parlare di “strabismo politico”). E non si deve dubitare della loro sincerità. Perché il razzismo a cui pensano è quello di sessant'anni fa, storicamente codificato come degenerazione o deviazione dal corso della storia. Naturalmente, in una società pluralista tutto può rifluire 103
dal passato — vedremo come anche gli ebrei siano associati in qualche documento leghista alla minaccia “extracomunitaria”. Eppure, ciò che mi sembra decisivo, in tutta questa costruzione sociale della paura,
non è il ciarpame di qualche nostalgico, ma la ricollocazione di ogni possibile simbolo xenofobo nell’opposizione “noi/loro”. Contro ogni illusione dei moderni pensatori morali, questa ricollocazione (è l’argomento del capitolo che segue) avviene oggi sotto l'egida della legalità.
Note 1
InDeztie contraddetti, Milano, Adelphi 1972.
2.
P. Berger, Invito alla sociologia, Marsilio, Padova 1967.
3.
Perl’analisi che segue ho tenuto presente M. Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna 1976; e Id., Rischio e colpa, il Mulino, Bologna 1996. Cfr. anche P. Marani-
ni, Miseria dell’opulenza. Il sacro nella società della tecnica, il Mulino, Bologna 1998, in cui si discute il ruolo sacrificale delle minoranze sociali e culturali nelle so-
cietà razionalizzate. 4
HS. Becker, Outsiders, Studi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987.
5.
Perun’analisi del ruolo di imprenditori morali svolto da alcuni magistrati nel corso dell’inchiesta “mani pulite”, cfr. P.P. Giglioli, S. Cavicchioli e G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, cit. Ma si veda, per una teoria delle proprietà sociologiche formali della “denuncia”, H. Garfinkel, Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione, in E. Santoro, a cura di, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 1997. Sul significato culturale di queste pratiche cfr. anche E. Gellner, L’aratro, la spada, il libro, Feltrinelli, Milano 1994.
6
Y. Ternon, in Lo stato criminale. I genocidi del xx secolo, Corbaccio, Milano 1997, ha mostrato in modo persuasivo come questi processi possano arrivare al genoci-
dio quando vengono attivati dagli stati.
7.
C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1989, pp. 36 sgg. Ma si veda anche W. Wippermann, Wie die Zigeuner. Antisemitismus und Antiziganismus im Vergleich, Elephanten Press, Berlin 1997. S. Runciman, Storia delle crociate, Einaudi, Torino 1966, vol. 1, pp. 120 sgg.
9.
K. Bergdolt, La peste nera e la fine del Medioevo, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 184 sgg. Un'’indifferenza che poteva avere anche dei vantaggi economici, come appropriarsi dei beni degli ebrei uccisi o banditi. Mostreremo come il meccanismo dello sfruttamento economico delle paure collettive non sia sconosciuto alle nostre società, quando si devono occupare dei migranti.
10 E De Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano 1997.
104
11 J. Delumeau, La paura in Occidente, Sei, Torino 1979; e Id., I/ peccato e la paura. L'idea di colpa in Occidente dal xm al xvni secolo, il Mulino, Bologna 1987.
12 Una leggenda metropolitana è la notizia di un fatto privo di fondamenti, spesso cu-
rioso o parodistico, che diventa “vera” perché circola nelle chiacchiere quotidiane e viene talvolta ripresa dalla stampa o da altri organi dell’informazione di massa. Cfr. J. Brunvand, Leggende metropolitane, Costa & Nolan, Genova 1993. Come mostreremo più avanti, la diffusione dell'immagine degli stranieri come criminali dipende piuttosto dall’esagerazione delle loro attività illegali e dalla costituzione di un circuito perverso di dicerie e informazione di massa. Su questo punto cfr. A. Bastenier, L'immigrazione nel quotidiano: la funzione sociale della diceria, “Rassegna sindacale”, xx, 1991, n. 79-80. Sul concetto di “diceria” cfr. E. Kapferer, Voci che corrono, Longanesi, Milano, 1987.
13 Leggende che sopravvivono rigogliosamente ai giorni nostri. Gli stranieri, in quan-
to estranei alla nostra cultura che “pretendono” di abitare tra noi, sono tipicamente colpevoli di crimini odiosi. Così i profughi albanesi usano i bambini come “scudi umani”, il racket degli slavi o degli albanesi martirizza inevitabilmente le “prostitute bambine”, i nomadi obbligano i “bambini” a rubare, i marocchini mandano iloro “bambini” a chiedere l’elemosina o a rubacchiare. Gli esempi dello “stereotipo dell’orco” sono così numerosi da non rendere necessarie citazioni particolati. 14 L. Chevalier, Classi laboriose e classi pericolose, Laterza, Bari 1976. 15 S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics, cit.; FE Pearson, Hooligans. A History of Respectable Fears, Macmillan, London 1983; E. Pozzi, a cura di, Lo stransero interno, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. Per una discussione generale, cfr. R. Escobar, Metamorfosi della paura, il Mulino, Bologna 1997. 16 P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984. 17 U. Beck, Wie aus Nachbarn Juden Werden. Zur politischen Konstruktion des Fremden in der reflexiven Moderne, in M. Miller, H.-J. Soeffner, a cura di, Modernitàt
und Barbarei. Soziologische Zietdiagnose am Ende des 20. Jabbrunderts, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 318-343. 18 E. Boni, I/ virus nella rete, relazione non pubblicata, dipartimento di Scienze dei
processi cognitivi, del comportamento e della comunicazione, Università di Genova, 1997. L’ossessione razzista per la contaminazione trascende le questioni migratorie e riguarda qualsiasi contatto tra il “nostro” mondo e l’altro mondo. Così, in un libro di divulgazione “scientifica” sul virus Ebola, l’autore avanza l’ipotesi che la proliferazione di virus letali anche nel “nostro” mondo dipenda dalla facilità delle comunicazioni internazionali (aerei eccetera). Cfr. J. Preston, Area di contagio. Una storia vera, Rizzoli, Milano 1994.
19 Per un confronto tra le paure tradizionali e quelle contemporanee, H.P. Jeudy, Panico e catastrofe. La cultura della catastrofe e l'estasi del rischio, Costa & Nolan, Genova 1997.
20 Una suggestiva rappresentazione di queste leggende è in M. Tournier, I/ re degli ontani, Garzanti, Milano 1988. 21
“l Lavoro” (supplemento genovese de “la Repubblica”), 27 maggio 1997, p. VI.
27. B. Munari, A/fabeti convenzionali, in Almanacco letterario Bompiani 1963. La ci-
viltà dell'immagine, Milano, Bompiani 1962.
105
Nel 1995, poco tempo dopo che si erano diffuse notizie su stupri compiuti da “extracomunitari”, due rumeni salvano una giovane italiana da un’aggressione a Genova. “la Repubblica”, 21 aprile 1997.
N. Aspesi, Nor era l’immigrato ma l'amante, “la Repubblica”, 21 aprile 1997. “Ma le ronde servono lo stesso.” Intervista al senatore Francesco Tabladini, “la Re-
pubblica”, 21 aprile 1997. “la Repubblica”, 20 aprile 1997, corsivo mio.
“Corriere della sera”, 20 aprile 1997, corsivo mio. Un frame è la cornice simbolica che dà senso a un fatto sociale. Cfr. E. Goffman, Frame Analysis, The Social Organization of Experience, Harmondsworth, Penguin 19757
30 In questo caso non si tratta dunque di notizie false (“invenzione”) o dell’effetto di
una mera credulità ma della notizia come dimostrazione di “ciò che si sa già”. Se in questo caso la notizia ha avuto “le gambe corte” (C. Fracassi, Le notizie hanno le gambe corte, Rizzoli, Milano 1996) è perché la fonte è stata rapidamente smascherata, cosa eccezionale. In innumerevoli altri casi, la costruzione non può essere smentita.
Sul meccanismo sociale, e non solo mediale, della costruzione e ricostruzione degli
stereotipi morali, vedi P. Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 1967; e J.D. Douglas, a cura di, Deviance and Respectability. The Social Construction of Moral Meanings, Basic Books, New York 1970.
32 M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, in A. Dal Lago, a cura di, Lo straniero e il nemico. Materiali per [‘etnografia contemporanea, cit.
33 Il fatto che a essere accusata sia una categoria o classe di soggetti (e non un singolo) è ancora più grave per i singoli, perché qualsiasi straniero rientrante nella classe o categoria può essere accusato di qualche misfatto. Si tratta di un processo di etichettamento che costituisce il fondamento cognitivo del razzismo. Cfr., per l’analisi di questi meccanismi, T.A. Van Dijk, Communicating Racism. Etbnic Prejudice in Thought and Talk, Sage Publications, Newbury Park-London-New Delhi 1987; e
Id., I/ discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1994. 34 C. Marletti, Extracomunitari. Dall’immaginario collettivo al vissuto quotidiano del razzismo, Nuova Eri, Roma 1991.
BD M. Maneri, Stazzpa quotidiana e senso comune nella costruzione sociale dell’immigrato, cit., p. 64. Per una valutazione analoga, cfr. Istituto Piemontese “A. Gram-
sci” — Consiglio regionale del Piemonte, Rapporto di ricerca sulle manifestazioni del pregiudizio, dell’intolleranza e della violenza razzista in Italia, Torino 1994.
36 Istituto Piemontese “A. Gramsci” — Consiglio Regionale del Piemonte, cit., p. 74, nota 78.
37 Vedi qui il terzo capitolo: La società si difende. 38 E.M. Schur, Our Criminal Society. The Social and Legal Sources of Crime, Prentice
Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969, p. 80.
106
5) Questo stile ricorda irresistibilmente il giornalisimo scandalistico di cui Mark
Twain si faceva beffe più di cent'anni fa. Cfr. M. Twain, Giornalismo nel Tennessee, in Racconti del Mississippi, Mondadori, Milano 1992. 40 M. Maneri, loc. ult. cit., pp. 115-116. 4l
“Autopoiesi” è in biologia la capacità dei sistemi viventi di riprodursi, e di riprodurre i propri sottosistemi e le loro relazioni, mantenendo l'equilibrio omeostatico (H.R. Maturana, EJ. Varela, Autoposesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio Editori, Padova 1985). Uso qui il concetto di autopoiesi per analogia e limitatamente ai sistemi comunicativi, perché non condivido la pretesa di alcuni scienziati, tra cui gli autori dell’opera citata, di spiegare in termini biologici i meccanismi sociali complessivi. In sociologia, un concetto vicino a “autopoiesi” è quello di “autoreferenzialità” (N. Luhmann, Sisterzi sociali, il Mulino, Bologna 1994)
che però non coglie il carattere performativo delle pratiche qui in discussione (su cui si veda M. Callon e B. Latour, Unscrewing the Big Leviathan: How Actors Macrostructure the Reality and bow Sociologists Help them to Do So, in K. Knorr-Cetina e A.V. Cicourel, a cura di, Advances in Social Theory and Methodology. Toward an Integration of Micro- and Macro-Sociologies, Routledge & Kegan Paul, London 1981). Qui mi preme semplicemente notare che determinati sistemi (al tempo stes-
so sociali e simbolici) sono in grado di produrre una realtà virtuale pur di mantenere la propria capacità riproduttiva.
42
W.I. Thomas, The Child in America, Knopf, New York 1928, p. 584, citato in P. McHugh, Defining the Situation. The Organization of Meaning in Social Interaction, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1968, libro quest’ultimo trent'anni, uno dei migliori studi sull'argomento.
43
che resta, a distanza di
E. Goffman, Relazioni in pubblico, Bompiani, Milano 1981. Da un punto di vista
retorico, l’allarmismo è affine al “catonismo”, quello stile saggistico che ammonisce i lettori sulla “fine della civiltà”, sulle imminente “guerra civile”, sull’ “invasione dei nuovi barbari” eccetera. Uno stile che un tempo si sarebbe definito “critico”, ma che oggi ammicca alle paure profonde dell’opinione pubblica. Alcuni opuscoli di H.M. Enzensberger ne costituiscono buoni esempi. Cfr. H.M. Enzesberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994; e Id., La grande migrazione, Ei-
naudi, Torino 1994. Per altri esempi, per lo più nostrani, cfr. qui il capitolo terzo.
44
Si vedano gli studi raccolti in P.P. Giglioli, S. Cavicchioli e G. Fele, Rituali di degradazione, Anatomia del processo Cusani, cit. Ma si veda anche, sulle definizioni e le
tautologie accusatorie nel processo penale, I. Mereu, Storia dell'intolleranza, Bom-
piani, Milano 1995, seconda ed. 45 D.A. Graber, Crirzze News and the Public, Praeger,
New York 1980.
46 M. McCombs e D. Shaw, D. La funzione di Agenda-setting dei mass media, in S. Bentivegna, Mediare la realtà. Mass media, sistema politico e opinione pubblica, Franco Angeli, Milano 1995.
47
In questo senso la stampa è la principale riserva di “ciò che tutti sanno”, ovvero del senso comune. Cfr. P. Jedlowski, “Quello che tutti sanno.” Per una discussione sul
concetto di senso comune, “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1994, pp. 49-77. La stampa esercita dunque una funzione di mantenimento dello “sfondo”. Si noti qui la differenza tra la stampa, soprattutto quotidiana, e la televisione. Per sua natura, quest’ultima è vincolata alla messa in scena di “eventi”, “spettacoli”, “cerimonie”,
107
cioè “fatti” capaci di suscitare e mantenere l’attenzione del pubblico per il tempo limitato di un servizio giornalistico (D. Dayan ed E. Katz, Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna 1993). La stampa quotidiana invece esige un’attenzione costante e partecipata. Anche se il suo pubblico è molto più ridotto rispetto a quello televisivo (dell’ordine delle decine o centinaia di migliaia di lettori rispetto ai milioni o decine di milioni di spettatori dei telegiornali), l'influenza specifica, cioè la capacità di definizione della situazione, è molto più profonda. A ciò si aggiunga che per sua natura la stampa è più vicina all'opinione “locale”, quella più sensibile all’allarme, al pregiudizio verso gli stranieri (cfr. P. Champagne, Fazre l'opinion. Le nouveau jeu politique, Ed. de Minuit, Paris 1990). La stampa, attraverso inchieste o sondaggi può determinare la percezione corrente dei “problemi” sociali come l’immigrazione e la criminalità (cfr. M. McCombs, I media e la nostra rappresentazione della realtà. Un'analisi della seconda dimensione dell'agenda-setting, in S. Bentivegna, a cura di, Comuzicare politica nel sistema dei media, Costa & Nolan, Genova 1996, pp. 129 sgg). La televisione eserciterà questo potere di determinare “ciò che è rilevante” selezionando piuttosto i “grandi” eventi politici (cfr. HJ. Gans, Deciding what's News: a Study of Cbs Evening News, Nbc Nightly News, Newsweek and Time, Pantheon Books, New York 1979). Per un’analisi dei mecca-
nismi autopoietici innescati dai media, cfr. P. Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997. 48 Nella sociologia della comunicazione, l’interazione cumulativa di fattori capaci di
creare un’opinione dominante è nota come “spirale del silenzio”. Quando una “voce” viene progressivamente legittimata dai mezzi di informazione, diviene praticamente impossibile per le voci alternative contrastarla. (Cfr. E. Noelle-Neuman, Die Schweigespirale. Offentliche Meinung — Unsere soziale Haut, cit.). Questo spiega perché le mobilitazioni dei cittadini e dei “comitati di quartiere”, quantitativamente irrisorie se paragonate alle manifestazioni antirazziste o in difesa degli immigrati (che in alcuni casi hanno mobilitato fino a 50.000 persone), siano considerate universalmente come espressioni rappresentative di ciò che la “gente” pensa dell’immigrazione. L'analisi di Noelle-Neuman integra (con la sua attenzione per questa dimensione apparentemente irrazionale dell’opinione pubblica) i classici studi di A. Hirschman sui fattori ciclici delle proteste pubbliche. Cfr. A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982; e Id., Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino, Bologna 1983. 49 Citato in S. Palidda, Verso il “Fascismo democratico”? Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, cit., p. 164. 50 Intervista effettuata a Genova. 51
Cfr. gli studi raccolti in G. De Luna, a cura di, Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze 1994; e I. Diamanti, I/ male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996.
52 R. Biorcio,,La Padania promessa. La storia, le idee e la logica d'azione della Lega
nord, cit., pp. 270-271. 535) Cfr. le interviste riportate in Antonello Petrillo, Insicurezza, migrazioni, cittadinan-
za. Le relazioni immigrati-autoctoni nelle rappresentazioni dei “Comitati di cittadini”: il caso genovese, tesi di dottorato di ricerca in Sociologia e politiche sociali, Dipartimento di Sociologia, Università di Bologna 1995, pp. 207 sgg.
108
54
N. Pozzi, I/ meccanismo sociale della colpa: nomadi e zingari, tesi di laurea in Sociologia, facoltà di Scienze della formazione, Università di Genova, a.a. 1996/1997.
DI: Intervista citata in Petrillo, op. ciz., p. 207. Sarzano, Fossatello e Maddalena, sono nomi, rispettivamente, di due piazze e una via del centro antico di Genova.
Ivi, p. 209. Burlando, già ministro nel governo Prodi ed ex sindaco di Genova, è il principale esponente del Pds genovese. u(tp32135
Ivi, p. 212. Nel centro antico di Genova, nel luglio 1993, gruppi di razzisti provocarono gravi scontri con immigrati.
Ivi, passim. L. Fantini, Mylano 1994. Percorsi nel presente metropolitano, Feltrinelli, Milano
1994, pp. 65-66.
61
“Corriere della sera”, 18 ottobre 1995, p. 7.
62
U. Melotti, Crimzralità e conflittualità: il disagio metropolitano, in S. Allievi, a cura di, Miano plurale. L'immigrazione tra passato, presente e futuro, Iref, Milano 1993, p. 163. Alla luce di questo contributo, il titolo del volume da cui è tratto (Mz/ar0
plurale) suona inconsapevolmente umoristico. 63 Testimonianze varie in L. Fantini, Milano 1994. Percorsi nel presente metropolitano, cit. 64 L’uniformità del senso comune trascende ormai i confini nazionali e europei. In un
romanzo recentemente pubblicato negli Stati Uniti, l'imbarazzo, lo sconcerto e infine le reazioni difensive della società locale e degli intellettuali verso gli immigrati messicani sono analoghi a quelli dei nostri imprenditori morali. Cfr. T. Coraghessan Boyle, Arzerica, Einaudi, Torino 1997. Il titolo della traduzione italiana non
rende l’ironia di quello originale (The Tortilla Curtain), ovvero la “cortina di tortilla”, l'insieme di barriere legali, doganali e culturali che separano i chicaros dagli americani. 65 Con “crimini senza vittime” si intendono comportamenti puniti dalla legge che non comportano danni a terzi. Più di ogni altro comportamento i crimini senza vit-
time sono il prodotto delle definizioni prevalenti della moralità incorporate nel diritto e quindi un esempio di stigmatizzazione della devianza. Cfr. E.M. Schur, Cremes without Victims, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1965; si veda anche D. Matza, Come si diventa devianti, il Mulino, Bologna 1969; e H.S. Becker, Outsiders.
Studi di sociologia della devianza, cit. 66 Intervista raccolta a Genova (corsivo mio). 67 Dichiarazione di G. Baget Bozzo al “Il secolo XIX”, p. 15 (corsivo mio). L'articolo commenta il caso di una giovane nigeriana fermata su un autobus perché priva di
biglietto, arrestata e detenuta per quattro giorni. 68
“La Stampa”, 24 agosto 1997, p. 35. Marassi e Lagaccio: quartieri di Genova.
69 Intervista a un funzionario di polizia di Milano, corsivo mio. 70 Funzionario di Ps di Genova. 71
Ufficiale dei carabinieri di Genova.
109
Agente di pattuglia nel centro antico di Genova Cfr. S. Palidda, Polizia e sicurezza urbana, cit.; e Devianza e criminalità tra gli immigrati, cit. Cfr. anche F. Carrer, L’anziano e il suo habitat. Sicurezza e qualità della vita, Ediesse, Roma 1998.
Agente di Ps di Genova. Testimonianza di T., immigrato senegalese a Genova. Intervista realizzata a Genova. Esponente di un comitato genovese.
Ibidem.
Il caso di Genova è sicuramente uno dei più interessanti. Al pari di altre città portuali, la prostituzione, maschile e femminile, è socialmente accettata da lungo tempo. In un’area estesa del centro antico esiste a tutt'oggi una prostituzione stabile,
anche straniera, che non è mai stata chiamata in causa dalle proteste dei cittadini. 81
M.R. Cutrufelli, Il denaro in corpo. Uomini e donne: la domanda di sesso commerciale, Marco Tropea Editore, Milano 1996. A mio avviso la stima è troppo prudente. Secondo gli operatori di strada della Lila di Genova, la percentuale in questione potrebbe arrivare al 60%.
82 U. Melotti, Criminalità e conflittualità: il disagio metropolitano, cit., p. 166. 83
S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (caso clinico dell’uomo dei to-
pi), in Opere 1909-1912, vol. vI: Casi clinici e altri scritti, Boringhieri, Torino 1981, passim. Le osservazioni freudiane su questo caso di “patologia della vita amorosa” sono ancora utili, ma dovrebbero essere integrate con un’etnografia contemporanea della domanda di sesso. Le prostitute straniere rischiano probabilmente di più delle colleghe italiane perché su di loro si scaricano contemporaneamente machismo, sadismo e, nel caso delle transessuali, l'ambiguità di tanti clienti normali.
Sul richiamo esercitato da questa miscela cfr. M. Garber, Interessi truccati. Giochi di travestitismo e angoscia culturale, Cortina, Milano 1994. Le transessuali sono i moderni androgini o ermafroditi, un tempo perseguitati dai giudici e oggi da cittadinanze e clienti (P. Spirito, I/ giudice e la chimera. Ermafroditi processati nell’Ancien Régime nei racconti di Francois Gayot de Pitaval, La Biblioteca del Vascello, Roma 1992).
84
Intervista a E. Pivetta, volontario e operatore di strada della Lila di Genova. In un saggio degli anni trenta sulla psicologia dell’atteggiamento tirannico, Manès Sperber ha mostrato come l’aggressività più vistosa sia effetto di un senso di impotenza. Cfr. M. Sperber, Zur Analyse der Tyrannis — Das Ungliick, begabt zu sein. Zwei sozialpsychologiche Essays, Europa Verlag, Wien 1975.
85 L. Tartarini (Migrazioni femminili e devianza: una ricerca sulla prostituzione nigeria-
na nella città di Genova, tesi di laurea in Antropologia criminale, facoltà di Giurisprudenza, Università di Genova, a.a. 1995/1996) documenta la normalità della
violenza esercitata sulle prostitute straniere. Vedi anche F. Rahola, La prostitution immigrée en Italie. Le cas des femmes albanaises et nigerianes è Génes, Mémoire de Dea, Université Paris 7 Diderot, Paris 1998. Cfr. anche le testimonianze raccolte in
110
C. Corso, C. e S. Landi, Quanto vuoi? Clienti e prostitute si raccontano, Giunti, Firenze 1998.
86 Quando, tra il 1997 e il 1998, alcune prostitute straniere vengono uccise in Liguria,
le cronache parlano di una guerra tra bande di sfruttatori albanesi. Successivamente, un italiano verrà incriminato per questi e altri delitti. 87 H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Ebraismo e modernità,
Unicopli, Milano 1986, p. 72. 88 S. Bordo, I/ peso del corpo, Feltrinelli, Milano 1997. 89 E Farias de Albuquerque e M. Jannelli, Prizcesa, Sensibili alle foglie, Roma 1994. 90 Funzionario di polizia di una città dell’Italia del Nord. Quasi tutti gli operatori di
polizia, le guardie o funzionari carcerari e i magistrati di cui ho trascritto le interviste (complessivamente 50), per non parlare di avvocati, educatori carcerari, opera-
tori sociali o volontari concordano con queste osservazioni, indipendentemente dalla loro posizione di fondo nei confronti degli stranieri. SI
M.N. De Luca, Scene di caccia in Riviera, “la Repubblica”, 14 agosto 1997, p. 7.
92 Cfr. i quotidiani del 14 agosto 1997. 93 Alassio, un deterrente per gli ambulanti. E le camicie verdi entrano in azione, “La Stampa”, 15 agosto 1997, p. 40.
94 95
Scontri in spiaggia contro le camicie verdi. Turisti contro ronde anti-immigrati, “la Repubblica”, 4 agosto 1997. Si noti la continuità tra “pastore macedone”, “clandestini”, “killer” e “invasione”.
Cavallari prende spunto dall’omicidio commesso da ur immigrato per evocare l’invasione degli immigrati. 96 Allarme immigrati, vertice Prodi-Napolitano, “Corriere della sera”, 15 agosto 1997, p.13.
97 Cfr. i quotidiani del 27 agosto 1997. Credo che questa proposta non abbia prece-
denti al mondo. In seguito, ovviamente, nessuno ne ha più parlato, anche perché il governo albanese ha gentilmente declinato l’offerta (Profughi, un altro no da Tirana. Respinta la proposta di creare campi in Albania. In Puglia nuovi sbarchi, “Corriere della sera”, 28 agosto 1997). Forse perché uscito da pochi anni dal comunismo autoritario di Hoxha, il piccolo paese è refrattario ai campi proposti dal nostro ministro. 98 Riviera. Sindaci in rivolta. “Cacciate i delinquenti”, “la Repubblica”,
13 agosto
TOO
99
Cfr. i quotidiani del 24 settembre 1997.
100 Tra agosto e settembre la stampa riporta i seguenti fatti: a Biella un italiano uccide la sua amante, una prostituta nigeriana che non voleva abbandonare la vita. Un frate uccide a Bergamo l’amante nera che lo ricattava. Un albanese è ucciso in Sardegna. Due marocchini sono uccisi a Bologna da un tossicodipendente che voleva vendicarsi contro un affronto subito dagli “extracomunitari”. Che i fatti di Rimini e Sulmona siano stati solo il pretesto per una campagna xenofoba è dimostrato da due circostanze: 1) stupri commessi da italiani e scontri tra bande di italiani sono stati segnalati durante l’estate senza provocare alcuna conseguenza; 2) quando in
Iuiidi
Puglia, nel settembre 1997, un giovane tunisino è accusato di aver violentato e ucciso alcune donne anziane, la questione non suscita emozione, per il semplice moti-
vo che la “tautologia della paura” aveva già innescato la ridefinizione criminale degli immigrati (in settembre il governo annuncia di aver stralciato dalla proposta di legge sull’immigrazione il diritto di voto agli immigrati; cfr. i quotidiani del 22 settembre 1997). 101 Titoli da “la Repubblica”, 20 luglio 1997: “A NAPOLI UN SABATO DI SANGUE. UCCISO PER SBAGLIO A 17 ANNI. IL RAGAZZO ERA IN MOTO CON UN AMICO, OBIETTIVO DEL KILLER.” “IN CAMPANIA 4 VITTIME IN POCHE ORE. AD AVELLINO UNA NONNA UCCISA DAI RAPINATORI SOTTO GLI OCCHI DEL NIPOTINO.” “IL MINISTRO DEGLI INTERNI GIORGIO NAPOLITANO: LA CAMORRA PIÙ PERICOLOSA DELLA MAFIA.” 102 Sulla sopravvivenza dei simboli nella storia della cultura cfr. A. Warburg, Ausgewihlte Schfriten und Wiirdigungen, Teubner, Berlin 1932. Sull’applicazione di queste intuizioni alla sociologia e all’antropologia cfr. A. Dal Lago, Il politeismo moderno, Unicopli, Milano 1986. 103 Trascrizione da “Tg2 Dossier”, 19 novembre 1997, “Rimini ’97”.
104 L'inversione, all’interno dello schema amico/nemico, tra il nero potente (e intelligente) e il bianco animalesco, diviene un luogo comune dell’antirazzismo. Nel film
collettivo Intolerance (girato nel 1997 da un gruppo di giovani registi italiani per contrastare i luoghi comuni razzisti) un episodio (I° song’ reg!’ e te) ripete lo schema della vignetta di “Boxer”. Un giovane immigrato umiliato da un gruppo di italiani durante un pranzo di matrimonio diventa stregone, con tanto di gonnellino e collane, e trasforma il cantante che l’aveva offeso in un rospo gracidante. 105 Questo è a mio avviso il problema lasciato irrisolto dalle ricerche sull’ordinario razzismo degli italiani. Per esempio, in una bella ricerca sull’immaginario degli altri nei temi dei bambini delle elementari e delle medie, in cui la paura gioca un ruolo decisivo, P. Tabet (La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997) non evoca l’attuale contesto politico e mediale di vera e propria guerra contro i migranti. 106 In altri termini, il razzismo può essere definito come la codifica simbolica di un’inferiorità assoluta, che può essere giustificata da tipi diversi di stigma. Si pensi all’immagine degli irlandesi come “animali” nella pubblicistica inglese del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo. Su questo punto cfr. le acute osservazioni di R. Levrero, L'invenzione della razza bianca, relazione non pubblicata, dipartimento di Scienze dei processi cognitivi, del comportamento e della comunicazione, Università di Genova, aprile 1998.
112
La società si difende E mi ha spiegato in due parole che per lottare contro il razzismo in Francia bisognava rimandare a casa gli immigrati. Ho continuato a tacere ma mi sembrava strano lottare contro un’idea mettendola in pratica. (D. van Cauwelaert, Sola andata)!
Legalità in pillole La definitiva inclusione dell’“emergenza immigrazione” nell'agenda politica segna dunque l’uscita di scena dei cittadini in carne e ossa. Voci rumorose ma minoritarie, sono destinati a divenire brusio di
fondo, risorsa retorica per qualunque partito voglia cavalcare la nota linea della legalità a tutti i costi. Questa linea, dopo la metà degli anni novanta, ha il conforto di un certo consenso internazionale. Se a
New
York il sindaco repubblicano Giuliani lancia la strategia della “tolleranza zero” per la microcriminalità (ripresa con entusiasmo in Germania dal candidato socialdemocratico alla cancelleria Gerhard Schréder), in Inghilterra il primo ministro laburista Blair riscopre il valore pedagogico delle frustate per i monelli. In Italia, dove il gover113
no di centrosinistra preferisce la via della bontà, non si arriva a tanto. Con l’esclusione della Lega e di qualche incallito tifoso della forca, il sistema politico tiene i nervi saldi, preferendo una massiccia campagna in favore della legalità. Come spiega un autorevole esponente del governo: Il popolo di sinistra che invoca sicurezza a S. Salvario è diventato di destra? Lo sono diventati gli ascoltatori di Radio popolare? Lo è Giuliano Amato, che vuole riconoscere i diritti dell'embrione? Lo è Livia Turco che
non vuole la liberalizzazione della marijuana? [...] I laburisti di Tony Blair hanno detto verità scomode (come “Law and Order”) e oggi sono, dopo più di vent’anni, nella possibilità di governare la Gran Bretagna. I democratici di Clinton hanno detto, anche sul welfare, cose dure e governano un'America in ripresa. Mitterrand dovette compiere scelte anche impopolari a sinistra ma cambiò la Francia.”
Prima di analizzare alcuni momenti salienti di questa campagna e i suoi effetti sulla gestione dell’“emergenza immigrazione”, è necessario soffermarsi sul significato generale dei rituali retorici della politica. Da Max Weber? in poi, sappiamo che in politica (non quella ideale di cui parla Aristotele, ma quella reale o petite politique), i “politici di professione” hanno di mira l’accrescimento di “potenza” e “prestigio” per i propri partiti e per se stessi. Ovviamente, anche una moderna democrazia politica si fonda su questo assunto, e quindi non c’è da scandalizzarsi se i politici di professione useranno ogni mezzo per realizzare il loro obiettivo primario. Tra i mezzi più idonei, c’è la ricerca del consenso, ovvero l'approvazione degli elettori. Il consenso politico, d’altra parte, è quanto di più volatile esista in un sistema rappresentativo, che prevede la verifica elettorale periodica di ciò che i cittadini pensano dei loro governanti e rappresentanti. Come Winston Churchill apprese amaramente dopo aver guidato vittoriosamente l’Inghilterra nella guerra contro Hitler, non c’è eroismo o sagacia che protegga un leader dal malumore dell’elettorato. L'avvento dei mezzi di comunicazione di massa ha però offerto nuove risorse ai politici di protessione. Essi hanno scoperto che possono conquistare l'approvazione dei cittadini inducendoli a credere che il proprio punto di vista è adottato dai politici. I dittatori comunicavano la propria volontà al popolo creando una comunanza istantanea (Hitler prediligeva la radio e Stalin l’ha usata con maestria, come nel suo famoso discorso al popolo russo, per mobilitarlo contro l'attacco nazista). In una moderna società democratica, la comunanza è impen114
sabile, sia perché le piazze reali, in cui i sudditi ascoltavano passivamente gli altoparlanti sotto lo sguardo vigile di qualche milizia, sono sostituite dalla piazza virtuale‘ della televisione (in cui ognuno resta fisicamente a casa propria), sia perché la democrazia rappresentativa
comporta una pluralità, anche se limitata, di posizioni politiche. Se l’obiettivo dei dittatori era vincolare a sé il popolo in una comunanza istantanea e passiva, l’obiettivo comunicativo di un politico democratico è convincere il pubblico (gli elettori, la “gente”) a far proprio il suo punto di vista, “scegliendolo” in una gamma limitata di opzioni. In una società democratica e mediale, un politico o un partito operano dunque in un regime di concorrenza, analoga a quella commerciale. Il loro obiettivo consisterà nel convincere il pubblico a far propria, cioè a “comprare”, la loro linea politica. Come in ogni altro tipo di mercato, anche in quello politico il successo arriderà a chi saprà interpretare e prevedere i bisogni, l'umore e gli sbalzi d'umore dei consumatori (marketing), oltre che a propagandare efficacemente il proprio prodotto (pubblicità). Rispetto al mercato dei beni, quello politico offre vantaggi e svantaggi diversi. Il vantaggio principale è che la pubblicità è gratuita, poiché i media offrono spazi enormi e gratuiti al “teatro politico”. Lo svantaggio è che i tempi spesso convulsi e le emergenze della vita politica non consentono di pianificare le campagne di marketing. Sondaggi di opinione effettuati in proprio dai partiti o commissionati a specialisti non possono ragionevolmente prevedere ciò che si agita nella mente del pubblico e soprattutto i suoi cambiamenti d’opinione sotterranei. Per questo il “fiuto” resta la qualità primaria di un capo politico. Saper fiutare il vento prevalente e, soprattutto, anticiparlo o produrlo (grazie a un vero e proprio effetto
“mantice”) consente di superare i limiti del marketing scientifico applicato alla politica. Leader potenti e celebrati per i loro talenti si sono trovati da un giorno all’altro nella polvere, per aver creduto troppo ai sondaggi sulla loro popolarità (così è avvenuto a Craxi nel 1992), mentre altri, che irrompevano nel mercato politico, si sono creati un
grande seguito (a onta delle loro apparenti stravaganze) perché avevano capito non solo dove tirava il vento ma anche come alimentarlo (Le Pen in Francia e Bossi in Italia sono casi evidenti di questa capacità di promozione). Come si è visto nel capitolo precedente, “sicurezza” e “immigrazione” sono divenute negli anni novanta le preoccupazioni dominanti dei “cittadini” grazie alla “tautologia della paura”, un meccanismo capace di unificare in un blocco irresistibile l'opinione corrente, locale e me-
diale.’ Preoccupazioni dominanti, ma anche ideali per il mercato poli195.
tico per alcune buone ragioni. In primo luogo, sono ricorrenti 0 cicliche e possono essere affrontate con una sufficiente pianificazione (appena scoppia qualche “emergenza immigrazione” o “crisi della sicurezza urbana” i copioni sono già disponibili). In secondo luogo, in quanto preoccupazioni essenzialmente sirzboliche, possono essere soddisfatte a buon mercato con risposte simboliche? (diversamente da questioni spinose, come la “riforma dello stato sociale”, che comportano durissimi conflitti di interesse e scelte dolorose e impopolari). In terzo luogo sono ingombranti e occupano la scena politico-mediale, emarginando periodicamente altre questioni spinose e controverse. Non voglio resuscitare vecchi giochi retorici come “a chi giova?”. Noto semplicemente che, grazie alle proteste più o meno clamorose dei cittadini e dei “problemi di ordine pubblico” che sembrano comportare, l’ascesa alla ribalta delle questioni “sicurezza” e “immigrazione” consente ad alcuni attori di recitare una parte di primo piano nel mercato del consenso, cioè nel teatro politico: la destra agiterà la forca, il
centro inviterà alla riflessione, idemocratici alla tolleranza e il governo cercherà di dimostrare la propria competenza e sollecitudine per i bisogni della “gente”. Ecco dunque come la legalità è divenuta la questione dominante della politica italiana negli ultimi anni. La legalità “paga” simbolicamente, anche se gli effetti concreti delle relative campagne sono nulli o negativi, allo stesso modo in cui l'erogazione della pena di morte non ha mai risolto il problema del crimine, ma anzi paradossalmente lo aggrava (per dimostrare la propria capacità punitiva, la giustizia americana aumenta le condanne a morte, il che rende più visibile l'aumento del crimine, che a sua volta produrrà una crescita delle esecuzioni, con
un effetto cumulativo che dovremmo definire grottesco, se non fosse tragico). La campagna sulla legalità non avrà altro effetto che di amplificare l’“illegalità” fino a produrre la strana conseguenza che, quanto più i cittadini pretendono l’ordine, tanto più si convinceranno di vivere nel disordine. Non si tratta di un esempio di “effetto perverso dell’azione sociale” che dipenderebbe dall’illogicità intrinseca dell’agire umano rispetto agli standard ideali,* ma del fatto che il mantenimento della paura tra i cittadini può divenire un ottimo obiettivo politico, “logico” come tanti altri. L'ossessione più o meno artificiale per la legalità è dunque un esempio di “retorica” politica. La definisco in tal modo per metterne in luce non tanto la vacuità (che pure è evidente, se si esamina la que-
stione da vicino), quanto la funzione autonoma nel teatro politico. Una volta conquistato un rango legittimo in scena, essa non teme smentite 116
(non si può smentire una rappresentazione teatrale) e può benissimo coesistere con un sapere pratico che la contraddirebbe se potesse farlo legittimamente. Abbiamo già visto che gli specialisti di questioni come la “legalità” e la “sicurezza”, magistrati e poliziotti, tendono a riportare in una luce diversa, se non a minimizzare, emergenze come la “criminalità degli immigrati”. Se non giocano anche loro a fare i politici, e quindi a entrare nel teatro o nel mercato delle opzioni politiche, gli specialisti tenderanno a sottolineare la continuità e la normalità del proprio lavoro, anche perché il clamore sulle “ondate di criminalità”, che provenga dai “cittadini” o dai politici, suona come una critica implicita al loro operato. Inoltre, essi sanno distinguere tra sintomi e cause, tra apparenza e struttura della criminalità e soprattutto tra diverse tipologie di criminalità. Per quanto siano soggetti alle pressioni dell’opinione pubblica e ovviamente influenzati dal senso comune, difficil-
mente confonderanno consumo, spaccio e traffico organizzato di droga, esercizio e sfruttamento della prostituzione, una rissa tra ubriachi e un regolamento di conti tra bande organizzate — una confusione su cui si basa esattamente il senso comune ossessionato dalla sicurezza. Tuttavia, come è naturale, gli specialisti sono soggetti agli indirizzi che la politica, insieme all’opinione pubblica, assegna alla macchina dello stato cui appartengono, così che smetteranno di raffreddare le “emergenze” e rientreranno nel coro quando le esigenze della retorica politica in atto lo esigeranno. Abbiamo visto che, a partire dalla “crisi della Prima repubblica” il codice politico” dominante si è decisamente orientato verso la “legalità”. Ora, in Italia, questo termine assume sfumature diverse dal resto
dell'Europa occidentale. Indipendentemente dalla corruzione politica, nel nostro paese esiste una criminalità organizzata diffusa e radicata in alcune regioni (benché le sue propaggini, soprattutto quelle finanziarie, abbiano conquistato una dimensione nazionale e internazionale). Periodicamente l’esercito viene inviato a controllare il territorio in tali regioni (in Sicilia, come nell'operazione “Vespri siciliani”, contro la mafia; in Sardegna contro i sequestri di persona e il banditismo;
in Campania contro la camorra). Queste operazioni hanno l’obiettivo ufficiale di assistere le forze di pubblica sicurezza nel controllo del territorio e quello implicito e “politico” di rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che “lo stato c'è”. Ma in generale dimostrano l'incapacità dello stato di sconfiggere con strumenti ordinari la criminalità organizzata, che resta un potere efficiente e in alcuni casi alternativo allo stato stesso (si ricordi che perfino all’epoca del terrorismo, negli anni settanta, l’esercito non fu impiegato in servizi di ordine pubblico). Tutta117
De Gennaro parla di “crescente microcriminalità”, assimila di fatto microcriminalità e criminalità organizzata (“facce di una stessa medaglia”), teme che i cittadini si facciano giustizia da sé, ma non sembra sospettare nemmeno che il giustizialismo popolare che sta evocando viene proprio alimentato dalla disinvolta equazione di “mafia” e “microcriminalità”.’ Lo “stesso mondo criminale” che qui viene evocato non esiste se non nell’immaginazione, o meglio nella retorica allarmistica, di questi tecnici. Come tali, Violante e De Gennaro, dovrebbero
sapere che lo scarto tra la tendenza alla diminuzione di “furti e rapine” (ben nota da tempo) e la crescente sensazione di insicurezza (su cui non si conoscono dati esaurienti, ma che è palpabile per le strade e nell’informazione di massa) pongono numerosi interrogativi, soprattutto politici. La questione dell’insicurezza non sarà indipendente dai fatti criminali ma dipendente da altri fattori macrosociali? Non sarà connessa alla crisi dello stato sociale, alla sensazione di precarietà che
dilaga tra i cittadini che vedono aumentare la disoccupazione e l’incertezza del posto di lavoro? Se il cittadino comune non sa che i reati più temuti diminuiscono, perché i partiti democratici, che dovrebbero avere una vocazione sociale spiccata, non fanno opera di informazione? In realtà, c’è una sola risposta a queste domande: la sinistra al governo, come in precedenza la destra, ha scelto di legittimare il discorso corrente sulla microcriminalità diffusa (che si basa soprattutto su impressioni quotidiane e su dicerie alimentate dalla stampa) utilizzandolo come risorsa di consenso." Ogni forma di devianza, o minaccia percepita dal cittadino, è grave come la criminalità organizzata e la microcriminalità. L'equazione di criminalità organizzata e microcriminalità viene estesa da un altro politico, il ministro degli interni Giorgio Napolitano, alla “devianza” in generale, illustrando così la seconda operazione di traduzione necessaria alla retorica politica della legalità. Il ministro considera distorcente che si parli perfino di “microcriminalità”, dato che i fenomeni che vanno sotto questo nome sono “sconvolgenti”: Già l’uso stesso del termine microcriminalità non persuade, perché quando c'è l’insicurezza dei cittadini, delle famiglie, dei quartieri, quando c'è attentato ai beni e alle persone, questa offesa viene percepita, anche da chi ne sia soltanto minacciato, come offesa grave. I/ termine microcriminalità può quasi far pensare a fatti trascurabili se paragonati alle stragi e ai delitti efferati. Non possiamo indulgere in questo errore di valutazione. Talvolta c'è da distinguere perché non è soltanto la frequenza dei furti, degli scippi e
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delle rapine o delle aggressioni a turbare. Spesso è qualcosa d’altro: per esempio, lo spaccio di droga e la prostituzione organizzata, visibile, aggressiva, sconvolgente."
Per un paese la cui storia recente è costellata di stragi e delitti efferati in gran parte impuniti (dalla strage di Milano a quelle di Bologna e di Ustica), questa equiparazione di prostituzione e spaccio (e delle relative “minacce”) al terrorismo è senz'altro originale. Ma non sorprendente. Abbiamo già osservato infatti come sia attualmente irresistibile nel nostro paese la tendenza a omologare le nuove minacce (clandestini, lavavetri, prostitute, spacciatori e devianti di ogni tipo) al crimine organizzato. D'altra parte, l'omologazione ha effetti concreti quando giustifica operazioni di vera e propria normalizzazione della vita quotidiana nelle città. Iniziative di 72aguillage umano sono state realizzate a Bologna e Milano, dove si tenta di allontanare devianti veri e presunti e immigrati dai centri storici e commerciali, mentre altre, come Geno-
va, sono massicciamente pattugliate dalle diverse polizie per rassicurare i cittadini. L'immigrazione è la causa principale delle minacce alla sicurezza det cittadini. Negli stessi giorni in cui il governo decreta l’espulsione dei profughi albanesi e si prepara a inviare le truppe in Albania (fine marzo 1997), si moltiplicano le iniziative politiche di lotta contro la microcriminalità e per la pulizia urbana. Un elemento rivelatore di queste campagne, promosse dai partiti di centrosinistra, è che non si differenziano in alcun modo dal tradizionale stile repressivo della cultura politica di destra, e hanno di mira un bersaglio particolare. Ecco come “la Repubblica” presenta, con una malizia forse involontaria, una di queste iniziative: M “Garantire un corretto governo della sicurezza e allo stesso tempo affrontare con determinazione la criminalità ordinaria con l'indispensabile strumento della repressione.” “Noi abbiamo sempre detto che chi delinque dev'essere sanzionato, represso, espulso. Nulla offende di più il cittadino che domanda la legalità di sentirsi offrire risposte incentrate sulla solidarietà, perché questo dà il senso dell’impotenza.” Quiz: chi parla è forse Er pecora 0 il leghista Boso o un generale dei carabinieri? No, tutto sbagliato: sono due frasi pronunciate ieri a Vivere sicuri, Forum europeo sulla sicurezza/insicurezza urbana, organizzato dal Pds.
La prima frase fa parte dell’introduzione degli organizzatori del convegno, la seconda è del sindaco ulivista di Torino Valentino Castellani.!°
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De Gennaro parla di “crescente microcriminalità”, assimila di fatto microcriminalità e criminalità organizzata (“facce di una stessa medaglia”), teme che i cittadini si facciano giustizia da sé, ma non sembra sospettare nemmeno che il giustizialismo popolare che sta evocando viene proprio alimentato dalla disinvolta equazione di “mafia” e “microcriminalità”.” Lo “stesso mondo criminale” che qui viene evocato non esiste se non nell’immaginazione, o meglio nella retorica allarmistica, di questi tecnici. Come tali, Violante e De Gennaro, dovrebbero
sapere che lo scarto tra la tendenza alla diminuzione di “furti e rapine” (ben nota da tempo) e la crescente sensazione di insicurezza (su cui non si conoscono dati esaurienti, ma che è palpabile per le strade e nell’informazione di massa) pongono numerosi interrogativi, soprattutto politici. La questione dell’insicurezza non sarà indipendente dai fatti criminali ma dipendente da altri fattori macrosociali? Non sarà connessa alla crisi dello stato sociale, alla sensazione di precarietà che
dilaga tra i cittadini che vedono aumentare la disoccupazione e l’incertezza del posto di lavoro? Se il cittadino comune non sa che i reati più temuti diminuiscono, perché i partiti democratici, che dovrebbero avere una vocazione sociale spiccata, non fanno opera di informazione? In realtà, c’è una sola risposta a queste domande: la sinistra al governo, come in precedenza la destra, ha scelto di legittimare il discorso corrente sulla microcriminalità diffusa (che si basa soprattutto su impressioni quotidiane e su dicerie alimentate dalla stampa) utilizzandolo come risorsa di consenso." Ogni forma di devianza, o minaccia percepita dal cittadino, è grave come la criminalità organizzata e la microcriminalità. L'equazione di criminalità organizzata e microcriminalità viene estesa da un altro politico, il ministro degli interni Giorgio Napolitano, alla “devianza” in generale, illustrando così la seconda operazione di traduzione necessaria alla retorica politica della legalità. Il ministro considera distorcente che si parli perfino di “microcriminalità”, dato che i fenomeni che vanno sotto questo nome sono “sconvolgenti”: Già l’uso stesso del termine microcriminalità non persuade, perché quando c'è l’insicurezza dei cittadini, delle famiglie, dei quartieri, quando c’è attentato ai beni e alle persone, questa offesa viene percepita, anche da chi ne sia soltanto minacciato, come offesa grave. I/ termine microcriminalità può quasi far pensare a fatti trascurabili se paragonati alle stragi e ai delitti efferati. Non possiamo indulgere in questo errore di valutazione. Talvolta c'è da distinguere perché non è soltanto la frequenza dei furti, degli scippi e
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delle rapine o delle aggressioni a turbare. Spesso è qualcosa d’altro: per esempio, lo spaccio di droga e la prostituzione organizzata, visibile, aggressiva, sconvolgente."
Per un paese la cui storia recente è costellata di stragi e delitti efferati in gran parte impuniti (dalla strage di Milano a quelle di Bologna e di Ustica), questa equiparazione di prostituzione e spaccio (e delle relative “minacce”) al terrorismo è senz'altro originale. Ma non sorprendente. Abbiamo già osservato infatti come sia attualmente irresistibile nel nostro paese la tendenza a omologare le nuove minacce (clandestini, lavavetri, prostitute, spacciatori e devianti di ogni tipo) al crimine organizzato. D'altra parte, l'omologazione ha effetti concreti quando giustifica operazioni di vera e propria normalizzazione della vita quotidiana nelle città. Iniziative di r2a9%4//age umano sono state realizzate a Bologna e Milano, dove si tenta di allontanare devianti veri e presunti e immigrati dai centri storici e commerciali, mentre altre, come Genova, sono massicciamente pattugliate dalle diverse polizie per rassicurare i cittadini. L'immigrazione è la causa principale delle minacce alla sicurezza det cittadini. Negli stessi giorni in cui il governo decreta l'espulsione dei profughi albanesi e si prepara a inviare le truppe in Albania (fine marzo 1997), si moltiplicano le iniziative politiche di lotta contro la micro-
criminalità e per la pulizia urbana. Un elemento rivelatore di queste campagne, promosse dai partiti di centrosinistra, è che non si differenziano in alcun modo dal tradizionale stile repressivo della cultura politica di destra, e hanno di mira un bersaglio particolare. Ecco come “la Repubblica” presenta, con una malizia forse involontaria, una di queste iniziative:
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“Garantire un corretto governo della sicurezza e allo stesso tempo affrontare con determinazione la criminalità ordinaria con l’indispensabile strumento della repressione.” “Noi abbiamo sempre detto che chi delinque dev'essere sanzionato, represso, espulso. Nulla offende di più il cittadino che domanda la legalità di sentirsi offrire risposte incentrate sulla solidarietà, perché questo dà il senso dell’impotenza.” Quiz: chi parla è forse Er pecora 0 il leghista Boso o un generale dei carabinieri? No, tutto sbagliato: sono due frasi pronunciate ieri a Vivere sicuri, Forum europeo sulla sicurezza/insicurezza urbana, organizzato dal Pds.
La prima frase fa parte dell’introduzione degli organizzatori del convegno, la seconda è del sindaco ulivista di Torino Valentino Castellani."
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È quasi superfluo notare che al posto delle espressioni “microcriminalità” o “criminalità ordinaria” si deve leggere “criminalità degli immigrati” (come rivela Castellani con il suo riferimento alle “espulsioni” e alla “solidarietà”). Non dobbiamo pensare però che questa scoperta dello straniero colpevole sia solo un merito dei sindaci (di destra, centro o sinistra) assillati dai cittadini impauriti. La cultura politica del sospetto preventivo verso gli stranieri non è dettata solo dall’esigenza di vezzeggiare un’opinione pubblica sempre più conservatrice, ma è il frutto di una strategia allarmistica perseguita da tempo dagli organi di sicurezza dello stato italiano. Scorrendo i rapporti sull’attività dei servizi di sicurezza che i governi italiani presentano con scadenza semestrale alle Camere, si può notare come il Lertzzotiv dello straniero “delinquente” o “pericoloso” sia costante da più di dieci anni, da un’epoca cioè in cui l'immigrazione in Italia era pressoché irrisoria, se comparata con quella di altri paesi europei. Così, la relazione Craxi del I semestre 1985 parla di “ur gran numero di cittadini stranieri, soprattutto nordafricani, mediorientali, asiatici,
tra i quali [...] anche elementi che, fruendo delle favorevoli condizioni offerte da un sistema particolarmente liberale [sic!], ne approfittano per attuare iniziative terroristiche”. La relazione De Mita!‘ conferma quanto precede sottolineando la “rotevole presenza, per lo più clande-
stina, di gruppi provenienti da paesi a rischio, che procura non soltanto problemi di ordine pubblico e sociale, ma rappresenta una potenziale minaccia destinata ad aumentare quale veicolo e supporto di terrorismo...”. L’allarmismo di queste relazioni viene giustificato con l’esibizione di dati sull’immigrazione del tutto fantasiosi. Se la relazione De Mita del i semestre 1989 parla di 1,2 milioni di persone, tra cui “due terzi senza permesso di soggiorno”, quella Andreotti valuta i clandestini tra 800.000 e 1,2 milioni di unità." Cambiano i governi ma non la musica di fondo. Secondo la relazione Amato del secondo semestre 1992, “[...] l'espansione criminosa dei cittadini di un paese asiatico (di cui non si riporta il nome, ma che deve essere l’Iran [...]) fa presumere l’esistenza di una rete di collegamenti logistico-operativi finalizzata a traffici illecitt” (p. 15). Altrettanto spericolata è la relazione Ciampi (1993), che estende la minaccia agli amici degli immigrati e ai “fondamentalisti”, citando una “notevole capacità organizzativa e rivendicativa dei propri diritti evidenziata da varie comunità straniere in Italia, verosimilmente
[sic!] sostenuta da taluni abili attivisti gravitanti nell’area del pacifismo e del fondamentalismo islamico”. Infine, dopo la parentesi Berlusconi, la cui relazione ripete pedissequamente le solite stime dei clandestini,
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le relazioni Dini (secondo semestre 1995) e Prodi affrontano finalmen-
te la questione della xenofobia: Cresce progressivamente il bisogno di sicurezza della società civile a fronte dei gravi problemi della criminalità organizzata, dell’immigrazione clandestina, dell’integralismo islamico, dell’eversione ideologica e delle turbative dei mercati finanziari [s/c/].® Il persistere di focolai di crisi in aree vicine all'Italia, interessate da un trend demografico in forte crescita, ha continuato ad alimentare l’immigrazione clandestina. Il fenomeno ha determinato, in qualche occasione tensioni sociali e reazioni di carattere xenofobo, specie in contesti locali caratterizzati da particolare degrado.”
Questi testi illustrano non solo l'equivalenza di tutto ciò che turba l'ordine agli occhi dei cittadini — “turbative finanziarie”, “criminalità organizzata”, “tensioni sociali”, “eversione ideologica”, “degrado”, ol-
tre che l’inevitabile “integralismo islamico” — ma l’assunzione dell’equivalenza da parte del sistema politico. È del tutto naturale che i servizi di sicurezza esagerino la portata dell’immigrazione clandestina, si inventino un pericolo terrorista di cui non si conoscono tracce consi-
stenti e alimentino l’allarme sugli stranieri. È evidente che in questo modo essi giustificano in fondo la propria esistenza, da quando anche l’Italia ha perso il proprio nemico esterno con la fine del socialismo reale. Più interessante è semmai il fatto che anche un governo di centrosinistra si allinei a quelli precedenti nell’accettare questa versione fantasiosa della realtà. E ancora più degno di nota è il capovolgimento della relazione tra cause ed effetti, che si esprime nell’attribuire le “reazioni xenofobe” all'immigrazione clandestina, come se la xenofobia fosse la conseguenza di una minaccia (mai dimostrata), e non invece uno stile pubblico di definizione della realtà che, come vedremo subito, è condiviso da gran parte del ceto politico, degli intellettuali e degli opinion-makers.”
Sinistra, destra e immigrazione Tra i primi anni novanta, quando iniziano (come a Genova nel 1993)? le mobilitazioni urbane contro gli immigrati, e l’estate 1997, quando l’Italia decide di rimpatriare i clandestini albanesi, il “panico immigrazione” sommerge l’opinione pubblica italiana. Per la prima volta, do-
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po gli anni della lotta al terrorismo, numerosi opiion-makers ed esponenti politici scendono in campo per difendere la società e le sue istituzioni da una minaccia collettiva, questa volta esterna. L'elemento originale di questa mobilitazione contro gli stranieri è costituito dal suo carattere consensuale, unanimistico,
“democratico”.
Non
sono
stati solo i partiti di destra, come la Lega nord, Forza Italia e Alleanza nazionale, a fare della lotta contro la delinquenza degli stranieri un cavallo di battaglia elettorale, ma anche ampi settori della sinistra democratica. L'epoca in cui questa svolgeva una funzione mediatrice (e se vogliamo, pedagogica) tra i gruppi sociali sembra definitivamente tramontata. Che qui sia in gioco un problema in fondo politico viene ribadito esplicitamente, nella forma di domande retoriche alla sinistra,
da un editoriale di Ernesto Galli della Loggia all’epoca di una delle ricorrenti “emergenze immigrazione”: [...] La sinistra si gioca, su questo problema, la sua rappresentatività sociale (peraltro anche per la chiesa quest’aspetto ha un rilievo non indifferente). Infatti, sono gli strati più deboli della popolazione — il piccolo ceto medio urbano, gli anziani, le donne, i lavoratori dei settori più deboli, le
fasce precarie metropolitane — i settori che risentono in modo più negativo e diretto di un afflusso indiscriminato di extracomunitari, e dei relativi fenomeni di violenza, illegalità, di insicurezza, che a tali flussi si accompa-
gnano [...]. Ebbene, la sinistra vuole ancora rappresentare le fasce più deboli della società? Le rappresenta ancora?”
Che non sia dimostrabile e documentabile una relazione tra “flussi” di immigrati e “relativi fenomeni di violenza” non ha alcuna importanza. Nel momento in cui l’opinione pubblica che conta stabilisce come ovvia (di “senso comune”, ammette Galli della Loggia nello stesso articolo) l’esistenza di tale relazione, la sinistra la fa propria. Se la microcriminalità è la preoccupazione dell’uomo della strada, e immigrati e zingari sono considerati dall'opinione pubblica i principali responsabili, ecco che la sinistra, in nome dell’uomo comune e cioè dell’elettore, esigerà di risolvere la questione buttando a mare i “criminali” e i
“clandestini”. Si tratta dunque di un calcolo più o meno consapevolmente politico, anzi elettorale, che forse ha contribuito a far vincere alla coalizione di centrosinistra qualche elezione locale, ma che almeno in un caso, l'alleanza con la Lega nord, si è dimostrato errato. Ecco co-
me il massimo leader della sinistra italiana giustificava, nell’autunno 1995, il voto favorevole del Pds al decreto Dini sull’immigrazione: V. Parlato: “E poi è inammissibile che il reato di un extracomunitario 124
comporti conseguenze più gravi del reato di un indigeno. Lo stato di diritto va a farsi benedire e proprio in un paese come l’Italia, storicamente di emigrazione [...]. Poi mi devi spiegare cosa c'entra la sinistra con la Lega.” M. D'Alema: “La Lega c'entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia: tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola [...]. Nelle elezioni amministrative i ballottaggi hanno confermato la grandissima disponibilità degli elettori della Lega a votare i nostri candidati e dei nostri elettori a votare per la Lega.””
Non mi interessa discutere qui il valore di una tattica politica, ma rilevare come questa abbia delle conseguenze perverse in termini di ricadute sociali e culturali, perché comporta una legittimazione indiretta delle campagne politico-ideologiche della Lega. Indipendentemente dal suo ruolo di avanguardia politico-morale nella crisi che ha portato alla fine della Prima repubblica in Italia, la Lega nord ha svolto una funzione decisiva nelle mobilitazioni urbane contro gli stranieri, promuovendole quando ne era capace e assumendone sempre la paternità politica. Esponenti, deputati o senatori della Lega si sono segnalati per le loro dichiarazioni razziste o per l’ossessiva richiesta di “schedare”, “espellere” o “controllare” gli immigrati. Ma soprattutto la Lega, insieme ai movimenti che si collocano sulla sua scia, ha con-
dotto in questi anni una campagna capillare di propaganda xenofoba che non è certamente priva di efficacia, anche se i suoi contenuti sono spesso grotteschi. Ecco alcuni passi significativi di un opuscolo diffuso nella primavera 1997 da questa “costola del movimento operaio”. Cercheremo ora di esaminare “l’invasione” nel suo insieme e di scoprire la strategia che la promuove e la sostiene. In genere le invasioni di un popolo nel territorio di un altro sono violente e non avvengonoin maniera spontanea, quasi per caso: esse hanno bisogno di generali, di politici e di grosse risorse finanziarie da parte di paesi stranieri interessati alla conquista. La nostra invasione ha invece caratteristiche stranissime: al momento “non è violenta”, però possiede i suoi strateghi nostrani, e non stranieri, e le immense risorse finanziarie necessarie. Gli strateghi, pensate un po’, sono i nostri politici mafiosi, i nostri alti prelati del clero deviato; le ingenti risorse finanziarie sono elargite dai nostri governi, che le sottraggono a noi cittadini [...]. L'obiettivo finale di questa invasione non è la conquista di un territorio, ma lo stravolgimento di una società, che con impegno e sacrifici si protendeva verso la liberazione dai bisogni, sorretta da una cultura laico-liberale-cristiana millenaria, al fine di trasformarla in una società multirazziale, povera ma-
terialmente e spiritualmente, attraversata da odi, tensioni e lacerazioni pro125
pri del Terzo mondo, sempre più vicina all’islamismo e sempre più lontana dal cristianesimo. [...] Il massimo per questi strateghi sarebbe poter trasformare così tutta l'Europa [...]. Le cellule del Pci-Pds impartiscono i primi rudimenti della dottrina marxista; selezionano leader politici per il futuro; sensibilizzano politicamente gli extracomunitari onde favorirne l'eventuale voto comunista. Tale azione di sensibilizzazione viene esercitata specie sui mussulmani più restii alla comunistizzazione dei colleghi cattolici e ortodossi.”
L'ironia su posizioni di questo tipo, che nella retorica e nell’iconografia riprendono i miti dei complotti giudaici contro la “civiltà cristiana” e si spingono fino un’esplicita richiesta di eliminazione degli “albanesi” in quanto tali (figura n. 21), sarebbe fuori luogo. Essi mostrano che una certa sottocultura razzista e antisemita — sul cui ruolo nella recente storia italiana si tende a sorvolare, soprattutto per la volontà di rivalutare nel fascismo una delle componenti del nostro retaggio nazionale — sopravvive, riadattandosi al nuovo nazionalismo padano. L'illustrazione riprodotta nella figura 20 riprende quasi letteralmente slogan pubblicati nella rivista fascista “La difesa della razza”.®? Ma, se è possibile, c'è di peggio. La stessa retorica dell’opuscolo del Sal e l’uso del termine “strategia” (vedi fig. 20) rimandano a un celebre documento apocrifo, che da circa un secolo è utilizzato come “prova” di complotti ebraici contro la società occidentale, I protocolli deî savi dî Sion. Lascio giudicare al lettore se la citazione seguente, tratta da questo celebre falso non mostri una certa aria di famiglia con l'opuscolo del Sal che, lo ripeto, è materiale ufficiale di propaganda della Lega nord: Il fine giustifica i mezzi Nel formulare i nostri piani, dobbiamo fare attenzione non tanto a ciò che è buono o morale, quanto a ciò che è necessario o vantaggioso [....]. Abbiamo davanti un piano dove è tracciata una linea strategica da cui non dobbiamo deviare, altrimenti distruggeremmo il lavoro di secoli [....]. Dobbiamo dare all'educazione di tutta la società cristiana un indirizzo tale che le cadano le braccia per disperazione in tutti i casi nei quali un'impresa domandi un'iniziativa individuale [...]. Con questi mezzi opprimeremo i cristiani a un tale punto che li obbligheremo a chiederci di governarli internazionalmente. Quando raggiungeremo una simile posizione, potremo assorbire tutti î poteri governativi del mondo e formare un supergoverno universale; al posto dei governi ora esistenti, metteremo un colosso che si chiamerà “Amministrazione del Supergoverno”. Le sue mani si allungheranno come immense tenaglie e disporrà dî una
126
FIGURA 20e21
20) Invasioni e complotti 21) Manifesto elettorale della Lega nord
L'INVASIONE EXTRA COMUNITARIA OBIETTIVI E
STRATEGIA
UNVOTOINPIC ALLA LEGA
IANUMSIELANNOIE 127
tale organizzazione che otterrà certamente la completa sottomissione di tutti i paesi.”
I documenti xenofobi della Lega vengono diffusi in modo capillare nelle città più sensibili all’“emergenza immigrazione”. Anche se di solito non comportano azioni consistenti, il loro valore simbolico è notevole. Insieme alle “ronde” contro “extracomunitari” e “ambulanti” e a iniziative clamorose immediatamente pubblicizzate dai media (come la “taglia” di un milione posta dal consiglio comunale di Acqui Terme sugli albanesi clandestini nel settembre 1997), esprimono il punto di vista estremo della società locale che si difende dalla minaccia o dall'invasione degli “extracomunitari” che essa stessa ha costruito.” In realtà, come mostreremo nell’ultimo paragrafo di questo capitolo, i presupposti del panico da invasione sono ampiamente condivisi (al di là della diversa capacità di espressione linguistica) non solo dalla destra, ma anche dagli intellettuali democratici e dalla stessa sinistra. Ciò ha fatto sì che settori di quest’ultima, quando non hanno di fatto sostenuto le campagne xenofobe, le abbiano rimosse o minimizzate. Nella sottovalutazione della xenofobia si manifesta probabilmente qualcosa di più della disponibilità a scambiare dei principi con dei voti: la tradizionale diffidenza dei partiti operai, o ex operai, nei confronti degli immigrati, una diffidenza che non si inasprisce solo quando la sinistra rivendica la tradizione nazionale e la sua inevitabile Rea/politik, ma che è condivisa anche da ambienti fino a ieri insospettabili di pregiudizio verso gli immigrati. Il passo che segue è tratto dall’opuscolo politico di un nuovo idolo della sinistra radicale: La Quarta guerra mondiale, con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino provoca lo spostamento di milioni di persone. I/ loro destino sarà di continuare a essere erranti, il loro incubo sulle spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni, una minaccia per la stabilità del lavoro, un nemico utile a nascondere la sagoma del padrone, e un pretesto per dare senso all’insensatezza razzista che il neoliberismo promuove. La figura 3 [un cerchio] [...] è #/ simzbolo dell'incubo errante della migrazione mondiale, è una giostra del terrore che gira per tutto il mondo.”
Non bisogna enfatizzare il significato di questo passo, più immaginoso che concettuale. Sarebbe opportuno però che anche i nuovi leader dei movimenti di liberazione approfondissero le contraddizioni sociali promosse dal neoliberismo. Le migrazioni non sono necessariamente un incubo o una “giostra del terrore”, e tanto meno i migranti 128
“rappresentano una minaccia per i lavoratori impiegati”. Al di là di questa retorica, emerge il fatto che la cultura politica rappresentata dal testo precedente non sembra capace di sciogliere la contraddizione tra la difesa delle culture locali contro la globalizzazione (o il neoliberismo) e l’esistenza di soggetti che, costretti ad abbandonare la propria cultura, oppure liberi migranti, costituiscono pur sempre dei lavoratori, dei proletari (o ancor meno, perché separati dai loro figli).? Questi nuovi esponenti della sinistra non riescono a stabilire un parallelo storico (ecco un altro caso di “microscopia”, questa volta storico-politica) tra gli attuali “erranti” e quelle popolazioni che, per secoli, furono espulse dalla terra e andarono a ingrossare le fila dei lavoratori salariati nella nascente società industriale, come pure delle classi pericolose criminalizzate da leggi che Marx definiva “sanguinarie”. Ma rileggiamo un passo di Marx che oggi viene rimosso: Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l'espropriazione violenta e a scatti [...] fossero assorbiti dalla manifattura con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D'altra parte, nemmeno quegli uomini lanciati all'improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così in massa in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo Quindicesimo e durante tutto il secolo Sedicesimo si
ha perciò in tutta l'Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti “volontari”, e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.
C'è in questo passo, come nell’intero capitolo del Capitale da cui è tratto (La cosiddetta accumulazione originaria), una capacità di analiz-
zare le relazioni tra trasformazioni economiche e condizioni giuridiche delle persone che oggi sembra perduta a sinistra. “I padri dell’attuale classe operaia furono puniti [...] per la trasformazione in vagabondi”, altro che migrazioni come “minaccia per la stabilità del lavoro”. Ovviamente, non intendo stabilire un parallelo storico tra la criminalizzazione dei contadini espulsi dalla terra all’inizio dell'era moderna e quella degli attuali lavoratori senza diritti. Piuttosto, mi interessa sottolineare come Marx evochi l’orrore del doppio disciplinamento del lavoro “libero” (la fabbrica e la forca),” che precorre in un certo senso 129
l’attuale coppia “lavoro in nero/repressione dei clandestini”, offrendoci una chiave per comprendere che cosa sia in gioco nel conflitto politico e culturale sull’“immigrazione”, e cioè la tenaglia che si chiude su chiunque cerchi di sfuggire, ieri come oggi, alle condizioni politiche e istituzionali del mercato del lavoro. Il migrante, che oggi attua una vera e propria secessione’ dal mercato del lavoro, diviene un potenziale criminale e oltretutto un essere stigmatizzato, a destra come a sinistra.
L'attuale adesione di qualche esponente della sinistra alle campagne contro i “clandestini” e gli “immigrati che delinquono” non ha nemmeno il pregio dell’originalità. Essa ricalca vicende già avvenute all’estero, e in particolare in Francia all’inizio degli anni ottanta, quando il
Pcf coprì di fatto delle iniziative “popolari” contro gli immigrati. Le parole che E. Balibar dedicò quindici anni fa alla svolta del Pcf in materia di immigrazione potrebbero valere per le mobilitazioni popolari che si succedono in Italia e per le coperture di cui godono a sinistra: È questa abdicazione, questo abbandono al razzismo e al populismo [...] che vengono repentinamente messi in piena luce dalle operazioni bulldozer, dalle “quote” amministrative destinate a imporre la “soglia di tolleranza” lì dove ne abbiamo il potere e dal rischio, assunto senza esitazione al-
cuna, di assimilare nell’opinione pubblica qualunque magrebino a un potenziale trafficante di droga! [...] Ed ecco che le amministrazioni comunali comuniste, o piuttosto alcune di esse [...] sono tentate di cercare una nuova base elettorale, sfruttando le paure e i pregiudizi che credono di non poter più combattere.”
Gli intellettuali scendono in campo In Italia, l'adesione della sinistra alla cultura della “legge e dell’ordine” non è recente ed è stata certamente rafforzata dalla popolarità della soluzione giudiziaria dei conflitti politici, iniziata alla fine degli anni settanta, all’epoca dell'emergenza terrorismo, e continuata con la cosiddetta “crisi morale della Prima repubblica”. È anche vero però che l’esigenza di fare i conti con chi “infrange le regole” (indipendentemente dal fatto che si tratti di grandi corrotti oppure ladruncoli)?* sembra dominante nell’opinione pubblica contemporanea, compresa quella che si vorrebbe “democratica”. L'epoca in cui gli intellettuali, di sinistra o democratici, erano capaci di riflettere sulla devianza come fenomeno sociale e non semplicemente criminale è tramontata. Come esempio di 130
questa tendenza, molto diffusa tra gli intellettuali che hanno riscoperto il fascino di una cultura liberale delle regole, “severe ma giuste”, si può citare un articolo di uno scrittore, che commenta la morte di Tarzan Suljic, il bambino zingaro ucciso qualche anno fa in una caserma dei carabinieri: Tarzan [...] era un professionista di furti negli appartamenti, il migliore di tutto il clan, e aveva dunque una quotazione alta [...]; se posso esprimere la mia opinione, nella quale vorrei che si sentisse la pietà che ci metto, Tarzan è morto perché la sua quotazione era troppo alta: a quel prezzo doveva rendere molto ogni giorno e non farsi prendere mai. Colto sul fatto, dentro un appartamento, e portato in caserma, lottava con tutti giorno e notte, e finì con un colpo di pistola in testa. Non saprezzo mai se qualcuno gli ha sparato apposta, ma il bambino era stato praticamente condannato a morte dai suoi parenti, che lo avevano chiuso in questa morsa: rubare sempre, e scappare sempre per continuare a rubare.”
Probabilmente, nessuno saprà mai se gli hanno sparato apposta c no. Ma è fuori discussione che in una società civile, in cui esiste una
vera cultura giuridica, la responsabilità per la morte di un bambino entrato vv0 (anche se presunto colpevole di furto in appartamenti) in una caserma, sia precisamente di chi ha sparato il colpo, e non certa-
mente del “clan”. Qui non siamo di fronte solo a una retorica bigotta della giustizia, che diviene lacrimosa (per non dir peggio) quando viene evocato il funerale del bambino (“un pranzo tra le nenie, con i fa-
miliari seduti che si curvavano avanti e indietro” );' vediamo soprattutto all'opera un'etica non scritta eppure molto diffusa, che si può riassumere nel motto: “se la sono voluta loro”. Un’etica secondo cui, per riassumere, zingari, profughi, immigrati regolari o irregolari (ma anche ladri, tossicodipendenti e qualunque altro tipo di deviante), sono (come avrebbe detto Marx) esclusivamente responsabili della propria sorte, anche fatale. Questa etica, se vogliamo chiamarla così, reintroduce implicita-
mente la pena di morte, e non solo per chi ha commesso reati capitali, ma per chi semplicemente è fuori da un ordine che coincide ormai con l’immagine della società normale che si sono fatta autorità morali come quella citata. Così, se una barca di albanesi, illusi dal miraggio ita-
liano affonda davanti alle coste pugliesi, o degli “africani” annegano nel Tirreno (magari gettati a mare dall’equipaggio), “se la sono voluta loro”. Chi chiamasse in causa, per spiegare il contesto di queste morti, il pattugliamento da parte delle diverse forze di polizia delle nostre coste, l’elementare diritto umano di sfuggire all’inedia o di cercare una 131
vita migliore, e perfino il dovere d’asilo che spetta alle società cosiddette “civili” (per non parlare delle responsabilità dell'Occidente verso nazioni che si sono affrancate dal comunismo, illudendosi di partecipare alla grande festa degli uomini liberi), si sentirebbe accusare invariabilmente di vacuo solidarismo o di “ideologia”. Questa morale del “se la sono voluta loro”, in cui riecheggia la filosofia forcaiola delle classi dominanti al tempo di Dickens, regna oggi in Occidente, almeno dalla svolta neoliberista inaugurata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher; si esercita contro ogni tipo di marginale, perdente, outsider interno o esterno, ma ha di mira soprattutto stranieri e migranti,
in quanto essi sintetizzano chiunque sia “fuori” e pretende di “entrare”. Si tratta di una morale che, ovviamente, si appella al “buon senso” e al “realismo”, ma non disdegna, quando è il caso, uno humour discutibile: per esempio, Alberto Arbasino, commentando favorevolmente la proposta di dotare gli immigrati di tesserino magnetico, osserva: E il termine “schedatura” può fare impressione solo a chi non è già abbondantemente schedato con codice fiscale, partita Iva, patente automobilistica, porto d’armi e quant'altro. E le “tessere magnetiche” possono apparire liberticide, quando vengono volentieri ostentate ad apertura di portafoglio, e utilizzate senza imbarazzo nel Bancomat?*
Mettere sullo stesso piano una tessera di riconoscimento imposta,
un collare elettronico e una carta di credito (per non parlare del porto d’armi), fa fino, evidentemente, per questo censore del cattivo gusto nazionale e campione della “pulizia estetica”. Ma gli articoli di Arbasino, che pure non perde occasione di parlare degli immigrati come delinquenti (e di chi è contrario alla loro espulsione come tipici abitanti del “pollaio Italia”), sono ben poca cosa se paragonati alle invettive che un altro scrittore, Guido Ceronetti (ritualmente salutato negli inserti culturali dei quotidiani come un fiero avversario dei “luoghi comuni”) ha profuso sulla prima pagina di un autorevole quotidiano nazionale: Mi spieghi Lei, gentile avvocato, o Lei, stimato Pm, perché sia tuttora ritenuto punibile l’accoltellare, il rubare, lo sparpagliare cadaveri prodotti artigianalmente se a fare questo siano i nostri migliori connazionali, mentre l’azione penale, la perseguibilità del reato, eccetera, per quanto blandi e tardivi, si perdono in una nebbiolina che consente il salvataggio dei colpevoli, con scarcerazioni facili ed espulsioni di pura carta, quando si tratta di albanesi, di zingari, di magrebini? [...] Resta tuttavia una macchina preventiva-repressiva che gira a vuoto, sem-
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pre più a vuoto e fiaccamente, quando si tratta di stranieri indesiderabili: e questi non sono tonti, lo sarebbero se non ne approfittassero [....]. Sarebbe già un sollievo sentire i tutori impotenti definire l'immigrazione selvaggia, specie nei suoi aspetti criminali, una calamità sociale, un’alluvione [...]. No, quella, quella proprio è una calamità sociale: quegli arrivi senza partenza di spostati e di fanatici, di predatori e di donne vendute, che alzano muri e forzano porte [...].!
Queste giaculatorie potrebbero essere attribuite dai lettori benevoli all’ipocondria di un intellettuale ignaro della realtà urbana, e quindi considerate inoffensive. Tuttavia, sono pubblicate con un ritmo martellante dalla grande stampa nazionale e quindi, dato il prestigio pubblico degli autori, formano letteralmente l'opinione dominante in tema di immigrazione, criminalità e disagio urbano. Lettere a “la Repubblica”, a “La Stampa”, al “Corriere della sera” e a “l’Unità” che riprendono pressoché letteralmente gli sfoghi di Arbasino, Ceronetti e tanti altri sono pubblicate quotidianamente. I redattori delle radio di sinistra sono esterrefatti perché anche i loro ascoltatori mostrano di condividere quella che appare come una vera e propria paranoia di massa. Ecco una delle lettere in questione, tanto più significativa sia perché segue di pochi giorni l'affondamento di una nave albanese (fatto che in qualche modo ha chiamato in causa la xenofobia degli italiani), sia per la risposta favorevole che ha incontrato in un’autorevole giornalista, che cura su “la Repubblica” una rubrica di posta dei lettori: GENTE IMPAURITA ACCUSATA DI RAZZISMO
[...] Alla richiesta di regole si risponde con convegni contro il “razzismo”. Ma quale razzismo! Sono legittime manifestazioni di disagio, di paura, difficoltà nel dividere pane, lavoro, casa con i nuovi disperati. La legge Gozzini permette a quantità di assassini, ex terroristi di essere liberi. Cosa ac-
cadrà quando, come è facile prevedere, salvo per chi deve, la massa di disperati armati darà inizio a rapine, morti per guerre tra bande, come già avviene a Torino, non solo a S. Salvario? Faremo le novene nelle sedi della Caritas? L’85% dei crimini resta impunito. Si accusano di razzismo poveri Cristi impauriti. In realtà se la malafede non facesse velo, si dovrebbe capire che sono molto più grandi gli interessi di Vaticano, verdi, sinistra, Internazionale mussulmana dotata di grandi mezzi economici, paesi che hanno tutto l’interesse a scaricare su altri masse affamate e indisciplinate. Francia, Germania, Inghilterra hanno avuto grandi colonie, eppure chiudono le frontiere. L'Italia, abituata a risolvere i problemi annegandoli in
un oceano di chiacchiere, lascia ai poveretti, Manconi, Bertinotti o Caritas a decidere del futuro nostro, dei nostri figli verso i quali, invece di dare
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istruzione e lavoro, si pratica il lavaggio del cervello con solidarismo e antirazzismo virtuali. Franco Resta, Torino RISPONDE BARBARA PALOMBELLI
Continuiamo a parlare dell'invasione dei popoli disperati. Questa lettera — così sincera e così dura — è scritta a nome dei “poveri Cristi impauriti [...]”. Anche loro — gli scippati, i derubati, gli assaliti dai nuovi barbari di tutti i colori e di tutte le razze — sono vittime. I cittadini italiani soffrono — è vero — della mancanza di regole: osservano i viali delle città regalati ai racket della prostituzione, gli incroci affidati ai sempre più prepotenti lavavetri, i parchi senza controlli [...]. E hanno giustamente paura. Non è una questione di odio razziale: è una questione di sicurezza per tutti, anche per gli immigrati onesti che sono la maggioranza. La paura di Franco Resta è condivisa anche da tanta brava gente che, in cuor suo, sente di non essere razzista.”
Ciò che qui impressiona non è tanto la lettera, quanto la reazione favorevole a una percezione ossessiva e persecutoria della realtà (si noti nella lettera il riferimento a “quantità di terroristi assassini in libertà”, grazie alla legge Gozzini, oppure agli “interessi” del Vaticano, della sinistra e dell’“Internazionale mussulmana” ovviamente “dotata di grandi mezzi economici” [...]). Questo non è solo un esempio di legittimazione giornalistica della paranoia crescente dell’opinione pubblica, ma appare come la vera e propria linea politica adottata da una parte rilevante dei mezzi di informazione di massa. Pochi giorni dopo la pubblicazione del significativo scambio epistolare, un giornalista ancora più autorevole lo prende a modello di quella che dovrebbe essere la linea della “sinistra” su microcriminalità e immigrazione: Non finisce, invece, il logorroico dibattito sul presunto razzismo di milio-
ni di italiani. [...] La finta sinistra non capisce che l’Italia di oggi è un paese stressato da tanti guai, più uno, quello decisivo: la convinzione di vivere in uno stato incapace di garantire ai propri cittadini la sicurezza che viene
dalla repressione dell’illegalità. Martedì primo aprile lo spiegano con chiarezza un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere” e una lettera a “la Repubblica” di un signore di Torino, Franco Resta.*
Ora, ha poca importanza stabilire se siano i signori di Torino a determinare il punto di vista dei mezzi di informazione, o questi ultimi a utilizzare le lettere degli imprenditori morali di quartiere come giustificazioni di una campagna che mescola ragioni politiche e una percezione paranoica della realtà. Sta di fatto però che un presupposto pri-
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vo di fondamenti empirici (“l’invasione di stranieri delinquenti che minacciano cittadinanze esasperate nella crisi dello stato”) si rafforza progressivamente grazie a un meccanismo circolare alimentato da politici, cittadini e giornalisti (una vera e propria tautologia culturale della paura). In questo meccanismo i giornalisti agiscono come politici, i cittadini come imprenditori morali o politici, e questi ultimi come giornalisti. Si considerino, per esempio, gli ammonimenti che un alto funzionario dello stato di provenienza sindacale, oggi preposto alle politiche migratorie, elargisce alla sinistra: Il problema in sé è semplice: riconoscere chi, non essendo profugo, perseguitato e neppure sfollato di guerra, passando la frontiera senza permessi né documenti, infrange la legge. D'altra parte invocare squilibri demografici e povertà mondiali come cause di forza maggiore ogni qualvolta si cerca di mettere mano al problema dell’immigrazione clandestina, pur essendo questi dolorosi, oggettivi dati di fatto, rappresenta ormai solo un alibi e una forma di giustificazionismo ideologico per coprire inerzie e incapacità amministrative.
Invocare la definizione dell’ingresso clandestino come reato (ma quale, penale, amministrativo, politico?), ignorando a priori le condizioni, i “dolorosi, oggettivi dati di fatto”, che stanno alle spalle degli espatri, è certamente una soluzione semplice del problema. Al contrario, chiamare in causa quelle condizioni (e cioè i dati di fatto) è, tanto
per cambiare, un “alibi ideologico” (si noti come Bolaffi dica in modo appena più indiretto le stesse cose del lettore de “la Repubblica” citato sopra). E vero, d’altra parte, che il punto di vista di Bolaffi, diversamente da tante contorsioni progressiste, ha il merito di mettere le cose in chiaro: quello che succede al di là delle nostre frontiere non ci deve riguardare; creando il reato di “clandestinità”, si realizza quella inviolabilità delle frontiere, e quindi dello spazio nazionale, che è divenuta, anche in Italia, un cavallo di battaglia della sinistra democratica e in generale dell’opinione pubblica più influente.” Tutto questo sarebbe duro, ma a modo suo coerente se non cozzasse contro quel gran parlare di globalizzazione dell'economia, di libertà e flessibilità del lavoro eccetera, diffuso negli stessi ambienti che oggi chiedono misure draconiane contro chi non espatria in quanto “profugo, perseguitato o semplicemente sfollato di guerra”. Ma proviamo a
chiederci: qual è la differenza tra uno “sfollato di guerra” e uno “sfollato economico”, diciamo tra un bosniaco (o croato o serbo) che scappa dalla pulizia etnica, un algerino che abbandona il proprio villaggio
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terrorizzato dalle milizie integraliste o governative, e un albanese che scappa semplicemente dalla morte per fame? Chi non si ricorda dei boat people vietnamiti e dello sdegno internazionale che, per alcuni mesi, alla fine degli anni settanta, ne accompagnò la tragedia? Non è forse vero, allora, che l’unica colpa dei boat people albanesi o “magrebini” è quella di non scappare dal terrore politico ma dalla morte economica? D'altra parte, il carattere pregiudiziale (e quindi ideologico) dei discorsi alla Bolaffi sta nel fatto che esistono dei profughi che vengono respinti alle frontiere semplicemente perché scomodi, pur essendo a tutti gli effetti “profughi di guerra” (per esempio, i curdi). Mai una volta, per contro, che questi nuovi Catoni esibiscano dei dati sulle
dimensioni del cataclisma demografico che evocano minacciosamente nei loro interventi. “Naturalmente”, ancora una volta, il compito spetta ai solidaristi, ai cattolici, al volontariato e alle associazioni per la difesa dei diritti civili. “Diteci una buona volta quanti milioni ne volete!”, chiede severamente ai solidaristi Ernesto Galli Della Loggia” dalla prima pagina del “Corriere della sera”, come se il problema fosse “volerli”, e non rispondere invece in modo non emotivo a un problema strutturale dell'economia globale contemporanea, un problema che ci accompagnerà certamente nei prossimi decenni.
Per leggere delle opinioni equilibrate su tutto questo bisogna ricorrere a un vero liberale, che, tra l’altro, mostra di avere una sensibilità
sociale di gran lunga più avanzata di buona parte della sinistra italiana contemporanea, per non parlare del centro e della destra. In alcuni recenti interventi, Ralf Dahrendorf ha ricordato come la globalizzazione dell'economia, e in particolare l'apertura di nuovi mercati in Asia e America latina, permetta certamente l’arricchimento di una quota di popolazione, ma determini l’impoverimento di una quota molto più rilevante. D'altra parte, in queste nuove regioni, lo sviluppo delle imprese e della concorrenza non comporta affatto una democratizzazione sostanziale della società. L'autoritarismo dei governi malese, cinese, messicano o peruviano, a cui conservatori e liberisti estremi guardano con favore anche in Occidente, coniuga così economia di mercato e violazione dei diritti umani. In queste nuove condizioni, si può emigrare sia per puro e semplice bisogno ma anche per sfuggire alla repressione e alla guerra civile latente. Pensare che gli stati ricchi si isolino nelle loro fortezze, quindi, non solo è irrealistico, perché circuiti economici trascendono ormai i confini degli stati nazionali, ma viola esplicitamente i presupposti verbali delle democrazie occidentali. Non mi riferisco ai presupposti di cui parlano i filosofi, ma a quelli che sono stati formalmente incorporati nelle costituzioni democratiche dopo la 136
Seconda guerra mondiale. Dahrendorf non nasconde i problemi che la globalizzazione suscita negli strati più deboli delle società occidentali, ma ha il merito di definire senza giri di parole le reazioni di rigetto alla presenza di forza lavoro non nativa in Occidente: Molti di questi “veri svantaggiati” non sono solo economicamente emarginati; la loro esclusione ha anche altre ragioni: sono “estranei” per razza, nazionalità, religione o per qualsiasi altro segno distintivo sia stato scelto come scusante della discriminazione, della xenofobia e spesso della violenza. I gruppi sociali in declino, quel 40% della popolazione che negli ultimi dieci anni ha visto calare costantemente i propri redditi reali, sono il terreno di coltura in cui si sviluppano tali sentimenti. Le frontiere, anche quelle sociali, sono sempre particolarmente nette e visibili per coloro che sono più vicini a esse. La moda della “pulizia etnica”, lungi dall’operare solo nelle zone funestate dalla guerra come la Bosnia Erzegovina, minaccia di travolgerci tutti quanti.”
Note D. van Cauwealert, Sola andata, Bompiani, Milano 1997.
W. Veltroni, Now sarà la nostra Ustica, “Corriere della sera”, 3 aprile 1997. Si noti
che questa perorazione in favore della legalità e dei suoi vantaggi politici viene pronunciata tre giorni dopo l'affondamento della nave albanese nel canale d'Otranto. M. Weber, I/ Javoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1980.
4
J. Meyrowitz, in Oltre dl senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993, analizza il carattere virtuale della nuova
comunanza sociale. Il fatto che la comunanza sia virtuale (ognuno è esposto privatamente ai media e in particolare alla televisione) rende al tempo stesso molto este-
sa ma labile l’influenza dei media e di chi li controlla. Tutto il mondo è paese. Nelle città tedesche, considerate fino a poco tempo fa tra le più tranquille in Europa, da qualche anno si è attivato un analogo circolo vizioso tra insicurezza dei cittadini e amplificazione mediale. Cfr. O. Diederichs, Kyizzinalitàt und Kriminalitàtsfurcht, “Biirgerrechts und Polizei/Cilip 57”, 2, 1997. Sul simbolismo e la ritualità del potere cfr. D.I. Kertzer, Riti e simboli del potere,
Laterza, Roma-Bari 1989, un’opera molto stimolante sulla posta simbolica della politica, ma che deve essere integrata con le analisi delle cerimonie mediali di D. Dayan e E. Katz (Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna 1993) e di V. Turner sui “drammi sociali” (Da/ rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986; e Artropologia della performance, il Mulino, Bologna 1993). R. Boudon, GH effetti perversi dell’azione sociale, Feltrinelli, Milano 1981.
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8
R. Boudon, La logica del sociale, Mondadori, Milano 1979.
9
Su questo concetto vedi N. Luhmann, Potere e codice politico, Feltrinelli, Milano
1982. Il codice politico può essere definito come il sistema elementare binario che definisce le opzioni politiche. Uso qui il concetto di “codice” in senso più ampio, includendovi anche le retoriche di fondo capaci di creare consenso. 10 Si ricorderà che i funerali di Borsellino, a Palermo, furono l’occasione di una
straordinaria contestazione dei politici presenti da parte di numerosi agenti di polizia.
11 L. Violante, Apologia dell'ordine pubblico, “Micromega”, 4, 1995, pp. 124 sgg. di G. De Gennaro, Repressione democratica, “Micromega”, 5, 1996, p. 56. Corsivi miei. 13 L'equazione di microcriminalità e criminalità organizzata è del tutto fenomenica,
basata cioè su percezioni tipicamente /o/k, su un “si dice” cui non corrispondono mai dati precisi o elaborati. Essa costituisce la premessa dell’altra equazione secondo cui “l'immigrazione clandestina è organizzata dalla criminalità organizzata”, che a sua volta alimenta il pregiudizio secondo cui l'immigrazione è il frutto di qualche complotto criminale. Analisi in profondità mostrano invece che la criminalità organizzata è oggi parte integrante e normale del sistema economico mondiale. Cfr. V. Ruggiero, Econorzie sporche. L'economia criminale in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
14 Il fenomeno che stiamo discutendo è un caso ideale di sovrapposizione di discorso
pubblico e discorso quotidiano. A partire dalle mobilitazioni dell’autunno 1995 (in cui, come si è visto, erano attivi esponenti della sinistra locale), la sinistra al governo
ha fatto proprie le parole d’ordine della legalità e del controllo degli stranieri. Questo messaggio politico, insieme alla campagna della stampa, è dunque divenuto “definizione ufficiale della realtà” contribuendo, come sarebbe poi stato dimostrato dal problema dei profughi albanesi, a innescare reazioni sempre più ostili agli stranieri. Un buon modello di analisi della sovrapposizione di discorso pubblico e reazioni quotidiane nella “costruzione del problema sociale dell’illegalità” è costituito da T. Sasson, Crime Talk. How Citizens Construct a Social Problem, Aldine De Gruyter, New York 1995. 15 Così liberemo le città dall’incubo della paura, intervista di F. La Licata al ministro
Giorgio Napolitano, “La Stampa”, 22 febbraio 1997, p. 15. 16 Il “Pds di governo” scopre la repressione, “la Repubblica”, 23 marzo 1997, p. 8 (corsivo mio). 17 Ministero degli interni, Relazione al parlamento sull'attività delle forze di polizia e
sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica nel territorio nazionale, Roma 1985. Cfr. S. Palidda, Verso ilfascismo democratico?, cit. Le citazioni delle relazioni seme-
strali del governo al parlamento sui servizi di sicurezza sono tratte da questo testo. 18 I semestre 1988, p. 25. 19 In realtà la sopravvalutazione sistematica del numero degli immigrati in Italia da
parte del ministero degli interni è costante fin dai primi anni ottanta (nel 1984 venivano indicati 1.400.000 immigrati!). Per una critica di queste valutazioni, cfr., tra gli altri, M.I. Macioti e E. Pugliese, Gli immigrati in Italia, Laterza, Roma-Bari 1993 (seconda ed.).
138
20 Relazione Dini, secondo semestre 1995, p. 5. 21
Relazione Prodi, primo semestre 1996.
22 Esistono naturalmente delle eccezioni. Per una lettura problematica della relazione
tra criminalità, sicurezza e immigrazione, cfr. M. Pavarini, Introduzione, in I problemi della sicurezza in Emilia-Romagna. Secondo rapporto annuale 1996, “Quaderni di città sicure”, Regione Emilia Romagna, 1996, pp. 5-19. 23
In realtà, il primo episodio di mobilitazione anti immigrati si registra a Firenze nel 1988, quando gruppi di giovani locali danno la caccia agli immigrati nelle strade del centro. In precedenza una rivolta di commercianti aveva portato all’espulsione degli ambulanti stranieri dalla zona del Ponte Vecchio.
24 E. Galli della Loggia, Chi non vede gli immigrati, “Corriere della sera”, 18 settembre 1995.
25
Intervista di V. Parlato a M. D'Alema, “il manifesto”,31 ottobre 1995. Ma si veda anche, per una sostanziale conferma di queste posizioni, M. D'Alema, La questione settentrionale, in La sinistra nell'Italia che cambia, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 75 sgg.
26 Saranno necessari quasi due anni perché lo stesso leader, davanti al secessionismo esplicito della Lega, parli, anche se con una certa riluttanza, del “razzismo” leghista. Un razzismo che evidentemente non meritava di essere rilevato in precedenza, quando riguardava non tanto il sistema politico romano, ma marocchini e albanesi.
C'è da dire comunque che la sottovalutazione del razzismo della Lega è diffusa anche tra gli osservatori scientifici o neutrali del fenomeno leghista. Tra le eccezioni, cfr. A. Burgio, L'invenzione delle razze, manifestolibri, Roma 1998.
27
Sal [Sindacato autonomista ligure], L'invasione extracomunitaria e la sua strategia,
28
Nell’opuscolo citato gli “ebrei”, insieme ai “mussulmani” e ai “bolscevichi” sono responsabili del complotto contro il popolo del Nord.
opuscolo composto e diffuso in proprio, Genova, aprile 1997, pp. 5 sgg.
29 Cfr. Centro Furio Jesi, La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista, cit., passim. 30 Le citazioni sono tratte da I protocolli dei savi di Sion, pubblicati in appendice a S.
Romano, I falsi protocolli. Il “complotto ebraico” dalla Russia di Nicola Il a oggi, Corbaccio, Milano 1992. I protocolli, apocrifo fabbricato dalla polizia zarista all’inizio di questo secolo, hanno costituto parte integrante della propaganda nazista, fascista e antisemita. 31
Il carattere apertamente irrazionale di questi processi non ha alcunché di sorprendente. Nel suo fondamentale saggio sullo sterminio degli ebrei, R. Hilberg ha mostrato come irrazionalità culturale e razionalità organizzativa possano coesistere (R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995). Un confronto storico tra la persecuzione e lo sterminio degli ebrei e le politiche di esclusione degli stranieri poveri attuate oggi dal Nord ricco del mondo è ovviamente improponibile. Resta tuttavia il fatto che le retoriche nazionaliste che un secolo fa venivano usate contro gli ebrei trovano un parallelo impressionante nelle attuali campagne contro i “clandestini”, gli “immigrati delinquenti” eccetera. D'altra parte, come ha mostrato Bauman in un importante lavoro (Z. Bauman, Modernità e olocausto, il Mulino, Bologna 1994), lo sterminio degli ebrei non sarebbe stato possibile senza la collaborazione di strutture “razionali” e tipicamente moderne come l’industria,
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la scienza organizzata e la pubblica amministrazione tedesche. Pensare che la nostra epoca ipermoderna sia protetta dall’odio razzista e dalla xenofobia mi sembra una pericolosa illusione. 52 Subcomandante Marcos, La quarta guerra mondiale è cominciata, Le Monde Diplomatique-il manifesto, Roma, 1997, p. 29.
33 Il caso citato non è isolato. Nella prefazione a un saggio sulla resistenza operata contro il nazismo, S. Bologna, dopo aver criticato l'eccessiva enfasi posta a sinistra sulla questione “extracomunitari”, definisce la “xenofobia operaia” come una for-
ma di protesta contro la perdita di “civiltà” della condizione operaia, causata anche dall’immigrazione. Cfr. S. Bologna, Prefazione alla seconda edizione, in Nazismo e classe operata 1933-1993, manifestolibri, Roma 1996, pp. 49-50. 34 K. Marx, I/ capitale. Critica dell'economia politica, Einaudi, Torino 1975, Libro primo, p. 903.
35 In ogni epoca chi tenta di sottrarsi al doppio disciplinamento non solo va represso
ma diventa, come nota Marx, un criminale. In un bel saggio, M. Rediker (Sulle tracce dei pirati, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1995) rilegge in tal senso la storia dei pirati del Diciassettesimo secolo. In una prospettiva analoga, ctr. P. Linebaugh, The London Hanged. Crime and Civil Society in the Eighteenth Century, Penguin, London 1991.
36 Y. Moulier-Boutang, Le salariat bridé, Origines de la politique migratotre, constitution du salariat et contròle de la mobilité du travail, Thèse de Doctorat d’Université, Fnsp-Iep, Paris 1997, di prossima pubblicazione presso le Presses Universitaires de France. Sulla migrazione come secessione, cfr. S. Mezzadra, La comunità dei nenzici, “aut aut”, 275, 1996.
3
E. Balibar, Da Charonne a Vitry, in Le frontiere della democrazia, manifestolibri,
Roma 1993, p.31 e 33. L'articolo originale, pubblicato in “Le nouvel observateur” n. 852 del 9 marzo 1981, costò all’autore l'immediata espulsione dal Partito comunista francese. 38 Anatole France ha detto da qualche parte che la giustizia penale è quel sistema che
punisce imparzialmente il ricco e il povero per il furto di una mela. 39 E Camon, Veneto, La violenza è di casa, “La Stampa”, 4 settembre 1995, p. 9 (corsi-
vo mio). Si noti che l'articolo in questione appare nella stessa pagina in cui è riportata la notizia del ferimento di due carabinieri da parte di nomadi (come se tra i due episodi esistesse qualche nesso).
40 Camon, loc. ult. cit. 41 Si tratta di una vera e propria etica (al di là del suo carattere discutibile o talvolta repellente), in quanto cerca di argomentare soprattutto le “responsabilità ultime”. Nei suoi studi di antropologia cognitiva, Mary Douglas ha mostrato come le retoriche del “rischio” e della contaminazione culturale (ampiamente usate nelle polemiche a senso unico sull’immigrazione) abbiano uno stretto rapporto con i dilemmi strategici della società occidentale contemporanea (cfr. M. Douglas, Rischio e colpa, cit.).
42
140
Il 1 dicembre 1995 quindici albanesi, che cercano di raggiungere l’Italia su un gommone, annegano al largo della Puglia. Nessuno mette in relazione questo fatto con il pattugliamento delle coste da parte dell’esercito italiano. Invece, commen-
tando questo episodio, un deputato progressista suggerisce di “rendere più strin-
genti le norme sull’obbligo di firma [per i clandestini in attesa di espulsione] e aggiunge di non essere contrario a norme sull'obbligo di dimora” (Boat people, un traffico inarrestabile, “la Repubblica”, 2 dicembre 1995, p. 5).
43
Si vedano su questo punto le osservazioni di G. Vidal, La fine dell'impero americano, Editori Riuniti, Roma 1992; e B. Ehrenreich, The Worst Years ofour Lives. Irreverent Notes from a Decade of Greed, Harper & Row, New York 1990.
44
A. Arbasino, Immigrati, una nuova commedia, “la Repubblica”, 24 settembre 1995,
p. 16. Qualche anno fa Arbasino si riferiva alle culture dei migranti come “nomadiche e parassitarie”. Passeranno degli anni prima che altri intellettuali prendano pubblicamente le distanze da questo campione del moralismo estetizzante. Cfr. l'articolo, peraltro cautissimo, di A. Tabucchi, Intellettuali copritevi, ora piovono pietre, “Corriere della sera”, 1 aprile 1997, p. 6.
45 46 47 48
G. Ceronetti, L'invasione che nessuno vuol capire, “La Stampa”, 14 ottobre 1996. Choc a a Radio Popolare, emittente della sinistra doc. “Microfono aperto”: in onda l'intolleranza, “Corriere della sera”, 1 aprile 1997, p.5. “la Repubblica”, 1 aprile 1997, p. 10. G. Pansa, Ma sì, guardiamo Televalona, “L'Espresso”, 10 aprile 1997, p. 56. Va detto che “L'Espresso” ha pubblicato successivamente una lettera di protesta contro l'intervento di Pansa: “Non avrei mai pensato di potermi indignare per un articolo di Giampaolo Pansa. È accaduto leggendo il suo Bestiario su albanesi e sinistra. La prima ragione è che esso trasuda di quell’ipocrisia che si è ormai impadronita dell’intellighenzia di sinistra che prima manifestava a favore dei diseredati e che ora preferisce definirli mafiosi o, nella migliore delle ipotesi, nullafacenti, chiedendo controlli ed espulsioni. La sensazione è che quando si parla di immigrazione non c’è più alcuna differenza tra destra e sinistra” - Romeo Aureli, Roma (“L’Espresso”, 17 aprile 1997, p. 215). Sull’articolo di Galli della Loggia vedi qui sotto, nota 51.
49 G. Bolaffi, Diritto d’asilo all'italiana, “la Repubblica”, 8 ottobre 1995, p. 9. 50 C'è anche chi sostiene che la xenofobia degli italiani è un modo di reagire alla mancanza di spirito nazionale: cfr. E. Galli della Loggia, La razione che ci manca, “Cor-
riere della sera”, 1 aprile 1997, pp. le8. 51
E. Galli della Loggia, Chi ron vede gli immigrati, cit.
DZ
R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà
politica, cit., pp. 33-36.
141
Scienziati e immigrati Conosce le cose di cui parla, come un cieco i colori. (W. Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte)'
Scienza, opinione, immigrazione Contrariamente a una retorica diffusa nella nostra cultura, l’attività
scientifica è meno rigorosa e immacolata, dal punto di vista metodologico, di quanto si tenda a pensare.’ Solo per fare qualche esempio, le teorie non vengono necessariamente abbandonate quando non sono falsificabili, come pretende K. Popper, ma spesso perché, come avviene in ogni campo della vita sociale, si crea un movimento di opinione contrario, una tendenza che nessuno si prende la briga di motivare fino in fondo, e che tuttavia finisce per sotterrare ipotesi considerate au-
torevoli.' Inoltre, è abbastanza discutibile che il ragionamento scientifico sia sempre libero dai metodi deplorevoli del ragionamento comune (metafore, analogie e altre figure retoriche, ipotesi immotivate, spiegazioni circolari, autoreferenziali o ad hoc); anzi, molto spesso, il progresso scientifico si basa su veri e propri colpi di testa, sull'impiego 143
di concetti tratti da altri campi, metodi spuri e anche trucchi metodologici.” Si ritiene ormai che tutto questo non comporti alcun male, ma anzi che il vero sale della ricerca scientifica sia la creatività più che il legalismo scientista (e ciò vale sia per le scienze esatte o bard come per quelle parzialmente soft, tra cui le scienze sociali). AI di là della dimensione strettamente epistemologica, anche i costumi degli scienziati appaiono meno immacolati di quanto le opinioni affermate vorrebbero. Prescindendo anche dai veri propri plagi, dalle frodi, dalla tendenziosità e dagli odi personali che spesso sono alla base delle cosiddette “controversie scientifiche”, si ritiene che anche la
scienza non sia immune dagli “inconvenienti” di qualsiasi altro settore simbolico in cui operano gli esseri umani. Così, anche nella scienza, l’i-
deologia, gli interessi materiali, le passioni e i pregiudizi giocano un ruolo talvolta determinante, seppure quasi sempre dissimulato dal linguaggio neutrale o asettico degli scienziati.° In breve, la scienza non è quel mondo isolato e lunare la cui immagine viene tramandata dai legislatori della scienza e ripresa entusiasticamente dai divulgatori. Tra la scienza e il mondo della vita quotidiana non c’è soluzione di continuità ma un terreno condiviso, la comune so-
cialità di uomini della strada e scienziati, il fatto che essi vivono, parlano e lavorano nello stesso mondo sublunare. Scienza e mondo della vita quotidiana nelle sue innumerevoli dimensioni non sono distanti e in opposizione, ma intrecciati e sovrapposti. Le diverse sfere della ricerca scientifica sono molto più sensibili alle pressioni dei media, agli interessi economici e politici e perfino agli umori del pubblico di quanto un’asettica filosofia della scienza vorrebbe far credere.’ Tuttavia, si de-
ve notare che le ricerche sull’osmosi tra senso comune e scienza si sono occupate più dell’esposizione della scienza al mondo della vita che dell'influenza che quest’ultimo subisce da parte di alcune retoriche scientifiche; in altri termini, hanno studiato soprattutto i modi in cui il
ragionamento comune influenza la scienza, ma molto meno la capacità della scienza di orientare il ragionamento comune. Così, molto è stato scritto sulla persuasione, ovvero sugli strumenti retorici o stilistici (quando vengono utilizzati documenti scritti) in sé non scientifici, grazie ai quali gli scienziati convincono i colleghi ad adottare una teoria o un punto di vista scientifico; ma poco è stato scritto sul ruolo che il discorso scientifico ha nel formare l’opinione dei profani o di chi (come gli uomini politici) opera essenzialmente avendo di mira l’orizzonte cognitivo e comunicativo dei profani. Per sviluppare questo aspetto del rapporto tra scienza e mondo della vita, è necessario riflettere brevemente sull’osmosi tra scienza e 144
senso comune nelle sue varie articolazioni. Poiché l'oggetto della presente analisi è il discorso scientifico sull’immigrazione — un tema ampiamente condizionato, se non costituito, dai pregiudizi di senso comune che influenzano la comunicazione e la decisione — è necessario soffermarsi sulle relazioni tra scienza sociale, sistema politico e media.
Come è ampiamente noto, i sistemi politici non operano in base alla competenza scientifica, nel senso che a nessun uomo politico (sia investito di una funzione istituzionale, come un ministro, sia esponente
di partito) è richiesto un krow bow specifico. È vero che, grazie alle conoscenze acquisite nella sua specifica carriera, un magistrato può divenire ministro della giustizia, un commercialista o esperto finanziario ministro delle finanze, un economista ministro del bilancio, un
professore universitario ministro della pubblica istruzione. Ma sia in questi ministeri specializzati, sia soprattutto in quelli generali o politici (come gli esteri o gli interni) è del tutto legittimo e comunque accettato che si insedino ministri privi di competenze specifiche. Le funzioni di un ministro devono essere essenzialmente politiche, e in nessun caso un passato professionale garantisce la copertura delle numerose e varie competenze necessarie anche in un ministero specifico. La buro-
crazia ministeriale, gli uffici studi, consulenti e commissioni 44 hoc concorrono all’istruzione di dossier e pratiche su cui un ministro o un dirigente politico decide in base a considerazioni politiche. La natura stessa della decisione politica fa sì che l’expertise sia spesso richiesta per giustificare solo ex post scelte politiche, strategie di partito o provvedimenti legislativi. Ciò suscita l’irritazione degli esperti i quali, ignorando spesso il funzionamento pratico e quotidiano delle procedure politiche, esigono un ruolo più importante, chiedono di essere consultati stabilmente. Tuttavia, il fatto che agli esperti non venga riconosciuto un ruolo esplicito o ufficiale nelle decisioni e nelle procedure non significa che essi non esercitino un'influenza, talvolta decisiva anche se indiretta,
sui processi politici. Un epidemiologo, un professore di scienza delle finanze, un’analista della pubblica amministrazione o un esperto di sistemi elettorali potranno difficilmente essere ignorati se si tratta di varare delle misure per la lotta contro l'Aids, di modificare il modulo per la dichiarazione dei redditi, di razionalizzare l’organizzazione del lavoro delle poste o di mutare i meccanismi della rappresentanza politica. Ma anche al di fuori del ruolo degli esperti come consulenti e di specifiche vicende politiche (che possono promuovere gli esperti a ministri, come è spesso avvenuto in Italia con i cosiddetti “governi dei
145
tecnici”), gli esperti hanno a disposizione un formidabile strumento di influenza, i media.
Diversamente da altri paesi, come gli Stati Uniti, in Europa (e particolarmente in Italia), gli esperti utilizzano la carta stampata e da alcuni decenni la televisione (e la radio) per esporre proclami, punti di vista, riflessioni, proposte o invettive. Essi, a seconda delle loro compe-
tenze, reali o immaginarie, sostituiscono di fatto icommentatori politici negli articoli di fondo e i giornalisti specializzati nella formulazione dei problemi specifici. Molto spesso, come è ovvio, nessuno mette in dubbio o vaglia la loro competenza, che spesso è acquisita e riconosciuta in base a pubblicazioni di successo, al rango professionale, alla capacità di scrivere con chiarezza e anche alla visibilità ottenuta sul palcoscenico televisivo. La supposta competenza e la visibilità si rafforzano circolarmente fino al punto che certi nomi si impongono e vengono disputati da giornali e canali televisivi con ingaggi lussuosi. Il risultato (questa è una caratteristica tipicamente italiana) è che professori di scienza politica, filosofi e germanisti scrivono fondi di politica interna, docenti di estetica si occupano di calcio, sociologi di pubblicità, per non parlare di tutti quelli che espongono più o meno modestamente quello che sanno, insegnano o credono di sapere nell’ambito delle loro competenze specifiche. Un uomo politico non ha solitamente il tempo di leggere libri, ma deve necessariamente consultare un fascio giornaliero di quotidiani. Benché, probabilmente, i politici stimino poco gli esperti o i professori opinionisti, è fuori discussione che questi contribuiscano a creare lo sfondo cognitivo in cui operano i politici. Come si è visto nel secondo capitolo, a proposito di informazione e immigrazione, i media (e in particolare la stampa quotidiana e periodica) costituiscono lo sfondo cognitivo in cui si forma la cosiddetta “opinione pubblica”. Un dirigente di partito trae le proprie informazioni da diverse antenne (inchieste riservate, sondaggi commissionati ad agenzie specializzate, conferenze di quadri, rapporti di dirigenti periferici su “ciò che pensa la base”), ma è indubbio che a ogni livello il suo principale filtro cognitivo sia costituito dai media. Che questi si alimentino direttamente all'opinione espressa dai politici (interviste, dichiarazioni rilasciate alle agenzie, conferenze stampa), fa sì che i “fatti” e le opinioni sui fatti siano costruiti circolarmente in un processo di interazione tra opinione pubblica e sistema politico (nascono così, in questo processo tautologico, le “emergenze”, tra cui quella dell’immigrazione). Ritengo che i professori, gli esperti e gli intellettuali in generale, proprio per il ruolo che hanno acquisito nella formazione dell’opinione giochino un ruolo 146
importante, se non decisivo, in questa interazione. Essi insomma con-
tribuiscono in molti modi, grazie alla manifestazione dei loro punti di vista sulla stampa o nei mass media, a formare quell’opinione a cui il sistema politico attingerà nei processi decisionali. A questa influenza efficace delle idee allude incisivamente Keynes in una riflessione sulla funzione pubblica degli economisti: [...] Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si ritengono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti si esagera di molto, in confronto con l’affermazione pro-
gressiva delle idee.
La legittimazione (il “diritto” sostanzialmente riconosciuto) degli esperti nel dibattito pubblico dipende in primo luogo dalla loro “scienza”. E questo vale soprattutto per i settori strategici della vita pubblica come l'economia o la finanza. Nella nostra cultura numerica, pragmatica, orientata alla valutazione a breve e medio termine di ten-
denze quantitative, la pubblicazione o la diffusione di dati “scientifici” su qualsiasi aspetto della vita sociale e politica ha di per sé un enorme valore di persuasione, quando si tratta di questioni specifiche, fattuali. Una statistica, un indicatore economico o un sondaggio elettorale, per il solo fatto di essere formulati in un linguaggio tecnico, sono “attendibili”. In una società di mercato che dipende strettamente da variazioni percentuali (dell’inflazione, della disoccupazione, dei tassi d’interesse,
degli indici di borsa o del cambio con le valute estere), inumeri hanno un potere quasi magico di persuasione. E ciò quanto più la comunicazione contemporanea esige la trasmissione di informazioni rapide, aggiornate, al tempo stesso “oggettive” e non problematiche (un’esigenza che è soddisfatta molto più dal linguaggio numerico che da quello verbale, che esige una ricezione più complessa). Ma questo potere di persuasione esercitato dalla magia dei numeri (e non solo di questi) si estende inevitabilmente anche ai maghi, i quali sono legittimati (in quanto “autorevoli”) quando si occupano sia di issues “tecniche”, sia di quelle più generali, prospettiche, strategiche. In questo campo, i professori godono di specifica legittimità non solo in base alla loro “competenza”, ma all’autorevolezza del loro ruolo,
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indipendentemente dal fatto che la loro competenza sia esercitata o no, che essi si esprimano in quanto esperti o cittadini. Il prestigio del ruolo costituisce in altri termini un accesso privilegiato al dibattito pubblico. Così, un economista potrà intervenire autorevolmente sulla scelta politica di ridurre alcune prestazioni dello stato sociale, uno studioso di genetica sulla definizione pubblica della “razza”, un epidemiologo o esperto di Aids sui costumi sessuali dei giovani, un demografo sulla riduzione o sul controllo dei flussi migratori, e un filosofo su quasi tutto ciò che si discute pubblicamente. Ovviamente, la loro autorevolezza non viene intaccata dall’ovvia considerazione che in questi dibattiti essi travalicano la loro competenza specifica, stanno parlando d’“altro” e soprattutto facendo qualcosa d’“altro” (nel senso che non fanno scienza, ma opinione). Essi parlano in nome della scienza e quindi hanno il diritto di essere ascoltati. Che essi parlino “fuori dalla scienza”, ma restando a tutti gli effetti scienziati, significa che possono ricorrere ad argomentazioni extrascientifiche (quotidiane, ovvie, tipiche dell’uomo della strada) conti-
nuando a esercitare più o meno implicitamente la pretesa di esprimersi scientificamente. Come certi sociologi o psicologi che discettano instancabilmente d’amore, di affetti o di “giovani” da ogni tribuna, dicendo le stesse cose che noi profani ci raccontiamo a cena o al bar, ma sono consultati e ascoltati perché sociologi o psicologi, gli scienziati possono trasmettere argomenti ovvi o comunque non scientifici con la
sicurezza che le loro argomentazioni saranno autorevoli. In questo modo, offrono un formidabile contributo al rafforzamento dell’ov-
vietà, di ciò “che tutti sanno” e che tutti vedono confermato dai pareri autorevoli degli scienziati. Così l’ovvietà — che, come si è visto in precedenza, nasce dall’esigenza naturale di avere punti di vista pratici e non problematici sul mondo — finisce per dominare i dibattiti sulle questioni più spinose, delicate o controverse della vita sociale. Possiamo definire queste argomentazioni extrascientifiche, temprate al fuoco dell’autorevolezza scientifica, come “retoriche”, sistemi
pratici di pensiero in cui le opinioni quotidiane e non problematiche diventano in qualche modo verità autorevoli e inattaccabili.!° Con “retorica” non'intendo qui un concetto analogo a “menzogna” o “finzione” — come se esistesse una verità scientifica o oggettiva che i professo-
ri tradirebbero veicolando opinioni non scientifiche. Molto spesso, nella dimensione politica della vita sociale, non esiste una verità, ma ne esistono diverse, relative al rapporto che noi esseri umani istituiamo con valori, scelte, punti di vista, posizioni morali precostituite e che in
quanto tali non sono né vere né false.!! Già all’inizio di questo saggio, 148
ho sostenuto che il problema dell’immigrazione comporta valutazioni di fondo politiche e morali (relative a questioni come umanità, uguaglianza, diritti) che dipendono in ultima analisi da scelte di campo e dovrebbero essere oggetto di disputa politica. Non avanzo perciò la pretesa, nelle pagine che seguono, di smascherare le retoriche dell’immigrazione, ma semplicemente di mostrare come discorsi che si vogliono scientifici siano in realtà argomentazioni di senso comune che tradiscono, come ogni altra, scelte di campo e assunti più o meno trasparenti. A esse non contrappongo ur4 verità, ma la necessità di ripor-
tare il dibattito sull’immigrazione all’onestà della contrapposizione politica. Infine, non mi sembra decisivo che alcune di queste retoriche siano complesse e articolate, mentre altre sono rozze fino ad apparire come manifesti di pregiudizio razziale o culturale travestiti da dichiarazioni scientifiche. Mi sembra invece importante che siano autorevoli e finiscano per influenzare il dibattito politico, creando o rafforzando le opinioni correnti e le decisioni che gli uomini politici prendono in base alle opinioni correnti (o a quelle che ritengono tali). Tra tutte le questioni pubbliche, il “problema dell’immigrazione” suscita più facilmente di altri l'esercizio della retorica scientifica perché è gravido di implicazioni strategiche (che cosa siano la nazione o i diritti umani, per non parlare del “futuro della nostra società”), nonché di presupposti, preoccupazioni e orizzonti di senso comune che lo scienziato condivide in tutto o per tutto con l’uomo della strada — presupposti che vanno, in qualche caso, dal razzismo e dalla semplice fobia dello straniero fino a questioni come la “sicurezza delle nostre metropoli” o il timore di invasioni che proverrebbero dal Terzo mondo. Così il dibattito sull’immigrazione, cui gli scienziati partecipano al pari degli altri opirion-makers ci rivela che cosa si agiti nel fondo più o meno sconosciuto della nostra cultura. Ora, la mia tesi è semplicemente che gli scienziati alimentino (naturalmente, .non tutti) meglio di altri (cioè in modo più efficace) quel tipo particolare di senso comune che ho definito in precedenza (sulla scorta di A. Sayad) “pensiero di stato” e che ho cercato di rintracciare nell’opinione pubblica locale, nelle mobilitazioni urbane, nelle campagne politico-mediali e in alcune espressioni di letteratura quotidiana. Un pensiero di stato che si impernia sulla costruzione dell’altro (lo straniero, il migrante) come ne-
mico reale o potenziale, implicito o esplicito. Ciò che gli altri attori, influenti o no sulla scena pubblica, argomentano in termini di mero senso comune, gli scienziati, quando parlano di immigrazione, argomentano in modo più elaborato. Benché si muovano all’interno del senso comune o pensiero di stato, accettando149
ne premesse e retoriche tipiche, essi offrono posizioni più argomentate e autorevoli, contribuendo così a fare del pensiero di stato non il semplice travestimento di interessi materiali, politici o simbolici, ma una visione del mondo complessa e intricata (è chiaro che se “pensiero” di stato e senso comune fossero faccende lineari e trasparenti non sarebbe necessario studiarle, come cerco di fare in questo libro).
Retoriche dell'immigrazione Distinguerò le retoriche dell’immigrazione in base alla loro continuità con il senso comune, senza pretendere di citarle tutte e di descriverle in modo esauriente, scegliendo per ognuna di esse uno o due esempi rappresentativi di un certo stile retorico e soprattutto di opinioni dominanti o naturalmente correnti. Esaminerò quindi esempi di retoriche morali (in cui si discutono i diritti e i doveri degli immigrati), demografiche (in cui si dà conto dell’evoluzione quantitativa dei fenomeni migratori), culturali (in cui si discute la minaccia o comunque l’impatto degli immigrati nella nostra cultura) e altre ancora. Sottolineo che non considero gli esempi di retoriche come rappresentativi della scienza cui i diversi autori o professori appartengono. Essi sono invece
argomenti di senso comune che a/curz scienziati o esperti fanno propri e comunicano in base alla loro autorevolezza. Sottolineo inoltre che non sono animato da una particolare vena polemica, ma semplicemente dal desiderio di comprendere le operazioni più o meno nascoste e implicite che legittimano il senso comune. Per questo, mi limito a retoriche che esprimono posizioni di senso comune già incontrate in questo libro. E non mi occuperò inoltre delle retoriche estreme, cioè di quelle apertamente xenofobe. Per i motivi esposti alla fine del secondo capitolo, non credo che il razzismo ideologico (che pure spunta, più di quanto si pensi, nelle analisi “scientifiche”) sia il vero problema. Mi interessano molto di più le retoriche ragionevoli, perché sono quelle che lastricano di difficoltà e di equivoci il cammino dei migranti. E tuttavia, al pari delle cronache a tinte forti e degli strabismi politici o storici che abbiamo già incontrato, anche le retoriche scientifiche danno l’impressione che, quando si parla di immigrazione, sia possibile dire letteralmente tutto, imporre come oggettivi e scientifici sfoghi ipocondriaci o pregiudizi tout court. In breve, non ho nulla contro la scienza (intesa qui in senso molto allargato, fino a includere, come si farebbe in Germania, anche la filosofia), ma precisamente qualcosa contro il ce-
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dimento di alcuni scienziati o esperti alla pura e semplice opinione corrente. I veri discriminati siamo noi (occidentali). Per cominciare, ecco un
esempio di retorica che rappresenta la quintessenza del senso comune, di qua e di là dall’Atlantico, nella valle del Po come a Wall Street. La citazione che segue è tratta dal libro di un autorevole esperto di finanza. Fin dal titolo (Alien Nation. Common Sense about America's Immigration Disaster), l’autore dichiara di sposare la “prospettiva di senso comune”! degli americani in materia di immigrazione, e in particolare tutte le paure che i “cittadini” (ovviamente decisivi anche in quel continente) nutrono verso gli “alieni”. Anche se il libro è lussureggiante di tabelle e statistiche (con l’ovvio intento di dimostrare la prospettiva scientifica dell'autore), esso rafforza l'opinione, assai diffusa anche da noi, che parlare di discriminazione degli stranieri nasconda la “vera” discriminazione degli americani autentici, sommersi da “alieni” incapaci di parlare l’inglese, protetti da legislatori irresponsabili, e pronti a mettere le mani sul lavoro e sul futuro dei nostri figli. Mio figlio, Alexander, è bianco con occhi azzurri e capelli biondi. Non ha mai discriminato nessuno nella sua breve vita [...]. Ma le nuove politiche ora stanno discriminando lui. L'enorme dimensione delle cosiddette “classi protette”, ora politicamente favorite, come gli ispanici, sarà una questione di vitale importanza per tutta la sua vita. E quella dimensione è determinata fondamentalmente dalle immigrazioni."
Sarebbe inutile sottolineare che questo “senso comune” è assai opinabile, e che esistono intere biblioteche sul fatto che i “nuovi” americani sono sempre stati discriminati rispetto ai vecchi, e che i giovani bianchi godono di una posizione privilegiata (in termini di possibilità educative e occupazionali, per non parlare di probabilità di finire in carcere e di speranza di vita) rispetto ai loro coetanei appartenenti a
qualche minoranza (e soprattutto a quelli neri).'" Semmai è più divertente rilevare che posizioni simili vengono presentate come tipica espressione del pragmatismo americano, e soprattutto che P. Brime-
low voglia convincerci che il suo rampollo (figlio, dopotutto, di un influente analista finanziario) sarà discriminato dalle misure di protezione degli “ispanici”. Tanto più si se si considera che proprio da qualche anno alcuni stati (come la California) varano leggi contro l’assistenza e la scuola gratuita per gli immigrati.”
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Accettiamoli, ma solo se stanno sotto di noi. Questa posizione di
senso comune è diffusissima in varie forme tra gli “scienziati” che si occupano di migrazioni. Tuttavia, diversamente da quella precedente (che ama le tinte forti) si avvale di raffinate giustificazioni politiche e morali. Queste, in particolare, ci interessano perché, più di ogni altra,
conferiscono al senso comune l’alto compito di stabilire “diritti” e “doveri” degli immigrati. Prima di entrare nei dettagli, è indispensabile una precisazione sul concetto di “dovere” e sulla sua funzione. Per quanto sia ampiamente praticata da un paio di secoli, la filosofia morale basata sul dovere non ha necessariamente trovato un’applicazione nelle leggi che governano la società. Sia Kant, che considerava l’accettazione dell’imperativo categorico la massima espressione della libertà umana, sia Hegel, per cui lo stato “etico” era qualcosa di “divino in terra”, sono stati spesso ignorati nelle costituzioni, se non altro perché,
negli stati liberali, pochi volevano che l’etica o la divinità si impicciassero di questioni come il mercato o la libertà di commercio. Perfino un sociologo come Durkheim, che credeva in una società consensuale, li-
mitava la “coscienza collettiva” a un nocciolo di imperativi presenti in quasi tutte le società umane (“non uccidere”, “non praticare l’incesto”
e così via). E d’altra parte per chi viola questi precetti (insieme a numerosi altri) le società moderne non prevedono la dannazione eterna né maledizioni filosofiche, ma pene e prigioni. L'idea morale di “dovere” ha una capacità normativa controversa nella nostra cultura. Benché numerosi giuristi e filosofi politici cerchino di “ricostruire” in base a essa i fondamenti dello stato liberale, l’eti-
ca del dovere è applicabile solo se noi l’accettiamo liberamente.! Nel corso dei secoli, gli ordinamenti costituzionali e giuridici occidentali hanno ridotto il ruolo del “dovere” nella vita pubblica e privata. Ciò che la legge definisce talvolta “doveri” sono soprattutto vincoli legali, separati di fatto da un'idea morale o etica di dovere. Per esempio, i cittadini hanno il “dovere” di pagare le tasse, ma difficilmente l’evasore è considerato unanimemente un cittadino immorale (il diritto, che tiene conto dei mutamenti della cultura che chiameremmo morali, tende a
non prevedere più sanzioni penali, ma amministrative per gli evasori). Analogamente, un padre ha determinati obblighi legali nei confronti della consorte e dei figli (mantenimento, educazione) ma non ha alcun dovere di vestirli bene e tanto meno di amarli. La de-moralizzazione delle società occidentali, per quanto possa apparire sgradevole alle persone all’antica, ai credenti o ad alcuni filosofi, si conforma al principio tipicamente moderno per cui nessuno è tenuto a obbedire a norme che non siano quelle previste espressamente dalla legge. 152
Senonché, la progressiva tolleranza della nostra cultura in materia di morale viene immediatamente revocata non appena si passa dal “noi” implicito in ogni riflessione morale o etica al “loro”, ovvero quando l'etica incontra gli stranieri. Esistono naturalmente numerose prese di posizione filosofiche sugli stranieri o gli “ospiti”, in cui la nostra pretesa occidentale di regolamentarli, ridurli a immagini di comodo o stereotipi viene variamente criticata o negata, ma raramente, come conviene alla filosofia, queste riflessioni chiamano in causa i nostri rapporti con gli stranieri concreti, in carne e ossa, come migranti, pro-
fughi o rifugiati.” Nelle poche occasioni in cui ciò avviene, la tolleranza che la filosofia contemporanea esibisce spesso nei confronti degli stranieri lascia spazio a punti di vista molto meno liberali e disponibili. Qualche anno fa, nel corso di un dibattito sulla riduzione del diritto d’asilo in Germania, la filosofa Agnes Heller ha esposto dieci tesi
sull’immigrazione in cui si formulano i “doveri” cui gli immigrati e in generale gli stranieri devono attenersi per godere dei “diritti” nella società che li ospita." La prima di queste tesi fornisce i presupposti essenziali delle relazioni tra ospiti e ospitanti: Prima tesi. L'emigrazione è un diritto dell’uomo, l'immigrazione no. Con ciò si è solo riformulato in chiave giuridica e internazionale un antico ordinamento domestico (Hausordnung). Se qualcuno vuole lasciare la nostra casa, noi non possiamo impedirglielo con la violenza. Se qualcuno esprime il desiderio di rimanere nella nostra casa, decidono i componenti della casa (Haushalt) se egli possa rimanere o debba andarsene.
Questa tesi poggia sull’evidente analogia tra società e ordinamento domestico, che pur essendo largamente impiegata nel linguaggio giornalistico, politico e letterario (“La casa comune europea”), non ha al-
cun fondamento etico né giuridico. A sua volta, l’analogia sottintende che l’immigrato non sia un uomo cui si riconoscono dei “diritti” (come quello a emigrare, a lasciare la casa) ma un ospite cui si elargiscono dei benefici, ovvero, come si vedrà, un essere che oscilla tra il mero
nulla dello straniero e l’infante. Oltretutto, l'analogia si basa sull’equivalenza del tutto arbitraria tra sfera del diritto pubblico (e della vita collettiva), in cui ricade evidentemente l'immigrazione, e sfera del di-
ritto privato, in cui ricadono le relazioni familiari. Ora, questa revoca dell’“umanità” dell’immigrato in base a un’analogia tra oikos (o comunità domestica) e sfera pubblica si scontra non solo con il fondamento universalistico delle etiche occidentali (cui una filosofa morale dovrebbe essere tenuta), ma con il buon senso 153
(che è cosa assai diversa dal senso comune). Infatti, nessun immigrato bussa alla porta di casa nostra, ma semmai si presenta alle nostre frontiere per vivere nella nostra società. E si sa che in questa l’oikos non svolge oggi alcun ruolo, ammesso che il tipo ideale della “comunità domestica” abbia avuto dei riscontri empirici nel passato. Non voglio sostenere che Agnes Heller voglia deliberatamente de-umanizzare gli immigrati, ma semplicemente che la sua argomentazione contro il “diritto all'immigrazione” si basa su un’analogia fallace e scientificamente illegittima, da cui deriva implicitamente la de-umanizzazione degli immigrati.” È a partire da questa analogia (e da altre ancora più infelici), infatti, che nelle tesi di Heller l’immigrato viene sistematicamente dopo gli abitanti della casa, ovvero dopo i membri della società “ospitante”. Se sono “fuggitivi”, vengono accolti nella casa dopo i parenti (Seconda tesi). Anche se fossero “angeli”, di cui comunque ignoriamo “razza” e “cultura”, dovrebbero attenersi alla legge della “tenda di Abramo” (Terza tesî). Questo riferimento alla Bibbia è sconcertante. Infatti la “legge della tenda di Abramo” mette in luce proprio l’ospitalità di Abramo, in contrasto con la violenza e l’arbitrio dei cittadini di Sodo-
ma, e si riferisce al fatto che Abramo onora prima i suoi ospiti (egli rimane in piedi accanto all’albero “mentre essi si rifocillano”), allo stesso modo in cui Lot, figlio di Abramo, offre la figlia agli abitanti di Sodoma purché risparmino gli ospiti che hanno trovato asilo in casa sua. La scorrettezza” di questi richiami helleriani alle leggi religiose o arcaiche dell’ospitalità si rivela pienamente quando si definisce l’ordinamento domestico: Sesta tesi. [...] Ma in che cosa consiste l'ordinamento domestico? Primo: gli ospiti o coloro che richiedono asilo devono obbedire alle leggi dello stato, anche nel caso che essi provengano da stati in cui vigono leggi diverse.
Chi non può convenire con il fatto che nell’ambito di uno stato si obbedisce alle sue leggi? E allora perché parlare di “ordinamento domestico”? Per il semplice motivo che, senza l'analogia di partenza, tutto il pathos di questa retorica morale svanirebbe. E Agnes Heller non potrebbe esigere dagli immigrati che, “vivendo in una società”, seguano i “precetti dell’igiene e della cortesia” (Sesta tesi). Non soltanto qui si prevede un “doppio regime” giuridico per membri della famiglia ed estranei, ma lo si estende a qualcosa di ben diverso, la “cortesia” o l’“igiene”, cui nessun membro di una società può essere giuridicamzente o moralmente obbligato” (se non come bambino). Formule etiche 154
infelici riconfermano la differenza assoluta tra noi e questi ospiti secodari, infantili, subordinati. È infatti “il padrone di casa [che] si trova sempre nella posizione di maggior forza, egli concede o rifiuta l’asilo,è lui a stabilire l'ordinamento domestico, ne conosce le sfumature. I suoi obblighi da un punto di vista etico sono proprio per questo enormi” (Settima tesi). Il fardello del padrone di casa comporta l'inesistenza etica degli immigrati-bambini, anche se Agnes Heller concede loro, magnanimamente, il “diritto a riconoscere la verità” della loro condizione, nonché, al padrone, l’obbligo di lenire le sofferenze che derivano loro dall'essere ammessi nella nuova famiglia (Decizza tesi). Perché infatti essi non sono che bambini: Decima tesi. Un bimbo (fra la nascita e il compimento del primo anno) porta il miglior esempio agli universalisti. Ogni bambino è in senso letterale uomo universale. Se si sorride a un bimbo in questi primi mesi, egli reagirà sempre nello stesso identico modo, sia nero o bianco, maschio o femmina, nello stesso identico modo indipendentemente dal milieu culturale di provenienza.
Immigrati o rifugiati sono bambini in un duplice senso: a) sono “infanti”, perché non conoscono ancora la lingua della “casa” e perciò b) bisognosi di educazione. L'“universalismo” che Heller sottoscrive qui è quello dell’educatore che, bontà sua, ignora le differenze di colore e sa che il bambino potrà essere istruito “indipendentemente dal milieu culturale di provenienza”. Riprenderemo in seguito il problema del “multiculturalismo”, che qui Heller risolve rapidamente in termini che non sarebbero dispiaciuti a un teorico romantico dell’assimilazione forzata come Herder. Il punto è che, a partire da una concezione molto particolare di “universalismo” (che altro non'è se non l’assimilazione o omogeneizzazione culturale dei profughi o migranti), Heller sottoscrive uno statuto discriminatorio degli stranieri in quanto tali, facendone in tutto e per tutto dei servi-bambini. Mi sia permesso notare che nella pedagogia helleriana c’è qualcosa di autoritario e di discriminatorio, tenendo conto che l’oggetto di queste attenzioni domestiche è costituito da stranieri in grandissima maggioranza adulti, e anche di contraddittorio, dato che Heller è una profuga trasferitasi a suo tempo negli Stati Uniti, dove ora insegna con successo. La docente di filosofia morale approdata a New York si chiama fuori dalla classe degli stranieri, e così contraddice la propria condizione (come avviene spesso a chi evade per qualche momento dalla sfera del puro pensiero e si occupa di questioni terrene). Pochi anni
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prima di rilasciare le sue tesi sugli stranieri, e forse perché si manteneva nel recinto separato della riflessione sulla morale, Heller sembrava molto più sensibile ai bisogni degli “altri” e molto meno al “dominio” (per esempio dei padri sui figli o degli autoctoni sugli stranieri): Il riconoscimento di tutti i bisogni il cui soddisfacimento non implica, in linea di principio, l’uso degli altri come mezzi, deve essere esercitato. Esso può esserlo grazie alla virtù (atteggiamento) della tolleranza radicale. Devono essere esclusi da questo riconoscimento solamente i bisogni il cui soddisfacimento implica necessariamente il dominio.”
Un caso abbastanza diverso dalla retorica morale arcaicizzante della Heller, ma analogo negli esiti, è quello delle argomentazioni scientifiche in cui diritti e doveri di stranieri e nativi sono attentamente soppesati allo scopo di smussare gli inevitabili conflitti “razziali”, culturali o di altro tipo innescati dall'arrivo degli immigrati. Si tratta di argomentazioni non solo sofisticate ma anche benintenzionate, dietro cui si scorge la sincera preoccupazione di combattere il razzismo. D'altra parte, esse si basano su una concezione pessimistica di senso comune
per cui il “razzismo” è intrinseco alla condizione umana, in quanto rientra in quell’odio per i diversi che accomuna chiunque non sia del gruppo, dagli stranieri alle donne: Quasi tutti i razzismi sono di stato. Dicendo questo non voglio applicare anche al tema immigrazione l’idea sciocca che esista una società civile naturalmente benevola e uno stato costruttore di immoralità. Al contrario,
credo che il razzismo sia una condizione naturale dell'animo umano. Gli umani diffidano della diversità e la disprezzano. Basti pensare a quanto sia generalizzato nel tempo e nello spazio il più fondamentale dei razzismi: l'invenzione del carattere femminile e la sua svalutazione. Nelle nostre democrazie, sono molte più le donne picchiate, seviziate e uccise dai maschi
di quanto non siano gli immigrati vittime dei nazionali 0, viceversa, i nazionali vittime degli immigrati. E, tuttavia, questo fatto non assume la dignità di una questione politica, esso rimane nascosto nelle pareti domestiche o relegato nella cronaca nera, declassato nel privato.”
Gli immigrati rientrano nella classe dei “diversi”, che comprende anche il genere femminile, in quanto tipizzato come “carattere”. Leggendo questo testo si può supporre che immigrati e donne siano sottoclassi omogenee di una classe più ampia in quanto bersaglio di un razzismo “condizione naturale dell'animo umano”. Che il razzismo abbia a che fare con l’“animo”, e non sia piuttosto la definizione di compor156
tamenti sociali specifici rivolti contro esseri umani specifici, è questione evidentemente aperta. Ma l’aspetto interessante di questa argomentazione è che gli immigrati, dissolti così nella classe dei diversi, non esi-
stono più come soggetti sociali e giuridici specifici, bensì come oggetti di un razzismo indiscriminato — che stranamente è sia “di stato” sia condizione naturale dell'animo umano, cosa evidentemente priva di senso, a meno di non postulare che lo stato sia la condizione naturale dell'animo umano, il che è opinabile. Da ciò discende che per ridurre il “razzismo generale”, o per non eccitarlo, è meglio non parlare troppo di “diritti universali” degli immigrati, soprattutto quando sono in gioco quelli sociali,’ ma elargire dei diritti specifici e limitati, tenendo conto delle reazioni dei nativi che, sentendosi discriminati, potrebbero
protestare e abbandonarsi al loro “razzismo naturale” (abbiamo qui una versione più elegante ed edulcorata della tesi di Brimelow). Non c'è bisogno di dire che il bilancino con cui si pesano attentamente i “diritti” degli immigrati è saldamente nelle mani “nostre” (come vorrebbe Heller). Nel libro di Zincone gli immigrati sono ancora una volta un mero recipiente delle nostre iniziative e non hanno voce
in capitolo. Si tratta di una teoria basata sul “buon senso” che sembra assai ragionevole, sennonché evita accuratamente di misurarsi con l’idea che, in linea di principio, “noi” (uomini e donne) e “loro” (uomini e donne) siamo uguali. Un po’ come avveniva tra i cheyenne, che chiamavano se stessi “il popolo degli uomini”, ma le altre tribù con il loro nome tribale, implicando che sioux o arapahoes non fossero propriamente umani (bisogna dire però, stando agli esperti di tribù delle pianure, che i cheyenne erano empiricamente molto tolleranti e disponibili verso i “non uomini”). Gli uomini sono tutti uguali (ma alcuni un po’ meno). Per illustrare questa tesi sono costretto a coinvolgere nella discussione uno studioso che ha, tra gli altri meriti, quello di aver confutato scientificamente le giustificazioni correnti del concetto di razza. In un saggio di divulgazione scientifica, L. Cavalli-Sforza dimostra come le differenze tra le
“razze” siano più o meno irrilevanti nei termini della genetica e che, per fare l'esempio più ovvio, la pigmentazione della pelle è determinata dal fatto che in Africa i portatori del gene FY-O sono resistenti a un parassita malarico. In altri termini la pelle scura segnala l'adattamento di certe popolazioni all'ambiente nel processo di selezione naturale, e nient'altro. Di conseguenza: Le differenze tra le “razze” [...] sono quindi assai limitate e quantitative 157
più che qualitative. Entro i continenti poi le differenze sono in media più piccole ancora. Viste in questa ottica, la confusione e le grandi tragedie, le crudeltà causate al mondo dalla diversità razziale sono, usando le parole di
Macbeth, “una storia raccontata da un idiota, piena di vociare e di furia, che non significa nulla”.”
Insomma, le “razze” sono un modo convenzionale di definire delle
differenze superficiali - mere variazioni di aspetto, potremmo dire, che non rimandano ad alcuna differenza tra gli esseri umani (proprio come l’abbronzatura o la statura non sono mai state interpretate, tranne che dai nazisti e dai lombrosiani in termini di inferiorità o superiorità razziale). Qui Cavalli-Sforza sembra non lontano da quel gruppo di studiosi di biologia e di genetica che da tempo si battono per depurare la nostra cultura dai pregiudizi razziali, scientifici e di senso co-
mune, nonché da usi scorretti o ideologici della genetica.* Il problema è però che, una volta abbandonato il terreno dell’ideologia razziale, la
critica scientifica non rinuncia ai soliti luoghi comuni sull’inferiorità culturale degli stranieri: Il razzismo è un’altra malattia sociale che non sappiamo prevenire e curare in modo adeguato. Si direbbe anzi che facciamo di peggio, perché l’abbiamo favorito e alimentato evitando accuratamente di dare risposte ai problemi che si andavano creando. Abbiamo così praticato una stolta politica di tolleranza dell’immigrazione, permettendo l’entrata in massa di individui impreparati a vivere nelle nostre società, così diverse dalle loro [...].?
Abbiamo già incontrato diverse volte l’idea che, in definitiva, l’im-
migrazione è la causa del razzismo (un argomento che, spiace dirlo, assomiglia parecchio a quello usato dai “moderati” tedeschi della fine del secolo scorso per opporsi all’ingresso degli ebrei in Germania...). Qui conta però il presupposto che l'immigrazione è “tollerata” stoltamente, giacché gli immigrati sono “individui impreparati a vivere nelle nostre società, così diverse dalle loro”. Un presupposto di senso comune condiviso, come abbiamo visto, da alcuni filosofi morali e scien-
ziati politici, ma che non ha alcuna base empirica. In primo luogo la “diversità delle società” è una formula assai generica che non tiene conto di ciò che è comune alle “nostre” società e alle “loro” (dai flussi economici e finanziari alla circolazione di beni di consumo). In secondo luogo, trascura il fatto che una percentuale assai alta di migranti esibisce un livello di scolarità pari, se non superiore, a quello delle società di destinazione (indipendentemente dal fatto che essi trovino un'occupazione non adeguata alla loro “preparazione” culturale o 158
professionale)” In terzo luogo, ignora il fatto storico che gli immigrati hanno fornito la base dello sviluppo economico e culturale dell’Europa” e degli Stati Uniti (paese in cui tra l’altro vive e lavora felicemente l'italiano Cavalli-Sforza) tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, così come era avvenuto in altre epoche cruciali dello sviluppo economico e culturale europeo.” Le stesse cose che Cavalli-Sforza dice dei migranti latinoamericani venivano dette all’inizio del secolo degli italiani e dei polacchi, come prima erano state dette degli irlandesi, e poi degli ebrei.? Ma forse l’aspetto più interessante di questa posizione è che l’inferiorizzazione oggettiva degli stranieri viene trasferita dal campo biologico-razziale, oggi evidentemente impraticabile, a quello culturale-educativo.* In altri termini, la differenza, che non può essere giustificata né in base ai geni (e tanto meno in base al Qi, come mostrano Rose, Lewontin e altri) può essere ricondotta alla differenza tra culture o società “incompatibili”. Questo mutamento di paradigma, in base al quale l’inferiorità dei migranti (o di una loro parte) viene attribuita a fattori culturali, è esplicitamente rivendicato in un’intervista, in cui l’eminente studioso di genetica non manca di attingere ai noti luoghi comuni sugli stranieri criminali e applica a un altro campo, le politiche migratorie, il concetto di “selezione”: CAVALLI-SFORZA: VANNO SELEZIONATI ALLA PARTENZA
Dovremmo imitare l'esempio dell'Australia — dice lo studioso — cioè di un paese che nel giro di pochi anni ha accettato tra i suoi confini qualcosa come un milione di immigranti italiani: è stata un’ondata migratoria organizzata dall’inizio alla fine, con una preselezione accurata [...]. Perfino %/ Giappone, un paese in cui non mancano venature di razzismo, ha lasciato entrare gli immigranti coreani, però li ha selezionati, li ha retribuiti con borse di studio (un modo magnifico, fra l'altro, per non pagarli troppo), ha insegnato loro mestieri e specializzazioni e in molti casi li ha riaccompagnati a casa con queste nuove competenze [...]. Bisognerebbe cercare di portare nel paese gente con un po’ più di cultura — aggiunge Cavalli-Sforza — e non solo, come avviene spesso, mafiosi, prostitute e ladri [...].”
L'immigrazione, un'ondata inarrestabile che ci sommergerà. Più di trent'anni fa, in un saggio che allora fece scalpore, A.W. Cicourel sottopose l’uso delle statistiche e in generale delle misurazioni quantitative nelle scienze sociali a una critica serrata. Indipendentemente dalla validità formale dei calcoli e dalle misure, Cicourel notava che spesso le scienze sociali non controllavano se le categorie in cui i dati venivano suddivisi fossero o no emancipate dalle classificazioni di senso co159
mune utilizzate dagli attori profani nella descrizione dei fatti sociali. In altri termini, le categorie scientifiche incorporavano presupposti e pregiudizi del senso comune, che poi acquisivano uno status scientifico
nelle elaborazioni statistiche. Un ruolo specifico in questa legittimazione scientifica del corzzzon sense spettava, secondo Cicourel, alla de-
mografia: I demografi preferiscono lavorare con dati che mostrano ai loro occhi degli inconvenienti ma con cui essi hanno familiarità. Questo è spesso il risultato di un facile accesso alle informazioni (raccolte da istituzioni locali e statali, nazionali e internazionali), che sono già confezionate in forma
quantitativa o quantificabile. I dati provengono da fonti su cui i demografi hanno raramente controllo, e il loro carattere preconfezionato preclude l'interferenza e l’assimilazione di nuove informazioni che permetterebbero diverse alternative teoriche. Un’accurata analisi delle condizioni in cui ha luogo la costruzione di una determinata distribuzione è necessaria se si vuole accertare efficacemente la validità dei dati. Gli inconvenienti di simili ricerche sono dovute alle distorsioni dei dati a causa delle concezioni di senso comune del personale che li deve raccogliere secondo qualche insieme di regole.”
Le osservazioni di Cicourel avevano di mira l’uso incontrollato dei dati di fonte governativa da parte dei demografi, e la fiducia che i sociologi hanno sempre riposto nelle analisi demografiche. Il problema è tanto più rilevante quanto più le analisi sociologiche e demografiche toccano aspetti delicati e controversi della vita sociale come la devianza e la criminalità.’ Ciò vale a maggior ragione nel caso dei discorsi scientifici sull’immigrazione, perché questi tendono a incorporare non solo categorie e dati di senso comune, che poi vengono combinati in pseudoproblemi (si pensi solo all’“inclinazione a delinquere degli immigrati”), ma anche a legittimarli presso l'opinione pubblica in quel processo autopoietico e circolare che caratterizza in generale la perce-
zione dei fenomeni migratori.” Nel caso delle migrazioni, i problemi metodologici assumono comunque un rilievo diverso e più ampio rispetto a quelli individuati da Cicourel. In sintesi, si potrebbe dire che il contributo della demografia (0 meglio di una sua tendenza) alla produzione di retoriche di senso comune sull’immigrazione si esercita a tre livelli, due scientifici e uno retorico in senso stretto:
1) Costruzione di un modello di previsione standard in base al quale l'incremento della popolazione dei paesi d’emigrazione (per esempio, quelli della Riva Sud ed Est del Mediterraneo) creerebbe un enor160
me squilibrio rispetto ai paesi di immigrazione della Riva Nord (così, tra il 1985 e il 2020, “dei 192 milioni d’incremento appena 9 sono attribuiti alla Riva Nord contro. 183 dei paesi delle Rive Sud e Est”); 2) Trasformazione automatica di questo ipotetico squilibrio in un travaso di popolazione dal Sud al Nord (“modello idraulico” delle migrazioni); 3) Esortazioni all'opinione pubblica più consapevole e “responsabile” perché si prepari di fronte a questi eventi.
Come avverte Livi-Bacci, un demografo giustamente sensibile a quelli che Cicourel avrebbe chiamato “inconvenienti” scientifici, le ipotesi 1 e 2 contengono dei trabocchetti evidenti. Per cominciare, le proiezioni standard, che si esercitano su periodi relativamente lunghi (25 anni), non possono includere variabili economiche, sociali e anche demografiche per natura aleatorie; lo sviluppo economico, le trasformazioni politiche, l’urbanizzazione, la crescente alfabetizzazione e la
scolarizzazione, nonché il grado di emancipazione femminile nei paesi della Riva Sud, sono tutti fattori dal peso oggi imprevedibile, che possono incidere sui ritmi della fecondità e vanificare proiezioni e previsioni, cosicché l'incremento esponenziale della popolazione dei paesi “poveri” è del tutto ipotetico. In secondo luogo, il modello “idraulico”, che traduce un eventuale squilibrio della popolazione tra Riva Sud e Riva Nord e del Mediterraneo in spinta migratoria è un evidente caso di rzetaforizzazione di previsioni strettamente quantitative. Anche se tale squilibrio trovasse una conferma empirica, in quanto tale esso non giustificherebbe una variazione più o meno rilevante (e tanto meno catastrofica) dei flussi migratori tra Sud e Nord: le trasformazioni del mercato del lavoro e le politiche più o meno restrittive dei paesi europei in materia di immigrazione, nonché lo stesso sviluppo economico dei paesi di emigrazione, costituiscono degli ostacoli evidenti alle “spinte” migratorie. Ma, più in generale, il modello “idraulico” ignora il presupposto che le migrazioni non sono una “cosa”, ma il risultato di un gran numero di scelte individuali, che a loro volta si basano su fattori percettivi, processi decisionali, condizionamenti sociali e rappresentazioni culturali, di cui la demografia — come avrebbe detto Cicourel — non può tener conto. È probabilmente l’impossibilità di includere tutti questi elementi nei modelli previsionali che fa incorrere la demografia (quando non adotta le precauzioni suggerite da Livi-Bacci) in errori di valutazione clamorosi. Si pensi per esempio alla mitologia degli anni sessanta imperniata sulla previsione di un catastrofico incremento demografico nel Sud d’Italia (con conseguenti appelli al 161
controllo delle nascite e considerazioni implicitamente o esplicitamente razziste sulla fecondità da “conigli” dei meridionali). La demografia italiana non aveva previsto il declino della popolazione, che sarebbe divenuto inarrestabile dalla metà degli anni settanta. Eppure, dopo aver rimosso questo infortunio, alcuni demografi non esitano a evoca-
re nuove catastrofi, questa volta provocate dai nuovi “terroni” della Riva Sud del Mediterraneo. Un esempio pittoresco di questa “propensione demografica all’esagerazione” si trova in previsioni che non riguardano solo la metafora idraulica dell’immigrazione, ma anche le
conseguenze di alcune crisi politiche della Riva Sud: [...] Esistono situazioni politiche peculiari che derivano da specifici rapporti economici o da alleanze e che impegnano singoli paesi europei e la Comunità nel suo complesso. Ne conseguono forme di pressione politica cui sarà difficile resistere. Si può immaginare, per fare un esempio, che la crescita dell’integralismo islamico in Algeria possa provocare l'uscita di quegli strati di popolazione che non apprezzano o non accettano forme di integralismo religioso o che il paese stesso possa favorirne l'esilio. Potrebbe l’Italia resistere a pressioni del genere?
La risposta a questa domanda è del tutto ovvia. Infatti, l’Italia non ha avuto alcun problema rilevante con l’Algeria, dopo lo scoppio della guerra civile, perché nessuna pressione migratoria di particolare rilievo, causata da motivi politici o religiosi, ha visto protagonista la popolazione di quel paese (il numero dei migranti algerini in Italia è oggi di poche migliaia e soprattutto non ha subito particolari variazioni dall’inizio degli anni novanta). Qui non intendo giudicare con il senno di poi ipotesi per definizione fallibili. Mi limito a notare che il loro meccanicismo (“i non-integralisti di là vorranno scappare di qua”) si basa sul presupposto che i cittadini di un paese sconvolto dalla guerra possano solo scappare e premere da noi, e non invece resistere, sia pure in condizioni estreme, alla dissoluzione della loro società civile. Si rivela
in queste “analisi” il presupposto più o meno tacito che gli “altri” siano diversi da noi, esseri meccanici o puramente vitali, privi di capacità di scelta, di iniziativa politica e di senso della libertà. Si potrebbe obiettare che in qualche caso quote rilevanti di popolazione non hanno altra alternativa alla distruzione che l’esodo, per esempio i curdi. Ma il caso di questi ultimi è sensibilmente diverso, perché si tratta di “popoli senza stato”, come avrebbe detto Hannah Arendt, gente a cui la libertà politica è stata ed è negata con la connivenza proprio di quegli stati che poi non fanno nulla per sottrarli al loro destino.
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In generale, comunque, il catastrofismo di alcuni demografi (ma non solo loro) non è privo di conseguenze. Una volta che le previsioni di invasioni più o meno bibliche sono smentite dai fatti in un caso,
vengono riprese disinvoltamente nell’altro, perché qui non è in gioco una valutazione scientifica ma un modello allarmistico, condiviso proprio da scienziati e politici. Un modello che appare limpidamente in alcune considerazioni di Romano Prodi su immigrazione e criminalità: Quando cadde il muro di Berlino tutte le nostre previsioni erano sui grandi flussi di immigrazione dall’Est e invece non ci sono stati; l'Est, in fondo, ha tenuto perché sono società più forti anche se c’è un livello di disparità economiche e di miseria che in molti paesi spingevano l'immigrazione. Anche se ci sono state immigrazioni fuori dalla Polonia, dalla stessa Rus-
sia, dall’Ucraina queste non sono state a livello “biblico”. Quelle “bibliche” vengono dal Sud, investono l'Italia e la Spagna e noi rispondiamo per tutta l'Europa di queste frontiere [....].**
L'immigrazione è un problema etnico. Le migrazioni, al pari di ogni altro fenomeno sociale, sono la somma di innumerevoli storie indivi-
duali, decisioni aleatorie, “progetti” parzialmente consapevoli, traiettorie esistenziali che, in base alla retorica scientifica adottata, vengono
fusi in processi collettivi e quindi trasformati in astrazioni. Esseri umani spinti da motivazioni diverse (la ricerca di un lavoro o di un salario migliore, la semplice fame, ma anche la necessità di sfuggire alle persecuzioni politiche o religiose) “decidono” di abbandonare il proprio paese o stato nazionale, di attraversare dei confini e di entrare in un altro stato nazionale (o società, o mercato del lavoro) in base a circostan-
ze molteplici. La sociologia ha messo in luce la diversità delle percezioni sociali e dei condizionamenti che contribuisconoa formare i cosiddetti “progetti” migratori. L'esperienza migratoria degli anziani o dei coetanei, la disponibilità di informazioni più o meno distorte sui paesi di destinazione, la circolazione di beni di consumo, ma anche la diffu-
sione di immagini e di simboli universali, sono fattori genericamente culturali di attrazione, che orientano tali progetti. E tuttavia un migrante resta essenzialmente, come mette in luce Moulier-Boutang," un
individuo che attua una vera e propria secessione dal “proprio” contesto economico, politico e sociale (oltre che familiare e quotidiano). Se quanto precede è vero, dovremmo aspettarci dalle “scienze delle migrazioni” uno sguardo assai attento alle trasformazioni che le vicissitudini migratorie inducono sull’“identità” dei migranti. E in effetti, gli studi classici in materia hanno messo in luce sia gli shock cognitivi e
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microculturali che accompagnano la “carriera migratoria”, sia la pluralità dei piani in cui l’“identità” dei migranti necessariamente si rifrange. In realtà, proprio le migrazioni mostrano come l’abusatissimo concetto di “identità” culturale o sociale sia ben poco utile per descrivere i mutamenti di stili di vita e percezioni di sé cui i migranti non solo sono sottoposti, ma che talvolta accettano con stupefacente rapidità (come se individui per definizione mobili o “uccelli di passo”, secondo una nota definizione di R. Piore, sfuggissero ai determinismi cui le scienze sociali tendono variamente a inchiodarli). Un migrante si trova per definizione in una situazione “bastarda”, nel senso che “non è
più e non è ancora”, è uscito dal suo spazio sociale e culturale ma non è entrato, se non di soppiatto o marginalmente, in quello nuovo in cui vorrebbe inserirsi. Ciò si riflette nell’estrema varietà di forme e di reti sociali e culturali cui imigranti danno vita o si adattano nei paesi di destinazione. Adattamenti puramente individuali e utilitaristici coesistono con reti informali, più o meno derivate da solidarietà familiari o di altro tipo dei paesi d’origine. Non solo: adattamenti diversi sul piano delle scelte o delle necessità professionali, sociali ed economiche non escludono il mantenimento di diversi legami culturali o di altro tipo (tra cui, evidentemente, anche religiosi) con le società di origine. In breve, non esiste alcuna identità collettiva, culturale, etnica o religiosa
del migrante in quanto tale, ma esistono tante identità plurali quante sono le appartenenze di soggetti che si trasformano nel corso della loro esperienza, che è per definizione “di passo”. Sono solo le convenzioni, o meglio le opacità, linguistiche dell’opinione pubblica e delle scienze sociali dei paesi di destinazione (una volta di più straordinariamente solidali) a trasformare con un colpo di bacchetta magica (cioè con l’uso di concetti collettivi) questa moltitudine di singolarità in avanguardie “culturali”, “comunitarie”, “etniche” o “religiose”#8Come ha detto E.R. Wolf: È un errore considerare l’emigrante come il portatore e il protagonista di una cultura omogeneamente integrata che egli può mantenere o rifiutare nel suo complesso. Abbiamo imparato abbastanza sui modelli culturali per sapere che essi sono spesso internamente contraddittori e, al contempo, capaci di integrarsi con modelli provenienti da altre culture. Non è più difficile per uno zulù o per un hawaiano imparare o disimparare una cultura di quanto non lo sia per un abitante della Pomerania o della Cina. Ciò che è importante per l’emigrante è la posizione in cui è collocato, in rapporto agli altri gruppi, al momento dell’arrivo. Questa collocazione decide quale delle sue risorse può applicare e quali nuove risorse deve acquisire.
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È soprattutto il sapere manualistico e “normale” delle scienze sociali” che può rivelarci il procedimento di trasformazione dei singoli in espressioni di realtà collettive, omogenee, profonde (e inevitabilmente identitarie).” Qui non abbiamo una retorica calda e più o meno ammiccante agli umori dell’opinione pubblica, ma una retorica “fredda”, “neutrale” e quindi “scientifica”. Così, in un recente e fortunato manuale di sociologia, un paragrafo sull’“Immigrazione verso i paesi europei e l’Italia in particolare” è collocato all’interno di un capitolo dal titolo “Razze, etnie e nazioni”, con l’effetto di suggerire in modo
nemmeno troppo implicito che l'immigrazione sia una faccenda “razziale, etnica e nazionale”, il che può essere vero, come abbiamo visto molte volte, del complesso di immagini e percezioni che si producono nei paesi di immigrazione in riferimento ai migranti, ma non vale cer-
tamente per i migranti stessi, i quali (prescindendo dal concetto di “razza”, che quasi nessuno usa più in sociologia) non costituiscono né etnie né nazioni, ma sono individui dotati semplicemente di un passa-
porto (cioè di una cittadinanza) diverso da quello della maggioranza della popolazione con cui convivono. In altri termini, “razza, etnia e nazione” sono identità costruite artificialmente dai paesi di immigrazione e non caratteristiche sociologiche originarie dei migranti. Le mie osservazioni potranno sembrare capziose, a meno che non si rifletta sul fatto che l'immigrazione, più di altri fenomeni sociali, è anche un “fatto” economico, politico, geografico e giuridico. Perché dunque cacciarlo nell’imbuto della razza, dell’etnia e della nazione? Il carattere retorico della costruzione razziale, etnica e nazionale dei fenomeni
migratori si rivela pienamente nella definizione di etnicità. In base al manuale citato, si ha un gruppo etnico quando: 1) I membri di un gruppo designano se stessi, e sono designati da altri mediante un nome che li contraddistingue. 2) Si è prodotto il mito di una comune origine o discendenza. 3) Si è creata una comunità che condivide certe memorie comuni (tradizioni) e vi è chi si preoccupa di trasmetterle alle generazioni future. 4) Vi è una cultura condivisa [...]. 5) Vi è un territorio [...] che imembri del gruppo considerano proprio [...]. 6) Si sviluppa un senso di solidarietà particolaristico tra i membri del gruppo che non si estende ai membri di altri gruppi.”
Prescindendo anche dal carattere aperto, problematico, processuale e conflittuale del concetto di “etnia”, che ha spinto alcuni studiosi a interrogarsi sulla sua legittimità,” si può notare che il campo di ap-
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plicazione proposto dalla definizione che precede è talmente ampio da sconfinare nell’indeterminatezza. In base agli elementi citati, qualsiasi gruppo territoriale, da una banda giovanile di quartiere fino a un collettivo di tifosi di calcio, potrebbe essere definito “etnico”. I membri di un gruppo ultra, per esempio, si definiscono con un nome specifico, elaborano dei miti sulla propria origine, tramandano ai più giovani delle memorie comuni, pretendono il controllo esclusivo di un territorio, hanno una cultura condivisa e sviluppano tra loro legami di solidarietà particolaristica.” E lo stesso si potrebbe dire, con tutte le riserve e le cautele del caso, per i Crips e i Bloods di Los Angeles, e al limite per il nocciolo duro della Lega nord, e così via. In realtà, al di là di queste
obiezioni fin troppo facili, appare evidente come il concetto di etnia, usato in un’accezione generica e spesso incontrollata, si sovrapponga a
quello di cultura o subcultura, ma con un’aggiunta significativa: mentre oggi il termine cultura tende a essere usato con cautela in antropologia,” che ne sottolinea il carattere processuale, autoreferenziale e interattivo — come dice Geertz,* citando Weber, la cultura è in fondo
una rete di simboli in cui gli uomini restano impigliati —, il termine etnia, come avveniva un tempo con l’uso della razza, finisce per veicola-
re l’immagine di una realtà culturale fondamentale, invariante e rigidamente deterministica, che orienterebbe l'agire di determinati gruppi sociali. Un esempio veramente indicativo di questa confusione solo apparente tra “razze”, “etnie”, “culture”, “patrie” e qualsivoglia altro determinismo è dato da un recente tentativo di “analizzare” il nuovo capitalismo italiano: Solo così [con il declino della classe operaia tradizionale] è spiegabile il passaggio tragico, che questa fine secolo ci consegna, dalla lotta tra le classi alla guerra tra le razze, reali, come nella dissolta ex Jugoslavia 0 simulate e inventate, come nell'Italia di oggi. Con questo non voglio dire che siamo in presenza di una guerra di razze. Filamenti identitari e di appartenenza “altri” dall’etnia basata sull’Heimat (la patria dei luoghi, delle tradizioni, del conosciuto e del familiare), altri dal localismo come risorsa competitiva, sono rintracciabili nella coscienza di sé che attraversa l’ambiguo popolo dei produttori”?
Etnia, cultura, civiltà, religione, comunità e nazione tendono a es-
sere usati come sinonimi nel linguaggio ordinario delle scienze sociali quando ci si riferisce a chi vive al di fuori dello spazio economico e culturale del Nord o dell'Occidente ricco del mondo, e soprattutto quando si definiscono gli individui, migranti e profughi, che vivono o
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cercano di vivere tra noi. Si noterà che le retoriche dell’immigrazione citate hanno qualcosa in comune, ovvero un’asimmetria implicita ma
rigida. I diritti sono per loro. Loro sono sono bambini e noi parati” e noi siamo
naturali (universali) per noi, ma utili (particolari) uguali a noi per natura, ma non per cultura. Loro siamo adulti. Loro sono esseri meccanici e “impreesseri flessibili e ragionevoli. Potremmo aggiunge-
re che la loro musica e la loro cucina sono “etniche”, ma le nostre no, e
così via. Un’asimmetria che ben pochi ammettono in quanto tale, ma che corrisponde in tutto e per tutto all’atteggiamento prevalente dell'opinione pubblica, al senso comune e ai presupposti delle politiche migratorie (si noterà come le “retoriche dell’immigrazione” riprendono esattamente, nel linguaggio più o meno sofisticato delle varie scienze, le “logiche del senso comune” discusse nel primo capitolo). L’asimmetria fondamentale si esprime in breve nella contrapposizione su diversi piani della nostra cultura alla loro. Ed eccoci approdati al terreno del conflitto, anzi della guerra, tra culture, civiltà ed etnie,
che costituisce uno dei giochi intellettuali più praticati nel nostro tempo, e che ha dato la stura a un'imponente produzione libresca, giornalistica e mediale. Immersi come siamo in questa foresta di simboli più o meno guerreschi o conflittuali, non è facile districarci tra ondate mi-
gratorie inarrestabili, invasioni di profughi e guerre etniche, decadenza della civiltà occidentale, fine della storia e diffusione dello chador,
terrorismi islamici e reazioni integraliste. E tuttavia, cercheremo di orientarci formulando una domanda preliminare. Non è possibile che la guerra tra culture che a vario titolo oggi si adombra (al pari delle tensioni “razziali”, culturali o etniche) ron esista se non nella retorica
del discorso scientifico?
La cultura non c'entra Per cominciare, occorre notare che il panorama teorico di un supposto conflitto tra culture, civiltà o etnie è estremamente vario e include an-
che posizioni favorevoli all'accettazione dei migranti (in quanto membri di una cultura o civiltà o “etnia” altra) nella “nostra” cultura. Ciò appare nell'uso dilagante di espressioni come “multicultura” e “multiculturale”, “intercultura”
o “interculturale”
in un gran numero
di
pubblicazioni dedicate ai fenomeni migratori. Il presupposto implicito di questo uso linguistico è che gli immigrati rappresentino la loro cultura rella nostra. Di conseguenza la nostra cultura non è più singola
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ma multipla, non unitaria ma frammentaria (ecco il senso del termine “multiculturale”), ciò che creerebbe dei problemi di identità a loro e a noi. C'è allora chi stigmatizza questi problemi come inevitabili, parlando di un vero e proprio scontro oggi in atto tra culture (i “profeti del conflitto culturale”), chi si propone di tenerli sotto controllo (i “multiculturalisti ragionevoli, realisti o responsabili”) e chi immagina invece la nostra società come positivamente multiculturale (i “multiculturalisti felici”). Comune a queste posizioni è l’idea che la cultura sia qualcosa di chiuso e di rigido, come una pelle in cui le diverse identità sociali sarebbero cucite. Si tende dunque a parlare di etnicità per riferirsi alle radici profonde di tali identità, di nazione per identificarne l’espressione politico-statale, di comunità per definirne le unità elementari e di civiltà” per esprimerne le specificità religiose o intellettuali. Ora, è evidente che tutte queste definizioni hanno un valore tutt'al più metaforico e soprattutto dipendente dalla retorica impiegata. Se applicate a realtà specifiche, esse appaiono a prima vista etichette generiche, contenitori che non possono rendere conto delle trasformazioni, degli scambi, delle transazioni molteplici che hanno luogo dentro e fra le generiche “unità” culturali. Si può dire oggi, per esempio, che esiste una cultura o una civiltà “europea” contrapposta ad altre culture o civiltà? Forse, ma in un senso talmente generico da non rendere conto di ciò che è comune alle altre unità culturali. In termini di comunicazioni,
scambi economici, aspetti della vita quotidiana e numerosi altri aspetti materiali o simbolici, la cultura di un paese europeo come la Germania ha più in comune con gli Usa, il Giappone o Singapore di quanto non abbia con altri paesi europei. E che dire delle “civiltà” o delle “religioni universali”? La civiltà dell'Occidente “cristiano” non è che una parola, se pensiamo sia alla pluralità di sette e confessioni, sia a tutte quelle pratiche (dal ritualismo e dall’incredulità oggi prevalenti ai tradizionalismi di vario tipo) che potremmo far rientrare in questo contenitore. All’opposto, solo i
difensori del tradizionalismo europeo (laico o religioso che sia) o i seguaci di Huntington possono credere o far credere nell’Islam come una religione o civiltà unitaria, quando questa etichetta copre a malapena un coacervo di tendenze, interpretazioni, rappresentazioni politiche e contaminazioni con filosofie e ideologie laiche o religiose non islamiche che fa dell'Islam un universo forse ancor più pluralistico e differenziato di quello “cristiano”.@ Un minimo di cultura storica ci suggerisce piuttosto che etichette come “civiltà” o “culture” nascondono, anzi falsificano, gli incessanti scambi di tecniche, pratiche, sape168
ri, rappresentazioni, modelli concettuali, simboli e credenze che han-
no fatto delle religioni, per non parlare delle civiltà, delle nebulose in parte coincidenti, in parte divergenti tra loro e soprattutto mutevoli. È contro la complessità di questi intrecci o meticciati storico-culturali che prendono la penna gli attuali consiglieri del principe, pensatori del calibro di Fukuyama, Allan Bloom, Huntington o Brimelow, fino alle legioni di ripetitori più o meno sofisticati di luoghi comuni, per ragioni che con le religioni o le civiltà non hanno granché da spartire. Infatti, un tratto comune a queste posizioni è la differenza “irriducibile” delle culture native o delle minoranze interne non assimilabili al modello della civiltà bianca. Queste ragioni esibiscono la loro natura prosaica quando appunto entrano in scena i migranti, gente che per definizione contraddice l’esistenza di contenitori o continenti religiosi, culturali, etnici o comunitari. Da una parte, i migranti provengono da paesi (società, culture, religioni o qualsiasi altra appartenenza), diversi tra loro — quindi z07 co-
stituiscono v74 cultura — e dall’altra non è scritto da nessuna parte che essi rappresentino la loro supposta cultura di partenza nella società di destinazione. Dire che una società diventa multiculturale per la presenza di minoranze eterogenee di migranti non significa allora che due cose: o farsi abbagliare dalla vista di fez o chador nelle strade delle nostre città, per non parlare di qualche moschea (che esprime la legittima pretesa di chiunque di pregare dove o come vuole, se è un credente), oppure ridefinire dei singoli assegnando loro un'identità culturale, religiosa o etnica, indipendentemente dalle loro specifiche relazioni con il proprio patrimonio culturale.” In realtà, la cultura o l’etnicità dei migranti esiste soprattutto come
effetto di un processo di costruzione e di etichettamento delle società di immigrazione, che trasformano i migranti in etnie, comunità o subculture nella misura in cui li vogliono identificare, stratificare e controllare.# Quando si parla di “multiculturalismo”, anche se in termini ragionevoli o favorevoli (“non contrastiamo, anzi favoriamo, un pro-
cesso inevitabile”), si è già accettato il falso presupposto che i migranti costituiscano frammenti o avanguardie di culture diverse, si ipostatizza la loro differenza e si scava un solco tra noi e loro, con il risultato
paradossale, ma non troppo, che spesso i migranti, ricacciati nei loro contenitori culturali, etnici o religiosi, finiscono per riconoscersi in essi, allo stesso modo in cui una subcultura giovanile e deviante è anche la risposta a una società escludente.® Questo è un tipico processo differenzialista che le vecchie società occidentali di immigrazione (Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Germania) conoscono molto bene e che 169
quelle nuove (Italia in testa) iniziano felicemente a praticare. Indipendentemente dalle specifiche forme nazionali di ridefinizione “etnica” o “culturale” dei migranti — la segregazione dei turchi in Germania, l'allocazione delle “altre culture” nei piani bassi della struttura sociale in Inghilterra, l'emarginazione urbana in Francia o negli Usa, la criminalizzazione in Italia — il differenzialismo culturale appare del tutto speculare alle procedure politico-statali di inferiorizzazione e controllo dei migranti.” E ciò è tanto più vero quanto i migranti sono collocati nei segmenti bassi del mercato del lavoro (nei paesi di vecchia immigrazione) oppure nei segmenti più poveri dell'economia informale (nei paesi di nuova immigrazione). Molto spesso, il “multiculturalismo” viene invocato proprio per ribadire l’impossibilità dell’integrazione dei migranti, e cioè della loro parificazione civile e sociale con gli autoctoni. Come dice un teorico tedesco del multiculturalismo, Io credo che, in futuro, l'integrazione e l'assimilazione non saranno più possibili, perché la maggior parte di coloro che decidono di venire in questo paese non hanno alcuna intenzione di essere assimilati o di rinunciare alla propria identità culturale, anche perché essi provengono in sempre maggior numero da contesti culturali differenti.” Nelle teorie multiculturali o differenzialiste, l’esistenza del lavoro
dei migranti, come in genere delle relazioni economiche tra paesi ricchi e poveri, viene tacitamente ignorata, con il risultato di emulsionare disuguaglianze e conflitti specifici in guerre tra civiltà e, ancor peggio, tra razze.” I migranti esistono solo in quanto “altri”, frammenti di altre culture o religioni, ma non in quanto soggetti che fanno qualcosa in determinate condizioni. L'assegnazione dei soggetti migranti a categorie “etniche”, “razziali”, “culturali” (e di conseguenza “criminali” quando sorgono dei “problemi”) rigidamente deterministiche è soggetta qui a una dialettica ferrea che chiama in causa soprattutto la loro visibilità. Se si rendono invisibili nelle nicchie del mercato del lavoro nero e dell'economia informale, accettandone la disciplina e senza contestare la propria subordinazione, la loro esistenza viene tollerata e ignorata.” Se si rendono visibili, o per la natura particolare della loro attività lavorativa (informale o marginale, ma pubblica) o perché rientrano in qualche emergenza, verranno etnicizzati e culturalmente segregati.” E questo non vale solo per le istituzioni pubbliche, ma per l'ampio mondo dei servizi sociali, culturali o “interculturali” (in Italia
e negli altri paesi di nuova immigrazione, largamente privati o volontari), che cercano di affrontare praticamente le questioni migratorie. La 170
stretta dipendenza tra etnicizzazione e controllo appare da un intervista a un operatore sociale che lavora nel campo della “multicultura”: La ringrazio per avermi posto la questione della terminologia [...] è importante che ci comprendiamo. Da un punto di vista culturale, c'è una moderna interpretazione dei fenomeni migratori in termini di “mutuo arricchimento delle culture”. Un ente con finalità educative dovrebbe porsi questo obiettivo. Le nostre direttive accettano l’integrazione e l’interazione: gli allievi stranieri, anche quelli irregolari, sono incoraggiati ad apprendere la propria lingua materna [...]. Comunque dobbiamo affrontare molti problemi pratici. Abbrarzo a che fare con 134 comunità etniche distinte”
La confusione rivelatrice tra “nazionalità” e “comunità etniche” dice molto sulle procedure quotidiane, ordinarie e inconsapevoli, di trasformazione di un passaporto (“nazionalità”) in un 7z4rker etnico-culturale. Questo è tanto più vero quanto più il settore privato-sociale esercita in Italia una funzione di supplenza dello stato, che fino a oggi ha limitato il suo intervento al controllo esterno e repressivo dei fenomeni migratori. Ora, la culturalizzazione o etnicizzazione dei migranti (che, come si è visto è del tutto compatibile con il linguaggio ufficialmente antirazzista dell’ “esclusione democratica”) ha anche la funzione di cancellare l’aspetto essenziale dei diritti unzversali dei migranti (sul luogo di lavoro come nella vita pubblica e istituzionale). E non solo perché il particolarismo culturale è in linea di principio incompatibile con l’universalismo giuridico-politico, in cui tutti sono ugualmente portatori di diritti indipendentemente dalla loro origine o appartenenza. Soprattutto, perché dallo schermo culturale o multiculturale è cancellata la realtà dei rapporti concreti dei migranti con i poteri, economici, politici e istituzionali. Il “diritto alla propria cultura”, che qui evidentemente non si mette in discussione in quanto tale,” ha senso, alla pari di qualsiasi altri diritto (alla manifestazione della fede, alla scelta sessuale, alla privacy eccetera) quando è un diritto di tutti, e
quindi può esistere come conseguenza del riconoscimento di diritti universali, e non come alternativa a essi. In questo senso, “la cultura
non c'entra”, o entra legittimamente nel discorso sulle migrazioni solo dopo che si sono posti i necessari presupposti giuridici e politici. Come afferma uno studioso americano: Il multiculturalismo della nostra epoca ci ha aiutato a riconoscere e ad apprezzare la diversità culturale, ma credo che questo movimento abbia dato
troppo spesso l'impressione che la cultura ricalchi l'aspetto e il colore delle persone.” 171
Note W. Hazlitt, Sull'ignoranza delle persone colte,
Fazi, Roma 1996.
L’analisi delle pratiche scientifiche cui alludo è oggetto di una branca specializzata della sociologia della conoscenza. Sugli sviluppi più recenti, cfr. FE. Cassano, I/ gioco della scienza, “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1989; Y. Elkana, Antropologia della conoscenza, Laterza, Roma-Bari 1989; L. Guzzetti, I/ problema dei confini tra
scienza e pseudoscienza, “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1993; Id., La delegittimazione della conoscenza scientifica. Normatività, frodi e controlli nella scienza, tesi di dottorato, Istituto Universitario Europeo, Firenze 1997.
K. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1976. D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 1994.
Sull’uso delle metafore nel discorso scientifico, cfr. il fondamentale M. Hesse, Metafore e analogie nella scienza, Feltrinelli, Milano 1989. Una delle analisi più brillanti dell’elasticità dei metodi di dimostrazione in matematica è I. Lakatos, Dirzostra-
zioni e confutazioni: la logica della scoperta matematica, Feltrinelli, Milano 1979, ampiamente commentato e ripreso in D. Bloor, op. cit. Questa prospettiva non è
accettata dagli epistemologi più gelosi dell’autonomia della scienza dagli influssi esterni. Cfr. K. Popper, La scienza normale e i suoi pericoli, in I. Lakatos e A. Musgrave, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1970; cfr. anche K.
Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1976. Ampie rassegne dei dibattiti in questione sono contenute in I. Lakatos e A. Musgrave, op. cit.; e M. Hollis e S. Lukes, a cura di, Razionality and Relativism, Blackwell, Oxford 1982. Cfr. anche F. Dei e A. Simonicca, a cura di, Ragione e forme di vita, Franco Angeli, Milano 1990.
M. Douglas, Credere e pensare, il Mulino, Bologna 1994. M. Bucchi, La provetta trasparente. A proposito del caso Di Bella, “il Mulino”, 1, 1998; Id., Science and the Media, Routledge, London 1998.
J.M. Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Utet, Torino 1978, p. 554. Una delle analisi più brillanti del ruolo della scienza nella produzione di pregiudizi sociali è S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro ifondamenti scientifici del razzismo, il Saggiatore, Milano 1998.
G. Ritzer, I/ mondo alla McDonald's, il Mulino, Bologna 1997, analizza la serialità
dell’informazione contemporanea in relazione alla diffusione di consumi unificati e standardizzati. 10 Per il concetto di retorica nelle scienze sociali cfr. D. N. McCloskey, La retorica dell'economia. Scienza e letteratura nel discorso economico, Einaudi, Torino 1988. 11 Questo è un aspetto dell’epistemologia weberiana che oggi le scienze sociali, data
l’attuale moda positivistica, tendono a dimenticare. Cfr. A. Dal Lago, L'ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Unicopli, Milano 1983. 12. Come direbbero Callon e Latour, queste retoriche scientifiche di senso comune
non descrivono o spiegano il mondo, ma lo “aumentano” o lo “producono”: M. Callon e B. Latour, Unscrewing the Big Leviathan: how Actors Macrostructure the Reality and how Sociologists Help them to Do so, cit.
172
13 Si tenga conto comunque che corzzzor sense ha un significato abbastanza diverso dal nostro “senso comune”. Corzzzons sense, nella tradizione politica prima inglese e poi americana, significa più o meno saggezza o “buon senso” popolare. 14 P. Brimelow, Alien Nation. Common Sense about America's Immigration Disaster, Random House, New York 1995, p. 11.
15 M. d’Eramo, I/ yasale e il grattacielo. Chicago, una storia del nostro futuro, Feltrinelli, Milano 1995.
16 Dell’immensa letteratura su questo punto si vedano, per esempio C. West, La razza conta, cit.; e H. Gans, The War Against the Poor. The Underclass and Antipoverty Policy, Basic Books, New York 1995. Per una descrizione etnografica di prima mano delle premesse che portano i giovani neri a divenire clienti privilegiati del sistema penale americano, cfr. A. Kotlowitz, There Are no Children here. The Story of
Two Boys Growing up in the Other America, Doubleday, New York 1991. 17 Tra gli aspetti più divertenti di questo libro c’è il tentativo di dimostrare che i veri danneggiati dalle migrazioni sono i neri. M. Davis (La città di quarzo. Indagine sul futuro di Los Angeles, cit.; Id., Who Killed Los Angeles? A Political Autopsy, cit.;
Id., Chi ha assassinato Los Angeles? La sentenza è pronunciata) analizza questi tentativi di legittimare “scientificamente” una guerra tra poveri. 18 È questa l’obiezione che Georg Simmel, uno dei critici più interessanti della filoso-
fia di Kant, rivolgeva alle teorie normative della morale. Cfr. G. Simmel, Eirlestung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der etischen Grundbegriffe, Suhrkamp, Frank-
furt a.M. 1989. Per Simmel, l’imperativo categorico di Kant era un esempio di “fanatismo morale”. Per un’applicazione di questa critica o de-costruzione alle moderne teorie sociali cfr. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, il Mulino, Bologna 1994. Naturalmente, quanto dico della “de-moralizzazione della società non si applica all’ampio dibattito su “repubblicanesimo” e “comunitarismo”, e anche a quello sul “patriottismo costituzionale”, un dibattito
che esula da questo libro. 19 Esistono delle eccezioni. J. Derrida, in Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora una sfor-
zo!, Cronopio, Napoli 1997, affronta il problema del diritto d’asilo, abbandonando la retorica dello Straniero o dell'Altro, diffusa nel discorso filosofico eccetera. Non condivido le proposte del pamphlet, ma riconosco con piacere l'impegno del filosofo in questo campo. 20 Sul contesto in cui si colloca l’intervento di Heller cfr. F. Belvisi, I/ diritto d'asilo tra garanzia dei diritti dell'uomo e immigrazione nell'Europa comunitaria, “Sociologia del diritto”, 1, 1995. Dil A. Heller, Zebn Thesen zum Asylrecht, “Die Zeit”, n. 46, 1992, p. 60 (trad. it. a cura e con commento di A. Petrillo, Dieci tesi sul diritto d'asilo, “Luogo comune”, n. 4, 1992).
22 In altri termini Heller applica qui in chiave restrittiva alcuni principi previsti dalla
“Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948. E vero che quest’ultima prevede esplicitamente il diritto di “lasciare ogni paese e di farvi ritorno” (art. 13, comma 2) e il “diritto di cercare e ottenere in altri paesi asilo dalla persecuzione” senza determinare un corrispettivo dovere di accoglienza da parte degli stati accoglienti (art. 14, comma 1). Ma è anche vero che la stessa “Dichiarazione” prevede il diritto per “ognuno” di muoversi liberamente entro i confini di uno stato senza
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precisare se “ognuno” debba essere cittadino di tale stato (art. 13, comma 1). In altri termini, questa dichiarazione (sulle cui formulazioni pesava evidentemente l’esperienza degli ebrei sotto il nazismo) è molto più aperta nei confronti del diritto di “emigrare e immigrare” di quanto non faccia credere Heller. Altra cosa è ovviamente, come vedremo in seguito, il fatto che questa e analoghe dichiarazioni o patti solenni hanno una scarsa capacità di orientare l’azione dei singoli stati in materia di immigrazione e diritto di asilo. Cito la Universal Declaration of Human Rights dal testo inglese, disponibile presso il sito Web delle Nazioni unite. AncheJ.Rawls, non diversamente da Heller, ha una concezione riduttiva dei diritti umani, vinco-
landoli al consenso dei “popoli”, insomma dei “padroni di casa”; cfr. J. Rawls, La legge dei popoli, in S. Shute e S. Hurley, I diritti umani. Oxford Amnesty Lectures, Garzanti, Milano 1954, pp. 54 sgg. 23
Come mostra H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Laterza, Roma-Bari 1997 (terza ed.), l'ospitalità arcaica è definita proprio dal primato, ovviamente temporaneo, che l’ospitante accorda allo straniero. Heller si riferi-
sce a diversi luoghi di Geresi (cfr. Bibbia ebraica, a cura di Rav Dario Disegni, Pentateuco e Aftaroth, Giuntina, Firenze 1995, 8 passizz e 19,1) ma ne capovolge il sen-
so. Infatti, Abramo è lo strariero in terra di Canaan che accoglie gli “inviati del Signore”, rifocillandoli e ospitandoli, mentre sono gli abitanti di Sodoma che vogliono “abusare” degli ospiti di Lot, figlio di Abramo e protestano perché lo straniero Lot è stato fatto giudice. La legge della “tenda di Abramo” è quella dell’ospitalità e non della subordinazione degli stranieri alla famiglia ospitante. Cfr. su questo punto R. Pacifici, Wajerà. Abramo e la società del suo tempo, in Discorsi sulla Torab, Unione delle Comunità ebraiche italiane, Roma 1968, p. 24, e L. Ginzberg, Le /eg-
gende degli ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi, Milano 1997. 24 A. Heller, Oltre la giustizia, il Mulino, Bologna 1990, p. 353. 25
G. Zincone, Uno schermo contro il razzismo. Per una politica dei diritti utili, Donzelli, Roma 1994, p. 7.
26 Non c'è bisogno di dire che chi non condivide questa ragionevolezza nella politica
dell’immigrazione è motivato dall’ideologia, oppure tende a negare la realtà dei fatti. Cfr. G. Zincone, cit., passim; e Id., The Powerful Consequences of Being too Weak. The Impact of Immigration on Democratic Regimes, “Archives Européennes de Sociologie”, 1997. 237] L. Cavalli-Sforza e F. Cavalli-Sforza, Chi siamzo. La storia della diversità umana,
Mondadori, Milano 1995, p. 188. 28 Cfr. tra gli altri R. Lewontin, La diversità umana, Zanichelli, Bologna 1987; e S. Ro-
se, Molecole e menti. Saggi sulla biologia e l'ordine sociale, Liguori, Napoli 1987. 29 L. Cavalli-Sforza e E Cavalli-Sforza, cit. 30 Cfr. per esempio Aa.Vv., La nuova immigrazione a Milano, Franco Angeli, Milano
1994, che analizza il caso dei migranti marocchini e senegalesi in Italia. 31
M. Livi-Bacci (Storia minima della popolazione del mondo, il Mulino, Bologna 1998, pp. 159 sgg.) valuta in più di 50 milioni il numero di migranti europei transoceanici tra il 1846 e il 1932. La sola Italia registra 8 milioni di migranti tra il 1861 e il 1961.
32 H. Trevor-Roper (Protestantesimo e trasformazione sociale, Laterza, Bari 1969), nel
174
contesto di una critica della teoria weberiana del ruolo del calvinismo nella nascita del capitalismo moderno, individua tra i fattori decisivi dello sviluppo economico europeo all’inizio del Diciassettesimo secolo l'immigrazione e la circolazione degli imprenditori. Ma si veda anche S. Sassen, Migranten, Siedler, Fliichtinge. Von der Massenauswanderung zur Festung Europa, Fischer, Frankfurt a.M., Sassen 1997. Per la Francia, cfr. G. Noiriel, Le creuset francais. Histoire de l’immigration x1xexxe siècle, Seuil, Paris 1988 (seconda ed.). M. d’Eramo, I/ reazale e il grattacielo, cit., passim.
Per un’approfondita analisi di queste trasformazioni, cfr. V. Stolcke, New Boundaries, New Frontiers of Exclusion in Europe, “Current Anthropology”, 36, 1995. L'espressione più radicale di questo paradigma si trova in S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997.
36
“Corriere della sera”, 4 dicembre 1997, p. 3 (corsivo mio). Si potrebbe osservare maliziosamente che l’idea di selezione, cara ai genetisti, si applica ora alle differenze culturali. Insomma, ecco inventata la “selezione culturale”. Si noti la sincerità
con cui Cavalli-Sforza ammette la vera ragione di questa selezione-formazione degli stranieri (“un modo magnifico di pagarli meno”). 5”; A.V. Cicourel, Method and Measurement in Sociology, The Free Press, New York
1964, pp. 138-139.
38 J. Kitsuse e A.V. Cicourel,
A Note on the Official Use of Statistics, “Social Problems”, 2, 1963. Cfr. anche A. Dal Lago, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo, Feltrinelli, Milano 1981.
59 Il lavoro di critica della dox4 scientifico-metodologica, iniziato da Cicourel e altri
negli anni sessanta, viene oggi continuato dal gruppo di matematici e statistici della rivista “Pénombre”. Si veda per esempio, per una demistificazione delle statistiche sulle ondate di criminalità predatoria dei giovani, “Pénombre”, giugno 1997, n. 13, pp. 9 ss. 40
M. Livi-Bacci e F. Martuzzi Veronesi, a cura di, Le risorse umane del Mediterraneo.
Popolazione e società al crocevia tra Nord e Sud, il Mulino, Bologna 1990, p. 24.
41 42
Ibidem.
Per un’analisi di questo storico infortunio, cfr. E. Pedemonte e V. Tagliasco, I vantaggi dello sboom demografico, Franco Angeli, Milano 1997. Cfr. anche R. Cascioli, L'imbroglio demografico. Il nuovo colonialismo delle grandi potenze economiche e delle organizzazioni umanitarie per sottomettere i poveri del mondo, Piemme, Casale Monferrato 1996, in cui però la critica della demografia è inquadrata in una polemica di tipo religioso contro ogni politica di controllo della popolazione (per intendersi le misure restrittive dell’immigrazione sono equiparate all’aborto). Le previsioni demografiche disinvolte possano essere strumentalizzate facilmente in chiave politica. Sarebbe opportuno ricordare che il mito demografico della “sovrappopolazione” ha svolto un ruolo decisivo nella politica estera del nazismo. Cfr. S. Heim e U. Schaz, Berechnung und Beschwòrung. Ùbervòlkerung-Kritik einer Debatte, Schwarze Risse-Rote Strasse, Berlin 1996.
43
A. Golini, Tendenze e proiezioni demografiche, in P. Chiozzi, a cura di, Antropologia urbana e relazioni interetniche. Città nuova, nuova città, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 1991, p. 25 (corsivo mio). È sulla base di analisi come queste che l’arÈ
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44
rivo di poche centinaia o migliaia di profughi diviene immediatamente sulla stampa il sintomo di esodi biblici. Cfr., per icurdi approdati in Italia, S. Silvestri, Ezergenza immigrazione. Italia stretta tra Ankara e Bonn, “il Sole 24 ore”, 3 gennaio 1998. R. Prodi, Intervento conclusivo, in Presentazione del rapporto annuale, 1997, sui problemi della sicurezza in Emilia-Romagna, cit., p. 17, corsivo mio.
45 Ma si veda ora, per un’analisi di questo pluralismo, F. Borghetti, I/ progetto migra-
torio tra aspettativa collettiva e libertà individuale. Un'indagine sugli immigrati marocchini nel centro storico di Genova, tesi di laurea in filosofia, Università di Siena, a.a. 1996/1997.
46 47 48
Y. Moulier-Boutang, Le salariat bride, cit.
P. Bourdieu, Préface, in A. Sayad, L’immigration ou le paradoxe de l’alterite, cit. Sto parlando naturalmente delle migrazioni contemporanee a cui si applicano, a partire da M. Piore (Birds of Passage, Cambridge University Press, Cambridge 1979), le presenti considerazioni. Il rapporto tra patrimonio culturale originario dei migranti e trasformazioni dell’identità nella società di destinazione è stato studiato, per quanto riguarda soprattutto la società americana, nei classici W.I. Thomas, Gl immigrati e l’America. Tra il vecchio mondo e il nuovo, Donzelli, Roma 1997; e WI. Thomas e F. Znaniecki, I/ contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Mi-
lano 1968. In queste ricerche, come in generale nella scuola di Chicago, appare comunque la tendenza a sopravvalutare l’identità comunitaria dei migranti. 49 E. Wolf, L'Europa e i popoli senza storia, il Mulino, Bologna 1990, p. 502. 50 Mi riferisco qui al concetto di “scienza normale” proposto da T.S. Kuhn, La strut tura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969. Dil Per una critica arguta della costruzione identitaria delle altre culture e dei conflitti
che ne deriverebbero cfr. J.-F Bayart, L'illusion identitaire, Fayard, Paris 1996. 52 A.J. Smith, citato in A. Bagnasco, M. Barbagli, A. Cavalli, Corso di sociologia, il
Mulino, Bologna 1997, pp. 414-417.
53 Ivi, p.418. 54 E Barth, I gruppi
etnici e i loro confini, in V. Maher, Questioni di etnicità, Rosem-
berg & Sellier, Torino 1994. DD U. Fabietti, L'identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, cit. 56 A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia, I rituali del calcio, il Mulino, Bologna 1990.
DI Per il dibattito su questa tendenza, che è ormai scontata in Inghilterra e Stati Uniti,
ma stenta ad affermarsi in Italia, cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo xx, Bollati-Boringhieri, Torino 1993; e J. Clifford e
G. Marcus,.a cura di, Writing Culture. The Poetics and Politics of Etbnography, University of California Press, Berkeley 1986. 58 C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987. 59 A. Bonomi I/ capitalismo molecolare. La società al lavoro del Nord Italia, Einaudi, Torino 1997, p. 148 (corsivo mio). La guerra nella ex Jugoslavia come guerra reale tra razze? E quali: la bosniaca, la croata, la serba? AI di là dello stile non proprio
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trasparente di questo testo, si noti la disinvoltura con cui si parla di razze, etnie, patrie, coscienza di sé eccetera. 60 Sul significato politico-nazionale di queste equivalenze cfr. E. Balibar, Cultura e identità, in Aa.Vv., Identità culturali, Quaderni di “Problemi del socialismo”, 3,
Franco Angeli, Milano 1989. 61
L'espressione tipica di questa posizione è costituita da S. Huntington, cit. Cfr. anche I. Eibl-Eibesfeldt, Der Brand in unserem Haus, “Siddeutsche Zeitung”, Feui-
letton Beilage, 8/9, 1993. In Italia il prototipo delle posizioni ostili al “multiculturalismo” o alla “multietnicità” potrebbe essere considerato M. Losano, Contro la
società multietnica, “Micromega”, 5, 1991. Come esempio della fortuna di queste posizioni cfr. L. Leante, I/ contagio occidentale e lo scontro delle civiltà, “il Mulino”, I1998:
62 Ho già discusso il caso di G. Zincone, Uro schermo contro il razzismo. Per una politica dei diritti utili, cit. Ma cfr. anche D. Cohn-Bendit e T. Schmid, Heimzat Baby-
lon. Das Wagnis der multikulturellen Demokratie, Hoffman und Campe, Frankfurt a.M. 1991 (trad. it. parziale, Patria Babilonia. Il rischio della democrazia multiculturale, Theoria, Milano 1994); E. Todd, Le destin des immigrés. Assimilation et ségrégation dans le démocraties occidentales, Seuil, Paris 1994; J. Habermas, Morale, di-
ritto, politica, Einaudi, Torino 1993. 63 Quest'ultima posizione è tipica, almeno in Italia, del volontariato cattolico ed è diffusa in un gran numero di pubblicazioni. 64
S. Huntington, cit., passt7.
65
P. Partner, I/ Dro degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Tori-
no 1997. Cfr. anche B. Tibi, Krseg der Zivilisationen. Politik und Religion zwischen Vernunft und Fundamentalismus, W. Heyne Verlag, Minchen 1998 (seconda ed.), che discute il tema sollevato da Huntington ma in modo molto più avvertito e problematico. Sul pluralismo dell’Islam, cfr. T. Maraini, 1419, l’altro Islam si muove, “il manifesto”, 11 settembre 1998, p. 21.
66 Il precedente più illustre di questa tendenza è N. Glaser e D.P. Moynihan, Beyond the Melting Pot. The Negroes, Puertoricans, Italians and Irish of New York City, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1970 (seconda ed.), che nel 1963 (data dell’edizione originale), e cioè al momento dell’integrazione civile dei neri, proclamano la fine del melting pot negli Usa (dopo averne rilevato il successo nel caso dei bianchi, italiani
e irlandesi). 67 Un esempio abbastanza sorprendente di questa tendenza è D. Cohn-Bendit e T.
Schmid, Patria Babilonia, cit. Qui la società multiculturale viene presupposta per ribadirne le “difficoltà”, i rischi di conflitto, ciò che comporta, analogamente ai ca-
si già discussi di retorica ragionevole dell’immigrazione, una notevole prudenza nell’accettazione dei migranti, nell’elargizione dei diritti di cittadinanza eccetera. Cohn-Bendit, a suo tempo (nel 1968) definito “quell’ebreo tedesco” dal governo francese e di conseguenza espulso, divenuto in seguito assessore all'immigrazione a Francoforte, sposa in tutto e per tutto la retorica multiculturalista. 68 Cfr. Y. Moulier-Boutang, Razza operata. Intervista a Yann Moulier-Boutang, a cura di R. Ulargiu, Calusca Edizioni, Padova 1992, che discute le relazioni tra etnicizza-
zione dei migranti e controllo dispotico della forza-lavoro.
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69 Cfr. A. Appiah, Identity, Authenticity, Survival, Multicultural Societies and Social Reproduction, in Ch. Taylor, Multiculturalism, Princeton University Press, Prince-
ton (N.J.) 1994 (seconda ed.). 70 Per un’analisi comparativa di questi processi in Europa e negli Usa, cfr. C.G. Bryant, Citizenship, National Identity and the Accomodation of Difference: Reflections on the German, French, Dutch and British Cases, “The New Community”, 2, 1997; E. Todd, Le destin des immigrés, cit. Sul differenzialismo teorico che ne risul-
ta, PA. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, il Mulino, Roma 1994. Sulla dialettica di integrazione e segregazione in Germania W. Benz, a cura di, Integration ist machbar. Auslinder in Deutschland, Beck, Minchen
1993. Sulle analogie e differenze tra segregazione sociale e culturale negli Usa e in Europa, L.J.D. Wacquant, L'America come utopia rovesciata, “aut aut”, 275, 1996. 71 H. Geissler, citato in V. Gotz, Multiculturalismo e valori costituzionali in Germania, in T. Bonazzi e M. Dunne, Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, i Muli-
no, Bologna 1994, p. 194. Geissler è considerato il primo ad avere introdotto il termine “multiculturalismo” nel dibattito tedesco. 72 Cfr. su questo punto I. Wallerstein, Culture is the World System: A Reply to Boyne, in M. Featherstone, a cura di, Global Culture. Nationalisim, Globalization and Mo-
dernity, 1995 (sesta ed.), pp. 63 sgg. 73 Si pensi per esempio, in Italia, al mercato del lavoro domestico e dell’assistenza do-
miciliare agli anziani, che coinvolge soprattutto le donne e su cui, fino a oggi, nessuna ricerca di rilievo è stata condotta.
74
Sull’uso politico del “differenzialismo culturale” si veda T. Meyer, Identitàts-Wahn. Die Politisierung des kulturellen Unterschieds, Aufbau Verlag, Berlin 1997. Su questo tema, spunti interessanti in U. Menzel, Globalisierung versus Fragmentierung, Suhrkamp 1998, che però non manca di riprendere luoghi comuni sulla necessità che i migranti accettino la “cultura” occidentale (p. 90).
75 Citato in P. Barbesino, Talking about Migration: the State Monitoring System in Italy, in S. Palidda, a cura di, Délit d’immigration, cit. (corsivo nell'originale).
76 Per una discussione della dialettica tra diritti culturali e diritti universali, J. De Lucas, Multiculturalismo e tolleranza: alcuni problemi, “Ragion pratica”, 5, 1996. Cfr.
anche K.A. Appiah e A. Gutman, Color Conscious. The Political Morality of Race, Princeton University Press, Princeton 1996.
URI D.A. Hollinger, Postetbnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New
York 1995, p. x. Cfr. anche, per le premesse di questo dibattito in Usa, N. Fasce, Razza ed etnia nel discorso pubblico statunitense nella prima metà del Novecento, in A. Dal Lago, a cura di, Lo strarzero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, cit., pp. 170-183.
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Campagne d'Albania E se tutti i pezzenti del vecchio e marcio bacino del Mediterraneo facessero rotta sull’Italia?' Buttateli a mare! (Dichiarazione alla stampa di Irene Pivetti, ex presidente della Camera dei deputati, marzo 1997)
Stadi, campi e altre accoglienze Nell’opinione pubblica prevalente, le nuove migrazioni sono un fenomeno più o meno improvviso e imprevedibile, una calamità da affrontare razionalmente e senza farsi condizionare da concezioni ottimistiche o emotive dei diritti universali Ho mostrato nei capitoli precedenti come questa immagine negativa sia il risultato di un'interazione cumulativa tra media e sistema politico, e come il discorso scientifico
abbia contribuito a legittimarla. Abbiamo visto inoltre come essa presupponga un’asimmetria fondamentale tra “noi” e “loro”, quella di un “pensiero di stato” che, al di là delle sue espressioni più o meno 179
raffinate e dei nuovi miti a cui dà vita (“etnicità” o “multiculturali smo”), tiene ferma la “loro” inferiorità costitutiva rispetto alle “nostre” ragioni. Una cultura dell’inferiorizzazione non è ovviamente il prodotto di qualche strategia o piano intenzionale, ma un sistema complesso di riferimenti simbolici e di presupposti materiali, economici e politici, che si elabora con una certa lentezza e si adatta alle contingenze, alle dimensioni reali o supposte dei “flussi” migratori. Oltretutto, essa non opera tanto sul piano dei media, dell’opinione comune o colta, quanto su quello più prosaico ed efficace delle misure di polizia, del pattugliamento delle frontiere e del controllo degli alieni dentro e fuori il “nostro” spazio nazionale. Tuttavia, benché non intenzionale, la cultura dell’inferiorizzazione mostra caratteristiche costanti e di lungo periodo. AI di là delle sue diverse “politiche migratorie”, lo stato italiano ha sempre tenuto fermo il principio dell’inferiorità di principio dei migranti, in base al presupposto che il modo di trattarli fosse esclusiva mente una funzione degli interessi (reali, ma anche immaginari) degli italiani. Naturalmente, questo principio ha trovato formulazioni esplicite (si pensi solo alla definizione dei migranti come “esseri legalmente inesistenti”). Più spesso, però, si è manifestato in procedure automatiche, che andavano “da sé” e che i pubblici poteri hanno ritenuto raramente di giustificare, se non ricorrendo alla retorica dell’ “emer-
genza” — come se gli oggetti o bersagli di tali procedure non meritassero nemmeno una riflessione sulle loro ragioni e sui loro bisogni, per non parlare dei loro diritti. Il modo in cui l’Italia, in diversi momenti, ha affrontato l’“emergenza albanese” è un’illustrazione suggestiva della capacità di mettere in pratica la cultura dell’inferiorizzazione assoluta degli “altri”. La “questione albanese” è esplosa come emergenza nazionale tra il marzo e il settembre del 1997, dalla crisi del regime di Berisha al rimpatrio di profughi e migranti. Ma le relazioni tra Italia e Albania, per quanto labili o occasionali, sono ben più antiche. A parte il lungo regime comunista di Hoxha (e gli sbarchi del 1991, su cui tornerò tra poco), l’Italia aveva già avuto a che fare con l'Albania in un momento storico cruciale. Si tratta dell’annessione dell'Albania al Regno d’'Italia, avvenuta nel 1939, un episodio non solo scarsamente onorevol
per la “nazione” italiana, ma che soprattutto prelude alla serie ininterrotta di disfatte militari nella Seconda guerra mondiale (è infatti dall’Albania che l’anno seguente muoverà il disastroso attacco fascista contro la Grecia). Un episodio rimasto in ombra, nei primi mesi del 1997, per ragioni abbastanza evidenti. Proprio in questo periodo infu180
ria in Italia il dibattito sulla “nazione”. Da più parti si chiede che i presupposti antifascisti della Costituzione siano liquidati, che l’onore sia restituito anche ai giovani che si schierarono dalla parte di Mussolini e della Repubblica di Salò. Nel nostro Historikerstreit casereccio si minimizza il contributo italiano all’antisemitismo e si sorvola sull’impiego dei gas nella Guerra d’Abissinia, nonché sui massacri e sulle deportazioni organizzati da Rodolfo Graziani in Libia (siamo italiani e quindi “bravi”).' D'altra parte, anche il nostro esercito, impegnato in questi anni in missioni di pace in Libano, Bosnia e Somalia, deve affronta-
re lo scandalo delle torture inflitte dai paracadutisti ai somali. È in gioco insomma l’onore nazionale, e forse per questo non si insiste troppo
sull’annessione del 1939. In effetti, quasi sessant'anni di cataclismi ci separano da quell’ultima avventura imperiale. Eppure, gettare uno sguardo sull’annessione dell’Albania all'Italia ci dice qualcosa sul permanere di una certa cultura, di un atteggiamento “naturalmente” coloniale e paternalistico verso gli albanesi, e quindi sulle rimozioni di oggi più che sulle imprese coloniali di ieri’ L'episodio in quanto tale presenta gli aspetti grotteschi tipici del fascismo, come appare dai cinegiornali d'epoca. Il 13 aprile 1939, Mussolini, “fondatore dell’Impero”, annuncia da Palazzo Venezia la deposizione di re Zogu’ e proclama Vittorio Emanuele mi sovrano d'Albania. “L'Italia dimostrerà al mondo e al popolo d’Albania di essere in grado, coi suoi uomini e le sue armi, di garantire l’ordi-
ne, il rispetto di ogni fede religiosa e il progresso civile”, scandisce il Duce.® Il 16 aprile 1939 una delegazione di collaborazionisti albanesi offre la corona d'Albania a Vittorio Emanuele mn. Il 9 maggio, una guardia albanese in costume, comandata da ufficiali italiani, giura in italiano la fedeltà al re d’Italia. In realtà l'annessione, secondo lo stile diplomatico del fascismo, è già avvenuta il 7 aprile con lo sbarco di unità militari a Valona e la conseguente occupazione indolore del territorio albanese. Comunque, qualche sparatoria c’è stata. Secondo i cinegiornali d’epoca, chi si è opposto alle “forze di pace” non è l’esercito regolare albanese, ma “bande armate di ex carcerati, liberati nel tentativo di ostacolare l’intervento italiano”. È la stessa espressione con cui nel marzo 1997 si definiranno gli “energumeni” che minacciano gli italiani. Anche sessant'anni dopo si parlerà di carceri svuotate dalle bande e di “ex carcerati” a piede libero che, questa volta, tenteranno di mescolarsi surrettiziamente alle migliaia di “clandestini” che tentano di salpare per l’Italia. Naturalmente, in tempi recenti non sono mancati contatti tra l’Italia e il pittoresco paese delle aquile. Dapprima, a partire dal 1985 181
(morte di Enver Hoxha), il limitato interesse dei media per una dittatura comunista “agropastorale” ostile sia all’Occidente sia all’Urss (e infine anche alla Cina, insomma a tutto il mondo), per un paese “misterioso” e arretrato costretto a fare i conti con il nuovo ordine internazionale." Poi, a partire dal 1990, la percezione di un risveglio confuso, di un interesse crescente per quello che avviene “di qua”, per il consumo, il mercato, la televisione, la libertà. L'opinione pubblica occidentale è ancora inebriata dalla caduta del Muro di Berlino e saluta con entusiasmo le crepe che si aprono in quest’ultimo baluardo del comunismo. Nel luglio del 1990, l’Italia è in prima linea nell’organizzare il passaggio in Europa di migliaia di oppositori del regime rifugiati nelle ambasciate occidentali (ottocento solo in quella italiana). La stampa riporta con grande evidenza le offerte di ospitalità dei sindaci italiani; la televisione riprende quel padre albanese che, appena sbarcato in Italia, solleva la sua bambina e grida: “Libera, sei finalmente li-
bera!”;" si riscoprono con entusiasmo gli antichi legami tra l'Albania, gia baluardo della cristianità contro i turchi, e l’Italia, in cui vivono 100.000 cittadini di origine e anche di lingua albanese. Nel marzo del 1991, altri albanesi salpano per l’Italia, questa volta di loro iniziativa. Apparentemente, la gioia per questi fratelli assetati di libertà non si attenua: anzi, essi vengono annessi, per così dire, all'Occidente (o al Nord, se si vuole), grazie alla distinzione tra loro (che stanno diventando dei “nostri”) e quegli altri che iniziano a inquietarci (stanno già diffondendosi i sintomi dell’ “emergenza immigrazione”): Ma questi albanesi, perché li accoglieresti senza star lì a disquisire di leggi e regolamenti e invece quelli che arrivano dall'Africa e dal Terzo mondo, li vorresti contati e controllati? [...]. Primo, perché c’è una patria adriatica: la gente che vive sulla nostra sponda e sull’altra non ha mai smesso, neppure durante le guerre, di sentirsi figlia dello stesso mare; secondo, perché abbiamo affinità con i popoli adriatici [...].‘
Bastano però pochi giorni perché gli albanesi siano respinti al di là della linea. Il confine mobile che li aveva inclusi quando in poche centinaia sceglievano la libertà (e la fuga, in sostanza, era stata organizzata da “noi”) arretra rapidamente per attestarsi sul “limes”, le nostre acque territoriali. La Guerra del Golfo si è appena conclusa e l'Occidente teme di aver risvegliato il “pericolo islamico” con la terrificante umiliazione militare dell’Iraqg. Non saranno spinti gli albanesi dalla “riscoperta dell’Islam”? — si chiede F. Venturini.!* Non è Valona il porto da cui nel 1480 Maometto Il mosse alla conquista di Otranto, 182
città su cui oggi si riversano gli albanesi?! La stravagante evocazione di queste vicende lontane si traduce di colpo nel ben noto panico dell'invasione, e non solo di uomini “brutti, sporchi e cattivi”, ma di “immondizia”, di epidemie “asiatiche”, di malattie inimmaginabili, tra cui la “scabbia”. Di conseguenza, i sindaci di Brindisi e Otranto si
appellano alle autorità dello stato per essere soccorsi nell’opera di disinfezione.'* L'immagine degli albanesi, che solo otto mesi prima erano i fieri abitatori del “paese delle aquile”, gente inebriata dalla libertà che spalancava gli “occhi azzurri” su un paese che li sapeva “affini”, è ormai quella di pezzenti privi di tutto che bisogna soccorrere, nutrire e ripulire. Inizia a profilarsi lo sfondo delle relazioni politiche, economiche e culturali che si stabiliranno, nel periodo 1991-1997, tra l’Italia e 1'AIbania. In realtà, la percezione degli albanesi come pericolosi pezzenti e le conseguenti misure di difesa sociale non impediscono che centinaia di imprese, provenienti in maggioranza dalla Puglia e dalle altre regioni adriatiche, vedano subito le grandi possibilità economiche offerte dall’Albania.! I due processi non sono certamente in contraddizione. L'idea di fondo (grazie a cui il caso albanese viene incorporato, insieme a quelli del Marocco o della Tunisia, nelle politiche migratorie italiane ed europee) è che tra noi e loro sia liberalizzato il traffico delle merci ma non delle persone. O meglio, mentre il traffico delle merci è bidirezionale, quello delle persone può essere solo unidirezionale.” Noi (imprenditori, politici, militari) siamo liberi di andare di là, ma loro non sono liberi di venire di qua. Se ciò avviene, si tratta di un flusso
illegittimo. Inizia proprio in questa fase, nel marzo del 1991, una ridefinizione degli albanesi come “clandestini” e “criminali”, una ridefinizione prima di fatto, nelle cose, e poi di diritto, nell’azione dello stato,
come verrà dimostrato qualche mese dopo da un'incredibile vicenda, quella dello stadio di Bari, di cui oggi quasi nessuno parla più (al pari dell’annessione del 1939). Benché gran parte dei rifugiati del marzo 1991 si siano già reimbarcati per l'Albania, delusi e rabbiosi per l’accoglienza italiana, altre migliaia sono in arrivo. All’inizio di agosto del 1991, la migrazione, immediatamente definita “esodo biblico”, diviene emergenza internazionale. La fotografia della nave stracarica nel porto di Bari, da cui i giovani albanesi cercano di allontanarsi tuffandosi in mare o scivolando lungo le cime d’ormeggio, fa il giro del mondo e diviene, grazie all’industriale multietnico Benetton, uno Zeitbi/4, un poster d'epoca, degno di figurare accanto ai quadri seriali di Andy Wahrol (figura n. 22). Questa volta, sotto lo sguardo del mondo, le autorità italiane non si 183
FIGURA 22
Zeitbild albanese (“Colors”, 2, primavera estate 1992)
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fanno sorprendere. Gli albanesi vengono dirottati nello stadio di Bari (con la promessa di soggiorno e lavoro), dove resteranno circa una settimana, privi di servizi igienici, bagnati dagli idranti della polizia e riforniti di cibo dagli elicotteri. Lo stadio è circondato dalle forze dell'ordine e visitato dai cittadini italiani che portano i figli a “vedere gli 184
albanesi”. Il 14 agosto, lo stadio è sgomberato dalla polizia, parte degli albanesi è avviata in campi di raccolta, mentre alcune centinaia (tra cui
disertori dell’esercito, e quindi in evidente situazione di pericolo) sono dispersi in varie città italiane e infine rispediti in Albania con voli militari. L’inganno perpetrato alle spalle degli albanesi viene giustificato come necessità imposta dalla sicurezza nazionale, come qualche anno dopo ammetteranno i protagonisti dell’operazione: Orfei (Redazione di “Limes”) — Mi sembra chiaro che il problema della missione Alba ruoti intorno alle regole d’ingaggio. Con le attuali norme, per esempio, un comandante può impedire o scoraggiare l’esodo verso le coste italiane? Generale Caligaris — Assolutamente no. Non può perché non ha compiti ben precisi, nessuno gli ha detto che deve impedire la partenza dei profughi. A che titolo la impedirebbe? Generale Angioni — Sarebbe devastante, perché finirebbero coinvolti donne e bambini. È un ordine che non può essere eseguito e se anche lo fosse porterebbe problemi. Ricordiamoci della Somalia. Che succede se i nostri sparano? La questione profughi va risolta in Italia [...]. Generale Pedone —- Condivido quanto asserito da Angioni. La si può risolvere in Italia. Ho gestito per tre volte l'emergenza albanese come vicecomandante della Brigata Pinerolo. L'ultima volta, quella in cui migliaia di albanesi erano asserragliati nello stadio e nel porto di Bari, si è riusciti a smistarli in varie parti d’Italia, e poi, con un’operazione coordinata dal capo della polizia, sono stati rispediti indietro [....]. Generale Angioni — Su questo stenderei un velo pietoso! È stata una perdita di dignità che non vorrei ripetere.”
Per inquadrare nelle giuste proporzioni l'episodio è necessario accennare all’uso degli impianti sportivi a fini di detenzione. Che lo stadio di Bari richiamasse altre vicende, ben presenti nella memoria storica (il grande internamento degli ebrei di Parigi al “Vélo d’Hiver”, nel luglio 1942,” lo stadio-lager di Santiago del Cile dell’autunno 1973) è immediatamente segnalato da molti commentatori sulla stampa nazionale e internazionale. Termini come “lager” e “gabbia” si sprecano, anche se sono a doppio senso, evocando immediatamente la subumanità degli albanesi, la loro bestialità. “Folla” animale, magmatica, pronta a dilagare per le vie di Bari senza il contenimento della polizia, pericolosa (vi si annidano ovviamente “ex detenuti”, come nel 1939) e armata (anche se alla fine, nello stadio abbandonato, si ritroveranno
13 pistole, 1 mitra e tre vecchi fucili), gli albanesi suscitano insieme pena e disgusto, solidarietà e paura. Ma il parallelo così spontaneo con 185
ben altri internamenti nasconde l’incapacità di definire il significato politico innovativo di questa azione.
AI di là di analogie suggestive ma superficiali con gli internamenti di Parigi e Santiago del Cile (il cui scopo era anzientare, rispettiva mente, gli ebrei e gli oppositori di Pinochet),” l’internamento di Bari del 1991 non è che la fase preparatoria e spettacolare di un’espulsione di massa. In realtà, rientra a pieno titolo nelle misure che le democrazie occidentali assumono oggi con migranti e profughi. L'assalto alla chiesa di Saint-Bernard (estate 1996) e la cacciata dei sans papiers, le espulsioni di donne e bambini stranieri dalla Germania (primavera 1997), i rimpatri dei “clandestini” organizzati dall'Italia d'accordo con i governi della Tunisia e del Marocco (estate 1998) sono esempi di una stessa politica: azioni di polizia (cui può partecipare l’esercito) intraprese sotto lo sguardo compiaciuto dell’opinione pubblica, collaborazione del paese d’origine o di partenza degli espellendi (al quale si può elargire qualche aiuto economico o collaborazione tecnica), chiusura dell’incidente nella soddisfazione internazionale. Lo stadio non ha, in questo contesto, che la funzione di discarica, è un non-luogo”° al pari dei ferrains vagues in cui sono sistemati gli zingari o dei “campi di permanenza temporanea” che oggi “accolgono” gli stranieri in attesa di rimpatrio. L’extraterritorialità culturale dello stadio (un luogo in cui normalmente ci si diverte, si fa sport o si tengono concerti) si converte in extraterritorialità giuridica. Dato l’obiettivo di controllare qualche migliaio di profughi, non si sa trovare di meglio che un recinto per animali. Gente dallo status incerto (che cosa saranno mai: “extracomunitari”, “immigrati”, “clandestini”, “profughi”, “rifugiati” ?), gli albanesi di Bari vengono trattati come bestie, non già perché lo stato italiano sia divenuto più feroce, ma semplicemente perché non sono disponibili immediatamente categorie giuridiche che consentano di trattarli come uomini e donne. In realtà gli albanesi credono di trovarsi in Italia, ma sono altrove, in uno spazio extraterrito-
riale, meramente fisico, la cui unica funzione è il contenimento provvisorio. Se li si affronta come massa indistinta e pericolosa, se li si tratta come bestie, se non si escogita niente di meglio di uno zoo (acqua addosso, cibo gettato oltre le sbarre, defecazione ex plein aîr, perfino i visitatori della domenica), è perché essi rappresentano l’impensabile: una folla che crede di essere umana, e non lo è. Nessun compiacimento,
dunque, se lo stadio di Bari non rientra nella tipologia del “Vélo d’Hiver” o di Santiago del Cile. Lo stadio di Bari documenta una modalità nuova nel patrimonio tecnico di spersonalizzazione degli esseri umani.
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Pochi anni dopo, nell'estate del 1998, l’Italia avrà modo di perfezionare il modello.”
Sul fondo La storia dei rapporti tra Italia e Albania ha conosciuto dunque fasi diverse, ma unificate da un comun denominatore, l'inesistenza degli al-
banesi come esseri umani: l’annessione del 1939, un’accoglienza puramente retorica e strumentale nel 1990, l'eliminazione del problema rifugiati con l’internamento nello stadio di Bari nel 1991, un’incredibile
campagna mediale sul pericolo albanese quando il governo di Sali Berisha si dissolve davanti alle mobilitazioni popolari dell’inizio del 1997. L'inesistenza è ovviamente politica e non ha mai escluso singole pratiche di solidarietà a favore dei rifugiati albanesi, a opera soprattutto del volontariato. Ma il punto è che questa politica dell’inesistenza ha delle conseguenze tragiche, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1997, quando la corvetta italiana S:b://a entra in collisione con la motovedetta albanese Kazer I Rades, affondandola e causando l’annegamento di circa 90 albanesi, in maggioranza donne e bambini, senza che in Italia si voglia indagare il significato di questa “fatalità”, se ne cerchino le ragioni e la si inquadri nel contesto più ampio delle relazioni tra il mondo dei ricchi e quello dei poveri. Prima di analizzare questo episodio e soprattutto il modo sconcertante in cui il governo e l'opinione pubblica italiana l'hanno gestito e metabolizzato, sono necessarie alcune considerazioni preliminari. Mentre sto ultimando questo libro, a poco più di un anno dalla crisi albanese e dall’affondamento, della Kazer 1 Rades non parla più nessuno.” Troppe cose sono successe perché l’episodio susciti ricordi consistenti. Nell'aprile del 1997 l’Italia ha inviato la missione di pace in Albania, conclusa senza incidenti di rilievo. Il governo di Fatos Nano è subentrato a quello di Berisha e cerca di normalizzare il paese. Nel settembre del 1997 è iniziato il rimpatrio dei “clandestini”, mentre altri sbarchi avvengono e rapidamente svaniscono nei media. L'Italia, infine, si è dotata di una legge sull’immigrazione, è stata accettata nel gruppo di Schengen e soprattutto è entrata trionfalmente in Europa, dopo anni di duri sacrifici economici. Gli albanesi, come in precedenza marocchini o zingari, non sono ormai che comprimari nel dramma quotidiano della criminalità che “rende invivibili le nostre città”: si sente parlare di loro solo quando una prostituta viene arre-
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stata dalla polizia o magari uccisa da un cliente o da un protettore, oppure quando qualche traffico illecito chiama in causa l’esistenza della mafia “albanese”. Che l'opinione pubblica nelle società della comunicazione di massa abbia la memoria cortissima è ormai un luogo comune e non è necessario insistervi. Meno evidente è invece / fatto che anche all’epoca della tragedia gli albanesi, già morti perché annegati o vivi in Italia, in qualità di “profughi” e poi di “immigrati clandestini”, non esistevano. L'esempio più clamoroso di questa inesistenza, un fatto che suscita per qualche tempo un certo scalpore dopo l'affondamento, è l'assenza del governo e dello stato dal luogo simbolico della tragedia, i porti in cui sbarcano i pochi sopravvissuti. Nessun esponente del governo si fa vedere a Brindisi, nessuna cerimonia viene organizzata in ricordo di donne e bambini innocenti, che non sarebbero morti se la marina mili-
tare italiana non avesse pattugliato le coste pugliesi con l’ordine esplicito di bloccare gli sbarchi.’ Solo Silvio Berlusconi, cercando di caval-
care il populismo della nuova destra, compare in lacrime a Brindisi per poi disinteressarsi di tutta la questione.” L'unica risposta del governo italiano sarà data da Prodi in visita in Albania qualche tempo dopo con la promessa di un risarcimento alle famiglie delle vittime. In breve, il silenzio di oggi non prolunga che il silenzio di ieri sulle vere vittime di tutto l’affazre. Che la questione albanese tenga banco sulla stampa italiana per tutta la primavera del 1997, non deve trarre in inganno. In realtà l'Italia, così come è rappresentata nei media, non parla altro che di se stessa, non fa che dar voce alle proprie paure e corpo ai propri fantasmi, urlare le proprie ossessioni, regolare i propri conti politici (ecco la “funzione specchio dei fenomeni migratori”). Rileggere i giornali della primavera 1997 produce oggi un’impressione per cui solo il termine “grottesco” sembra adeguato. Ma è necessario andare al di là di questo effetto. In realtà, nel modo in cui i media hanno costruito l’“emergenza Albania” e soprattutto la tragedia di Otranto sono all'opera logiche stringenti. In primo luogo la costruzione consensuale degli albanesi come minaccia. In secondo luogo la recita consensuale di un copione che si conclude nel clizax dell’affondamento. In terzo luogo la rimzozione, o meglio la deviazione, del significato dell’evento. In altri termini, V’a-
nalisi dei media al tempo della crisi albanese ci mostra come un paese prepari le condizioni di una tragedia, la metta in scena in un certo mo-
do e poi la usi per parlar d’altro.?? “Preparazione consensuale” di un evento non significa interzionalità. Non si può ovviamente accusare il nostro governo di aver voluto 188
l'affondamento. Il fatto è piuttosto che, date certe premesse più o meno conseguenti, le probabilità che un evento si verifichi sono più o meno alte. Nella vicenda della Kazter 1 Rades, le premesse sono fonda-
mentalmente due: l’etichettamento, a opera dei media, dell’intero popolo albanese come orda di criminali pronti ad assalirci e la trasformazione, con un colpo di bacchetta magico-giuridica, dei profughi in “clandestini”, con il conseguente ordine alla marina militare di bloc-
care i loro battelli.’ In queste due premesse si manifesta un’assoluta sintonia tra la costruzione mediale del pericolo albanese e l’azione del governo. O meglio, il governo appare del tutto subordinato alla versione della realtà costruita dai media. La morte in mare dei profughi albanesi non è che un risultato, più cruento e vistoso di altri, di quella “tautologia della paura” che in questo libro abbiamo già visto diverse volte all’opera. L'analisi della stampa italiana nei primi mesi del primavera del 1997 mostra come, con pochissime eccezioni,” tutti i principali quoti-
diani nazionali abbiano condiviso la stessa immagine paranoica della questione albanese, a partire dalla rappresentazione dell'Albania come un bubbone infetto dal virus comunista. Dal Perù si scomoda Mario Vargas Llosa che, pur ammettendo di “non aver mai messo piede in Albania”, non ha dubbi: “La tragedia dell'Albania [...] non è iniziata con la truffa delle banche. Ciò a cui stiamo assistendo non è nient'altro che lo scoppio di una pustola riempita di pus da decenni di dispotismo e di oppressione”.? Un bubbone o pustola che si gonfia con la crisi del governo di Berisha e la dissoluzione dello stato albanese ed esplode infettandoci quando i suoi virus, i profughi, cominciano a toccare i nostri porti. Per dare un’idea del ruolo dei media nella crisi che si concluderà con l’affondamento (e per non tediare i lettori con citazioni troppo dettagliate di una prosa che, a dispetto delle differenze politiche e di altro tipo dei quotidiani, è sostanzialmente uniforme), mi limito a riportare i titoli più significativi della stampa italiana nelle due settimane che precedono la tragedia del 29 marzo 1997: 14 marzo È GUERRA
CIVILE, FUGA
DALL’ALBANIA,
PRESE D’ASSALTO
LE COSTE
ITALIANE
(“l'Unità”). 15 marzo
LA MAFIA PUGLIESE ARRUOLA PROFUGHI
(“Il Giornale”); L’INVASIONE DEI
DISPERATI (“la Repubblica”); L’ITALIA È INVASA DA UN POPOLO IN FUGA (“la Repubblica”).
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16 marzo
EMERGENZA PROFUGHI. È ORMAI UN ESODO: ARRIVA ANCHE UNA NAVE CARICA DI BAMBINI. SBARCANO A MIGLIAIA, CHIUSO IL PORTO DI BRINDISI (“la Repubblica”); PROFUGHI, NON C'È PIÙ POSTO. SONO A MIGLIAIA, 50 BAMBINI FUGGITI SU UNA NAVE DA GUERRA (“la Repubblica”). 18 marzo
VIGNA: MASSIMA ALLERTA CONTRO IL RISCHIO DI UN’INVASIONE CRIMINALE (“Corriere della sera”); RISCHIO PROFUGHI ALBANESI PER LE SECONDE CASE. COMINCIANO LE FUGHE DAI CAMPI DI RACCOLTA E SI TEME CHE GLI SBANDATI OCCUPINO LE ABITAZIONI VUOTE DEL LITORALE ADRIATICO (“Il Giornale”); UNA MAREA DI PROFUGHI IN PUGLIA. RAGGIUNTA LA QUOTA DI 9000, È EMERGENZA (“l'Unità”). 19 marzo
I VERI DISPERATI SONO QUELLI DEL ’91. SEI ANNI FA DALLE NAVI SBARCARONO FAMIGLIE ALLA FAME, OGGI SBANDATI CON TANTO DI TELEFONINO. UN RISTORATORE RACCONTA: “ALLORA MERITAVANO PANE, OGGI QUALCHE LEGNATA” (“Il Giornale”); USANO I BIMBI COME PASSAPORTI. MOLTI ALBANESI SI PORTANO DIETRO ORFANELLI PER OTTENERE PIÙ FACILMENTE IL VISTO (“Il Giornale”); GLI ALBERGATORI: O I PROFUGHI O I TURISTI (“la Repubblica”); QUATTRO ADOLESCENTI GIUNGONO A TERMINI LACERI E AFFAMATI. SONO LE PRIME AVVISAGLIE DI UN'ONDATA INARRESTABILE (“Mattina”, supplemento
romano de “l’Unità”); PROFUGHI E BANDE DI CRIMINALI (“Il Messaggero”); PROFUGHI, ALLARME CRIMINALITÀ (“La Stampa”); ALLARME CRIMINALI ALBANESI (“Il Gazzettino di Venezia”). 24 marzo
VIGNA A DEL TURCO. “SÌ, LA CRIMINALITÀ SI È INFILTRATA” (“Corriere della sera”). »”
25 marzo
BLOCCO NAVALE PER FERMARE GLI ALBANESI. SCATTA LA LINEA DURA. VANNO RESPINTI PERCHÉ SONO IMMIGRATI CLANDESTINI (“la Repubblica”). 29 marzo
SI CAPOVOLGE UNA NAVE DI ALBANESI. L’IMBARCAZIONE ERA TRAINATA DA UN’UNITÀ DELLA MARINA VERSO LE COSTE PUGLIESI (“l'Unità”).
Solo poche parole di commento a questi titoli. Si noterà come quotidiani di diverso orientamento politico, grandi e piccoli, nazionali e locali, condividano le stesse retoriche, lo stesso linguaggio a sensazione e soprattutto lo stesso allarmismo, divenuto parossistico il 19 mar-
zo, giorno che precede la trasformazione, mediante un decreto del go190
verno, dei profughi in clandestini. Un’uniformità che corrisponde perfettamente ai contenuti delle cronache e ai commenti che riempiono le pagine interne. Riportiamo di seguito poche righe di Alberto Arbasi» che sintetizzano l’intera campagna di stampa sull'emergenza criminale: Ospiti balcanici che si presentano in compagnia dei Kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta dal comunismo [...]. Ospiti che sistemano valige di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui “viali del vizio”, sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori [...]. Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa [...].?°
È superfluo aggiungere che mai, durante tutta la crisi e fino alle espulsioni del settembre 1997, verranno date prove consistenti di tutto ciò che si attribuisce agli albanesi (che usino i loro bimbi come “scudi umani”, che tra loro si siano infiltrati in massa carcerati ed ex delin-
quenti eccetera). Le prove vengono costruite ad hoc nei resoconti della stampa secondo procedure già note: titoli a effetto, ricorso agli stereotipi più volgari, distorsione o esagerazione di particolari insignificanti per confermare gli stereotipi e così via. In questo quadro tutto è lecito, anche i dettagli fantasiosi e inverosimili (come quello, riportato sotto, dei mitra “che galleggiano nel porto”). ALLARME BANDITI
Hanno le facce cotte dal sole e segnate da rughe precoci, facce di contadini poveri dallo sguardo astuto. I maglioni stinti puzzano di stallatico. [...] I criminali fuggiti dalle carceri di Valona vengono dal passato.[...] ieri mattina sulle acque di San Cataldo galleggiavano i Kalashnikov, gettati dalla nave all’arrivo di un’unità del battaglione San Marco.”
Non è il caso di insistere con esempi di uno stile (adottato da pressoché tutta la stampa quotidiana) che avrebbe fatto arrossire Eugène
Sue, e da cui traspare un disprezzo assoluto per esseri umani che, a seconda delle inclinazioni di cronisti e osservatori, sono descritti come
bestie impaurite o assassini virtuali. Resta il fatto che i 15.000 albanesi giunti in Italia nel marzo del 1997, grazie a questo etichettamento unanime, sono destituiti ancora una volta di parvenza umana, non possono accampare alcun diritto e costituiscono esclusivamente il To
pretesto perché l’Italia profonda dia voce alla sue ossessioni: la Lega chiama i propri sindaci alla resistenza contro gli albanesi, gli operatori turistici della Riviera protestano contro un asilo che rovinerebbe il turismo estivo, altri sindaci della Romagna propongono di accettare donne e bambini albanesi perché “inoffensivi”, ma di respingere i maschi eccetera. Dopo una vicenda, in cui le vittime, sotto ogni punto di vista, sono
state esclusivamente albanesi, solo il volontariato propone senza successo di rivedere una politica di rifiuto programmatico dei profughi. L’annegamento di novanta innocenti, un fatto di cui una società civile e una moderna democrazia dovrebbero vergognarsi profondamente, diviene l'occasione per uno stucchevole dibattito sulla “bontà” degli italiani, mentre le istituzioni non sanno far di meglio che cavillare sulla definizione giuridica dell’intervento della marina. Ecco alcuni passaggi di una trasmissione televisiva del 1 aprile 1997, due giorni dopo l'affondamento della nave albanese: Gad Lerner — Monsignor Di Liegro: lei pensa che, di per sé, il pattugliamento, l’idea stessa di dissuadere lì, in mezzo al mare, dal venire in Italia,
possa essere già una causa del rischio, fosse già una cosa da evitarsi, o [...]. Luigi di Liegro* — Ma, credo che il volontariato è stato unanime nel solidarizzare con una voce molto importante a livello internazionale: quella delAlto commissariato per i rifugiati [...] delle Nazioni unite. Cioè: questo cordone, così, navale, certamente impediva a quanti volevano venire in Italia per chiedere rifugio, per lo meno umanitario, impediva di realizzare questo desiderio, questa aspirazione [...].
Ammiraglio Angelo Mariani -° Non ho per nulla condiviso quello che ha detto il commissario dell'Onu. Lui ha parlato di blocco [...]. Lerner — Ha detto che di fatto questa forma di pattugliamento somiglia molto a un blocco. Mariani Io credo che abbia completamente sbagliato. Lerner — Perché? Mariani — Il blocco è un atto di guerra tra paesi nemici, è un atto che si applica con un’azione di forza e [...] contro la volontà di un governo. Questo pattugliamento è il risultato di una collaborazione che due paesi amici, come l’Italia e l’Albania, hanno deciso di mettere in atto per prevenire delle azioni illegali e per evitare che della gente si metta in pericolo."
In breve, l’annegamento di donne e bambini (causati da un “pattugliamento” che aveva lo scopo di evitare “che della gente si mettesse in pericolo”) è solo un incidente di percorso che non ha gran peso rispetto alla “minaccia” albanese. Come si è già notato a proposito della
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macchina della paura, che entra in funzione davanti a qualsiasi “emergenza immigrazione”, si tratta di una reazione assolutamente irrazio-
nale rispetto alle dimensioni e alla natura del fenomeno. Eppure, benché irrazionale, la reazione non è priva di buone ragioni. Liquidare i profughi come “clandestini”, allestire per una parte di quelli che riescono a filtrare dei campi di internamento, mobilitare carabinieri e polizia per contenere questi nuovi meteci, costa evidentemente meno — in
termini di intelligenza politica e progettuale — che avviare delle procedure e dei servizi di accoglienza e di integrazione sociale e civile. Ma, soprattutto, permette di ridefinire le relazioni tra un paese sviluppato e uno povero in termini economicamente vantaggiosi. Uno sguardo alle relazioni tra Italia e Albania prima della crisi del marzo 1997 permetterà di cogliere alcune ricadute positive, economiche e geopolitiche, del panico da invasione.
Fatti nostri Il 4 febbraio 1997, il giornalista Gad Lerner dedica una puntata del suo fortunato programma televisivo “Pinocchio” alle imprese italiane operanti in Albania. Il titolo della puntata, Tirara, Italia (trasmessa
dalla capitale albanese) non potrebbe essere più appropriato. Davanti a una platea di imprenditori staltani euforici e di operaie albanesi silenziose, Lerner, il sindaco di Napoli Bassolino, un esponente del go-
verno di Tirana, un sindacalista e altri invitati (tra cui il deputato della Lega Borghezio, animatore di ronde contro gli “extracomunitari” e noto per aver proposto tempo addietro di schedare i piedi degli “immigrati clandestini”) discutono per circa due ore delle prospettive economiche della piccola impresa ztaliana in Albania, delle pastoie burocratiche e dell’insopportabile costo del lavoro che strangolano le imprese in Italia, della disoccupazione nel Sud d’Italia. Si apprende così che un’operaia albanese del settore calzaturiero costa poco più di 120 dollari” al mese al suo datore di lavoro italiano (contro i 2000 dollari di un lavoratore 17 Italia), che l’impresa italiana ha trovato in Albania il suo Eldorado, o meglio il suo Estremo Oriente, e che i nostri piccoli
imprenditori gradirebbero che anche i salari italiari fossero competitivi con quelli albanesi. Coerentemente con il titolo della puntata, quasi nessuno parla della situazione sociale albanese e di ciò che attrae i nostri piccoli imprenditori. Solo una religiosa operante nel volontariato
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nota che i salari sono bassi arche per l'Albania e allude alla durezza delle condizioni di lavoro imposte alle giovani operaie. Due mesi prima del tracollo di Berisha, dell’“invasione di clandestini e delinquenti” e dell’affondamento del battello albanese (fatti che terranno banco nelle prime pagine dei quotidiani italiani tra il febbraio e l’aprile del 1997 e in altre due puntate di “Pinocchio”), Tirana è dunque “italiana”. Il piccolo paese, uscito dal regime di Hoxha e di Alia, beneficiato dalla generosità italiana (operazione “Pellicano” del 1993), illuminato in ogni senso da Rai e Fininvest, sta diventando un
protettorato italiano: politico (ministri che volano a Tirana per stipulare accordi per la lotta contro la delinquenza e i “clandestini”), economico (600 imprese attive) e culturale (un nostro deputato, nella stessa puntata di “Pinocchio”, lamenta che lo stato italiano non sia abbastan-
za generoso con la biblioteca dell’Istituto italiano di cultura, dato che gli albanesi sono “affamati” dei nostri libri). Insomma, proprio mentre si appresta a entrare a pieno titolo nel Club Europa, l’Italia sembra finalmente disporre della sua zona di influenza geoeconomica, geopolitica e geoculturale. Anche quando l’idillio finisce in tragedia, è scontato che l Albania sia un “nostro problema”. A/barza, emergenza italiana è il titolo del fascicolo che la rivista di geopolitica “Limes” dedica alla crisi del regime di Berisha qualche giorno dopo l’affondamento della Kater I Rades.® Non erano necessarie però analisi geopolitiche perché si creasse un
immediato e generale consenso sul fatto che la crisi in Albania era ed è un problema soprattutto italiano, e solo incidentalmente albanese. Appena si diffonde la notizia, i primi giorni del febbraio 1997, che gli abitanti di diverse città stanno insorgendo contro il governo di Berisha, accusato di aver coperto le società finanziarie che hanno organizzato le cosiddette “piramidi”, la crisi albanese viene immediatamente declina-
ta in chiave italiana: “Un desiderio di morte, dunque, con il quale non solo l'Albania, ma anche l'Europa e soprattutto l’Italia [...] si troveranno a fare i conti”, avverte pessimisticamente un editoriale de “la Re-
pubblica”, il 12 febbraio 1997. Per quasi tutto il mese di marzo gli editoriali dei grandi quotidiani italiani insistono sul tema. Paolo Garimberti parla di Europa disarmata.* Enzo Bettiza esige Mano ferma nei Balcani.* Coerentemente con la sua sensibilità nordista, “Il Giornale”
del 6 marzo lancia l’allarme: “A rischio i dati del catasto veneto” (l’elaborazione di questo importante documento era stata affidata a una ditta albanese). Franco Venturini ribadisce che si tratta di Affari nostri.® In Quando arrivano i nostri, Enzo Biagi discute la possibilità di un intervento militare.‘ Un problema italiano è intitolato un editoriale di 194
Sergio Romano, in cui l’ex ambasciatore ha, se non altro, il merito di
andare al cuore della questione: Ne faranno le spese [del tracollo del regime di Berisha] gli operatori italiani che si sono trasferiti in Albania per utilizzare la manodopera locale e produrre le merci a buon mercato. Ne farà le spese la legge sull’immigrazione, destinata a essere travolta dai clandestini che cercheranno lavori leciti o illeciti di qua dall’ Adriatico.”
Di fronte a una lettura esclusivamente domestica della tragedia che si stava consumando a poche decine di chilometri dalle nostre coste, viene spontanea la tentazione di parlare di neocolonialismo, anche se questo termine può sembrare improprio. In effetti, nell'intero periodo della grande crisi, tra l’inizio della rivolta e le elezioni di giugno, per le
strade delle città albanesi non si sono viste parate di truppe coloniali, ma prima i vecchi furgoni della polizia donati dall'Italia al governo “amico”, e poi i mezzi cingolati della missione di pace Onu coordinata dagli italiani. D'altronde, si sa che il colonialismo è tramontato da decenni. Eppure, nonostante questo, è difficile dissipare il sospetto che una nuova forma di dominio sia imposta di fatto dal Nord ricco e potente del mondo ai paesi poveri che lo “assediano” a sud e a est. Un dominio che non ha bisogno di alcuna retorica coloniale, ma che ricorre a ogni strumento economico, politico e militare per tenere in soggezione gli affamati e i poveri troppo vicini a noi. Un tempo, all’epoca d’oro del colonialismo, il dominio veniva eser-
citato inviando cannoniere e truppe di marina oltremare, deponendo reucci o sultani (come nel film Il vento e il leone) e annettendosi territori. In cambio, le popolazioni assoggettate ricevevano qualche tipo di amministrazione occidentale, venivano talvolta costrette ad abbando-
nare l’economia di sussistenza per godere i vantaggi della modernizzazione, ed erano ammesse al privilegio di fornire truppe per le guerre europee e mondiali.” Il colonialismo, oggi irreparabilmente fuori moda, si basava sul presupposto che i nativi, spremuti nelle colonie, dovessero essere integrati in un sistema imperiale territoriale. Ciò com-
portava la dislocazione di civili e militari, il mantenimento di costosi apparati amministrativi oltremare, l’elargizione di limitati benefici alle élite”! D'altra parte, la decolonizzazione, che solitamente viene presentata come un prodotto della generosità occidentale, è costata milio-
ni di morti ai colonizzati e il declino politico all'Europa. Per decenni, inoltre, gli stati europei hanno dovuto gestire i contraccolpi del riflusso coloniale, occuparsi degli ex colonizzati che pretendevano la natu195
ralizzazione,? sostenere i governi locali che continuavano a difendere gli interessi europei sotto le spoglie dell’indipendenza (si pensi soltanto alla storia del Congo, del Ruanda e del Burundi, che si è trascinata fra massacri e genocidi fino ai giorni nostri). Oggi, tutte queste pene ci sono risparmiate. Tramontato il colonialismo politico, non c’è stato europeo che si sogni di sprecare risorse per mantenere truppe in terre lontane (escludendo ovviamente le missioni di pace). Il ruolo di benefattori ed educatori, il “fardello dell’uomo bianco” di Kipling," è assunto dagli imprenditori, a patto però che i beneficati accettino salari sempre più bassi e che i loro governi non si occupino di questioni illiberali come le relazioni sindacali o i diritti dei lavoratori. Questo concetto è ribadito da un imprenditore italiano attivo in Albania nella citata puntata di “Pinocchio”: Gad Lerner [rivolto a un imprenditore italiano in collegamento da Tricase (Lecce), che possedeva, all’epoca della trasmissione, una fabbrica di tomaie in Albania] — Ecco, ma, mi spieghi una cosa [...]: l'Albania resta conveniente per voi, oppure diventa cara, quando — come spiegava prima un
vostro collega imprenditore — cresce il tenore di vita, crescono anche gli stipendi, non è che voi scapperete di nuovo in altro paese, più a est ancora? Imprenditore — Signor Lerner, nel mondo si può avere del lavoro, o si può fare quel lavoro che facciamo in Albania, che costa ancora di meno. Ecco:
lei ne tragga delle conclusioni. Può costare — può costare di — costa di meno, non può costare: costa di meno!
Lerner E lei infatti è già andato anche in India, se non sbaglio. Imprenditore — Esatto! E se domani l Albania non è più competitiva, naturalmente ci spostiamo in India, ci possiamo spostare in Ruanda, dove lì c'è bisogno di far mangiare tanta gente, per esempio.”
Naturalmente non si può pretendere che, oltre a condizioni produttive così invitanti, siano sempre disponibili governi compiacenti e polizie risolute come a Singapore, in India, Indonesia o Tailandia. Spesso la forza-lavoro è abbondante e a buon mercato in contrade turbolente e insicure. In questo caso, come appunto l'Albania, gli imprenditori sono costretti ad agire: Lionello Polesel, imprenditore veneto purosangue. È appaltatore di un tratto dell'acquedotto finanziato dalla Banca mondiale degli investimenti e quando all’inizio di marzo tutta l'Albania si è armata e sono cominciati i saccheggi, ha assunto 20 energumeni armatissimi per la guardia ai cantieri e la scorta a lui. Ottocento dollari al mese ciascuno (gli operai dell’acquedotto ne prendevano 150). Il 12 aprile, quando le navi [della missione di pace
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italiana] stavano per mollare gli ormeggi di Brindisi, ha licenziato tutti. Troppo facile. Lo hanno sequestrato, spiegandogli per due giorni che loro dovevano essere pagati fino a maggio. Perché? Perché sì.”
I mezzi di informazione hanno riportato, a partire dal febbraio 1997, numerosi casi di imprenditori che praticavano l’autodifesa armata, come se fosse una cosa ovvia. Nel giugno del 1997, un italiano uccide, senza conseguenze giudiziarie, tre albanesi che tentavano di
assalire la sua fabbrica. Per apprezzare nel suo giusto rilievo questo spirito di iniziativa proviamo a immaginare un imprenditore americano o tedesco che assoldi una milizia privata in Sardegna per proteggersi dall’Anonima sequestri. È vero che la polizia di Berisha si era dissolta, ma pochi hanno sollevato dei dubbi sulla legittimità di queste iniziative (come pure sul fatto che un organismo finanziario internazionale, appalti opere pubbliche a imprenditori così disinvolti senza controllare i salari e le condizioni di lavoro). Poiché gli imprenditori dicono di portare lo sviluppo, tutto sembra permesso. L'aspetto interessante di questa cultura imprenditoriale dell’autodifesa è l’ovvietà con cui viene presentata. La questione emerge clamorosamente nella seconda puntata di “Pinocchio” dedicata all’emergenza-Albania, trasmessa da Brindisi il 18 marzo 1997. La strana “guerra civile” albanese ha già toccato il suo apice, gli sbarchi di “clandestini” (cioè di profughi) in Italia si susseguono (più di 8000, al momento della trasmissione). Nella puntata, in cui sono presenti alcuni imprenditori, due sottosegretari agli esteri (Fassino e Sinisi) e altri invitati, si discute soprattutto del controllo dei clandestini. Incidentalmente, si parla anche dell’autodifesa delle fabbriche italiane in Albania: Lerner [rivolto a un imprenditore italiano] — La sua fabbrica [...] cos'è? Imprenditore — Noi abbiamo delle aziende a Scutari, in Albania [...]. Lerner — A Scutari. Qual è la situazione della sua fabbrica?
Imprenditore — La situazione è [...] una è stata completamente assaltata e svuotata di tutto, comprese finestre, piastrelle dei bagni, porte [...] tutto. Lerner — Quindi lei ha perso questa azienda. Imprenditore — Ho perso questa azienda. Una seconda azienda, invece, agroindustriale, siamo riusciti a fare degli accordi con dei privati e [...] la stiamo difendendo [...] giorno per giorno. Lerner — Cosa vuol dire “difenderla”? Dovete a vostra volta assoldare degli uomini armati? Imprenditore — Assoldare degli uomini armati che sono dentro [...]
Lerner — Che magari sono dei poco di buono, mi scusi se glielo dico [...] Imprenditore — Può darsi, non lo so; comunque, sono lì, insieme con i no-
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stri responsabili — perché le maestranze stanno tentando di difenderle, le aziende. E viviamo. Lerner — Quindi c’è una situazione tipo [...] ehm [...] ‘43 in Italia: gli operai che difendono le loro fabbriche [...]. Aloisi— [...] le loro aziende, esatto. Da queste orde di [...] cavallette.”
Curiosa situazione quella degli attori economici che si fanno difendere proprio dalle bande che li minacciano. Si scopre così, grazie alla loro sincerità che, in assenza di uno stato, gli imprenditori non esitavano a farsi stato, se necessario. Ma che cosa difendevano, oltre alle loro “proprietà”? E che ne pensavano gli albanesi? Chi erano gli assalitori?
Tutti spietati criminali, oppure gente affamata che cercava di procurarsi qualcosa nel generale disfacimento (“cavallette”, appunto)? E difficile rispondere, perché raramente abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare la voce degli albanesi (operai e operaie, difensori delle fabbriche, “cavallette” o membri delle bande). Tutta la questione delle relazioni tra Italia e Albania è stata declinata in termini criminali, e quindi dal punto di vista della difesa naturale degli interessi italiani: là (assalti delle bande alle rostre fabbriche) e qui da noi (sbarchi di clandestini sulle rostre spiagge, rapporti tra la loro criminalità organizzata e la nostra). Raramente, si è aperto qualche squarcio su ciò che avveniva “laggiù” dal punto di vista degli albanesi che si vedevano improvvisamente coinvolti nella nostra disinvolta economia. Uno spiraglio in questa cortina si è aperto (per essere prontamente richiuso) proprio
nella seconda puntata di “Pinocchio”: Lerner— Allora [...] lei è un altro albanese? Ragazzo albanese — Sì, io sono un altro ragazzo albanese [....]. Lerner — [...] e questo stemma significa che ormai siete volontari, qua in Italia, vero?
Ragazzo albanese — Sì. Noi [...] io sto da sei anni qui in Italia, e faccio parte del volontariato [...] di Otranto. Ecco, io vorrei dire soltanto una cosa, a questo signore qua che dice che qua vengono pure i mafiosi, e questa gente qua: ir Albania io, ogni volta che vado — to, personalmente — vedo sempre gli italiani, gli italiani che girano con le tasche piene di soldi, che lì fanno i soldi sopra questa gente povera; e dobbiamo guardarci tutti sotto l'occhio di Dio, perché la verità fa male a tutti, qua.
Lerner — Cataldo Motta [sostituto procuratore della Direzione investigativa antimafia di Brindisi], questa è una cosa interessante, che ha detto questo giovane albanese: è vero che ci sono molti malavitosi italiani che organizzano dall’altra parte dell'Adriatico, a ottanta chilometri da qui, anche la sedizione, i disordini? Motta — Ma, di questo non abbiamo [...] non abbiamo prove, non abbia-
198
mo elementi per poter affermare questo [...]. Fra l’altro bo l'impressione che quel signore si riferisse a qualche altro tipo di persone, che si procurano il denaro in modo diverso; si parlava di uno sfruttamento: io ho l'impressione che non facesse riferimento a una saldatura tra la nostra criminalità e la criminalità albanese.
Sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche italiane, sullo “sfrutta-
mento” di cui parla candidamente il giovane albanese non è dato, a tutt'oggi, sapere molto. Comunque sia, l'emergenza, a cui gli imprenditori italiani hanno cercato di rispondere individualmente, è stata superata. Nello stesso momento in cui le vite degli occidentali sembravano in pericolo, gli italiani (e poi gli americani e gli inglesi) non hanno perso tempo e hanno inviato squadre di soccorso. Sembra tuttavia che le operazioni non siano state così improvvisate e indolori come i reportage televisivi hanno fatto intendere. Un esperto di cose militari ci svela ciò che il grande pubblico ha ignorato: QUELLO CHE IL TELEGIORNALE
NON DICE: LE OPERAZIONI
MILITARI SEGRETE
IN ALBANIA
Il repentino aggravarsi della crisi in Albania non ha colto di sorpresa i comandi militari e i servizi di sicurezza occidentali, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. Già da tempo ad esempio agenti dei servizi di sicurezza operavano in Albania nel duplice sforzo di seguire l'evoluzione della situazione politica e di preparare il terreno per un’eventuale operazione di evacuazione dei propri concittadini. Quando ormai la situazione degenerava sono stati infiltrati piccoli gruppi di membri delle forze speciali che avevano lo specifico compito di individuare le zone di atterraggio degli elicotteri [...]. Oltre il ruolo di pathfinders, questi nuclei hanno svolto anche diverse missioni covert. [...] n Essendo Brindisi la sede del comando Nato per le operazioni speciali in Bosnia, nell’aeroporto italiano erano schierati da anni elicotteri e aerei particolari, oltre naturalmente agli uomini delle operazioni speciali. Ur po’ a tutti è capitato di finire sotto ilfuoco e in tutte le occasioni la reazione è stata tale da neutralizzare rapidamente (leggasi eliminare) gli aggressori o da costringerli a desistere e cercare riparo.”
Dopo ciò che è emerso circa la missione Onu in Somalia, non saremo così candidi da meravigliarci se qualche giovane albanese scapestrato o “energumeno armatissimo” è stato “neutralizzato” (“leggasi eliminato”) in questo impatto con le forze di pace. Meraviglia di più che non si colleghino fatti così vicini come l’autodifesa degli imprenditori e le operazioni covert in Albania. A un imprenditore italiano è consentito nei fatti assoldare dei mercenari locali così come alle nostre 199
truppe è lecito “neutralizzarli” quando questi non sono al servizio dei nostri imprenditori. L'idea di fondo che legittima questo stile particolare nelle relazioni internazionali è che “noi” possiamo fare tutto quello che vogliamo in casa “loro” per promuovere o difendere i “nostri” interessi e che “loro” devono semplicemente collaborare. Un’idea che non può essere proclamata pubblicamente, ma che è talmente potente da guidare scelte politiche, strategie militari, programmi economici, politiche demografiche e dell’immigrazione e perfino influenzare gli spettacoli televisivi più popolari. Forse qualcuno si ricorda di quel programma di quiz (“Qual è lo straniero più italianizzato?”) in cui Pippo Baudo chiedeva a un albanese, bendato con una fascia tricolore, di indovinare quale fosse la specialità italiana che gli veniva fatta assaggiare.”
Le relazioni che l’Italia intrattiene con l’Albania a partire dal 1990, quando per la prima volta sono arrivati i profughi sulle coste pugliesi, si possono dunque definire con una sola espressione, “fatti nostri”. Talmente nostri che si dà per scontato non solo che gli albanesi siano felici di lavorare per noi in Albania, ma con i loro salari, e di accettare
le nostre milizie pubbliche e private, ma anche di italianizzarsi parlando “naturalmente” la nostra lingua e apprezzando la nostra cucina. L'Albania, in breve, oltre che essere un protettorato politico, economi-
co e culturale più o meno potenziale, è di fatto inclusa nell’immaginario quotidiano come un “nostro” problema sociale e di ordine pubblico, al pari di qualsiasi altra periferia degradata o zona sottosviluppata del nostro paese. C'è però una differenza sostanziale. Diversamente dai “terroni” negli anni sessanta o dai meridionali di oggi per una certa opinione pubblica a nord degli Appennini, non siamo costretti a considerare gli abitanti dell’ Albania come concittadini, e quindi a “tenerceli”, ma possiamo liberarcene, dato che non hanno la nazionalità italiana. I 15.000
profughi (o “immigrati clandestini”) arrivati nel marzo 1997 devono andarsene: il 6 luglio 1997 il governo italiano dichiara di essere disponibile a versare loro un “bonus” di uscita di 300.000 lire. La speranza insomma è che questi pezzenti la smettano di costituire un problema nostro a casa-nostra ma cerchino di esserlo a casa loro, con tutti i van-
taggi economici, politici e culturali di cui si parlava sopra. In questo senso l'Albania, proprio perché nostra dirimpettaia, sintetizza l’idea che le società ricche del mondo stanno elaborando circa i vicini poveri a portata di mano.
200
Note 1 2
“Il Giornale”, 15 agosto 1991. Si veda per esempio G. Zincone, La nuova grande trasformazione e i suoi effetti sul-
la gente comune, “il Mulino”, 1, 1998, che comunque inserisce la questione delle migrazioni nel contesto dell'economia mondiale e della globalizzazione. Per una sintesi di queste e analoghe posizioni, F. Belvisi, I/ diritto d'asilo tra garanzia dei diritti dell'uomo e immigrazione nell'Europa comunitaria, cit.; e Id., Il diritto di immigrazione come diritto sovranazionale, “Democrazia e diritto”, 1, 1997.
Cfr. qui il cap. 1, nota 73. Su questa retorica dura a morire cfr. D. Bidussa, I/ 725t0 del bravo italiano, il Saggiatore, Milano 1994.
Una delle illustrazioni più efficaci di questa rimozione è I. Kadaté, I/ generale dell’armata morta, Longanesi, Milano 1982, storia di un alto ufficiale italiano che si re-
ca in Albania nel dopoguerra per ritrovare le salme dei caduti italiani. Le presenti considerazioni si inseriscono nell’ampio dibattito internazionale sulla persistenza di un orizzonte culturale ed epistemico colonialista nell'epoca del cosiddetto postcolonialismo. Cfr. G. Prakash, a cura di, After Colonialism. Imperial Histories and Postcolonial Displacements, Princeton University Press, Princeton 1995; R. Wei-
mann, a cura di, Rarder der Moderne. Reprisentation und Alteritàt im (post)kolonialen Diskurs, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993; P. Weibel, S. Zizek, a cura di, Ink-
lusion/Exklusion. Probleme des Postkolonialismus und der globalen Migration, Passagen Verlag, Wien 1997. N. Caracciolo, L'Albania dal Duce a Prodi, videocassetta distribuita come supplemento de “L'Espresso”, marzo 1997. La videocassetta, realizzata in collaborazione tra la Rai e l’Istituto Luce, contiene, oltre a brevi filmati del 1990 e del 1997, cine-
giornali d’epoca fascista. Il re Zogu aveva conquistato il potere nel 1924 con il sostegno dell’Italia. L'Albania era già un protettorato di fatto dell’Italia al momento dell’annessione. Trascrizione mia da L'Albania dal duce a Prodi, cit.
Forse per questi trascorsi il rampollo di Zogu, l’improbabile pretendente al trono albanese Leka, è stato presentato dalle riviste popolari italiane come “Sua Maestà il re d'Albania”. 10 L'Albania dal Duce a Prodi, cit. 11 A. Vehbiu e R. Devole, La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass media,
Paoline Editoriali, Milano 1996, pp. 21 sgg. 12 Per un resoconto apologetico del ruolo dei mass media italiani nel “risveglio” dell'Albania, cfr. P. Dorfles, a cura di, Guardando all'Italia. Influenza delle Tv e delle
radio italiane sull'esodo degli albanesi, Rai — Segreteria del Consiglio d’Amministrazione, Roma (s.d.).
13 14 15
L'Albania dal Duce a Prodi, cit. “La Stampa”, 12 luglio 1990, citato in A. Vehbiu e R. Devole, cit., p. 47. G. Bocca, “la Repubblica”, 10 marzo 1991, citato in A. Vehblu e R. Devole, cit., p.
48. Non è mia intenzione fare facili ironie su profezie che sarebbero state clamoro-
201
samente smentite dopo poco tempo. Il problema è che in queste considerazioni riemerge l’antica retorica del “mare nostrum”, c'è il sapore della “Dalmazia italiana”,
delle “antiche sponde”. Ma il discorso si deve allargare a tutta la retorica del “nostro Mediterraneo”, delle radici culturali dei nostri “interessi vitali” e così via. 16 “Corriere della sera”, 7 marzo 1991. Già allora si poteva sospettare che l'Islam non
avesse nulla a che fare con la fuga dall’Albania, paese notoriamente plurireligioso (cfr. R. Morozzo della Rocca, Nazione e religione in Albania (1920-1944), il Mulino,
Bologna 1990). 17 Cfr. “l'Europeo”, 12 marzo 1991. 18 A. Vehbiu e R. Devole, cit., pp. 57 sgg. IO) N. Carnimeo, Svizzera dei Balcani o Colombia d'Europa?, “Quaderni speciali di Limes”, marzo 1997, pp. 67 sgg. 20 In questo senso bisognerebbe correggere l’immagine (G. Zincone, La nuova grande
trasformazione e i suoi effetti sulla gente comune, cit.) secondo cui la circolazione degli uomini nella globalizzazione è limitata, mentre quella delle merci è libera. In realtà noi possiamo circolare con una certa libertà nei paesi non sviluppati, magari per promuoverne lo sviluppo. 21
Copertina di “Colors”, 2, estate 1992. La didascalia della copertina, in inglese e tedesco, recita: “L'immigrazione porta nuovo sangue, nuovo cibo, nuova musica, nuove parole, nuovi film, nuove concezioni del mondo, nuove possibilità romanti-
che e nuove scuse per parate... a un mondo vecchio”. Gli albanesi non possono che esserne soddisfatti. 22
Tavola rotonda. Le missioni di pace secondo i militari, “Limes”, 2, 1997, pp. 2902908
23 Per una descrizione di questo campo cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, cit., vol. I. 24
Sugli albanesi come folla primordiale cfr. A. Vehbiu, La nave della follia, “Derive e approdi”, 14, 1997, pp. 13 sgg.
25) Per una discussione della tipologia dei campi, cfr. G. Agamben, Horo sacer. Il po-
tere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; e AJ. Kaminski, I carzpi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino ISEHE
26 M. Augé, Non-luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmoderrnità, Eléuthera, Milano 1993. 2A
I campi di “permanenza temporanea?” istituiti in Italia, a partire dalla legge sull’immigrazione del febbraio 1998, non sono che una forma di razionalizzazione dell’internamento di Bari e di altri campi allestiti nel 1997 per gli albanesi.
28 R. Gorgoni, Una guerra inventata dai media?, “Quaderni speciali di Limes”, marzo
1997, pp. 87 sgg. Per una ricostruzione sintetica dell’emergenza-Albania, cfr. G. Sciortino, Novanta giorni all'alba. La gestione italiana della crisi albanese tra politica estera e allarme sociale, in L. Bardi e M. Rhodes, a cura di, Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 1998, il Mulino, Bologna 1998, pp. 243-264. 29 Nel marzo 1998, a un anno esatto dall’affondamento, la magistratura aprirà un
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procedimento per strage nei confronti degli ufficiali responsabili, senza suscitare particolari echi nell’opinione pubblica. 30 Solo il 5 aprile 1997 un esponente del governo, il vicepresidente del consiglio Vel-
troni, incontra una delegazione di familiari delle vittime. DI
E stato Marcello Veneziani, un giornalista di destra, a notare con soddisfazione su “Il Giornale”, a proposito della visita di Berlusconi, che, in presenza di un centrosinistra che ha sposato la cultura della repressione, la destra ha imboccato quella del populismo.
32
Devo a M. Maneri (Lo stranzero consensuale, cit.) questi concetti, che qui applico a un caso empirico diverso.
Db
Cfr. il decreto del 20 marzo 1997, n. 60, che conferisce poteri speciali al ministro
degli interni e autorizza prefetti e questori a espellere ogni straniero ritenuto a loro giudizio indesiderabile. Questo decreto era stato preceduto da numerose dichiarazioni di membri del governo sul fatto che gli albanesi non dovevano essere più considerati profughi ma “clandestini”. Tra i quotidiani a diffusione nazionale solo “il manifesto” contrasta la criminalizzazione degli albanesi e anzi dedica grande spazio all’analisi della stampa italiana. La barbarie sempre in agguato, “la Repubblica”, 26 marzo 1997. A. Arbasino, Ma armati di mitra, “la Repubblica”, 15 marzo 1997.
“La Stampa”.
Monsignor Luigi di Liegro, oggi scomparso, era il più noto esponente della Caritas Italiana. Capo di stato maggiore della Marina.
Trascrizione da “Pinocchio”, puntata del 1 aprile 1997. Il costo si intende ovviamente lordo. Nella stessa puntata, un imprenditore dichia-
ra che il salario netto pagato alle operaie albanesi è di circa 80 dollari, corrispondenti a circa 120.000 lire, al cambio del febbraio 1997. 42
Aa.Vv., Albania, emergenza italiana. Perché la crisi albanese? Come si ripercuote su
di noi? Che cosa possiamo fare per impedire l'esodo di un popolo e il caos nei Balcani?, “Quaderni speciali di Limes”, marzo 1997.
43 44 45 46 47 48
“la Repubblica”, 3 marzo 1997.
“La Stampa”, 4 marzo 1997.
“Corriere della sera”, 4 marzo 1997. “Corriere della sera”, 5 marzo 1997.
“La Stampa”, 2 marzo 1997.
Tutto il mondo si emoziona quando, il 1 luglio 1997, Union Jack è ammainata a Hong Kong, penultimo retaggio dell'impero britannico (i cui simboli, come i calzoncini e le pipe degli ufficiali o le cornamuse, resistono pateticamente solo a Gibilterra): S. Viola, L'ultima Union Jack assediata a Gibilterra, “la Repubblica”, 2 lu-
glio 1997.
49 Si veda Sbqipéria, numero speciale sull’Albania di “Derive e approdi”, 14, estate 1997
203
50 Nel complesso panorama
della decolonizzazione, l’Italia costituisce, al solito,
un'eccezione. Ultima venuta tra le potenze coloniali, l’Italia non solo mostrerà di praticare un dominio brutale (spinto fino al genocidio) su Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia (tra il 1880 e il 1945), ma di rimuovere con grande noncuranza il suo passato. È grazie alle opere fondamentali di storici come G. Rochat e soprattutto A. Del Boca (Gli italiani in Africa orientale. vol. 1. Dall’unità alla marcia su Roma; vol. I. La conquista dell'Impero; vol. m. La caduta dell'Impero; vol. Iv. Nostalgia delle colonie, Mondadori, Milano 1992; Id., Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d'amore 1860-1922, Mondadori, Milano 1993; Gti italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi,
Mondadori, Milano 1994) che il passato coloniale dell’Italia è riemerso, negli ultimi anni, in tutta la sua ferocia. Che io sappia, nessuno ha collegato questa storia disonorevole (e il razzismo italiano in sessant'anni di storia coloniale) all’atteggiamento verso i recenti immigrati. 5i Per una descrizione ancora suggestiva di questi processi, cfr. K.M. Panikkar, Sforza
della dominazione europea in Asia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1965. 52 Cfr. S. Naîr, Le regard des vainqueurs. Les enjeux francais de l’immigration, Grasset, Paris 1992.
53 C. Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, Strategia della lumaca, Roma 1995. 54 Un'eccellente raccolta delle sue storie coloniali è ora disponibile in R. Kipling, Rae conti anglo-indiani, Mondadori, Milano 1987.
55 Trascrizione di “Pinocchio”, 4 febbraio 1997. 56 “L'Espresso”, 24 aprile 1997, p. 56. 57 Trascrizione di “Pinocchio”, 18 marzo 1997. 58 Ibidem (corsivo mio). DI A. Nativi, I retroscena militari della crisi, “Quaderni speciali di Limes”, marzo
1997, pp.51-52.
60 Citato in A. Vehbiu e R. Devole, cit. 61 Come si è visto, la distinzione, istituita di colpo nel marzo 1997, è decisiva. 62 La notizia è riportata dai quotidiani del 7 luglio 1997.
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Non-persone To sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne e di ossa, fibre e umori, e si può persin dire che possegga un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera, io mi trovo come circondato da specchi deformanti di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quello che mi sta intorno, o se stessi, o delle in-
venzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me. (R. Ellison, Uorzo invisibile)!
Nel limbo Si consideri il seguente dialogo, che ho trascritto nel marzo del 1996, pochi giorni prima della scadenza dei termini per la regolarizzazione dei migranti irregolari fissata dal Decreto Dini. Un cittadino albanese presenta a un funzionario della questura di una città italiana la documentazione necessaria per essere regolarizzato: 205
Cittadino albanese — Ecco qui, ho tutti idocumenti [...]. Funzionario - Ti ho già detto che manca la ricevuta del versamento Inps. Perché non ce l’hai? C.A. — Perché il capo [il datore di lavoro italiano] non vuol pagare prima. F.- Guarda che così non la posso accettare. Ci vuole la ricevuta [....]. C.A. - [Leggermente agitato] — Io ho tutti i documenti a posto, perché non vanno bene? E - [Spazientito, dopo che il dialogo continua allo stesso modo per qualche minuto] — La devi smettere di rompermi [...]. O mi porti la ricevuta o la domanda te la riprendi. E se non la riporti completa entro il 31 sarai espulso.
Sono possibili diverse osservazioni su questo frammento di dialogo, a partire dall’uso generalizzato del “tu” con cui gli italiani, e specialmente i pubblici funzionari, si rivolgono solitamente agli immigrati. Qui mi preme notare però come un semplice documento, una ricevuta, possa decidere della vita di uno straniero, anche se questo non ha alcun
potere di procurarselo. All’epoca della regolarizzazione, i funzionari potevano essere cortesi o no con i richiedenti, la minaccia dell’espulsione poteva avere un seguito o no, ma in ogni caso lo straniero, dal momento stesso in cui perdeva la possibilità di presentare una domanda regolare, era “espellibile”.’ Egli entrava nel limbo di chi può essere rimosso dal territorio italiano perché “irregolare”, “clandestino”, “illegittimo” o “abusivo”. D'altra parte, anche una domanda regolare non consentiva allo straniero di uscire dal limbo. Poteva essere in regola con i documenti, lavorare e avere un libretto di lavoro, eppure la decisione finale sulla sua regolarizzazione spettava a un’autorità che decideva certamente in base alla documentazione, ma era anche influenza-
ta da circostanze politiche, dalle pressioni dell’opinione pubblica e dalla buona volontà o dalla sensibilità umana dei singoli funzionari. Teoricamente, in base al decreto Dini e a quello emanato il 20 marzo 1997
per arginare l’“invasione” albanese (nonché alla legge sull’immigrazione del 1998), uno straniero può essere espulso dall'Italia pur avendo un lavoro regolare (se per esempio è sospettato di qualche reato). In certi casi può aver lavorato per periodi troppo brevi per essere preso in con-
siderazione (è il caso dei lavoratori stagionali). Ma anche gli stranieri “regolarizzati” non possono attendersi granché dal futuro. La legge italiana non offre che permessi di soggiorno temporanei, scaduti i quali essi torneranno al punto di partenza, in quel gioco dell’oca che la nostra legislazione li ha costretti e li costringerà a giocare. Ovviamente, anche prima di presentare una domanda di regolarizzazione, lo straniero si trovava in una condizione di “irregolarità”. 206
Questo non gli impediva, presumibilmente, di avere un lavoro di qualche tipo, di vivere e di intrattenere quindi delle relazioni sociali, anche
se in una situazione di incertezza. Ora, questa condizione può cessare, indipendentemente dalla sua identità sociale, dal suo “chi è” di fatto. Detinisco i migranti che si vengono a trovare in tale condizione come non-persone. Sono vivi, conducono un'esistenza più o meno analoga a
quella dei nazionali (gli italiani che li circondano), ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continue-
ranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come “irregolari” o “clandestini”, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta. Che qualcuno passi (di fatto o virtualmente) dalla condizione di persona a quella di non-persona dovrebbe apparirci stupefacente. Se ciò non avviene, se la questione dell’espulsione degli stranieri interessa ben poco l’opinione pubblica, è perché noi cittadini liberi, cui nessuno può imporre un provvedimento di limitazione o di perdita della libertà (con l’eccezione della detenzione in seguito a una condanna penale), siamo resi miopi dal godimento dei nostri diritti. Supponiamo che uno di noi, un italiano, abbia stretto dei rapporti di amicizia con uno stra-
niero “espellibile”. In qualsiasi momento questi potrebbe essere fermato dalla forza pubblica ed espulso, senza la possibilità, da parte nostra, di far nulla. Infatti noi e lui siamo in una condizione giuridica del tutto diversa: noi siamo liberi di vivere come più ci aggrada nel nostro paese grazie allo status di cittadini; lui, pur potendo vivere a tutti gli effetti come noi dal punto di vista materiale e sociale, non ha un futuro
stabile nella nostra società. Egli è schiavo della sua nazionalità, del fatto di essere uno straniero, anche se parla la nostra lingua e vive nella nostra società. Qui il principio della nazionalità mostra tutto il suo ca-
rattere artificioso e al tempo stesso la capacità di sopprimere la realtà delle relazioni sociali concrete, il lavoro, l'amicizia, gli affetti. In breve,
sono le norme relative alla cittadinanza che fanno di qualcuno una persona, e non viceversa. Questo potrà sembrare ovvio o “naturale”, a
meno che non si rifletta sul fatto che tali norme non dipendono da alcuna necessità metasociale, non discendono dal cielo, né sono iscritte in qualche tipo di codice naturale, ma sono scaturite dalla nostra stessa società. Straordinaria contraddizione intrinseca all'idea di norma quando si applica agli stranieri: qualcuno, un essere umano, è persona solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto. Come è possibile che nel cuore dell'Occidente, nutrito della cultura verbale dei diritti e dell’universalismo giuridico, questa 207
contraddizione possa essere ammessa? Alcune considerazioni sulla formazione del concetto di persona possono suggerirci una risposta.
Persone e non-persone Nelle principali lingue europee il sostantivo “persona” denota essenzialmente l’uomo come “essere vivente”, appartenente alla specie umana e perciò mortale (tedesco Mersch als lebendes Wesen, francese
étre mortel, inglese buman being), e come singolo individuo. A questi due significati principali se ne aggiungono altri più specializzati: sociale, giuridico, morale, psicologico, teologico, grammaticale, teatrale. Una “persona” può così indicare, a seconda degli usi linguistici, l’aspetto esteriore di un uomo, la sua coscienza o identità, la manifesta-
zione concreta (o ipostasi) della divinità, una figura giuridica, un ruolo teatrale, il soggetto di una forma verbale. È indubbio, comunque, che il concetto di persona rimandi a una delle diverse declinazioni dell’umanità. Noi sappiamo intuitivamente che cosa significhi persona: il singolo come manifestazione individuale della specie umana, ma in un
senso che eccede la sua natura biologica, un essere soprattutto sociale. Così, in francese, personne indica tra l’altro il “volto umano”, ovvero l’uomo in quanto visto da altri, inserito in una rete di sguardi, di rela-
zioni, di socialità. In quest’ultimo significato, la parola comporta delle sfumature più ricche di quelle offerte dal termine “uomo”. In quanto uomo in senso sociale più che biologico, la “persona” rimanda inevitabilmente a un significato morale. Al tempo stesso, se un uomo non è necessariamente una persona, questa, almeno nel linguaggio ordinario, deve essere un uomo. Un uomo ridotto a corpo puramente biologico, come un malato in coma, smette di essere persona, se non nelle attenzioni dei suoi cari, nelle pratiche mediche o nella inevitabile finzione dei documenti ufficiali. Ma una persona esiste solo in quanto la sua “umanità” non viene revocata o annullata.” La persona è perciò l’insieme di attributi sufficienti a fare di un essere umano un uomo tra gli altri uomini, mentre l'appartenenza alla specie umana ne è la condizione necessaria. Le implicazioni dei concetti di uomo e persona appaiono soprattutto quando si considerano le pratiche sociali e istituzionali di spoliazione dell’umanità e della personalità. Nelle istituzioni totali, il controllo assoluto degli esseri umani
viene realizzato distruggendo la loro persone, trattandoli come meri esseri naturali. Solo i santi, gli asceti o i Giobbe riescono a rimanere 208
persone, mentre la loro umanità naturale viene limitata o ferita. Si può dire che colpire l’uomo attraverso la persona oppure la persona attraverso l’uomo corrisponde a due strategie diverse di disumanizzazione e di spoliazione dell'essere umano. La prima è quella ordinaria, normale, legale, del controllo sociale nelle istituzioni totali. La seconda è
quella estrema e distruttiva della guerra totale, dei campi di concentramento, della tortura su larga scala e dello sterminio organizzato. In carcere, gli esseri umani vengono mantenuti tali in termini puramente vitali, mentre le loro persone vengono limitate e talvolta distrut-
te con il ricorso a pratiche che mirano a dissolvere gli spazi e i tempi della socialità. I diversi rituali di iniziazione e di soggezione al carcere o ad altre istituzioni totali (come i manicomi) prevedono l’inserimento del detenuto o dell’internato in procedure disciplinari che distruggono il rispetto della persona: ispezioni corporali umilianti, alterazione dei tempi di veglia e di sonno, contenzione, riduzione della distanza fisica tra sé e gli altri, eliminazione dell’intimità, obbedienza cieca a regolamenti dal senso oscuro o privi di senso. D'altra parte, la tortura e le pratiche estreme di detenzione mirano a distruggere o alterare il supporto vivente della persona, a colpirla mediante una manipolazione dolorosa del suo corpo. Benché tra le due strategie esistano molti aspetti empirici in comune, è necessario comprendere la differenza essenzialmente sociale che intercorre tra di loro. Nella retorica morale prevalente’ nella società occidentale (almeno dopo la Seconda guerra mondiale), la strategia che mira a controllare il corpo attraverso la persona è socialmente legittima e legalmente ammessa (anche se considerata dolorosa o sgradevole), mentre quella che ha come obiettivo la distruzione delle persone attraverso la manipolazione o la distruzione dei corpi è considerata illegittima (con l’eccezione della guerra). In nessun caso, almeno nelle democrazie postbelliche, vengono ufficialmente e formalmente legittimate la tortura, l’uccisione arbitraria dei prigionieri civili o militari, l’inedia dei detenuti o la loro riduzione a cose — pratiche, queste, ampiamente diffuse nei regimi totalitari, nei campi di sterminio nazisti o in quelli di internamento stalinisti. Pochi, tuttavia, nella nostra società considerano illegittime in
quanto tali le detenzioni a vita, l’umiliazione esplicita di carcerati e internati, le riduzioni arbitrarie della libertà personale a opera della polizia, la somministrazione ripetuta di psicofarmaci, ovvero quelle pratiche in cui la persona viene rimodellata dalle istituzioni in base a un supposto mandato della società. In tali istituzioni sono ammesse talvolta pratiche estreme (anche se quantitativamente incommensurabili a quelle dei regimi totalitari), in 209
cui all’alterazione o alla distruzione delle persone si accompagna l’alterazione o la distruzione dei corpi: la condanna a morte è praticata legalmente in molti paesi, gli interrogatori dei prigionieri, comuni e politici, così come alcune pratiche psichiatriche (elettroshock e lobotomie) sono assimilabili a casi di tortura. Si deve notare tuttavia come queste pratiche siano contestate, marginali e considerate di fatto scarsamente legittime, almeno nel dibattito pubblico. Così, la condanna a
morte, benché legalizzata da numerosi sistemi giuridici, tende a essere giustificata con imbarazzo, come una pratica necessaria per esigenze supreme della società, ma che in linea di principio non dovrebbe compromettere la persona del condannato. Si sostiene che questi abbia di-
ritto al rispetto personale nelle fasi della vita che precedono la sua eliminazione (colloqui con i parenti, assistenza psicologica o spirituale, pasti abbondanti eccetera). Queste pratiche sono sotto ogni punto di vista delle beffe atroci (come appare nella pretesa che le esecuzioni siano “indolori”, “umane” eccetera); ma in esse si manifesta l’impossibi-
lità che una società rinunci a rispettare verbalmente i suoi standard (o convenzioni) morali, che si basano paradossalmente sul rispetto della persona anche nel caso estremo della distruzione del suo corpo.” Analogamente, le torture praticate talvolta durante gli interrogatori di polizia, le “morti accidentali”, le uccisioni ai posti di blocco, e così via, o
non sono legittimate oppure lo sono solo in quanto mezzi impiegati in nome di una necessità superiore. In ogni modo, le pratiche che mirano alla distruzione della persona tendono a ricadere in una dimensione morale diversa da quella delle pratiche che mirano alla distruzione del corpo. Così, nel corso di una guerra, nessuno potrà sostenere di mirare alla popolazione civile (che è composta di persone, diversamente dall’esercito che è composto da soldati, cioè da corpi) per distruggere la resistenza del nemico. Se questo accade, si dirà che si tratta di “errori” inevitabili, imputabili alla fallibilità di piloti o artiglieri oppure ai difetti della tecnologia. Se però, come è avvenuto spesso nella Guerra del Vietnam, dei soldati uccidono o torturano deliberatamente dei civili,
potranno essere processati o condannati (anche se l’esito dei loro delitti è infinitamente inferiore a quello di un errore di puntamento). Lo spazio delle pratiche in cui distruzione dei corpi e distruzione delle persone si sovrappongono è dunque controverso, e quindi oggetto di conflitti di interpretazione in cui, fondamentalmente, vengono definiti i limiti morali di una società (dibattiti sulla pena di morte, sulla liceità delle pratiche psichiatriche estreme, sul significato della carcerazione e della pena). Si deve notare, tuttavia, che questo spazio, al di là delle prese di posizione esplicite, filosofiche, morali o giuridiche, è 210
oggetto di pratiche cognitive di neutralizzazione, che permettono di aggirare di fatto i dilemmi morali e i conflitti politici. In sé, la giustificazione molto diffusa della distruzione delle persone (in una società che si vuole razionale e umanistica) in nome di superiori necessità sociali, o di altro tipo, è già un modo di neutralizzare i dilemmi morali. In generale, la neutralizzazione viene attuata riportando dilemmi concreti e puntuali in una cornice più ampia e generica, che permette di sfuggire all’urgenza e soprattutto alla responsabilità delle scelte." Le procedure di neutralizzazione sono raramente tematizzate come tali, possono essere il frutto di strategie deliberate o di circostanze “oggettive”, ma operano comunque nei termini di uno spostazzento implicito di significati. Lo spostamento si realizza mediante pratiche di categorizzazione, astrazione, amplificazione, ristrutturazione cognitiva, che consentono non già di tacere dei processi di distruzione delle persone, ma di parlarne in termini letteralmente spersonalizzati.! Elaine Scarry ha ampiamente discusso queste procedure in una ricerca sul linguaggio della guerra, dell’uccisione e della tortura: L'obiettivo principale e il risultato della guerra è provocare danni fisici. Anche se questo fatto è fin troppo ovvio e diffuso per essere negato direttamente, può essere negato indirettamente e rimosso in vari modi. Può essere rimosso semplicemente perché viene ignorato: si possono leggere pa-
gine e pagine di un’analisi storica o strategica di una particolare campagna militare o si può ascoltare una serie di trasmissioni sugli eventi di un conflitto contemporaneo, senza mai riconoscere che l’obiettivo dell’evento in questione è alterare (bruciare, danneggiare, colpire, mutilare) il corpo umano, come pure alterare la superficie, la forma e l’integrità degli oggetti che gli esseri umani riconoscono come estensioni di se stessi.'°
La censura linguistica è una delle forme più comuni di annullamento delle persone. Essa corrisponde sul piano delle pratiche discorsive all’invisibilità sociale di alcune categorie di esseri umani trattati come non-persone. Una delle esperienze più traumatiche del nostro secolo è il fatto che le vittime delle persecuzioni più estreme non abbiano avuto alcun riconoscimento, come se l’enormità dei delitti commessi non potesse essere rappresentata dal linguaggio, oppure i posteri e i testimoni non fossero in grado di sopportarne il ricordo. È il caso della rimozione dello sterminio degli ebrei nella Germania postbellica, su cui ha scritto pagine fondamentali Hannah Arendt. Ma, spesso, la rimozione assume forme più subdole e indirette. Un esempio di questo annullamento a posteriori è dato da una pagina delle memorie di Albert Speer, in cui l’ex ministro di Hitler, che pure non perde occasione di ZA
ammettere i suoi “errori”, ricorda la “Notte dei cristalli”, senza spen-
dere una parola sulle vittime di questa prima persecuzione di massa degli ebrei: Il 10 novembre [1938], nel recarmi in ufficio, passai davanti alle rovine
ancora fumanti della sinagoga di Berlino. Fu il quarto dei grandi avvenimenti che segnarono quell’ultimo anno di pace. Il riviverlo nel ricordo è una delle più avvilenti esperienze della mia vita; a quell'epoca la cosa che mi disturbò maggiormente fu l'impressione di disordine della Fasanenstrafe, quel disordine fatto di travi carbonizzate, di muri crollati, di suppellettili bruciate, che poco tempo dopo avrebbe, per tutta la durata della guerra, dominato l'Europa. Mi disturbò anche vedere la piazza, la massa, risve-
gliarsi politicamente: le vetrine infrante ferirono il mio senso borghese di conservazione."
La capacità di rimuovere non è sconosciuta alle nostre società democratiche, in cui teoricamente è praticata la libertà di pensiero, di critica e di memoria. R. Wagner-Pacifici” ha mostrato come pratiche poliziesche estreme siano rese di fatto accettabili mediante un linguaggio traslato che non fa riferimento agli eventi né alle loro conseguenze sulle persone. Allo stesso modo, gran parte della stampa non ha rivelato che, all’inizio dell’offensiva degli alleati contro Saddam Hussein, nel gennaio 1991, decine di migliaia di soldati iracheni sono stati sepolti vivi da un fronte di caterpillar dietro cui agivano le forze corazzate e le truppe a piedi; non ha tentato nemmeno di suggerire ai lettori le sofferenze, gli spasimi e l’agonia degli interrati, ma ha usato espressioni neutre come: “La prima linea degli iracheni è stata eliminata senza perdite dalle forze attaccanti”. Non ha detto, all’epoca dell’offensiva finale contro l'Iraq, che decine di migliaia di soldati della guardia repubblicana di Saddam Hussein sono bruciati vivi nei loro mezzi corazzati incandescenti, ma che “l’aviazione alleata ha rapidamente neutralizzato un corpo corazzato della guardia repubblicana”. La Guerra del Golfo ha mostrato come gli stati maggiori possano imporre oggi una manipolazione dell’informazione capace di garantire sia una gestione del conflitto priva di interferenze politiche (o di altro tipo), sia una percezione rassicurante e neutra degli eventi militari da parte del pubblico (a partire dalla virtuosa esigenza di difendere le sensibili popolazioni occidentali dallo spettacolo delle guerre da loro autorizzate ma non combattute). Grazie alle procedure di neutralizzazione dell’informazione, centinaia di migliaia di persone, militari e ci-
vili, sono state “eliminate” o “rimosse” come se costituissero un problema puramente teorico, una categoria cognitiva residuale.” Ma non 242
si pensi che queste pratiche di eliminazione fisica e di rimozione linguistica si limitino alla dimensione della guerra. Esse sono evidenti anche nel caso di esecuzioni capitali, uccisioni accidentali, procedure poliziesche d'emergenza e pratiche carcerarie estreme. E sono attuate anche in una vasta zona sociale di confine — meno sanguinosa e truculenta, per quanto diffusa — in cui, per qualsiasi motivo, risulta problematico trattare gli esseri umani come persone, sia di fatto sia in termini giuridici e cognitivi. Questo è lo spazio sociale e morale delle non-persone, cioè di quegli esseri umani che sono intuitivamente delle persone come noi (esseri umani viventi dotati di una persona sociale e culturale), cui però vengono revocate — di fatto o di diritto, implicitamente o esplicitamente, nelle transazioni ordinarie o nel linguaggio pubblico — la qualifica di persona e le relative attribuzioni. Si tratta di uno spazio raramente esplorato e difficile da esplorare, in quanto la sua individuazione chiama in causa molteplici dimensioni (politiche, sociali, giuridiche, lin-
guistiche e cognitive). La mia tesi è che gli stranieri giuridicamente e socialmente illegittimi (migranti regolari, irregolari o clandestini, nomadi, profughi) siano le categorie più suscettibili di essere trattati come non-persone. Si pensi soltanto, per cominciare, ai limiti che il linguaggio pone alla rappresentazione di queste categorie di esseri umani. Come si è già visto a proposito dell'immagine dei migranti nella stampa e in generale nei media, uno straniero sarà volta per volta un “extracomunitario”, un “immigrato”, un “clandestino”, un “irregolare” — categorie che non si riferiscono mai a qualche autonoma caratteristica del suo essere, ma a ciò che egli rom è in relazione alle nostre categorie: non è europeo, non è un nativo, non è un cittadino, non è in
regola, non è uno di noi. A partire da questa opacità linguistica, che corrisponde a una totale invisibilità sociale, si pongono le premesse perché egli non sia una persona e quindi possa essere letteralmente neutralizzato.” Prima però di restringere il campo analitico a questi processi è necessario riflettere sul concetto di non-persona, sulla sua genesi e sulle sue implicazioni.
Genealogia delle non-persone In inglese, la parola zonperson ha un significato specifico che non trova riscontro nelle principali lingue europee. Secondo il dizionario Webster, indica “4 person that usually for political or ideological reasons 213
is removed from recognition or consideration”, una “persona che, solitamente per ragioni politiche o ideologiche, è esclusa da ogni riconoscimento o considerazione”. Il termine, di uso abbastanza comune in
inglese, si applica a diverse situazioni quotidiane. Trattare qualcuno in pubblico come zorperson significa comportarsi con lui “come se non esistesse” o fosse invisibile. D'altra parte, un povero o un fallito è trascurabile in quanto econorzically nonperson. In breve, una “non-persona” non è tale per qualche caratteristica intrinseca o naturale ma perché socialmente considerata tale, in seguito a un processo di esclusione o di vera e propria rimozione sociale. La natura sociale di una “non-persona” è ovviamente correlata al suo contrario, al significato pubblico e relazionale della “persona”. Siamo qui di fronte al fatto intuitivo che la “persona” designa caratteristiche acquisite e non dipendenti dalla natura dell’uomo come essere generico. In altri termini, la persona è il risultato di processi culturali e sociali che modificano, pur presupponendola variamente, l’immagine dell’uomo come essere generico e come singolo. Difficilmente ci riferiremmo a un neonato come “quella persona”, nel senso che la persona denota un essere umano con caratteristiche sociali affermate e riconosciute (adulto, socialmente inserito eccetera). Le attenzioni che noi
prestiamo a un bambino presuppongono di fatto un rapporto asimme-
trico tra noi e lui, non troppo diverso (almeno quando un bambino è molto piccolo) da quello che intratteniamo con i nostri animali domestici. Le attenzioni verso una persona si basano invece su una reciprocità almeno esteriore o formale, ma in ogni caso simmetrica, orizzontale. L'infantilizzazione riservata a certe categorie di persone è indizio sicuro del fatto che le stiamo trattando come non-persone o almeno come sub-persone.” La persona dunque, in quanto pelle sociale e culturale di un essere umano, non è un attributo fisso o invariabile, e tanto meno un universale antropologico, ma una variabile della condizione sociale, provvista oltretutto di una storia specifica. Un esame di questa storia, a partire da un classico studio di Marcel Mauss, ci permetterà tuttavia di notare come, dietro le vicende in apparenza lineari e rassicuranti della persona, si celi la costante possibilità per gli esseri umani di scivolare nella condizione di non-persone. Il termine latino persona, probabilmente di origine etrusca (phersz), denotava in origine la maschera rituale indossata nel corso di danze sacre. La persona, da principio una pelle di animale e poi una vera e propria maschera (che poteva riprodurre le sembianze di un antenato morto), finì per rappresentare il clan o la gerzs e, come tale, /’;mz4g0, l'emblema di una famiglia. Questo, a sua volta, si confuse con il cogno214
men, il soprannome-immagine che definiva una casata (Naso, Cicero
eccetera). La persona latina veicolava perciò profondi significati di appartenenza. Era la sintesi di un nome sacro (romen-numen) che definiva l'inclusione legittima di un cittadino in una famiglia e di questa nella comunità: quindi, la vera e propria cittadinanza di chi poteva fregiarsene. Il carattere giuridico della persona risulta chiaramente nell’esclusione di chi non ne ha diritto: D'altra parte, viene stabilito il diritto alla persona. Ne è escluso solo lo schiavo. Servus ron habet personam. Egli non ha personalità, non possiede il suo corpo, non ha antenati, nome, cogrorzer, beni propri.”
Marcel Mauss ha indicato sommariamente l'evoluzione dei significati moderni di persona a partire da quello latino, in origine giuridicorituale. Da uomo rivestito di uno status legittimo, il concetto di persona si estese a quello di uomo in generale e perfino a manifestazione della divinità (la Trinità è urztas in tres personas, così come il Cristo è persona in duas naturas, secondo il Concilio di Nicea). Ma la persona, in quanto coincideva con la “natura” umana o divina (substantia rationalis individua), rappresentava quella che noi chiameremmo l’identità specifica dell’essere umano, in una gamma di significati che comprendono, come abbiamo già visto, persino il suo “io”, la sua coscienza. È
vero che, a lato di questa evoluzione nobile, il concetto latino di persona si diramò, coerentemente con il significato originario di masche-
ra, in quello di “ruolo dell’attore”, di parte teatrale (da ciò anche la fantasiosa etimologia secondo cui la maschera è ciò attraverso cui la voce personat, risuona). Ma, di fatto, la maschera originaria finì per dissolversi nella nozione di “membro o rappresentante della specie umana”, secondo quella universalizzazione delle categorie filosofiche che definisce in apparenza il pensiero occidentale. Così, se vogliamo credere alla filosofia popolare dell’umanesimo razionalista (e in particolare a quella corrente filosofica di origine cattolica chiamata “personalismo”), ogni essere umano sulla terra è una persona e in quanto tale è sacro.” Ma questa concezione non può fondare alcuna protezione giuridica, e tanto meno sociale, delle “persone”. Il concetto generico di persona, che allude — oscillando tra senso comune e accezione filosofica o teologica — a una sostanza comune dell’umanità, non ha trovato una
codifica riconosciuta e un’applicazione specifica nei sistemi convenzionali che regolano le relazioni tra esseri umani. Ciò appare per esempio nella polemica che il formalismo giuridico ha sostenuto contro il 246)
giusnaturalismo. In particolare Kelsen ha rivendicato il carattere esteriore e formale della nozione di persona: L’unità di doveri e di diritti soggettivi, cioè l’unità delle norme giuridiche qui considerate, le quali formano una persona fisica, è data dal fatto che è il comportamento del medesimo uomo a formare il contenuto di questi diritti e doveri, che è cioè il comportamento dello stesso uomo a essere determinato da queste norme giuridiche: la cosiddetta persona fisica non è quindi un uomo, bensì l’unità personificata delle norme giuridiche che attribuiscono doveri e diritti al medesimo uomo. Non è una realtà naturale, ben-
sì una costruzione giuridica creata dalla scienza del diritto, un concetto ausiliario nella descrizione di fattispecie giuridicamente rilevanti. In questo senso la cosiddetta persona fisica è una persona giuridica”
Kelsen ribadisce qui che la persona giuridica è un artificio, una costruzione normativa che può riguardare sia gli “uomini” sia enti o istituzioni. Sostenere che la persona fisica “non è... un uomo”, ma esclusivamente l’oggetto di norme giuridiche, significa delimitare l'ambito del diritto positivo rispetto alle generiche definizioni di “umanità”; un punto di vista che è condiviso, nonostante i diversi presupposti dottrinari, da un teorico agli antipodi di Kelsen, Carl Schmitt. Consideriamo per esempio un passo in cui Schmitt si occupa esplicitamente di qualcosa di sostanzialmente analogo al concetto di persona, cioè di “uguaglianza di ciò che porta il volto umano”, negando in ogni caso che ciò possa costituire la base di un ordinamento politico: L'uguaglianza di tutto ciò “che porta il volto umano” non è in grado di fondare né uno stato né una forma politica né una forma di governo [...]. Dal fatto che tutti gli uomini siano uomini non si può desumere alcunché di specifico né dal punto di vista religioso né da quello morale né da quello politico né da quello economico.”
Benché il riferimento alla morale e alla religione sia sbrigativo, il senso di questa posizione (analogamente a quella di Kelsen) è negare che la persona (o il “volto umano”) esista di fatto al di fuori di un ordinamento giuridico o politico concreto. Diritto e teoria politica si contrappongono perciò esplicitamente sia al senso comune sia a quello filosofico nel rifiutare una giustificazione all’esistenza strettamente umana delle “persone”. Se Mauss voleva mostrare che la persona non esiste al di fuori delle istituzioni (prima rituali, poi religiose, infine sociali), il diritto moderno ribadisce che non c’è persona se non come “unità di norme” che definiscono diritti e doveri di un uomo. Possia216
mo tradurre i punti di vista, diversi ma convergenti, di Kelsen e di Schmitt nella seguente proposizione: /a persona può esistere socialmente solo in quanto persona giuridico-politica, ovvero “sistema di diritti e doveri” (Kelsen) oppure “soggetto di un ordinamento politico” (Schmitt). In questa sede non sono rilevanti le differenze sostanziali tra le due concezioni del “sistema inclusivo” delle persone, uno basato su un insieme di norme positive (Kelsen) e l’altro sul popolo come “unità tra governanti e governati” in quanto espressione fondamentale dell'ordinamento politico (Schmitt). Ci interessa notare piuttosto come in entrambi casi la persona o ciò che “ha volto umano” balzi dalla non-esistenza all'esistenza esclusivamente in virtù del diritto positivo. Entrambe le posizioni, nella loro sincerità (o brutalità) hanno il merito di spogliare il dibattito su “ciò che è umano” dalle definizioni spesso confuse e fuorvianti della teologia e della filosofia. Qualunque sia l’essere dell’uomo, la sua esistenza è connotata dalla posizione all’interno (o all’esterno) di un ordinamento concreto. Le implicazioni della natura giuridico-positiva (e quindi, in ultima analisi, politica) della “persona” sono abbastanza evidenti. Se è vero che una delle conquiste degli ordinamenti politici moderni è il conferimento di “diritti” solo a chi rientra a pieno titolo in tali ordinamenti, chi ne è escluso (o chi non vi è incluso) ror habet personara, e quindi è uomo solo in senso naturale, non sociale. La cittadinanza (l’insieme di
diritti di chi è legittimamente incluso in un ordinamento)? è quindi condizione esclusiva della personalità sociale, e non viceversa, come
recitano sia il senso comune filosofico sia quelle dichiarazioni o convenzioni internazionali che affermano o riaffermano i “diritti universali dell’uomo o della persona”. Non intendo affermare che la persona, date le sue complesse valenze di socialità e socievolezza, possa essere ridotta alla sua natura giuridico-politica, ma semplicemente che l’appartenenza a un ordinamento (ovvero la cittadinanza nazionale) ne è la condizione esclusiva.” Questa realtà di fatto, che oggi tendiamo facilmente a dimenticare, divenne esplicita, quando, dopo la Prima guerra mondiale, gli stati europei, si trovarono di fronte masse di “apolidi”, di soggetti “senza stato”, spinti a Occidente dalla Rivoluzione russa e dalla crisi dell’Impero asburgico: La questione dei diritti umani si intrecciò ben presto inestricabilmente con quella dell’emancipazione nazionale: solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò capace di garantirli. Poiché, fin dai tempi della Rivoluzione francese, l’umanità era concepita come famiglia di nazioni, si stabilì a poco a poco che il popolo, e non l’individuo, era l’immagine dell’uomo.
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La portata di tale identificazione dei diritti umani coi diritti dei popoli nel sistema europeo degli stati nazionali venne in luce soltanto quando apparve una schiera crescente di persone e di gruppi etnici i cui diritti elementari erano tanto poco salvaguardati nel cuore dell'Europa quanto lo sarebbero stati nelle regioni selvagge dell’Africa. Dopotutto, i diritti dell'uomo erano stati definiti inalienabili perché si presumeva che fossero indipendenti dai governi: ma ora si scoprì che appena gli individui perdevano la protezione del loro governo, ed erano costretti a contare sul minimo dei diritti che dovevano avere acquisito con la nascita, non trovavano nessuna autorità disposta a garantirlo.??
Dopo la Seconda guerra mondiale e la fine del nazifascismo, il processo di decolonizzazione e la stessa definizione di un nuovo ordine mondiale, con la costituzione dell’Onu e di altri organismi sovranazio-
nali, crearono per qualche decennio l’illusione che i diritti umani (e quindi il riconoscimento dell’universalità della persona) fossero una realtà e non solo un’affermazione di principio (si deve a questi processi l’inclusione, nella Costituzione della Repubblica federale tedesca, di
un ampio diritto di asilo, abrogato nel 1993). D'altra parte, l’espansione economica e lo sviluppo industriale permettevano alle ex potenze coloniali di accogliere in gran numero migranti provenienti dalle ex colonie e di naturalizzarli, includendoli nella cittadinanza e quindi nel
godimento degli stessi diritti dei nativi, almeno formalmente. Durante la Guerra fredda, inoltre, i “diritti umani”, tra cui quello di sottrarsi al-
le dittature, erano fatti valere a favore di chi sceglieva la fuga dalla cortina di ferro. Questa situazione favorevole alla cultura formale dei diritti umani si è interrotta drammaticamente con due processi concomitanti, la fine
del comunismo in Russia (e negli stati satelliti dell'Est europeo) e quindi del bipolarismo, e l’inizio di una concorrenza economica tra le gran-
di aree sviluppate del capitalismo mondiale. I conflitti seguiti alla crisi dei regimi dell'Est europeo hanno fatto temere, a partire dal 1991 (inizio della guerra nella ex Jugoslavia) che masse di profughi si riversassero negli stati dell'Europa occidentale, proprio come masse di giovani della Ddr si erano riversati nella Germania federale nel 1989. Allo stesso tempo, la paura del fondamentalismo islamico (dopo la Rivoluzione iraniana e l’inizio della guerra civile in Algeria) e una crescente insofferenza per i migranti provenienti dai paesi poveri hanno spinto gli stati della Comunità europea ad assumere misure restrittive nei confronti degli stranieri. Il processo di integrazione economica dell'Europa e le prime incerte misure di unificazione politica non hanno promosso in questi anni alcun superamento del nazionalismo, ma, come si è visto, 218
nuove forme di patriottismo locale, che molto spesso alimentano la diffidenza e la paura irrazionale nei confronti degli stranieri. Oggi più di ieri, dunque, gode dei diritti della persona chi è cittadino degli stati che hanno elaborato una cultura delle garanzie giuridiche dell'individuo, che rientra cioè legittimamente in un ordinamento giuridico-politico nazionale. Naturalmente, con giuridico-politica mi riferisco qui a una condizione che va al di là della mera lettera della legge. Ordinamenti formalmente diversi possono essere solidali tra loro nell’estendere di fatto ai rispettivi cittadini lo status di persone, in base a considerazioni del tutto evidenti. Così lo status di un americano, di un giapponese o di uno svizzero nell'Europa comunitaria è solo formalmente quello di “extracomunitario”, e quindi non è assimilabile a quello di un marocchino, di un albanese o di un senegalese. Di fatto,
gli ordinamenti concreti tengono conto di diversi elementi (economici in primo luogo) nel determinare chi è suscettibile di essere riconosciuto a tutti gli effetti come persona. Pensare che la spersonalizzazione di determinate categorie di esseri umani sia impossibile nella nostra società umanistica e razionale è una pericolosa illusione (quando non è effetto di una vera e propria rimozione storica). I processi giuridico-politici che la consentono sono vari e diffusi ma possono essere ricondotti a un denominatore comune: la costituzione di un doppio regime giuridico per chi è incluso e chi è escluso.’ Empiricamente, si ha una situazione di questo tipo quando l'ordinamento giuridico valido in un determinato territorio non si applica a determinate categorie di persone o perché stranieri o perché soggetti privati dei diritti civili. La condizione degli schiavi negli Stati Uniti prima della Guerra civile è l'esempio più ovvio.” La sottrazione progressiva dei diritti civili agli ebrei tedeschi, prima dello sterminio, è quello più rilevante, almeno nel nostro secolo.” Ma la verità è che anche le democrazie occidentali hanno costituito un doppio regime per gli stranieri o per i propri cittadini di origine straniera: si
pensi solo all’internamento degli americani di origine tedesca durante la Prima guerra mondiale o a quello dei giapponesi durante la Seconda.” Questi sono ovviamente casi limite. Ma se è vero, come è stato osservato recentemente, che in tutti questi casi la sovranità politica è apparsa nella sua nuda realtà, pur ricorrendo a provvedimenti legali (adottati cioè in base alla legislazione vigente o con integrazioni che non la violavano), è anche vero che nulla impedisce, nelle nostre so-
cietà democratiche e “universalistiche”, la costituzione di un doppio regime giuridico per determinate categorie come stranieri, immigrati o zingari.” Nella legislazione italiana, un doppio regime giuridico è 219
stato istituito per la prima volta, dopo la fine del fascismo, con il decreto Dini sull’immigrazione ed è stato di fatto consolidato con la successiva legge sull’immigrazione. Come si è già visto, sia le norme sull’espulsione, sia l’istituzione dei “centri di permanenza temporanea” introducono la disuguaglianza di trattamento tra i cittadini italiani e i cittadini stranieri. Questa disuguaglianza, grazie alla quale alcuni stranieri sono esclusi dai diritti civili fondamentali, è potenzialmente l’avvio di un processo di riduzione di alcune categorie di esseri umani da persone a non-persone. Se è vero che un essere umano è (o può diventare) persona solo in quanto cittadino, il dibattito filosofico sull’altro o sullo straniero cessa di essere un mero esercizio verbale solo se imposta il problema della condizione giuridico-politica a partire dalla quale un altro si pone in rapporto al simile. Non è il “volto umano”, né tanto meno una simmetria fondata su una astratta pretesa alla radice universale comune, che può fondare una relazione concreta tra noi e l’altro, ma è esattamente questa (nei termini di uno spazio giuridico-politico comune) la condizione esclusiva del riconoscimento del volto d’altri. Un discorso filosofico che aggiri questo problema è condannato a essere riduttivo. Per esempio l’uso della categoria intimistica di “ospite” (al di là dell’evidente sottomissione di un ospite all’ospitante) rimuove il problema giuridico-politico della persona dello straniero e quindi, nonostante qualsiasi contorsione terminologica, spersonalizza lo straniero, ne fa virtualmente una non-persona. Analogamente, la nozione di amicizia è in quanto tale impolitica, se riferita a stranieri concreti, perché ignora
precisamente l’uguaglianza fondamentale (di condizione, di status o di cittadinanza) su cui, al di là delle metafore favorite del discorso filosofico, si può fondare qualsiasi relazione tra le persone.”
Ri margini del diritto Individuando nell’inesistenza giuridica degli stranieri la causa immediata della loro condizione virtuale di non-persone, non intendo interpretare in.modo formalistico il loro status. Un sistema giuridico è un insieme di convenzioni modificabili a partire dagli ‘7pf ricevuti dal sistema politico, ‘put relativi alla soluzione dei diversi conflitti sociali (di interessi, ma non solo). Resta il fatto che l’esito di questi processi, una volta codificato, ha la capacità di ridefinire e di condizionare le diverse relazioni sociali e culturali che si stabiliscono tra gli stranieri e 220
noi, tra migranti e società di immigrazione, tra chi è fuori e chi è den-
tro. Così, non ha molta importanza che nella legislazione italiana siano mancate per molto tempo norme chiare sullo status dello straniero, o che i decreti legge relativi agli immigrati che si sono succeduti negli ultimi dieci anni siano spesso contraddittori. Quello che importa è che ogni volta essi riaprano per gli stranieri la possibilità di accedere o no al nostro spazio legittimo, permettano o no di convalidare la loro situazione sociale reale, allarghino o restringano la possibilità per loro di diventare delle persone, oppure se lo erano, di restare tali o trasformarsi in non-persone. In altri termini, contano qui i diversi processi sociali (codificati in ultimo dal diritto) mediante i quali un essere umano è di fatto privato della sua umanità e trasformato in qualcosa d’altro (un nome o un'identità diversa da quella che egli si aspetterebbe riconosciuta) o in una pura negazione (una non-persona, un non-uomo), oppure viene fatto semplicemente sparire dalle relazioni con i suoi simili. Si tratta di processi sensibilmente diversi, sia per la loro tipologia (processi giuridici, burocratici, sociali, culturali, cognitivi), sia
per gli effetti che ne derivano sugli esseri umani che ne sono oggetto. Tuttavia, tali processi hanno in comune una caratteristica decisiva: grazie a essi qualcuno che si aspetta normalmente di esistere socialmente vede frustrata questa aspettativa e non esiste più. Uno straniero “illegittimo” o “illegale” non esiste socialmente, oppure esiste, tollerato o non visto, in un limbo da cui può essere in ogni momento allontanato o fatto sparire. In base alla legislazione vigente in Italia e in altri paesi, un immigrato clandestino o irregolare può essere letteralmente catturato in qualsiasi momento dall’autorità di polizia, detenuto per qualche tempo ed espulso dal paese, dalla società in cui viveva. Uno zingaro (che sia o no dotato di nazionalità) non ha diritto a vivere dove e come vuole e diverse autorità, locali o nazionali, amministrative o politiche, hanno il potere di rimuoverlo e di confinarlo (cioè di farlo sparire e riapparire dove conviene loro). Uno straniero riconosciuto socialmente pericoloso o colpevole di un reato minore può essere allontanato definitivamente dal paese (e quindi dalla possibilità di essere giudicato o far ricorso in appello, ciò che la Costituzione chiama il “giudice naturale”), e quindi fatto allontanare dal sistema giuridico con cui era entrato in contatto.’ Qui non sto discutendo del significato morale di queste sparizioni, né sto paragonando le loro conseguenze alle forme di internamento nelle istituzioni totali. Le conseguenze per i singoli esseri umani possono essere commensurabili o no, si possono comparare i destini sociali di uno straniero espulso a quello di uno straniero internato, ma in ogni caso gli oggetti di questi 221
processi di sparizione sono esclusivamente caratterizzati dal fatto di non esistere più. Sto sostenendo che l'opinione di senso comune se-
condo cui un essere umano esiste solo per il fatto di essere tale (di vivere, di avere una vita naturale) è sostanzialmente errata. E necessario
anche non estendere la categoria degli esseri umani passibili di sparizione a tutti quei soggetti che subiscono diverse forme di esclusione sociale radicale, horzeless, tossicodipendenti, poveri eccetera.” Per quanto la loro condizione, oltre che terribile, sia sostanzialmente ana-
loga, sul piano della qualità della vita (o della non-vita) a quella degli stranieri che vivono nel limbo o ai margini della nostra società, essi restano soggetti legittimi e quindi possono sparire socialmente ma resta-
no dotati di diritti civili, e quindi, in tutto o in parte delle persone. Possono essere infatti soccorsi, assistiti, nutriti, ospitati, curati e tutela-
ti giuridicamente. Si pensi invece alla condizione degli stranieri che cerchino di entrare clandestinamente nel nostro o in un altro paese. Dopo essere stati schedati e rifocillati, vengono internati in campi sottratti di fatto al controllo della magistratura e dell’opinione pubblica, imbarcati in un aereo o una nave e rispediti nel paese d’origine. Vengono cioè fatti sparire con un semplice provvedimento di polizia. In quanto passibili di sparizione, i clandestini non hanno altro diritto che quello (difficile da violare nelle nostre società “umanizzate”) all’integrità corporea.” Ma per il resto, in quanto “clandestini”, sono trattenuti, confinati, ri-
mossi, e fatti sparire legittimamente anche con l'inganno. Il caso degli albanesi che approdarono in Italia nel luglio del 1991, furono confinati nello stadio di Bari, dispersi in diverse città d’Italia con la promessa di lavoro e di soggiorno e in parte espulsi, illustra a sufficienza come i “clandestini” possano essere sottratti a qualsiasi forma di esistenza sociale legittima. Paradossalmente, il fatto che uno straniero sia non punibile anche se condannato (in quando espulso prima dell’espiazione della pena) dimostra come la necessità sociale della sparizione sia superiore a quella del diritto formale. Un essere umano giudicato per un reato entra in uno spazio giuridico e quindi, di fatto, nella società di cui quello spazio è espressione formale. Ciò significa che può e deve essere difeso, che può farsi ascoltare, che ha dei diritti, che esiste. Espellendolo
prima o dopo la condanna, la società lo fa sparire, dimostrando che l’universalità delle norme giuridiche, che pure è proclamata dalla Costituzione, può non contare granché di fronte alla necessità, comunque determinata, della sparizione. La sola esistenza che gli viene riconosciuta è quella di un corpo fisico da nutrire, controllare o detenere. 222
E ancora una volta Hannah Arendt ad aver sottolineato il legame paradossale esistente tra la condizione di “non-persona” e quella di chi viene privato perfino della possibilità di essere giudicato per qualche reato. Il brano che segue, scritto quarantacinque anni fa, descrive perfettamente la condizione dello straniero “espellibile” perché sospettato di qualche reato o giudicato in prima istanza senza possibilità effettive di appello: Per stabilire se qualcuno è stato spinto ai margini dell’ordinamento giuridico basta chiedersi se giuridicamente sarebbe avvantaggiato dall’aver commesso un reato comune. Se un piccolo furto con scasso migliora la sua posizione legale, almeno temporaneamente, si può star sicuri che egli è stato privato dei diritti umani, perché allora il reato diventa il modo migliore per riacquistare una specie di eguaglianza umana, sia pure come eccezione riconosciuta alla norma. L'importante è che questa eccezione sia contemplata dalla legge. Come delinquente l’apolide non sarà trattato
peggio di un altro delinquente, cioè sarà trattato alla stregua di qualsiasi altra persona. Solo come violatore della legge egli può ottenere protezione da essa. Finché durano il processo e la pena, è al sicuro dall’arbitrio poliziesco contro il quale non ci sono né avvocati né ricorsi. Lo stesso uomo
che era ieri in prigione per il semplice fatto di esistere in questo mondo, che non aveva alcun diritto e viveva sotto la minaccia dell'espulsione, o
che senza processo è stato confinato in un campo d’internamento perché aveva cercato di lavorare e di guadagnarsi da vivere, può diventare quasi un cittadino in piena regola mercé un piccolo furto. Anche se non ha un soldo, può ora disporre di un avvocato, lamentarsi dei suoi carcerieri, e
sarà ascoltato rispettosamente. Non è più la schiuma della terra, ma tanto importante da venir informato di tutti i particolari della legge in base alla quale si svolge il suo processo. È diventato una persona rispettabile.”
Alle procedure di espulsione degli stranieri dal sistema delle garanzie giuridiche — procedure che interferiscono talvolta con gli stessi principi costituzionali che dovrebbero governare il sistema del diritto — non può essere applicato il concetto foucaultiano di “illegalismo”. Quando gli stranieri hanno a che fare con un sistema giuridico di un altro stato, parlerei piuttosto di “a-legalismo”. Il diritto si arresta di fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio ambito.” Gli stranieri vengono fatti sparire legalmente dall’ambito della legge in nome di una necessità superiore (“la loro pericolosità”, l’allarme sociale). Oppure, il diritto ne decreta la non esistenza quando decide che non possono vivere tra noi in quanto “clandestini”.’Naturalmente, in qualunque società complessa è possibile sottrarsi alla sparizione decretata
223
dalle istituzioni dissimulandosi e cioè decidendo di “sparire” (di nascondersi) prima di essere fatti sparire. In questo modo esistono dei limbi o delle nicchie in cui gli stranieri possono vivere in condizioni di sospensione. Si tratta di situazioni che hanno dei precedenti storici (per esempio la condizione dei profughi dai paesi dell’Est tra le due guerre mondiali) e che svolgono ovviamente delle precise funzioni sociali ed economiche. Ma è interessante notare come, davanti a queste
situazioni, il sistema giuridico operi in funzione di una vera e propria “a-legalità”. Quando si occupa di stranieri clandestini o irregolari, esso li trae dalla condizione di “a-legalità” solo per sancirne “legalmente” la non-esistenza espellendoli. Paradossalmente, la riluttanza con cui vengono concessi i permessi di soggiorno esprime la preferenza del sistema giuridico-politico (in senso lato) per il mantenimento degli stranieri in una situazione a-legale.”
Sparizioni Come nel romanzo di Ellison da cui è tratta la citazione posta in esergo a questo capitolo, gli stranieri illegittimi (migranti, profughi, zingari) sono avvolti, nel nostro mondo, da una membrana di invisibilità. La loro “visibilità” estrema, fastidiosa, ingombrante, perturbante non
è che l’effetto di ciò che il nostro mondo proietta sulla membrana: il criminale, il povero, il clandestino, l’abusivo, il nomade, l’“estraneo”
che pretende di vivere tra noi e che quindi va espulso. L’estraneità radicale di questi stranieri al mondo delle persone è rivelata dal destino di chi perisce come clandestino, annegando nel nostro mare. Secondo ricostruzioni attendibili, gli stranieri annegati nelle acque territoriali italiane dal 1992 a oggi sono diverse centinaia. Tenendo conto degli annegamenti nelle acque spagnole e delle sparizioni in acque internazionali, su cui si hanno continui indizi, non è esagerato affermare che il Mediterraneo occidentale è divenuto, negli anni novanta, un cimite-
ro per migliaia di migranti. Perfino muovere in ogni modo il problema sparizioni pone qualche problema. occasione è buona per trasformare
per società che si affannano a ridegli stranieri, l'entità di queste È forse per questo che qualsiasi questa umanità oscura in minac-
cia, per fare degli annegati, reali o potenziali, dei nemici. È sufficiente
una scaramuccia tra una vedetta della marina tunisina e un peschereccio italiano perché si evochi il pericolo del nemico islamico e dei clandestini: 224
Da anni Lampedusa serve agli islamici per dimostrare al mondo che l’Italia ingoia, con il sorriso sulle labbra, qualsiasi rospo: da quelle parti sparano ai nostri pescherecci, li sequestrano, depositano clandestini (islamici pure loro). [...] Gli stranieri ne approfittano, ma pensano che siamo un popolo senza dignità. Ahinoi, hanno ragione.”
Di fronte al fatto inequivocabile che i paesi europei della Riva nord del Mediterraneo hanno a che fare con dei boa/-people, la strategia adottata dall'Europa sembra quella di una vera e propria censura. Da una parte, come si è già visto a proposito dell’invasione albanese, sbarchi e annegamenti saranno etichettati come l’esclusivo effetto di una strategia criminale (la “mafia” albanese che organizza il traffico di carne umana, i trafficanti tunisini, i capitani senza scrupoli eccetera). Dall’altra, si negherà l'evidenza quando questa è appena controversa, quando mancano “prove” sicure. Non solo perché, ovviamente, gli annegati non possono essere intervistati dalla stampa, ma anche perché i sopravvissuti non contano (le loro testimonianze sono squalificate perché provengono da clandestini, da non-persone). Per effetto di queste strategie di rimozione, agli annegati è tolta anche la chance di essere r/cordati. Se da vivi erano dei meri fastidi, degli ingombri corporei, da morti sono solo cadaveri privi di storia, di identità e di biografia.” Uno dei casi più clamorosi di doppia sparizione degli stranieri, venuto alla luce solo grazie alle inchieste di alcuni giornalisti,” è l’affondamento della nave Yoba7z, nota per alcuni mesi come la “nave fantasma”. Intorno al Natale 1996, sulla stampa italiana e greca vengono pubblicati trafiletti sul “presunto” affondamento di una nave di “clandestini” al largo della Sicilia, con centinaia di annegati. Le notizie vengono riportate con scetticismo e non sono confermate dalle autorità
greche, anche se una trentina di indiani e pakistani, riusciti a raggiungere fortunosamente il Pireo, raccontano con insistenza l’affondamento della Yohazz, su cui tentavano di passare in Italia. Queste testimo-
nianze non vengono sostanzialmente credute. Solo nella primavera del 1997 la notizia viene confermata dalle autorità greche e italiane senza però che l'affondamento, in cui sono periti poco meno di 300 indiani, pakistani e singalesi, susciti particolari emozioni. Ecco, come “Le
Monde” ha riassunto la vicenda, prima che il naufragio fosse ufficialmente riconosciuto: Sono circa le 5 di mattina [del 24 dicembre]. “Era ancora notte e si vedevano le luci della costa,” si ricorda Singh Baldwinder. E in questo momento che si è verificata la collisione. “Ci eravamo girati per accostare la
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Yoham. Le due barche erano una accanto all'altra. Poi improvvisamente c'è stato un grande urto,” aggiunge il giovane indiano. Piange. “Sono saltato in acqua e sono riuscito ad aggrapparmi a una corda. Mio cugino era
proprio dietro di me. Ma non ho potuto fare nulla. L'ho sentito gridare. E poi più nulla.” [...] In pochi minuti la vecchia bagnarola è colata a picco. Invece di portare aiuto ai naufraghi, la Yoharz, a bordo del quale era riuscito a rifugiarsi il capitano della barca “maltese”, si allontana, abbando-
nando gli sventurati alla loro sorte. Secondo i calcoli degli scampati, quella notte sono morte 289 persone: 31 pakistani, 166 indiani e 92 singalesi. È mai possibile che i sopravvissuti abbiano mentito, come suggerisce il ministero della marina mercantile greca, e inventato questa ecatombe per meglio “impietosire” chi li ospita? “Sono persuaso che le cose si siano svolte esattamente come le hanno raccontate,” sostiene il giornalista Pa-
nos Sobolos, che fin dal 4 gennaio ha rivelato la vicenda sul quotidiano “Ethnos”. Secondo lui, il silenzio che ha circondato la scoperta del dramma sarebbe rivelatore del “razzismo latente” dell’opinione pubblica internazionale. “Se i passeggeri della Yohar fossero stati francesi, greci o italiani, si immagina lo scandalo? Non ci si sarebbe accontentati di un piccolo giro in barca per ritrovare i corpi.” [...] Attualmente sono state accusate sedici persone, tutte latitanti — tra cui i due capitani e i loro uomini di equipaggio. Le varie nazionalità degli accusati, greci, maltesi, siriani, un libanese, danno l’idea dell’estensione delle
mafie negriere che oggi solcano le acque del Mediterraneo.”
Fatti come l’affondamento della Yoha77 sono imbarazzanti. Non solo perché gli annegati non sono necessariamente “islamici”, ma migranti che vengono dall’altra parte del mondo. Sono fatti che accadono in uno spazio neutro, quello delle acque internazionali (se le vittime non hanno avuto l’accortezza di annegare all’interno delle acque territoriali greche o italiane). Uno spazio neutro in termini comunicativi, a cui non si addicono né emozioni particolari e nemmeno un rilievo particolare sulla stampa (la sparizione di un partecipante a una regata transoceanica o al rally Parigi-Dakar e il sequestro di un europeo da parte di uno sceicco dello Yemen avrebbero trovato un'immediata copertura mediale). E soprattutto uno spazio neutro dal punto di vista giuridico. Chi sono questi annegati, chi deve occuparsene e perché occuparsene? Qui è all'opera certamente il “razzismo latente” di cui parla il giornalista greco, ma anche la precisa volontà di lasciare alla deriva tutta questa gente. È vero che esistono i “negrieri” che realizzano profitti sulla pelle dei migranti e li lasciano annegare al primo segnale di pericolo. Ma è anche vero che l’evocazione ossessiva di “negrieri” e “trafficanti di uomini”, quando si parla di clandestini, è un comodo alibi per non parlare del significato delle migrazioni. Tutta la questio226
ne può essere risolta con soddisfazione non solo accusando e arrestando, quando è possibile, capitani e traghettatori, ma anche criminalizzando i tentativi di sbarco in quanto tali, e quindi migranti e naufraghi. Ecco una delle espressioni più esplicite di questa criminalizzazione, in cui non si manca di ammiccare alle ossessioni fiscali dei “cittadini” e di evocare la concorrenza “sleale” dei migranti: [Chi guadagna dal traffico dei clandestini?] Per ultimi, in questa galleria dei vincenti, troviamo gli stessi immigrati clandestini che nonostante la dura penalizzazione loro imposta dalla condizione illegale del mercato del lavoro, semplicemente saltando le fila di quelli in attesa, varcano i confini del “benessere” per godere di una situazione incomparabilmente migliore. Chi sono invece quelli che perdono? Per primi, i datori di lavoro e gli imprenditori onesti spiazzati dalla concorrenza sleale di quelli che usano il lavoro dei clandestini per risparmiare sui costi salariali. Subito dopo troviamo i lavoratori nazionali a più bassa qualificazione e gli stessi immigrati regolari [...]. Infine i contribuenti. Anche se spesso ignorati, non devono essere infatti sottovalutati i costi che l’immigrazione clandestina scarica sul bilancio pubblico [...].?
In realtà, l'opinione pubblica prevalente non riesce ad ammettere che all’offerta criminale del trasporto corrisponda una domanda, e cioè il fatto che gli stranieri avranno pur scelto, per qualsiasi ragione, di intraprendere questo viaggio dall'altra parte del mondo. Le centinaia o migliaia di annegati non solo perdono la vita e il diritto al ricordo (e alla notizia), ma anche quella libertà di scelta che il senso comune liberista considera naturale in ogni essere umano. Perché non riconoscere che questi alieni hanno dimostrato, accettando il rischio di un viaggio di centinaia o migliaia di miglia, lo spirito di iniziativa e di intrapresa che l’ideologia economica contemporanea vorrebbe connaturata all’umanità? La risposta è fin troppo facile, come si è visto analizzando la vicenda albanese. Quella “libertà” è ammissibile, e anzi è santificata, finché si esercita entro i confini della propria nazione, secondo le regole implicite ma ferree della divisione internazionale del lavoro.” Ma non c’è oggi dispotismo, dittatura, carestia o necessità che giustitichi, agli occhi del senso comune internazionale, il diritto alla “seces-
sione” individuale dalla nazione o da un ordine economico “nazionale” (un diritto che pure fu proclamato solennemente cinquant'anni fa dalla Dichiarazione di diritti dell’uomo). Chi tenta di sottrarsi alla fame o al posto che la geoeconomia gli assegna, uscendo dal “proprio” spazio nazionale perde dunque qualsiasi diritto, primo fra tutti quello di essere considerato o ricordato come persona. Egli rischia la spari227
zione in mare o, se è fortunato, un'esistenza precaria e nascosta nelle
società ricche del Nord o dell'Occidente del mondo, compiaciute della loro cultura dei diritti umani. Un’inesistenza di cui i migranti iniziano a essere consapevoli, come mostra la testimonianza di un bambino, che non si lamenta di questa privazione di identità, ma forse riconosce in essa il senso profondo della propria esperienza: Un bambino dell’età apparente di 8 o 10 anni viene portato al carcere minorile perché trovato per strada, a un incrocio, perché cerca di vendere qualcosa, e perché ha tentato di sfuggire ai poliziotti[...]. Il bambino è privo di documenti e non fornisce alcun nome credibile. Prima dice di chiamarsi Dumbo, poi Topolino, poi Paperino, poi John: dice di essere americano ma sembra arabo, poi si dichiara francese (ma secondo gli operatori del carcere, potrebbe essere slavo). Una volta dice di venire da Roma, poi
dalla Svizzera, poi dall'America, infine (sempre secondo gli operatori del carcere, inizia a “delirare”: “Sono un extraterrestre, vengo dallo spazio!” E da allora continua sempre a dire che è extraterrestre. [...] Un giorno il bambino confida a un'assistente sociale che è divenuta sua amica: “Ma perché invece di essere extracomunitario non posso essere un extraterrestre???
Note R. Ellison, Uorzo invisibile, Einaudi, Torino 1983.
2
Secondo dati del ministero degli interni, nel 1996 sono stati espulsi poco più di 5000 stranieri “extracomunitari”, mentre 34.000 hanno ricevuto l’intimazione di
espulsione. Cfr. G. Seccia, Movimenti migratori illegali e criminalità connessa all'immigrazione clandestina in Italia, in C. Brusa, a cura di, Immigrazione e multicul-
tura nell'Italia di oggi. Il territorio, i problemi, la didattica, cit., p. 221. Per questo concetto, cfr. A. Sayad, L’imzzzigration ou le paradoxe de l’alterité, cit.
4
Intendo quila sua “identità” di migrante, che non coincide né con le sue identità di partenza (quando viveva nel territorio da cui è emigrato) né con quelle fittizie che la società di destinazione gli assegna. Vorrei sottolineare la plateale contraddizione tra le retorica della flessibilità e dell’autoimprenditorialità, che ha come oggetto i lavoratori nazionali, e la richiesta ossessiva ai migranti di documentare la regolarità e la “fissità” del lavoro per ottenere il permesso di soggiorno.
5.
Un’analisi insuperata delle pratiche di trasformazione dei malati in non-persone è D. Sudnow, Passirg on. The Social Organization of Dying, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1967.
6
Mi riferisco qui agli studi di Erving Goffman sulle istituzioni totali (cfr. E. Goff-
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man, Asy/r2s, Einaudi, Torino 1968) e sulle pratiche interpersonali di stigmatizzazione (E. Goffman, Stigrza. L'identità negata, Laterza, Roma-Bari 1968). Cfr. anche M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976). Ma si vedano anche i testi di Foucault ora raccolti, a mia cura, in Archivio Foucault. Saperi, poteri, strategie,
cit. Fondamentale per un collegamento tra il tema del controllo e quello della “biopolitica”, implicito in tutto questo libro, è M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit.
Intendo con “retorica” l’insieme di argomentazioni impiegate nel dibattito intorno
ai criteri morali di una società. Uso questo termine per riferirmi non già a “valori” profondi, ma a un accordo più o meno tacito sui criteri fondamentali dell’azione sociale, indipendentemente dal fatto che questi siano realizzati. Mi allontano perciò da quegli autori, come Habermas o Apel (e in sociologia Talcott Parsons) che tendono ad attribuire alla “coscienza comune” o “collettiva” un significato sostanziale. In fondo, il concetto di “banalità del male” si riferisce proprio al fatto che il male estremo può essere commesso in società intellettualmente sviluppate. Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1994.
Un’opinione analoga è quella di Z. Bauman, Modernità e olocausto, il Mulino, Bologna 1994. Penso per esempio al Giappone, dove la data della condanna a morte è segreta e le
esecuzioni vengono comunicate ai parenti dei giustiziati ma non alla stampa. Esistono differenze evidenti tra le esecuzioni in massa praticate in Russia o in Cina e le estenuanti tappe procedurali che portano all'esecuzione in metà circa degli Usa. Comunque sia, le esecuzioni capitali previste da diversi sistemi penali in Occidente mostrano la discrepanza tra retorica giuridica e pratica giudiziaria. Nel sistema penale americano si esclude che la morte del condannato possa essere inflitta in modo “disumano”, “insolito” o eccessivamente doloroso, mentre come è noto que-
sto è il caso più frequente. Una eloquente rappresentazione di tale discrepanza è stata recentemente offerta dal film Dead Man Walking. 10 La retorica del rispetto delle popolazioni civili in caso di guerra si riferisce esclusi-
vamente agli atti diretti di guerra, ma non alle conseguenze degli atti di guerra o delle decisioni politiche ed economiche che vengono adottate contro il nemico. Quando una bomba “intelligente”, durante la Guerra del Golfo, colpì un rifugio antiaereo in Iraq uccidendo donne e bambini, grande fa apparentemente l’emozione in Occidente; il rapporto Fao secondo cui le sanzioni economiche adottate contro l'Iraq hanno causato, direttamente o indirettamente, la morte di un milione
di persone, soprattutto vecchi e bambini tra il 1991 e oggi (per inedia, malnutrizione, mancanza di cure adeguate) non ha provocato nulla di analogo. Definisco come “neutralizzazione” i processi grazie a cui il dibattito morale falsifica certe realtà. Come vedremo, la neutralizzazione gioca un ruolo fondamentale nella trasformazione “indolore” delle persone in non-persone. Sui meccanismi sociali sociali che rendono possibile la neutralizzazione della pietà cfr. L. Boltanski, La Souf france è distance. Morale humanitaire, médias et politique, Metaillié, Paris 1993, specialmente Parte terza, pp. 215 sgg. Noto incidentalmente che i dibattiti sulla “guerra giusta”, proprio per l'incapacità di distinguere il carattere retorico dei criteri di giustizia, non sono che manifestazioni (almeno da un punto di vista sociologico) di tale retorica. Questo è il caso di M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli 1990. Un'analisi eccel-
229
lente dell’intreccio tra Guerra del Golfo, migrazioni, esodi e fughe in massa si può trovare ora in FEGambino, Migranti nella tempesta: flussi di lavoratori senza diritti e di petrodollari nel Golfo Persico, “Altreragioni”, 1, 1992, pp. 113 sgg. 11 Per la discussione delle procedure di neutralizzazione e delle diverse dimensioni di
grandezza in cui operano sono debitore dell'importante L. Boltanski e L. Thévenot, De la Justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris 1991. Cfr.
anche L. Boltanski, La souffrance è distance, cit. Le procedure di neutralizzazione appartengono al campo di ciò che l’etnometodologia definisce metodi di giustifica zione ad hoc. Cfr. A. Dal Lago e PP. Giglioli, a cura di, Etnorzetodologia, il Mulino, Bologna 1983. 12 E. Scarry, La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, il Muli-
no, Bologna 1990, p. 108. 13 H. Arendt, Ritorno in Germania, Donzelli, Roma 1996. Questo è un caso estremo.
Scopo del presente capitolo, come del resto dell’intero libro, è mostrare come le pratiche di obliterazione delle persone siano del tutto normali in una società democratica, sviluppata, razionale eccetera. Non c’è bisogno di dire che uso la parola rimozione in senso letterale e non psicanalitico. A partire dagli importanti studi di M. Halbwachs (La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987), sappiamo che memoria e oblio dei fatti storici sono il risultato di conflitti 4a tra interessi, poteri e così via. 14 A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, Milano 1997, pp. 134-135, corsivo mio.
15 R. Wagner-Pacifici, Discourse and Destruction. The City of Philadelphia versus Move, The University of Chicago Press, Chicago and London 1994. 16 I particolari più atroci della Guerra del Golfo sono stati tenuti nascosti fino all’au-
tunno del 1991, quando il “New York Times” li ha rivelati in un ciclo di reportage. Credo che poche volte nella storia un conflitto di tale portata sia stato così rapidamente evacuato dalla memoria, così come era stato brillantemente confezionato
dallo stato maggiore alleato sul piano della comunicazione. Nascono qui le boutades di alcuni osservatori sul carattere virtuale e irreale della guerra contemporanea (la Guerra del Golfo che “non ci sarebbe stata” eccetera). Questi discorsi, al pari di
quelli sulla “fine della realtà” (J. Baudrillard, I/ delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina, Milano 1996) mettono piuttosto in evidenza l’incapacità di comprendere il potere della comunicazione contemporanea di produrre realtà atroci, nascondendole allo stesso tempo agli abitatori del mondo occidentale. Il cinema americano contemporaneo ci dà qualche esempio di “confezione politico-militare della realtà” che non ha nulla a che fare con la “fine della realtà”, ma
con la capacità di chi controlla i media di determinarla. In Wag the Dog (1997), di B. Levinson, si inventano il terrorismo albanese e una conseguente guerra virtuale al solo scopo di distogliere l’attenzione dell’“opinione pubblica” dalle malefatte private del presidente degli Stati Uniti. “Perché proprio l’Albania?,” chiede un membro dello staff presidenziale al consigliere che ha inventato il plot militare e mediale. “E perché no?” risponde quest’ultimo. Il Per una messa a punto sulle novità introdotte dalla gestione dell’offensiva occidentale nel Golfo, cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 39 sgg. Sulle strategie di disinformazione cfr. anche C. Fra-
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cassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull'informazione planetaria, Libri dell’Altritalia, Roma 1998 (seconda ed.). M. De Landa, La guerra nell'era delle macchine intelligenti, Feltrinelli, Milano 1996, analizza le nuove tecniche militari ma trascura il
ruolo della fabbricazione di informazioni 44 hoc nella strategia contemporanea. 18 Si pensi soltanto alle morti sul lavoro. Le vittime non sono che prodotti di una “fa-
talità” oggettiva per cui non esistono responsabilità (nel marzo 1996, il governo italiano ha emanato un decreto che di fatto deresponsabilizza le imprese che non informano i lavoratori sui rischi che corrono). In altri termini, se per qualsiasi motivo una società decide “democraticamente” che alcune vite non hanno valore, san-
cisce legalmente la possibilità che alcune persone siano virtualmente non-persone. 19 Questo è il terreno, culturale e linguistico, in cui si pongono le premesse del razzi-
smo (secondo la tesi di T.A. Van Dijk, Communicating Racism. Ethnic Prejudice in Thought and Talk, Sage Publications, Newbury Park-London-New Delhi 1987). Ho discusso di questi problemi (in relazione soprattutto alle premesse della ricerca sui fenomeni migratori) in A. Dal Lago, La rostra cultura di fronte all'immigrazione, in I nostri riti quotidiani, Costa & Nolan, Genova 1995.
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Fino a un’epoca recente le donne erano escluse in molte società dalla personalità sociale e giuridica, cioè dalla possibilità di essere delle persone. Ma il fascismo e il nazismo hanno mostrato anche, da una parte, come determinate categorie di persone potessero perdere tale qualifica (ebrei, zingari, omosessuali, internati nei manicomi, “asociali”) e dall'altra come la personalità sociale fosse progressivamente riservata al modello maschile dell’“uomo nazista” o “fascista”. In base a tale modello, i nazisti si proponevano, verso la fine della Seconda guerra mondiale, di eliminare anche le persone “brutte” (cfr. R. Hillberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, cit.). Per un’analisi dei presupposti ideologici di questi processi di eliminazione della persona, cfr. L. Mosse, L'immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’e-
poca moderna, Einaudi, Torino 1997. 21
Si può intendere con questo termine una persona che, pur essendo tale formalmente, è di fatto socialmente discriminata nelle interazioni sociali, sul luogo di lavoro,
nel linguaggio ordinario e così via. Un esempio di “sub-persona” è costituito dalle donne in quanto, pur all’interno di una condizione giuridica pari a quella degli uomini, sono socialmente discriminate (si pensi al fatto che in molti paesi le donne, a
parità di mansioni hanno un salario più basso degli uomini); Un immigrato, invece, in quanto privo di accesso alla cittadinanza e ai diritti, è letteralmente una non-persona, anche se nelle interazioni quotidiane può essere trattato informalmente come
persona. La distinzione mi sembra decisiva, in quanto permette di non parlare ge-
nericamente di esclusione o di discriminazione confondendo i diversi piani. 22
M. Mauss, Una categoria dello spirito umano. La nozione di persona, quella di “io”,
in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, p. 373. Da un punto di vista politico, la formulazione più netta di questo argomento si deve a Hobbes, per il quale persona, coerentemente con l’antica accezione di “maschera”, è la “rappresentazione” giuridica di singoli, collettività o enti (Th. Hobbes, Levzatano, Laterza, Roma-Bari 1974, cap. xv1). In altri termini, può esistere socialmente
ed essere tutelato, sottraendosi allo stato di natura, solo chi è rappresentabile giuridicamente. Questo semplice principio dovrebbe far riflettere sulla condizione strutturalmente asociale degli stranieri non tutelati. Per un approfondimento di questi aspetti, cfr. S. Mezzadra, Nel Leviatano. Immagini del nemico alle origini del-
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la filosofia politica moderna; e F. Rahola, Dietro la maschera. La “persona” come artificio in Marcel Mauss, entrambi pubblicati in A. Dal Lago, a cura di, Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, cit. 23 In fondo, era questo il significato del saggio di Mauss, che si identificava in un socialismo umanistico e non conflittuale. Cfr. J. Fournier, Marcel Mauss, Fayard, Paris 1994.
24 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1975, p. 198, corsivo mio.
Per un inquadramento dei problemi implicati da tale posizione nella teoria contemporanea del diritto (per esempio, la questione dei diritti umani), cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996.
25 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffré, Milano 1984, p. 297. 26 Posso accennare solo di sfuggita, in questo capitolo, al problema della cittadinanza, su cui esiste oggi una discussione vastissima. In sintesi si può dire che il conferi-
mento di diritti civili e politici dipende dalla costituzione dei moderni stati nazionali, mentre la cittadinanza sociale è oggi probabilmente il problema politico centrale della forma-stato contemporanea. In ogni caso la possibilità stessa di una cittadinanza (con le diverse garanzie formali e sostanziali connesse) dipende esclusivamente dall’appartenenza a uno stato nazionale o ad agglomerati di stati nazionali (come l’Unione europea). La questione della cittadinanza è oggi resa esplosiva per la concomitanza di almeno tre fattori: la mondializzazione dei mercati, la fine del-
l'ordine postbellico e l’erosione della cittadinanza sociale nelle società del cosiddetto Nord del mondo. Le nuove emigrazioni internazionali sono al tempo stesso una conseguenza e un fattore di complessità di questo intreccio. Per una introduzione al problema, cfr. G. Andrews, a cura di, Citizenship, Lawrence and Wishart,
London 1991; J.M. Barbalet, Cittadinanza. Diritti, conflitto e disuguaglianza sociale, Liviana, Padova 1992; Aa.Vv., Schwierige Fremdheit. Uber Integration und Ausgrenzung in Einwanderungslindern, Fischer, Frankfurt a.M. 1993; B.S. Turner, a cura di, Citizenship and Social Theory, Sage, London 1994; Y. Nuhoglu Soysal, Limits of Citizenship. Migrants and Post-National Membership in Europe, The University of Chicago Press, Chicago and London 1994; D. Zolo, Cosropolis, cit.; D. Held, Derzocracy, the Nation-State and the Global System, in D. Held, a cura di, Political Theory Today, Polity Press, Cambridge 1995; R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, cit.
27 Non intendo qui svalutare i diversi atti internazionali che (soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale) hanno cercato di affermare e riaffermare solennemente i
diritti fondamentali dell’uomo e della persona. Il problema è non solo che molti stati che hanno sottoscritto tali atti (come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948) possono violarli impunemente, ma anche che alcuni diritti sono controversi. Sui limiti di questi atti internazionali si esprime anche uno dei massimi esperti della materia: cfr. A. Cassese, Diritti dell’uomo, in G. Zaccaria, a cura
di, Lessico della politica, Edizioni Lavoro, Roma 1987, pp. 184 sgg. 28 L. Ferrajoli (Das diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo, a cura di, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 288) affer-
ma giustamente che, nel mondo contemporaneo, la cittadinanza è rimasta l’unico privilegio di status.
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29 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 404. 30 Cfr. gli studi raccolti in B. Jenkins e S.A. Sofos, a cura di, Nation & Identity in Contemporary Europe, Routledge, London and New York 1996. 31
Dovrebbe risultare chiaro da quanto precede che l'appartenenza a un ordinamento nazionale (o sovranazionale) non deve essere intesa in senso formale; essa include
di fatto delle discriminanti materiali, come la “povertà”, il “sottosviluppo” eccetera; gli accordi di Schengen per la delimitazione e la regolamentazione dello spazio europeo non riguardano evidentemente “extracomunitari” come svizzeri, america-
ni o giapponesi. Da questo punto di vista, il “razzismo” non è un processo legato soltanto alla discriminazione delle razze ma la sintesi di molteplici discriminazioni e inferiorizzazioni. Cfr. su questo aspetto E. Balibar e I. Wallerstein, Race, nation, classe. Les identitées ambiguès, La Découverte, Paris 1990. 32
Questo concetto fondamentale è stato elaborato da E. Fraenkel, I/ doppio stato. Contributo a una teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983.
33 Ma non solo. Non si dimentichi che in diversi stati del Sudest degli Usa i neri erano di fatto privi del diritto di voto fino all’inizio degli anni sessanta di questo secolo. 34 R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, cit. Per una ricostruzione delle pre-
messe giuridico-politiche dello sterminio, cfr. H. Mommsen, Die Realisierung des Utopischen: die “Endlosung der Judenfragen” im Dritten Reich, “Geschichte und Gesellschaft”, 9, 1983. 35 Si tratta della privazione di diritti civili dei propri cittadini cui diversi stati hanno fatto ricorso in situazioni di emergenza. Per gli Usa, cfr. M. d’Eramo, I/ rzasale e il grattacielo, cit. 36 Mi riferisco qui a G. Agamben, Horzo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit. e ai testi raccolti dallo stesso autore in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati-Boringhieri, Torino 1996. Agamben vede nel campo d’internamento e (di sterminio)
non una deviazione irrazionale dall’ordine democratico europeo ma il fondamento stesso della sovranità politica. A questo aggiungerei, come indicherò sommariamente nelle pagine seguenti, l'eliminazione di fatto degli stranieri, la loro riduzione a corpi impersonali, come pratica corrente e legittima degli stati che devono affrontare il problema delle migrazioni. DI
Si veda, per esempio, la discussione di Derrida di concetti chiave della teoria politica, come “democrazia”, “amico”, “nemico”
(in particolare in Carl Schmitt) nel
quadro di un’ampia riflessione sull’“amicizia” (cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995). Qui l’analisi viene condotta in una dimensio-
ne intimistico-privatistica estranea alla natura politica di tali problemi nel nostro tempo. Successivamente, Derrida ha cercato di affrontare il problema degli stranieri, e in particolare del diritto d’asilo (cfr. J. Derrida, Cosrzopoliti di tutti i paesi ancora una sforzo!, cit.). Da parte sua, J. Kristeva, in Strazzeri a se stessi, Feltrinelli,
Milano 1990, individua correttamente l’“inquietante estraneità” dell’altro, ma lun-
gi dal vederla come effetto di una molteplicità di esclusioni la collega alla rimozione dello straniero che sarebbe in noi. Cosicché, nonostante il richiamo all’universalismo e al cosmopolitismo, lo straniero resta comunque una proiezione di qualche lato più o meno oscuro di noi stessi. Per aggirare questi falsi problemi bisognerebbe cominciare a pensare che non esiste lo Straniero ma esistono gli “stranieri”, nella loro concretezza e individualità, e con tutti i problemi politici che essi pongono
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al mondo in cui tutti viviamo. Vale la pena ricordare uno dei pochi autori contemporanei consapevoli che non esiste tanto lo Straniero metafisico, ma esistono gli stranieri creati dall'esistenza dei confini: cfr. Z. Bauman, Life in Fragments. Essays in Postmodern Morality, Blackwell, Oxford 1997; Id., Le sfide dell'etica, Feltrinelli,
Milano 1995, in particolare, capp. 6 e 7. 38 Il caso-limite di sparizione è ovviamente quello dei desaparecidos, gli oppositori di sinistra che, tra il 1976 e il 1983, furono torturati ed eliminati dalle forze di sicurez-
za della dittatura in Argentina. Una sparizione confermata e legittimata dal governo Alfonsin e da quello Menem con l’amnistia dei generali e degli ufficiali responsabili (M. Benedetti, The Triumph of Memory, “Nacla Report on the Americas”, XXIX, 3, 1995). Prima di illuderci che simili orrori non ci riguardano, dovremmo ri-
cordare non solo che le democrazie occidentali e gli Usa si sono ben guardati dall’interferire ufficialmente nelle attività di governi amici o alleati, ma che anche la nostra società non si preoccupa troppo degli stranieri che espelle restituendoli a dittature come quelle del Marocco o della Nigeria. Come è stato dimostrato dalla Guerra del Golfo, il nostro sguardo compassionevole non va oltre i confini dei nostri paesi.
39 Si pensi all’obbligo per gli zingari di risiedere in campi alle periferie delle città. Nei
confronti degli zingari si attuano ancora oggi forme di discriminazione specifica (al di là della vera e propria fobia per zingari e nomadi, che si è tradotta, come abbiamo visto, in “mobilitazioni” urbane). Per un’analisi di queste forme di discrimina-
zione, cfr. P. Brunello, a cura di, L'urbanistica del disprezzo. Campi Rom e società italiana, cit. Ma forse il caso di sparizione più radicale che abbia colpito gli zingari è la loro rimozione dalla memoria storica dello sterminio nazista (su cui si vedano le osservazioni puntuali di R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, cit., pp. 685-688 e vol. II, pp. 1081 sgg.). La rimozione è stata assoluta anche nel caso degli omosessuali vittime del nazismo. 40 Per una rassegna critica della legislazione italiana sugli stranieri, cfr. M. Pastore,
Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati, “Quaderni Ismu”, 9, 1994.
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La distinzione qui proposta tra “non-persone” e “sub-persone”, o tra clandestini o esclusi, non è solo formale, ma ha a che fare con un destino virtualmente divergente. Ciò non esclude, come dovrebbe risultare chiaro, che forme estreme di esclusione si configurino come veri e propri casi di sparizione. Una ricerca a cui posso ri-
mandare per un'analisi complessa dell’esclusione nelle due diverse sfumature (nel caso della Francia) è P. Bourdieu, La yzisère du monde, cit.
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Un diritto del tutto formale. Si ricorderà che nell'agosto 1998 un detenuto in un campo siciliano era ancora ammanettato al momento della morte (per cause naturali).
43 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 397-399. re: 44 Abbiamo qui un esempio dell’“inclusione escludente” discussa da G. Agamben in Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit. 45 Come sempre avviene nel caso del diritto, le parole diventano decisive.
A ogni sbarco o arrivo di stranieri imprevisti infuria il dibattito sulla loro definizione pubblica, se cioè si tratta di “rifugiati” e “profughi” oppure “clandestini”. Cfr., nel caso dello sbarco di 800 curdi in Calabria, i quotidiani del 29 dicembre 1997.
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46 In particolare i migranti e i profughi clandestinizzati alimentano il mercato del lavoro in nero e non solo nei paesi in cui l'economia informale è rilevante. Cfr A. Morice, Les travailleurs étrangers aux avant-postes de la precarité, “Le Monde Diplomatique”, sennaio 1997, pp. 18-19)
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I vantaggi, per la nostra società, della sparizione reale o virtuale sono fin troppo evidenti. Se un clandestino o un irregolare riesce a nascondersi negli interstizi dell'economia sommersa o semilegale, costituisce un’eccellente risorsa economica, in quanto lavoratore privo di diritti e semischiavo, oppure manodopera di riserva. Non è un caso che l'atteggiamento degli ambienti industriali e dei loro portavoce liberisti (da Bill Gates a George Soros) verso gli immigrati, in Europa o in America, sia molto più flessibile delle forze sociali e politiche di tipo conservatore (di destra o di “sinistra”) che, in nome della legge e dell’ordine, predicano l'espulsione a tutti costi. Su questa dialettica tipicamente postindustriale, cfr. Y. Moulier-Boutang, Le salariat bridé, cit. Una lunghissima sequenza di tragedie evitabili, “il manifesto”, 3 agosto 1997, p. 19. Editoriale di Sergio Ricossa, “Il Giornale”, 1 agosto 1997.
Cf. L. Quagliata, Se la notizia non c'è, “il manifesto”, 27 dicembre 1997, p. 17.
In Italia, Livio Quagliata de “il manifesto”. Per un resoconto delle sue inchieste cfr. L. Quagliata, Scorzodi fantasmi, “Altreragioni”, 7, 1998. C. Simon, Les naufragés du “Yoham”, “Le Monde”, 2 febbraio 1997.
G. Bolaffi, L'affare clandestini, “la Repubblica”, 27 agosto 1998. V. Forrester, L'orrore economico. Lavoro, economia, disoccupazione: la grande truffa
del nostro tempo, Ponte alle Grazie, Firenze 1997. Citato in S. Palidda, Verso il “fascismo democratico”?, cit., p. 146.
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Paradossi globali L'emigrazione nasce dal bisogno di respirare. (R.S. Matta Echaurren)
Un mondo di incertezza In quanto bersaglio delle ossessioni di una società e “legalmente inesistente”, perché escluso dai sistemi giuridici nazionali, un migrante è un essere umano puramente marginale. Essere che per definizione attraversa confini, costituisce il confine o margine di una società.’ Più di un secolo fa, Durkheim osservò che la funzione di chi viola la legge e in generale dei marginali è precisamente quella dell'innovazione. Nei rituali di punizione cerimoniali, come nel diritto penale, e in quelli meramente procedurali, come nella stigmatizzazione pubblica e mediale dei “nemici collettivi”, una società tenta di ricostituire incessantemen-
te la sua compattezza (la “solidarietà”, nei termini di Durkheim),' sperimentando al contempo la capacità di estendere i propri confini. Il marginale, l’essere liminale, è precisamente un vettore del mutamento sociale. È possibile, al di là di una terminologia funzionalistica ormai 254
frusta, comprendere in questo senso la posizione dei migranti nel mondo contemporaneo? Una risposta deve chiamare in causa la dimensione “globale” o mondiale delle società contemporanee. Nel volgere di un decennio (a partire, convenzionalmente, dalla caduta del muro di Berlino), abbiamo scoperto che qualsiasi concetto impiegato per descrivere la società — classe, stato, capitalismo, mercato, cultura, comunicazione — doveva essere rivisto alla luce della sua dimensione mondiale. Se, in preceden-
za, solo le religioni monoteistiche potevano pretendere di essere universali, oggi non c’è aspetto della vita collettiva che non sia interpretabile in una prospettiva che trascende i confini delle società locali. Il mondo intero è ormai il campo d’azione delle imprese, l’orizzonte naturale dei movimenti finanziari, il terreno inevitabile della politica, il
raggio d’azione delle comunicazioni di massa. La crisi di un'economia locale diventa istantaneamente un problema per tutto il mondo. La caduta di una dittatura o una guerra civile in un paese lontano (per noi) produce effetti che si riverberano in ogni parte del globo. Come ci ricordano le cronache di tutti i giorni, la vita materiale di ogni abitante del pianeta è condizionata, direttamente o indirettamente, da ciò che
accade contemporaneamente in tutto il mondo conosciuto. Un mondo globalizzato conosce come legge suprema il movimento. Movimento spaziale, in quanto la riduzione o l'eliminazione dei confini (economici e comunicativi) consente una circolazione sempre più ampia e rapida di beni, simboli e idee. Movimento temporale, poiché la supposta contemporaneità degli eventi comporta l’accelerazione dei tempi di decisione nei campi strategici dell'economia e della politica.” La movimentazione della società non è certamente un fenomeno originale. Marx l’associava direttamente al ruolo dell’industria nell’espansione del mercato mondiale.’ A partire dalle esplorazioni transoceaniche della fine del Quindicesimo secolo, la storia europea è sempre stata associata al movimento. Indipendentemente dalle esperienze di viaggio individuali e collettive (crociate, pellegrinaggi pacifici e armati, missioni, avventure commerciali) che hanno tenuto aperte le vie di comunicazione con l'Africa e l'Asia durante il Medioevo, la nascita
dell'Europa moderna sarebbe impensabile senza gli scambi economici con il resto del mondo. Come hanno messo in luce gli studiosi dell’evoluzione economica del sistema-mondo, il capitalismo, prima euro-
peo e poi occidentale, ha conosciuto cicli di espansione commerciale e finanziaria sempre più allargata, nel cui controllo si succedevano le potenze dominanti.* Dall’egemonia mediterranea dei genovesi fino a quella oceanica di olandesi e inglesi, e poi all'avvento del “secolo ame238
ricano”,’ la storia del capitalismo occidentale è scandita dalla capacità delle potenze militari globali, prima marittime, poi aeree e oggi comunicative, di impiantare stazioni commerciali, di controllare le vie e i
mezzi di comunicazione, di procurarsi materie prime e forza lavoro a buon prezzo, di assoggettare popoli e regni.!° Il ruolo degli stati occidentali nel sostenere l’espansione capitalistica su scala mondiale, un ruolo che da sempre ha confutato i miti liberisti dello sviluppo naturale e pacifico del capitalismo, è troppo noto e documentato per esigere illustrazioni particolari. Fin dalle origini, il capitalismo è impensabile senza il supporto di forme giuridiche e politiche capaci di definire l’intero mondo come suo ambiente naturale di espansione. Una tendenza all’“universalismo” giuridico-politico del tutto coerente con l’assoggettamento e la riduzione in schiavitù di popoli “esotici”, il saccheggio e la canalizzazione delle loro risorse verso l'Europa o verso altri mercati controllati dalla potenze europee." Basti ricordare che fin dall’inizio del Sedicesimo secolo — l’epoca dei conquistadores — la libertà armata di correre il mondo alla ricerca delle ricchezze che vi erano celate era vigorosamente giustificata da teologi e giuristi: Nel 1539 [...] Francisco De Vitoria riformulò i titoli di legittimazione della conquista dell’ America da parte degli spagnoli ponendo le basi del moderno diritto internazionale e, insieme, dei moderni diritti naturali. Questi
titoli di legittimazione furono da lui individuati nello “ius communicationis ac societatis”, [...] e in una serie di altri diritti naturali che egli ne de-
rivò come corollari: lo “ius pregrinandi in illas provincias et illic degendi”, lo “ius commercii”, lo “ius praedicandi et annuntiandi Evangelium”, lo “fus migrandi” nei paesi del nuovo mondo e di “accipere domicilium in aliqua civitate illorum” e, a chiusura del sistema, lo “ius belli” in difesa di tali diritti in caso di opposizione al loro esercizio da parte degli indios."
In questo senso, dunque, il capitalismo è stato “globale” fin dalla nascita. Globale sia per la sua natura prometeica (brillantemente descritta nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels), sia per la capacità di produrre, attraverso l'espansione dei mercati, forme culturali “universali”. Se da un decennio si parla ossessivamente di globalizzazione, non è perché il capitalismo si sia snaturato o conosca una fase originale di trasformazione, ma perché è entrato in una dimensione relativamente nuova, definita dalla capacità apparentemente illimitata di utilizzare la forza-lavoro dovunque sia disponibile e di creare profitti in ogni recesso dell'economia mondiale. A questa saturazione degli spazi economici si deve aggiungere che, diversamente 2539
da un passato non lontano, il consenso culturale e politico sul capitalismo come forma economica esclusiva della società sembra assoluto. La fine repentina del socialismo reale ha sgombrato l’orizzonte mondiale del capitalismo da ogni opposizione ufficiale.'* Con una spettacolare inversione di tendenza rispetto alla cultura economica che ha orientato le politiche pubbliche per quasi cinquant'anni, dal New Deal all'avvento della presidenza Reagan, il liberismo è oggi l’unica forma di pensiero economico universalmente accettata, al punto di annacquare la tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra.” L'affermazione del “pensiero unico”! non riflette che la tendenza all'omologazione della cultura materiale in tutto il mondo. L'attuale stadio della globalizzazione si manifesta visibilmente nell’omogeneizzazione dei consumi: un numero sempre maggiore di beni materiali e immateriali definisce lo stile di vita uniforme di una quota crescente della popolazione mondiale.” La globalizzazione costituisce dunque l’orizzonte delle trasformazioni politiche e sociali attuali. Un orizzonte mobile e soprattutto incerto. Alla globalizzazione capitalistica non corrisponde alcuna tendenza alla “globalità” nella gestione delle crisi economiche, dei con-
flitti politici e dei problemi ecologici moltiplicati dalla “nuova” dimensione mondiale.'* Max Weber era buon profeta, all’inizio di questo secolo, quando sosteneva che la tendenza a una razionalizzazione parossistica della vita avrebbe innescato una dialettica perversa, dominata in ultima analisi dal conflitto “politeistico” dei valori. Mentre egli aveva in mente però l’orizzonte della società occidentale, oggi dovremmo parlare piuttosto dell'intero pianeta come campo di conflitti che si alimentano alle motivazioni economiche, politiche e culturali più varie. La caduta del muro di Berlino, per esempio, fu salutata come l’inizio di una nuova era di pace e di prosperità, ma immediatamente le previsioni di futurologi e ideologi della “fine della storia” furono smentite. Il trionfo planetario del liberismo non si è tradotto, come vorrebbe l’ideologia del /azssez-fatre, nell'’aumento del benessere, ma
nella cronica incertezza sulle prospettive economiche del mondo sviluppato.' Le crisi finanziarie si propagano oggi con una velocità superiore a quella del tracollo del 1929, al punto che un economista prestigioso può parlare della paura come condizione psicologica stabile dell'economia contemporanea. D'altra parte, la scomparsa del comunismo, di quello che per più di quarant’anni è stato il nemico “globale” per eccellenza dell’Occidente, lungi dall’assicurare la pace, non impedisce il proliferare di guerre locali che oggi coinvolgono il cuore della stessa Europa.” 240
A questa atmosfera globale di incertezza si accompagnano mutamenti profondi, e dalle conseguenze difficilmente prevedibili, nelle struttura economica e politica delle società dominanti. La spinta sempre più accentuata alla transnazionalizzazione delle imprese e dei mercati priva gli stati di un’autonoma capacità di controllo e regolazione dell'economia, rendendo obsoleta l’idea di un’economia nazionale.” L'intervento sulle variabili della politica economica è ancora demandato alle autorità politiche nazionali, ma solo entro parametri rigidi fissati da autorità politico-finanziarie come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio e
la stessa Unione europea. Benché i singoli stati partecipino formalmente, in base alle loro possibilità economiche, alla gestione delle ri-
sorse controllate da queste organizzazioni, le economie più deboli, specialmente dei paesi in via di sviluppo e di quelli che solo recentemente si sono convertiti al mercato, sono del tutto dipendenti dalle au-
torità internazionali. Le ricette di politica economica e sociale che il Fmi impone ai paesi in difficoltà in cambio di prestiti, o della dilazione dei debiti, condizionano spesso in modo catastrofico le condizioni di vita degli abitanti.” Ma anche i paesi più ricchi, con l'eccezione dei soli Stati Uniti, vedono limitare progressivamente la loro sovranità in materia di economia e di politica sociale.” La progressiva scomparsa dei vincoli locali e statali posti alla libertà delle imprese ha l’effetto di inasprire le condizioni di vita di una quota crescente di popolazione sia nelle economie sviluppate sia in quelle più povere. La tendenza al trasferimento delle attività produttive nelle aree in cui la forza-lavoro costa meno, la cosiddetta “delocaliz-
zazione” delle imprese, è all'origine della deindustrializzazione progressiva nelle economie sviluppate. E a questa corsa al ribasso e alla dislocazione del lavoro, e non solo allo sviluppo delle tecnologie informatiche e in generale delle pratiche di gestione aziendale labor-saving, che deve essere attribuita la crisi dell'occupazione che attanaglia le economie sviluppate nell’epoca postfordista.” Negli anni novanta la disoccupazione è divenuta in Europa un fenomeno di massa (toccando una media superiore al 10%), mentre negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione più ridotto rispetto all'Europa (circa il 5%) copre a malapena la realtà di una diminuzione progressiva dei salari medi e dell’enorme diffusione di occupazioni precarie.” Per effetto di questi sviluppi complessi, che il termine “globalizzazione” riflette ormai solo in modo generico, è la struttura stessa delle società sviluppate che si sta modificando. La fine del patto sociale moderno, basato sulla contrattualizzazione del lavoro e su un sistema di 241
stabili garanzie sociali per i lavoratori,” comporta la precarizzazione dell’esistenza materiale per quella che Dahrendorf stima circa la metà della popolazione dei paesi “ricchi”.* Chi oggi non può aspirare a far parte, a causa di una formazione inadeguata o di altri svantaggi “posizionali”, del gruppo dei “manipolatori di simboli”, l'élite delle società postindustriali che in sostanza gestisce a proprio vantaggio i processi di globalizzazione, è condannato a mansioni ripetitive, scarsamente re-
munerate e precarie.” La disuguaglianza non coincide più esclusivamente con la storica differenziazione in classi, sia perché il ruolo del lavoro operaio si è progressivamente ridotto (almeno nei paesi sviluppati), sia perché la marginalità economica e sociale coinvolge ceti che un tempo avremmo definito “piccolo borghesi”: lavoratori subordinati dei servizi, addetti al “trattamento ripetitivo dei dati”, impiegati della pubblica amministrazione, insegnanti, collaboratori dei servizi so-
ciali, lavoratori autonomi nel campo dell’ “economia simbolica” e così via.?° Un confine molto incerto separa oggi questo esteso gruppo socia-
le dai lavoratori più marginali e subordinati di tutti, i prestatori di servizi alla persona (collaboratrici domestiche, accompagnatori di anziani eccetera) e dal precariato nelle mansioni umili e faticose. L’alterazione della struttura sociale “fordista” comporta la modificazione dell'ambiente urbano, in cui oggi vive poco meno dell’80% della popolazione dei paesi sviluppati.” Così, mentre le élite riorganizzano la propria esistenza materiale modificando il volto delle città — globali solo perché sono al servizio delle élite globalizzate”® — una metà della popolazione vede diminuire la qualità della propria vita per effetto combinato della diminuzione della spesa sociale (assistenza, sanità,
trasporti) e della precarietà del lavoro. L'aumento spettacolare degli homeless negli Stati Uniti e la loro diffusione in Europa rappresentano vistosamente la frattura che si è aperta tra la popolazione garantita e quella soggetta a scivolare nella marginalità. La sommossa di Los Angeles del 1992 sintetizza più di ogni altro evento di questo decennio, al pari dei r/0ts periodici di città globali come Parigi e Londra, la persistenza di una questione sociale esplosiva nel cuore del mondo sviluppato. Una questione che le élite delle città globali tentano invano di rimuovere con la fortificazione dei quartieri residenziali e l’inasprimento della repressione delle devianze 0, come accade in Italia, con il r24-
quillage urbano, l'espulsione dei marginali dai centri storici, la cacciata degli zingari o le grottesche crociate contro le prostitute.” Questo quadro di precarietà e di conflittualità è un sintomo dell’allentamento del legame o contratto sociale complessivo che gli stati nazionali avevano garantito nell’ultimo secolo, un legame fondato sulla 242
regolazione pubblica dei rapporti di lavoro e sull’integrazione delle classi lavoratrici. Un allentamento che pregiudica le stesse giustificazioni culturali e ideologiche degli stati moderni. Oltre al suo tradizionale ruolo di inclusione del proletariato, la “nazione”, un complesso di mitologie e di rituali laici elaborato relativamente tardi nella storia europea, aveva la funzione di integrare simbolicamente la costruzione di enormi apparati repressivi e di controllo sociale di cui, secondo la famosa definizione di Max Weber, gli stati avevano il monopolio nello
spazio lasciato libero dagli altri stati. La creazione del sistema di istruzione pubblica, l'apparato statale più esteso insieme a quello repressivo-militare, realizzava l’altro grande monopolio dello stato nazionale, il controllo dei sistemi simbolici e della loro trasmissione.” Ora, con
l'eccezione dell’apparato repressivo e in qualche misura di quelli amministrativi, imonopoli dello stato, compreso il più recente — le comunicazioni di massa — sono insidiati da ogni parte. Gli stati nazionali controllano in misura sempre minore i grandi apparati di trasmissione e riproduzione della cultura, i sistemi educativi e le comunicazioni di massa, in cui la concorrenza privata, nazionale e internazionale, è sem-
pre più forte, allo stesso modo in cui hanno dovuto rinunciare alla sovranità in materia di politica economica e di politica internazionale. Ciò non significa, come viene proclamato disinvoltamente da qualche apologeta della globalizzazione,’ che gli stati-nazione siano “finiti”. Significa piuttosto che il loro ruolo, insieme alle retoriche pubbliche che lo giustificano, deve riadattarsi a un quadro mondiale molto
più complesso e per certi versi indecifrabile nei suoi sviluppi.” La denazionalizzazione sempre più spinta dell'economia fa sì che nuove aree di interesse si formino all’interno degli stati e tra gli stati, con la conseguenza che ricchezza e povertà non coincidono più, anche nel mondo sviluppato, con i confini politici tradizionali. D'altra parte, la ridefinizione del potere economico non si esprime meccanicamente in nuove forme stabili di egemonia, ma in una costellazione di dimensio-
ni di potere che interagiscono ed entrano in conflitto, in una sorta di instabilità controllata e continuamente negoziata.” Gli esempi in questo campo sono numerosi. Così, il Giappone, un colosso dell’economia mondiale (uno dei principali creditori del mondo, che possiede il 40% del debito pubblico degli Stati Uniti)‘° esercita un'influenza secondaria, non diversamente dalla Germania, in termini di politica internazionale. Viceversa, l'egemonia militare degli Usa e l’americanizzazione dei consumi planetari — due tratti vistosi dell’attuale globalizzazione — non corrispondono certamente a uno stabile potere planetario. In altri termini, per quanto l'economia o, meglio, il capitalismo 243
globale eserciti una funzione di incessante destabilizzazione delle relazioni internazionali e sottragga tradizionali prerogative agli stati, questi restano comunque il campo di investimento più rilevante dal punto di vista politico. Uno stato contemporaneo è una macchina troppo complicata e costosa, svolge funzioni troppo specializzate nell’amministrazione della vita materiale e nella mediazione degli interessi perché possa essere indebolito dalla delega di alcune sue funzioni chiave ad altre organizzazioni. Da una parte, queste deleghe — cioè la limitazione della sovranità - sono precedenti in molti casi all’attuale stadio della globalizzazione e della ri-definizione dei poteri mondiali (si pensi solo alle “alleanze militari” come la Nato e alle organizzazioni che regolano le transazioni finanziarie). Dall’altra, ciò che resta degli stati nazionali riguarda funzioni così specifiche che nessun apparato transnazionale potrà facilmente surrogarle. “Ciò che resta” è solo un eufemismo. Indipendentemente dalla loro sovranità limitata, dallo subordinazione, reale o vir-
tuale, a poteri transnazionali o interstatali più grandi, gli apparati di controllo sociale impiegano milioni di uomini e gestiscono risorse immense. Nell’epoca in cui il settore privato conduce una battaglia feroce contro la spesa sociale, e in generale per il dimagrimento del settore pubblico, la spesa per mantenere polizie, eserciti, sistemi giudiziari e altri apparati non viene contestata. È l’enormità della posta che può spiegare la ferocia con cui tali apparati difendono i loro privilegi, l’abbondanza delle risorse destinate alla loro modernizzazione o innovazione, la tendenza sempre più diffusa a interpretare in chiave repressiva, poliziesca e giudiziaria i conflitti della società contemporanea. “Ciò che resta” infatti degli stati nazionali, nell'epoca della limitazione, e non della fine, della sovranità, è precisamente il loro nucleo più duro.
Nei paesi “civili” vengono usati i mezzi più sporchi e brutali per combattere le minoranze religiose, le rivendicazioni regionalistiche e in generale i “terrorismi” (penso alla lotta dello stato spagnolo contro l’Eta, alla repressione inglese in Irlanda, e al modo in cui sette o movimenti
vengono liquidati negli Stati Uniti). Più che essere un processo culturale innescato dal basso, il risveglio del nazionalismo che si registra in misura diversa in tutto il mondo sviluppato appare come un tentativo delle élite dominanti, di destra e di sinistra, di giustificare il loro controllo degli apparati pubblici. Un tentativo artificiale ma efficace, che si manifesta nella reinvenzione di mi-
tologie storiche e patriottiche, nell’etnicizzazione dei conflitti e soprattutto, come ho cercato di mostrare in questo libro, nella riproduzione e nell’amplificazione politico-mediale dell’inimicizia. È vero che l’in-
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sofferenza verso gli stranieri circola diffusamente nel “basso” della società e della vita urbana, un’insofferenza evidentemente alimentata dal
peggioramento diffuso delle condizioni di vita e dall’insicurezza. Ma essa è gestita dalle élite culturali e politiche, locali e nazionali, e solo grazie a questa manipolazione, di cui credo di aver dato illustrazioni sufficienti, viene codificata pubblicamente come inimicizia. Questa è
oggi una formidabile risorsa simbolica per garantire il controllo della società e il funzionamento degli apparati pubblici di controllo. Lo sviluppo di nazionalismi alternativi, espressione politica locale delle nuove poste in gioco nella riorganizzazione territoriale dell’economia, si conforma alla stessa logica. Il tentativo più o meno artificiale delle élite locali di costruirsi centri di poteri alternativi e di giustificare la propria legittimità si esprime, anche se in modo più folcloristico, in una cultura dell’inimicizia del tutto omogenea a quella dei nazionalismi tradizionali. In altre parole, come si è visto nel caso della Lega, i
neonazionalismi cercano di competere con le élite nazionali nello sfruttamento di una risorsa comune, la demonizzazione dello straniero, l’ostilità verso immigrati e “clandestini”. Ronde, crociate contro la
prostituzione vistosa, pulizia e polizia delle città, espulsioni, centri di internamento per immigrati non modificano certamente la realtà di un’immigrazione che in qualche misura è inevitabile, e viene in realtà accettata senza troppo chiasso quando infoltisce i ranghi del lavoro sottopagato. Ma la ridefiniscono come fenomeno subordinato, assegnando agli immigrati un ruolo infimo e marginale nella gerarchia della società. Per effetto di quello che ho già definito come un “doppio vincolo”, il migrante è il 7zeteco contemporaneo, mera carne da lavoro quando è privo di voce e visibilità, nemico pubblico quando manifesta, volontariamente o no, la sua pretesa di esistere.
Una società globalizzata, nel panorama qui evocato per sommi capi, è tutt'altro che una realtà “razionale”. Benché i mutamenti economici e i vincoli del mercato ne disegnino la struttura materiale, essa resta una sorta di puzzle in cui tradizioni e costumi, istituzioni e apparati, costellazioni di interessi vecchi e nuovi coesistono in un equilibrio instabile e sempre soggetto a subire l’influenza di fattori incontrollabili. Appellarsi perciò a una razionalità complessiva è solo un modo convenzionale di evocare una stabilità utopica. In primo luogo, ciò che oggi chiamiamo economia è forse la meno prevedibile e la più instabile dimensione della società. Tramontata qualsiasi illusione di gestione strategica, l'economia mondiale è una sorta di lotto in cui i vincitori mutano continuamente: la sorte delle economie del Sudest asiatico, le
cosiddette “tigri”, e dello stesso Giappone, evocati fino a poco tempo 245
fa come un nuovo “pericolo giallo”, la dice lunga sulla natura effimera del successo economico, insidiato da un giorno all’altro dai movimenti speculativi, dai timori degli investitori e dei risparmiatori e dal capriccio dei consumatori. La corsa all'innovazione tecnologica e alla competitività, quella spinta in avanti in cui il “pensiero unico” vede l’unica via per la sopravvivenza economica, è anche un modo di nascondere l’irrazionalità fondamentale del mercato mondiale. D'altra parte, alla fine del processo economico non troviamo degli attori razionali e calcolanti — come vorrebbero le teorie economico-sociali oggi di moda — ma dei consumatori più o meno passivi e condizionati. Essi non hanno alcuna possibilità di determinare la qualità dei consumi (e la loro corrispondenza ai “propri” bisogni), ma semmai quella di “scegliere” dei prodotti in una gamma di offerte il cui senso profondo è sempre esterno. L'espansione dell'informatica e delle comunicazioni di massa corrisponde a bisogni “naturali” di conoscenza e di comunicazione, o non sono piuttosto questi l’effetto finale, al consumo, di un capitalismo sempre più innovativo, fantasioso, immateriale, capace di sfruttare la voglia di evadere dall’idiotismo della vita quotidiana e l’illusione di partecipare a una dimensione culturale “globale”? Inoltre, un’economia così vorace ed espansiva è in grado infinita-
mente più del passato di commercializzare e di mettere in rete idee e simboli, trasformandoli in bisogni. Lo stesso vale per la fabbricazione e la circolazione delle “identità”, quegli abiti sociali in cui gli esseri umani cercano qualche tipo di protezione o di rete di sicurezza. Identità locali, regionali, nazionali, come ogni altra merce, sono oggi beni che vanno e vengono con rapidità impressionante. E ciò produce effetti perversi e incontrollabili. La sussunzione di ogni contenuto culturale nelle reti del mercato globale, fa sì che identità più o meno arbitrarie, che un tempo sarebbero rimaste confinate al folclore locale, si im-
pongano immediatamente con la forza della comunicazione istantanea. Internet non offre solo informazioni, servizi commerciali, gruppi di discussione ma la propaganda delle milizie reazionarie del Montana, di gruppi neonazisti o fondamentalisti, islamici e no. Ma, al di fuori di questi casi-limite, è il cittadino qualunque, il consumatore di beni materiali e simbolici, a essere inerme nelle tempeste dei mercati mondiali. Esistenze materiali faticosamente conquistate sono esposte a tracolli incomprensibili nell’orizzonte percettivo della vita quotidiana. Variazioni demografiche di lungo periodo, che nessuno poteva prevedere, vengono improvvisamente evocate per giustifica-
re il taglio delle pensioni o la riduzione dei salari. Un ridicolo scandalo sessuale, che minaccia la credibilità del presidente degli Stati Uniti, 246
può essere la causa di una crisi finanziaria. Il crollo di una borsa, a ventimila chilometri di distanza, diviene l’occasione diretta o indiretta, a seconda dell'andamento della finanza pubblica, per modificare il tasso di sconto, ciò che si riflette sui risparmi, sui salari e sulle pensioni. In
altri termini, l’esistenza quotidiana, anche nelle aree ricche del pianeta, è soggetta a un’insicurezza per cui non esiste alcun conforto, se non
l’incessante produzione di retoriche pubbliche e di vere e proprie mobilitazioni mediali. Si pensi all’unificazione monetaria dell'Europa occidentale. Una politica occasionale di compressione dei consumi, dalle conseguenze economiche e politiche di lungo periodo imprevedibili, è stata l'occasione per la produzione di una retorica del tutto irreale centrata sulla “civiltà”, la “solidarietà” o l’“identità” europee.
Il ruolo delle retoriche pubbliche nella gestione dell’insicurezza diffusa è evidente specialmente nel modo in cui gli apparati politicomediali trattano i “rischi” o le minacce della società. É vero, per co-
minciare, che una categoria di rischi per la vita quotidiana è divenuta più visibile nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni. Non parlo qui dei rischi “globali”, come quelli ecologici, connaturati allo sfruttamento parossistico delle risorse. Parlo piuttosto dei rischi, reali e apparenti, connessi alla degradazione delle relazioni sociali. La riduzione o lo smantellamento, a seconda dei casi, dei sistemi di welfare sociali
comporta, a causa del peggioramento e dell’incertezza delle condizioni di vita, un aumento della microconflittualità, soprattutto urbana. La
sommossa di Los Angeles non è stata una rivolta “razziale” ma in primo luogo il tentativo, da parte di decine di migliaia di esclusi e disoccupati, neri e ispanici, di appropriarsi direttamente dei beni materiali da cui le politiche “sociali” reaganiane li avevano tagliati fuori. Al di fuori di questi casi clamorosi, è naturale che le attività microcriminali siano diffuse, oggi come ieri, tra i marginali, soprattutto giovani. Ciò che la sociologia chiama fenomeni “predatori” (furti, scippi, aggressioni) è la conseguenza di un buon numero di svantaggi di posizione, economici, sociali, urbani, educativi. Interpretare questa realtà, la cui espansione quantitativa è comunque controversa e non dimostrabile, in termini di mero “mercato delle opportunità”* impedisce di cogliere la dialettica circolare che in ogni società si stabilisce tra riduzione dei benefici sociali, repressione e attività criminali. Ma, al di là della mi-
crocriminalità “classica”, quelli che oggi vengono veicolati come “rischi” per la vita quotidiana — devianze di ogni tipo, spaccio e consumo di droga, “teppismo” eccetera — sono spesso comportamenti disperati, proteste o secessioni individuali da un “ordine” che non offre prospettive, ma solo subordinazioni e vicoli ciechi. Interpretare dunque mi247
crocriminalità e devianze come una tendenza più o meno naturale alla “predazione” significa non comprendere le conseguenze di una degradazione sistemica delle relazioni sociali. Il fatto è che i rischi prevalenti tra i cittadini sono costruiti socialmente come tali. E non tanto nel mondo dei privilegiati che possono disporre di protezioni, che si isolano nei loro quartieri più o meno fortificati, ma in quella maggioranza che vive direttamente le modificazioni urbane più vistose. È su questa maggioranza, più esposta di ogni altro gruppo sociale all’insicurezza globale, che fa leva il gioco della paura e della mobilitazione contro i “rischi” praticato solidalmente dalle diverse istituzioni. Pensionati, anziani, piccoli commercianti e nego-
zianti, lavoratori dipendenti e autonomi sono oggi il terreno naturale per sfruttare le ansie sociali e dirigerle contro bersagli vistosi. Il declino sempre più rapido, strettamente dipendente alla decontrattualizzazione dei rapporti di lavoro, di sindacati, associazioni e degli stessi partiti politici di massa, fa sì che i singoli, pur appartenendo a categorie anche formalmente garantite, siano lasciati soli nell'esistenza quotidiana e non dispongano più di codici appena complessi di interpretazione della loro posizione nel mondo. Anziani e pensionati abbandonati a se stessi fino a una morte solitaria, piccoli commercianti o negozianti ossessionati dalla concorrenza della grande distribuzione, e tutte le mi-
crocategorie che non godono più di una sicurezza prospettica, materiale e sociale, sono i più soggetti — come abbiamo visto a proposito dei comitati “sicuritari” — a scaricare la paura sui bersagli più visibili e a portata di mano: stranieri, delinquenti, drogati, prostitute, squatters e così via. Certamente, nella contrapposizione della gente per bene a queste minacce sono all’opera meccanismi arcaici e antropologici di definizione dei confini tra puro e impuro.” Tuttavia, la gestione di questi meccanismi, non è più appannaggio di una socialità “naturale” ordinaria, ma dei moderni apparati di controllo simbolico. Il gioco, intenzionale o no, che settori ampi del sistema politicomediale e delle élite intellettuali giocano in questa celebrazione quotidiana della minaccia dell’untore, è decisivo nella nuova e sinistra costruzione della “solidarietà” sociale. Esso infatti è divenuto appannaggio delle istituzioni e dei centri di potere della nostra società democratica, che nel manipolare queste costruzioni simboliche trovano evidenti e concreti pay-0ff. Alimentare il sistema della paura quotidiana serve a mantenere il consenso sociale e politico, come Reagan, Giuliani e Blair hanno insegnato ai nostri governanti. L'appello alla linea dura
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contro devianti e microcriminali consente di dirottare risorse sugli apparati repressivi e di controllo sociale, garantendosi il sostegno di chi li 248
gestisce. Il grand guigro! rinnovato ogni giorno dalle comunicazioni di massa cattura inevitabilmente lettori e spettatori. È ozioso chiedersi se, oltre una certa soglia, questi vantaggi economici e politici siano ricercati intenzionalmente, siano oggetto di strategie deliberate. I singoli attori istituzionali, grandi e piccoli, sono irretiti più o meno consapevolmente nei sistemi circolari o “autopoietici” di produzione sociale della paura che ho analizzato in precedenza. In tal senso, questi sistemi sono irrazionali e inerziali proprio come gli altri sistemi economici e sociali con cui interagiscono.
Merci, uomini e confini In un mercato sempre più globalizzato, la tendenza al ribasso del costo del lavoro non trova più virtualmente ostacoli sulla faccia della terra. Se un tempo la dislocazione delle attività produttive poteva riguardare una regione o tutt’al più uno stato, oggi investe virtualmente qualunque parte del globo sia appetibile per la disponibilità di manodopera a basso costo e di infrastrutture minime. Le imprese non hanno particolare interesse a vincolarsi ai “loro” stati nazionali, ma a produrre là dove i vincoli sono minori. Così, se un computer è progettato a Silicon Valley o a Seattle, può essere fabbricato in diversi paesi del Sudest asiatico, assemblato in Germania e commercializzato in Olanda. D’al-
tra parte, la libertà di produrre e di vendere su scala mondiale permette alle imprese di svincolarsi dai mercati locali quando è necessario investirvi troppe risorse. Intere regioni della terra partecipano all’economia-mondo, con le risorse naturali o con la forza lavoro disponibile,
ma senza riceverne nulla in cambio. L’'economia-mondo non è produttrice di uguaglianza ma di disuguaglianze nuove e feroci, come mostrano i dati sulla crescente forbice di ricchezza che divide il Nord e i suoi satelliti (come il Sudest asiatico) e il resto del mondo. Si pensi, tanto per offrire qualche indizio, al rapporto di 1 a 30 che esiste tra Pil pro capite di un cittadino del Mozambico e uno della Comunità europea, o quello di 1 a 6 tra l’abitante della Malaysia e un italiano.‘ In realtà, la forbice si è allargata proprio nei decenni della globalizzazione. Se nel 1960, il 20% degli abitanti più poveri del pianeta aveva a disposizione il 23% del reddito mondiale, la quota è scesa all’1,4% nel 1991 e all’1,1% nel 1998. La delocalizzazione della produzione, che si riflette in una diminu-
zione dell'occupazione industriale nei paesi sviluppati, non comporta 249
un aumento di benessere in quelli che offrono disponibilità di forza-lavoro. In questi (così in India, Cina, Brasile o Thailandia) la possibilità di attrarre investimenti stranieri si basa in larga misura su paghe irrisorie, sulla mancanza di controllo delle condizioni di lavoro, sullo sfruttamento dei bambini, in breve su forme di lavoro “coatto”. La ten-
denza a dislocare la produzione è ovviamente tanto più forte quanto più la disponibilità di forza-lavoro è prossima alle frontiere dei paesi sviluppati. Se il trattamento di dati trasferibili in tempo “reale” può essere appaltato da un’impresa americana di informatica a operatori di Bangalore, le produzioni più pesanti e industriali sono dislocate vantaggiosamente a poche centinaia di chilometri dalle imprese-madre. È il caso delle industrie estrattive e siderurgiche nell’Est europeo 0, per fare degli esempi di casa nostra, delle piccole fabbriche tessili del Marocco e della Tunisia al servizio dell’industria turistica europea” e della lavorazione delle tomaie in Albania in fabbriche controllate dalle imprese pugliesi.” Forse il caso più vistoso è quello delle cosiddette 74quilladoras, fabbriche cresciute in Messico accanto alla frontiera elettrificata, costruita per impedire le migrazioni negli Usa. In queste fabbriche, la remunerazione giornaliera è mediamente di cinque dollari, meno di un decimo della paga di un operaio americano del Texas o della California. Non è necessaria molta immaginazione per comprendere l’intreccio perverso che si stabilisce tra dislocazione della produzione, sbarramento alle migrazioni e xenofobia nelle terre di confine dei paesi ricchi. Qualcosa del genere è avvenuto precisamente in Italia nel marzo 1997 con l’“invasione albanese”.”' Tuttavia, la prossimità tra aree ricche e aree povere del pianeta non è più soltanto spaziale. Innumerevoli flussi economici e comunicativi collegano le aree sviluppate del pianeta a quelle più povere. Gli investimenti industriali, le fluttuazioni finanziarie (con le conseguenze immediate che provocano nelle economie più deboli e precarie), l’espansione mondiale delle reti informatiche e delle comunicazioni di massa,
i traffici di beni illegali, i flussi turistici a senso unico tra paesi ricchi e paesi “esotici” coinvolgono l’intero pianeta e creano una prossimità artificiale tra aree lontane sul piano geografico.” Ciò fa sì che la divisione del pianeta in sottomondi sia puramente convenzionale. In un certo senso, per esempio, il Terzo mondo come categoria economica e politica non esiste più.” Esistono piuttosto mondi integrati e al contempo subordinati, in un complesso panorama di inferiorizzazioni economiche, politiche e militari, allo sviluppo economico dominante, ai suoi modelli culturali e mediali, alle sue ideologie, rimozioni e cen-
sure. L’apparente unificazione del pianeta ha senso esclusivamente 250
come ferrea gerarchizzazione dei mercati, delle economie e delle società periferiche. Una gerarchia al cui vertice troviamo il sistema dei paesi ricchi, la galassia delle imprese transnazionali e il coacervo di sigle mondiali che amministrano la segmentazione economica del pianeta. Quanto questa gerarchia sia feroce è mostrato dalla prima guerra globale della storia, la Guerra del Golfo, un conflitto sul controllo del-
le materie prime in un’area strategica del pianeta, culminato nell’annientamento della forza militare dell’Iraq e nella riduzione all’inedia di una delle popolazioni più sviluppate del Vicino Oriente. Per il resto, apparati militari sempre più sofisticati e globali sono capaci di mantenere in ogni momento l’ordine internazionale, e cioè la difesa dei confini che convengono ai poteri economici e politici mondiali. Nell'era della globalizzazione, l’economia-mondo sovrappone il suo linguaggio e la sua cultura alla babele di lingue, di tradizioni, reali e immaginarie, e di differenze culturali che si intrecciano sulla terra. Così, nessuna regione può essere estranea alle lusinghe del mercato mondiale, dei suoi prodotti e delle sue icone. Le selve di grattacieli che disegnano lo skylze di Singapore, Abu Dabi o Johannesburg, le insegne dei MacDonald' che sovrastano i panorami di Mosca, Città del Messico, Pechino o Rabat rappresentano l’unificazione artificiale del mondo che è seguita alla fine del bipolarismo. Non c'è dunque da meravigliarsi se gli abitatori delle zone meno favorite del mercato mondiale rispondano agli stimoli e ai messaggi che la cultura-mondo rovescia loro addosso. La voglia o l’illusione di uscire dai vincoli dei mercati locali, dalla povertà, dalle mille servitù, angherie o oppressioni di paesi marginali impoveriti o autoritari è il minimo che possiamo aspettarci dai milioni di esseri umani che si muovono negli interstizi del sistema-mondo.” Ecco la condizione in cui nasce oggi la disponibilità a emigrare, a divenire stranieri nel mondo ricco. Le nuove migrazioni sono uno degli effetti del trionfo dell’economia-mondo e della cultura materiale che essa diffonde. Si può emigrare per sfuggire a una guerra civile o ad una carestia, per mantenere un'intera famiglia con un lavoro all’estero
di basso livello (ma pagato dieci volte quello che si otterrebbe in patria), per costruirsi una casa nel proprio paese, ma anche per migliora-
re il proprio reddito, per “avventura” o per qualsiasi altro motivo. Ecco perché, contrariamente al senso comune, emigrano sia i poverissimi
sia i laureati, i tecnici o gli studenti. Migranti possono essere i /24770s che si accalcano nelle città neoindustriali del Messico del Nord e cercano di penetrare nella California del Sud, gli albanesi attirati verso l’Italia dall’esempio dei nostri piccoli imprenditori sciamati in Albania, i 2591
laureati senegalesi che non trovano più lavoro nel loro paese impoverito e parzialmente desertificato, i nigeriani che sfuggono alla dittatura, i giovani marocchini, tunisini o egiziani che vivono ai margini dell’Europa opulenta, oppure i polacchi e i rumeni che non trovano una collocazione nella loro nuova economia marginale di mercato. Questa pluralità di motivazioni e di realtà non corrisponde alle categorie spesso obsolete della sociologia delle migrazioni e della demografia. Il confine tra migranti e profughi è oggi puramente convenzionale, visto che pressoché tutti paesi di emigrazione sono governati, con l'assenso se non con la connivenza esplicita delle democrazie ricche,
da dittature e regimi autoritari, in cui i diritti umani vengono quotidianamente violati.” Ridurre il groviglio di condizionamenti e motivazioni delle migrazioni ai luoghi comuni dell’“invasione” è un sintomo del positivismo oggi imperante nelle scienze sociali. “Migrare” non significa che “masse” di indigenti svuotino una regione per saturarne un’altra, come amano esprimersi le scienze della popolazione, ma che una pluralità di individui, provvisti di progettualità e di aspettative diverse, sono disponibili a cercarsi delle charzces di vita dove queste sono possibili o promesse. Le migrazioni possono essere così comprese come tra-
sferimenti non necessariamente definitivi, progetti di vita parziali che approfittano di aperture improvvise e si scontrano con barriere impreviste, circolazioni di vite tra regioni e rive diverse, ritorni sperati e permanenze subite, esperienze in cui gli individui portano con sé o ricreano identità complesse e plurali. I migranti possono essere islamici ma non fondamentalisti, poveri ma non incolti, disposti a vivere all’estero
parte della loro vita ma anche a ritornare, oppure a trasferirsi ma non ad assimilarsi in tutto alla cultura di destinazione. In breve, la condizione di migrante oscilla tra le necessità e la libertà, tra il bisogno e il progetto, tra le sicurezze precarie e l’insicurezza a cui è consegnata la ricerca di chances di vita. Secondo i dati della Banca mondiale, i migranti sono oggi circa 120 milioni, il 2% della popolazione mondiale. Anche se rappresentano circa il 10% della popolazione dell’Ocse, cioè dei paesi sviluppati, meno di un terzo interessa l'Europa e il Nord America. Infatti, la maggioranza non si sposta “da Sud a Nord”, come recitano i luoghi comuni colti e incolti discussi in questo libro, ma “da Sud a Sud” in altre regioni della terra, all’interno dell’Africa sub-sahariana, verso il Medio
Oriente o il Sudest asiatico.” In realtà, sul piano strettamente quantitativo, il fenomeno delle migrazioni incide percentualmente sulla popolazione europea più o meno come incideva venticinque anni fa. Infatti, anche in periodi di “pressione” dei migranti, il saldo migratorio 252
viene determinato dai ritorni in patria o dalla fuoriuscita dai paesi di immigrazione di un gran numero di immigrati. Così, per esempio, l’entrata nel Nord Europa di quattro milioni di individui fu bilanciata, nella seconda metà degli anni ottanta, dall’uscita di due milioni e mezzo di persone.” La relativa stabilità dei fenomeni migratori, insieme ai sintomi di un'inversione di tendenza nell’espansione della popolazione mondiale (e non solo nei paesi sviluppati), dovrebbe contribuire perciò a sgonfiare la percezione paranoica dei fenomeni migratori che abbiamo visto affermarsi in Italia e in Europa. Se non è così, è perché oggi migranti e profughi rappresentano uno dei paradossi 0, meglio, dei conflitti più vistosi della globalizzazione. La circolazione di beni, di merci, di simboli e anche di persone, che definisce l’attuale mercato mondializzato, è possibile solo a senso unico, quando è controllata dai paesi ricchi o è al servizio dei loro interessi. In realtà, i flussi migratori sono accettati quando avvengono tra paesi sviluppati o riguardano soggetti ricchi di tutto il mondo. Il “diritto” al movimento che funzionari di singoli stati o organismi internazionali, imprenditori, commercianti, viaggiatori e turisti praticano liberamente nelle periferie del mondo, anche in numero enorme (come nel caso dei turisti), non è ovviamente contestato da nessuno. In quanto veicoli di proprietà reali o virtuali, queste categorie di persone non conoscono ostacoli. Sono invece i “poveri” delle periferie, cioè persone che dispongono solo del proprio corpo, a essere soggetti alle restrizioni e alle dogane, in breve a essere esclusi dalla libertà di circolazione. In questo senso, sono inevitabilmente “clandestini” non appena pretendono di sottrarsi all’incatenamento alle condizioni di esistenza nello loro società gerarchizzate. Che in sostanza la questione delle migrazioni contemporanee sia un problema di libertà di movimento appare nella ridefinizione dello
status dei profughi. Quasi tutti gli stati ricchi tendono a restringere il diritto d’asilo ai casi più vistosi — quelli per cui esiste qualche tipo di mobilitazione ufficiale o di interesse dell’opinione pubblica — disinteressandosi della grande maggioranza, cioè della normale violazione dei diritti nella fascia di stati autoritari che circonda l'Europa, gli Usa o il
Giappone. Anche se un’opinione “democratica” si illude di gestire la questione di migranti e profughi con improbabili piani di cooperazione con le economie deboli, la realtà delle relazioni interstatali tra
Nord e Sud è molto più prosaica. Pur di disfarsi di poche migliaia di migranti, la Spagna e l’Italia non esitano ad accordarsi con regimi polizieschi come il Marocco, la Tunisia o la Turchia, offrendo manciate di
miliardi e un po’ di assistenza militare e logistica. Quale sia la sorte di molti indesiderabili (spesso anche di altre nazionalità) in paesi famosi 253
per le loro polizie e le condizioni delle carceri è abbastanza evidente. Nell’estate del 1998, numerosi quotidiani italiani hanno documentato la disperazione dei clandestini, anche profughi politici, di fronte alla prospettiva di essere restituiti alle cure dei funzionari di re Hassan e dei governi tunisino e turco. Ciò giustifica, insieme alle condizioni disumane dei campi di “permanenza temporanea”, le loro proteste e i tentativi di evasione. La cecità di cui le nostre democrazie danno prova su ciò che accade a qualche decina di chilometri dalle frontiere meridionali d'Europa è però del tutto apparente. Si tratta piuttosto di una connivenza esplicita con regimi che mantengono l’ordine sociale ed economico per conto degli stati ricchi o neoricchi, una forma di “esternalizzazione” dei conflitti sociali nel panorama contraddittorio della società globalizzata.”
Dentro il paradosso Credo di aver mostrato in questo libro come l’esclusione pubblica dei migranti sia il risultato di meccanismi perversi, che attori diversi riescono a sfruttare a proprio vantaggio — imprenditori economici e mo-
rali, politici di quartiere, gestori dei sistemi di controllo sociale e dei media. Contro questo intreccio di irrazionalità complessiva e “razionalità” pratiche limitate sembra inutile, allo stato attuale, invocare i benefici dell’immigrazione in termini economici e demografici. Se, in via puramente ipotetica, l’Italia accogliesse o regolarizzasse d’ora in poi 100.000 migranti l’anno, essi non “saturerebbero” il paese, ma semmai contribuirebbero a contrastare una tendenza alla diminuzione della popolazione che tutti i demografi considerano ormai irreversibile.* Ma ciò sarebbe possibile solo capovolgendo i presupposti politici, mediali e sociali della cultura dell’inimicizia — riconoscendo, per cominciare, il diritto alla libertà di circolazione transnazionale della for-
za-lavoro — e soprattutto predisponendo dei meccanismi sociali e istituzionali di integrazione sociale: offrendo ai migranti possibilità educative, protezione sul luogo di lavoro, il diritto all’alloggio, in una parola la parità sociale, civile e politica con gli autoctoni. Facendone dei cittadini, unica condizione per toglierli dal limbo delle non-persone, la società rimuoverebbe evidentemente anche le basi, materiali e simboli-
che, dell'esclusione radicale dei migranti e della microconflittualità sociale e urbana. Se ciò non avviene, è perché l’esclusione, fondata sulla “clandesti-
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nità”, è una funzione decisiva nel mantenimento delle gerarchie dell’attuale società globalizzata. L'esistenza di ostacoli politici e militari all'immigrazione costringe i poveri del pianeta ad accettare le condizioni salariali e di vita che l'industria globale impone nei mercati del lavoro periferici, con la benedizione dei governi locali. D’altra parte, la condizione dei migranti che riescono a filtrare tra le maglie della fortezza, una condizione che oscilla sempre tra la clandestinità e la marginalità, fa di loro dei lavoratori privi di diritti sostanziali, soggetti più di ogni altro ai ricatti salariali e alle condizioni di lavoro che gli imprenditori autoctoni impongono loro. E non mi riferisco qui solo all’industria e al piccolo commercio, ma anche alle prestazioni di “servizi alla persona”, legali e illegali, in cui sono impegnate soprattutto le donne. La prostituzione è evidentemente il caso-limite della subordinazione assoluta delle lavoratrici immigrate, ma, stabilite le debite differenze,
ciò vale anche per le collaboratrici domestiche, le accompagnatrici di anziani eccetera. In breve, gli ostacoli ufficiali all'immigrazione fanno
sì che i migranti non possano uscire da una condizione di subordinazione che dura quanto la loro vita. Un immigrato è così privo di voce e di diritti nella società che lo “accoglie”, così come lo era in patria quando era disponibile a emigrare. La moltiplicazione di “frontiere di cristallo” o di ferro innalzate in Europa e nel mondo sviluppato in generale non fa propendere all’ottimismo. La recente evoluzione delle legislazioni europee in materia di immigrazioni e diritti dei migranti mostra un irrigidimento progressi-
vo, a cui non sono estranee le “macchine della paura” e di conseguenza gli atteggiamenti ostili agli stranieri che i sondaggi mettono in rilievo. Per quanto nel dibattito sui principi giuridici coinvolti nella que-
stione della cittadinanza si inizi a rilevare la palese contraddizione tra retorica dei diritti universali diffusa nelle società sviluppate e negazione dei diritti ai migranti, la stessa teoria sociale e politica non sembra andare al di là, quasi sempre, di generici appelli alla tolleranza, oppure a forme transnazionali e cosmopolitiche di democrazia, per contrasta-
re la tendenza alle chiusure neonazionalistiche. A maggior ragione anche le proposte “ragionevoli” di inclusione, centrate sul contingentamento dei migranti o su un diritto di asilo più largo (ma comunque sempre limitato rispetto alle richieste) non toccano l’aspetto politico della questione.” Questo si potrebbe esprimere nella formula secondo cui il riconoscimento della libertà di movimento e di circolazione dei migranti è una condizione per lo sviluppo e il consolidamento della democrazia, e non viceversa. In altri termini va respinto l'assunto, incontrato diverse volte 255
in questo libro, secondo cui si le democrazie occidentali devono accettare con il contagocce migranti e profughi per non minacciare la loro fragile struttura e non suscitare reazioni xenofobe di massa. Esistono almeno due ragioni che giustificano oggi il “diritto all’immigrazione”. La prima è che i “diritti umani” non sono una condizione della cittadinanza o dell’inclusione, ma sono queste l’unica strada per il riconoscimento dei diritti dell’uomo e della persona. E anche se non è possibile parlare, nella complessità del panorama politico internazionale, di una cittadinanza “globale”, fin da oggi è praticabile la parità totale di diritti tra nazionali e stranieri, quando questi vivono nel territorio di un al-
tro stato. Solo a questa condizione, potranno essere eliminati i “doppi regimi” giuridici, i “campi di internamento”, gli annegamenti in massa e la violenza istituzionale contro gli stranieri, che le nostre società democratiche tollerano o rimuovono. A beneficio di tutti i teorici dell’inclusione marginale e ragionevole, si può anche aggiungere che il diritto all’immigrazione non minaccia alcuna stabilità democratica o “compattezza culturale” per il semplice motivo che, oggi come ieri, le “migrazioni” sono essenzialmente circolazioni di forza-lavoro, e non tra-
sferimenti di popolazione. D'altra parte, non si contrasta la xenofobia accettandone le pre-
messe, ma precisamente combattendole, magari riprendendo, quando è possibile, quella tradizione di informazione politica e culturale, di discussione e lavoro politico cui la sinistra e, in generale, i movimenti
politici democratici hanno rinunciato in Occidente da qualche decennio. E questo ci porta alla seconda buona ragione per riconoscere il diritto all'immigrazione. Quando una parte della sinistra sottoscrive di fatto la cultura dell’inimicizia e dell’ostilità verso gli stranieri, contri-
buisce ad autorizzare una versione del mondo inquietante, e non solo per gli stranieri. La storia della prima metà del Novecento ha ampiamente mostrato come la rinuncia alla difesa dei diritti dei più deboli da parte della sinistra abbia favorito la diffusione della xenofobia e del populismo reazionario e, in ultima analisi, la sconfitta degli stessi lavoratori e cittadini autoctoni. Benché oggi, come è noto, sia fuori moda parlare di sviluppo della democrazia sostanziale e di conquiste sociali, mi sia concesso chiudere questo libro con una citazione che definisce la posta in gioco nel riconoscimento dei diritti ai migranti: “Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese in cui viene marchiato a fuoco quand'è in pelle nera”.” 68
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Note 1
Citato in S. Eckmann, Der Surrealismus im Exil. Reaktionen auf die Europdisches Zerschlagung der Humanitét, in S. Barron e S. Eckmann, a cura di, Exil Flucht und Emigration europdischer Kiinstler, Prestel, Minchen - New York 1997, p. 176. G. Simmel, Excursus sullo straniero, in Sociologia, cit.
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico — Sociologia e filosofia, Comunità, Milano 1969. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1967.
R. Robertson, Glocalisation. Space, Time and Social Theory, “Journal of International Communication”, 1, 1994. K. Marx, I/ capitale, cit., Libro terzo, cap. 20; Id. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, il Mulino, Bologna 1995; Id., Per zzare e per terra. Viaggi, missioni, spedizioni alla scoperta del mondo, il Mulino, Bologna 1996. FE. Braudel, Civiltà, materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino 1981-1982; I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi, il Saggiatore, Milano 1995. Per una discussione delle diverse “datazioni” della globalizzazione ctr. J.N. Pieterse, Der Melange Effekt. Globalisierung im Plural, in U. Beck, a cura di, Perspektiven der Weltgesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998.
G. Arrighi, Il lungo xx secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996. 10 Una lettura suggestiva di questo processo, visto da “destra”, cioè nella prospettiva
delle potenze continentali minori, è C. Schmitt, Terra e mare, Giuffré, Milano 1987.
11
E. Wolf, L'Europa e î popoli senza storia, cit.; non possiamo toccare qui il problema, sollevato da P. Bairoch (Econorzia e storia mondiale, Garzanti, Milano 1998) del
ruolo del colonialismo nello sviluppo economico moderno, che Bairoch considera secondario. 12 L. Ferrajoli, Das diritti del cittadino ai diritti della persona, cit., p. 290. 13 Cfr., per una sintesi (spesso generica) di questi aspetti, T. Spibey, Globalizzazione e
società mondiale, Asterios editore, Trieste 1997.
14
U. Beck, Was ist Globalisierung. Irrtiimer des Globalismus-Antworten auf Globalisierung, Suhrkamp, Frankfurt a.M 1997.
15 Cfr. M. Revelli, Le due destre. Derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, Torino 1996. 16 Si definisce solitamente con questa espressione la “filosofia” che orienta le politiche di autorità nazionali e internazionali in campo economico. In breve, la flessibi-
lità del lavoro, la riduzione dei benefici sociali, la riduzione del debito pubblico eccetera. Naturalmente, lo slogan del “pensiero unico” non può render conto dei diversi orientamenti dei singoli governi in materia di politica economica. Cfr. F. Gio-
257
vannini, I. Ramonet, F. Ricoveri, I/ pensiero unico e i nuovi padroni del mondo, La
Strategia della Lumaca, Roma 1996; cfr. anche S. Strange, Chi governa l'economia,
il Mulino, Bologna 1998. 17 S. Latouche, La megamzacchina, Bollati Boringhieri, Torino 1993; A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994; Gruppo di Lisbona, I lirziti della competitività, manifestolibri, Roma 1995; G. Ritzer, Il mondo alla MacDonald's, cit.; L. Cillario, L'economia degli spettri, manifestolibri, Roma 1996. Aa. Vv.,
Villaggio globale. La vita al tempo della globalizzazione, “Internazionale”, Roma 1998. Cfr. anche United Nations Development Program, Noro Rapporto sullo sviluppo umano, citato in M. Forti, Consurzi forzati molto ineguali, “il manifesto”, 10 settembre 1998, p. 8. 18 U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986; E. Altvater, B. Mahnkopf, Grenzen der Globalisierung. Oko-
nomie, Okologie und Politik in der Weltgesellschaft, Westfalisches Dampfboot, Miinster 1996. 19) H.-P. Martin e H. Schuhmann, La trappola della globalizzazione. L'attacco alla democrazia e al benessere, Raetia, Bolzano 1997; J. Brecher e T. Costello, Contro #/ ca-
pitale globale, Feltrinelli, Milano 1996. P. Krugman, The Age of Diminished Expectations, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 1997 (terza ed.). Si veda, sulla scomparsa del nemico “globale” e le nuove inimicizie locali U. Beck, Dre feindlose Demokratie. Ausgewahlte Aufsitze, Reclam, Stuttgart 1995.
J. Adda, La mondialisation de l'économie. Problèmes, La Découverte, Paris 1997, vol. I.
Così nel caso del Messico (1994) e della Russia (1998). Solo per fare un esempio, la crisi sociale del Marocco dei primi anni ottanta (con conseguenti sommosse e repressioni sanguinose) fu innescata da un aumento delle tasse scolastiche “raccomandate” dal Fmi. Cfr. A. Dal Lago, I/ caso del Marocco, in Aa.Vv., La nuova immigrazione a Milano, cit.
24 25
Cfr. S. Sassen, Losing Control? Sovereignity in an Age of Globalisation, cit. Per l'attribuzione della crisi strutturale di occupazione alle tecnologie informatiche, cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento della società post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995.
26 J. Adda, La mondialisation de l’économie, cit. vol. I, pp. 97 sgg.; L.J.D. Wacquant,
La gènéralisation de l’insecurité salariale en Amèrique. Restructuration d’entreprises et crise de reproduction sociale, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 115, 1996, pp. 65 sgg.
24 Cfr. FE. Ewald, L'Etat providence, Grasset, Paris 1989 e R. Castel, La étamorphose de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris 1995. 28 R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, cit. 29 R. Reich, L'economzia delle nazioni. Come prepararsi al capitalismo del Duemila, il Sole 24 Ore libri, Milano 1993. 30 S. Bologna e A. Fumagalli, a cura di, I/ avoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997.
258
3 fd World Bank, Workers in an integrating World, World Development Report 1995, Oxford University Press, New York 1995. 32 S. Sassen, The Global City. New York, London, Tokyo, Princeton, Princeton University Press 1995.
33 Su queste tendenze, oltre alle opere di M. Davis spesso citate qui, cfr. S. Christopherson, The Fortress City: Privatized Spaces, Consumer Citizenship, in A. Amin, a cura di, Post-Fordism. A Reader, Basil Blackwell, Oxford 1994, pp. 409 sgg.
34
Si veda in particolare E. Hobsbawm e T. Ranger, a cura di, L'invenzione della tradizione, cit.
35 Lo sviluppo di questi sistemi è analizzato da P. Maranini, Miseria dell’opulenza. Il sacro nella società della tecnica, cit.
36 Si veda, per esempio, K. Ohmae, La fine dello stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Baldini & Castoldi, Milano 1996. 37 B. Jessopp, Die Zukunft des Nationalstaates. Erosion oder Reorganisation?, in S. Becker, T. Sablowski,
W. Shumm,
a cura
di, Jerseits der Nationalbkonomie.
Weltwirtschaft und Nationalstaat zwischen Globalisierung und Regionalisierung, Argument, Berlin-Hamburg 1997, pp. 50-95. 38 B. Badie, La fine dei territori, Asterios, Trieste 1996 39 P. Hirst e G. Thompson, Globalisierung, Internationale Wirtschaftsbeziehungen, Nationalokonorzien und die Formierung von Handelsblòcken, in U. Beck, a cura di,
Politik der Globalisterung, Sahrkamp, Frankfurt a.M. 1998, pp. 85-133.
40
U. Bertone, Tokyo, La miseria virtuale dell’opulento Giappone, “La Stampa”, 15 settembre 1998, p. 7
41 Per una discussione di questi punti, R. Miùnch, Globale Dynamik, lokale Lebenswelten. Der schwerige Weg in Die Weltgesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998. 42
B. Cartosio, L'autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, cit.; M. Davis, A Los Angeles bruciando ogni illusione, in B. Cartosio, a cu-
ra di, Senza illusioni. I neri negli Stati Uniti dagli anni Sessanta alla rivolta di Los Angeles, ShaKe, Milano 1995, pp. 215 sgg. 43 M. Barbagli, L'occasione fa l’uomo ladro, il Mulino, Bologna 1995 è un esempio di
questo metodo interpretativo che ha rinunciato all’analisi complessa dei fenomeni sociali.
44
Una tendenza evidente in H.M. Enzesberger, Prospettive sulla guerra civile, cit. e anche nell’“antropologia” della violenza di W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998.
45 Maranini, op. cit., passi, che sviluppa alcune intuizioni fondamentali di M. Douglas, Simboli naturali, Einaudi, Torino 1968. 46 World Bank, Workers in an integrating Word, cit.; J. Adda, La mondialisation de l'é
conomie, cit., vol. 1; Aa. Vv. Stato del mondo 1998, il Saggiatore, Milano 1998; “The Economist”, I/ yz0ndo in cifre 1998, edizione italiana a cura di “Internazionale”, Roma 1998.
47
Traggo questi dati da “Internazionale”, 247, 1998, p. 20.
250
48 Cfr. R. Mungiello, Lavoro coatto a fine secolo in quattro grandi aree economiche, “Altreragioni”, 6, 1997. Il 70% dei palloni di calcio usati nel mondo è cucito dai
bambini pakistani. Cfr. A. Pifiol, Pakistan, cuciti a un pallone, “Internazionale”, 249, 1998, p. 54. Nella primavera del 1996, il “New York Times” ha denunciato le condizioni di lavoro schiavistiche in cui sono costretti i lavoratori della Nike in Malaysia. L’italiana Benetton, che si fa pubblicità con manifesti “antirazzisti”, impiega
lavoratori che in Slovenia percepiscono 350.000 lire al mese. Si veda G. Nicotri, I/ boom del Nord-Est, “L'Espresso”, 14 novembre 1996, pp. 80 sgg. 49 Cfr. E. Grazzini, Di là dal mare, “Diario della settimana”, 32/33, 1998. 50 G. Lerner, La griffe italiana nasce in Romania. Da Stefanel a Lotto: Il Nord-est va al-
l'estero, “La Stampa”, 2 ottobre 1996, p. 13; Id., Tirana, colonia del made in Italy. Dalla Puglia alla “conquista” dell'Albania, “La Stampa”, 1 ottobre 1996, p. 7. 51
S. Rotella, Twilight on the Line. Underworlds and Politics at the U.S.-Mexico Border, Norton, New York 1998, citato inJ.Goytisolo, La frontiera di Cristallo, cit. Per un
tentativo di analisi strutturale della creazione di nuovi “spazi sociali transnazionali” determinati dalla globalizzazione cfr. L. Pries, Transnationale soziale Riume. Theoretisch-empirisch Skizze am Beispiel der Arbeitswanderungen Mexico-Usa, in U. Beck, a cura di, Perspektiven der Weltgesellschaft, cit., pp. 53-86. 52 A. Mattelart, La comunicazione mondo, il Saggiatore, Milano 1994.
DO J.-E Bayart, Finisbhing with the Idea of the Third World. The Concept of the Political Trajectory, inJ.Manor, a cura di, Retbinking Third World Politics, Longman, London 1991.
54 Questo tema è stato sottolineato, quando ancora non si parlava di mondializzazio-
ne o globalizzazione, da P. Berger, Le piranzidi del sacrificio, Einaudi, Torino 1981. 55 S. Latouche, I/ pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, Bollati Boringhieri,
Torino 1993. Una bella analisi del consumismo disperato nei paesi impoveriti è M. Cooper, Cile 98. Falso miracolo, “Diario della settimana”, 36, 1998, pp. 20 sgg. 56 D. Scaglione, Quale diritto d'asilo, “il Sole 24 Ore”, 9 agosto 1998, p. 26. DI S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l'Europa, il Mulino, Bologna 1994, p.
40; World Bank, World Population Projections. Short and Long-term Estimates, Johns Hopkins University Press 1990. 58 F. Gambino, Alcune aporie delle migrazioni internazionali, “aut aut”, 275, pp. 129141.
59 Sopemi, Trends in International Migrations, Oecde, Paris 1991, cit. in Collinson, Cip 990:
60 F. Gambino, Sulla cittadinanza proprietaria. Dai bagagli appresso all'investimento anticipato, in A. Dal Lago, a cura di, Lo stranzero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, cit., pp. 187 sgg.
61 S. Nair, La fortezza Europa, “Internazionale”, 247, 1998, pp. 20 sgg. 62 S. Palidda, La conversione poliziesca delle politiche migratorie, in A. Dal Lago, Lo
straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, cit., pp. 209 sgg. 63 Nella primavera del 1997, il ragioniere dello stato Monorchio affermò che la regolarizzazione di 50.000 immigrati all'anno avrebbe contribuito a ripianare il passivo
260
del sistema previdenziale italiano. È noto che gli ambienti industriali del Nord Italia, in una situazione di piena occupazione, non condividono sempre la politica migratoria del governo italiano. 64 Cfr. per esempio Istat, Rapporto sull'Italia, il Mulino, Bologna 1996. La valutazione
è stata fatta propria dal “Corriere della sera” del 15 settembre 1998. Nello stesso giorno il governo ha dichiarato il proposito di regolarizzare 38.000 immigrati, il cui numero corrisponde ai posti disponibili immediatamente nelle industrie. In altri termini non si attribuisce ai migranti alcuna capacità imprenditoriale, nonostante la presenza di un numero non piccolo di ambulanti e dettaglianti. 65 W.E Schwartz, a cura di, Justice in Inzmigration, Cambridge University Press, Cam-
bridge-New York 1995. 66 D. Held, Derzocracy and the Global Order. From the Modern State to the Cosmopolitan Governance, Polity Press, Cambridge, 1997 (seconda ed.). In ogni caso il libro
di Held è una delle migliori sintesi oggi disponibili sulle prospettive della democrazia politica nell’epoca della globalizzazione. 67 Così J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli,
Milano 1998, pp. 63 sgg. e, più in generale, Id., L'inclusione dell'altro, Feltrinelli, Milano 1998. 68 K. Marx, I/ Capitale, cit., Libro 1, p. 365.
261
Postfazione!
1. La prima edizione di questo libro è apparsa nel 1999, alla fine di quello che potremmo chiamare il decennio clintoniano. Negli anni novanta, di qua e di là dall’ Atlantico, si sono affermati governi di centro-sinistra o “progressisti” (Clinton, Blair, Prodi, Schroeder
ecc.) in apparente contrapposizione al conservatorismo aggressivo di Reagan, Thatcher e Bush senior. Lo slogan delle nuove maggioranze era la “terza via”, ovvero un socialismo moderato, illuminato, ragione-
vole, che si proponeva di conciliare il nuovo capitalismo globalizzato con le esigenze dei membri meno favoriti della società. Un programma che, nel volgere di pochi anni, si è rivelato illusorio, e non solo perché i “progressisti” sono stati soppiantati quasi ovunque da governi improntati a un aggressivo neo-conservatorismo. Il supposto progressismo di Clinton è apparso come una versione politica della rew econ071Y, cioè di uno sviluppo legato alla diffusione delle nuove tecnologie e al conseguente dimagrimento del lavoro garantito. E lo stesso si potrebbe dire delle varianti europee. L'introduzione dell’euro è avvenuta all’insegna di una rigida ortodossia liberista, basata sul contenimento della spesa pubblica e sulla riduzione dello stato sociale ai minimi termini. La terza via, in realtà, si mostrava come una versione appena più 263
moderata e modernista del liberismo reaganiano o thatcheriano. Ciò che in quest’ultimo era essenzialmente assoluta libertà d’impresa, nel-
la terza via appariva come passaggio al capitalismo in rete, democratico, in cui chiunque poteva arricchirsi diventando imprenditore di se stesso. Naturalmente, un programma di questo genere non poteva essere indolore. Per cominciare, anch’esso — come quelli dei precedenti governi conservatori — contemplava l'erosione dei pilastri che per quasi cinquant'anni, all’ombra dello storico conflitto tra mondo libero e stati socialisti, avevano retto lo sviluppo dell’Occidente: la spesa sociale, l’istruzione pubblica, l'assistenza sanitaria, i servizi gratuiti o a prezzo politico. Lo stato si ritirava non solo dalla gestione diretta dell’economia ma anche dalla regolazione dei bisogni sociali elementari, lasciando che questi fossero “soddisfatti” dal libero gioco del mercato. Così, per fare un esempio, i costi e la qualità di servizi essenziali per i lavoratori, come i trasporti pubblici, non sarebbero più stati garantiti dallo stato, ma dalle imprese che avrebbero cominciato a disputarsi il relativo mercato. Con la conseguenza che nell’Inghilterra di Blair, il paese in cui il programma della terza via è stato attuato in modo più radicale, le ferrovie hanno conosciuto lo stesso degrado disastroso dell’aviazione civile americana ai tempi di Reagan. Inoltre, il programma della terza via comportava una profonda revisione di ciò che i sociologi chiamano i criteri del prestigio pubblico. Nel quadro di una politica economica che virava dal primato del benessere collettivo a quello dell’imprenditoria individuale, il lavoro dipendente era sostanzialmente degradato in favore di quello indipendente. Lavorare in una fabbrica o in un ufficio pubblico diventava sconveniente, il risultato di una formazione, se
non di un'intelligenza, inadeguata. Chi non operava autonomamente era pertanto soggetto a una riqualificazione continua. Espressioni in
qualche misura inquietanti come formazione permanente — inquietanti perché centrate sulla scolarizzazione perenne, e quindi sull’infantilizzazione, sulla subordinazione cognitiva e morale della forza lavoro — diventavano il nuovo credo del “socialismo” iperliberale. Che la natura della terza via fosse in realtà scarsamente caritatevole o attenta ai bisogni è apparso pienamente nelle politiche del controllo sociale e soprattutto di quelle rivolte ai deboli: marginali, devianti, po. veri, carcerati e, come vedremo subito, immigrati. Gli esordi di Clin-
ton e di Blair sono stati eloquenti: il primo volava nello stato di cui era stato governatore, l’Arkansas, per assistere all’esecuzione capitale di un minorato condannato a morte per omicidio; il secondo interveniva
ripetutamente a favore dell’inasprimento della disciplina scolastica e 264
delle nerbate da somministrare agli scolari recalcitranti o disturbatori. Il decennio clintoniano, progressista e illuminato nelle parole dei suoi apologeti europei, vedeva convergere governi e opinioni pubbliche sul terreno della lotta alla microcriminalità, alle devianze giovanili e all’“inciviltà”, cioè ai comportamenti che, senza configurare reati 0 comunque serie trasgressioni, minaccerebbero la tranquillità, la sicurezza 0 la pace dei cittadini. La bandiera della “tolleranza zero”, impugnata dal sindaco repubblicano di New York Giuliani, era fatta propria anche dalla cultura progressista. Per giustificare questo spettacolare rovesciamento di prospettive, si evocava lo scenario di una guerra civile ubiqua, capace di diffondersi spontaneamente (come un’infezione) a partire da dettagli apparentemente trascurabili o da fatti minori: i graffiti sui muri, il degrado dell’arredo urbano, gli schiamazzi notturni, le risse tra giovani e così via. In un pamphlet di successo, Hans Magnus Enzensberger, un tempo considerato intellettuale critico, individuava in hooligan, immigrati non integrati, ribelli urbani, teppisti o semplicemente giovani maleducati i responsabili, consapevoli o meno, di questo attacco generalizzato alla nostra civiltà.” In quanto impegnata a difendere la grande maggioranza dei cittadini dall’insicurezza, la cultura della terza via rivendicava un “nuovo” tipo di progressismo, emancipato da quello che in Italia si sarebbe definito il tradizionale “buonismo” della sinistra. Un buonismo, peraltro, di cui non esistono tracce se non nelle po-
lemiche della destra radicale, quella che ha preso il potere, più o meno ovunque, in Europa e negli Usa, all’inizio di questo terzo millennio. E proprio dallo pseudobuonismo clintoniano e progressista il libro qui ristampato prendeva le mosse per comprendere come le migrazioni, nei paesi sviluppati e dominanti, siano soggette a una doppia strategia, al tempo stesso repressiva e paternalistica, che possiamo definire tipicamente neo-coloniale. Si tratta principalmente della discrepanza tra retoriche pubbliche in materia di immigrazione (espresse da parole come “accoglienza”, “multiculturalismo”, “intercultura”, “integrazione” e così via) e pratiche effettive, del tutto ancorate a slogan come “sicurezza”, “lotta all'immigrazione clandestina”, “controllo dei flussi” ecc. In altri termini, si può parlare dell’istituzione, negli anni novanta, di un doppio regime, simbolico e pratico, nei confronti dell’immigrazione. Da una parte, con l'adesione dell’opinione pubblica e politica alla vulgata politically correct, secondo la quale gli immigrati rappresentano risorse che bisogna valorizzare e sono portatori di una cultura che è necessario “rispettare” o “riconoscere”; dall'altra, misure legislative e pratiche di contenimento, repressione e “respingimento”, cioè espul265
sione nei confronti della grande maggioranza dei migranti o richiedenti asilo: quelli più poveri, disperati, “clandestini”, trattati, come ho cercato di mostrare in questo saggio, da non-persone.
L'obiettivo del libro era dunque polemico, anche se non di un pamphlet si tratta, ma di una ricerca sulle modalità di annullamento della personalità sociale dei migranti promosse in primo luogo dalla cultura politica della nostra società. Questa infatti, a seconda delle sue versioni, ne fa invasori (utili o meno), portatori di germi culturalmente
distruttivi, soggetti bisognosi (come per molta parte di un certo volontariato cattolico e laico) o, al limite, forza lavoro necessaria, ma non
soggetti di cui riconoscere in primo luogo l’individualità, le pretese all’uguaglianza e quindi i diritti. Per documentare tale tesi, questo libro non ha tanto indagato la loro situazione “oggettiva”, non ha utilizzato i dati statistici su cui le scienze delle migrazioni basano instancabilmente le proprie retoriche, ma ha cercato piuttosto di decostruire le oggettivazioni a cui la nostra società li sottopone. Senza contrapporre, deliberatamente, le retoriche più rozze (in cui si è specializzata la Lega nord) a quelle più “raffinate” a cui invece hanno fatto ricorso quasi tutte le altre forze politiche. Infatti, in questo libro, entrambe vengono viste come varianti più o meno tattiche di un discorso strategico, dominante, che fa dei migranti, in sostanza, dei non-soggetti sociali. Ciò ha fatto sì che il libro, benché recensito per lo più favorevolmente, mi
abbia procurato l’accusa, da parte di scienziati delle migrazioni, di solito consulenti dei governi amici di centro-sinistra, di assumere una posizione “apocalittica”. Ahimè, riletto oggi, il libro è ben poco apocalittico. Le analisi dei meccanismi tautologici nella costruzione sociale dell’immigrato pericoloso, delle campagne sicuritarie, della corsa di tanti intellettuali di spicco a demonizzare gli “alieni”, delle retoriche multiculturali e ospitali fatte proprie da governi specializzati nelle espulsioni, delle tragedie marine come effetto del blocco delle nostre coste, della subordinazione assoluta degli stranieri nella vita sociale sono state ampiamente superate dai fatti. Pochi mesi prima che gli incidenti del luglio 2001 a Genova svelassero la natura del governo Berlusconi, la campagna elettorale si concludeva, a destra e a sinistra, con la promessa di “sicurezza nelle città” (Rutelli) e di “sicurezza per tutti” (Berlusconi). Certo, con
il nuovo governo la condizione degli stranieri peggiorava di gran lunga. Il “tragico” affondamento della Kater i Rades si ripeteva al largo della Sicilia e gli annegamenti si moltiplicavano. Bossi si appellava alle cannonate contro i clandestini e, insieme a Fini, varava alacremente una legge ancora più repressiva per i migranti. Ma occorre sottolineare 266
che la strategia della doppiezza politically correct — accoglienza a parole multiculturale per i buoni, rigore repressivo per i cattivi — è stata fatta propria anche dai governi di destra che, all’inizio del nuovo millennio, hanno soppiantato quelli progressisti degli anni novanta. Troviamo lo stesso spirito “tollerante” nei programmi dell'Ulivo e nella proposta del voto agli immigrati buoni avanzata da Fini nell'autunno 2003, nei progetti elettorali di Prodi e nell’“umanitarismo” di Casini. Apparentemente, solo la Lega, un movimento politico in declino, insiste nella sua demagogia xenofoba. Ma non è affatto occasionale che uno dei casus belli che sta logorando la maggioranza di destra in Italia sia proprio la beffarda proposta di voto agli immigrati — che in sostanza consentirebbe a poche centinaia di migliaia di stranieri, regolari e soprattutto dotati di un certo reddito, di votare i loro candidati italiani. In materia di immigrazione, infatti, centro-destra e centro-sinistra la pensano essenzialmente allo stesso modo. Cerchiamo di comprendere perché.
2. In sostanza, i paesi ricchi hanno bisogno del lavoro straniero. In Italia, come d’altronde i tutti i paesi occidentali, lo sviluppo della rew economy, del terziario, avanzato e non, ha lasciato scoperte un gran numero di mansioni materiali, manuali, di solito svolte in condizioni
disagiate o pericolose, a cui la forza lavoro locale da molto tempo non è più disponibile. Le piccole fabbriche o le imprese familiari del nordest, l’edilizia in tutto il paese, l'agricoltura industrializzata e quella stagionale — settori ancora trainanti in un’economia complessivamente stagnante — non sopravvivrebbero che poche settimane senza la forza lavoro straniera: senegalesi nella siderurgia e nella meccanica, albanesi e romeni nell’edilizia, marocchini e albanesi nella raccolta degli ortag-
gi e nelle serre. E questo vale anche per il mercato dell’abbigliamento povero e della chincaglieria, in cui sono attivi gli ambulanti stranieri (al servizio di grossisti italiani), come per quello dei servizi alla persona, in cui operano le donne straniere, sudamericane e dell'Europa del-
l’est. Per non parlare delle mansioni più dequalificate, come la pulizia nelle aziende, il facchinaggio o la manutenzione stradale. Il lavoro straniero permette di riprodurre le condizioni materiali del lavoro immateriale, la base fisica, sporca e faticosa di uno sviluppo sempre più orientato alla produzione e alla distribuzione su scala globale di “idee”, come i marchi dell’abbigliamento, il software, l’innovazione
tecnologica e culturale, cioè in generale i beni “intellettuali”. Nei mercati in cui operano gli stranieri dominano i rapporti di lavoro neo-hobbesiani, basati sul semplice incontro tra posizioni di for267
za e vendita elementare della forza lavoro. Dimensione sempre più crescente dell'economia informale (in Italia, circa il 30% di quella complessiva), il mercato del lavoro straniero è per definizione sottratto
al controllo pubblico, peraltro sempre più evanescente grazie alla progressiva deregolamentazione, in tutti i campi, dei rapporti di lavoro. La padrona di casa che tiene reclusa una badante per sedici ore al giorno, il capo cantiere che ingaggia i suoi manovali albanesi sul marciapiede, l’azienda agricola che alloggia i suoi braccianti in una stalla configurano, al di là delle definizioni dottrinarie, un ritorno a forme di lavoro schiavistico, precontrattuale, che sembrano adattarsi benissimo
alla liberalizzazione generalizzata del lavoro.” All’autoimprenditoria per i nazionali, liberi di autosfruttarsi nelle mansioni più o meno creative, corrisponde il servaggio degli stranieri. Un servaggio, naturalmente, privo di connotazioni o vincoli territoriali, e quindi fluido, capace di alimentarsi della circolazione di persone prive di qualsiasi prospettiva, che non sia quella della mera e precaria sopravvivenza. Un servaggio che si prolunga nei mercati del lavoro deviante, come la prostituzione o il piccolo spaccio, in cui, in sostanza, si trovano gli stessi rapporti di lavoro schiavistico delle case private, dei cantieri, dei campi e delle serre. Non è difficile accorgersi come le normative elaborate a partire dalla metà degli anni novanta, in un crescendo di paranoia verso i migranti (decreto Dini, legge Turco-Napolitano, legge Bossi-Fini), abbiano come obiettivo comune il mantenimento di una domanda clandestina del lavoro meno qualificato. La retorica più o meno truculenta o legalitaria della lotta alla clandestinità non deve ingannare. Come in ogni altro campo della vita, il proibizionismo sfocia nella proliferazione di mercati illegali. La fissazione di quote di ingressi temporanei più o meno arbitrarie o cervellotiche (per esempio nell’agricoltura stagionale), insieme a norme giugulatorie come l’individuazione preventiva di datori di lavoro o garanti degli stranieri, fanno sì che l’offerta di lavoro si rivolga di fatto ai migranti privi di qualsiasi mezzo, agli irregolari disponibili per qualsiasi mansione pur di restare nel territorio nazionale. La “clandestinità” del lavoro, naturalmente, mostra due facce
a seconda che gli stranieri siano nascosti nella privatezza della vita domestica, come avviene per le cosiddette badanti, oppure siano visibili nell’incertezza dei mercati di strada, come avviene invece per manovali o braccianti. Nel primo caso, la clandestinità sparisce nell’intoccabilità delle famiglie, mentre nel secondo è soggetta al meccanismo della paura. Il rischio concreto di espulsione o di internamento nei centri di permanenza temporanea (introdotti dalla legge Turco-Napolitano) si 268
traduce nell’invisibilità dei lavoratori e nella loro soggezione assoluta alle condizioni di lavoro imposte da caporali e capi cantiere. Le testimonianze ormai abbondanti dei lavoratori stranieri parlano diffusamente di orari di dodici-quattordici ore al giorno, di assoluta mancanza di misure antinfortunio, di retribuzioni da fame (due o trecento euro al mese nei casi più favorevoli), di pagamenti dilazionati o dimezzati, di contratti fantasma. Solo raramente episodi come l’uccisione del rumeno Ion Cazacuo il crollo nel porto di Genova del novembre 2003 sollevano un velo su questa realtà divenuta “normale”. Per il resto, è noto come i lavoratori infortunati o feriti si facciano curare privatamente per proteggersi da una legge che non fa nulla contro il lavoro nero o gli infortuni, ma autorizza periodicamente rastrellamenti di clandestini nei centri urbani. La legge Bossi-Fini radicalizza quella Turco-Napolitano, non solo perché prevede l’impiego ufficiale della marina militare nel “respingimento” dei clandestini e raddoppia il periodo massimo di internamento nei Cpt (due mesi che possono anche diventare tre o più, se si pensa alle peregrinazioni iniziali degli stranieri tra porti di prima raccolta, caserme o altre strutture), ma soprattutto perché vincola rigidamente la regolarizzazione, cioè la permanenza temporanea, a un “contratto di soggiorno”. Ciò significa subordinare i lavoratori regolarizzati alla volontà assoluta del datore di lavoro. Questa norma, fortemente voluta
dalla Lega, consente l’assoggettamento totale sul luogo di lavoro e ovviamente riduce la possibilità di organizzazione dei lavoratori stranieri, già obiettivamente difficile per motivi più che evidenti (isolamento, paura, pregiudizi locali e così via). Inoltre, rende ancor più precaria la condizione di chi è stato espulso dal mercato del lavoro regolare o non è riuscito a entrarci. Il giro di vite degli ultimi anni contro gli stranieri, in nome della sicurezza dei cittadini o delle iniziative contro il “degrado” urbano, chiude la tenaglia in cui di fatto, negli ultimi dieci anni, i migranti poveri si sono venuti a trovare nelle società definite, con un’espressione che sarebbe comica se non fosse sinistra, di “accoglienza”. La retorica del “multiculturalismo”, cioè dell’accoglienza dei “diversi”, funge ormai da legittimazione culturale del progressivo asservimento degli stranieri. Nello stesso modo in cui le guerre “umanitarie” degli anni novanta, prima dell’11 settembre 2001, giustificavano il rilancio dell’egemonia occidentale nel mondo seguito alla fine del bipolarismo, la retorica multiculturale traveste il problema delle migrazioni — e più in generale del rapporto con il mondo non sviluppato - in termini “etnici”, culturali o religiosi. Gli stranieri perdono cioè la connotazione, che dovrebbe essere ovvia, di soggetti alla ricerca di chances di 269
vita nell'economia globale per acquistare quella convenzionale di propaggini di altre culture o di credenti di altre fedi. Ciò consente a un ampio ventaglio di forze politiche di affrontare la questione delle migrazioni su tutti i piani tranne quello dei diritti. In altre parole, 707 ir termini di uguaglianza, ma di diversità. Un lavoratore sottomesso al proprio datore di lavoro e, al limite, al proprio imam, nonché rimpatriabile in qualsiasi momento — in cambio magari di qualche sovvenzione al governo del suo paese d’origine — sembra essere l’ideale più o meno confessabile in cui si rispecchiano, con accenti formalmente di-
versi, centro-destra e centro-sinistra e in fondo anche la Lega, quando propone, per esempio, che l'Occidente aiuti il Terzo mondo affinché gli stranieri restino a casa propria. In questo senso, possiamo definire neo-colonialista la strategia dominante in termini di migrazioni. Una quota consistente, anche se minoritaria dell’umanità, viene presa in considerazione solo se subordinata alle logiche del mondo dominante, in patria o all’estero. Un colonialismo che non si definisce tale — e anzi si alimenta della retorica dei diritti umani — ma che si basa sulla distinzione radicale tra ricchi e poveri, tra chi “offre” lavoro e chi lo richiede. Una distinzione che fino a ieri riguardava gran parte dell'Europa dell’est, ma che oggi tende a ricollocarsi sul confine per così dire naturale tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del mondo. Tra Europa, da una parte, e Asia e Africa
dall’altra. Tra America del nord e del sud. In poche parole, tra l’Occidente che si ristruttura nell'economia globale e le periferie del mondo che continuano a subire la globalizzazione. 3. La guerra, questa struttura impensata della cultura occidentale tornata prepotentemente alla ribalta del nostro mondo, ridefinisce le migrazioni internazionali in un quadro più netto e sinistro. Solo una misera convenzione accademica fa chiamare migranti coloro che ormai sono per lo più fuggitivi dalle desolazioni della guerra. Curdi di nazionalità turca e irachena, afghani e pakistani, tamil e liberiani, albanesi e algerini, nigeriani ed eritrei, salvadoregni e guatemaltechi, bosniaci e rom sfuggono alle categorizzazioni asettiche in cui le scienze delle migrazioni vorrebbero costringerli. Nel Mediterraneo, davanti a Gibilterra, nei mari tropicali o nei deserti del sud-ovest degli Usa non sono all'opera tanto i fattori demografici di attrazione e di espulsione, quanto le conseguenze della guerra. Intere popolazioni — basterebbe ricordare i palestinesi cacciati dall’Arabia saudita e dal Kuwait nel 1991 - diventano ostaggi, moneta di scambio o vittime di ritorsioni in conseguenza diretta o indiretta dei conflitti in cui il mondo occidenta270
le è coinvolto. Oppure semplici obiettivi di strategie di destabilizzazione, come è avvenuto all'intera popolazione irachena, sottoposta dal 1991 al 2003 a un embargo che possiamo considerare una forma indiretta di genocidio. Milioni di persone che si aggiungono a quelli che fuggono dalla miseria di vaste zone dell’Africa e dell'Asia, dai conflitti civili e dai regimi repressivi. Centoventi milioni complessivi a metà degli anni novanta, centocinquanta probabilmente oggi. Un’umanità alla deriva, in cui si confondono, spesso sulle stesse zattere, i giovani ma-
grebini o senegalesi alla ricerca di fortuna e gli esuli provenienti da paesi di mezzo mondo. Alla parte di questa umanità che riesce a filtrare l'Occidente non sa offrire molto più che lavori precari semiservili, mentre al resto offre la moltiplicazione di frontiere, di sbarramenti e di filtri e una catena impressionante di campi di detenzione: in Australia e lungo tutti i confini orientali d'Europa, in Thailandia e alla frontiera tra America di lingua
spagnola e quella di lingua inglese. Gli anni novanta hanno visto una decisa esternalizzazione dell’internamento. Regimi fino a ieri considerati canaglia, come la Libia, o di dubbia reputazione in materia di rispetto dei diritti umani (Marocco, Tunisia, Thailandia) si vedono offri-
re milioni di dollari e di euro perché controllino o internino i migranti, loro o di altri paesi. La guerra contro i clandestini incrementa i controlli delle persone in un mondo già paranoizzato dal terrorismo. Mentre la libera circolazione delle merci materiali e immateriali diffonde su tutta la terra i beni di consumo tipici dell’Occidente, i tentativi di una piccola parte dell’umanità spossessata di accedere al mondo ricco conducono sempre più spesso in fondo al mare o, nei casi meno sventurati, dietro un reticolato.
Postulare una qualche somiglianza tra i campi di internamento per migranti e il campo di Guantanamo non è del tutto arbitrario. In entrambi i casi, se non altro, il diritto è sospeso — o meglio mostra la sua natura di convenzione tutt’al più valida per i cittadini a pieno titolo del mondo, quello che ci appartiene, il nostro. I principi elementari delle istituzioni giuridiche che l'Occidente si è dato faticosamente da qualche secolo non valgono per gli estranei: lo habeas corpus per i clandestini, il semplice diritto di guerra per i combattenti di un conflitto - quello tra “civiltà” e terrorismo — di cui i paesi occidentali non sembrano comprendere ragioni e forme. Non sappiamo nulla (o meglio abbiamo fin troppi indizi, e terribili) della situazione dei prigionieri ceceni in Russia. Non sappiamo granché della condizione dei prigionieri in Afghanistan e Iraq (ma sappiamo che almeno in un caso centinaia, se non migliaia, di prigionieri talebani sono stati eliminati dall AlSIA
leanza del nord davanti allo sguardo indifferente dei militari americani). Sappiamo peraltro che la tortura “non letale” viene oggi ufficialmente ammessa a Guantanamo (e probabilmente in tanti altri campi segreti, americani e non, sparsi per il mondo). In altri termini, sappiamo che i principi su cui la supremazia dell'Occidente si baserebbe, in primo luogo il rispetto dei diritti umani elementari, vengono violati in nome di un conflitto che ci opporrebbe agli “altri” mondi. Violazioni “oggettive” e operative, nel caso degli stranieri in cerca di fortuna o di scampo, violazioni limitate eppure deliberate, impassibili, nel caso di una lotta al terrorismo che appare implacabile e in realtà è interminabile (l'occupazione dell’Iraq e la destabilizzazione dell’intero Medio Oriente fanno prevedere che siamo solo agli inizi). Alla regressione neo-schiavistica del lavoro da noi corrisponde la regressione del nostro diritto nel resto del mondo. Come in una sorta di terza grande accumulazione, dopo quella primitiva all’alba dell'era industriale e quella più recente dell’era coloniale, la frusta e la forca tornano ad essere gli strumenti del disciplinamento dell’umanità. Apocalissi? Termino queste pagine il giorno dopo l’attentato in cui sono caduti una ventina di militari italiani di stanza in Iraq. La pena per la loro morte non può obliterare, se non in nome di un patriottismo ottuso e anacronistico, quella per l’ingente distruzione di vite umane che l’avventurismo di Bush Jr ha provocato in Irag, un paese prostrato da venticinque anni di guerre e di embargo. Né può mettere a tacere la domanda che viene spontanea a chiunque si sia opposto a questa guerra. Che ci facevano lì? Praticavano una forma armata di peace-Reeping, come ci fa credere la terminologia neutralizzante dell’egemonia occidentale, o contribuivano a mettere qualche pezza a una fallimentare strategia neo-imperialistica e neo-coloniale? E soprattutto: come non accorgersi che l’impiego di forze armate, per una piccola potenza come l’Italia, è rivolto ormai esclusivamente al controllo di popolazioni del mondo impoverito? Un conflitto sociale globale, non di culture ma di interessi, sta contrapponendo il mondo ricco alla grande maggioranza dell’umanità. Nel crollo di regimi che l'Occidente un tempo ha vezzeggiato in nome della lotta al comunismo e all’integralismo islamico (Iraq e Afghanistan), nella traduzione religiosa della frustrazione e della povertà che incendia le masse di tante periferie, nelle guerre in cui l'Occidente si fa coinvolgere incessantemente si rivelano le forme, fin qui impensate, di tale conflitto. Ma nelle politiche di repressione degli stranieri appare l’ottusità della nostra cultura politica di fronte ai problemi posti dalla globalizzazione. Invece di aiutare i migranti a conquistarsi la possibilità di un’esistenza decente (ciò che AT.
in realtà è infinitamente meno difficile di quanto non faccia pensare il credo politico imperante in Europa), li buttiamo in mare, in una versione inedita della politica delle cannoniere. O li costringiamo a vivere nei bassifondi della società di mercato. Il conflitto di culture è poco più di una tetra fantasia del neo-conservatorismo. A meno che esso finisca per dar forma, da noi come nel
resto del mondo, alle rivendicazioni degli esclusi e alla loro scatto. Come gli storici non si stancano di ripeterci, l'Islam più o meno pacificamente con le altre religioni, anche dopo sta di gran parte del mondo mediterraneo. Fu l’insensata
ansia di riconviveva la conquistrage che
concluse la conquista di Gerusalemme, nella prima crociata, ad ali-
mentare l'odio per i Franchi, come venivano chiamati i crociati. La storia, una volta di più, sembra ripetersi in forma di farsa. Novembre 2003
Note 1
Una prima versione di questo testo è apparsa il 28 novembre 2003 in un supple-
mento sull’immigrazione distribuito congiuntamente da “il manifesto”, “Liberazione” e “Carta”. 2
Il manifesto intellettuale di tale posizione è A. Giddens, La terza via, il Saggiatore,
Milano 2000. A questa visione abbastanza convenzionale possiamo contrapporre le riflessioni di Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001.
3.
Cfr, per un’analisi di questo punto, A. Dal Lago e A. Molinari, a cura di, Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella società globale, Ombre Corte, Verona 2001.
4.
Sulle politiche penali e di controllo sociale in Usa, cfr. C. Parenti, Lockdown America. Police and Prisons in the Age of Crisis, Verso, London-New York 2000. Per
una tendenza analoga, in Europa e in Italia, cfr. S. Anastasia e P. Gonnella, a cura di, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Roma 2002, da cui risulta che nel corso degli anni novanta, durante i governi di centro-sinistra, il tasso di incarcerazione è
pressoché raddoppiato, mentre gli stranieri rappresentano poco meno della metà dei carcerati in Italia.
H.M. Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994. 6
Cfr. G. Zincone, a cura di, Prizzo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, il Mulino, Bologna 2000, p. 178. Questo rapporto, come d’altronde il successivo, include anche buoni saggi su temi specifici, ma l'assoluta mancanza di una riflessione politico-culturale di ampio respiro ne fa complessivamente la summa delle opinioni “ragionevoli” in
273
campo accademico sulla questione delle migrazioni. In sostanza, i migranti vanno “accettati” da parte di una società che tutto sommato è capace di integrarli (sempre che si comportino bene e non pretendano troppi diritti). 7.
Hoanalizzato in un lavoro recente alcuni casi clamorosi del neo-schiavismo. Cfr. A. Dal Lago ed E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.
8
Per un’analisi del quadro strategico che sta dominando, dal 1991, la fase delle cosiddette “nuove guerre” cfr. A. Joxe, L'izzpero del caos, Sansoni, Milano 2003. Per le conseguenze sulle libertà civili e sulla situazione di migranti e profughi, cfr. A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.
274
Ringraziamenti Non avrei potuto scrivere questo libro senza l’aiuto di amici, colleghi e studenti. Ho un debito di riconoscenza con Salvatore Palidda, con cui discuto da anni di migrazioni, sicurezza urbana e trasformazioni dell'ordine sociale, e che è stato prodigo di consigli, informazioni e materiali. Sandro Mezzadra mi ha fornito un gran numero di indicazioni bibliografiche e ha letto accuratamente l’ultima versione del libro, permettendomi di ridurre gli errori e le imprecisioni. Ringrazio anche Livio Quagliata, perché, tra le altre cose che ci legano, una sua inchiesta sui migranti scomparsi in mare mi è stata uti-
lissima nella stesura di un capitolo. Ricordo inoltre, per l’indispensabile aiuto nelle interviste e nella raccolta dei materiali, Federico Boni, Francesco Carrer, Daniela Brickner, Rocco De Biasi, Emilio Quadrel-
li, Stefano Padovano, Federico Rahola e Sabrina Vigna. Sono grato a Luca Guzzetti e Maria Teresa Torti per i loro consigli e le loro critiche,
a Eleonora Marletta per i suggerimenti relativi all’interpretazione di alcuni passi biblici, e a Serena Giordano e Paolo Rinaldi, che mi hanno messo a disposizione le loro competenze grafiche. Molti spunti mi sono venuti dai partecipanti ai seminari tenuti presso il dipartimento di Scienze dei processi cognitivi, del comportamento e della comuni275
cazione dell’Università di Genova negli anni accademici 1995-96 e 1996-97. Oltre a Sandro Mezzadra, Agostino Petrillo ed Emilio Quadrelli, che ne sono stati gli animatori e i curatori, vorrei ricordare, tra
gli altri partecipanti e relatori, Flavio Baroncelli, Helmuth Dietrich, Marco d’Eramo, Marco Doria, Nando Fasce, Ferruccio Gambino, Renato Levrero, Yann Moulier-Boutang,
Francesco Pivetta, Vincenzo
Ruggiero, Malek Sayad. Con la scomparsa di Renato Levrero e di Malek Sayad ho perso due punti di riferimento preziosi nella ricerca sulle migrazioni e soprattutto due amici. Norma Pozzi, Laura Tartarini, Antonello Petrillo e Marcello Maneri mi hanno permesso di utilizzare materiali delle loro tesi di laurea o di dottorato. Antonello Petrillo, in particolare, ha messo generosamente a disposizione le interviste originali della sua ricerca. Questo saggio non rifugge da toni polemici (pur sforzandosi di mantenersi nei limiti di una discussione civile). Per questo, me ne assumo interamente, al di là delle formule di rito, la respon-
sabilità. E ciò vale soprattutto per gli errori che vi fossero contenuti. Parti di questo lavoro sono state presentate in modo informale nei corsi di Sociologia e di Sociologia dei processi culturali da me tenuti all’Università di Genova negli ultimi anni. Non so se gli studenti condividano sempre i miei punti di vista, oltre che il modo erratico in cui tendo a esporli. Ma so che mi sono stati d’aiuto discutendo e anche collaborando a reperire il materiale empirico e illustrativo. Tra gli amici, italiani e no, che mi hanno aiutato direttamente o indirettamente
durante la stesura di questo lavoro, vorrei ricordare Mouhcen Bendaoud, senza conoscere il quale, anni fa, non mi sarei forse occupato dei temi discussi nel libro, e Donatella Gorilla. Lei sa bene, perché l’ha
provata sulla propria persona, fino a quale bassezza si spinga il pregiudizio. Kleves Jazxhi, dal canto suo, mi è stato di grande aiuto nell’ana-
lisi della “questione” albanese. La collaborazione con gli amici dell’associazione Città aperta, del Forum antirazzista e della Caritas di Genova mi ha forse consentito di vedere i problemi delle migrazioni con altri occhi, e lo stesso vale per il gruppo di discussione animato da Bruno Murer dell’Emasi di Milano. Ricordo con grande piacere che, in una situazione difficile, mentre lavoravo al libro, suor Maria Tarallo,
Lucia Venini, Thiam e Serigne Sylla e altri credenti hanno pregato per me, pur sapendo quanto siano tenui le mie relazioni con il Cielo (o forse proprio per questo). Giovanna ha letto e riletto le diverse stesure del libro, aiutandomi a dargli una forma definitiva, e soprattutto mi è
stata vicina, come sempre. Parti di questo libro sono state pubblicate in “aut aut”, 275, 1996,
pp. 43-70 e in “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1999. Un ulteriore 276
impulso a tentare una prima sintesi sulla costruzione sociale dell’immigrato come nemico deriva dalla partecipazione a una ricerca europea sull'impatto delle migrazioni sulle società di destinazione.’ Ringrazio la DGXI della Comunità europea per avermi permesso di utilizzare brani di interviste e altro materiale documentario raccolto per tale ricerca.
Note 1
Iprimiatti dei seminari sono ora pubblicati in A. Dal Lago, a cura di, Dertro/fuori. Scenari dell'esclusione, “aut aut”, 275, 1996; Id., a cura di, Lo straniero e il nemico.
Materiali per l’etnografia contemporanea, cit. Altri materiali sono in preparazione.
2.
“Informal economy, deviance and the impact of migration on receiving societies” (ricerca finanziata dalla Ce, DGXI, affidata alle Università di Genova, Parma, Bar-
cellona, Lisbona, Atene, all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e alla Technische Universitàt di Berlino).
277
L'autore Alessandro Dal Lago insegna Sociologia dei processi culturali all’Università di Genova, dove è preside della facoltà di Scienze della formazione. Ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle Università di Pavia, Milano, Bologna e Philadelphia. Attualmente, coordina un gruppo di ricerca, presso l’Università di Genova, sui conflitti globali. Si è occupato di teoria sociale e politica, sociologia della devianza e dello sport, migrazioni internazionali ed etnografia urbana. Tra le sue pubblicazioni principali, La produzione della devianza (Feltrinelli, Milano 1981); Etzorzetodologia (il Mulino, Bologna 1983, con P.P. Giglioli); L'ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo (Unicopli, Milano 1983); I/ politeismo moderno (Unicopli, Milano 1986); De-
scrizione di una battaglia. I rituali del calcio (il Mulino, Bologna 1990); I paradosso dell'agire (Liguori, Napoli 1990); Regalateci un sogno. Miti e realtà del tifo calcistico in Italia (Bompiani, Milano 1992, con R. Moscati); Per gioco. Piccolo manuale dell'esperienza ludica (Raffaello Cortina, Milano 1993, con P.A. Rovatti); I/ conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel (il Mulino, Bologna 1994); I nostri riti quotidiani. Prospettive nell'analisi della cultura (Costa & Nolan, Genova 1995); Polizia globale. Guerre e conflitti dopo l'11 settembre (Ombre Corte, Verona 2003); e La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini (Feltrinelli, Milano 2003, con E. Quadrelli). Ha curato il volume col-
lettivo Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea (Costa & Nolan, Genova 1997) e l'edizione italiana di opere di G. Simmel, M. Foucault, C. Geertz, P. Veyne, H. Arendt e K. Jaspers.
219
Stampa Grafica Sipiel Milano, maggio 2005
ALESSANDRO DAL LAGO Non-persone
e e n i
L'esclusione dei migranti in una società globale Nuova edizione Mentre le cronache registrano di continuo la morte in mare di “clandestini”, gran parte dei mezzi di comunicazione di massa alimenta senza sosta il panico sull’“invasione” del nostro paese da parte di immigrati poveri provenienti dal Terzo mondo. Non si tratta in realtà di una lettura specifica dei soli media, ma di un più complessivo atteggiamento di chiusura della società italiana verso gli stranieri, trasformati in nemici sociali, attraverso
la doppia spirale di panico ed esclusione. Buona ultima, anche la sfera della politica non si dimostra consapevole del problema del riconoscimento dei diritti di cittadinanza ai nuovi migranti. A questi sviluppi inquietanti non è certo estranea la riscoperta della “nazione Italia” e anche della “patria italiana”, cioè di un sentimento comune su cui si fonderebbe l'appartenenza nazionale. Non solo questa rivendicazione appare particolarmente debole, ma essa coincide con un processo di inferiorizzazione delle altre società — i paesi più poveri, le regioni arretrate dell’Italia stessa, le aree meno ricche delle regioni dominanti —, un atteggiamento mentale presente indifferentemente a destra come a sinistra. Nel descrivere gli umori più profondi della società italiana Dal Lago si schiera in modo deciso, in un libro polemico, documentato e che fa discutere, perché in gioco sono i lineamenti fondamentali della convivenza civile e i contenuti più profondi su cui si regge la nostra democrazia. Alesandro Dal Lago (Roma 1947) insegna Sociologia dei processi ec all’Università di Genova, dove è stato preside dalla Facoltà di Scie della formazione dal 1996 al 2002. Autore di diversi saggi di teoria etnografia e filosofia politica, lavora attualmente sulle culture dell guerra nelle società globalizzate. Per Feltrinelli ha curato il second volume dell'Archivio Foucault (1997) e ha pubblicato La città e le 0 Crimini, criminali, cittadini (2003).
In copertina: illustrazione di Serena Giordano.
euro 9,00
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