Neorealismo 8870758893, 9788870758894

All'indomani della Seconda guerra mondiale si diffuse in Italia un forte richiamo all'impegno civile che gener

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Table of contents :
Neorealismo
Indice
IL CONTESTO STORICO-CULTURALE
Fascismo e cultura
Il «novecentismo»
Gli incunaboli del neorealismo
Il cinema italiano negli anni del fascismo
Verso la rappresentazione della realtà
La spinta decisiva del cinema
NASCITA E SVILUPPO DEL NEOREALISMO
Una svolta nel cinema italiano: Roma città aperta
La guerra e le speranze nel neorealismo cinematografico
Tra documenti e creatività
Tipologia del racconto resistenziale
Un romanzo discusso: Uomini e no
I nuovi scrittori
Altri scrittori di guerra
Il dopoguerra e il mondo contadino
L’epilogo del cinema neorealista
Gli ultimi scrittori del neorealismo
La polemica conclusiva su Metello
I poeti
I PROTAGONISTI
Attraverso il neorealismo
Roberto Rossellini
Cesare Zavattini
Elio Vittorini
Marcello Venturi
Franco Matacotta
L’EREDITÀ DEL NEOREALISMO
Il cinema verso la commedia all’italiana
Il bestseller italiano
Più lontani echi della Resistenza
La narrativa di denuncia
BIBLIOGRAFIA
Opere di carattere generale
Aspetti del cinema neorealista
Aspetti della letteratura neorealista
I protagonisti
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Neorealismo
 8870758893, 9788870758894

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All’indomani della Seconda guerra mondiale si diffuse in Italia un forte richiamo all’impegno civile che generò quel movimento spontaneo definito neorealismo. Con opere soprattutto cinematografiche e letterarie, esso intendeva proporre una rappresentazione della problematica realtà italiana di quegli anni, affinché gli spettatori e i lettori si adoperassero perché si diffondesse un impegno a migliorare la società del Paese attraverso l’arte e la cultura. Del neorealismo furono protagonisti registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, scrittori come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, ma questa esperienza lascerà tracce anche in chi, come Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini e perfino Eugenio Montale, quel momento di grande slancio aveva solo attraversato. Francesco De Nicola, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Genova, è autore di saggi monografici: Introduzione a Fenoglio, Introduzione a Vittorini e Gli scrittori italiani e l’emigrazione, oltre ad aver curato l’edizione di importanti opere rare o inedite quali La voce nella tempesta di Beppe Fenoglio e Sull’Oceano di Edmondo De Amicis. Di recente è uscito il saggio-antologia, scritto con Maria Teresa Caprile, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra.

I movimenti e le idee 5. Collana diretta da Alberto Cadioli Comitato scientifico Virna Brigatti, Roberto Diodato, Paolo Giovannetti Laura Neri, Giuliano Vigini

Francesco De Nicola

Neorealismo

Copertina: Eros Rozza Realizzazione eBook: CreaLibro di Davide Moroni ISBN: 978-88-7075-905-1 Copyright © 2016 Editrice Bibliografica Via F. De Sanctis, 33/35 - 20141 Milano Proprietà letteraria riservata

Indice Il contesto storico-culturale Fascismo e cultura Il «novecentismo» Gli incunaboli del neorealismo Il cinema italiano negli anni del fascismo Verso la rappresentazione della realtà La spinta decisiva del cinema

Nascita e sviluppo del neorealismo Una svolta nel cinema italiano: Roma città aperta La guerra e le speranze nel neorealismo cinematografico Tra documenti e creatività Tipologia del racconto resistenziale Un romanzo discusso: Uomini e no I nuovi scrittori Altri scrittori di guerra Il dopoguerra e il mondo contadino L’epilogo del cinema neorealista Gli ultimi scrittori del neorealismo La polemica conclusiva su Metello I poeti

I protagonisti Attraverso il neorealismo Roberto Rossellini Cesare Zavattini Elio Vittorini Marcello Venturi Franco Matacotta

L’eredità del neorealismo Il cinema verso la commedia all’italiana Il bestseller italiano

Più lontani echi della Resistenza La narrativa di denuncia

Bibliografia

IL CONTESTO STORICOCULTURALE

Fascismo e cultura Le più profonde radici storiche e culturali del neorealismo si possono far risalire alla seconda metà degli anni Venti, quando il fascismo aveva cominciato a guardare con velleità programmatiche al lavoro e al ruolo degli intellettuali e degli artisti. In realtà, il regime non aveva elaborato alcun programma culturale strutturato, nella convinzione che erano altri gli argomenti di primaria importanza, come Mussolini aveva ammesso sin dal documento di nascita del fascismo, approvato nel 1919 nella riunione di piazza San Sepolcro a Milano, dove i problemi relativi al pensiero e alla cultura erano stati appena sfiorati; e più tardi, conversando con Mario Carli, direttore del fascistissimo quotidiano «L’Impero» fondato nel 1922, Mussolini affermerà: «Lasciatemi risolvere i problemi elementari ma formidabili della vita nazionale e poi verrà la grande ondata per l’arte e per i problemi intellettuali».1 Questo proposito rimase però irrealizzato, tanto che alla cultura – ma non alla necessità di «normalizzare» la stampa, imbavagliata con metodo tra il 1925 e il 1928 – si accennerà appena negli Statuti del Partito fascista del 1926, 1929 e 1932, mentre in quello del 1938, nella sezione Dottrina del fascismo, riconosciuta l’importanza della cultura nelle sue varie forme, la subordinava comunque alla lotta politica, considerata l’apice della concezione fascista della vita. Pur risultando dunque assai approssimativa e certo tutt’altro che sistematica l’impostazione culturale data dal fascismo, alcuni caratteri generali, sin troppo palesemente strumentali al disegno politico del regime, vennero delineandosi con chiarezza; si affermò un modello d’intellettuale, largamente rappresentato per lo più da scrittori di mediocre talento ma di

buon successo editoriale (come Guido da Verona, Mario Mariani, Luciano Zuccoli e Bruno Corra), ispirato al d’Annunzio superomistico, portato all’ostentazione di sé con atteggiamenti plateali e aperto alle esperienze più inusuali (ma ormai meno credibili essendo giunto il Vate alla vecchiaia) in nome di un culto estremo per ogni appariscente modernità. Accanto a questo versante chiaramente aristocratico, proiettato verso un futuro esaltante per superare il grigiore della disprezzata quotidianità borghese, un altro modello, meno raffinato ma non meno importante politicamente, aveva preso campo richiamandosi invece alle radici popolari e provinciali del paese (ne sarà espressione vivace tra il 1924 e i primi anni Trenta il movimento di Strapaese con la rivista «Il Selvaggio»), senza dimenticare naturalmente il diffuso recupero in chiave moderna della tradizione romana, che offrirà l’avallo storico alle mire imperialistiche di Mussolini; e l’aspetto più evidente della volontà di rappresentare quella grandezza sarà dato nel Ventennio dal gusto architettonico e urbanistico volto al recupero dell’impronta monumentale della romanità.

Il «novecentismo» Pur all’interno di queste tendenze strumentali al disegno politico generale, ma dalle caratteristiche talora anche fortemente contrastanti tra loro, la linea culturale prevalente del fascismo presentava un evidente e sottolineato carattere nazionale, spesso degenerato in nazionalismo. Ma non mancava anche chi guardava al di là dei propri confini per elaborare progetti culturali che si sottraessero al compito dichiarato di procurare consensi al regime. Così, lo scrittore Massimo Bontempelli si rese protagonista di un’esperienza assai importante, anche se di fatto di breve durata e risultata piuttosto sterile, quando nel 1926, consapevole del ruolo di capitale mondiale della cultura ricoperto da Parigi, vi fondò la rivista «900», scritta in francese e aperta alla collaborazione dei più vari, anche ideologicamente, scrittori stranieri. Egli

intendeva compiere una salutare sprovincializzazione della cultura italiana, ma incontrò l’ostilità dei fascisti più fanatici, polemicamente contrari all’implicito ridimensionamento della cultura tradizionale italiana, tanto che a partire dal 1928 la rivista fu trasferita in Italia, uscì in italiano per avviarsi infine alla chiusura nel 1929. Parallelamente alla rivista, portavoce di quel «novecentismo» che si opponeva al futurismo e al dannunzianesimo e tendeva a mescolare «sempre un poco di cielo alle cose della terra e di mistero alle più precise realtà» per raggiungere quel pubblico popolare «che è sempre stato l’obiettivo vero dell’arte»,2 Bontempelli aveva elaborato nel 1927 un ambizioso piano volto a realizzare, con la pubblicazione di ben sessanta romanzi scritti dai più attivi autori della sua corrente, una massiccia presenza del novecentismo nella società letteraria italiana. Questa era allora dominata dalla narrativa di consumo di matrice dannunziana dei Guido da Verona e dei Pitigrilli, mentre a un livello più alto gli autori più letti erano Virgilio Brocchi, Annie Vivanti e Bruno Cicognani, quando solo pochi lettori ancora conoscevano Svevo e Tozzi.3 L’ambizioso progetto di Bontempelli rimase però irrealizzato: dei romanzi programmati solo tre furono pubblicati mentre altri, già preannunciati, rimasero inediti o presero sbocchi editoriali diversi dal previsto, come La palude dell’ancora sconosciuto Alberto Moravia, respinto da Bontempelli per la scarsa componente magica e per la prevalenza degli elementi realistici nella minuta indagine della crisi della borghesia italiana (il libro venne poi pubblicato nel 1929 a spese dell’autore con il nuovo titolo Gli indifferenti presso le edizioni Alpes). Il progetto, sia pure fallito, di Bontempelli aveva però dimostrato l’impegno a rilanciare, a un livello non puramente consumistico, il genere narrativo del romanzo quando invece la prosa medio-alta, esemplata sul modello rondista, guardava prevalentemente al racconto o anche al frammento lirico ereditato dall’esperienza vociana. All’interno del genere «romanzo» poi, Bontempelli aveva individuato una nuova linea, quella miscela di elementi oscillanti tra realtà e magia

che poco più tardi sarebbe stata definita con la formula di «realismo magico», rappresentata esemplarmente da alcuni romanzi dello stesso Bontempelli, come Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930), e poi da suoi giovani seguaci come l’esordiente Anna Maria Ortese, autrice dei racconti del volume Angelici dolori (1937). Il modello narrativo dannunziano, tendente a ignorare se non a disprezzare la normalità quotidiana, era così accantonato per recuperare invece quel contatto con la realtà, sia pure magica, che poteva trovare il suo più naturale antecedente nel verismo e nel suo narratore più rappresentativo, quel Giovanni Verga che, con i suoi quadri di miseria e di sconfitte intollerabili in un’Italia appena uscita dal Risorgimento e faticosamente avviata a divenire uno stato moderno, negli anni Venti appariva estraneo sia al formalismo stilistico, sia ai prevalenti gusti consolatori e inclini alla facile evasione. E tuttavia il recupero del Verga, pur lento e difficile, porterà molto lontano; avviato nel 1920 da una brillante monografia di Luigi Russo sull’autore dei Malavoglia, testimoniato nel 1923 dal volume di Giuseppe A. Borgese Tempo di edificare, dedicato appunto al Verga, e proseguito da Elio Vittorini nell’articolo Scarico di coscienza («Italia letteraria», 13 ottobre 1929), servì a delineare un nuovo territorio letterario e intellettuale, inevitabilmente critico nei confronti del modello fascista del quale rifiutava sia i toni della celebrazione estetizzante e nazionalistica, sia la chiusura nei confronti della più libera e moderna civiltà europea. Né questo nuovo e più largo territorio risulterà univoco, bensì articolato e aperto alla prospettiva realistica e sociale ma anche all’introspezione e all’analisi psicologica come alla dimensione fantastica, il tutto sempre sostenuto da quel confronto con le altre culture e con le altre arti interpretato compiutamente sul piano letterario dalla rivista fiorentina «Solaria», fondata nel 1926 da Alberto Carocci e vissuta fino al 1934 tra gravi difficoltà sollevate dalla censura di regime; stampata in un numero di copie limitato, tuttavia divenne ben presto la voce ufficiale del rinnovamento letterario italiano, soprattutto per l’attenzione rivolta agli scrittori stranieri e a quelli nostri che, come l’appena allora scoperto nella sua grandezza (ma già defunto)

Italo Svevo, erano ben lontani dalla proposta letteraria di regime.

Gli incunaboli del neorealismo Non fu per un caso allora che proprio in un saggio dedicato alla produzione letteraria di un paese straniero – Letteratura russa a volo d’uccello di Umberto Barbaro, uscito a puntate sull’«Italia letteraria» dal 2 novembre 1930 al 22 febbraio 1931 –, sia comparsa per la prima volta in sede critica la parola «neorealismo», definizione peraltro già in uso agli inizi del Novecento per indicare un indirizzo filosofico di origine inglese avverso all’idealismo. Barbaro però aveva probabilmente usato il termine neorealismo richiamandosi al movimento tedesco della Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), che proprio allora cominciava a essere noto anche in Italia, tanto che nel suo articolo Barbaro intendeva definire con neorealismo una narrativa che, «pur rifacendosi alla letteratura dell’Ottocento, non può dirsi un vero e proprio ritorno ma invece ha caratteri di novità, se non di avanguardia» ravvisati in analogie con lo scrittore tedesco Alfred Dalin e con il pittore Otto Dix. E quando poco più tardi lo stesso Barbaro sarà autore del romanzo Luce fredda (1931), fortemente influenzato dai modelli della letteratura tedesca post-espressionista, nella sua recensione (apparsa sul «Corriere padano» il 21 luglio 1931) il critico Arnaldo Bocelli adopererà la definizione di «nuovo realismo», inaugurando così inconsapevolmente una stagione che avrà la sua legittimazione circa dieci anni dopo. In realtà la produzione letteraria italiana presentava già negli anni Trenta alcune opere – certo nettamente minoritarie rispetto al panorama generale, improntato invece ai già ricordati prevalenti gusti formalisti e agli orientamenti proposti/imposti dal regime – che possono intendersi come anticipatrici del neorealismo. E se Cola o il ritratto dell’italiano (1927) del verghiano Mario Puccini inaugurava il

filone del romanzo sulla Grande guerra non inquinato dalla retorica epicizzante, ma attento alla minuta quotidianità di soldati non necessariamente eroici, e se Gente in Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro poteva essere letto, anche per lo sfondo ambientale e per le problematiche meridionaliste affrontate, come la testimonianza più avanzata del recupero verghiano, il romanzo Tre operai (1934) di Carlo Bernari – che pure aveva avuto un precedente tematico in La ragazza di fabbrica (1931) di Armando Meoni – può legittimamente essere considerato come l’incunabolo del neorealismo; questa categoria infatti fu richiamata in più occasioni dai recensori del libro, colpiti sia da una rappresentazione oggettiva della vita di fabbrica fino ad allora pressoché assente anche dalla nostra narrativa populista, sia dal quadro d’ambiente napoletano lontano dai più diffusi stereotipi di colore affondati nella tradizione dei pur lodevoli Mastriani (I misteri di Napoli del 1875) e Serao (Il ventre di Napoli del 1884). Quando molti anni più tardi, nel 1965, Bernari ricorderà i modelli che gli avevano suggerito il taglio narrativo per quel suo primo libro, se non esiterà a respingere alcuni richiami (ad esempio a Céline, Döblin e Dos Passos) avanzati da critici piuttosto fantasiosi, sottolineerà invece l’importanza del clima culturale di allora, nel quale l’influenza della pittura di Sironi si associava alle suggestioni del cinema realista russo di Eisenstein, tedesco di Murnau, nordico di Dreyer e americano di Vidor. Dunque, oltre e più dei modelli della letteratura contemporanea tedesca, l’opera di Bernari aveva risentito, facendosene interprete, di un più generale clima culturale e di una diffusa esigenza di adesione alla realtà minuta e spesso misera della quotidianità operaia, che evidentemente sopravviveva all’impegno di regime, sempre più solerte e meglio organizzato (di lì a poco, nel 1935, nascerà infatti il Ministero della stampa e propaganda per potenziare il precedente analogo Sottosegretariato), di rappresentare un’immagine tutta in positivo del nostro paese, che per essere tale doveva ignorare, dietro il facile trionfalismo dei gesti populisti mussoliniani, proprio la vita reale e i gravi e insoluti problemi dell’Italia di allora.

Il cinema italiano negli anni del fascismo Il tema operaio trattato da Bernari nel suo libro uscito nel 1934 e poi ripreso in parte nel 1935 da Romano Bilenchi nel romanzo Il capofabbrica, era però nell’aria anche in altri settori della nostra attività artistica: nel 1933 infatti era stato prodotto in Italia un film, intitolato Acciaio, che raccontava la storia – assai simile a quella del romanzo di Bernari – di due operai delle acciaierie di Terni innamorati di una stessa ragazza. Ne era stato regista il tedesco Walter Ruttmann, chiamato in Italia proprio per superare il diffuso provincialismo nazionalistico del nostro cinema da Emilio Cecchi, allora responsabile dell’impresa cinematografica Cines e al quale si deve l’avvio di una più stretta e regolare collaborazione tra cineasti e scrittori. La sceneggiatura di Acciaio (alla cui lavorazione collaborò anche un giovane Mario Soldati all’esordio nel mondo del cinema) era tratta dal soggetto originale Giuoca, Pietro! commissionato a Luigi Pirandello, che lo aveva scritto (nel 1932) convinto di aver posto le basi per il rinnovamento del nostro cinema poiché esso prevedeva che le macchine, le maestranze e il clima dell’industria non si dovessero rappresentare «secondo l’uso corrente, per dar cornice, colore, movimento esteriore al dramma», ma dovessero giocare «nella rappresentazione né più né meno che come personaggi di primo piano».4 Acciaio, film comunque non eccezionale, aveva tuttavia dimostrato che, mentre prevaleva un cinema di regime programmaticamente alieno dalla rappresentazione della realtà e contrario alla presenza di operai e delle classi subalterne nel ruolo di protagonisti, tra patetici melodrammi come La cieca di Sorrento (1934) di Nunzio Malasomma e commediole borghesi come Mille lire al mese (1939) di Massimiliano Neufeld, tra rievocazioni in costume come Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone e vere e proprie esaltazioni del fascismo come Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, altri tentavano diverse strade, come quella del formalismo a indirizzo realistico di Acciaio. Di lì a poco però, per evitare pericolosi sviamenti dall’ortodossia fascista e anche ispirato dalla convinzione di

Mussolini secondo la quale la cinematografia era la più straordinaria arma di propaganda, il regime istituì la Direzione generale per la cinematografia (1935) e poco più tardi inaugurò Cinecittà (1937), avviando così un organico processo di controllo e di omologazione volto a ridurre il cinema a strumento di consenso e di più o meno occulta propaganda, e non solo interna. Infatti Lucio D’Ambra, drammaturgo dannunziano di successo e nominato nel 1937 accademico d’Italia, per motivare il sempre più frequente ricorso ai soggetti storici e in costume, sottolineava nel 1938 la necessità che la cinematografia evitasse di rappresentare e «divulgare all’estero passioni o concezioni direttamente politiche e nazionali», ma piuttosto, celebrando gli eroi e i geni nazionali, sapesse «accrescere sempre di più il prestigio italiano nel mondo e ricordare sempre agli stranieri la grandezza dell’anima italiana nei secoli passati, presenti e futuri».5

Verso la rappresentazione della realtà Come dunque il cinema italiano negli anni Trenta ondeggiava soprattutto tra telefoni bianchi e tuniche romane,6 così gran parte dei contemporanei scrittori italiani si proponeva analoghi intenti consolatori e propagandistici, alquanto lontani da un effettivo rapporto con la realtà e con i problemi concreti del paese. E se pure non mancò chi si rese conto per tempo della mistificazione di regime che stava investendo le arti, una più ampia presa di coscienza in tal senso si ebbe in seguito a due importanti eventi politico-militari internazionali, la guerra d’Etiopia del 1935-36 e la guerra di Spagna del 1936-39, che aprirono gli occhi sull’effettivo volto del fascismo a intellettuali e artisti fino ad allora fiduciosi di poter almeno allentare, se non spezzare, dall’interno i vincoli del regime, come quel gruppo di scrittori (Vittorini, Pratolini, Bilenchi tra gli altri) che attorno al «Bargello», giornale fiorentino della Gioventù fascista, aveva dato vita al «fascismo di sinistra» in contrasto con le posizioni ufficiali dei dirigenti; «ma la

contraddizione fu per lunghi anni sopportata dal regime come un elemento del sistema».7 Neppure la maggiore consapevolezza dei problemi di fondo della realtà politica e sociale italiana, acquisita soprattutto attraverso le citate vicende militari internazionali dei secondi anni Trenta, determinò però tra i nostri scrittori una più attenta inclinazione a rappresentare la minuta e spesso ostile realtà quotidiana. Non è difficile del resto collegare questo orientamento anche con il clima ermetico della Firenze degli anni Trenta, clima che, con opere in versi programmaticamente aliene dalla rappresentazione percepibile della realtà, per i poeti costituiva una via di fuga dal fascismo senza per questo assumere un diretto impegno di denuncia nei suoi confronti. Analogo era l’atteggiamento dei narratori italiani di allora attivi sul versante surreale, contagiati da modelli prevalentemente europei estranei alla tradizione italiana e semmai alla ricerca di simbologie che adombrassero la realtà, come nei racconti solo apparentemente svagati di Enrico Morovich di Miracoli quotidiani (1938) o come nell’angosciante attesa dell’arrivo d’improbabili nemici senza volto del Deserto dei tartari (1940) di Dino Buzzati: due scrittori di qualità (e per questo di limitato successo di pubblico) che, per ragioni differenti, rappresentavano l’antitesi di quello che di lì a poco sarà il neorealismo. Pur moltiplicandosi allora (soprattutto a partire dal 1938) le traduzioni di testi narrativi nord-americani che avrebbero dato vita al cosiddetto «mito americano», erano piuttosto rari gli scrittori italiani – ma pure ci avrebbero provato con interessanti risultati Cesare Pavese nel racconto contadino Paesi tuoi (1941) e Vasco Pratolini nel romanzo popolare Via de’ magazzini (1942) – che si proponevano di raccontare la più aspra realtà del presente con la forza graffiante di un Faulkner, di uno Steinbeck o di un Caldwell, autori apprezzati soprattutto per la loro formazione antiletteraria nata dal diretto rapporto con le cose e con gli uomini. E se appunto Vittorini, nella prefazione alla traduzione di Piccolo campo (1940), attribuiva l’importanza di Caldwell al fatto che egli «fece il bracciante agricolo nelle piantagioni e l’operaio nelle fabbriche, fece anche il cuoco in un ristoratore delle ferrovie,

fece il portiere professionista per una squadra di calcio. Poi incominciò a scrivere libri», per Pavese invece l’importanza di Melville, dichiarata nell’introduzione alla sua versione italiana di Benito Cereno (1940), derivava dal fatto che egli «ha vissuto prima le avventure reali, il primitivo, è stato barbaro prima e nel mondo del pensiero e della cultura è entrato in seguito portandovi la sanità e l’equilibrio acquistati nella vita vissuta». Queste prese di posizione indicavano dunque con chiarezza la necessità di ridefinire lo statuto del moderno scrittore, direttamente consapevole degli argomenti che intendeva raccontare e non più espressione di una casta intellettuale e aristocratica che, proprio perché portavoce di una ristretta cerchia abituata a una dimensione libresca della vita, gli negava in partenza di raggiungere un pubblico auspicabilmente ampio e consapevole. Nello stesso tempo veniva però respinta anche la figura dello scrittore di consumo facile a piegarsi alle più o meno occulte richieste di sostegno del potere bisognoso di consensi e si delineava così, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, una presa di distanza sempre più forte rispetto alle posizioni conformiste e ortodosse degli scrittori di successo degli anni del fascismo. Si moltiplicavano altresì i fenomeni di fronda, soprattutto sulle pagine di battagliere riviste come la milanese «Corrente» (1938-1940), favorevole a un’arte impegnata contro il predominio del formalismo, e come «Primato» (1939-1943), sorretta dal progetto del suo direttore Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, di accogliere la collaborazione degli intellettuali italiani di più diversa formazione e provenienza. Quando poi lo svolgimento infausto di una guerra rifiutata dalla maggioranza degli italiani imporrà dopo l’8 settembre del ’43 scelte di campo nette e precise in direzione antifascista, proprio l’impegno degli intellettuali, affidato ai fogli clandestini e talora agli stessi giornali della Guf (Gioventù universitaria fascista), favorì quella saldatura tra cultura e società auspicata da Gramsci e da Gobetti, poi avviata nella guerra di Spagna e più diffusamente realizzata al tempo della lotta di Liberazione secondo le indicazioni espresse da Giaime Pintor nella lettera al fratello

scritta il 28 novembre 1943, solo pochi giorni prima di morire mentre oltrepassava il fronte del Lazio per organizzare la Resistenza: «A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune».8

La spinta decisiva del cinema L’interesse diffuso in Italia sul finire degli anni Trenta per l’opera degli scrittori stranieri, e segnatamente nord-americani, che ribaltavano l’immagine tradizionale dello scrittore italiano, ebbe un fenomeno pressoché parallelo nell’attenzione crescente con la quale si cominciò a guardare al cinema straniero, da quello francese del realismo impressionista di Jean Renoir (con il suo capolavoro pacifista La grande illusione del 1937) e del realismo poetico di Marcel Carné (con Il porto delle nebbie del 1938 e Alba tragica del 1939) e di Julien Duvivier (con La bella brigata del 1938), a quello americano, destinato però a sparire dalle nostre sale allo scoppio della guerra per ovvie ragioni politiche: non tanto al cinema avventuroso alla Errol Flynn, né a quello leggero e sognante dei film musicali con Fred Astaire, ma piuttosto a quello più drammatico e calato nel vivo dei problemi sociali del naturalizzato statunitense Fritz Lang (Furia del 1936), di George Cukor (Donne del 1939) e di John Ford, che si era ispirato al romanzo Furore di Steinbeck (1939). Con più sollecitudine dei modelli letterari, il cinema straniero di impronta realistica determinò ben presto una spinta consistente in questa direzione tra i nostri registi meno assoggettati al cinema di regime e che già nei primi anni Trenta avevano rivelato una netta predisposizione a indagare la minuta realtà italiana: a questo proposito era stata esemplare, per gusto della cronaca e ambientazione in sfondi ben riconoscibili, l’opera, tutta in difesa dei poveri e dei proletari, anche se animata da diffuso candore e dall’assenza di polemica sociale, di Mario Camerini, da Gli uomini, che

mascalzoni (1932) a Una storia d’amore (1942), dove ancora una volta il protagonista della drammatica vicenda era un operaio (ed era una prostituta la protagonista). Ma altri cineasti in questi anni stavano orientandosi sempre più verso un cinema che, pur senza essere drammatico, era tuttavia segnato dal gusto della cronaca e della minuta precisazione degli ambienti popolari, resa ancor più evidente anche dal ricorso al dialetto come accadeva soprattutto nei bonari film di ambientazione romana interpretati da Aldo Fabrizi – Avanti c’è posto (1942), L’ultima carrozzella e Campo de’ Fiori (1943) – che certo contribuirono ad aprire la strada al neorealismo e alla presenza poi e tutt’ora diffusissima del romanesco come lingua ufficiale di gran parte del cinema italiano attraverso le interpretazioni degli Alberto Sordi e dei Carlo Verdone. L’angolazione realistica ritornava nei primi anni Quaranta per lo più in pellicole dall’andamento drammatico imperniate su conflitti personali e sociali, come nel caso del fondamentale Ossessione (1943), film d’esordio di Luchino Visconti che, affidandola all’interpretazione di due tra i più famosi attori italiani del momento (Clara Calamai e Massimo Girotti), trasferiva la tragica vicenda erotica del romanzo di James Cain Il postino suona sempre due volte nella realtà della «bassa» ferrarese, laddove l’utilizzazione degli scenari aperti e naturali corrispondeva al rifiuto delle storie meno credibili girate negli ambienti chiusi e posticci dei teatri di posa; e proprio questo film, come già Treno popolare (1933) di Raffaele Matarazzo e Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini e, per ragioni diverse, I bambini ci guardano (1944) di Vittorio De Sica, aveva segnato l’avvio di quell’epoca nuova del nostro cinema che sarà il neorealismo. Uno stimolo teorico determinante in questa direzione era stato dato dal circostanziato articolo programmatico Verità e poesia: Verga e il cinema italiano di Mario Alicata e Giuseppe De Santis uscito il 10 ottobre 1941 sulla rivista «Cinema» (fondata e diretta dal figlio del duce, Vittorio, a ribadire l’interesse della famiglia Mussolini per la cinematografia). Oltre a sottolineare il ruolo centrale dello scrittore siciliano nella rappresentazione della realtà (come già era stato

sostenuto da alcuni sin dagli anni Venti), l’articolo, sorretto dalla convinzione che «il riconoscimento dell’unità delle arti è stata la più semplice ma insieme la più alta conquista della coscienza artistica moderna», auspicava una felice simbiosi tra la letteratura sviluppatasi sul filone dei Flaubert, Zola e appunto Verga e il cinema del realismo sovietico e dei registi francesi degli anni Trenta, per poter così fare piazza pulita della retorica e delle falsità e allo stesso tempo per documentare finalmente i problemi più attuali e più veri del paese. E per realizzare questo obiettivo si sosteneva la necessità di «portare la macchina da presa nelle strade, nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese» per riuscire a realizzare il «nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa». Da questo articolo, autentico manifesto per il cinema italiano di impegno civile, si può dunque legittimamente affermare che ebbe inizio il neorealismo, inteso, sulla base di uno stretto rapporto costruttivo tra cinema e letteratura (e talora anche arti figurative), come consapevole partecipazione degli artisti al rinnovamento della società italiana sconvolta da una guerra tremenda, anche perché combattuta non solo contro nemici stranieri. 1 G. Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, Milano, Principato, 1974, p. 1. 2 M. Bontempelli, Superbia, «900», 6 (1928), pp. 1-2. 3 M. Giocondi, Lettori in camicia nera. Narrativa di successo nell’Italia fascista, Messina-Firenze, D’Anna, 1978, pp. 11-23. 4 E. Roma, Pirandello e il cinema, «Comoedia», lug.-ago. 1932. 5 Cit. in F. Savio, Ma l’amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Milano, Sonzogno, 1975, p. IX. 6 Su questo argomento cfr. il fondamentale e informatissimo M. Salotti, Al cinema con Mussolini. Film e Regime 1929-1939, Recco-Genova, Le Mani, 2011. 7 A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà & Savelli, 1965, p. 104. 8 G. Pintor, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino, Einaudi, 1978, p. 200.

NASCITA E SVILUPPO DEL NEOREALISMO

Una svolta nel cinema italiano: Roma città aperta Quando ancora la guerra era in corso, il cinema italiano aveva dunque già imboccato la strada del neorealismo additata dal manifesto di Alicata e De Santis e poi percorsa con grande impegno nell’immediato dopoguerra, sulla spinta di un intento comune diffusosi tra i cineasti in modo essenzialmente spontaneo e privo di una precisa elaborazione teorica. Comune era l’obiettivo di aiutare l’Italia a guarire le vecchie ingiustizie e a svilupparsi con il ricorso alla macchina da presa e all’eloquenza del linguaggio filmico; e tale obiettivo venne perseguito in modi congiunti e paralleli da registi di diversa formazione e di differente orientamento ideologico, come a trasferire nel campo dell’arte la stessa concorde pluralità di indirizzi politici già propria della lotta antifascista condotta dall’8 settembre 1945 alla Liberazione dal CLN. Era avvertita, insomma, l’esigenza comune di affrontare, in chiave di verità finalmente riconquistata, la nostra realtà più viva e scottante, senza per questo omologare e uniformare l’approccio e la risoluzione dei temi ricorrenti; ed era ferma la convinzione, espressa da Alberto Lattuada già nel marzo del 1945 nel corso della prima riunione dell’Associazione culturale del cinema italiano, che «nulla è in grado di rivelare come il cinema i fondamenti di una nazione». All’inizio di ottobre del 1945, quando il pubblico cominciava a riscoprire la suggestione delle sale cinematografiche, dove prevalentemente si proiettavano pellicole «leggere» americane, tanto più gradite dopo il contatto diretto con quella civiltà stabilito in Italia negli ultimi mesi di guerra, apparve il primo film che rappresentava il neorealismo: Roma città aperta. Il titolo, oltre a richiamarsi alla definizione di «città aperta» propria del Diritto bellico internazionale, secondo il quale una città di grande valore storico e artistico per accordi tra le forze belligeranti non dovrebbe essere teatro di combattimenti,9 già in sé sottolineava la novità delle scene girate appunto all’aperto, nelle strade devastate dai bombardamenti e non più nel chiuso degli studi, con una scelta suggerita sia dall’impegno a dare un quadro di assoluta veridicità, sia dalla necessità di ridurre i costi di produzione, evitando il ricorso agli onerosi teatri di posa. Regista del film era Roberto Rossellini e protagonisti due tra i più popolari attori del momento, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, mentre molti degli altri personaggi erano stati scelti tra la gente della strada o dell’avanspettacolo. Entrato in lavorazione a fine estate del 1944, solo due mesi dopo l’ingresso degli alleati nella capitale, proprio per rappresentare il clima drammatico dell’occupazione nazista culminata nell’eccidio delle Fosse Ardeatine10 nella convinzione che «il ricorso alla cronaca determina un immediato bagno di verità e di vita, un bagno che spesso basta da solo a fare (o quanto meno a ispirare) poesia»,11 il film aveva per protagonisti, opportunamente scelti per sintetizzare le due maggiori componenti ideologiche della Resistenza, un prete (don Pietro) e un ingegnere comunista (Giorgio Manfredi). Attorno a loro, la gente comune viveva il suo spontaneo antifascismo sostenuta da una fede assoluta nel futuro, come risultava dalle parole di uno dei personaggi, il tipografo Francesco: «Finirà. Bisogna crederlo, bisogna volerlo. […] Forse la strada sarà lunga e difficile ma arriveremo e lo vedremo un mondo migliore! E soprattutto lo vedranno i nostri figli!». Questo fiducioso senso di un’attesa destinata a tempi lunghi, essendo stati tanto grandi i guasti prodotti dalla guerra, veniva confermato dalla scena finale del film quando, dopo la fucilazione di don Pietro nell’estate del 1944, un gruppo di ragazzini si incammina dalla periferia verso la città, quasi a impossessarsene finalmente dopo che la barbarie della guerra aveva voluto riscuotere il suo ultimo tributo.

La guerra e le speranze nel neorealismo cinematografico Il successo, sia pure ritardato, toccato in Italia a Roma città aperta, vincitore nel maggio 1946 di un premio al festival di Cannes e poi proiettato con vivo interesse negli Stati Uniti, influenzò in modo decisivo la produzione cinematografica italiana, sensibile alla possibilità di conquistare anche i mercati esteri. Così torneranno regolarmente anche nei migliori film di allora alcuni elementi tematici e stilistici messi a fuoco nel fortunato film di Rossellini e tra questi, soprattutto, la forte

componente popolare; era infatti il popolo, riconoscibile anche per la sua parlata quasi provocatoriamente dialettale, il protagonista di Paisà, il successivo film di Rossellini uscito nel 1946, che sullo scenario costante di macerie e distruzione proponeva una fotografia articolata in sei episodi della partecipazione collettiva a quella tragica realtà italiana. Infine la trilogia rosselliniana, seguita peraltro da un successo di pubblico decrescente, si completerà nel 1947 con Germania anno zero, centrato sul tema della ricostruzione in un dopoguerra carico di problemi tanto più gravi perché dal conflitto l’uomo era uscito distrutto, come il protagonista Edmund che, a simboleggiare l’impossibilità del riscatto tedesco, si suicidava. Con queste tre opere di Rossellini erano stati indicati i due nuclei principali della produzione cinematografica neorealista: la lotta antifascista, necessaria per riconquistare la libertà, e il difficile dopoguerra, premessa per evitare il ripetersi dei mali del fascismo e per stabilire una nuova e più giusta società, ma anche segnato dalle difficoltà di reinserimento dei reduci nella società civile, tema affrontato con efficacia da Il bandito (1946) di Alberto Lattuada. Il cinema neorealista, ricorrendo a un linguaggio di presa immediata prevalentemente parlato, spesso dialettale e con talune concessioni al turpiloquio e ai termini stranieri, soprattutto anglo-americani, ormai entrati nell’uso, rappresentava così i problemi e le aspirazioni degli spettatori, contribuendo «ad avviare masse di italiani alla formazione di una nuova identità nazionale, all’identificazione dei problemi e della realtà dello schermo e di quelli operanti nel suo spazio mentale».12 Naturalmente, per ottenere questo forte impatto, il cinema neorealista doveva individuare un modo diretto di rapportarsi con le persone e con le cose; ed ecco allora che, scelti nelle strade dei quartieri popolari delle città e della periferia gli scenari ricorrenti, «il tempo e lo spazio si rimisurano a partire dai gesti dei bambini, delle donne, dei reduci, degli impiegati, dei contadini. Si tratta di un tempo povero di passato e ricco di futuro» (p. 25), che naturalmente capovolgeva gli schemi non solo del cinema eroico e nazionalistico, ma rendeva protagoniste proprio quelle classi sociali subalterne formate da operai, tranvieri, prostitute, pescatori, camionisti, contadini e reduci, fino ad allora assenti o ridotti a semplici comparse. Della presenza decisiva soprattutto dei bambini si giovava in particolare Vittorio De Sica che, con la collaborazione di Cesare Zavattini come sceneggiatore, aveva dato vita a uno dei più prolifici sodalizi tra le arti, come apparve in Sciuscià, uscito il 27 aprile 1946 a un anno dalla Liberazione, e poi in Ladri di biciclette (1948), che, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini uscito nel 1946, sarà il film più popolare della prima fase del neorealismo. In queste opere, ambientate l’una a Napoli e l’altra a Roma, De Sica affrontava rispettivamente i temi dell’infanzia abbandonata e della disoccupazione operaia, rappresentandoli con stile asciutto e rigoroso e insistendo sulla sincerità dei personaggi ottenuta anche grazie ad attori presi dalla strada come Lamberto Maggiorani, l’operaio interprete di Ladri di biciclette. In particolare questo film sottolineava il dramma di un tempo, il dopoguerra, che imponeva ai più giovani di diventare subito adulti ed escludeva la gradualità del crescere e del formarsi e che tuttavia alla fine rendeva i giovani più temprati degli adulti, tanto da divenire la loro guida verso una nuova vita: questo suggeriva il finale di Ladri di biciclette, dove al termine di una giornata trascorsa alla ricerca della bicicletta, il piccolo Bruno, interpretato da Enzo Staiola, prendeva per mano il padre in lacrime e lo incoraggiava. Così De Sica aveva rappresentato in modo diretto e inquietante non solo le difficoltà del presente, ma anche le premesse per irrisolti problemi del futuro, riguardanti soprattutto quel Mezzogiorno che cominciava a costituire una complessa variante, in seguito sempre più spesso affrontata, talora però in chiave parodistica, del tema più generale della volontà di riscatto da una secolare sopraffazione. In questo senso un ruolo di straordinario battistrada era stato svolto dal secondo capolavoro di Luchino Visconti, La terra trema (1948), libera rielaborazione dei Malavoglia; girato in Sicilia e interpretato da pescatori che parlavano in dialetto, il film realizzava quella proficua simbiosi tra cinema e letteratura, con Verga come centrale punto di riferimento, già auspicata da Alicata e De Santis. Oltre a ciò La terra trema risultava didatticamente importante proprio per individuare la differenza sostanziale tra il verismo e il neorealismo; se infatti nelle due opere era pressoché comune la minuta e diretta, talora quasi scientifica, rappresentazione della realtà, nel romanzo verghiano essa tendeva a raccontare la storia di una famiglia che, protesa verso il salto sociale ed economico, poi accoglieva fatalisticamente il proprio destino di sconfitta, mentre dalla pellicola di Visconti emergeva la volontà dei suoi personaggi di ribellarsi agli eventi e di comprenderli, e dunque di cambiare e migliorare la condizione propria e di chi verrà dopo di loro, proponendo così quella fiducia nel mutamento della società che, anche se diluito in tempi lunghi, era già stato tracciato dall’epilogo di Roma città aperta.

Del resto il cinema neorealista, che pure non mancava di proporre una discreta varietà di temi, proprio nel costante sentimento della fiducia e della rinascita civile, presentava il suo denominatore comune. Così accadeva infatti, come suggerivano gli ottimistici titoli, in La vita ricomincia (1945) di Mario Mattoli, adattamento sullo sfondo del dopoguerra di un fortunato genere melodrammatico; in Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, che sottolineava la necessità di non allentare nel dopoguerra la tensione civile dei giorni della Resistenza; nella tragicommedia di Luigi Zampa Vivere in pace (1946) e nel più onirico Molti sogni per le strade (1948) di Mario Camerini, mentre in Un giorno nella vita (1946) Alessandro Blasetti si soffermava sulla ricerca di una nuova identità da parte dell’italiano medio. Già protagonista centrale del dibattito sul nuovo cinema come parte vitale di una nuova società sin dai primi anni Quaranta, Giuseppe De Santis esordiva come regista nel 1947 con Caccia tragica, interpretazione epica e sanguigna della lotta di classe dei contadini della bassa padana contro i grandi proprietari terrieri in un film sensibile tanto ai modelli del cinema sovietico quanto a quelli della letteratura americana, sapendo tuttavia mantenere un’impronta vivissima di forte e immediata comunicazione. Altro elemento interessante del film di De Santis era la sensibilità a recepire, sotto l’aspetto visivo, gli esiti più interessanti del lavoro pittorico del suo compaesano ciociaro Domenico Purificato e di Renato Guttuso i quali, proprio allora, cercavano di portare sulle tele le stesse aspirazioni dei cineasti e degli scrittori del neorealismo, ritraendo il popolo nelle sue prerogative di classe sana, lavoratrice e seria, colta nei momenti del lavoro, come appunto si vedrà in Zolfatari (1949) di Guttuso e nell’Occupazione delle terre (1950) di Giuseppe Zigaina. La massiccia produzione cinematografica italiana dei primi anni del dopoguerra, ispirata da un impegno civile generoso e sostanzialmente spontaneo, finì tuttavia per scontrarsi con la progressiva indifferenza degli spettatori; infatti dopo il successo, certo favorito anche da ragioni emotive, toccato a Roma città aperta e poi a Sciuscià e Ladri di biciclette, gli altri film neorealisti anche di non minore qualità registrarono incassi sempre più modesti, sia per un generale allentamento della tensione civile, sia per i buoni risultati raggiunti dalla riscossa del cinema hollywoodiano. In questo quadro si dovrà anche ricordare l’atteggiamento governativo genericamente avverso al cinema neorealista, accusato in più occasioni da Giulio Andreotti, allora Sottosegretario al Turismo e allo Spettacolo, di diffondere all’estero un’immagine negativa dell’Italia nella convinzione che invece «i panni sporchi era meglio lavarli in famiglia», riprendendo così l’orientamento espresso dal fascismo durante il Ventennio. Proprio per riconquistare il mercato senza però tradire gli ideali civili che ispiravano il loro lavoro, dal 1947 alcuni cineasti italiani cercarono di rinnovarsi sostituendo alla spontaneità degli attori non professionisti e all’essenzialità degli scenari delle strade il ricorso ad ambienti più costruiti nei quali si muovevano attori e attrici di buona popolarità e in grado di non sfigurare davanti al sistema di seducenti star importate dal cinema americano. Ciò nondimeno sarà proprio questo secondo tempo del cinema neorealista, che tornerà ad affrontare il tema resistenziale in alcuni film di buona qualità e soprattutto in Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, «l’unico dove il peso della presenza operaia si poneva come decisivo e si prospettava come peso egemone sia durante la Resistenza che dopo»,13 a favorire una più ampia riflessione sulla Resistenza e sui progetti nati dalla Liberazione quando già, a pochi anni dal 25 aprile 1945, si assisteva a un diffuso e neppure troppo sotterraneo ritorno ai metodi e agli uomini del fascismo.

Tra documenti e creatività Una delle qualità fondamentali del cinema neorealista era stata la rappresentazione diretta degli eventi cui aveva dato un contributo decisivo l’esperienza dei documentari girati durante la guerra, come nel caso esemplare di La nave bianca (1941) dell’allora semisconosciuto Roberto Rossellini. Numerose furono le pellicole girate subito dopo la guerra utilizzando spezzoni di documentari, come Giorni di gloria, montato nell’autunno del 1945 da Mario Serandrei; e del resto la componente documentaria era presente e quasi ostentata anche in veri e propri film, come in Paisà dove le iniziali immagini notturne di pattuglie alleate che penetravano in territorio italiano, commentate dalla voce anonima di uno speaker, apparivano come spezzoni di un cinegiornale sulla guerra, con il consueto, tragico sfondo di macerie, spari e incendi.

Se la produzione cinematografica documentaria nel dopoguerra fu dunque un fenomeno rilevante e tale da rappresentare anche un modello convincente per i cineasti che si cimentavano nel lungometraggio, un fenomeno analogo si ebbe pure in ambito letterario con una copiosa produzione di diari, memoriali, testimonianze e ricostruzioni, espressioni spontanee, più o meno attendibili, degli stessi protagonisti della lotta. Quasi sempre questi testi erano la trasposizione scritta, non di rado ingenua e retorica, dei racconti orali sulla Resistenza; la loro pubblicazione, per lo più affidata a tipografie locali che così incrementavano notevolmente l’attività (nella sola provincia di Cuneo ne sorsero ben sette nei primi mesi dopo la Liberazione),14 nasceva dall’esigenza di dare una testimonianza non effimera degli episodi ai quali gli autori avevano partecipato, soprattutto quelli controversi e misteriosi; e quanto questi fossero numerosi anche per chi li aveva vissuti lo dimostrerà in modo esemplare il libro di Nuto Revelli, Il disperso di Marburg, uscito nel 1994. Questa prima fervente fase di spinta alla testimonianza scritta si protrasse sin verso la fine del 1945 quando, dopo la caduta del governo Parri nato dal CLN come espressione concorde delle diverse forze politiche antifasciste, prese il potere una coalizione guidata dal democristiano Alcide De Gasperi e sostenuta dalle due maggiori forze attive nel paese, il Vaticano e gli Stati Uniti, interessate a tagliar fuori dal governo i comunisti e a favorire un’ambigua restaurazione. Questo progetto naturalmente si scontrava con le speranze di quanti si aspettavano dal dopoguerra un energico cambio di rotta, tanto che tra i combattenti che avevano partecipato alla lotta di liberazione si diffuse il timore di una «Resistenza tradita». E se le pagine dei vari Giannini, Longanesi e Guareschi si facevano portavoce di questa nuova Italia aperta al compromesso e a un pericoloso agnosticismo politico, altre pagine venivano scritte, soprattutto tra il 1946 e il 1948, ancora nel solco della prima memorialistica resistenziale, ma ormai non più limitate a una funzione testimoniale, bensì intese come stimolo a non dimenticare. Davanti al non troppo occulto tentativo delle forze politiche moderate di ridimensionare il significato della lotta di liberazione, l’unica arma disponibile, per chi ancora considerava il risoluto antifascismo condizione essenziale per fondare una nuova Italia, era l’impegno intellettuale: quello più strutturato e dalla presa più immediata e più larga del cinema e quello più ingenuo e parcellizzato della memorialistica scritta, tanto più importante allora perché, come sottolineava Luciano Bolis nell’introduzione a Il mio granello di sabbia (1946), è «dovere dei sopravvissuti il fare la storia dei propri “granelli di sabbia” perché anche chi non abbia fatto parte di quella moltitudine, sappia che cumulo di valori è costata questa nostra Liberazione e che cosa ci sia dietro al nome ancora oggi frainteso, disprezzato o rigettato con vacua sufficienza, di “partigiano”».15 Questo massiccio impegno alla scrittura, non sorretto come quello cinematografico da alcuna elaborazione teorica codificata – anche se non mancavano i tentativi di riflessione e di analisi sulla guerra e sui problemi da essa portati sulle riviste che, come «Il Ponte», «Il Politecnico», «Società» e «Belfagor», allora nascevano numerose –, determinò un notevole incremento nella produzione libraria: mentre infatti nel 1944 erano stati stampati in Italia circa 2.266 volumi, nel 1945 si giunse a quota 4.546 e nel 1946 a 6.516 titoli.16 E se la curiosità per le vicende della guerra appena conclusa aveva sollecitato un ampio interesse per la saggistica storico-politica, anche per quella straniera e in genere per quella fino ad allora boicottata dal fascismo, era pur sempre il campo letterario però ad assorbire con il 32% dei libri venduti il maggior consumo librario, con la sola narrativa attestata intorno al 21% (p. 23). Di fatto la distinzione per generi letterari era allora piuttosto elastica, tanto che spesso nella narrativa si includevano opere dall’andamento documentario e memorialistico, mentre al contrario nella saggistica rientravano testi che andavano al di là della ricerca e dell’esposizione e interpretazione di fatti e di idee; il primo libro di grande successo del dopoguerra, Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi, pur affrontando il tema del sottosviluppo meridionale proprio della narrativa neorealistica con un taglio tra il racconto, il pamphlet di denuncia e il diario poetico, uscì nella collana di saggistica di Einaudi.

Tipologia del racconto resistenziale In questo contesto di ridefinizione dei generi letterari, nell’immediato dopoguerra proliferarono dunque i testi suggeriti dalle vicende politiche e militari appena concluse, per molti aspetti vicini ai racconti-resoconti disseminati sulle pagine dei fogli clandestini tra il 1943 e il 1945. Questi avevano indicato un percorso pressoché obbligato agli scrittori che nel dopoguerra avrebbero inteso

raccontare la Resistenza e ciò che da essa stava nascendo. E poiché la stampa clandestina aveva svolto necessariamente compiti propagandistici volti a sollecitare il sacrificio nel presente in vista del raggiungimento di un futuro migliore, all’interno di una schematica contrapposizione tra buoni (i partigiani) e cattivi (i nazifascisti), fu quasi inevitabile l’insistenza su un corrispondente tono celebrativo nella prima produzione letteraria di argomento resistenziale: sia che questa, come accadde nella maggior parte dei casi, fosse orientata al versante oggettivamente documentario (o a tale versante ostentasse di orientarsi), sia che invece fosse sostenuta da intenti più decisamente narrativi. In entrambi i casi era comune l’impegno proprio della stagione neorealista ad attenersi alla verità dei fatti e a prenderne slancio per partecipare al rinnovamento della società. Come nel cinema e più che nel cinema, gli scrittori del neorealismo affrontarono soprattutto il tema della lotta partigiana, propendendo per una matrice non letteraria e un rifiuto degli schemi tradizionali e codificati soprattutto nel romanzo, tanto che spesso sia nella memorialistica, sia nei veri e propri racconti, gli autori si preoccupavano di mimetizzare la loro presenza e assicuravano al lettore che le pagine che egli stava per leggere erano una diretta riproduzione della realtà e non appartenevano al mondo dell’invenzione letteraria, evidentemente considerata fatua in tempi di forte e diretto impegno politico: «Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. È un documentario storico, nel senso che personaggi, fatti ed emozioni sono effettivamente stati», scriveva Pietro Chiodi nella nota al suo diario partigiano Banditi (1946). La stessa presa di distanze ritornava anche in opere di carattere più apertamente narrativo, tanto che nel 1947 Pratolini intitolava Cronaca familiare un suo lungo racconto, precisando che il libro non era un’opera di fantasia,17 così come in avvio del racconto Io povero soldato, uscito il 15 gennaio 1946 sull’«Unità» di Milano, Marcello Venturi affermava: «Questo non è un racconto e neanche una poesia americana. È una semplice esposizione di fatti». Proprio questa volontà di sottrarsi a una prosa strutturata e che potesse apparire una mistificazione della realtà, determinò nel primo dopoguerra una copiosa produzione di racconti, conseguente sia alla maggiore facilità di collocazione sulle terze pagine dei giornali, sia alla diffidenza dei lettori nei confronti del romanzo comunemente inteso come espressione letteraria tradizionale, sia infine all’intento di assimilare ogni testo anche creativo all’autenticità dei documenti. All’interno di questa produzione, il racconto partigiano, sebbene non fosse stato in alcun modo codificato e presentasse una discreta varietà di ambientazioni in rapporto alla provenienza diversificata dei suoi autori, assunse caratteristiche costanti che ruotavano intorno all’obiettivo principale di «garantire sempre la credibilità del movimento partigiano nel suo insieme» (G. Falaschi, op. cit., p. 61), attraverso le molteplici variabili riconducibili ai due più ricorrenti episodi: l’imboscata tesa dai patrioti, esempio del coraggio dei più deboli, e la rappresaglia nazifascista, esempio della provvisoria vittoria militare delle preponderanti forze nemiche, ma al tempo stesso banco di prova della forza morale dei partigiani. Mentre il cinema di argomento resistenziale, sin da Roma città aperta, aveva cercato di sottrarsi ai toni celebrativi e di attribuire credibilità ai suoi personaggi, ciò accadde di rado nella narrativa; di questi racconti dai contorni obbligati infatti era invariabilmente protagonista un eroe (e molto più raramente un’eroina) positivo, portavoce ed espressione fiduciosa dello spirito della Resistenza e, per lo più, in questo non diversamente dal cinema, di origini popolari, manifestate soprattutto dal frequente ricorso al dialetto e comunque a un linguaggio medio-basso e rigorosamente non letterario. Ridotto dunque il margine della sua individualità, l’eroe del racconto partigiano viveva e agiva quasi sempre in subordine alle necessità del movimento e soffocava ogni spunto particolare, tanto da compiere un’eventuale «vendetta privata solo se risultava utile per la collettività» (p. 62); generoso e destinato a morte pressoché sicura, con il suo sacrificio attirava l’affetto e la riconoscenza sul movimento partigiano, aggiornando così l’impegno di propaganda già proprio dei racconti pubblicati alla macchia.

Un romanzo discusso: Uomini e no La proliferazione di tali e tanti racconti, raramente di buona qualità anche se suggeriti da un impegno generoso, fu indirettamente incoraggiata dalla sorte non del tutto favorevole toccata al primo romanzo sulla Resistenza pubblicato dopo la Liberazione, nel giugno del 1945: Uomini e no di Elio Vittorini che, scritto nel 1944 quando l’autore, già incarcerato a Milano dal 26 luglio all’8

settembre 1943 per la sua attività nella Resistenza, viveva nascosto presso Varese, si apriva con una nota programmatica che indicava l’obiettivo dell’autore e, in estrema sintesi, quello degli artisti del neorealismo: «Il dovere di prender parte alla rigenerazione della società italiana», nella consapevolezza dei «compiti sociali di chi scrive». Per conseguire questo scopo, Vittorini ritenne che un romanzo sulla Resistenza non dovesse limitarsi a raccontare in termini di cronaca la crudeltà degli eventi, ma anche dovesse riflettere su di essi, offrendone una visione propositiva. E così anche tipograficamente il romanzo si presentò scandito in due tempi che si alternavano: i capitoli stampati in carattere tondo raccontavano, con scrittura rapida ed essenziale e con numerosi dialoghi palesemente ripresi dai modelli americani, le imprese compiute a Milano nell’inverno 1943-44 dai Gap e in particolare da uno dei loro capi, l’intellettuale Enne 2 (il cui legame sentimentale con l’indecisa Berta aveva un ruolo centrale nelle vicende raccontate), mentre i successivi capitoli stampati in corsivo commentavano quelle vicende con accenti lirici che richiamavano le pagine di Conversazione in Sicilia. L’accoglienza dei lettori al libro di Vittorini non fu entusiastica, se da giugno a ottobre 1945 ne furono vendute 8.000 copie: forse molte per un paese appena uscito dalla guerra, ma in realtà poche trattandosi di un libro sull’argomento di maggiore attualità scritto dall’autore/intellettuale italiano allora più noto (ma anche piuttosto discusso per alcuni atteggiamenti ambigui, come «la partecipazione nella delegazione italiana al convegno di Weimar, organizzato dal 7 all’11 ottobre 1942 dal ministero della propaganda tedesco»18). Ma se Uomini e no non ebbe un grande successo di pubblico, favore nei suoi confronti non dimostrò neppure la critica, e neanche quella di sinistra, tanto che sull’edizione milanese dell’«Unità» il 12 settembre 1945 apparve una feroce stroncatura di Fabrizio Onofri, che definiva Uomini e no «il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio». Più avanti, per rincarare la dose, Onofri definiva Vittorini esponente di quella «vecchia cultura» che si esprimeva con il «linguaggio nato sui libri», richiamandosi così alle tesi espresse da Togliatti nell’articolo Et in Arcadia ego (apparso su «Rinascita» nel febbraio 1945), che intendevano negare la «libertà squisitamente individuale dell’artista creatore che può scrivere e stampare quel che vuole» e sostenevano la necessità di organizzare la cultura all’interno di una struttura solida e articolata. Occorre peraltro ricordare che sull’edizione genovese dello stesso giornale comunista, il 29 luglio 1945 era apparsa invece una recensione di Aldo Tortorella che, sin dal titolo In Vittorini è la nostra storia, suggeriva una valutazione del tutto positiva del romanzo e del suo autore.

I nuovi scrittori L’intervento fortemente critico nei confronti di Uomini e no scritto da Onofri, la cui intransigenza aveva spinto Togliatti a spedire il 7 ottobre 1945 una lettera di scuse a Vittorini per «quella disgraziatissima recensione», dimostrava comunque la diffusa esigenza di individuare una nuova immagine di scrittore, simile a quella degli americani fatti conoscere proprio da Vittorini e da Pavese. E di questa necessità, condizione indispensabile per dare spessore alla stagione letteraria del neorealismo, si renderà interprete Italo Calvino, nella sua prima recensione uscita sull’«Unità» del 12 maggio 1949, edizione di Torino, dedicata al romanzo Pane duro di Silvio Micheli, «non operaio, impiegato; un’esperienza meno “pittoresca” dunque. Ma sofferta fino al midollo, e nuova, in questa sua sofferenza, per la letteratura italiana, letteratura senza impiegati, letteratura senza operai, letteratura senza mestieri». In realtà però Pane duro, apprezzato con convinzione dalla critica di sinistra che gli attribuì il premio Viareggio 1946, presentava gli aspetti oggi meno convincenti del neorealismo: da un eccesso di elementi dialettali che approdavano a un linguaggio di maniera a un tono concitato e incontenibile, spesso pesantemente prolisso (il libro contava infatti ben 633 pagine). Erano limiti questi che soffocavano la pur lodevole intenzione di rappresentare, con quel piglio di consapevole realismo apprezzato da Calvino, le due attualissime figure centrali della narrativa di Micheli: il reduce dalla guerra e dai campi di concentramento e l’operaio delle fabbriche. Né qualità migliori caratterizzavano gli altri tre romanzi di narratori della prima generazione neorealista usciti nel 1946 presso Einaudi che per lo più «scrissero a caldo senza

eccessive preoccupazioni tecnico-formali»:19 Rotaia di Ezio Taddei, Rancore di Stefano Terra e Uno come gli altri di Amedeo Ugolini. Del resto, nonostante il parere diverso di Onofri, proprio Vittorini era tra i più convinti sostenitori della necessità che la nostra nuova letteratura uscisse dagli schemi stantii dell’intellettualismo avulso dall’impegno diretto sui problemi della società; questo orientamento emergeva da numerosi suoi interventi apparsi su «Il Politecnico», il settimanale culturale da lui fondato (settembre 1945) e diretto fino alla chiusura (dicembre 1947). Questo periodico (che all’inizio veniva stampato in 22.000 copie) era considerato il più diffuso portavoce dello slancio civile che accomunò molti italiani, e non solo intellettuali, usciti dalla guerra e animati dalla volontà di contribuire a rinnovare la società; ed era proprio questo infatti l’obiettivo principale del «Politecnico», dichiarato con evidenza nel titolo dell’editoriale (senza firma, ma indubbiamente scritto da Vittorini) del primo numero Una nuova cultura: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». E tale nuova cultura doveva fondarsi sopra una solidarietà compatta, decisa a combattere non solo contro le persistenze fasciste, ma anche contro le forze reazionarie del capitalismo e del clericalismo, per raccogliere insieme marxisti, idealisti come pure anche cattolici e mistici, perché «occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’anima». Per realizzare questo programma culturale profondamente innovativo per la società italiana, Vittorini considerò determinante l’apporto di forze intellettuali di diverso orientamento ideologico, «realizzando peraltro sempre più un atteggiamento di fronda nei confronti del PCI in uniformità, all’interno della Guerra fredda, con la tattica culturale della CIA che in Italia (come in Francia) si proponeva l’indebolimento delle sinistre»;20 e sarà infine la violenta polemica tra Vittorini e Togliatti a porre le premesse per la chiusura della testata. Ma oltre a perseguire questo obiettivo di non allineamento politico, «Il Politecnico», presentato sin dai primi numeri non come organo di diffusione di principi già determinati, bensì di ricerca in progress, guardava con attenzione ai nuovi fenomeni culturali non intaccati dai vizi della vecchia cultura; e questo apporto fu richiesto in prima persona proprio agli stessi lettori del «Politecnico». Nel campo specifico della letteratura Vittorini, nell’editoriale del numero 5 (27 ottobre 1945), sollecitò l’uso di un linguaggio che, «come nei poeti e narratori non viziati da tecnicismo letterario, rendesse i problemi degli affetti e dei rapporti tra gli uomini accessibili a tutti gli uomini». E in quest’ottica di allargamento dei lettori, conseguente all’allargamento della base degli autori, rientrava il progetto vittoriniano di cercare nuovi scrittori «irregolari» che alla pagina giungessero, come già appunto gli amati americani, dopo aver sperimentato la concretezza e la durezza del vivere: «Vorrei delle biografie autentiche di zolfatari, contadini, ecc. Far raccontare alla gente anche più umile la propria vita».21 Queste e altre sollecitazioni spinsero molti giovani scrittori a inviare a Vittorini i propri lavori che egli vagliava con attenzione, cercando di stabilire un rapporto costruttivo con gli autori, non di rado poi ospitati sulle pagine del settimanale con grande soddisfazione del direttore. Infatti, nel pubblicare sul numero 17 (19 gennaio 1946) il racconto di Italo Calvino Andato al comando, Vittorini sottolineò che, «come Mino Manerba, come Sascia Villari, come Marcello Venturi, Italo Calvino è un semplice lettore del “Politecnico” che ci ha mandato un racconto». Osservazione peraltro non del tutto esatta perché in realtà Calvino aveva già pubblicato alcune prose su «Roma fascista» nel 1943; e tuttavia un’analoga interessata approssimazione ritornerà sul numero 19 (2 febbraio 1946) per presentare lo scrittore sardo Salvatore Cambosu, definito appunto «ancora un altro dei nostri giovani scrittori», sebbene in realtà egli fosse ultracinquantenne e già nel 1932 avesse pubblicato il romanzo Lo zufolo. Non sempre però i testi proposti a Vittorini giungevano alla pubblicazione; in genere era piuttosto modesta la qualità della copiosa produzione di quei giovani scrittori che ripetevano, spesso con piatta monotonia, i soliti temi della narrativa resistenziale e del dopoguerra, presentati con caratteristiche di documento oggettivo talvolta tanto palesemente ostentate – soprattutto nell’abuso del dialetto – da raggiungere quell’effetto di artificiosità che essi ingenuamente intendevano evitare. E proprio per stigmatizzare i limiti di tanta abbondante e mediocre produzione, nel recensire Guerriglia nei Castelli Romani di Pino Levi Cavaglione su «La Nuova Europa» (10 febbraio 1946), Cesare Pavese aveva osservato che, mentre le fotografie di reparti in agguato, incendi, scritte sui muri, visi sfigurati dalla corda o dal piombo avevano rappresentato in modo terribilmente convincente la guerra partigiana, «le parole, invece, in cui s’è cercato d’esprimere questa stessa realtà – i racconti, le poesie, le memorie – non dicevano molto. O si riducevano anch’esse a materiale documentario o volevano essere un’interpretazione, personaggi e passioni, narrativa, poesia insomma; e allora, come sempre, succedeva che a fare dell’arte non basta la voglia».

E tuttavia su questa strada ancora per qualche tempo continuarono a impegnarsi decine e decine di giovani, anche incoraggiati da frequenti occasioni esterne come i concorsi letterari a tema banditi da periodici – quello della rivista «Aretusa» fu vinto nel 1945 da Giorgio Caproni con il racconto Il labirinto – e da giornali come il «Corriere lombardo» e l’edizione ligure dell’«Unità», il cui concorso fu vinto ex-aequo nel 1946 da Italo Calvino e Marcello Venturi con i racconti Un campo di mine e Cinque minuti di tempo. E proprio a commento dell’esito fortunato del premio, il 5 gennaio del 1947 Calvino scrisse sull’«Unità» un articolo intitolato Abbiamo vinto in molti, riconoscendo Venturi come «il vero scrittore partigiano, eroico e corale insieme, emotivo eppure scarno, senza pudore della propria commossa tragicità, talora truculento, ma sempre schivo da compiacimenti morbosi» e aggiungendo che quello era il vero «narratore che nasce dalla lotta di resistenza e che racconta, spesso con popolaresca ingenuità, le emozioni collettive, incarnate da un eroe impersonale e unico». Scrivendo lo stesso giorno una lettera a Venturi,22 Calvino aveva aggiunto un suggerimento allo scrittore toscano che era poi rivolto anche a se stesso: «Nei nostri buoni proponimenti per il 1947 ci dev’essere questo: di liberarci da quello che ormai non è più che uno schema per noi». Con queste parole, che riconoscevano in Venturi lo scrittore che meglio aveva saputo rappresentare gli obiettivi letterari e civili del neorealismo, Calvino indicava anche che ormai si doveva ritenere esaurita la prima fase della produzione narrativa a tema resistenziale, fondata su una rappresentazione didascalica ormai prevedibile e ripetitiva, giustificata all’indomani della guerra quando ancora la confusione tra documento e racconto era volutamente forte e forse anche opportuna, ma ormai diventata «moda» dopo un paio di anni di racconti spesso simili tra loro per gli argomenti trattati e comunque identici per la componente formale (tono diaristico, uso della prima persona, riferimento circostanziato ai tempi e ai luoghi, lingua dell’uso, frequenti dialoghi dalla struttura elementare ecc.). Del resto proprio Calvino ricorderà che, quando dopo la guerra aveva cominciato a raccontare la sua esperienza partigiana, aveva fatto ricorso invariabilmente alla prima persona o a protagonisti che gli assomigliavano, avvertendo però presto un frequente disagio perché la sua storia personale gli pareva meschina, carica di vibrazioni sentimentali e moralistiche non dominate. La svolta avvenne «quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io; il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione».23 Fu così che, dilatando un racconto imperniato sul personaggio inventato di un ragazzino conosciuto dalle bande partigiane, Calvino scrisse il suo primo romanzo breve, Il sentiero dei nidi di ragno, uscito nel 1947 e dunque solo due anni dopo Uomini e no, eppure da quello lontanissimo per qualità di scrittura e per obiettivi. Infatti in luogo di un dialogato spezzato e americanizzante e dunque di naturalezza sospetta, in Calvino i personaggi parlavano con più credibile ma meno ostentata venatura dialettale (il dialetto però spariva nei passi narrativi); ma la differenza sostanziale riguardava soprattutto la rinuncia al tono didascalico a vantaggio del tono favoloso e il passaggio dalla rappresentazione cronachistica, giocata sull’effetto emotivo delle situazioni tragiche sottolineate sin nei particolari (si pensi alla descrizione in Uomini e no dei corpi degli uccisi nella rappresaglia fascista di largo Augusto a Milano), a una rappresentazione regredita allo sguardo adolescenziale, e dunque umorale e comunque deformante, della tragedia della guerra, che finiva così per assomigliare a un gioco cruento. Con Il sentiero dei nidi di ragno si poteva dunque considerare conclusa quella prima fase del neorealismo letterario segnata da una produzione che voleva apparire quanto più possibile immediata, nata dai fatti e non da un’invenzione o almeno da una loro rielaborazione; con il suo breve romanzo Calvino aveva dimostrato che invece si poteva continuare a esprimere un alto impegno civile in letteratura, anche senza enfatizzare il racconto delle vicende resistenziali.

Altri scrittori di guerra A qualche anno di distanza dalla fine della guerra si era in parte già affievolita la spinta a riproporne la tragedia in racconti e romanzi e ricominciava a diffondersi una narrativa dai temi più leggeri, ma non per questo di qualità modesta. Basterà ricordare che lo Strega, primo premio letterario nazionale fondato nel dopoguerra, alla prima edizione del 1947 fu vinto dal romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere, ben lontano dai temi, dal linguaggio e dal tono della narrativa neorealista. E tuttavia, proprio negli anni meno immediatamente vicini all’epilogo del conflitto, uscirono alcuni libri sulla

guerra destinati a darne una durevole testimonianza proprio per la carica di verità che li caratterizzava e dunque per le strette affinità con il neorealismo. Tale è il caso di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, libro che, anche tenendo conto delle successive prove narrative dell’autore, sarebbe riduttivo definire una testimonianza e che tuttavia, come i diari e le memorie dell’immediato dopoguerra, si presentava sotto forma di resoconto della persecuzione degli ebrei in un campo nazista scritto senza cedimenti alle vibrazioni emotive individuali, impostato sulla essenzialità e la secchezza, anche stilistica. Le stesse qualità, volte però al femminile e aggravate da una condizione più difficile e da una sensibilità più acuta, si trovavano nel contemporaneo libro di Liana Millu Il fumo di Birkenau, lucida testimonianza, articolata in sei densi racconti, sull’olocausto consumato nel lager di Auschwitz-Birkenau e notevole, come aveva sottolineato Primo Levi nella prefazione, per il «contenuto equilibrio mai inquinato dalla collera o dal lamento scomposto». E val la pena di ricordare che questi due libri ebbero vicende editoriali egualmente difficili: il primo fu rifiutato dalla casa editrice Einaudi (che lo pubblicherà solo nel 1956) per un giudizio negativo di Natalia Ginzburg e poi stampato dal piccolo editore torinese De Silva in 2.500 copie delle quali solo 1.500 furono vendute e quasi tutte a Torino dove l’autore era assai noto; il secondo fu anch’esso rifiutato dalla maggiore editoria nazionale e finì per essere accolto dalla casa editrice La prora, specializzata in libri per la scuola, prima che Mondadori lo ristampasse nel 1957 su sollecitazione del giornalista Augusto Guerriero (Ricciardetto). Trascorsi alcuni anni dal discusso Uomini e no, esauritasi l’esperienza favolosa e irripetibile del Sentiero dei nidi di ragno e rivelatasi effimera la portata della stragrande maggioranza dei racconti, mancava ancora un testo narrativo sulla Resistenza che superasse lo schematismo del racconto breve e rappresentasse l’epica di quel movimento che, sul finire degli anni Quaranta, pareva già alquanto lontano nel tempo e nella memoria. Quest’opera attesa non fu il racconto lungo La casa in collina (1948) dell’allora sempre più emergente Cesare Pavese che, sullo sfondo di Torino e delle colline piemontesi, ricostruiva, se pure per scorcio, il clima di disastro collettivo della popolazione torinese, e si soffermava soprattutto sulle inquietudini di un intellettuale rispetto alla partecipazione alla Resistenza, delineandone un profilo piuttosto incerto, anche se per motivi opposti a quelli di Uomini e no, dove invece era sin troppo assoluta la fiducia del protagonista nel movimento. Per raccontare la Resistenza senza cedere ai cerebralismi, di fatto assenti istituzionalmente dalla prosa sin troppo calata nei fatti di tipo neorealista, occorreva dunque scrivere un romanzo impostato su una visione concreta e bruciante della realtà attraverso un’ottica che annullasse autobiografia e documento, come appunto aveva indicato Calvino promuovendo il bambino Pin al ruolo di protagonista del Sentiero dei nidi di ragno. E seguendo un’analoga scelta, Renata Viganò scrisse il romanzo L’Agnese va a morire (1949), seguito con favore dai lettori proprio per la sua impostazione antiletteraria pur all’interno di un genere narrativo tradizionale. Con il ricorso alla figura di Agnese, un’anziana contadina digiuna di ideologie e guidata da solido e generoso buon senso, Renata Viganò aveva esaltato non l’eroe positivo del racconto partigiano, ma più generalmente – come già nel cinema sin da Roma città aperta – il popolo del quale Agnese era portavoce quasi casuale, istintivamente decisa ad aiutare i partigiani delle valli di Comacchio solo dopo la vile uccisione del marito da parte dei tedeschi. Il quadro d’assieme delineato in L’Agnese va a morire era dunque quello dell’epopea popolare, rappresentata senza gratuite e anacronistiche concessioni al dibattito ideologico, ma al tempo stesso con accenti populisti talora retorici, alquanto vicina in questo ai toni celebrativi dei primi testi memorialistici. Il libro venne accolto con favore soprattutto da lettori e critica di sinistra impegnati nella difesa del sacrificio di quanti avevano partecipato alla Resistenza, difesa tanto più doverosa soprattutto dopo la sconfitta del fronte popolare (alleanza dei partiti italiani comunista e socialista contro la Democrazia Cristiana) alle elezioni della primavera del 1948. L’Agnese va a morire non poteva tuttavia essere sottratto all’opinione limitativa espressa da Calvino nel 1949 – anno della pubblicazione dei suoi racconti partigiani dell’immediato dopoguerra, aumentati da altri successivi tra i quali lo spassoso Furto in una pasticceria, nel volume Ultimo viene il corvo –, a proposito dell’assenza dalla letteratura italiana di un’opera nella quale si potesse «riconoscere tutta la Resistenza» e la quale potesse dire di sé: «Io rappresento la Resistenza»,24 in un panorama in complesso assai deludente, anche se non privo di qualche opera importante, da Calvino individuata soprattutto in Paura all’alba (1945) di Arrigo Benedetti e nei racconti del volume Dentro mi è nato l’uomo (1948) di Angelo Del Boca. A questi, e come questi ascrivibili all’area neorealista, si potranno aggiungere Prologo alle tenebre (1947, poi intitolato Le radiose giornate nel 1969) di

Carlo Bernari, Il figlio di Caino di Guido Seborga, Maria e i soldati di Nello Sàito e Combattere con le ombre di Nelio Ferrando, tutti e tre del 1949. Queste opere, in modi diversi, dimostravano sia lo sforzo di sottrarsi a un clima celebrativo gratuito e inopportuno anche politicamente, sia l’impegno di ritagliare all’interno dei grandi eventi storici vicende umane credibili di anonimi protagonisti, sia infine la fedeltà a raccontare la guerra secondo le coordinate dell’impegno proprie del neorealismo.

Il dopoguerra e il mondo contadino Gli scrittori del neorealismo, come pure i cineasti, non raccontarono però solo la Resistenza; alcuni di loro affrontarono argomenti che spiegavano le ragioni che avevano portato alla guerra e altri i diversi problemi del dopoguerra, dalla borsa nera alla disoccupazione. Comune era la volontà di riferirsi sempre alla contemporaneità e di affrontare, pur all’interno di scelte tematiche varie, argomenti che, anche partendo da realtà minute e periferiche, dichiarassero un preciso impegno in difesa di quanti vivevano il maggiore disagio sociale ed economico. In questo senso si poteva leggere il primo romanzo di Vasco Pratolini uscito nel dopoguerra, quel già citato Cronache di poveri amanti (1947) che, come Il quartiere (1944), poneva al centro del suo interesse la vita di un rione popolare fiorentino raccontata in terza persona negli anni della presa del potere da parte del fascismo. Il neorealismo di Pratolini, che non soffocava la sua indole intimistica e lirica poi ispiratrice dell’intensissimo Cronaca familiare (1947), appariva espressione di quella collettiva e sicura attesa di una migliore società storicamente rapportabile ai primissimi anni successivi alla guerra, non più in là del 1947. Cronache di poveri amanti non fu che uno dei molti libri dell’età neorealista che raccontarono l’affermazione del fascismo; in certo modo la serie si era aperta già nel 1945 con l’edizione italiana di due opere pubblicate originariamente in Francia negli anni Trenta, al tempo dell’esilio, da Emilio Lussu: Un anno sull’altipiano, resoconto sulle inutili crudeltà della guerra del ’15-’18 e del trionfo di quel cieco militarismo che spesso il fascismo avrebbe fatto proprio, e Marcia su Roma e dintorni, memorie politiche sull’ascesa del fascismo sin dai suoi primi passi. Un altro autore vissuto in esilio durante il fascismo pubblicherà le sue opere in Italia dopo la fine della guerra: Ignazio Silone. Nel 1947 e nel 1950 uscirono in Italia, dopo essere già stati pubblicati in Svizzera, i romanzi Fontamara e Il seme sotto la neve, entrambi incentrati sulla lotta dei contadini d’Abruzzo, i «cafoni», contro i grandi proprietari terrieri protetti dal regime. Tema analogo fu affrontato anche da Francesco Jovine nel corposo romanzo Le terre del Sacramento (1950), una delle forme più realizzate di narrativa neorealista sganciata dal tema resistenziale e postbellico, ma centrata su un’altra coppia di argomenti che stimolavano la creatività degli scrittori impegnati: la crisi della campagna negli anni del regime e il sottosviluppo economico e sociale del Sud. Questo tema di fondo, ma in versione cittadina, fu trattato anche da Domenico Rea nei mirabili e tragici bozzetti di Spaccanapoli (1947) e di Gesù fate luce (1950), dove una realtà di secolare miseria, acuita dalla nuova tragedia della guerra, sostituiva l’immagine stereotipata di quella Napoli spensierata proposta invece, anche se non senza spunti di amara verità, da Giuseppe Marotta in L’oro di Napoli (1947). Naturalmente alle radici di Jovine – e in qualche misura anche di Rea – c’era il modello del Verga, ma nelle Terre del Sacramento il bisogno primario passava dalla «roba» alla terra da lavorare e far rendere; c’era però soprattutto, sullo sfondo della lotta del giovane socialista Luca Marano con i latifondisti molisani, il sorgere del fascismo nei primi anni Venti e la connivenza delle diverse forme di potere accomunate dal ricorso alla violenza quale strumento ultimo per definire e risolvere i problemi sociali. Questo romanzo, sostenuto dalla volontà di raccontare l’epopea di un popolo che sognava la terra, rappresentava un altro versante del neorealismo, quello della ricerca delle radici del fascismo; e così questa storia dei contadini molisani rivelava appieno i suoi legami con il presente, con quella di tutti i contadini dell’Italia del dopoguerra alle prese con i soliti o con nuovi tiranni, non troppo diversi da quelli che avevano ucciso Luca Marano. Ancora al mondo contadino, quello calabrese già trattato da Corrado Alvaro non solo in Gente in Aspromonte ma anche nel più recente L’età breve (1946), che aveva affrontato il tema dell’inurbamento di un giovane paesano, riconduceva la narrativa di Fortunato Seminara, esordiente nel 1942 con Le baracche, «forse la prima manifestazione italiana della nuova ondata di populismo

che ha preso il nome di neorealismo», come aveva osservato Vittorini nel risvolto del successivo Il vento nell’oliveto (1952), dove anche aveva aggiunto che quando «il neorealismo ripete motivi ormai convenzionali su temi sempre più schematici e sempre più velleitari» la nuova opera di Seminara «riporta un po’ di spontaneità e di equilibrio umano».

L’epilogo del cinema neorealista Anche se, soprattutto al Nord, le industrie cominciavano a rappresentare il volto nuovo dell’Italia uscita dalla guerra, il nostro rimaneva ancora un paese contadino (il censimento del 1951 rilevò che per 2/3 l’economia italiana era ancora agricola), costituito da piccole realtà di campagna più che da città industrializzate. In tal senso allora Le terre del Sacramento di Jovine rappresentava con efficacia, anche per la riuscita contaminazione col tema politico, questa realtà alla quale inevitabilmente avevano rivolto le loro attenzioni anche i cineasti in opere talora importanti e, in qualche occasione, davvero straordinarie come nel caso del film Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis. Qui il tema dello sfruttamento del lavoro contadino si incrociava con quello della abituale condizione femminile di sfruttamento che cominciava allora, grazie alla spinta politica della sinistra, a destare qualche interesse, anche se sugli schermi l’immagine della donna borghese ammaliatrice prevaleva ancora su quella della proletaria lavoratrice. In Riso amaro questo schema veniva spezzato dalla mondina impersonata da Silvana Mangano, grazie anche all’attenzione per il «linguaggio del corpo che De Santis faceva esplodere in modo “eccessivo” rispetto al neorealismo» (G. Brunetta, op. cit., p. 94); e proprio la presenza prorompente di quell’attrice – con l’avvio del periodo delle «maggiorate» poi proseguito dalle varie Lollobrigida e Loren –, accompagnata da un giovane ma già bravissimo Vittorio Gassman e dalla solidità di un attore collaudato come Raf Vallone, determinò il successo mondiale di Riso amaro, quando il cinema italiano invece copriva solo poco più di un terzo degli incassi nazionali e quando quello neorealista resisteva solo se sapeva trasformarsi, come dimostrerà di lì a poco De Sica in Miracolo a Milano (1951). In questo film era affrontato il tema della giustizia impossibile per gli emarginati, ai quali, come sola illusoria via d’uscita, rimaneva solo il sogno e cioè, in antitesi con le pur sofferte speranze di tante pellicole e pagine del neorealismo improntato all’ottimismo, la sconfitta degli ideali riposti in una nuova società. Così come era in antitesi con gli scenari trasudanti verità del cinema e della letteratura neorealisti la scena finale della surreale cavalcata su una scopa di un gruppo di barboni in volo sul cielo di Milano, verso un lontano mondo utopistico dove «buongiorno voglia dire veramente buongiorno». Se però era fiabesca la componente dei protagonisti e del loro agire, ben ancorato alla realtà era invece lo sfondo sociale, sicché questo film appariva come un interessante tentativo di rinnovare e rivitalizzare il neorealismo più canonico. A esso peraltro De Sica e Zavattini sarebbero ritornati con Umberto D (1952), storia di un vecchio statale, ancora interpretato da un attore non professionista (il professore di glottologia Carlo Battisti) costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, con una miserabile pensione di 18.000 lire mensili. Nella sua asciutta e bruciante linearità e con il suo taglio oggettivo e attento alle minute azioni quotidiane, il film ebbe un forte impatto sul pubblico, tanto che la compatita storia di quel vecchio povero e solo dopo una vita di lavoro provocò una secca reazione delle forze governative, indirettamente accusate di trascurare i gravi problemi sociali e di dedicarsi soprattutto alla lotta anticomunista e alla difesa del conformismo cattolico. Del resto questo atteggiamento fu confermato dal sottosegretario allo Spettacolo Andreotti, che il 7 marzo 1952 aveva rilasciato il nulla osta per la proiezione di questo film vietata ai minori di 16 anni, a condizione di «ridurre la scena della corsia dell’ospedale, nella quale durante la recitazione del Rosario uno dei malati recita la preghiera senza la dovuta riverenza».25 Questo atteggiamento di chiusura delle meno illuminate forze conservatrici e un certo rilassamento della tensione civile, in parte conseguente al progresso materiale del Nord più industrializzato, favorirono allora l’affermazione sia di un cinema italiano a imitazione di quello americano, sia di una produzione popolare alla quale avevano aperto la strada i grandi successi di Fabiola (1948) di Alessandro Blasetti e di Catene (1949) di Raffaello Matarazzo, avviando così una stagione fatta prevalentemente di film melodrammatici o vacuamente comici, musicali e comunque di leggero intrattenimento. Fortunatamente però non si era del tutto esaurito il filone del nostro cinema più impegnato e una delle prove più significative in proposito fu Il cammino della speranza

(1950) di Pietro Germi, che aveva affrontato le problematiche del meridionalismo in chiave essenzialmente morale. E tuttavia ormai l’attenzione anche battagliera per i problemi collettivi che aveva animato il neorealismo si era molto attenuata e il film che segnerà quasi ufficialmente la fine26 di quel comunque importantissimo momento fu Senso (1954), firmato dallo stesso Luchino Visconti che con Ossessione aveva avviato la stagione neorealista. Dopo che già in Bellissima (1951) egli aveva accantonato la tecnica dell’improvvisazione apparente per preparare invece un’attentissima regia, con Senso Visconti portava a compimento il rifiuto di tanto cinema di impronta cronachistica, in realtà spesso alquanto sciatto e privo di estro, già proprio del neorealismo, propendendo invece per una certa aristocratica raffinatezza che sembrava sempre più diffondersi tra i suoi fotogrammi, senza però rinunciare all’impegno in direzione nazional-popolare. In questo, Visconti come altri cineasti, scrittori e pittori tra i quali soprattutto Renato Guttuso, erano stati sollecitati dalla sempre maggiore diffusione delle opere postume di Antonio Gramsci, avviata nel 1947 e divenuta in breve, soprattutto dopo la pubblicazione di Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1948) e Letteratura e vita nazionale (1950), punto di riferimento irrinunciabile per gli intellettuali e gli artisti progressisti e comunque occasione di dibattito all’interno dell’intero ambiente culturale italiano.

Gli ultimi scrittori del neorealismo Se con Senso si può ritenere conclusa la parabola del cinema neorealistico nel 1954, quasi contemporaneamente, con il romanzo Metello (1955) di Pratolini si poteva considerare chiusa anche l’esperienza neorealista degli scrittori. Come per il cinema, anche per la letteratura non erano mancati gli ostacoli frapposti dai conservatori e dai sostenitori della bella pagina ignara dei problemi sociali; a questo proposito risulta eloquente la risposta di Riccardo Bacchelli a una domanda di Carlo Bo circa il possibile apporto del cinema alla letteratura: «Il cinematografo non può ispirare né insegnare nulla alla letteratura di nessun genere, salvo il proposito, che appartiene al commercio e non all’arte, di adeguarsi ai suoi particolari e semplificanti bisogni e metodi espressivi».27 Eppure, diversamente che per il cinema, avviato allora stancamente all’epilogo di quel periodo già fecondissimo, nei primi anni Cinquanta in Italia fiorirono numerosi talenti letterari in buona parte ricollegabili proprio al neorealismo. Ne era stata fucina la collana narrativa «I gettoni», fondata nel 1951 presso Einaudi da Elio Vittorini e aperta a giovani scrittori italiani che, in opere di non ampia estensione (permaneva dunque il rifiuto per il tradizionale romanzo), si misurassero con i problemi più sentiti dell’Italia contemporanea. Questo orientamento spiega «la straordinaria apertura a una serie ricchissima di testimonianze di guerra e dopoguerra, di vita contadina e paesana, di marginalità provinciale e meridionale»,28 anche se sarebbe improprio considerare «I gettoni» una collana essenzialmente avviata al recupero o alla prosecuzione del neorealismo. Infatti più che su aprioristiche scelte tematiche e di scrittura, Vittorini concentrava l’attenzione soprattutto sulla «storia» dei suoi autori e, riprendendo l’orientamento già seguito a proposito degli americani, richiedeva che essi presentassero una natura irregolare o, ancor meglio, quasi primitiva, intesa come garanzia di sano distacco dal mondo ufficiale delle lettere. Convinto sostenitore di una narrativa nata al di fuori delle scuole e delle elaborazioni teoriche, ma soprattutto nutrita di esperienze della quotidianità – «In Italia si ha bisogno di autobiografia» affermava perentoriamente nella presentazione del Diario di un soldato di Raul Lunardi – Vittorini di fatto con «I gettoni» ridiede fiato a un neorealismo meno legato agli schemi ideologici rigidi del dopoguerra e sostenuto invece dall’impegno a rappresentare situazioni individuali spesso determinate da casi di ingiustizia collettiva; e questo rinnovato orientamento emergeva dal già ricordato risvolto a Il vento nell’oliveto di Seminara, dove si sottolineava che «non è con la misura dell’uomo “nel suo grande”, è con la misura dell’uomo ancora “nel suo piccolo” che il tono sommesso e impensierito in cui la narrazione vien fatta rafforza invece di attenuare». Cercando dunque di rivitalizzarne le qualità, Vittorini continuava a guardare al neorealismo del quale «I gettoni» spesso recuperavano i temi. Meno evidente era invece il recupero di quella tensione che aveva attraversato la nostra narrativa neorealista del primo dopoguerra, come apparve con evidenza da due libri, entrambi usciti nel 1952, che affrontavano il tema neorealista per antonomasia: la lotta di liberazione. Ma né Cassola nel romanzo Fausto e Anna, né Fenoglio nei

racconti I ventitré giorni della città di Alba diedero della Resistenza la consueta rappresentazione celebrativa: il primo esprimeva le perplessità del protagonista sul movimento attivo in Toscana e il secondo presentava come protagonisti dei partigiani rissosi e meschini, senza peraltro dimenticare quelli valorosi ed eroici che risultavano tuttavia in minoranza, come lapidariamente dichiarava l’avvio del racconto eponimo del libro: «Alba la presero in duemila […] e la persero in duecento». Questi due libri, oltre ad aver sollevato l’indignata protesta dei vertici del PCI (nella polemica intervenne in prima persona il segretario del PCI Palmiro Togliatti per difendere la sua versione ufficiale della Resistenza), avevano anche dimostrato che era ormai finita l’epoca della rappresentazione a senso unico dei fatti della guerra e del dopoguerra e dunque sancivano quella cesura netta tra arte e politica sulla quale si era a lungo discusso soprattutto sul «Politecnico» (che nel 1947 aveva cessato le pubblicazioni anche a seguito di uno scontro aperto tra Togliatti e Vittorini, convinto che gli artisti non devono «suonare il piffero della rivoluzione») e su altri successivi periodici per accogliere o contestare le tesi del teorico sovietico Andrej Ždanov, sostenitore di un «realismo sociale» che di fatto sottometteva l’arte alla politica. Alcuni testi ospitati nei «Gettoni» rivelarono dunque questo superamento, inevitabilmente compiuto non tanto da chi aveva cominciato a scrivere subito dopo la guerra sull’onda delle emozioni e dei generosi propositi, ma piuttosto da chi aveva avuto le occasioni e il tempo per riflettere sugli avvenimenti vissuti e che intendeva raccontare. E queste furono le premesse che portarono al debutto o all’affermazione nei «Gettoni» di scrittori poi divenuti tra i più importanti del nostro secondo Novecento, dai già citati Cassola e Fenoglio ad Arpino e Brignetti, da Tobino e Rigoni Stern a Venturi e Testori; e proprio la varietà stilistica di questi autori conferma che Vittorini accolse, soprattutto negli ultimi anni della collana, chiusa nel 1957, testi assai diversi tra loro, pur prediligendo un rinnovato ed estremo neorealismo che ravvivasse una narrativa in genere già piuttosto incline ad allontanarsi dai problemi del presente per ricollegarsi al grande filone del romanzo ottocentesco. La prova di questo «riflusso» sarà data nel 1958 dal successo toccato a Il Gattopardo, il romanzo postumo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa di tema e scrittura ottocentesca che Vittorini aveva rifiutato di pubblicare nei «Gettoni». In questo senso uno dei «Gettoni» che aveva più decisamente avviato il processo di superamento del neorealismo delle origini fu il racconto lungo di Fenoglio La malora (1954), nel quale l’autore, che già in una lettera del 1951 a Calvino aveva definito superata una sua «cotta neoverista»,29 aveva adoperato gli ingredienti tipici della letteratura neorealista: un protagonista narrante in prima persona, il tema dello sfruttamento del lavoro nelle campagne, l’ampio ricorso alle voci dialettali. Ma nonostante tutto ciò, rispetto al neorealismo Fenoglio aveva evitato sia l’impegno politico e civile (all’origine della «malora» non erano infatti i conflitti di classe alla Jovine, ma il desiderio smodato dei contadini di diventare proprietari e di arricchirsi, in analogia alle «irrequietudini pel benessere» – come scriveva il Verga nell’introduzione al romanzo – che aveva spinto i Malavoglia a diventare commercianti da pescatori quali erano), sia il richiamo alla contemporaneità (il contesto collocava infatti la vicenda del racconto nel primo decennio del Novecento). Mancava insomma da queste pagine la tensione sociale e quella «preoccupazione storica che si coglie invece nel pavesiano La luna e i falò»;30 come pure mancava il personaggio positivo, indispensabile nella narrativa neorealista, che si ribellasse per eliminare ingiustizie e soprusi come si era letto nelle Terre del Sacramento, mentre il protagonista Agostino appariva dominato dal suo personale bisogno di riscatto. La malora era dunque il racconto che indicava con maggiore chiarezza il superamento del neorealismo proprio all’interno di quel progetto editoriale, «I gettoni», che ne aveva rappresentato l’argine estremo; e poco più tardi, all’inizio del 1956, nel risvolto a Il treno degli Appennini di Venturi, Vittorini elencherà le principali ragioni che avevano ormai sottratto «vitalità collettiva» al neorealismo: dalle ripetizioni tematiche che avevano portato a schemi inariditi, al ritorno all’ingenuità, oramai però forzata, delle origini.

La polemica conclusiva su Metello Naturalmente Vittorini aveva avanzato queste considerazioni sull’epilogo della stagione neorealista, che ragionevolmente si può dunque far coincidere con l’uscita nel 1956 del libro di quel Marcello Venturi che Calvino aveva considerato migliore interprete del migliore neorealismo, tenendo ben presente la polemica innescata dall’uscita del romanzo di Pratolini Metello31 e ospitata sulle due riviste marxiste «Società» e «Il Contemporaneo». Questa polemica aveva radici lontane, essendo

stata avviata da Carlo Muscetta già nell’aprile 1954 su «Società», nell’articolo Cinema controrealista, e poi dallo stesso critico ripresa sull’«Unità» del 29 gennaio 1955, nell’articolo La lotta per il realismo: in entrambi gli scritti, Muscetta sosteneva la pericolosa genericità della definizione di neorealismo, sotto la quale era stato accolto «chiunque avesse dimostrato anche la più ambigua e la più vaga aspirazione all’epiteto di realista», ma soprattutto rilevava la mancanza di un dibattito teorico e critico sulla produzione definita neorealista. Poco più tardi uscì il romanzo Metello, scritto nel 1952 e giunto alla pubblicazione nel 1955, primo della trilogia pratoliniana Una storia italiana poi completata da Lo scialo (1960) e da Allegoria e derisione (1966). Le vicende raccontate in Metello erano comprese tra il 1872 e il 1902, anno del primo importante sciopero degli edili, e ne era protagonista il muratore Metello Sellani la cui vita, sin dall’adolescenza segnata da disgrazie, era stata poi riempita dall’amore e dalle lotte sindacali e politiche che lo condussero a sperimentare la solidarietà tra i compagni, ma anche situazioni difficili come il licenziamento e il carcere. Sullo sfondo della tensione sociale di fine secolo portata dal governo reazionario di Pelloux, Pratolini aveva dunque raccontato la vicenda esemplare di un lavoratore italiano al tempo delle prime lotte di classe, tra repressione e sindacalismo, senza però dimenticare la sua sfera privata e sentimentale. Un tale romanzo avrebbe dovuto incontrare il favore dei lettori di sinistra e infatti Carlo Salinari, in un’ampia recensione uscita sul «Contemporaneo» (12 febbraio 1955), lo apprezzò incondizionatamente, soprattutto per il rilievo conferito al protagonista che superava la superficialità cronachistica di tanto neorealismo; e concludeva sostenendo che quest’opera segnava nella nostra narrativa contemporanea la fase di sviluppo del neorealismo in realismo, con quello intendendo il rifiuto della prosa d’arte e l’esigenza di rappresentare la realtà comune e con questo la capacità di superare la facciata di quella realtà e di conquistare un nuovo punto di vista dal quale guardare il mondo, quello della lotta di classe degli operai e del loro inserimento nella vita nazionale. Muscetta invece, in un intervento (Metello e la crisi del neorealismo) apparso su «Società» nell’agosto del 1955, accusò lo scrittore toscano di aver fatto della «letteratura d’intrattenimento» e di essere rimasto sostanzialmente fedele al «lirismo della prosa d’arte»; il suo protagonista poi gli appariva un personaggio quasi comico-idillico, anch’egli coinvolto nella più generale incapacità dell’autore di sviluppare i rapporti sociali che risultavano troppo schematici e che collocavano dunque Metello entro i limiti di un neorealismo da intendere come «non liquidato decadentismo di uno scrittore che pur aspira al realismo». Per Salinari invece il romanzo di Pratolini aveva segnato proprio il superamento di alcune delle costanti del decadentismo, che in effetti il neorealismo non sempre aveva saputo evitare, dall’esaltazione del primitivo, tanto cara a Vittorini, al mito dell’infanzia, dall’ossessione del sesso al gusto del torbido, elementi che nella letteratura, e anche nel cinema del primo dopoguerra, abbiamo spesso trovato come sottofondo, talora anche piuttosto gratuito, alle vicende che portavano sulle pagine e sullo schermo la realtà italiana. Questa polemica su Metello lasciò il segno e non sarà un caso che essa si sia svolta tutta all’interno del PCI (tanto che Togliatti indirizzò una lettera di rimprovero ai direttori di «Società»), indicando come fosse già nell’aria quella crisi che il XX congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria dell’autunno 1956 (quando i carri armati sovietici repressero nel sangue la rivolta contro il governo dittatoriale sostenuto da Mosca) avrebbero rivelato in tutta la sua gravità, chiudendo di fatto per molti italiani quel periodo di grandi speranze nato all’indomani della fine della guerra, proprio quando era nato anche, per rappresentarle nei cinema e nei libri, il neorealismo.

I poeti Il 22 aprile 1945 sulla rivista milanese di politica e cultura «Costume» era preannunciata la prossima uscita (che poi avvenne solo il 10 gennaio del 1946) di quella che era definita come «la prima voce di poesia della Resistenza italiana» e cioè la raccolta Con il piede straniero sopra il cuore (poi intitolata Giorno dopo giorno) di Salvatore Quasimodo. E tre giorni più tardi il numero della Liberazione dell’«Unità» dell’edizione genovese presentava addirittura in prima pagina una poesia anonima intitolata Insorgete!: c’era dunque fame di poesia nell’Italia che aveva combattuto e che cominciava a uscire dal turbine della guerra? In realtà durante la lotta di liberazione, mentre la canzone popolare32 aveva assunto il compito di dare libero sfogo ai sentimenti più immediati di quanti vivevano quel periodo drammatico, non abbondarono invece i testi in versi che interpretassero senza cadute retoriche e come voce collettiva la realtà di quei tempi, anche se vi fu

una poesia che ebbe una discreta circolazione, naturalmente clandestina, al tempo della Resistenza: Per i compagni fucilati in piazzale Loreto di Alfonso Gatto. Sembra allora probabile che i versi, in effetti non troppo vicini alla poesia, pubblicati sull’«Unità» il 25 aprile 1945 rispondessero all’esigenza del giornale di assumere un volto democratico-popolare, cioè di apparire «un giornale colto che però fosse in grado di legare, di mettere in contatto cultura e vita vera».33 Di fatto la produzione in versi sulla Resistenza a guerra conclusa sarà copiosa e generosa, ma molto spesso limitata da eccessi oratori sollecitati dalla volontà di esprimere un forte vibrare di sentimenti. E così gli autori cercavano di esporre in versi i loro ideali con un linguaggio spesso troppo prosastico o raccontavano nude memorie di guerra che difficilmente raggiungevano la poesia; in genere questi tentativi erano tanto generosi quanto artisticamente scadenti, anche perché quegli aspiranti poeti non avevano alcun punto di riferimento preciso o vicino cui guardare; anzi, quei testi nascevano essenzialmente da un impegno contrario, quello di evitare la poesia pura dell’ermetismo (eppure tanto Gatto quanto Quasimodo erano stati in anni vicini esponenti di quel movimento) fondata sulla parola estranea alle esperienze reali dell’uomo. E così i soli modelli che rispondessero all’idea di una poesia direttamente e profondamente radicata nella vita – e che anche nella componente formale si sottraesse alla vecchia tradizione come pure agli spazi bianchi e ai versi-parola degli ermetici – potevano essere, con l’eccezione dei complessivamente poco noti versi narrativi di Lavorare stanca di Pavese, solo i testi dei poeti stranieri, quelli sensibili ai temi sociali (come Majakovskij e Brecht) e civili (come Eluard e Aragon), oltre ai poeti più generalmente espressionisti, da García Lorca a Walt Whitman, a Edgar Lee Masters. In realtà il problema di una poesia capace di rappresentare senza formalismi la tragica realtà del presente era stato posto da Antonio Russi a guerra ancora in corso, sul numero di aprile del 1944 della neonata rivista napoletana «Aretusa»; l’articolo era però essenzialmente polemico nei confronti dell’ermetismo e la sua sola parte propositiva era costituita dalla richiesta di una maggiore compromissione nella quotidianità come totale capovolgimento del principio di «letteratura come vita» proclamato come imperativo degli ermetici già negli anni Trenta da Carlo Bo, il quale peraltro con la sua già citata Inchiesta sul neorealismo, trasmessa sul «Terzo programma» della RAI dall’ottobre 1950 al marzo 1951, favorirà il primo tentativo di riflessione critica sul movimento, seguito nel dicembre del 1953 dal convegno svoltosi a Parma al Circolo di Lettura, con la partecipazione, tra gli altri, di Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Michelangelo Antonioni, Francesco Maselli e Carlo Lizzani.34 Russi riprese le sue tesi dapprima (1945) sul «Mercurio», in un intervento che già nel titolo – Svolta della poesia – si richiamava agli intenti di profondo rinnovamento contemporaneamente diffusi dal «Politecnico», e quindi su «La Strada», la rivista romana che nella sua breve vita, durata solo tre numeri distribuiti nell’arco di due anni (1946-’47), più di ogni altra rappresentò i caratteri della nuova poesia. Essa veniva definita nell’editoriale del primo numero ancora essenzialmente come negazione dell’ermetismo, inteso senza mezzi termini (e alquanto gratuitamente) come espressione del fascismo, più che come esito di una chiara elaborazione teorica, anche se gli obiettivi di Russi erano evidenti laddove sosteneva che la poesia doveva servire «a partecipare alla formazione di un uomo nuovo sulle macerie di un uomo invecchiato». Non meno interessante era poi l’altra convinzione di Russi, secondo la quale «la poesia può impegnarsi su un piano politico, ma seguendo le direttive sue, della poesia, e non quelle della politica»; tesi non certo allineata con la visione ufficiale della cultura di sinistra e che tuttavia dimostrò la sua validità nell’accogliere sulle pagine della «Strada» testi di poeti di diversa formazione e ideologia allora pressoché sconosciuti come Pier Paolo Pasolini, Cesare Vivaldi, Rocco Scotellaro, Luciano Roncalli, i già più noti Cesare Pavese e Franco Fortini e soprattutto Franco Matacotta, il poeta di questa nidiata neorealista che ha dato la più efficace interpretazione degli orrori della guerra in versi di grande forza e novità. A parte il caso di Matacotta e di altri testi occasionali o di raccolte caratterizzate da esiti alterni, non furono molti però gli autori che seppero dare un’efficace versione in poesia del neorealismo, affidata per lo più a prove che ne rivelavano l’attraversamento momentaneo all’interno di percorsi lirici poi diversamente orientati, come nel caso piuttosto sorprendente dei versi finali della Primavera hitleriana (1938-46) di Montale, dove l’immagine auspicata di «un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio ai greti arsi del sud…» sembra riecheggiare l’ottimismo civile del neorealismo. Non meno rilevante era stato anche il caso di Franco Fortini, che nella raccolta Foglio di via e altri versi (1946) aveva superato la sua formazione ermetica e le suggestioni montaliane per approdare, in nome dell’impegno politico, a una poesia corale ed epica vicina al modello di Paul

Eluard. E ancora si dovrà ricordare il bagno di neorealismo tematico ed espressivo che segna la raccolta Gli anni tedeschi (1943-47 e poi inclusi nel 1956 nella silloge Il passaggio di Enea) di Giorgio Caproni (peraltro collaboratore con prose di ambiente al «Politecnico»), in questi versi non più il poeta descrittivo e di atmosfere morbide degli esordi e non ancora il poeta elegiaco del tono domestico delle più mature raccolte. Più saldi e continui rapporti con il neorealismo ebbero invece altri poeti come Dino Menichini, cantore commosso del dolore in Ho perduto i compagni (1947) e in Patria del mio sangue (1950); Elio Filippo Accrocca, che in Portonaccio (1949) compiva «un’appassionata meditazione poetica su una cronaca di morte e di guerra»;35 Mario Socrate, impegnato in Poesie illustrate (1950) a sfuggire all’ermetismo con un’adesione carica di emotività al dato di cronaca e al manifesto impegno politico, come anche appariva in L’umana compagnia (1953) di Velso Mucci, nutrito di cultura europea e sostenuto da un impegno assai forte scaturito anche dall’articolato dibattito svoltosi tra il 1945 e il 1950 sulla sua rivista «Il costume politico e letterario», tesa a conciliare l’ideologia gramsciana con gli slanci dell’avanguardia; e ancora Renzo Nanni, sorretto da un più deciso e talora concitato impeto epico in L’avvenire non è la guerra (1952), e Giovanni Serbandini, autore di versi incisivi sulla sua esperienza di combattente raccolti in Poesie partigiane (1961). Passando dal tema resistenziale a quello sociale il panorama qualitativo non si allarga di molto e il solo nome che oggi merita di essere ricordato è quello di Rocco Scotellaro: pur non immune da toni populisti e da un polemismo eccessivo ereditato dalla sua militanza politica e sindacale, egli seppe raccontare con forza nei versi del postumo È fatto giorno (1954) la condizione difficile e tuttavia non rassegnata del mondo contadino meridionale nell’Italia che sembrava aprirsi a una nuova era di civiltà; e anche Scotellaro rinunciava a farsi espressione delle proprie attese e dei propri turbamenti e si indirizzava invece al ruolo di portavoce di istanze, e speranze collettive, anch’egli come Matacotta ricorrendo al soggetto in prima persona plurale: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi». Gli esiti complessivamente modesti della poesia neorealista non debbono far credere a un disinteresse teorico per tale genere letterario; infatti dopo la chiusura della «Strada», il dibattito fu affrontato da un nuovo periodico, il torinese «Momenti», in un’articolata serie di interventi apparsi tra il 1948 e il 1951 al termine dei quali anche il neorealismo dei poeti chiudeva la sua parabola per la constatazione dei propri insuperabili limiti e nella sostanziale consapevolezza che gli obiettivi proposti non erano stati raggiunti. Del resto non era un compito facile conciliare la spinta lirica con l’impegno epico, una poesia nata dal rapporto con avvenimenti sconvolgenti con una poesia capace di farsi portavoce di un comune sentire; e questo compito non era facile non solo per l’egemonia ermetica ancora perdurante e comunque non ancora superata, ma anche perché per tradizione la poesia italiana era essenzialmente lontana dalla realtà e dalle cose e semmai più vicina ai buoni, ai raffinati e magari ai banali sentimenti: insomma, una realtà creativa spesso individuale quando non da salotto o da scrivania che solo scarsi elementi potevano collegare con gli anni sconvolgenti della più cruda delle realtà, quella di una lunga guerra che era stata anche una guerra civile. 9 «Città aperta» è definita la città che, per il suo riconosciuto interesse storico e artistico, viene ceduta alle forze nemiche senza combattimenti per evitare la distruzione del suo patrimonio di monumenti e di opere d’arte; questa definizione fu attribuita, nel corso della Seconda guerra mondiale, ad Atene, Parigi, Belgrado e Firenze oltre che a Roma, ma spesso si trattava di decisioni unilaterali poi non rispettate dal nemico, come appunto del caso della Capitale. Il governo italiano, presieduto da Badoglio, proclamò Roma città aperta il 14 agosto 1943, ma gli Alleati anglo-americani non la riconobbero tale e dopo quella data la bombardarono oltre 50 volte, fino al 4 giugno 1944 quando essi entrarono in città (cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1970, pp. 8695 e 319-325). 10 Il 23 marzo 1944 i partigiani compirono un attentato a Roma, in via Rasella, contro una colonna di soldati tedeschi uccidendone 33. Il giorno dopo per rappresaglia 335 italiani, civili e militari, vennero fucilati dai tedeschi alle Fosse Ardeatine, nella periferia di Roma (Ibidem, pp. 261-267). 11 G. Puccini, Per una discussione sul film italiano, «Bianco e nero», IX (1948), 2, p. 15. 12 G. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Bari-Roma, Laterza, 1995, vol. 11, p. 8. 13 C. Lizzani, Il neorealismo: quando è finito, quello che resta, in Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di L. Micciché, Venezia, Marsilio, 1975, p. 102. 14 G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, p. 25. 15 L. Bolis, Il mio granello di sabbia, Torino, Einaudi, 1995, p. 4. 16 A. Cadioli, L’industria del romanzo, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 14. 17 Nello stesso anno Pratolini aveva pubblicato anche un romanzo autobiografico cui aveva attribuito il titolo Cronache di poveri amanti. 18 M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005, pp. 262-265. 19 C. Benussi, L’età del neorealismo, Palermo, Palumbo, 1980, p. 104.

20 Cfr. G. Di Malta, «Il Politecnico» settinanale e la guerra fredda, in «Oblio», IV (2014), 13, p. 34-35. 21 Lettera di Vittorini al padre del 22 dicembre 1945, in Gli anni del «Politecnico», a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977, p. 43. 22 La lettera è riportata parzialmente in M. Venturi, Sdraiati sulla linea, Milano, Mondadori, 1989, pp. 22-23. 23 I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 19. 24 I. Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza, «Movimento di Liberazione in Italia», I (1949), pp. 40-46. 25 Umberto D. di Vittorio De Sica. Un salvataggio, Roma, Pantheon, 1995, p. 111. 26 Il dibattito sulla fine del neorealismo, sia nel cinema sia in letteratura, ha visto posizioni spesso divergenti; ad esempio Brunetta la individua nel cinema nel film I soliti ignoti, che tra l’altro recupera uno spunto del già ricordato racconto di Calvino Furto in una pasticceria; cfr. il suo Il cinema neorealista: da «Roma città aperta» a «I soliti ignoti» (2009), posticipando dunque la fine del movimento al 1958. 27 Cfr. Inchiesta sul neorealismo, a cura di C. Bo, Torino, ERI, 1951, p. 58; il libro è stato ristampato nel 2015 dalle edizioni milanesi Medusa. 28 C. De Michelis, Prefazione a E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni», Milano, Scheiwiller, 1988, p. 24; dallo stesso volume sono tratte le successive citazioni dai risvolti dei «Gettoni». 29 La lettera è citata in M. Corti, Nota a B. Fenoglio, La paga del sabato, Torino, Einaudi, 1969, p. 144. 30 P. Spriano, Le Langhe e la malora. Vita di contadini sulle colline, «l’Unità» (ed. torinese), 19 settembre 1954. 31 La bibliografia sull’argomento è vastissima; un’agile sintesi è stata tracciata in O. Del Buono, Il «Metello» neorealista che spaccava la sinistra, «La Stampa-Tuttolibri», 1 luglio 1995, fonte delle brevi citazioni qui riportate. 32 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974, p. 461. 33 Un giornale neorealista. Intervista a Pietro Ingrao, in L. Paolozzi e A. Leiss, Voci dal quotidiano. L’Unità da Ingrao a Veltroni, Milano, Baldini & Castoldi, 1994, p. 24. 34 Questi interventi sono stati riportati nel volume Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo, a cura di M. Guerra, Parma, Diabasis, 2015. 35 La poesia nel Lazio, a cura di R. Pellecchia, Forlì, Forum/Quinta Generazione, 1988, p. 64.

I PROTAGONISTI

Attraverso il neorealismo Fenomeno essenzialmente spontaneo, una «corrente involontaria» secondo la definizione di Maria Corti,36 – e anche per questo tra i rari in cui il numero dei teorici non ha superato quello degli artisti –, il neorealismo ha avuto di fatto, forse anche proprio per questa assenza di dibattito critico già denunciata da Muscetta, una durata nel tempo piuttosto limitata, circoscritta a quella decina di anni intercorsi tra la fine della Seconda guerra mondiale e la metà degli anni Cinquanta. All’interno della carriera di un regista o di uno scrittore il neorealismo ha dunque rappresentato quasi sempre una fase limitata nel tempo, anche se non necessariamente la meno importante; inoltre, proprio per la sua breve durata, il neorealismo è stato attraversato da numerosi artisti già prima attivi su altri versanti e che ad altri versanti si sarebbero volti dopo aver esaurito quella esperienza. È poi da registrare il caso di scrittori e cineasti che hanno invece avviato la propria attività nel neorealismo e in esso l’hanno esaurita, perché quando hanno cercato di superarne gli schemi si sono perduti; così è accaduto, ad esempio, a Silvio Micheli dopo il successo di Pane duro e a Renata Viganò dopo il non meno fortunato L’Agnese va a morire, romanzi entrambi seguiti da prove meno riuscite; altri invece si sono volti a nuovi impegni, come Angelo Del Boca che, dopo il convincente Dentro mi è nato l’uomo, è passato a una meritoria attività di storico. C’è infine il caso, più di scrittori che di cineasti e forse più di poeti che di prosatori, dei molti che al neorealismo di fatto non hanno aderito ma che pure, più o meno consapevolmente, ne sono stati contagiati come in genere accade quando si diffondono massicci fenomeni di rottura che non possono non incidere sull’artista in cerca di una propria strada per uscire dagli stereotipi.

Per questa serie di motivi non è dunque facile riconoscere e definire i protagonisti del neorealismo, anche tenendo conto che alcuni grandi registi, come Luchino Visconti, e grandi scrittori, come Italo Calvino, sono nati proprio con il neorealismo, ma poi si sono avviati verso percorsi da esso tanto lontani che, avendo davanti agli occhi la loro articolata carriera ormai conclusa, sembra improprio definirli protagonisti del neorealismo, pur avendo offerto a esso un contributo decisivo proprio per definirne le sue principali e migliori qualità. Sarà allora più appropriato riconoscere i protagonisti del neorealismo tra quanti, ancora attivi anche dopo la metà degli anni Cinquanta e pur essendosi rinnovati, hanno comunque tenuto vivo un legame non tanto con i temi trattati nelle loro opere del dopoguerra, ma con la tensione civile che le aveva ispirate.

Roberto Rossellini È con Roma città aperta che nacque il neorealismo, del quale sembra dunque doveroso considerarne il regista, Roberto Rossellini (1906-1977), tra i maggiori protagonisti. Nato a Roma, si era avvicinato al cinema negli anni Trenta, dapprima come spettatore assiduo e privilegiato (suo padre era stato costruttore e poi proprietario del cinema Corso di Roma), ammiratore soprattutto dei film americani e di quelli di King Vidor in particolare, quindi come autore a livello amatoriale di alcuni cortometraggi. Parallelamente a queste prime esperienze, dominate soprattutto dal gusto per l’osservazione e per la riproduzione della natura nei suoi minimi aspetti, Rossellini cominciò a scrivere sceneggiature e si avvicinò alla vivace rivista «Cinema». Dopo la partecipazione alla sceneggiatura e alle riprese di Luciano Serra pilota (1938), diretto da Goffredo Alessandrini su soggetto e con la supervisione del figlio del duce, Vittorio, e dopo aver realizzato altri documentari sugli animali e sulla natura, nel 1941 Rossellini fu incaricato dal Centro

cinematografico del Ministero della marina di realizzare il documentario La nave bianca, incentrato sulle imprese e soprattutto sulle sofferenze dell’equipaggio di una nave ospedale, con i marinai e le infermiere del Corpo volontario a costituire il cast del film. Sottrattosi sia alla celebrazione esplicita del regime, sia alla spettacolarità propagandistica delle riprese, Rossellini di fatto aveva preparato un normale film a soggetto (firmando così la sua prima regia), nel quale rivolgeva la sua attenzione ai fatti quotidiani e all’antieroismo dei personaggi e riscopriva il valore del cinema come strumento di rivelazione della realtà nel suo farsi, così che «questo neorealismo ante litteram era prima d’ogni altra cosa una posizione morale».37 Su questo stesso piano si porranno anche i suoi due successivi film-documentari sulla guerra dedicati agli aviatori con Un pilota ritorna (1942) e ai fanti con L’uomo della croce (1943). Anche Roma città aperta, avviato nell’estate del 1944, doveva essere inizialmente un documentario su don Pietro Morosini, il prete fucilato dai nazisti, ma successive modifiche alla sceneggiatura anteposero la vicenda corale di Roma occupata all’episodio conclusivo dell’uccisione del sacerdote. Questo schema già indicava una delle future costanti del cinema di Rossellini: l’attesa della scena finale, sorretta da una posizione morale che non considera la storia né il racconto come obiettivo del film, inteso invece come forma artistica della verità e che dunque rifiuta il superfluo e lo spettacolare e va all’essenziale per affrontare e risolvere dei problemi. Dopo il pur ritardato successo di Roma città aperta, Rossellini realizzò nel breve volgere di due anni altrettanti film ancora incentrati sui temi della guerra e del dopoguerra: Paisà (1946) e Germania anno zero (1947). Il primo si componeva di sei episodi nei quali il regista sviluppava appieno la sua poetica dell’«attesa» di un evento che, sia pure temuto, giungeva in modi definitivi e comunque sconvolgenti; e anche qui, come in Roma città aperta, «la realtà del film, ossia l’autenticità della sua rappresentazione, superava i limiti della cronaca – del tempo storico – e coinvolgeva la posizione morale dell’individuo» (p. 61). Naturalmente in questi due film una componente non secondaria era costituita

dall’autobiografismo, ancor più importante poi in Germania anno zero, nato da un viaggio in Germania compiuto dal regista dopo una tragedia familiare e dunque per cercare tra le macerie di Berlino una ragione di vita per chi, e non solo nella Germania distrutta e sconfitta, doveva ricominciare tutto daccapo e ripartire appunto dall’«anno zero». Con questo film Rossellini voltava pagina e anche se la storia tragica del ragazzo educato al nazismo, giustiziere del padre considerato socialmente inutile e infine egli stesso suicida, era lo specchio di una nazione in crisi, Germania anno zero segnava il passaggio dal documentarismo allo psicologismo e indicava la strada principale poi seguita da Rossellini nella sua lunga carriera: quella di un cinema di sentimenti che tuttavia non dimenticava l’impronta decisiva del neorealismo, come apparirà in film anche profondamente diversi per i temi trattati: da L’amore (1948) a Francesco, giullare di Dio (1950), per passare a una nuova e psicologicamente più sottile versione del suo documentarismo con Viaggio in Italia (1953) e India (1958); e anche quando cercherà di ampliare i suoi orizzonti verso le vicende decisive della storia nazionale in Viva l’Italia (1960) o verso le biografie dei grandi della civiltà, da Socrate (1970) a Cartesius (1974), Rossellini continuerà a mantenere fede ai principi di ricerca della verità propri delle sue opere che avevano segnato la nascita del neorealismo. Questa lezione sarà presente anche in Messia (1975), girato solo due anni prima della sua morte e anch’esso inteso a porre «in luce i fatti salienti d’una esperienza di vita, seguita giorno per giorno quasi si trattasse di una cronaca» (p. 118).

Cesare Zavattini Una delle caratteristiche decisive del neorealismo fu la stretta collaborazione, già auspicata nell’articolo programmatico di Alicata e De Santis del 1941, tra scrittori e cineasti. E di ciò l’interprete più significativo fu senza dubbio Cesare Zavattini

(1902-1989), giornalista e scrittore emiliano (era nato a Luzzara in provincia di Reggio Emilia) che tra gli anni Trenta e Quaranta, dopo gli esordi nel 1926 con alcuni racconti, aveva scritto libri di prose orientati verso il surrealismo umoristico e sentimentale, come Parliamo tanto di me (1931), I poveri sono matti (1937) e Totò il buono (1943), scritti che gli varranno nel 1946 l’inclusione nell’antologia Italie magique (ristampata in italiano solo nel 1988 presso Einaudi) nella quale Gianfranco Contini aveva presentato i soli otto scrittori italiani autori di testi surreali. Intanto però Zavattini aveva cominciato a interessarsi al teatro (soprattutto quello di varietà e l’avanspettacolo) e al cinema, e nel 1935 un suo soggetto fu utilizzato dal regista Mario Camerini per realizzare il film Darò un milione (1935), mentre nel 1942 aveva fornito a Blasetti il soggetto per Quattro passi fra le nuvole. Risale al 1943, con I bambini ci guardano, l’avvio del suo fruttuoso sodalizio con Vittorio De Sica, regista «erede della più patetica napoletanità della sceneggiata e del romanzo popolare»,38 ma non per questo alieno da un’interpretazione ben programmata del suo ruolo. Dopo l’interlocutorio La porta del cielo (1944), la collaborazione con De Sica – nella quale «Zavattini sceneggiatore umilmente porta l’acqua al mulino del regista con una fioritura di invenzioni che stringono le indicazioni e le frasi, in parte inerti dei copioni, nell’organica totalità dei capolavori visivi»39 – porterà alla realizzazione di alcuni dei film esemplari del neorealismo. Essi affrontavano prevalentemente il tema della partecipazione alle sventure degli umili, da Sciuscià (1946) a Ladri di biciclette (1948) e quindi a Umberto D. (1952), che di fatto rappresenterà l’ultima altissima prova dell’avventura neorealistica, per non dire del meno «ortodosso» Miracolo a Milano (1951), che ispirandosi al suo romanzo Totò il buono, dal quale riprendeva quel sogno di utopia che era tra le caratteristiche più forti di Zavattini, trasferiva nel settentrione lo sfondo fino ad allora prevalentemente centro-meridionale del cinema socialmente impegnato; e la celebre aspettativa di un «paese in cui buongiorno vuol dire veramente buongiorno» che chiude il film risponde all’esigenza che «le parole debbano combaciare con le cose oltre le nuvole e il cielo. Non in un paradiso

cristiano, ancorché tracce di riflessione spirituale non facciano difetto in Za, ma invece in un paradiso umano e sociale».40 E se Sciuscià presentava la cronaca asciutta del dramma del dopoguerra mescolata a elementi favolosi portati dalla presenza di protagonisti-bambini, anche in Ladri di biciclette all’osservazione minuta dei gesti dei protagonisti e dei contorni dello sfondo si accompagnava una più profonda riflessione sul destino umano, sollecitata da una piccola storia un po’ patetica, come era nelle corde di De Sica, e un po’ allegorica, secondo il temperamento più fantasioso, leggero e ingenuo di Zavattini. Questa apertura non deve però indurre a credere che la sua natura favolistica e ironica si scontrasse con le esigenze del neorealismo, al quale invece egli seppe dare un’impronta tutta sua e quanto mai opportuna per sganciarlo dalla piattezza cronachistica di tante pellicole. In più occasioni, del resto, egli affermò che il «bisogno di verità» doveva essere l’unica guida del cinema italiano e, respingendo l’intreccio narrativo, sostenne la necessità di «inseguire», quasi «pedinare» la realtà per giungere a «fare irrompere nello spettacolo, come supremo atto di fiducia, novanta minuti consecutivi della vita di un uomo» (p. 101). Quando inizierà la parabola discendente del neorealismo, Zavattini dapprima tornerà all’esaltazione dei valori della tradizione popolare in Prima comunione (1950) di Blasetti e alla verifica della vanità dei beni terreni in Bellissima (1951) di Visconti, per riprendere poi l’intesa con De Sica in Stazione Termini (1953), che già appartiene al versante del cinema industriale fondato sul fascino dei divi. E quando anche si farà più forte la stretta di una politica governativa che peraltro aveva sempre osteggiato il neorealismo e il cinema di denuncia, da Andreotti al nuovo sottosegretario allo Spettacolo Oscar Luigi Scalfaro – che il 6 aprile 1955 raccomandava la necessità del cinema di «dare al pubblico un senso di riposo dopo le fatiche della giornata, senza creare il tormento di complicati stati d’animo»41 – Zavattini si rese firmatario con altri cineasti di un manifesto che ribadiva l’impegno comune a creare opere nelle quali «corre sempre lo stesso spirito italiano che manifesta la speranza che il mondo sarà migliore, deve essere migliore».42

Il sodalizio con De Sica darà in seguito altri film importanti, dal drammatico La ciociara (1960) al dissacratorio Il giudizio universale (1961) a Il boom (1963), centrato sulle contraddizioni del nostro paese attraversato da un progresso apparente e fittizio. Messa a frutto la sua inclinazione per il film-inchiesta, dalla quale deriverà I misteri di Roma (1963), negli anni seguenti continuerà la sua attività nel cinema contribuendo ancora con De Sica alla realizzazione di film di successo come Matrimonio all’italiana (1964) e Il giardino dei Finzi-Contini (1971), sino a farsi infine regista e interprete di La veritaaa uscito nel 1982, sette anni prima della sua morte.

Elio Vittorini Potrebbe sembrare improprio inserire tra i protagonisti del neorealismo quell’Elio Vittorini del quale Uomini e no è «l’unico romanzo che, almeno parzialmente, può rientrare nel neorealismo».43 Del resto che la vena narrativa del siracusano Elio Vittorini (1908-1966) andasse al di là del reale era apparso chiaro dalla sua dichiarazione di stima incondizionata per Proust, Gide e Svevo espressa nel già citato articolo Scarico di coscienza («Italia letteraria», 13 ottobre 1929), ma anche dai suoi primi racconti di Piccola borghesia (1931), di chiara impronta sveviana. Sul versante lirico erano invece orientate le pagine di viaggio di Sardegna come un’infanzia (1932), mentre un’apparente attenzione per la politica dominava le pagine del suo primo romanzo concluso, Il garofano rosso (1933-36), che però, dietro la storia di un giovane attratto dal fascismo non per convinzioni ideologiche ma piuttosto per ostilità verso il socialismo sostenuto dal poco amato padre, di fatto raccontava una formazione giovanile seguendo ancora modelli stranieri, da Gide al Lawrence di Figli e amanti. E quando in Erica e i suoi fratelli (1936) aveva affrontato un tema spiccatamente sociale, la disgregazione familiare con il conseguente disagio dei figli che nel caso della

piccola protagonista sfociava nella prostituzione, neppure allora Vittorini aveva optato per l’adesione al reale, preferendo invece puntare sul favoloso; così come punterà sul versante lirico-simbolico nella ricognizione della sua terra d’origine nel suo più complesso e più importante romanzo Conversazione in Sicilia (1941). Tuttavia da queste opere, che sfiorano l’impatto con la concretezza della realtà evitandola soprattutto grazie a un’opzione linguistica di grado medio-alto e comunque meditata, Vittorini lasciava trapelare una volontà inespressa di mettere sotto accusa quel sistema politico di regime al quale aveva inizialmente prestato fiducia, ma che ormai sempre più gli si era rivelato tirannico e violento. Egli aveva però affidato questa volontà di denuncia soprattutto alla sua attività di traduttore e di consulente editoriale; e in questa luce si può vedere il suo impegno, assunto presso Bompiani all’inizio degli anni Quaranta di fondare una collana popolare adatta alle esigenze di lettori autodidatti e curiosi, spesso confinati nelle periferie e con studi limitati, e proprio per questo aperti a una letteratura di «cose» più che di parole, pressoché estranea alla nostra tradizione e invece diffusa nelle civiltà giovani, quale soprattutto quella nordamericana. Di qui le numerose traduzioni di Vittorini o da lui promosse e nel 1941 la sua celebre, e allora censurata, antologia Americana, punto di arrivo di quel percorso che vedeva nell’America non solo un termine di riferimento civile ma anche, come pure il viaggio in Sicilia di Conversazione, una «possibilità di riscatto, la prospettiva di una vita non più legata alla catena di un bisogno incolmabile, un mito non intellettuale ma connesso a esigenze elementari e concrete»,44 che erano state la causa prima della massiccia emigrazione dalla Sicilia a partire dall’inizio del Novecento.45 Quando, a guerra ancora in corso, lo scrittore siciliano si accinse a raccontare in un romanzo, Uomini e no (1945) – il primo uscito a guerra conclusa sulla Resistenza – lo sconvolgimento provato dalla tragedia cui stava assistendo, ecco allora che le tante letture straniere e i tanti modelli di scrittori senza fronzoli e tutti immediatezza ruppero la scorza del narratore mitico-lirico portandolo sul piano dell’impegno

diretto e della scrittura che mirava all’essenza delle cose, cioè sulla lunghezza d’onda di quel movimento neorealista che proprio allora stava prendendo forma e che dalle pagine del suo «Politecnico» egli stesso avrebbe incoraggiato quasi facendosene caposcuola. Quando però, solo pochi anni più tardi, nel romanzo Le donne di Messina (1948), affrontò un altro tema tipicamente neorealistico – le difficoltà della ricostruzione nel dopoguerra –, egli tornò alla fusione degli elementi impellenti della realtà con quelli del sogno e dell’utopia, secondo un orientamento che si farà sempre più spiccato anche nelle successive, tormentatissime pagine dell’incompiuto e quindi postumo Città del mondo, uscito nel 1969, tre anni dopo la sua scomparsa avvenuta a Milano e dieci dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo La Garibaldina (1956). E tuttavia anche in questo periodo rimase viva in Vittorini una forte contraddizione tra la propria opera di scrittore non diretto e quindi non «facile» e la sua attività di scopritore di talenti, alla ricerca quasi ossessionata di scrittori, capaci di andare all’essenza dei problemi con il taglio asciutto del cronista e con la capacità di far conoscere una precisa, e spesso ingiusta e misera, realtà. Lungo questa strada, che era appunto quella del neorealismo, Vittorini aveva dunque indirizzato decine di scrittori, da lui stimolati a combattere quella battaglia culturale in nome della verità che egli non era riuscito a vincere né dirigendo «Il Politecnico», né attraverso le molteplici iniziative promosse presso le maggiori case editrici italiane e concluse con la fondazione, nel 1959, con Italo Calvino della rivista letteraria «Il Menabò», «insieme vetrina di testi creativi e luogo di discussione»46 che concluderà il suo percorso di dibattito (con agganci ripetuti al neorealismo e al postneorealismo) e di scoperta (sulle sue pagine aveva esordito Lucio Mastronardi con Il calzolaio di Vigevano) nel 1966 con la morte di Vittorini.

Marcello Venturi

Tra le decine di scrittori scoperti da Vittorini, Marcello Venturi (1925-2008) rimane quello che più compiutamente ha rappresentato i migliori influssi esercitati dallo scrittore siciliano sulla narrativa italiana. Sollecitato dall’invito rivolto ai lettori sul primo numero del «Politecnico» a collaborare per giungere a realizzare una nuova cultura, Venturi mandò alcuni suoi racconti a Vittorini che, dopo averlo seguito con consigli e suggerimenti di letture, lo accolse tra i collaboratori del «Politecnico» all’inizio del 1946 con un paio di racconti e poi, nell’ambito di un progetto volto a pubblicare sulla rivista testimonianze di scrittori sulla realtà sociale della provincia italiana, gli chiese «una brevissima storia economica, politica, culturale» del suo paese: «ma tutto deve essere raccontato, vivo».47 Era così iniziata la carriera di scrittore dell’irregolare Marcello Venturi sotto il segno di Vittorini che, a partire dal maggio 1946, lo avviò a collaborare alle terze pagine dell’«Unità» con racconti che, per temi e per scrittura, rappresentavano l’essenza del neorealismo: un’opportuna miscela di fiducia nel futuro e di disprezzo per i responsabili della guerra, di esaltazione tuttavia non cieca della Resistenza e di consapevolezza della gravità dei problemi del dopoguerra, soprattutto nei paesi dall’economia stentata. All’interno di queste costanti, Venturi aveva elaborato una tecnica narrativa non priva di originalità; intanto i suoi protagonisti, diversamente dai consueti cliché, per lo più non cadevano vittime di imboscate o di scontri a fuoco con i nemici, ma preferivano suicidarsi piuttosto che consegnarsi alle forze nemiche. Così capitava appunto in Cinque minuti di tempo (premiato al concorso dell’«Unità» genovese) e in Gli assediati, definito «il tuo più bel racconto» da Calvino, il quale tuttavia gli rivelava un suo nuovo (e inquieto) proponimento: «Forse è bene che smettiamo di scrivere di partigiani, se no cadiamo nella cifra. E cosa scriviamo poi? Dove potremo avere un’esperienza tanto completa come quella della Resistenza?».48 Meno problematico di Calvino e avvertendo ancora l’onda lunga del neorealismo avviata dalle colonne del «Politecnico», Venturi continuò invece a scrivere racconti sulla Resistenza che a mano a mano rivelarono con sempre maggiore forza la sua qualità migliore: la capacità,

analoga al senso dell’attesa dei film di Rossellini, di non lasciare intuire l’epilogo della vicenda e di riuscire a tenere il lettore con il fiato sospeso sino all’ultima parola; e seguendo questa tecnica scrisse il racconto La ragazza se ne va con Diavolo («l’Unità», edizione milanese, 30 giugno 1946), nel quale una donna assumeva un ruolo attivo (e non di portaordini o di staffetta) nella lotta contro i nazifascisti. Di lì a qualche anno, però, il tema resistenziale andò esaurendo la sua urgenza anche per Venturi, passato allora a raccontare la sua nostalgia per i paesi e le stazioncine dell’infanzia, tra il mare della Versilia e gli Appennini pistoiesi, senza però che a questo mutamento tematico corrispondesse un diverso modo di porsi davanti alla pagina poiché rimaneva costante l’impegno civile, la «predisposizione naturale a stare dalla parte dei povericristi, che in quei giorni abbondavano» (p. 128). E proprio questa fedeltà a un impegno di rappresentazione non banale della realtà, ma sempre più finemente e abilmente elaborata, ha fatto di Venturi, anche nelle pagine dei successivi racconti lunghi di Dalla Sirte a casa mia (vincitore nel 1952 del premio Viareggio), lo scrittore che ha saputo esprimere le caratteristiche migliori della narrativa neorealistica, tale anche per la già ricordata investitura ricevuta nel 1956 da Vittorini che, pubblicando in uno degli ultimi «Gettoni» il suo racconto lungo Il treno degli Appennini, definì lo scrittore toscano uno tra i primi che «cercarono di scrivere nella direzione narrativa che allora si sollecitava da varie parti (cominciando dal “Politecnico”) e che poi, diventata anche cinematografo, ha preso da questo, per via dei più felici risultati di questo, il nome di neorealismo». Ma è anche vero che in successivi tempi di sostanziale incomprensione nei confronti del neorealismo, la sua stretta identificazione con quel momento ha costituito per lui una pesante ipoteca, senza che si tenesse nel dovuto conto proprio il suo modo di narrare «poco problematico e tutto rappresentativo»,49 dote che a tutt’oggi sembra la più apprezzabile eredità del neorealismo. Venturi rimarrà poi fedele al suo modo di raccontare e di impegnarsi alla ricerca di verità anche scomode, sia che ciò riguardasse il ricordo dei suoi anni giovanili come in Più

lontane stazioni (1970), Tempo supplementare (2000) e nel suo ultimo libro di racconti All’altezza del cuore (2008), sia che si riferisse al suo presente di proprietario terriero, come in Il padrone dell’agricola (1979), sia ancora che tornasse su una guerra sconvolgente non solo per chi era caduto in difesa della libertà come nel suo romanzo più noto Bandiera bianca a Cefalonia (1963), che raccontava l’eccidio di migliaia di soldati italiani compiuto dai tedeschi nell’isola greca rimasto a lungo nascosto – tema sul quale ritornerà nel romanzo Il nemico ritrovato (2005) –, ma anche per chi si era trovato a combattere tra i fascisti come nell’inquietante Dalla parte sbagliata (1985).

Franco Matacotta Il primo risultato dell’attività in versi di Franco Matacotta (1916-1978), laureatosi nel 1939 all’Università di Roma (dove nel 1936 aveva conosciuto Sibilla Aleramo) con una tesi su Ungaretti, furono i Poemetti (1941) che recavano sensibili echi classici e della tradizione leopardiana e dannunziana nonché di Valery e Rilke, ma si segnalavano soprattutto per il convinto tentativo di rottura nei confronti dell’allora dominante ermetismo. La guerra vide Matacotta prima soldato nell’esercito italiano in Sardegna e poi attivo tra le fila della Resistenza marchigiana, dove assunse il nome di Francesco Monterosso con il quale firmerà alcuni suoi libri. Scoperta in guerra una nuova dimensione della vita, meno individuale e più coinvolta dal fluire degli eventi esterni, egli ne trasse spunto per un poetare segnato in profondità da quella tragedia, concretatosi nella raccolta Fisarmonica rossa, pubblicata nel 1945 e comprendente testi scritti a partire dal 1942. E proprio Ottobre 1942 si intitolava la lirica di apertura, suggerita dai due tragici eventi militari di allora: la sconfitta italiana di El Alamein e la battaglia di Stalingrado; al centro della disfatta era l’uomo reso impotente dal turbine della guerra che portava alla mutilazione del corpo e della mente richiamata drammaticamente sin dai due versi iniziali: «Ce ne stiamo

rigidi e murati / con le cataratte sugli occhi» – e poi precisata in un crescendo che avrà il suo sigillo nell’ultima quartina – «Siamo cechi, storpi, mutilati / Non abbiamo più volto, né pietà. / Campane, nebbia immensa, vento nero. / Mutilati per l’eternità». In questi e nei versi dei successivi componimenti della raccolta, Matacotta si rendeva vibrante interprete più dei drammi della gente comune che delle sue speranze; e proprio questo rapporto diretto con i suoi personaggi e i suoi lettori lo spingeva alla semplicità del linguaggio e delle rime, talora in forma di filastrocca e di cantilena, per trovare uno strumento espressivo immediato e facile, adatto a rappresentare in versi i nuovi temi dell’epica popolare: dalla Resistenza alla festa del lavoro, all’occupazione delle terre, come vedremo pure nella successiva e più ampia raccolta Canzoniere di libertà (1953), comprendente anche La terra occupata. Coro parlato di contadini (1946). Sorretto da una forte passione politica che però non scadeva quasi mai nel tono oratorio né limitava la sua creatività fantastica, Matacotta riusciva a fondere il lirismo con la violenza della guerra come, ad esempio, nell’avvio della poesia L’Europa è una luna, dove all’immagine del primo verso, che intitolava il componimento, seguiva tutta la drammaticità del secondo, «piena di crateri e di tombe», per rendere qui la luna, simbolo positivo della poesia romantica, segno della distruzione dell’Europa. Un’altra caratteristica dei versi di Matacotta consisteva nella loro organizzazione in voci collettive – una sorta di coro della tragedia greca o meglio della sacra rappresentazione, come appariva dal recupero della terminologia religiosa in alcuni componimenti –, espresse con il passaggio del soggetto dalla prima persona singolare alla prima plurale, dove il «noi» «equivaleva quasi sempre a un “noi giovani”»,50 segno di un’identità generazionale tra i suoi protagonisti e gli ideali sostenuti. Lo scorrere del tempo non riduceva le vibrazioni della passione politica di Matacotta, autore nel 1946 anche del romanzo La lepre bianca, e ribadiva negli anni Cinquanta,

quindi durante la parabola discendente del neorealismo, la matrice morale dei suoi versi civili nella raccolta I mesi (1956), ma soprattutto nei Versi copernicani (1957), suggeritigli dalla rivolta ungherese e segnati dalla profonda delusione per la repressione sovietica. Come naturale reazione, Matacotta tornava a una poesia più raccolta e familiare in Gli orti marchigiani (1959) che, al di là di alcuni scorci della vita di periferia che potrebbero richiamare il Pasolini delle Ceneri di Gramsci, affrontava temi esistenziali; il poeta marchigiano tornerà quindi all’impegno in La peste di Milano e altri poemetti (1975), dove la metropoli moderna, figlia del capitalismo, è individuata come sede di una nuova pestilenza negatrice della solidarietà umana; e infine, a chiudere un cerchio apertosi con la mitologia classicheggiante dei Poemetti, nel 1977, solo un anno prima della morte, Matacotta pubblicava il Canzoniere d’amore, dove i temi privati e l’erotismo suscitato dalla presenza della donna amata dettavano versi che anticipavano il perdersi dell’uomo verso le tenebre della morte. 36 Maria Corti, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, p. 22. 37 G. Rondolino, Roberto Rossellini, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 46. 38 F. Di Giammatteo, Lo sguardo inquieto. Storia del cinema italiano (1940-1990), Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 80. 39 G. De Santi, Ritratto di Zavattini scrittore, Reggio Emilia, Imprimatur, 2014, p. 213. 40 Ibidem, pp. 431-2. 41 Cit. in L. Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano 1945-1980, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 91. 42 C. Lizzani, Il cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 223. 43 M. Corti, op. cit., p. 71. 44 E. Esposito, Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli, 2011, p. 81 45 Dai 20.000 siciliani emigrati nel 1897 si era saliti a 55.000 nel 1902 e a 128.000 nel 1906 con cifre ancora crescenti fino all’inizio della Grande Guerra. Questo fenomeno destò l’interesse di non pochi scrittori siciliani, Luigi Pirandello primo tra tutti, che scrisse l’intensa novella L’altro figlio (1905), seguito da Luigi Capuana e Maria Messina, mentre nel dopoguerra saranno memorabili alcuni racconti di Leonardo Sciascia; cfr. F. De Nicola, Gli scrittori italiani e l’emigrazione, Formia, Ghenomena, 2008, pp. 75-80. 46 E. Esposito, op. cit., p. 182.

47 E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977, p. 39. 48 M. Venturi, Sdraiati sulla linea, cit., p. 126. 49 G. Manacorda, Vent’anni di pazienza, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 437. 50 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Torino, Einaudi, 1980, p. 27.

L’EREDITÀ DEL NEOREALISMO

Il cinema verso la commedia all’italiana Sin dall’inizio degli anni Cinquanta il gusto predominante del pubblico si era considerevolmente trasformato, nel senso di una tendenza sempre più marcata a dimenticare i drammi e le miserie della guerra e del dopoguerra e a guardare al cinema – ancora per pochi anni occasione principale in Italia di divertimento di massa prima dell’inizio della poi sempre più dilagante e inarrestabile era televisiva (1954) – soprattutto come fonte di divertimento o semmai di commozione, ma non certo come strumento per mettere a fuoco e per capire gli insoluti problemi del paese. Del resto il neorealismo aveva rivalutato un’Italia arcaica e popolana, alla ricerca «della gente di buon cuore che abita le campagne e i suburbi»,51 dai parroci eroici di Roma città aperta ai pescatori di Paisà, dai ragazzini ingegnosi di Sciuscià e Ladri di biciclette ai barboni di Miracolo a Milano, ai pensionati affamati di Umberto D.;52 ma da questo quadro mancavano sia gli operai, sia quella piccola borghesia che sarà la prima beneficiata dall’incipiente boom economico. Ecco perché allora incontrarono grande favore i film leggeri che semplificavano e spesso banalizzavano la realtà italiana contemporanea. Il loro successo fu tanto clamoroso che in più occasioni, dopo il primo episodio, si realizzarono serie di film, come nel caso di Don Camillo (1952) di Julien Duvivier, che riprendeva da Guareschi una soluzione bonaria del contrasto tra comunisti e cattolici, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, che presentava l’evoluzione verso il progresso anche nella provincia italiana all’ombra della tutela dei carabinieri, e Poveri ma belli (1956) di Dino Risi, che interpretava le fiduciose aspettative di benessere dei giovani piccolo-borghesi della grande città. Anche se lo sfondo umano e sociale di questi film veniva rappresentato con un approccio diretto (ma piuttosto superficiale) alla realtà – ancora supportato dall’uso

del dialetto sempre più identificabile nel romanesco –, tuttavia l’impegno sociale del neorealismo era ormai lontano da queste pellicole, suggerite essenzialmente dal proposito di assecondare i gusti più facili del pubblico. Se qualche regista voleva sottrarsi a tale tendenza, si trattava pur sempre di casi piuttosto isolati di cinema impegnato, come I vinti (1952) di Antonioni, Il sole negli occhi (1953) di Pietrangeli, Cronache di poveri amanti (1954) di Lizzani. Ma intanto, anche a causa dell’inconsistenza industriale del nostro cinema, i maggiori incassi andavano a pellicole americane o alle coproduzioni italoamericane, nel qual genere restava clamoroso il successo toccato all’Ulisse (1953) di Camerini interpretato da divi quali Kirk Douglas, Antony Quinn e Silvana Mangano. Quanto ai film italiani, tra i più visti furono il melodrammatico napoletano Core ‘ngrato (1951) di Guido Brignone, le biografie romanzate Giuseppe Verdi (1953) di Raffaele Matarazzo e Puccini (1953) di Carmine Gallone e naturalmente Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954) di Luigi Comencini. Proprio queste ultime pellicole avevano contribuito a lanciare la commedia all’italiana, che «da una parte sapeva ricollegarsi all’etica ansia di verità derivante dalle fuggevoli esperienze del naturalismo e del neorealismo, dall’altra era in grado di saldare la frattura che nella loro urgenza pedagogica quelle austere stagioni cinematografiche avevano finito col creare tra lo schermo e il pubblico»;53 e così da un bizzarro connubio tra il neorealismo – dal quale recuperava «la predilezione per gli esterni utilizzati come sfondo scenografico» – e la comicità da rivista – «da cui ereditava il gusto per l’annotazione pungente e per la situazione satirica» (p. 17) –, prese vita un ricco filone comprendente in gran parte opere mediocri che miravano a conquistare il pubblico dai gusti più facili e poi opportunamente dimenticate, ma anche film non privi di qualità e di possibilità di durata come I soliti ignoti (1958) di Monicelli, Divorzio all’italiana (1961) di Germi, Il sorpasso (1962) di Risi e Dramma della gelosia (1970) di Scola, film che, girati senza un dichiarato impegno sociale, riuscivano a offrire efficaci spaccati dell’Italia

contemporanea e dei cambiamenti del costume e dai quali spesso neppure mancava l’epilogo drammatico. L’affermazione della commedia all’italiana non valse a soffocare del tutto i film «impegnati», tra denuncia e indagine sociale, dal piglio documentaristico e oggettivo come la biografia del bandito Salvatore Giuliano (1961) e l’accusa agli speculatori dell’edilizia di Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, regista più tardi anche di Uomini contro (1970) che, ispirandosi al libro Un anno sull’altipiano (1937) di Emilio Lussu, aveva offerto una rappresentazione di forte denuncia antimilitarista della Grande Guerra, e quindi del Caso Mattei (1972) sulla misteriosa scomparsa di uno dei più potenti uomini italiani. Si segnalava poi il ritorno ai temi resistenziali di La lunga notte del ‘43 (1960), suggerito da uno dei più intensi racconti di Giorgio Bassani inclusi nelle Storie ferraresi (1955), e la cronaca di criminalità metropolitana di La banda Casaroli (1962) di Florestano Vancini, la storia imperniata sul rapporto carnefice-vittima in un Lager nazista di Kapò (1959) e La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, un «lacerto impazzito di un neorealismo che ha ancora qualcosa da dare» (F. Di Giammatteo, op. cit., p. 280) in un’appassionata rivendicazione di libertà per gli oppressi, mentre sui diritti umani dei più deboli, come erano stati i nostri emigrati in America, si era impegnato Giuliano Montaldo in Sacco e Vanzetti (1970). Peraltro temi tipicamente neorealisti saranno trattati anche su registri del tutto rinnovati, come nell’affresco familiare di Rocco e i suoi fratelli (1960), dove Visconti affrontava in chiave epico-corale il tema dell’emigrazione interna, o in Accattone (1961), dove Pier Paolo Pasolini trattava in chiave lirica il disagio dei ragazzi delle borgate romane.

Il bestseller italiano La fine del neorealismo, sancita dalle polemiche tra critici e ribadita indirettamente nel 1956 dalla crisi del comunismo a

seguito della repressione sovietica in Ungheria, nei fatti propriamente letterari e cinematografici era stata testimoniata da alcuni episodi decisivi accaduti nella seconda metà degli anni Cinquanta. Intanto erano usciti dei romanzi che, proprio usando ingredienti tipici del neorealismo, come ad esempio il dialetto romanesco in Ragazzi di vita (1955) di Pier Paolo Pasolini o quello romanesco-molisano in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda, tendevano a obiettivi ormai lontani dall’impegno sulla realtà degli scrittori del dopoguerra; e in quella stessa seconda metà degli anni Cinquanta Fenoglio, che già nella Malora aveva preso le distanze dal neorealismo pur affrontandone il tipico tema dell’arretratezza contadina, stava compiendo la stessa operazione di sganciamento dal neorealismo addirittura trattando il tema della Resistenza in quello straordinario romanzo antieroico che sarà il postumo Partigiano Johnny (1968), peraltro anticipato dal pure apprezzabile Primavera di bellezza (1959). Un’altra indicazione importante sul tramonto del neorealismo si ebbe con il primo clamoroso caso di un romanzo italiano, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato da un editore di sinistra (Feltrinelli) e giunto a vendite solitamente toccate solo da libri di consumo ma di modesta qualità o da opere di autori di grande impatto popolare, come Giovanni Guareschi per il versante del costume o come Liala per il versante sentimentale. Uscito nell’ultimo scorcio del 1958, Il Gattopardo raggiunse le 150.000 copie vendute dopo l’affermazione nell’estate seguente al premio Strega: il maggior successo letterario alla vigilia degli anni Sessanta, divenuto poi nel 1963 anche un grande successo cinematografico nella versione di Visconti, era dunque un tipico romanzo ottocentesco sulla Sicilia nobile e conservatrice dal tempo dell’Unità d’Italia in avanti, cioè quanto di più lontano da quel neorealismo del quale questo libro non recava alcuna traccia. Con Il Gattopardo si era dunque aperta la strada del bestseller italiano, percorsa negli anni successivi da altri due romanzi che ebbero un non meno rilevante successo: La ragazza di Bube (1960) di Carlo Cassola e Il giardino dei

Finzi Contini (1962) di Giorgio Bassani: il primo, storia partigiana sulla linea di Fausto e Anna ma con un’accentuata attenzione ai turbamenti e alle sofferenze dei personaggi e soprattutto della protagonista femminile Mara; il secondo, storia della comunità ebraica ferrarese alla vigilia della guerra, raccontata in toni elegiaci e intimisti e senza che della tragedia dell’olocausto si trovino più di scarsi accenni. Sia La ragazza di Bube sia II giardino dei Finzi Contini recuperavano dunque temi propri del neorealismo, affrontati però con un linguaggio formalmente più accurato e tradizionale e da un’angolazione di fatto estranea all’impegno civile e politico e semmai portata su un piano esistenziale. Bassani e Cassola furono dunque gli autori che con maggior presa sul pubblico avevano interpretato quella crisi ideale, ma anche stilistica, diffusa nella cultura italiana a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, e proprio il dilagante successo di queste opere aveva portato i loro detrattori a definirli «le Liala della letteratura italiana». E i loro detrattori non potevano essere che gli sperimentalisti della neoavanguardia, poi artefici del Gruppo 63 guidati da Edoardo Sanguineti. Lamentando la piattezza ripetitiva e fredda degli ormai ultimi epigoni del neorealismo e approfondendo le ragioni esposte da Muscetta al tempo della polemica su Metello, essi sottolineavano la vena decadente ed elegiaca delle pagine di Bassani e Cassola; sempre maggiore era poi la loro convinzione che la letteratura non debba avere una funzione conoscitiva, né possa dare all’uomo alcun giovamento, come veniva persuasivamente sostenuto nel dibattito a più voci ospitato sulla rivista «Grammatica» nel novembre 1964: «Non è affatto vero che la letteratura si riporti al problema dell’uomo, la letteratura in primo luogo è letteratura, cioè un gesto non solo arbitrario ma spesso anche abbondantemente vizioso». E così, neppure vent’anni dopo la sua vivacissima e civilmente speranzosa nascita, il neorealismo trovava la sua negazione più assoluta.

Più lontani echi della Resistenza

Questo nuovo orientamento del gusto letterario, peraltro non univoco e anzi poi di fatto poco risolutivo nel determinare una nuova produzione narrativa al di là delle centinaia di dibattiti spesso sterili sul tema, non impedì che si tornassero ad affrontare, sia pure con nuovi strumenti e con nuovi obiettivi, gli argomenti più propri del neorealismo, la guerra partigiana su tutti, anche in seguito ad alcune vicende nazionali che, come il governo Tambroni del 1960, facevano temere un ritorno dei fascisti sulla scena politica italiana. Ecco allora il corposo romanzo di Mario Tobino Il clandestino (1962), che raccontava la Resistenza in Versilia con la consueta attenzione formale di eredità rondista dello scrittore toscano; nel 1963 usciva postumo Una questione privata di Beppe Fenoglio, «il romanzo che tutti avevamo sognato […] il libro che la nostra generazione voleva fare»,54 tormentata storia d’amore vissuta da un partigiano inquieto sulle Langhe nell’autunno del 1944. Ancora nel 1963 Giovanna Zangrandi pubblicava I giorni veri, romanzo asciutto e tuttavia vibrante sulla partecipazione femminile alla Resistenza nello scenario insolito delle Dolomiti ampezzane, così come Marcello Venturi dava alle stampe il già citato Bandiera bianca a Cefalonia, sconvolgente romanzo-reportage sulle responsabilità dell’eccidio compiutosi all’indomani dell’8 settembre, nel quale i tedeschi della Wermacht fucilarono migliaia di soldati italiani che, nell’isola greca, si erano arresi dopo aver combattuto generosamente contro le preponderanti e agguerrite forze dei «nuovi» nemici. Una nuova strada, giocata soprattutto sul piano del linguaggio, per raccontare una Resistenza provocatoriamente antiretorica era percorsa da Luigi Meneghello in I piccoli maestri (1964), mentre una Resistenza vibrante di entusiasmo, ma non immune da gratuito spirito di avventura in un generale quadro elegiaco, occupava alcune pagine del corposo romanzo di Elsa Morante La storia (1974). La lotta partigiana assumeva invece un più dilatato significato simbolico del conflitto filosofico tra bene e male nel denso romanzo resistenziale Come un fiume, come un sogno (1985) di Elena Bono, mentre lo sbarco alleato in Sicilia offriva a Eugenio Vitarelli l’occasione per riflettere nel romanzo Placida (1987) sulla distruzione senza ritorno portata dalla guerra dentro gli uomini e nel paesaggio. Ora, in

tutte queste opere di argomento resistenziale l’eredità del neorealismo appariva complessivamente modesta, per lo più limitata alla scelta tematica, affrontata con una cura stilistica attenta e come pretesto per riflettere su problemi non più collettivi, ma ormai quasi sempre individuali.

La narrativa di denuncia Se nella narrativa italiana si vuole riconoscere un’eredità dell’impegno civile che fu carattere distintivo del neorealismo, questa si trova piuttosto, anche se con un lavoro di scrittura normalmente più scaltro e raffinato, in opere di denuncia sollecitate dai nuovi problemi della società italiana contemporanea: e di fatto sarà proprio questa l’eredità effettiva e più consistente lasciata dal neorealismo anche non pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Alcuni grandi temi hanno offerto lo spunto ai nostri scrittori per opere di forte presa (spesso poi recuperate dal cinema) a cominciare dall’intera produzione di Leonardo Sciascia, prima rivolta generalmente ad affrontare il problema della mafia in racconti lunghi di grande successo come Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966) e Todo modo (1974), per passare poi a occuparsi di terrorismo in L’affaire Moro (1978) e Nero su nero (1979), e quindi di insoluti misteri o di ambigue cronache giudiziarie della storia italiana in La scomparsa di Majorana (1975), Porte aperte (1987) e Una storia semplice (1989); il taglio di queste opere era essenzialmente indagativo e affidato a meccanismi razionali che poco concedevano alla partecipazione emotiva dello scrittore e tuttavia sapevano coinvolgere profondamente il lettore, catturato dai meccanismi della migliore tradizione del romanzo poliziesco. Un altro aspetto del sottosviluppo del Mezzogiorno era dato dall’emigrazione e proprio alla denuncia della condizione spesso umiliante toccata agli italiani costretti a lasciare la patria ha dedicato pagine importanti Giose Rimanelli, già autore di Tiro al piccione (1953), discusso romanzo sulla

guerra civile vista dal versante repubblichino, e poi degli intensi romanzi sull’emigrazione in America, Peccato originale (1954) e Una posizione sociale (1959), ancora ascrivibili all’area neorealista anche per gli echi accentuati degli americani, e di Faulkner soprattutto, nella descrizione delle nostre desolate e povere campagne. Più tardi Saverio Strati affronterà il tema delle umiliazioni toccate ai nostri emigranti in Svizzera in Noi lazzaroni (1972), dove predominante era l’attenzione per la componente ideologica e per la spinta all’acquisizione di una più matura coscienza di classe da parte delle masse meridionali tenute secolarmente nell’indigenza e nell’ignoranza; e ancora storie di emigranti negli Stati Uniti racconterà Rodolfo Di Biasio nel romanzo I quattro camminanti (1991), il cui tono essenzialmente lirico (a quest’opera l’autore era giunto dopo una pregevole attività in poesia) non tralasciava però lo sfondo storico e minutamente quotidiano. E se il tema dell’emigrazione italiana era stato pressoché ignorato dai nostri scrittori quando rappresentava uno sconvolgente fenomeno di massa (con le ragguardevoli eccezioni del romanzo Sull’Oceano di Edmondo De Amicis del 1889 e del poemetto Italy di Giovanni Pascoli del 1905), quando ormai l’Italia, sul finire del Novecento, era divenuta più terra di arrivi che di partenze il tema tornò di attualità anche grazie ad alcune autrici come Marisa Fenoglio (sorella diversamente ma non meno talentuosa di Beppe) che in Vivere altrove (1995) ha raccontato la sua emigrazione a metà anni Cinquanta in quella Germania che ancora guardava se non con rancore almeno con sospetto gli italiani; e come Laura Pariani, che in Quando Dio ballava il tango (2002) e poi in Dio non ama i bambini (2008) aveva riferito sulla condizione femminile sia delle emigrate in Argentina (anche negli anni della dittatura militare), sia delle mogli di mariti emigrati nelle Americhe che facilmente si erano dimenticati di loro, divenute così «vedove bianche» con la responsabilità di allevare i figli senza la presenza e neppure le risorse dei padri. Di emigrazione interna avevano trattato nei primi anni Sessanta, appena poco dopo il già citato film di analogo argomento Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, due interessanti scrittori, non a caso entrambi in qualche modo vicini a Vittorini che li aveva consigliati o lanciati: Nino

Palumbo e Lucio Mastronardi. Il primo con Pane verde (1960), romanzo sulle miserie patite soprattutto dai bambini su uno sfondo di generale sopraffazione, con alcuni eccessi patetici invece assenti nelle sue precedenti e più controllate prove narrative, Il giornale (1957) e Impiegato d’imposte (1958), tra le prime in Italia ad affrontare il tema dell’alienazione impiegatizia nella grande e ostile metropoli. Di altro genere era invece l’impegno narrativo di Mastronardi, molto più orientato sul versante dello sperimentalismo linguistico, per dare vivacità al suo ritratto di provincia tra benessere incontrollato e arretratezza culturale rappresentati con ironia in Il meridionale di Vigevano (1964) e negli altri due volumi della trilogia, Il calzolaio di Vigevano (1959) e Il maestro di Vigevano (1962). Dal malessere nella monotona provincia a quello della tentacolare città: e se Pasolini in Ragazzi di vita (1955) e poi in Una vita violenta (1959) si era reso interprete della difficile condizione dei giovani del sottoproletariato delle borgate romane (sulle quali aveva scritto drammatici racconti Giorgio Caproni in pieno clima neorealista, tanto da essere pubblicati nel «Politecnico» nel 1946), il parallelo tema trasferito nella periferia milanese era stato affrontato dal Giovanni Testori degli aspri racconti del Ponte della Ghisolfa (1958) e della Gilda del MacMahon (1959), certo ben segnati da quell’impronta neorealista di impegno e di denuncia rimasta costante nella carriera dello scrittore lombardo, anche se poi affidata a una scrittura meno immediata. Ma le megalopoli moderne non stritolano l’individuo solo nei sobborghi degradati, bensì anche nei piani alti dei grattacieli luccicanti dove si svolge la vita frenetica degli uffici, realtà raccontata con grottesca efficacia nelle pagine del romanzo Il padrone (1965) di Goffredo Parise che, al di là della vicenda del frustratissimo protagonista, proponeva uno spaccato sociologico dell’Italia industrializzata negli anni Sessanta; né meno inquietante era la storia di un altro intellettuale di provincia giunto nella grande città al tempo del «miracolo economico», raccontata da Luciano Bianciardi in La vita agra (1962).

Lo sviluppo italiano di allora, concentrato essenzialmente in Lombardia e Piemonte, si fondava soprattutto su un’attività industriale non priva di conflittualità tra maestranze e classe operaia e di ciò portava un’eco vivacissima il romanzo di Ottiero Ottieri Donnarumma all’assalto (1959), impostato in chiave cronachistica nel render conto dei crescenti conflitti sociali, mentre Paolo Volponi in Memoriale (1962) aveva puntato soprattutto sul conflitto a sfondo psicologico tra il singolo operaio e il mostro-fabbrica che tende a reprimere e a omologare le individualità. Di fronte all’ampiezza del fenomeno, non si può dire che si sia realizzata nell’Italia del miracolo economico una letteratura di fabbrica sufficientemente ricca, tanto che, oltre a quelli citati, non sono molti gli altri titoli su questo tema che meritano di essere richiamati: da Tutti i giorni (1950) di Giovanni Descalzo a Uno mandato da un tale (1959) di Luigi Davì, dal Fabbricone (1961) del già ricordato Testori, a Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini (uno dei pochi romanzi di impianto sperimentale giunti a un largo pubblico), a Vita operaia in fabbrica: l’alienazione (1972) di Vincenzo Guerrazzi, opere nelle quali l’intento di denuncia traspare con forza, anche se viene espresso con modalità stilistiche varie e non sempre del tutto mature. In certo senso complementare a questa narrativa di denuncia dei problemi dell’industrializzazione e della vita metropolitana era quella, in realtà poco praticata prima dell’esplosione della «moda» ecologica, che cercava di riportare l’attenzione sulla civiltà contadina; a tal proposito l’autore emblematico era e rimane Mario Rigoni Stern, che in diversi volumi di racconti, da Il bosco degli urogalli (1962) ad Arboreto salvatico (1991), ha condotto un’importante battaglia in difesa della natura con le parole dirette e precise di chi alla competenza aggiunge quell’abitudine al racconto in presa diretta che aveva segnato il suo libro d’esordio, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia (1953) e che si è poi traferito anche nelle numerose pagine ispirate dalla memoria orale della Grande Guerra: da Storia di Tönle (1978) a L’anno della vittoria (1985).

Tra i non molti altri libri sulla civiltà contadina sarà il caso di ricordare almeno Un giovane di campagna (1976) di Alessandro Petruccelli, fresco racconto di un ragazzo di paese che con grandi sacrifici riesce a studiare e ad affermarsi senza però tradire le sue origini; in chiave lirica e con una visione allargata all’abbandono dell’aspro e povero entroterra ligure si sviluppa la narrativa di Francesco Biamonti che tuttavia in Vento largo (1991) e in Attesa sul mare (1994) affronta con incisività problemi di grande attualità come quelli delle immigrazioni clandestine mosse dai trafficanti di droga e degli interessi economici che, con il commercio delle armi, avevano alimentato la guerra nell’ex Yugoslavia. Ancora ad un’iniziale realtà contadina, complicata però da una complessa situazione di frontiera tra genti e tradizioni diverse, riportava Materada (1960), opera prima di Fulvio Tomizza, poi autore di una lunga serie di testi narrativi impegnati ora sul versante della denuncia dei conflitti portati dal concetto di «confine», e ora sul versante della ricerca storica (esemplare resta Il romanzo del vescovo Vergerio del 1984), intesa come chiave per capire il presente e ancorata a quella sete di verità che era stata uno dei cardini del neorealismo. Al di là di questa serie di opere di denuncia, cui altre se ne potrebbero aggiungere ispirate da più recenti vicende e da irrisolti problemi sociali, da La chimera (1990) di Sebastiano Vassalli a Sostiene Pereira (1994) di Antonio Tabucchi fino a Gomorra (2006) di Roberto Saviano, la narrativa italiana è andata però sempre più riducendo l’attenzione immediata e dichiarata alle problematiche del presente e l’impegno sul piano civile e politico, finendo così per allontanarsi spesso dagli schemi del neorealismo e tornando a una dimensione essenzialmente intellettualizzata e letteraria, come aveva dimostrato il successo mondiale del Nome della rosa (1980) di Umberto Eco, straordinario esempio di libro scritto a tavolino da un autore erudito per diventare un best-seller, utilizzando abilmente tutti gli ingredienti necessari per catturare il maggior numero di lettori. E così, anche in seguito all’involuzione sociale e culturale verificatasi nel nostro paese negli ultimi decenni del Novecento e all’inizio del nuovo secolo, il neorealismo appare ormai come un fenomeno definitivamente concluso e tuttavia passato non invano, nel

cinema e nella letteratura, per essere riuscito a farsi interprete diretto e appassionato, anche se talora ingenuo, monotono e retorico (come un’energica dose di autocritica dei protagonisti di allora ha poi via via accertato), di un tempo storico e culturale nel quale la maggior parte degli italiani avvertiva con urgenza la spinta a impegnarsi per una comune idea nuova e migliore di civiltà. 51 S. Lanaro, L’Italia nuova, Torino, Einaudi, 1988, p. 228. 52 F. Di Giammatteo, Lo sguardo inquieto. Storia del cinema italiano (1940-1990), Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 160. 53 A. Viganò, Commedia italiana in cento film, Genova, Le Mani, 1995, p. 13. 54 I. Calvino, Prefazione a II sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 22.

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