Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo 8881038196, 9788881038190

La realtà e l'illusione, l'identità e il mito, il viaggio e il confine, la libertà e il canone; il neorealismo

266 37 1MB

Italian Pages 327 [335] Year 2016

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Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo
 8881038196, 9788881038190

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PANDORA COMUNICAZIONE CINEMA 3

Direzione di Michele Guerra Comitato di direzione Roberto Campari, Hannah Chapelle Wojciehowski, Nicola Dusi, Michele Fadda, Vittorio Gallese, Leonardo Gandini

PANDORA

COMUNICAZIONE

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Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Giovanni Cascavilla Anna Bartoli In copertina Vittorio De Sica, Luigi Chiarini e Cesare Zavattini all’apertura del convegno Il neorealismo cinematografico, Parma, 3-4-5 dicembre 1953 (Fondo Cinematografico Primo Giroldini)

ISBN 978-88-8103-819-0 © 2015 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected] www.diabasis.it

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Invenzioni dal vero Discorsi sul neorealismo

A cura di Michele Guerra

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Indice

p. 9

Introduzione. Ancora di neorealismo e del cinema italiano di Michele Guerra

PARTE I: CONFINI/VIAGGI/IDENTITÀ 21

«E um dia repente aqui el cinema italiano explodindo com Roma cidade aperta» di Gian Piero Brunetta

43

Il neorealismo secondo Zavattini, una lunga messa a fuoco di Orio Caldiron

51

Viaggi in Italia, viaggi a Luzzara. Su Zavattini e dintorni di Emiliano Morreale

65

Uno stile internazionale? Il neorealismo degli altri di Francesco Pitassio

PARTE II: REALTÀ/UOMO/ILLUSIONE

77

I fantasmi del neorealismo di Stefania Parigi

87

Il realismo: una questione aperta di Alessia Cervini

97

«Una sconfinata tematica sull’uomo»: umanismi neorealisti di Michele Guerra

111

Oltre l’illusione di Roberto De Gaetano

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PARTE III: MITOGRAFIE/STEREOTIPIE/SOSPENSIONI

123

«Sospesi nel vuoto». Fortune e miserie del contro-neorealismo di Giacomo Manzoli

135

Rossellini e il neorealismo di Elena Dagrada

153

Il neorealismo e la mancata democrazia culturale di massa di Gianni Canova

159

Neorealismo, italianità e storia sociale del cinema di Andrea Minuz

PARTE IV: PENSIERI/FIGURE/DIBATTITI

173

Un’arte corale. Il neorealismo e le politiche culturali dei cattolici in Italia: Mario Apollonio e la Scuola di Milano di Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni

185

Il neorealismo visto dalla Francia: bilancio critico di Jean A. Gili

203

Italia-America: sguardi ‘altri’ sul neorealismo e il suo oltre di Manuela Gieri

PARTE V: PAESAGGI/FORME/TEMPORALITÀ

215

Modelli, chimere, anacronismi. Neorealismo e paradossi documentari di Marco Bertozzi

239

Per un paesaggio (sonoro) italiano: ri-ascoltare il neorealismo di Elena Mosconi

255

Neorealismo/Paesaggio di Thierry Roche

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PARTE VI: ICONOGRAFIE/PRATICHE/CROMIE

265

Settant’anni dopo: perché il neorealismo continua a essere vivo di Pierre Sorlin

275

Attorialità e recitazione: vere anomalie nel cinema di Giuseppe De Santis? di Antonio Carlo Vitti

289

Un neorealismo a colori? Itinerari cromatici nel cinema neorealista di Livio Lepratto

PARTE VII: TESTIMONIANZE

309

Parma 1953 di Roberto Campari

313

Che strano richiamarsi al neorealismo di Lorenzo Codelli

317

Indice dei nomi

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Foto di gruppo al Casino di lettura durante una delle serate del convegno di Parma (3-4-5 dicembre 1953). Si riconoscono tre degli organizzatori: Pietro Bianchi (primo da destra), Pietro Barilla (secondo da destra, in seconda fila) e Virginio Marchi (quarto da sinistra, in seconda fila).

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Introduzione Ancora di neorealismo e del cinema italiano Michele Guerra

1. Gli interventi raccolti in questo libro sono stati presentati per la prima volta al convegno Parma 1953-2013: sessant’anni di neorealismo, tenutosi in occasione del sessantenario del più noto convegno Il neorealismo cinematografico, voluto da Cesare Zavattini e organizzato nel 1953 a Parma da Pietro Barilla, Attilio Bertolucci, Pietro Bianchi, Luigi Malerba, Antonio e Virginio Marchi. Non era di certo stato quel convegno la prima occasione di discussione del fenomeno neorealista in Italia, ma per molte ragioni lo si era immediatamente percepito come un punto fermo nelle fasi di riflessione sulle opere e i giorni del movimento. Il suo focus netto, la forma-convegno stessa (ritualizzata e formale; ne parla Roberto Campari nella sua testimonianza a fine volume), la partecipazione di critici, studiosi e autori, nonché la coincidenza temporale con un anno che sembrava profilarsi come adatto ad una prima ricognizione o consuntivo (a posteriori in diversi si sarebbero serviti del 1953 come di una possibile, convenzionale fine del neorealismo), facevano avvertire quelle giornate di dicembre come una concreta occasione di svolta. Tra le intenzioni dei convenuti e degli organizzatori non vi era quella di celebrare la fine del neorealismo, ma piuttosto di capire (facendosi, in certi momenti, vicendevolmente coraggio) se quell’esperienza avesse le spalle abbastanza larghe per sostenere culturalmente il cinema italiano che sarebbe venuto (e che non avrebbe più conosciuto le urgenze e alcune delle limitazioni che avevano conformato tale irripetibile stagione) e la capacità di attrarre, oltre al riconoscimento della critica, quello del pubblico. L’esigenza di «salvaguardare il neorealismo», emersa come uno dei quattro punti della cosiddetta «Mozione di Parma», rispondeva ad un taciuto timore più che ad un’affermazione di forza e le prospettive critiche e di intervento elaborate durante il convegno sarebbero rimaste, più che

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inascoltate, al di qua del vivo di un discorso diverso che avrebbe visto quasi tutti impegnati a ragionare di trasformazioni, passaggi, nuove ricostruzioni, nuove forme. Ripensare oggi il convegno del 1953, per come fu voluto, organizzato, per le idee che mise in movimento e oltre i suoi indiscutibili meriti e puntualità storica, ci porta a riflettere su almeno due questioni che scorrevano più o meno carsicamente tra le pieghe delle relazioni che si leggevano o che si instauravano in quei giorni. La prima questione riguarda la reputazione sociale del movimento, o, detto altrimenti, il problema del «lignaggio» del neorealismo. Il convegno ha tra gli organizzatori alcune figure di «intellettuale-garante», come Attilio Bertolucci (tra i letterati che da subito sostennero l’artisticità del cinema), ma anche un imprenditore come Pietro Barilla, espressione in quel consesso della presenza economico/culturale della città e di un mecenatismo attento, teso a promuoverne un’immagine elitaria e aperta ad un tempo. Se poi si leggono i nomi del «comitato d’onore» vi si trovano tutti i notabili e le persone più in vista della Parma dell’epoca, a confermare il fatto che il neorealismo è un’occasione comunitaria di mondanità e certamente l’unico modo di portare il cinema nelle sale esclusive del casino di lettura (anche in una città che dal 1946 al 1951 aveva pur visto, quasi senza interruzione, stampare due riviste di livello nazionale come «La critica cinematografica» e «Sequenze» e poi la fortunata collana «Piccola Biblioteca del Cinema» di Guanda). L’azione politica e sociale del movimento, la sua forza di intervento, di denuncia e vorrei dire anche di disturbo, faticano a protrarre il confronto con questa reputazione o lignaggio, e anche di più a porsi dialetticamente rispetto ad essa, come peraltro era già emerso in altre occasioni precedenti al convegno parmigiano (vi fa cenno, nel suo saggio, Giacomo Manzoli). Questo stridore tra le sale del convegno e la missione neorealista, sembra addirittura trasparire (non so dire se spontaneamente o artatamente) nella reazione di Zavattini, che pur promotore di quelle giornate nella sua città d’adozione, alla fine del suo intervento dice di sentirsi tutt’a un tratto a disagio, intimidito, tanto da raccogliere i suoi fogli «con la fretta di chi si tira su le mutande essendosi accorto di stare scoperto davanti alla gente» (Diario, 31 dicembre 1953, «Cinema nuovo», 27, 15 gennaio 1954). Parrebbe quasi un sollievo per Za dover lasciare prima del tempo il convegno e Parma e partire per Cuba, a portare quello stesso

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verbo, ma in tutt’altro contesto, probabilmente senza il rischio di provare la sensazione delle braghe calate (sul suo Diario in «Cinema Nuovo» scriverà dell’effetto che gli fece, appena arrivato sull’isola, la pressante richiesta di notizie riguardo al convegno di Parma…). La seconda questione riguarda invece l’atteggiamento «protezionistico» che serpeggiò in quelle giornate di dicembre. Nonostante il livello di molti interventi e nonostante il livello delle opere e degli autori di cui si parla, sul tema dell’attualità del neorealismo prevale quello della salvaguardia. Il fenomeno è trattato più da rendita che da valuta corrente, si tende alla «patrimonializzazione» del neorealismo e dunque alla sua conservazione, più che non alla riaffermazione della vicinanza dell’idea neorealista all’«indiscriminata vita», come la chiamava Mario Alicata, o dell’apertura sul presente e sul visibile che ne aveva assicurato la carica di innovazione estetica e politica. La stessa mozione che funge da sigillo di quelle discussioni, al netto di certe legittime preoccupazioni politiche, assume toni da Unesco e contiene reclami tipici di chi si accorge che occorre mettere in sicurezza qualcosa; è come se i neorealisti temessero di ritrovarsi soli nell’aspra regione della protesta minoritaria e tentassero di salvaguardare i loro crediti ed alcuni dei territori conquistati. Il neorealismo, invece (e questa è l’idea con cui Parma aiuta a fare i conti), non ha limiti, non ha confini catastali o patrimoniali. Per capire la sua potenza (e diciamo pure anche il suo potere) si può pensare ad un’improvvisa deflagrazione, esplosa e ritiratasi in un lampo, ma che segna per sempre una storia e soprattutto lascia tracce che riemergono di continuo. Il difficile, nel 1953, è capire da una parte quale storia è stata segnata e dall’altra prevedere dove emergeranno le tracce dell’esplosione, che a nessuno piace pensare si stia, per lo meno nel suo epicentro, esaurendo. Del resto, uno dei segreti di questa violenta e salutare esplosione e del suo attecchire lontano nello spazio e nel tempo, stava nel fatto che il neorealismo cinematografico non ebbe il tempo materiale di darsi una linea, un programma, né di fissare l’una e l’altro a posteriori, che già la storia lo incalzava, attenuandone certe rotture e rafforzandone altre, spesso neppure immaginate da alcuni dei protagonisti di quella stagione. L’indisponibilità di un canone e la relativa instabilità del neorealismo cinematografico sono state la sua forza, che, per esempio, gli ha permesso di affermarsi con nettezza sulla coeva letteratura, sul teatro e anche sulla pittura, dove un canone e i termini di un confronto con una tradizione esistevano ed

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esercitavano un loro potere. Al cinema, lo sappiamo, l’unico vero modello che si tentò, in fase iniziale, di fissare fu Verga ed in lui, tutta intera e un po’ di fretta, la tradizione verista, lasciando alla fine che, a rottura compiuta, l’uno e l’altra restassero opzioni che si portarono dietro molto fascino, non poche polemiche e pochissimi esiti concreti.

2. I «sessant’anni di neorealismo» posti nel sottotitolo del convegno di cui vi apprestate a leggere gli esiti, sono quelli in cui si è progressivamente dato forma al concetto forte di neorealismo, che ha segnato la storiografia del cinema in Italia e non solo; sono gli anni in cui si è continuato, anche al di là di quel concetto forte, a veder riapparire e in parte a cercare il neorealismo in ogni angolo del mondo e in corrispondenza delle forme filmiche più diverse e spregiudicate; gli anni in cui si è provato, come sempre avviene dopo qualsiasi sistemazione, a capovolgere qualche punto fermo e a contestare il movimento e l’ipoteca che aveva posto sul nostro cinema (sia da parte dei nuovi registi, che di certa critica). A pensarci bene, il neorealismo ha continuato a resistere a tutto questo (nel bene e nel male) proprio in virtù della sua ontologica «indisponibilità» alla canonizzazione e della sua «instabilità» poetico-politica e se oggi sono pochi i giovani autori disposti a rifarsi a quelle «nuove onde» che avevano svecchiato il cinema europeo guardando molto al neorealismo, sono invece tanti quelli che, mutatis mutandis, non si stancano di pensare un cinema «neorealista» (ne parla Pierre Sorlin in questo volume). Tornare a parlare di neorealismo a Parma (ancora a dicembre, com’era stato nel 1953) significa dunque potersi permettere di dismettere i timori protezionistici e le ambiguità sociali, di poter dare per scontato che quella stagione è stata la più importante della nostra storia cinematografica e la più capace, comunque la si pensi, di dimostrare e mantenere una tenuta internazionale, ma anche, proprio in virtù di tutte queste cose, di prenderla di petto, perfino di provocarla (e di provocarci), se necessario. Dagli interventi contenuti in questo libro emerge chiaro come il tempo abbia ridimensionato, nella ricezione dei film neorealisti, la rivoluzione sociale dei messaggi e ne abbia invece amplificato la dirompenza visuale, la pervasività culturale e la duttilità

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concettuale. Emerge, del tutto spontaneamente e in modo produttivo, anche il dialogo tra generazioni diverse di studiosi, tanto più vivo ora che la storia del cinema italiano è tornata in favore tra le giovani generazioni, ha assunto dimensioni internazionali radicate e di livello e ha alimentato nuove imprese storiografiche collettanee quali, per citare le due più recenti e ambiziose, la serie della Storia del cinema italiano pensata da Lino Micciché e promossa dagli editori Marsilio e Bianco & Nero e la proposta di analisi orientata al confronto con l’orizzonte vasto della tradizione nazionale che caratterizza i volumi del Lessico del cinema italiano, curati da Roberto De Gaetano e editi da Mimesis. Nella progettazione del convegno il confronto generazionale avrebbe potuto essere anche più profondo: nei piani c’era l’idea di fare aprire i lavori a Carlo Lizzani, unico relatore superstite di «Parma 1953» e tra i primi storici del nostro cinema. Qualche mese prima del convegno, in una telefonata a Roberto Campari, Lizzani, nel declinare a malincuore l’invito, si limitava a dire che alla sua età è del tutto impossibile addormentarsi immaginando come ci si sentirà al risveglio; nessuno poteva prevedere ciò che sarebbe accaduto e alla memoria di Carlo Lizzani è stato dedicato il convegno. Vista la clamorosa fortuna editoriale del neorealismo, incrementatasi ulteriormente nel nuovo secolo non solo in Italia (il libro dà conto di questa smisurata bibliografia con buona completezza), sarebbe proprio il caso di dire, giocando con il famoso articolo-manifesto di Alicata e De Santis, «ancora di neorealismo e del cinema italiano»... Eppure mi pare che i saggi che state per leggere riescano a compiere incursioni mirate e feconde nel corpo vivo e cangiante del fenomeno e soprattutto ne problematizzino la natura composita e proteiforme. Di questa fortuna, d’altronde, eravamo riusciti a dar conto (quasi in presa diretta) anche nei giorni del convegno, presentando il saggio epistolare di Marco Bertozzi e Thierry Roche L’autre néoréalisme. Une correspondance (Yellow Now Editions) e dando spazio al progetto di Gianni Bozzacchi Non eravamo solo… Ladri di biciclette (cui accenna Andrea Minuz nel suo saggio), un documentario narrato da Lizzani e presentato alla mostra veneziana, cui si è accompagnato un volume ricco di immagini dedicato al movimento (edito da Triworld). Solo per pochi mesi, non avevamo potuto presentare il libro di Stefania Parigi, quasi pronto al tempo del convegno e che è venuto a costituire un punto di riferimento nel panorama degli studi sul cinema italiano: Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio).

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3. Nel tentativo (non semplice) di ordinare saggi i cui richiami interni favorirebbero una struttura ipertestuale del volume, ho cercato di identificare per ognuna delle sei sezioni tre possibili parole-chiave, pensate come campi di forze entro cui far incontrare interventi in grado di sondare quei campi e forzarne il perimetro. La prima parte (Confini/Viaggi/ Identità) si apre con il saggio di Gian Piero Brunetta, che nel ripercorrere l’incrocio di vita e cinema che è stato il suo personale viaggio in compagnia del neorealismo, ne segue la genealogia e poi le tracce in giro per il mondo, valutandone la forza d’incidenza culturale. Orio Caldiron, nel ripensare il neorealismo di Zavattini «in profondità di campo», ce lo mostra riflesso nei viaggi, negli spostamenti (reali e concettuali), nei continui confronti, nelle discussioni e nelle lezioni, nelle scritture e negli abbozzi di un cinema di continuo pensato, immaginato e spesso non fatto, privo di confini e sempre portatore di un forte sentimento identitario. Zavattini incarna alla perfezione l’idea nomadica di un neorealismo senza barriere eppure situato e radicato, e così Emiliano Morreale ripensa l’idea diaristica e di viaggio del cinema di Za, prendendo Luzzara (a partire dal tempo della preparazione del volume fotografico con Paul Strand) come microcosmo da cui partire e cui tornare per riflettere sulla categoria teorica del «film-viaggio», che fu una costante zavattiniana e che si può accostare a una tradizione importante fatta di scrittori, fotografi, giornalisti e cineasti viaggiatori in cerca di Italie, storie e poetiche. Francesco Pitassio mette in gioco diversamente il tema del confine e dell’identità soffermandosi sulla presenza dei registi stranieri in Italia negli anni del neorealismo e assumendo le loro opere come luogo di concentrazione, messa in circolo e «redistribuzione» di determinati caratteri stilistici del movimento, aiutandoci a considerarne il ruolo e il valore in un più vasto contesto di cinema d’autore europeo. La seconda parte (Realtà/Uomo/Illusione) si apre con il saggio di Stefania Parigi, che si interroga sulla capacità del clima etico e sociale del dopoguerra di tenere insieme il «corpo impuro» del neorealismo, fatto di pezzi che sembrerebbe difficile incastrare uno con l’altro, di mondi spesso distanti e che il vocabolario neorealista ha sempre ricondotto a parole generiche e assolute, di cui «realtà» è stata senz’altro la più forte e la più problematica, contenente da un lato l’ampiezza dello spettro neorealista e

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già pronta dall’altro ad accogliere e rilanciare obiezioni e recuperi. Alessia Cervini riprende le fila del discorso sul realismo, tornato di grande attualità negli ultimi anni in campo filosofico e non solo, e richiama il concetto di instabilità del realismo proposto da Fredric Jameson e giocato a cavallo tra l’esigenza epistemologica e l’ambizione estetica; Cervini suggerisce che proprio nel complesso rapporto con il reale stiano le ragioni della brevità e dell’eccezionalità di un movimento che ha saputo esattamente assumersi i rischi che quell’idea realista comporta. Michele Guerra si sofferma sul tema dell’umanismo, presente nelle riflessioni coeve al movimento in forma di manifesto di poetica, ma al contempo occasione di contesa e increspatura della discutibile compattezza neorealista; l’uomo del neorealismo (così insistentemente chiamato in causa e così trasversale) è parte di un pensiero più vasto, di respiro europeo e di cui il movimento, come voleva Bazin, viene a rappresentare l’emergenza esteticamente rivoluzionaria. Roberto De Gaetano, appoggiandosi al Leopardi del Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani, rilegge il neorealismo alla luce del crollo delle illusioni successivo alla fine della seconda guerra mondiale e che interrompe il gioco delle classi sociali tipico del cinema sotto il fascismo; lo sfaldamento sociale apre ad un cinema che rifonda l’idea stessa di umano entro un rapporto di nuova disponibilità all’incontro e fuori da ogni illusoria relazionalità riconducibile a un’idea forte di società. La terza parte (Mitografie/Stereotipie/Sospensioni) si apre con il saggio di Giacomo Manzoli, che parte da Gadda per riflettere sulle radici del malessere verso il neorealismo, dimostrando come l’oscillazione tra mito indiscusso di fondazione e la sua degenerazione in paradigma negativo o ostacolo ermeneutico e creativo abbia continuato a riaffiorare (al netto dell’effettivo riconoscimento della sua importanza) fino alle più recenti riprese dei temi realisti. Elena Dagrada ricostruisce, attraverso gli scritti e le interviste di Roberto Rossellini, il problematico rapporto con il neorealismo di quello che era unanimemente ritenuto il padre del movimento; Rossellini combatte per svincolarsi dalle catene del canone e liberare la potenza dell'idea neorealista, che va pensata come un atteggiamento di vita, uno sguardo sul mondo e sulla realtà che può assumere forme diverse e rispondere alle esigenze dei tempi e a un’utopia cinematografica che nel caso di Rossellini arriverà a spingersi oltre il cinema stesso. Gianni Canova si pone in maniera incisiva, e sulla scorta della rilettura di un libro fondamentale quale Cinema

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e pubblico di Vittorio Spinazzola, una domanda volutamente scomoda, vale a dire se il neorealismo abbia o meno favorito la formazione in Italia di una democrazia culturale di massa e da lì osserva come l’elusione della questione del pubblico potrebbe aver rappresentato il vero male oscuro del cinema italiano. Andrea Minuz, infine, si muove sulle tracce della relazione che oggi esiste tra l’idea diffusa di «italianità» e quella di «neorealismo», inseguendo la risemantizzazione neorealista nei contesti più diversi (dalla pubblicità alla moda) e studiando il senso che quell’idea conserva per gli italiani contemporanei e in particolare per i cosiddetti «nativi digitali». Nella quarta parte (Pensieri/Figure/Dibattiti), Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni affrontano la questione del rapporto tra cultura cattolica e neorealismo concentrandosi sul contesto milanese, sul ruolo dell’Università Cattolica e più specificamente sull’azione di Mario Apollonio. Il saggio (che si inserisce all’interno di un più ampio lavoro di ricerca sulle origini della Scuola di Comunicazione della Cattolica) tratteggia la posizione intellettuale di Apollonio tra seconda guerra mondiale e Resistenza soffermandosi sull’esperienza della rivista «L’Uomo» e sull’idea di «arte corale» che, a partire dal teatro, si applica agli spazi di incontro tra opera e pubblico. Jean Gili, nel tornare sulle forme di pensiero elaborate in Francia rispetto all’esplosione neorealista, lascia che da una ricognizione svolta sulle riviste e i testi del tempo emergano due figure fondamentali per lo studio e la promozione del nostro cinema oltralpe (e non solo) quali Georges Sadoul e André Bazin, emblematiche di approcci differenti che confermano la duttilità del neorealismo e dei discorsi che ha saputo generare. Manuela Gieri affronta invece gli «sguardi» che sul neorealismo hanno gettato gli studi sul cinema italiano prodotti in Nord America, identificando negli anni Ottanta del secolo scorso il decennio decisivo per il potenziamento e la stabilizzazione del discorso sul nostro cinema, e delineando le linee e le forme di un dibattito, non sempre semplice, che è andato instaurandosi tra l’Italia e quei contributi. La quinta parte (Paesaggi/Forme/Temporalità) è aperta da Marco Bertozzi, che nell’affrontare il momento delicato dell’idea documentaria negli anni del neorealismo, ne discute la «difficoltà estetica» identificando nella finzione narrativa una strategia di «protezione» rispetto al radicalismo della forma-documentario. Bertozzi procede ad una ricognizione delle persistenze neorealiste nella tradizione documentaria italiana, mettendone

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in luce nuove temporalità, possibili anacronismi e nuove forme. Elena Mosconi propone invece di ri-ascoltare il neorealismo e di mappare il paesaggio sonoro che quel cinema seppe produrre, mettendo in luce, da prospettiva originale e poco indagata, il rapporto tra il reale e il moderno, ma anche le forme di confronto che le sonorità neorealiste hanno saputo ingaggiare con temi cruciali per il movimento quali la relazione con il popolare e la tradizione. Thierry Roche sceglie di partire dai classici articoli sul paesaggio di Antonioni e De Santis per analizzare gli esiti del tutto diversi cui hanno portato e per allargare poi il campo ad una riflessione sul cinema di registi come Olmi, Piavoli e Diritti, che l’autore dispone lungo un’immaginaria linea metodologica di approccio al paesaggio. Nella sesta parte (Iconografie/Pratiche/Cromie), Pierre Sorlin, nel riflettere sulla persistenza del modello neorealista, ne rileva al contempo l’unicità del messaggio visivo: Roma città aperta, ad esempio, è a tal punto un film di rottura, che non saprà, né potrà essere modello per il cinemaa venire. Antonio Vitti si sofferma sul problema dell’attore nella cultura neorealista, collocandone la radice nelle idee sulla recitazione cinematografica di Umberto Barbaro e valutandone la ricaduta sul caso specifico dell’attività critica e registica di Giuseppe De Santis. Livio Lepratto, infine, si interroga sul senso del colore nel cinema italiano di quel tempo, sulla sua apparente inapplicabilità al film neorealista, sul pregiudizio estetico e politico e sulle ricerche che pure in quel periodo interessavano in modo particolare sia la critica che gli autori. In conclusione, la settima e ultima parte ospita due testimonianze: nella prima, Roberto Campari torna al 1953, ai «ricordi», al racconto di quelle giornate e all’occasione che ebbe, nel 1985 preparando il convegno e il volume Parma e il cinema, di discutere di quell’evento insieme a molti dei personaggi che lo promossero (primo fra tutti Zavattini). La seconda testimonianza, di Lorenzo Codelli, riguarda il più recente film di Ettore Scola Che strano chiamarsi Federico (2013), di cui Codelli ha avuto modo di seguire la lavorazione al Teatro 5 di Cinecittà e che analizza attraverso la messa a fuoco di alcune «ombre neorealiste».

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PARTE I CONFINI/VIAGGI/IDENTITÀ

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«E um dia repente aqui el cinema italiano explodindo com Roma cidade aperta» Gian Piero Brunetta 1. Ho sempre desiderato, sull’esempio di Jean Renoir, che sul mio passaporto fosse scritto «Cittadino del cinema italiano» e alla riga «residenza», da veneziano mi fosse concesso di vivere, a seconda delle stagioni dell’anno, in luoghi diversi di uno spazio diviso in sestieri, nel sestiere nobile del cinema muto (San Marco), certo, ma più di tutto nei sestieri contigui, piccolo borghesi e popolari, del cinema di regime (Dorsoduro) e del neorealismo (Castello). Il cinema degli anni Trenta e il neorealismo sono stati per me veri «luoghi» in cui ho cercato di abitare e muovermi nel corso del tempo, esplorandone il più possibile i percorsi, cercando di scoprire interconnnessioni, continuità e discontinuità e itinerari meno frequentati, puntando a ridisegnare una mappa del cinema italiano concepita per me allora in un’ottica di storia totale o oggi si potrebbe dire di storia culturale, che, sempre più, proprio nello spirito veneziano, fosse vista come punto d’interazione e coabitazione rispettosa di culture e ideologie diverse e d’influenza e scambio fecondo e reciproco con le altre cinematografie. Ho iniziato a occuparmi del neorealismo dalla metà degli anni Sessanta, quasi cinquant’anni fa, lavorando alla tesi di laurea dedicata al pensiero di Umberto Barbaro e Luigi Chiarini e alla nascita dell’idea di neorealismo. Il mio primo libro del 1969, nato da quella ricerca, s’intitola appunto Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo1. Poi, nel corso del tempo, ho cercato d’andare, con gli strumenti del filologo, che avevo assorbito dal magistero di Gianfranco Folena, alle radici del termine, per coglierne il momento della nascita nelle riviste degli anni Venti e studiarne la trasformazione semantica e le interazioni tra arte, letteratura e cinema. In seguito, affrontando la redazione della Storia del cinema italiano, dalla metà degli anni Settanta, ho esaminato il neorealismo e le sue poetiche come campo di tensioni e battaglie critiche e teoriche. Mentre dagli inizi del decennio successivo mi hanno interessato dapprima le percezioni spettatoriali, poi lo spezzettamento del pane neorealista nel cinema popolare (per la mostra del 1982 della Biennale di Venezia che si chiamava Il consumo cultu-

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rale2) e subito dopo l’influenza del neorealismo e del cinema italiano e le sue molte interazioni col cinema americano (per il documentario Rai del 1986, in sette puntate, fatto con Gianfranco Mingozzi, Storie di cinema e di emigranti) per approdare al contributo nella ricerca per la Fondazione Agnelli alla rappresentazione e percezione dell’identità nazionale all’interno dell’identità europea. Negli anni Novanta, grazie ad una serie di Mostre sull’arte e creatività italiana a Palazzo Grassi3, in Giappone4, al Reina Sofia a Madrid5 e al Guggenheim6 di New York , ho studiato insieme il neorealismo cinematografico come luogo di memoria e arte guida del Novecento italiano. Più di recente, già dalla fine degli anni Novanta – potendo traguardare il fenomeno da una distanza temporale più consistente e panoramica e ponendomi problemi di concordanze, interazioni e eredità di alcuni fenomeni all’interno della storia del cinema mondiale – ho cominciato a osservare le reazioni a catena e la ricaduta, sui tempi medio-lunghi e sugli effetti in profondità e lunga distanza dei frammenti della cometa neorealista proprio sull’intero cinema mondiale, senza trascurare di iniziare a studiarne le relazioni con la fotografia per una grande mostra che ha viaggiato nel mondo, curata da Admira, che si è inaugurata nel 20067. Per quanto riguarda lo studio dell’«effetto neorealista» e della sua influenza e azione fecondante in terreni diversi ho cercato, fin dalle prime ricerche per la Storia del cinema italiano, di ricomporre i frammenti d’una tradizione critica e storiografica che si forma in pratica subito, trova il primo grande interprete internazionale in André Bazin, il cui carisma e la cui autorità diventano un valore aggiunto di legittimazione artistico-culturale per un piccolo insieme di film riunito, oltre che in base ad una comune unità spazio-temporale, da elementi sottrattivi, dal segno meno in tutte le voci di bilancio di previsione produttiva, sotto e sopra la linea. Colpiva subito la critica d’ogni colore politico e di diversi Paesi come questo fenomeno, ultimo arrivato tra tutti gli «-ismi» del Novecento e di sicuro quello che sembrava più regressivo, in termini di innovazione linguistica, espressiva e tecnologica, fosse subito uscito, in modo potente e senza alcun sostegno alle spalle, dai confini nazionali, contribuendo a sconvolgere e a rifondare lessico, morfologia, grammatica e sintassi del cinema mondiale. Certamente mi sentivo di lavorare in un’ottica più che monumentalizzante nei confronti del fenomeno e di sicuro volta a riconoscere, senza riserve, nel

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neorealismo il fenomeno culturale italiano del Novecento, assieme e più ancora del Futurismo, di autentica, diffusa e maggior ricaduta intercontinentale. Fenomeno che ha avuto un ruolo trainante per la diffusione di un’immagine dell’Italia come Paese che ce l’aveva fatta grazie al suo percorso di passioni collettive condivise per lunghi anni, fatte di fame, miseria, dolore e morte, ma anche d’amore, senso di solidarietà, speranza, volontà di ripartire e ricostruire, anche grazie alla fiducia nel dialogo e nella collaborazione tra forze profondamente diverse e antagoniste. E come prima certificazione d’un prodotto a denominazione d’origine controllata che avrebbe assunto – indipendentemente dalle forze che se ne sarebbero disputato il possesso e la proprietà – il ruolo di volano per l’affermazione del Made in Italy dagli anni Cinquanta in poi. Proprio dell’esplosione e di alcune ricadute internazionali del neorealismo intendo soprattutto parlare in questa occasione. 2. Certo non si può comprendere la fase di gestazione del neorealismo, senza tener conto del formidabile sviluppo del dibattito culturale che coinvolge in Italia, verso la fine degli anni Venti, gli intellettuali militanti, fascisti e antifascisti, che si prodigano per la rinascita d’una cinematografia progressivamente ridotta a zero nel corso degli ultimi anni del muto. La presenza reiterata e continuata del termine «neo-realismo» negli scritti di Umberto Barbaro e Libero Solaroli si associa a una serie di pulsioni costrette, per qualche tempo, a rimanere allo stato virtuale, ma anche capaci d’agire, con azione sottocutanea, disegnando nuovi orizzonti di attese e nuovi mondi possibili. Scrive Solaroli nel 1929, in un articolo intitolato Esterni dal vero, esterni in studio: È probabile che in Italia la formula del neo-realismo formale non attecchisca [...] se ci si limita alle risposte date nell’ambito dell’inchiesta «esterni naturali» o «esterni in studio» sembrerebbe che l’esperienza neo-realista sia ormai superata in Italia: questo non è affatto vero [...], si potranno trascurare le discussioni sul neorealismo solo quando questa tendenza sarà stata capita, assimilata e superata8.

Se in una prima fase si utilizza da noi questo termine, avendo come riferimento privilegiato la cultura sovietica, verrà inclusa in seguito, in maniera

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esplicita, la letteratura tedesca, in particolare il movimento della Neue Sachlichkeit, di cui il vocabolo italiano è un calco esplicito. La Nuova Oggettività tedesca, alcuni film che la rappresentano e il cinema sovietico (nonché alcune suggestioni dell’espressionismo) appaiono come i modelli che interagiscono e sono in grado di influenzare direttamente sia Sole e Terra madre di Blasetti, che Rotaie di Camerini, i film della «Rinascita» a cavallo del sonoro. Il punto d’arrivo in Italia di questa fase di formazione d’un humus culturale destinato ad agire sul medio-lungo periodo mi è sempre parso riconoscibile nell’Introduzione di Barbaro del 1932 a Il soggetto cinematografico di Pudovkin: Quanto al realismo c’è purtroppo da deplorare che all’Ennerreffe (la «Nouvelle Revue Française» n.d.a.) abbiano idee così poco chiare in fatto di estetica e di conseguenza anche quelle dei nostro intellettuali siano ancora un po’ confuse: certo si è che tra realismo, neo-realismo, realismo magico, Proust, Joyce, Neue Sachlichkeit e magari surrealismo ci sono relazioni abbastanza strette9.

A tutto ciò si aggiungerà, per influsso di Roberto Longhi e Luigi Russo, la tradizione realista italiana che risale a Caravaggio e alla letteratura verista ottocentesca di Verga e Capuana. Anche andando a scandagliare nell’inconscio di un paio di generazioni di uomini del cinema italiano, nella parola-madre – come ho cercato di fare nella prima fase dei miei studi – è certo che la spinta a una vera e propria deissi critica, teorica e poetica verso dei modi di racconto che fossero il più possibile vicini a una rappresentazione diretta del reale appare molto diffusa e consapevole fin dai primi anni Trenta, oltre che in Barbaro e Solaroli, in autori diversi, che incrociano in maniera più o meno continuata il cinema, da Longanesi ad Alvaro, da Malaparte a Zavattini. Ricerche, le mie, molto interessate allora a dimostrare, attraverso lo studio della fortuna del neologismo, come questa parola, a seconda dei momenti e dei diversi soggetti, assumesse diverse funzioni d’uso, ma come, ad un certo punto, si trasformasse in un termine di vasta gittata semantica e altrettanto vasta ricaduta su un ampio territorio delle arti figurative e della letteratura. E che ripreso in un nuovo contesto storico-politico-culturale definiva e cercava di unificare tra loro un insieme eterogeneo di opere dell’immediato dopoguerra che, in una percezione critica e teorica sempre più diffuse, avevano

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mutato, come ho detto, le coordinate del cinema del dopoguerra e sempre più identificavano il neorealismo con il cinema italiano tout court. E questo ben prima che si cercasse in alcuni casi esemplari del cinema degli anni Cinquanta, con l’aiuto dei grimaldelli critici luckácsiani, più che gramsciani, il passaggio ideologico dal neorealismo al realismo. Torniamo rapidamente al punto da cui siamo partiti: dalla metà degli anni Trenta, quando una serie di germi messi a coltura iniziano a circolare e agire in profondità sui giovani aspiranti registi, generando una fase di gestazione e di elaborazione in cui il neorealismo, come alimento culturale e ideologico proveniente da fonti diverse (la pittura, le arti figurative, il cinema) diventa una sorta di liquido amniotico che alimenta e favorisce la crescita delle consapevolezze e tensioni verso nuovi orizzonti possibili destinati ad aprirsi oltre il fascismo e la guerra. Anche se poi le leggi del caso porteranno, imprevedibilmente, un regista fino a quel momento autore di film di propaganda, come Roberto Rossellini, ad assumere il ruolo di individuo messianico e di pater familias del fenomeno. Il primo punto di vista e momento di percezione della novità d’un fenomeno allo stato nascente, o volendo il primo atto di costituzione mitografica e la prima ecografia significativa del nuovo cinema italiano, agli effetti di questo mio discorso, lo trovo nel primo numero in italiano di «Mondo Nuovo. Rivista per il popolo italiano pubblicata per la durata della guerra dall’Ufficio Informazioni degli Stati Uniti» (19 marzo 1945), che dedica un servizio riccamente illustrato a Rossellini e al suo lavoro sul set di Roma città aperta. L’articolo, che s’intitola Cinema italiano. Manca tutto ma si lavora lo stesso, comincia così: Produrre film in Italia è come costruire una casa cominciando dal tetto [...] Meraviglia come, soltanto ora, che non si hanno più i mezzi d’una volta, la cinematografia italiana corrisponda a quello che è l’animo del paese. Prima di tutto non ci sono più studi degni di chiamarsi tali. Cinecittà così lussuosa è diventata un campo di concentramento di profughi [...] Come se non bastasse la maggior parte degli impianti sono stati portati al nord [...] E la luce? Ad ogni momento la corrente manca. Il materiale fotografico e scenico, gli abiti, i cosmetici sono diventati un problema. Trovarli è difficilissimo. Anche quando il film è finito i guai continuano. I trasporti sono difficili, la distribuzione incerta. Si aggiunga il coprifuoco [...]. E invece si continuano a girare film.

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Città aperta attualmente in lavorazione è il film tipico di questi tempi difficili. Ne è autore Sergio Amidei e il soggetto è cavato dalla vita romana durante i nove mesi: rastrellamenti, caccia all’uomo, resistenza clandestina [...] Comune carattere della nuova cinematografia italiana è la sua capacità d’essere, con vivezza e umanità, molto vicina alla vita di tutti i giorni10.

Con Rossellini e poi con De Sica-Zavattini si riparte dunque da zero: ripartire da zero significa anche recuperare la verginità dello sguardo e una capacità di riscoprire il mondo come se lo si guardasse per la prima volta, come se fosse la realtà a guidare lo sguardo della macchina da presa e a imporre la sua verità. Ci si libera dal peso della tradizione e si ha l’impressione di scoprire e creare il mondo, rimisurandolo a partire dall’uomo che muove i suoi primi passi in un’Europa del tutto ridotta in macerie. Ma non si butta via certo il patrimonio professionale accumulato dagli operatori nei decenni precedenti. Questo aspetto oggi va ristudiato con più attenzione, grazie anche alle nuove frontiere che si aprono al restauro digitale e alle nuove consapevolezze filologiche che stanno maturando. L’occhio degli operatori, Ubaldo Arata, Carlo Montuori, Massimo Terzano, Otello Martelli, Aldo Tonti, e poi nel dopoguerra, Leonida Barboni, Anchise Brizzi, Piero Portalupi, Aldo Graziati (Aldò), che sarà poi promosso per primo da Luigi Chiarini ad autore del film degno di stare a pieno titolo accanto al regista, si adatta come una nuova pelle alla nuova forma della realtà e aiuta, in qualche modo a ricomporla e a rappresentarla in quel modo unico e assolutamente non comparabile con alcuna altra cinematografia in quegli anni, anche se non mancano suggestioni e influenze. Lo sguardo degli operatori diventa una sorta di protesi visiva dello sguardo del regista, dà una forma al nuovo modo di vedere, fissa dei rapporti all’interno dello spazio tra paesaggio, ambienti, cose e persone. Lo sguardo non si abbassa mai, viola non pochi tabu visivi (vedi le scene di tortura di Roma città aperta) e non perde il suo senso e la volontà di testimonianza, di istorein, unito alla pietas, alla compassione, e alla possibilità offerta al destinatario di sentirsi parte della storia che resta per lo più aperta, prima ancora di essere chiamato a giudicare. Gilles Deleuze, in una delle tante illuminate intuizioni del suo viaggio nomadico nell’immagine cinematografica, osserva che alla fine della guerra mondiale l’Italia per prima, rispetto alla Francia e alla Germania, giunge ad avere una coscienza intuitiva della nuova immagine che sta per nascere e del tipo di racconto che rimette in questione il modello dell’immagine-azione

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del cinema americano e riporta il cinema all’anno zero della sua storia11. Far rinascere il cinema come linguaggio, come etica ed epica collettiva, vuol dire restituire allo sguardo e alla sua intelligenza la pienezza dei suoi poteri, fargli riscoprire le possibilità di esplorare il visibile nella sua totalità. È quello che riescono a fare Rossellini con Roma città aperta prima e Paisà poi e De Sica-Zavattini con Sciuscià e Ladri di biciclette, pur rispettando non poche regole della grammatica e sintassi del cinema tradizionale. Cosa che negli ultimi anni gli studi internazionali tendono fin troppo a ri-scoprire e a sottolineare con intenzioni di smantellamento di quelle che sono ritenute mitologie consolidate, senza riuscire a ridisegnare in modo convincente un nuovo vero paesaggio critico e problematico che faccia avanzare le conoscenze in maniera nuova e convincente. E veniamo all’esplosione e vera e propria diffusione a largo raggio e ricaduta e trasmissione del corpo e dello spirito neorealisti nello spazio e nel tempo. In effetti mi è capitato più volte di dire, fin dalla prima edizione della Storia del cinema italiano, come c’è stato un periodo in cui il tempo del cinema mondiale si è fermato e sintonizzato con quello del meridiano che passava per Roma città aperta. Giustamente è stato osservato che per lo spettatore del dopoguerra i film di Rossellini hanno avuto l’effetto di una rivelazione, sono stati benefici come una cometa che ha portato nel mondo l’annuncio di una nuova era cinematografica. Tra il 1945 e il 1948 le opere di Rossellini, Zavattini-De Sica, De Santis, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada, sprigionano di colpo una forza di novità, un’energia e una potenza tali – lo ripeto – da cambiare le coordinate, i sistemi di riferimento, i paradigmi culturali, la prosodia, la sintassi e le poetiche se non di tutto di molto cinema mondiale, ma soprattutto da cambiare i modi e le relazioni tra lo schermo lo spettatore e il suo immaginario. I termini più diffusi nella critica internazionale coeva e posteriore parlano di «fioritura», di «prodigio», di «illuminazione», di «irruzione», di «rivelazione folgorante», di vero e proprio fenomeno esplosivo e «detonante». Dal canto suo Maria Rita Galvao, nel libro Burguesia e cinema pubblicato in Brasile nel 1981, ha scritto: «E um dia repente aqui el cinema italiano explodindo com Roma cidade aperta»12. Grazie a un numero minimo di film che varcano le frontiere e in tempi diversi raggiungono gli schermi dei paesi di tutti i continenti, superando

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ostacoli censori e politici d’ogni tipo, il cinema italiano diventa una potenza espressiva e una forza trainante, riesce ad attivare una sorta di reazione a catena, modifica, oltre ai parametri narrativi di cui s’è detto, i modi produttivi e i sistemi di riferimento, le tecniche di ripresa, di illuminazione, di scrittura delle storie, di montaggio per il cinema europeo e quello americano e indica delle strade percorribili anche per le neonate o per le nasciture cinematografie del Terzo Mondo. Anche se la cometa sembra consumarsi rapidamente in Italia e lo zenith della sua potenza già esaurirsi per un processo di implosione dovuto alla pressione di troppe forze esterne alla fine degli anni Quaranta, gli effetti continueranno a manifestarsi, a metamorfizzarsi e ad agire come un’onda lunga sia all’interno del cinema italiano sulle generazioni successive sia nei confronti del cinema degli altri continenti. Se uno dei caratteri identitari, insieme di forza e di debolezza, del cinema italiano degli ultimi settant’anni, da Roma città aperta a Sacro GRA, è quello di non aver mai voluto tagliare il cordone ombelicale con gli artefici tuttora «mirabili» (nel senso di ben degni d’ammirazione, a mio parere), di quel cinema nato dalle macerie, il cinema neorealista, percepito come l’evento più rappresentativo dell’Italia della rinascita, diventa nel breve e lungo periodo guida morale e modello narrativo e produttivo. 3. Gli effetti, per quanto riguarda più specificamente il cinema e l’immaginazione cinematografica, sono misurabili, oltre che su intere cinematografie, su singoli registi e sul loro esplicito riconoscimento di debiti nei confronti del neorealismo, sulla critica e sulla teoria (tuttora è interessante e utile riprendere il saggio di Siegfried Kracauer del 1960, Theory of Film: The Redemption of Physical Reality13) e sull’adozione del neorealismo come metro e paradigma di valutazione e sul pubblico e sull’azione sui suoi gangli emotivi e cognitivi. Un territorio enorme, una quantità sterminata di materiali nei quali periodicamente negli ultimi decenni ho compiuto di continuo perlustrazioni non sistematiche ed entro cui intendo in questa occasione effettuare solo alcuni prelievi tendenti ad evidenziare elementi omogenei e ricorrenti in spazi topologici e tempi differenti. Già negli anni Cinquanta Giulio Cesare Castello, nel suo volumetto sul cinema neorealistico italiano , frutto di una serie di trasmissioni radiofoniche, indicava in maniera assai pertinente l’influenza del neorealismo italiano su La bataille du Rail di René Clement, The Naked City di Jules Dassin, The Quiet

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One di Sidney Meyers, The Little Fugitive di Ashley, Engel e Orkin, Marty di Delbert Mann, Bienvenido Mr Marshall, di Louis Berlanga, Muerte de un ciclista di Xavier Bardem, Raices del messicano Alazraki, The Boigha Zamin dell’indiano Bimal Roy e inoltre i film di Cacoyannis, Kautner, Kaneto Shindo, Jacques Becker, Louis Daquin, Jean Paul Le Chanois, ecc... Per quasi cinquant’anni, ieri come oggi, tutti i grandi registi delle generazioni successive a quelle che esordiscono negli anni Quaranta, ma anche alcuni grandi registi coevi, hanno riconosciuto d’aver avuto come modelli e fonti di ispirazione primaria Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis, Germi, Lattuada, Zampa, ecc. L’elenco è lunghissimo e va da Truffaut a Godard, da Rocha a Wenders, dai fratelli Taviani a Bertolucci, da Fernando Birri a tutti i registi, che, come lui, hanno studiato al Centro Sperimentale – da Veliko Bulajic a Julio Garcia Espinosa, da Gabriel García Márquez a Peter Kubelka – che in più occasioni hanno dichiarato il proprio debito di riconoscenza nei confronti di Rossellini e De Sica: da Wajda a Coppola e Scorsese. Già nel libro del 1971 di Roy Armes Patterns of Realism (a cui seguirà cinque anni dopo Film and Reality) il capitolo finale, dal titolo The Heritage of Neo-realism , era dedicato alle influenze nel medio periodo del cinema italiano sui registi di altri paesi, come Kurosawa e Satyajit Ray. Ladri di biciclette, visto da Ray a Londra nel 1949, secondo la dichiarazione dello stesso regista «exercised a decisive influence on me. I decided to film Pather Panchali according to neo-realist methods», scrivendo, subito dopo il suo ritorno a Calcutta, nell’ottobre del 1950, il primo trattamento del film. Scriveva Armes: Quando vogliamo tracciare , l’influenza attuale del neorealismo sulle successive generazioni al di fuori dell’Italia gli incroci sono facilmente distinguibili a causa della consapevolezza critica dei giovani registi delle loro fonti di ispirazione. In Francia, ad esempio, l’ammirazione di Godard e Truffaut sono ben note e vi sono evidenti affinità tra Visconti e Resnais17.

Lo stesso Armes in Film and Reality dichiara che pur nella sua breve durata di vita il cinema neorealista in Italia ha posto tutte le questioni chiave del cinema realistico di finzione. Vediamo anche alcune voci della critica che rafforzano la percezione della potenza delle immagini che escono dall’Italia dall’indomani della fine della guerra. Rievocando a un anno di distanza l’incontro casuale in una saletta di Cannes con Il bandito di Lattuada, Georges Sadoul non poteva fare a meno di ricordare:

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La Magnani dai capelli sparsi, gli occhi neri, la bocca mobile e sensuale... il neorealismo e la Magnani facevano così irruzione nel nostro dopoguerra. Il bandito fu presto sorpassato ai nostri occhi da Roma città aperta. Ma questo film si eclissò a sua volta il giorno che avemmo in una piccola sala del Palais de Chaillot la rivelazione folgorante di Paisà18.

Ovunque, a partire proprio dalla Francia, il paese colpito alle spalle dall’entrata in guerra di Mussolini a fianco di Hitler nel 1940, il cinema di Rossellini e De Sica appare come un’illuminazione che, di colpo, restituisce all’Italia quei caratteri che l’hanno fatta conoscere e amare nel mondo e che il fascismo non è riuscito a rimuovere del tutto. L’articolo, a mio parere più significativo, e che per primo si muove tendendo esplicitamente la mano per una riconciliazione e una remissione delle colpe, mi è sembrato da tempo quello di Gaston Tery su «L’Humanité» del 30 novembre 1946, dal titolo La revoilà l’Italie de Garibaldi: Vous êtes arrivés de vous brouiller avec l’homme aimé où la femme aimée. Et puis, tout à coup, par hazard, vous vous retrouvez. Et voilà que tout est oublié, les trahisons, les brutalités, vous découvrez que au fond vous êtes restés les mêmes, et vous embrassez en pleurant. Oui, en voyant Paisà nous avons retrouvé l’Italie, la vrai, celle que nous aimons, non pas celle des matamoros historiques, des lachetés sanguinaires, non pas celle de Mussolini, de l’huile de ricin, des bastonnades, de coup de poignard dans le dos, mais l’Italie du peuple, des paysans laborieux, des ouvriers avancés, l’Italie de la beauté et de la misère, l’Italie du soleil et de la revolte, l’Italie de Garibaldi, des antifascistes, des resistants. Paisà est le film de la liberation de l’Italie. Voilà le cinéma que nous attendions, que nous voulions, est c’est une étonnante surprise que cet art revolutionnaire nous vienne du pays même où est né le fascisme. Qu’il vienne du pays le plus pauvre, le plus depurvu de moyens techniques19.

In Francia, da subito si possono trovare le più intelligenti recensioni ai film di Rossellini e De Sica, ma anche di Blasetti, su molti quotidiani, prima che appaiano gli scritti di Bazin su «Arts» e venga realizzato l’intero numero monografico del maggio 1948 della «Revue du cinéma», vero e proprio primo atto di certificazione anagrafica internazionale del prodotto neorealista20. C’è in gran parte di queste recensioni – rispetto all’Italia dove, salvo qualche caso, domina quella che Gadda chiamava «la porca rogna italiana del denigramento di noi stessi»21 e si comincerà ad allargare il consenso verso alcuni film e

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registi solo dopo il successo internazionale di Roma città aperta, Sciuscià, Paisà e Ladri di biciclette – la disponibilità immediata a capire prima di giudicare, la volontà di contestualizzare il film nel quadro di una creatività che ha del miracoloso e nei cui confronti non si nasconde l’ammirazione e l’affettività e il ruolo guida assunto nei confronti delle altre cinematografie. «Il n’y a pas de doute qu’à l’heure actuelle, en Europe, sinon dans le monde, c’est à Rome que le cinéma a sa tête; même quand’il a mal à la tête et même s’il marche parfois pied nus, sous le soleil de Sicile où dans les neiges des Alpes»22 ha scritto Jean-Georges Auriol nel numero citato della «Revue du cinéma». E Louis Chauvet già un anno prima su «Le Figaro» del primo aprile 1947: «Si stenta a credere a questo prodigio: in sei mesi il cinema italiano ha dato Roma città aperta, Sciuscià, Paisà, Quattro passi fra le nuvole, tutte opere di primo rango. È sul punto di prendere la testa del cinema europeo»23. Senza subire alcuna forma di condizionamento o alcuna direttiva, senza vincoli, in quanto privo di tutto, il cinema del dopoguerra diventa così naturalmente l’ambasciatore della volontà di rinascita del paese, l’atto più convincente della sua dignità ritrovata, e un modificatore e un modello e punto di riferimento obbligato. Troviamo scritto su «Fotogrammi»: «In pochi mesi, nel dicembre 1946, Rossellini e Coppi hanno fatto bene all’Italia più dei signori De Gasperi e Togliatti». Se il fascismo e Mussolini vengono presto rimossi nell’immaginazione e nella percezione internazionale della nuova Italia del dopoguerra, una parte non piccola dei meriti di riqualificazione morale del Paese agli occhi del mondo è da attribuire al ruolo trainante dei film riuniti nel segno del neorealismo. Ancora Auriol dirà in un altro discorso sul cinema italiano: «È evidente che ci sono oggi nascoste, nello spirito dei cineasti e visibili nel loro lavoro in America e in Europa, delle intenzioni e preoccupazioni e dei risultati che erano assenti prima che questi artisti avessero scoperto i film italiani»24. In un saggio sulla percezione dell’Italia fuori d’Italia Robert Paris, in un volume della Storia d’Italia Einaudi, sottolineava a sua volta che, per lo spettatore europeo, che ignorava del tutto il cinema italiano, la visione di Roma città aperta: Ha avuto il significato di una Rivelazione, finalmente una serie di cose avevano trovato la loro espressione in un linguaggio vicino a quello europeo. E lo spettatore europeo trovava finalmente ciò che non riusciva a dargli, escluso Joyce (ma chi lo leggeva?), nessuno dei grandi romanzieri:

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un modo di dire, di esprimere la messa a fuoco se non l’invenzione di uno stile di racconto che si trova ad essere involontariamente forse e in mezzo ad altre qualità, il solo valido equivalente della letteratura americana, cosiddetta di comportamento, stile Faulkner e Dos Passos25.

Il neorealismo ha appena mosso i primi passi e già ha contribuito a formare una nuova identità del cinema europeo e inventato una tradizione, un’etica del vedere e del narrare e una capacità di investire il più anonimo gesto quotidiano del senso e del valore di un’epopea collettiva. La «petite histoire évenémentielle» di anonimi personaggi, colti a caso dalla macchina da presa nel loro agire quotidiano, nelle loro incertezze e contraddizioni, si trasforma nella Grande Storia, nella storia di tutti. L’occhio della macchina da presa incontra la Storia e se ne fa cronista e cantore. I film del dopoguerra, oltre ad aver giocato questo ruolo di modificatori, col tempo sono diventati anche un luogo di memoria dell’identità nazionale e della storia collettiva sovranazionale. Già secondo quanto osservava Cocteau nei primi anni Cinquanta, i film del dopoguerra hanno fatto rivivere lo spirito delle Mille e una notte e la macchina da presa di Zavattini-De Sica si è camuffata da Califfo per scendere nelle strade . In effetti Rossellini, prima di Zavattini-De Sica, in modo naturale appare ancora oggi come l’autore più dotato di tutti di uno sguardo capace di osservare la compresenza di un’anima nazionale ed europea nelle azioni che descrive. Ed è il primo vero autore dotato d’uno sguardo stereoscopico capace di vedere e lavorare, già nei mesi in cui la guerra non è ancora finita, con uno sguardo condivisibile da testimoni e vittime europee della guerra in diversi Paesi. In un’intervista a Henri Berryer, Rossellini nous parle de son nouveau film, il regista dice esplicitamente: Quando parlo del cinema europeo non penso affatto a un’entità geografica né a precisi gruppi etnici. Ciò che al contrario voglio esprimere è la nascita d’una nuova anima collettiva, sorta in diversi paesi dalla medesima esperienza: quella dell’oppressione nazista e della lotta di liberazione. In Francia, in Russia, in Polonia, in Grecia, in Italia, si è formata una nuova specie di uomo, per la quale la vita ha assunto un significato nuovo, esigente ed elevato. Uno dei protagonisti del mio film, Don Pietro, il prete, nell’istante in cui cade sotto i colpi del plotone d’esecuzione, dice soltanto «non è difficile morire bene, difficile è vivere bene». Non crede che la stesa differenza avrebbe potuto essere fatta nelle stesse circostanze, da un partigiano francese, russo o polacco?27

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In effetti, quando arriva in Unione sovietica, il neorealismo viene subito amato da tutte le classi intellettuali e sociali. I sovietici riconoscono nelle sofferenze degli italiani le proprie sofferenze, si identificano nelle gesta dei piccoli eroi poveri che con grande coraggio affrontano i problemi del dopoguerra. Natalia Noussinova, nella sua ottima ricostruzione della presenza del cinema italiano nell’Unione Sovietica post staliniana, cita le parole di un noto critico, Vera Scitova, che ricorda come il neorealismo Non veniva analizzato come fenomeno culturale. Ricordiamoci come eravamo in quegli anni. Esisteva un fenomeno estetico e morale unico e omogeneo chiamato «il film italiano» che si è inserito nella coscienza dello spettatore. I nomi dei registi di questi film sono scivolati nella nostra mente, ma senza attaccarsi, senza fare la differenza gli uni con gli altri... il neorealismo non ci ha dato tanti nomi veramente grandi, quanto piuttosto un nome comune28.

Prima che la guerra fredda divida di nuovo il mondo, Rossellini rappresenta una condizione umana in cui l’etica della situazione crea e rende possibile una nuova condizione di condivisione di medesimi obiettivi, salve restando differenze presupposte fondamentali. Quando nel 1946 Roma città aperta viene mostrato a New York, James Agee scrive un articolo entusiastico, ma al tempo stesso pieno di consapevolezza delle contraddizioni e della novità date dalla coesistenza «impossibile» nel film di una doppia anima marxista e cattolica: «I see little that is incompatible between the best that is in leftism and in religion, far too little to measure against the profound incompatibility between them and the rest of the world»29. Sulle contraddizioni, ma anche sulla forza assoluta delle immagini si accentrano molte recensioni americane dell’immediato dopoguerra: penso all’articolo di Robert Warshow su Paisà in «Partisan Review» del 194830. Esiste una ricca letteratura sulle influenze del cinema italiano sul cinema americano degli anni Cinquanta e sugli anni Settanta, e proprio su questo problema assieme a Gianfranco Mingozzi ho cercato di ideare negli anni Ottanta ben due puntate di Storie di cinema e di emigranti. L’ondata neorealista solo in minima parte raggiunge la Spagna, dove, come ben hanno raccontato e ricostruito Ricardo Muñoz Suay e Alfonso Maria Segui, nell’importante convegno sul neorealismo di Valencia del 198331, riesce a superare le barriere della censura franchista con alcuni o molti anni di ritardo (basti pensare che solo i film di De Sica vengono distri-

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buiti a poca distanza dalla loro realizzazione, che Bellissima arriva nel 1958 e Roma città aperta solo nel 1969, mentre non superano le barriere della censura né Germania anno zero né Paisà, né i film di Lizzani o De Santis), ma a divenire fonte di ispirazione per una serie di film e autori per tutti gli anni Cinquanta. Nel 1951 viene organizzata a Madrid la Primera Semana del Cine Italiano in cui, per decisione politica, non vengono mostrati al pubblico i film di Rossellini, De Santis, Visconti. In ogni caso, la visione di alcuni film, per un ampio settore dei giovani cineasti spagnoli, fa sì che la settimana del cinema italiano costituisse un vero e proprio «detonante»32 come ha scritto Alfonso Maria Segui nella sua relazione al convegno valenciano. Ricardo Muñoz Suay diventa nel contesto culturale di fermento del cinema spagnolo l’apostolo del neorealismo e appena ottenuto il passaporto si trasferisce a Roma per vivere più direttamente l’esperienza del cinema italiano. E, grazie a lui e ai suoi articoli, il cinema neorealista, le sue teorie e i film vengono fatti conoscere in Spagna. E, anno dopo anno, l’influenza del cinema italiano si comincia a cogliere in film come Bienvenido Mr. Marshall, come Comicos o Felices Pascuas, o in Sierra Maldida di Antonio del Amo, o in Muerte de un ciclista, ancora di Bardem, o in Calabuig di Berlanga, o in Calle Mayor di Bardem, o in La vida por delante di Fernan Gomez. Zavattini in persona, oltre ad essere molto popolare per i suoi film, va in America centrale e meridionale a fecondare con la sua affabulazione, il suo flusso di idee e la sua energia creativa, le cinematografie nascenti di Cuba e dell’America centromeridionale. Effettua un primo viaggio in compagnia di Lattuada, in occasione di una settimana del cinema italiano, organizzata a Città del Messico, che gli offre l’occasione di andare anche a Cuba dove incontra un giovane, Alfredo Guevara, che gli pone una domanda a proposito del convegno di Parma sul neorealismo che si è appena svolto. E in quella occasione entra in contatto con un giovane produttore, che ha appena prodotto Raices, un film, già ricordato, in simil-neorealismo, e che ingaggia, seduta stante, Zavattini per dare una dimensione internazionale al cinema messicano. Due anni dopo Zavattini torna in Messico e si ferma per oltre due mesi. Subito si rivela una fonte miracolosa di soggetti, una personalità carismatica, un guru, una levatrice e balia di nascenti o giovani cinematografie. Il suo slancio, come ha scritto Paulo Antonio Paranaguá, «met en branle un mouvement, stimule les energies et suscite des vocations […], car il s’appuie volontiers sur un effort

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collectif»33. Zavattini, riprendendo l’idea di Italia mia, tra i vari progetti ne immagina uno, Mexico mio, che non è altro che la trasposizione messicana del suo progetto di raccontare un anno di vita dell’Italia agli italiani, qui concepito però come il racconto della vita messicana in un arco di 36 ore. Poi andrà a Cuba nel 1959 e contribuirà a far nascere il nuovo cinema cubano. Zavattini è una figura pontificale tra i piani alti e bassi del cinema, è un uomo dei fili ma è anche figura angelica e ambasciatore del cinema italiano nel mondo. Oltre a esercitare coi suoi scritti e il suo esempio un ruolo pastorale, ha un ruolo apostolico nei confronti di un consistente numero di registi dei paesi dell’Est, del Messico, del Brasile e dell’Argentina. Si deve ancora a Paranaguá il saggio più documentato e appassionato sul ruolo missionario e di portatore della novella neorealista nell’America centro-meridionale, pubblicato in occasione della grande retrospettiva zavattiniana del 1991 del Centre Pompidou34. Nel 2002 si tiene a Rio de Janeiro un seminario dedicato a Neorealismo e America Latina. Paranaguá, nell’esaminare le caratteristiche e l’insieme dei film raggruppabili sotto il termine «neorealismo sudamericano» (una quarantina circa) include La escalinada del venezuelano César Enriquez del 1950, il Largo viaje del cileno Patricio Kaulen, il film diretto da Aldo Fabrizi in Argentina nel 1948, Emigrantes, e ritiene che in nessun’altra parte del mondo si possa riscontrare una influenza e una tendenza così ampia e così organica come quella del neorealismo35. Il neorealismo si impone sul mercato sudamericano nonostante la potenza di Hollywood come rappresentante ante litteram della cultura europea. Benché il neorealismo abbia avuto un insuperabile potere di deflagrazione e suscitato vocazioni cinematografiche non tutte le strade conducevano a Roma, dal momento che molti giovani aspiranti registi sudamericani andavano a Parigi a studiare all’Idhec. Anche in piccoli Paesi come la Finlandia, dove il primo film neorealista viene mostrato nel 1952, la critica, già dal 1950, di Eugen Terttula, che ha vissuto in Italia per un mese e che lamenta l’assenza del cinema italiano dagli schermi finlandesi, riconosce l’importanza delle opere di Rossellini e De Sica e i caratteri dell’identità nazionale. Nel 1953 il critico e futuro regista Jorn Donner dichiara, in un articolo intitolato In cerca della realtà, pubblicato su «Elokuva Aitta»: «Il cinema neorealista ha realizzato la sacra missione artistica che include il miglioramento della coscienza dell’uomo»36.

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Solo un anno dopo, Gabriel García Márquez, sulle pagine del settimanale «La semana del cine» di Bogotà, lancia un violento grido di amante deluso e ferito definendo ormai il cinema italiano, una volta finita la spinta neorealista, come il peggiore del mondo. Di fronte a titoli che arrivano in Colombia come Le peccatrici dell’isola, Menzogna, Chi è senza peccato..., Di fronte a questa tenebrosa realtà a noi cinefili colombiani non rimane altra scelta, per poter di nuovo ammirare le produzioni italiane, che attendere pazientemente l’arrivo di vecchi film, per incomprensibili motivi mai proiettati a Bogotà: Europa ‘51 e Paisà di Rossellini, Umberto D di De Sica, La terra trema di Visconti, Il cappotto di Lattuada, arrivato e scomparso dopo esser stato proiettato per un gruppo di specialisti37.

Il futuro premio Nobel per la letteratura García Márquez frequenterà, come poi Manuel Puig, il Centro Sperimentale di Cinematografia dal 1955. C’è un’attesa per il cinema italiano che viene registrata da più voci, che ci fa capire come proprio i pochi capolavori del dopoguerra diventino quasi le particole d’una sorta di rito individuale e collettivo e di una forma di religio che unisce trasversalmente cinéphiles e aspiranti registi in un’attesa che si prolunga nello spazio e nel tempo e consente comunque la trasmissione del Verbo neorealista anche attraverso i nuovi mezzi della televisione o delle cassette in Vhs, come racconta Manuel Puig nel suo ultimo libro Gli occhi di Greta Garbo, assumendo il punto di vista d’un anziano emigrato italiano («Venendo in Argentina nel 1948 ci siamo risparmiati l’Italia del miracolo, il benessere, il mercato comune europeo e invece abbiamo goduto per ben due volte del señor Peron, poi degli stivali militari...»38) che sogna di costituirsi, grazie alla generosità dei suoi parenti calabresi, una piccola videoteca di capolavori del neorealismo: E adesso veniamo al sodo. Niente mi renderebbe più orgoglioso di avere una mia collezione dei nostri film più importanti. I grossi capolavori. Io mi ricordo prima di partire, come andavano le cose, la gente era diventata frivola assai, voleva dimenticare, e quei film sulla realtà italiana nessuno li voleva vedere. Io li ho visti in Argentina perché in Italia nessuno mi voleva accompagnare a vederli. E mi sembrava di rivivere quei giorni terribili... E con Rossellini non si vede la finzione, è la realtà che io ho conosciuto che mi si presenta più viva che mai davanti agli occhi. Non so come ci riusciva quell’uomo, più che uomo, titano, vero?39

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Ma è possibile vedere questa azione del neorealismo spingersi ancora oltre, arrivare fino alla generazione di registi italo-americani che esordiscono negli anni Settanta, da Coppola a Scorsese, che hanno sempre riconosciuto e continuano a farlo, il loro debito anche nei confronti di documentari e opere che anche da noi sono state riprese e riconsiderate solo in tempi più recenti, come i documentari degli anni Cinquanta. Registi come De Seta, Olmi, Cecilia Mangini, Di Gianni, i fratelli Taviani, Vancini, Zurlini, sono senz’altro, come vedremo, coloro che negli anni Cinquanta raccolgono il testimone che sta cadendo dalle mani della prima generazione di neorealisti e riescono a farlo rivivere e a conservarne e trasmetterne il fuoco, sia pure in quel mondo parallelo del documentario che mi è piaciuto chiamare di «riserva indiana», per lo più invisibile e mai veramente integrato con il grande cinema di finzione. Solo ora sembrano avviati nuovi processi di assimilazione e integrazione reciproca e anche in questo la lezione e l’eredità neorealista si fanno vedere e sentire e sono misurabili e riconoscibili. Mi piace chiudere citando oltre che la celebrazione e rivisitazione del cinema italiano di My Voyage to Italy anche una sua pagina del 2005, in cui ricorda le emozioni prodottegli dalla visione dei documentari di De Seta che lo hanno condotto per mano a viaggiare nella realtà ancestrale e a percepire le profondità, nella superficie del visibile, delle strade e dei mondi scoperti grazie al magistero neorealista: L’inquietudine, il senso di spaesamento mi hanno accolto dalle prime immagini, mi sentivo impreparato di fronte a ciò che stavo vedendo. Sono stato sopraffatto da un’emozione intensa, come se avessi oltrepassato lo schermo e mi fossi ritrovato in un mondo che non avevo mai conosciuto, ma che improvvisamente riconoscevo… Quello che stavo guardando era la mia cultura ancestrale, che volgeva alla sua fine, a un passo dal suo ingresso nella sfera del mito... Erano i figli di Sisifo che aveva imprigionato Thanatos per evitare il decesso dei mortali, i figli di Prometeo che aveva rubato il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, e per questo erano stati puniti per l’eternità. Era il cinema nella sua essenza, in cui il regista non registra la realtà, ma la vive in prima persona40 .

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Note 1. G.P. Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo (1930-1943), Liviana Scolastica, Padova, 1969. 2. M. Livolsi (a cura di), Il consumo culturale, Biennale, Venezia, 1982. 3. P. Hulten, G. Celant (a cura di), Arte Italiana. Presenze 1900-1945, Bompiani, Milano, 1989. 4. G. Celant (a cura di), Creativitalia. The Joy of Italian Design, Electa, Milano, 1990. 5. G. Celant e I. Gianelli (a cura di), Memoria del futuro. Arte italiano desde las primeras vanguardias a la posguerra, Bompiani/Centro de Arte Reina Sofía (Madrid), Milano, 1990. 6. G. Celant (a cura di), The Italian Metamorphosis, Solomon R Guggenheim Museum, New York, 1994. 7. E. Viganò (a cura di), NeoRealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, Admira Edizioni, Milano, 2006. 8. L. Solaroli, Esterni dal vero, esterni in studio, in «Cinematografo», 12, 1929. 9. U. Barbaro, Introduzione, in V. Pudovkin, Il soggetto cinematografico, a cura di U. Barbaro, Le Edizioni d’Italia, Roma, 1932. 10. Cinema italiano. Manca tutto ma si lavora lo stesso, in «Mondo Nuovo», I, n. 1, 19 marzo 1945, p. 24. 11. Cfr. Gilles Deleuze, La crise de l’image-action, in Cinéma 1. L’image-mouvement, Minuit, Paris, 1983, pp. 266-290; Au-delà de l’image-mouvement, in Cinéma 2. L’image-temps, Minuit, Paris, 1985, pp. 7-37. 12. M.R. Galvao, Burguesia e cinema: o caso Vera Cruz, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro, p. 192. 13. S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962. 14. G.C. Castello, Il cinema neorealistico italiano, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1956. 15. R. Armes, The Heritage of Neo-realism, in Patterns of Realism. A Study of Italian Neo-Realism, Tantivy Press, London, 1971. 16. Cit. in R. Armes, The Heritage of Neo-realism. 17. Ibid. 18. G. Sadoul, Le neo-realisme italien vu par un Français: un cinéma profondement de son temps, in «Ciné-Club», n. 2, gennaio 1950. 19. G. Tery, La revoilà l’Italie de Garibaldi, in «L’Humanité», 30 novembre 1946. 20. J.G. Auriol, D. Tual (a cura di), Spécial cinéma italien, in «La revue du cinéma», n. 13, maggio 1948. Su queste questioni si veda anche il saggio di Jean Gili in questo stesso volume. 21. C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Saggi giornali favole II, Garzanti, Milano, 1992, p. 539. 22. J.G. Auriol, Entretiens romains, in J.G. Auriol, D. Tual (a cura di), Spécial cinéma italien, cit. p.54.

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23. L. Chauvet, Cinéma italien, in «Le Figaro», 11 aprile 1947. 24. Cit. in A. Costa, Aimons l’Amerique... aimons l’Italie! Il cinema italiano e una “certa tendenza” della critica francese, 1945 - 1965, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996, pp. 408-439. 25. R. Paris, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, vol. 4, parte 1, Einaudi, Torino, 197276, pp. 506-818. 26. J. Cocteau, Le passé defini, Gallimard, Paris, 1983, p. 351. 27. H. Berryer, Rossellini nous parle de son nouveau film, in «Front national», 6 novembre 1946. 28. Cit. in Il cinema italiano nel mondo. Atti del convegno internazionale: Pescara 11-1213 luglio 2002, Ediars-Oggi e domani, Pescara, 2002, p.71. 29. J.Agee, Rome, Open City, in «The Nation», March 23, 1946. 30. R. Warshow, Film Chronicle: Paisà in «Partisan Review», vol. XV, 7 luglio 1948. 31. L. Micciché (a cura di), Introducción al neorrealismo cinematográfico italiano, 3 volumi, Valencia, Publicaciones del Archivo Municipal de Valencia, Mostra de Cinema Mediterrani, 1982-1983. 32. A.M. Segui, in L. Micchiché (a cura di), cit. 33. P. A. Paranaguá, Gabriel García Márquez et le cinéma, in «Positif», 316, 1987. 34. A. Bernardini, J.A. Gili (a cura di), Ciao Zavattini. Hommage à Cesare Zavattini (catalogo della mostra tenutasi a Parigi, Centre Georges Pompidou, 5 dicembre 1990 - 7 marzo 1991), Editions du Centre Pompidou e Editions de la Regione Emilia-Romagna, Paris-Bologna, 1990. 35. P.A. Paranaguá, Neo-realismo na América Latina, in «Cinemais», n. 34, aprile/giugno, 2003. 36. J. Donner, In cerca della realtà, in «Elokuva Aitta», 1953. 37. G. García Márquez, Ancora cinema italiano, in «La semana del cine», 13 novembre 1954. 38. M. Puig, Gli occhi di Greta Garbo, Leonardo, Milano, 1991, p.14. 39. Ivi, p.17. 40. M. Scorsese, My Voyage to Italy, Italia/USA, 1999-2005.

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Il neorealismo secondo Zavattini, una lunga messa a fuoco Orio Caldiron Non si capisce cos’è il neorealismo per Cesare Zavattini se non ci si immerge nelle pagine affollate del Diario cinematografico, il capolavoro dello scrittore emiliano dove sfilano più di trent’anni di idee, proposte, incontri, appunti di viaggio, interventi, dichiarazioni, proclami, sempre in bilico tra discorsi a braccio e pagine esemplari messe a punto in un puntiglioso faccia a faccia con la scrittura. «Troppo ho parlato, ne convengo, sarebbe bastato qualche metro di pellicola girato in proprio, se ne fossi stato capace, per parlare assai meno», ammetteva nel 1967. «Che bei tempi, tuttavia, era un continuo comizio, si presumeva di cambiare il mondo o il governo mediante una dozzina di film, slogan che uscivano dal petto con la determinazione di una pallottola»1. Diario di bordo del pianeta Zavattini sullo sfondo di un’epoca di battaglie molto accese e di forti tensioni, è un flusso continuo, indiscriminato, magmatico in cui cinema e vita si rincorrono, si contraddicono, si sovrappongono nella «radiosa epifania del qui e ora», di quel «durante» che lampeggia nelle proposte più audaci e radicali del suo cinema da fare, spesso contraddetto dai compromessi della sua attività di soggettista e di sceneggiatore per conto terzi, di cui era lucidamente consapevole2. Sul filo del vissuto giorno per giorno il primo appunto rivelatore è su un film da fare che non si farà. S’intitola Italia 1944. Subito dopo la liberazione della capitale, con Lattuada, Fabbri, Monicelli propone a Ponti di partire da Roma con un camion, bastano pochi soldi, le macchine da presa, la pellicola, qualche lampada. Sulla base del canovaccio morale, anzi politico, di pochissime pagine, lo svolgimento del film si affida alle occasioni che gli consentiranno di cogliere l’irripetibilità del momento: «Il cinema deve tentare questa documentazione», dice Zavattini, «ha i mezzi specifici per spostarsi nello spazio e nel tempo, raccogliere dentro la pupilla dello spettatore il molteplice e il diverso, purché abbandoni i consueti modi narrativi e il suo linguaggio si adegui ai contenuti […]. L’imprevisto ci aspetterà a ogni svolta»3. Sarà lui stesso lo speaker dell’avventuroso itinerario, fermandosi nelle piazze di ogni paese, dove la gente ricomincia lentamente a vivere per avviare tra le rovine una sorta di riesame collettivo di quello che è successo. Sulla cronaca di Roma del quotidiano «Il Tempo» di fine ago-

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Orio Caldiron

sto 1947 appare la notizia: «Un uomo si ucciderà l’8 settembre». Si tratta di un reduce in crisi, di cui i giornali continuano a interessarsi anche nei giorni successivi. Zavattini riprende il soggetto che ha scritto l’anno prima su un uomo che vuole uccidersi in piazza coram populo: arricchito dagli avvenimenti recenti e dalla gara di solidarietà suscitata dalle dichiarazioni del reduce, ne potrebbe uscire «un film importante, sulla pelle delle cose»4. C’è una parte per me? Sono in molti a chiederglielo a ogni nuovo film. Gli telefonano, gli scrivono, mandano poesie, accludono foto. Seduti sul divanetto dello studio, parlano di sé, sperano che il cinema risolva i loro problemi. Quando si festeggia l’Oscar per Sciuscià, sono già cominciati i sopralluoghi per Ladri di biciclette, dalla messa dei poveri alla visita alla Santona5. Qualche anno dopo è a via Panama con Caterina Rigoglioso, la donna che ha abbandonato il figlio di due anni davanti a una chiesa ma il mattino dopo corre a cercarlo e ora è proprio lei a ricostruire la sua storia. Maselli carrellava – osserva Zavattini – il muoversi del carrello era come il respiro, ciascuno ha un suo respiro […], non si può respirare nello stesso identico modo in due, la regia deve essere una. […] Se non si ha qualcosa di importante da dire, che cosa sono questi enormi fari che si chiamano bruti e i metri di cavi che vanno su per le scale, entrano nelle finestre, attraversano cortili, corridoi, camere, e l’attimo così solenne di silenzio prima del ciak come quello che precede sempre una nascita?6.

Si accumulano i materiali per il film su Van Gogh, dal viaggio tra Olanda, Belgio, Francia in cui incontra il figlio di Théo, i vecchi dell’ospizio di Neunen fino alla visita al cimitero di Auvers-sur-Oise in mezzo ai campi di grano: Forse c’è solo una ragione che giustifica un film su quest’uomo: far vedere che cosa è la pittura Il cinema ha i mezzi tecnici per mostrare come una specie di tavola sinottica mobile gli elementi che compongono un’opera, le relazioni tra questi elementi, contribuendo così a assolvere quello che mi pare il compito più grosso della cultura moderna, indicare l’infinita interdipendenza delle cose e delle persone. […] Un quadro non è solo bello o brutto, è la guerra o la pace, l’odio, l’amore, l’assassinio, il furto, Dio, il vizio, la menzogna, il tradimento, il dolore, la gioia, la patria, il paese natale, le ore, i giorni, gli anni, il calar del sole, e tante altre cose precise come la cronaca7.

Non andrebbero trascurati né il viaggio in Spagna, seimila chilometri in

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automobile per vedere prima di scrivere, in cui nascono le cinque storie spagnole e la feroce satira dei festival cinematografici, né la trasferta messicana con i suoi progetti destinati a restare irrealizzati dopo aver alimentato pagine e pagine del Diario e la ricchissima corrispondenza con Ricardo Muñoz Suay e Manuel Barbachano Ponce. Ancora più significativo il soggiorno cubano tra il dicembre 1959 e il febbraio 1960, l’appassionato seminario con i giovani e promettenti sceneggiatori e registi dell’Istituto Cubano del Arte e Industria Cinematograficos, in cui nel corso di lunghe e quotidiane riunioni vengono abbozzati numerosi progetti. Nello scenario del dopo-rivoluzione si sente nel cuore dei fatti e gli sembra di rivivere le possibilità e le contraddizioni del tentativo neorealista di «andare sempre più in fondo alle cose». Ma l’esperienza si interrompe bruscamente: «Fra gli errori più gravi della mia vita di cineasta metto sempre l’aver interrotto la mia permanenza a Cuba per tornare a Roma a sceneggiare La ciociara»8. Il Diario è un termometro. Se nell’immediato dopoguerra ha registrato la febbre del cinema, da un certo momento in poi interviene sempre più spesso sulla televisione che gli sembra una grande occasione soprattutto per i giovani9. Sarebbe un caso di imperdonabile miopia non accorgersi che a volte Zavattini – soprattutto nella sua lunga collaborazione con «Cinema Nuovo», in cui per parecchi anni appare il Diario – è ostaggio della formula più che della sostanza del fenomeno, come è il caso della canzone neorealista, del «Bollettino del neorealismo», degli stessi fotodocumentari pubblicati sul quindicinale che pur con i loro meriti indulgono agli «stracci, straccetti, dolori et similia». Ma come dimenticare che il Diario si chiude idealmente nel 1969 nel nome Godard? Godard è un neorealista. Si dibatte genialmente tra la metafora e il documento, tra la mediazione e la presa diretta andando verso l’autobiografia come il solo mezzo per unificarsi. Da un film all’anno è arrivato a tre o quattro film e aumenterà fino al film quotidiano, ho già avuto occasione di dirlo, cioè al film interrompibile, quale espressione di un cinema strumento al punto da poter essere interrotto per fare una cosa che non è più il film ma che il film ha aiutato a individuare. Il neorealismo aveva compreso il dramma di Godard ante litteram, per questo lo hanno seppellito che era ancora vivo10.

Nel corso di una riflessione appassionata e battagliera – tra ripensamenti e passi avanti, contraddizioni ingenue e geniali anticipazioni – insiste a più

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riprese sulle inespresse potenzialità del cinema. La macchina da presa – non si stancherà mai di ripeterlo, moltiplicando le metafore e gli esempi – dovrebbe essere usata come una lampada per analizzare le cose davanti a noi, rappresentare ciò che sta accadendo, facendo sì che la conoscenza diventi meraviglia e minimo lo spazio tra intuizione e realizzazione: «Il cinema è veramente un rapporto dell’occhio con le cose viste. Perché l’immaginazione e l’occhio sono proprio la chiave del mezzo tecnico. La macchina quindi non fotografa, non deve fotografare ciò che abbiamo pensato, ma fotografa ciò che pensiamo nell’atto stesso in cui vediamo»11. Nel 1949 suggerisce il diagramma della rivoluzione neorealista sorta a ridosso della guerra: «Ci accorgemmo in mezzo alle macerie di aver speso troppe poche immagini per aprire gli occhi al nostro prossimo e aiutarlo a fronteggiare, addirittura a impedire, così i mostruosi avvenimenti»12. La rifondazione del cinema gli sembra possibile soltanto attraverso un ideale ritorno alle origini: Ci pare di essere alla vigilia di ritrovare plasticamente il valore originale della nostra immagine. Questo, del resto, era il cinema dal primo aprirsi dell’obiettivo alla luce del mondo. Tutto gli era uguale allora, tutto degno di essere fermato sulla lastra. Fu il momento più incontaminato e promettente del cinema. La realtà, sepolta sotto i miti, riaffiorava lentamente. Il cinema cominciava la sua creazione del mondo, ecco un albero, ecco un vecchio, una casa, un uomo che mangia, un uomo che dorme, un uomo che piange13.

Si viene delineando l’orizzonte di una nuova concezione del cinema che radicalizza l’utopia neorealista attraverso l’inchiesta e il film-lampo che puntano sulla capacità di cogliere l’evento in quanto ha di essenziale e sull’assoluta rapidità dell’approccio, finalmente affrancato dai condizionamenti dello spettacolo cinematografico. Il cinema ha la possibilità di essere considerato per la prima volta «come bisogno di espressione totale dell’autore, e pertanto come bisogno di contatti totali e nel cuore della realtà», nel contesto della progressiva liberazione e socializzazione delle energie creatrici a lungo frenate dalla produzione tradizionale. Il rifiuto del cinema com’è, di una storia del cinema condizionata, si risolve nella scommessa di un nuovo inizio, in nome della storia del cinema che avrebbe dovuto essere: «Il nostro cinema vorrebbe far irrompere nello spettacolo, come estremo atto di fiducia, novanta minuti consecutivi della vita di un uomo. Ciascuno di questi fotogrammi sarà ugualmente intenso e rivelatore, non sarà più

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soltanto il ponte per il fotogramma seguente, ma vibrerà in sé come un microcosmo. Allora la nostra attenzione diventerà continua, e direi perpetua, come deve essere di un uomo per un altro uomo. Riusciremo a questo?»15. Se già alla fine degli anni Cinquanta deve constatare che il neorealismo «è come un morto in catalessi», sostiene che proprio in quel momento non si può prescindere dal neorealismo: «Il neorealismo ora c’è più che mai, perché è proprio la posizione critica, conoscitiva, dell’uomo di fronte alla realtà». All’inizio degli anni Sessanta, nella lunga preparazione di I misteri di Roma, si ripropongono i temi dell’inchiesta, dell’autobiografia, del diario16. Il cinema, dopo tante favole, racconterà soltanto il diario di un uomo: Il diario […] avrà la misura del capire per fare, strumento cioè e non fine, per cui la sua pagina in corso può darsi sempre sia l’ultima con la trepidazione di un’ala che sta per battere. […] Dalla carta passerei volentieri a dei film con la pellicola di fotogrammi tutti divisi in due, contemporaneamente si vede io di qua che mangio che bevo che dormo che scrivo e la situazione di là17.

Se il neorealismo è sempre incompiuto, una sorta di paradigma ideale sottoposto a continue verifiche, non sarà improprio cercarlo anche nelle centinaia di soggetti irrealizzati, nelle migliaia di pagine di appunti, postille, varianti e riscritture che hanno animato per tanti anni l’insoddisfatta carica innovativa di Zavattini, la sua inattesa capacità di folgorazione. Anche nelle pagine del Diario e negli abbozzi teorici il neorealismo è spesso potenziale, ipotetico, immaginario, fantasmatico, ma quello dei soggetti rimasti sulla carta, nonostante l’accanimento terapeutico con cui s’è cercato di tenerli in vita e di offrirgli una seconda chance, è il fantasma di un fantasma. Siamo assolutamente nel campo del virtuale, di quei sogni e fantasmi del cinema che non c’è ma avrebbe potuto esserci18. Nei soggetti irrealizzati dell’inizio anni Cinquanta, Tu, Maggiorani ripercorre la storia di Lamberto Maggiorani, l’operaio della Breda che era stato scelto come protagonista di Ladri di biciclette, impegnandosi, una volta finito il film, a tornare al lavoro senza pensare più al cinema. Ma l’anno successivo, in un momento di recessione è tra i primi a essere licenziato. Il finale alza i toni fino a fare del protagonista il simbolo dei tanti eroi antieroi che nel dopoguerra hanno cercato inutilmente la solidarietà degli uomini:

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E Maggiorani cammina, cammina ancora per le strade di Roma, passa per la galleria di piazza Colonna, passa davanti al Parlamento, va su per via Veneto piena di gente di cinema. […] Il suo passo sembra ora diventare il passo stanco e strascicato di cento di mille persone. Alle sue spalle ci sono tutti i personaggi dei film che hanno invocato in questo dopoguerra l’aiuto degli uomini, l’attacchino Antonio, il prete di Roma città aperta, i bambini di Sciuscià, il bambino di Germania anno zero – e folle, folle che piangono nelle sale dei cinema, folle che applaudono in un impeto fraterno il personaggio fittizio e non fanno niente per il personaggio vero. Cammina e cammina e intanto arrivano alle agenzie di stampa dei cablogrammi: «Mandateci foto e biografie di Maggiorani». Cammina cammina, e sopra un giornale americano appaiono le foto che i due giornalisti gli hanno fatto davanti alla sua fabbrica vuota. Una lo rappresenta tutto ridente con il bambino in braccio poi ci sono altre fotografie di lui, della moglie, dei figli vestiti da attori, tutti sono ridenti. Tutto sembra una gran festa. Cammina cammina. Appare su un giornale americano un gran titolo: «Maggiorani disoccupato». Cammina cammina19.

La prima idea di Italia mia, uno dei suoi progetti più importanti e travagliati, risale alla primavera 1951, mentre sta ancora lavorando alla sceneggiatura di Umberto D. È il tipico «film senza copione» attraverso il quale si dovrebbe sentire «il grido della realtà»20. Nonostante l’iniziale disponibilità di De Sica e il successivo entusiasmo di Rossellini, il progetto resta irrealizzato, né maggiore fortuna ha vent’anni dopo il tentativo di ripensarlo come inchiesta televisiva. Nelle numerose circostanze in cui torna a riflettere sulla grande occasione mancata, sottolinea la novità di Italia mia: Quel progetto […] ha per me avuto il valore di una dichiarazione d’amore, non solo al mio paese, ma a tutti i luoghi della terra nei quali abitano almeno due persone. Cominciamo dal mio paese, dissi, dall’Italia. […] Il cinema era la grande nave che poteva accompagnare ciascuno di noi in questo viaggio di allontanamento da se stessi. […] Quasi mi vergognavo di qualsiasi idea di racconto che avessi in testa perché mi pareva che solo dopo aver visto e aver udito si potessero con diritto far nascere dei racconti. Anzi, il vedere e l’udire era forse il nuovo racconto che si profilava all’orizzonte21.

La cavia rimanda ai materiali elaborati nel corso di una lunga e complessa gestazione dal 1961 al 1963. Se per un verso si riallaccia alla carica polemica dei soggetti degli anni Cinquanta come Tu, Maggiorani e Bellissima, in cui il tema dell’attore preso dalla strada e dei concorsi per volti nuovi

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innesca il processo al cinema, alle sue illusioni mistificanti, per un altro verso riprende la struttura dell’inchiesta che era stata al centro dell’esperienza neorealista e del progetto mancato di Italia mia. Maurizio Arena è il soggetto-oggetto di una ricognizione a tutto campo. Il senso di pietas implicito in Storia di Caterina si capovolge nella dimensione negativa dell’antieroe. Sin dalla prima traccia si direbbe che l’attore romano non sia un’incarnazione qualsiasi, una delle tante possibili, delle diffuse mitologie della società di massa alle soglie del boom, ma ne rappresenti piuttosto un’esemplificazione eccessiva, abnorme, estrema22. Gli estri beffardi, gli umori grotteschi, i tratti demistificatori della confessione in pubblico di un piccolo ma clamoroso mito divistico, di un «povero ma bello» deciso a mettersi a nudo sullo schermo, fanno pensare che la nuova commedia italiana avrebbe dovuto essere secondo Zavattini amarissima e crudele, segnando definitivamente il passaggio dal neorealismo rosa al neorealismo nero. All’inizio degli anni Settanta, L’ultima cena tira le fila di idee, spunti, ipotesi, riflessioni che sono venute affiorando in un lungo arco di tempo da La conferenza fino a La veritàaaa. Vi si trovano la suggestione del film in piazza, la tentazione del monologo sui rapporti tra sé e gli altri, l’urgenza della ricerca della verità, la necessità del bilancio individuale e collettivo, la provocazione dell’autoanalisi, tra effrazioni e invadenze. La struttura del racconto è incentrata sulla cena come convivialità istituzionalmente aperta alla discussione a più voci, in cui si ripropongono le grandi domande in una vertiginosa volontà di capire che non esclude la crudeltà. Sorta di ideale riepilogo delle inchieste sull’uomo che, dopo i grandi viaggi italiani e le fertili trasferte straniere, gli sembrano il compito più urgente e ineludibile di chi voglia misurarsi con i battiti più segreti della propria coscienza, L’ultima cena ci appare oggi come lo sproloquiante testamento dell’ininterrotto neorealismo in action di Cesare Zavattini che ci consegna l’inedita rappresentazione, al tempo stesso radicalmente cristiana e laicissima, della cena tra amici nel paese-mondo di Luzzara, dove il coraggio di andare fino in fondo, incidendo con chirurgica lucidità nel cuore del reale, si popola dei lampi e dei fantasmi di un notturno padano di singolare freschezza. Se fosse riuscito a realizzarlo, avrebbe voluto proiettarlo sul cielo, in modo che fosse visibile nello stesso istante in ogni parte della terra23.

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Note 1. C. Zavattini, Straparole, Bompiani, Milano, 1967, ora in Id., Opere 1931-1986, a cura di S. Cirillo, Bompiani, Milano, 2002, p. 401. 2. Sullo sceneggiatore sospeso tra il cinema «com’è» e il cinema «come dovrebbe essere» si veda O. Caldiron, Cesare Zavattini, Il paradosso dell’autore, in Id., Il paradosso dell’autore, Bulzoni, Roma, 2004, pp. 15-36. 3. C. Zavattini, Diario cinematografico, Bompiani, Milano,1979, ora in Id., Cinema. Diario cinematografico. Neorealismo ecc., a cura di Valentina Fortichiari e Mino Argentieri, Bompiani, Milano, 2002, p. 45. 4. Ivi, p. 66. 5. Ivi, pp. 70-77. 6. Ivi, p. 150. 7. Ivi, pp. 111-112. 8. C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, Milano, Bompiani 1988, ora in Id., Lettere. Una, cento, mille lettere. Cinquant’anni e più…, a cura di S. Cirillo e V. Fortichiari, Bompiani, Milano, 2005, p. 399. 9. C. Zavattini, Cinema, cit., p. 294. Cfr. A.C. Maccari, Zavattini ha le antenne. Pensieri sulla televisione, Bulzoni, Roma, 2010, pp. 125-154. 10. Ivi, pp. 572-573. 11. Ivi, p. 689. Sulla modernità zavattiniana resta fondamentale il saggio di G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, 1993, pp. 157-175. Sulla riflessione teorica il contributo più recente è quello di S. Parigi, Fisiologia dell’immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini, Lindau, Torino, 2006. 12. C. Zavattini, Cinema, cit., p. 678. 13. Ivi, p.681. 14. Ivi, pp. 681-682. 15. Ivi, p. 847. 16. Ivi, pp. 912-914. 17. Ivi, p. 560. 18. Cfr. C. Zavattini, Uomo vieni fuori! Soggetti per il cinema editi e inediti, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma, 2006. 19. Ivi, p. 144. 20. Ivi, pp. 155-161. 21. C. Zavattini, Lettere, cit., p. 256. 22. Su La cavia – e più in generale sul rapporto con gli attori – si veda il dossier Cesare Zavattini: parliamo dell’attore, a cura di O. Caldiron e S. Parigi, «Bianco & Nero», LXIII, 6, novembre-dicembre 2002, pp. 7-136. 23. Su L’ultima cena si veda C. Zavattini, Uomo vieni fuori!, cit., pp. 459-490.

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Viaggi in Italia, viaggi a Luzzara. Su Zavattini e dintorni Emiliano Morreale 1. Il Diario cinematografico di Zavattini, che all’epoca usciva a puntate su «Cinema Nuovo», registra alla data del 13 aprile 1953 il soggiorno dell’autore a Luzzara, sua città natale, insieme al fotografo americano Paul Strand e alla moglie di quest’ultimo. Strand vive in Inghilterra, è andato via dagli Stati Uniti per sfuggire al maccartismo, lui intellettuale di sinistra con simpatie comuniste1. Ha conosciuto Zavattini all’importante convegno di Perugia del settembre 1949, una sorta di adunata o di «che fare?» del cinema italiano neorealista e non solo, quando era ormai cominciata l’età del «centrismo»2. Cesare Zavattini è tra i nomi di punta di un cinema italiano emergente (Ladri di biciclette è appena uscito). Strand, invece, è una sorta di patriarca della fotografia americana, pupillo di Alfred Stieglitz, pienamente calato nel modernismo d’avanguardia di inizio secolo, ma insieme uno dei fondatori di un’estetica realista in fotografia. Qualche anno dopo, con la mediazione del comune amico Virgilio Tosi, Strand chiede a Zavattini di fare insieme a lui un libro fotografico sull’Italia. Dopo varie esitazioni, la scelta finisce col cadere proprio su Luzzara, dove Strand si reca sia da solo che in compagnia di Zavattini. Il libro verrà pubblicato da Einaudi nel 1955 e, come spesso capita, si incastra tra spezzoni similari del percorso di Zavattini, il quale insegue da anni un progetto cinematografico di inchieste filmate, una serie da intitolare Italia mia che però si rivela sempre più impraticabile per il mezzo-cinema.

2. Italia mia si situa all’incrocio di due progetti zavattiniani di lunga durata, di quelli quasi programmaticamente irrealizzabili e che finiscono per nutrire diverse incarnazioni parziali, compromissorie: il tema dei diari e quello del giro d’Italia3. Il primo risale agli anni della guerra, e non produrrà risultati significativi, se non in certi appunti di Zavattini stesso, e nella sua personale pratica diaristica: ma sfocerà in Italia domanda, la seguitissima

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rubrica di posta con i lettori, ideata da Zavattini fin dal titolo e pubblicata a partire dal 1950 su «Epoca», il nuovo rotocalco edito da Mondadori. Il secondo progetto, invece, è il vero e proprio Italia mia, nato come vedremo nei mesi della guerra civile, tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, e ripreso poi nel momento della crisi del cinema neorealista4. Nel 1951 sembra che questo progetto debba concretizzarsi in un film diretto da Rossellini (il quale girerà l’anno successivo un Viaggio in Italia di ispirazione assai diversa: di laica, esistenziale rivelazione della realtà). In una lettera del 16 dicembre Zavattini espone al regista il piano dell’opera con i primi spunti, da potersi girare addirittura nelle settimane successive: decine di episodi, tra cui i mutilatini di don Gnocchi, i pupari a Palermo (Zavattini ci tornerà insieme Soldati in Chi legge?, 1959-60), il Natale a Roma (con operai che si costruiscono una casa abusiva: è il germe de Il tetto, 1956), la caccia al lupo in Abruzzo (sul tema De Santis girerà nel 1956 Uomini e lupi, ma su sceneggiatura di Tonino Guerra), una lezione in una scuola elementare, il Po dopo l’alluvione del Polesine avvenuta proprio quell’anno, la madre di un eroe della resistenza che legge una lettera del figlio, la stazione Termini di notte (altro seme: Stazione Termini, 1953), il totocalcio, i sassi di Matera, le zolfare e l’occupazione delle terre incolte; e, per finire, Padre Pio. Rossellini però si defila, e così poco dopo anche De Sica. Da cinematografico il progetto diventa editoriale: una collana di libri fotografici per Bompiani (che è in quel momento l’editore di Zavattini, ma rifiuta l’idea) e poi per Einaudi. Il 27 febbraio del 1953 Zavattini stende un elenco di ipotetici volumi. «I registi non riescono a trovare il tempo, anche se lo vorrebbero», e alcuni forse potrebbero però rientrare come autori di qualche testo da accoppiare a fotografie di altri. Tra i temi ci sono Le serve; un Viaggio sul Po; I bambini; Vita di un paese; Le zolfatare; Via Emilia; Lucania; L’amore in Italia (che in pratica è già in produzione come film collettivo, col titolo L’amore in città); Napoli. Natalia Ginzburg farebbe Le donne. In estate parte una lettera per i collaboratori: «Questa collana vuole contribuire a far conoscere sempre meglio l’Italia e gli italiani. (…) La sua parentela con il nuovo cinema italiano è molto evidente. Lo spirito del cinema entra così anche nel libro»5. Tra i futuri libri citati c’è dunque Vita di un paese, ed è qui che troviamo Strand. Zavattini sostiene di essere arrivato solo alla fine all’idea di Luzzara, mentre le prime ipotesi prevedevano una cittadina del basso Lazio. Il 30 ottobre 1953 Einaudi riceve comunicazioni sullo stato dell’ope-

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ra: De Sica (testi) e Patellani (foto) faranno il libro su Napoli il mese successivo, mentre bisognerà insistere per un Roma di Rossellini e aspettare per Milano di Visconti, mentre Renzo Renzi potrebbe fare Viaggio sul Po (dalla fonte al mare). Ma soprattutto, annuncia Zavattini, Strand «ha circa 120 foto pronte di cui un’ottantina dovrebbero costituire il libro».

3. Il film-viaggio è una costante delle teorie di Zavattini, ma esso, pur progettato a lungo, e saltuariamente osservabile in alcuni esiti dei primi anni Quaranta (Quattro passi fra le nuvole, 1942, diretto da Alessandro Blasetti), ricorre sempre più innestandosi sulle riflessioni del dopoguerra, e in particolare dalla crisi del neorealismo alla nascita della televisione. Così ne riassume le varie forme Stefania Parigi: Questa tipologia di film, o meglio di cinema, assume negli anni diverse misure spaziali e temporali: il viaggio di esplorazione può riguardare il mondo (si intitola Il giro del mondo un progetto concepito per De Sica ancor prima di Italia mia); una nazione (l'Italia, ma anche gli Stati Uniti, Cuba o il Messico), una città (Roma, per esempio, in I misteri di Roma); un paese (Luzzara) e perfino un uomo (si ricordi, per tutti, il progetto cardine di Diario di un uomo). Quanto al tempo, esso può essere retrospettivo e attuale (come nella prima idea di Italia mia concepita per De Sica, che va dalla fine della guerra al ’51), può coprire l'arco di un anno, riproponendo il ciclo delle stagioni (come nella seconda versione di Italia mia approntata per Rossellini), adottare la misura della giornata (è quanto accade in I misteri di Roma) o dei «90 minuti della vita di un uomo» e addirittura concentrarsi su pochi istanti analizzati al rallentatore, con continui andirivieni tra il prima e il dopo. In ogni caso il frammento, e anzi il momento contrapposto all'episodio concluso, viene indicato come il metro per il film-viaggio. Il piccolo e il grande, il breve e il lungo hanno per Zavattini la stessa configurazione cellulare e rimandano incessantemente l'uno all'altro, offrendo il terreno per una identica attività conoscitiva, anche se poi le tensioni analitiche dello scrittore finiscono per prediligere la dimensione piccola, a volte addirittura minuscola6.

Il «viaggio in Italia» di Zavattini aveva trovato la sua prima forma dopo l’8 settembre. Non fu un caso. Si chiamava Italia 1944, e lo scrittore racconta di averlo elaborato con Alberto Lattuada, Diego Fabbri e Mario Mo-

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nicelli proponendolo al produttore Carlo Ponti: un percorso da fare a Sud, verso Napoli, la Calabria, magari la Sicilia: Lo svolgimento del film è affidato alle occasioni che incontreremo, o meglio che speriamo di incontrare nella parte liberata del nostro paese. Sarò lo speaker dell’avventuroso itinerario, e noi stessi della troupe attori e spettatori, a seconda delle circostanze. Il progetto mi è nato mesi fa dal convincimento che solo in questo momento gli uomini hanno una forza di sincerità che perderanno di nuovo prestissimo. Oggi una cosa distrutta è una cosa distrutta, l’odore dei morti non è scomparso, dal nord arriva l’eco delle ultime cannonate, insomma lo stupore e la paura sono interi e quasi studiabili in vitro7.

L’intuizione del momento storico è piuttosto chiara. Infatti, prima ancora del 25 aprile, è l’8 settembre che rivela l’Italia agli (intellettuali) italiani, volenti o nolenti. Sia che partecipino alla resistenza, sia che – più spesso – fuggano o si nascondano, s’imbatteranno in forme inedite di solidarietà e di sopravvivenza, scoprendo nei loro giri fortunosi una nazione terrorizzata e piena di speranza. La fuga più celebre è quella multipla, immortalata in vari testi, che coinvolge in diverse tappe Mario Soldati, Leo Longanesi, Dino De Laurentiis, Riccardo Freda, e poi (giunti a Napoli) Gabriele Baldini, Aldo Garosci, e molti altri personaggi, ugualmente celebri e bizzarramente assortiti8. Ma sono moltissimi gli scrittori, i registi, gli artisti, che «scoprono l’Italia» in prima persona, immediatamente prima che arrivi a svelarla al mondo il cinema neorealista, a cominciare dal «viaggio» più simbolico di tutti, quello (da Sud a Nord) di Paisà (1946). Si tratta di una curiosa prospettiva: da un lato si riscopre l’Italia umile, dimenticata, dei mille paesi; dall’altro si ha la percezione netta, nella sventura, di un comune destino, di una ritrovata «unità d’Italia» in termini diversissimi da quelli della retorica fascista. Perfino, in alcuni casi, la possibilità di un nuovo patriottismo, libero dalla retorica fascista.

4. Un paese di Strand-Zavattini9 resterà il primo e ultimo titolo della collana, che sarà intitolata appunto Italia mia. Ma il progetto di un’Italia da raccontare a episodi, in un colpo solo, conoscerà anche in seguito nuove incarnazioni: nel

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1958, ad esempio, c’è ancora un lungo progetto di cartone animato intitolato Buongiorno Italia (1958), che è a ben vedere un ritorno al surrealismo degli anni Trenta. La maggiore preoccupazione è lì vedere l’Italia come un unicum, a volo d’uccello (anche storico: il Risorgimento, Pinocchio, la Resistenza) e alla fine è il trionfo dell’Uomo zavattiniano, però stavolta pienamente sognato10. L’umanesimo di Zavattini pre-esiste e sopravvive al neorealismo, è una costruzione ideologica che sta ben prima delle pratiche e delle teorie del pedinamento o del «buco nella serratura», grazie alle quali Zavattini ha saputo coinvolgere a sua insaputa il pubblico, trasformando in spettacolo la sua vita quotidiana. I testi di Un paese si presentano come pensieri degli abitanti di Luzzara, che raccontano di sé a commento delle foto che li ritraggono, o si trovano associati a immagini evocative. Venne citata subito la Spoon River di Edgar Lee Masters, che è però un cimitero, mentre Luzzara è una città-campagna vista in un presente che affonda la propria solidità nella memoria, nell’offrirsi come ultima tappa di una storia di lunga durata. Intorno alle vicende individuali echeggia continuamente la tragedia della guerra ancora vicina, ma il racconto e i volti sembrano avere la capacità di superarla, come se questi luoghi e questo ethos fossero in qualche modo più forti della Storia. Nel ripartire da Luzzara, lo scrittore ritorna a un suo ulteriore quanto vago progetto risalente a dieci anni prima, a prima del neorealismo, intitolato Il mio paese e datato ai primi anni Quaranta11. Una ripresa, appunto, di Luzzara, osservata nella minuta realtà quotidiana: «E la trama, lo spettacolo? Non ne ho, tutto mi sembra polvere rispetto a questi tre o quattro mesi al mio paese, circondato da una cinquantina di bambini ai quali posso dire in dialetto: ver la boca de peu». Un progetto, al di là dell’estremismo dell’enunciazione, imparentato più con Quattro passi fra le nuvole (1942) che con Paisà. Oggi vediamo bene che quel progetto ha tutt’altro valore, perché nel passaggio 1943-1945 molte cose sono cambiate. Il ritorno a Luzzara testimonia più che altro una improponibilità di quello sguardo di scrittore, di quel rapporto con dei compaesani. Giusto poco prima, Zavattini ha licenziato un altro libro che rappresenta una specie di doppio demoniaco dei due libri sul suo paese, la raccolta di poesie Stricarm’ in d’na parola12. Versi in dialetto, ma nei quali (all’opposto di quanto aveva fatto nei testi di commento a Un paese) lo scrittore non intende dar voce a qualcun altro, comporre un «monologo collettivo». Anzi, sprofon-

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da dentro di sé, esplicitando ossessioni sessuali, scatologiche, immagini di violenza che esplodono solo adesso, all’opposto della ieraticità delle figure ritratte da Strand, come se l’uso del dialetto dopo la fine di un popolo suscitasse un vero sabba. Se ne accorse perfettamente Pasolini (che anche lui, dopo trent’anni, tornava a scrivere poesie in dialetto) nella sua recensione: «È difficile immaginare qualcosa di più profondo e di più tremendo. In un ingorgo di erotismo senile, molto disperato, malgrado la maschera ridanciana della convenzione dialettale, Zavattini subisce una regressione fino alle più lontane origini infantili». La nostalgia del mondo contadino è un sentimento completamente assente da queste pagine. Sono immagini da incubo, nelle quali «gronda tutta la tabe dell’uomo moderno medio», e l’uso del dialetto non mira a rendere solidale l’autore con il paese, ma lo conduce a una torsione quasi psicotica13. Tornare a Luzzara, intuisce oscuramente Zavattini, non salverà nessuno, e forse serve solo a rendere più disincantati, atterriti quasi, nei confronti di sé, del proprio passato, dei propri moti più intimi. Questo fondo oscuro colpisce molto in un autore tutt’altro che «apocalittico» come Zavattini, nel quale lo sgomento non ha nulla di programmatico. È quasi un lapsus, che non si presenta attraverso i suoi consueti sogni e progetti, ma in un piccolo libro di versi privati, un «viaggio dentro di sé» che sostituisce amaramente i viaggi a riscoprire e cantare l’Italia. Soprattutto, sono qui in gioco due modelli, abbiamo visto, tutt’altro che simili: da un lato il viaggio e dall’altro l’episodio. I due modelli coincidevano in Paisà, che seguiva la liberazione dell’Italia in sei episodi dalla Sicilia al Po, ma alla fine degli anni Cinquanta si sono già polarizzati secondo due scopi inconsci ben diversi. Il viaggio è la prosecuzione e l’estremizzazione della ba(l)lade, del vagabondaggio dell’occhio: è, in fondo, il modello cui rimarrà fedele Rossellini estremizzandolo, fino a India (1959). Il ritratto di paese, l’episodio, è invece una delle modalità attraverso cui il neorealismo diventa, come si diceva allora, «rosa»: i Due soldi di speranza, i Pane amore e fantasia (e la serie di Don Camillo ambientata a Brescello, a 20 km da Luzzara) sono un passaggio dalla città alla campagna, alla narrazione breve e ben poco«aperta», in una sorta di «ponte» ideale verso la commedia all’italiana. Ed è piuttosto in questa direzione che, alla lunga, andrà l’eredità di Zavattini, dello sceneggiatore più che del teorico: di quel filone Zavattini figura tra i padri, con le sue

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sceneggiature per Blasetti come Prima comunione (1950) e La fortuna di essere donna (1954). Il ritorno a Luzzara avviene per Zavattini in uno dei momenti di maggior furore teorico, contraddittorio e vulcanico come sempre, e s’intreccia con pratiche tutt’altro che coerenti. Sono gli anni in cui i tentativi di radicalizzare l’esperienza neorealista scontano la definitiva crisi di questo modello ormai incapace di prendere l’Italia: di rendere conto delle sue dinamiche, di comunicare con il pubblico.

5. Per una strana coincidenza, un anno dopo Strand, un altro importante intellettuale americano, esule anche lui dall’America maccartista, arriva in Italia e ne lascia testimonianza fotografica (ma soprattutto sonora). È Alan Lomax, geniale musicologo, sodale di Woody Guthrie e Pete Seeger, che il 2 luglio 1954, da Sciacca, comincia un lungo viaggio di raccolta di musiche popolari della Penisola, che lo porterà, entro la fine del mese in Calabria, e poi risalendo la Puglia e l’Adriatico, fino in Friuli. In autunno, a seguire, batterà Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Romagna, Emilia, Abruzzo, Marche, Lazio, Toscana, Umbria. Il viaggio si concluderà in Campania, nei primi giorni dell’anno successivo. Con Lomax, in tutta la prima fase del viaggio, c’è il giovane etnomusicologo Diego Carpitella che, scrive lo stesso Lomax, «non ha soldi, vive con la sua famiglia, non ha fatto la guerra, parla solo di musica e pensa solo alle ragazze, e sarà un’importante personalità in Italia, ed è un perfetto compagno di viaggio, tranne quando gli vengono gli attacchi di crampi perché non ha mangiato e deve andare a riposare»14. Per l’americano sarà «l’anno più felice della mia vita», e ne tornerà con decine di ore di registrazione, catalogate e pubblicate in maniera filologica solo quarant’anni dopo. A rivederle oggi, una delle cose che più colpiscono guardando le foto di Lomax, e da esse tornando a quelle di Strand, è una relativa indistinguibilità di Nord e Sud. Se non si leggono le didascalie non è facile distinguere un contadino piemontese da uno pugliese, uno laziale da uno siciliano. Lomax e Carpitella compiono il viaggio che a Zavattini non era riuscito.

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Lo compiono, certo, con i metodi delle scienze umane invece che con l’approccio dell’artista. Eppure il trasporto e l’intensità del musicologo distano pochissimo da quelli dello scrittore autoctono; in quei ricercatori cogliamo un pathos di coinvolgimento umano e storico che invano cercheremmo nei decenni successivi, e anche in tanto cinema coevo. È la fotografia, in quegli anni, a conoscere un grande momento, in parte come ancella ma in realtà sempre con maggior forza propria: «Cinema Nuovo», che è la rivista della crisi del neorealismo, punta sempre più su bellissimi reportages fotografici, che toccano zone dove il cinema non passa più (si pensi al Cortile Cascino fotografato da Enzo Sellerio)15; gli stessi antropologi come De Martino si appoggiano al lavoro dei fotografi, tra cui il figlio di Zavattini, Arturo16. Insomma, «l’idea documentaria» pare in quegli anni aver perso di congenialità col cinema, e la vediamo trasmigrare altrove. Col cinema neorealista piantato in un’impasse, altri mezzi espressivi, come la fotografia, si riveleranno capaci di leggere la realtà italiana in termini duramente sociali. Il cinema italiano sta compiendo un percorso complesso verso una risistemazione industriale e dei generi, che comporta un progressivo, significativo spostamento verso le classi borghesi: sono i primi film di Antonioni e Fellini, ma anche l’arrivo di comici come Alberto Sordi o Walter Chiari, non più legati all’immagine della fame. Ma nel 1951 esce anche il primo volume dei Libri del tempo Laterza, che pubblicheranno nei primi anni Un popolo di formiche di Tommaso Fiore (1952), Contadini del Sud e L’uva puttanella di Rocco Scotellaro (1954 e 1956), Baroni e contadini di Giovanni Russo (1955), Banditi a Partitico (1956) di Danilo Dolci, Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia (1956), I minatori della maremma di Bianciardi e Cassola (1956).

6. Il viaggiare, in definitiva, con la guerra è cambiato. Non è più tempo del «gusto un po’ snob di tanti “vagabondi” degli anni Venti-Quaranta, viaggiatori dichiaratamente modesti in località ostentatamente banali, dotati però di un buon gusto e di una sensibilità ancora una volta superiori» (Luca Clerici)17. Rimane certo ancora la predilezione per i piccoli viaggi e per l’Ita-

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lia minore, e le esplorazioni della penisola intera rimangono un’eccezione. Ma si ha l’impressione che il senso di una sorta di unità dell’Italia sia invece ben presente negli scrittori; soprattutto, l’idea di un’Italia la cui unità è fatta non dal suo passato o dai suoi paesaggi (come è fino ai «prosatori d’arte» degli anni Venti e Trenta), bensì dagli italiani. In questo senso la Luzzara di Zavattini, composta di monologhi, è esemplare. È sorprendente quanto l’Italia degli anni Cinquanta sia attraversata da scrittori-viaggiatori, mossi dagli interessi e dalle sensibilità più diverse. In treno o in auto o con mezzi di fortuna, si muove ad esempio Tommaso Landolfi, che al massimo compie brevi puntate nei dintorni di Roma o si spinge nei paraggi di qualche celebre sede di casinò (Saint-Moritz, Sanremo). Ma forse i più singolari e coinvolti, nella loro diversità, sono Anna Maria Ortese e Giovanni Comisso18. Che sembrano anche i più guidati dal caso, dall’estro del momento; i meno ideologici, i più disposti a lasciarsi completamente imbevere dall’Italia, dai suoi luoghi e dai suoi abitanti. Privi di tesi preconcette, pagano l’uno cristiana l’altra, sono forse quelli che meno fanno «viaggi» e più «vagabondaggi». L’ideale commiato da questa stagione sarà allora il testo che introduce un altro volume di fotografie, pubblicato da Einaudi cinque anni dopo quello di Zavattini-Strand: Un volto che ci somiglia. Ritratto dall’Italia. In quel testo Carlo Levi si produce in una visione a volo d’uccello su una penisola che appare per un lampo tutt’intera, come in un ideale scorrere dai finestrini dei treni, mai così liricamente amata; e la sua assoluta, dolcissima unità sembra consistere per Levi proprio in quei caratteri prossimi all’estinzione. L’inesorabile corollario è che quel volto non «ci» (all’intellettuale, all’artista) somiglia più. «Appesi dappertutto, ai muri, ai balconi, ai fili, come ad alberature, gli stracci sono le vele della nave degli umili, dei piccoli che sono grandi, dell’Italia popolare. E il libero vento che gonfia le sue vele è la più semplice e profonda delle virtù umane: è l’amore, il coraggio di vivere»19. Il grande libro di viaggio nell’Italia del decennio, eccezionale per mole e per intenti di completezza, è poi ovviamente il Viaggio in Italia di Guido Piovene, pubblicato nel 1957 da Mondadori e frutto di una serie di trasmissioni radiofoniche degli anni 1953-195620. Già celebre come romanziere e saggista, negli anni cinquanta Piovene è soprattutto un grande giornalista, inviato della «Stampa» e di «Epoca». Nel 1953 pubblicava De America: adesso era il momento di raccontare l’Italia, di ripensarla per il grande pub-

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blico della radio e dei rotocalchi. L’occhio di Piovene, rispetto ad altri occhi di viaggiatori coevi, è tutto intento a dipanare l’arrivo della modernità nel nostro paese. Di qui il suo interesse esclusivo, il suo interrogarsi continuo, su economia e società, preferendo le statistiche alla prosa d’autore, la circolazione delle merci al paesaggio.

7. Un suo «viaggio in Italia», alla fine, anche Zavattini lo farà, ma per interposta persona, come ideatore e co-autore dell’inchiesta Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno (1959-60), trasmessa dalla Rai, condotta e diretta da Mario Soldati. Piovene e Soldati hanno in comune lo strano destino di aver fatto, prima dei loro principali viaggi per l’Italia, un viaggio in America, e di proiettare dunque la dialettica modernità-tradizione nel loro sguardo, assai più dei loro coetanei. E Piovene soprattutto, che paragona gli agrumeti di Catania a quelli della Florida, e il suo Veneto a Charlottesville: in apparenza, a tutto vantaggio dei primi, eppure intravedendo in essi una specie di filigrana, di destino. E poi, hanno in comune i mezzi. Entrambi, per dirla semplicemente, viaggiano per conto della Rai: radio per Piovene, televisione per Soldati-Zavattini. Se Piovene, nella pubblicazione a stampa del suo fluviale Viaggio in Italia, non lascerà tracce della committenza radiofonica, Soldati invece mette in scena in maniera eclatante l’ingombro dei potenzi mezzi della Tv. Il suo gioco consiste nel presentarsi, in maniera fracassona e masochista, come intruso, e nel condurre l’inchiesta per continui spiazzamenti. Non si potrebbe immaginare autore più lontano da Zavattini: per Soldati l’unica speranza di trovare qualche elemento di verità è accumulare finzione su finzione. Nella televisione, dopo la fotografia, Zavattini riporrà le ulteriori speranze, immaginando ancora una volta di lanciare per la penisola i registi, da Rossellini a Visconti, da Zampa ad Antonioni, Fellini, Monicelli, Soldati, De Sica, Castellani21. Al di là della vorace intermedialità e della perenne euforia zavattiniane, il percorso ha una sua logica, si sarebbe detto, immanente, e testimonia di ombre e inquietudini sempre crescenti:

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Quest'Italia sommersa, scomparsa, ridotta a sopravvivenze fantasmatiche, è l'ultimo approdo del lungo discorso che inizia a guerra finita con le pagine di Carlo Levi, con le esplorazioni di de Martino, e poi ridiventa immagine in epoca neorealista, e infine passa attraverso la potenza omologatrice della televisione. Sembra così che le forme di vita del Sud, o dei paesi poveri del Centro dell'Italia, o dei contadini della pianura padana, perdano progressivamente di forza espressiva, passando da una rappresentazione ad un'altra, da tecniche raffinate a tecniche a sempre più ampia diffusione22.

È ormai, anche se ce accorgiamo col senno del poi, un’Italia mutante. Un’Italia di analfabeti visitati dalla televisione. Più convulsamente di tutti, ormai dentro lo spirito dei classici reportages dal «miracolo economico», a darne conto è Pier Paolo Pasolini. Il quale, a differenza dei viaggiatori dell’epoca ferroviaria, va in macchina – siamo nel 1959 – e lo fa sentire, sfrecciando in un’estate fulminea lungo tutte le coste italiane, dalla Liguria giù alla Sicilia e ancora su fino alla sua regione d’origine, il Friuli. Se ne trae anche qui un’impressione di simultaneità, ma non si tratta di una visione affettuosa come in Levi, bensì di un’istantanea nervosa dove compaiono i ricchi di Forte dei Marmi e i poveri del Sud, e dove il ritorno nei luoghi d’infanzia a fine viaggio produce un trauma storico-geografico: Ora sono a casa mia, penso. (...) Invece è il pezzo più inaspettato del mio viaggio: non solo non riconosco più niente (e non sono passati che otto, nove anni), ma sono addirittura in terra straniera. (...) Qui si può dire che siamo veramente in Europa: e pochi anni fa, questa era una delle parti più provinciali e arcaiche della penisola.

Il viaggio finisce infatti alla periferia di Trieste, ma più che in un luogo sembra che Pasolini si arresti in un momento, a Colonne d’Ercole storiche più che geografiche: «Lazzaretto, l’ultima spiaggia italiana. Qui l’Italia ha un ultimo guizzo, è Italia come da centinaia di chilometri non la vedevo [...]. Qui finisce l'Italia, finisce l'estate»23.

8. Nel 1955 Un paese era stato un insuccesso quanto a vendite, però era diventato col tempo un libro quasi leggendario: al punto che vent’anni dopo Zavattini tornerà a Luzzara con un grande fotografo italiano, Gianni

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Berengo Gardin, per verificare che cosa sia successo nel frattempo24. Ma il libro che ne esce nel 1976, nuovamente da Einaudi, col titolo Un paese vent’anni dopo, benché si apra proprio con una serie di foto di Strand (morto giusto quell’anno), foto «rifatte» con gli stessi protagonisti oramai invecchiati, non è affatto un sequel o una verifica «sul campo». Il testo di Zavattini, per la verità, gira un po’ a vuoto: non sembra animato da reale curiosità per questo popolo di adesso, né da nostalgia per quello che non c’è più. Nel pieno degli anni Settanta Berengo Gardin osserva una realtà urbana. Luzzara non è più contado, è città, popolata di piccola borghesia, che si mescola a scampoli di un passato che, visivamente, possedeva una sua nobiltà mentre adesso non pare averne più nessuna. Sono foto cupe, tragiche, a tratti ironiche; diversamente da quelle di Strand, che evocavano pose quasi da dipinto o da dagherrotipo (Strand tendeva a ritrarre immobili, frontali i soggetti), li coglie con uno strazio che deriva dalla consapevolezza di star fissando un attimo di sovrapposizione tra due tempi: e uno di essi è già ridotto a residuo.

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Note 1. Diario cinematografico, in Opere. Cinema, Bompiani, Milano, 2002, p. 135. 2. Cfr. C. Duncan, Paul Strand: il mondo davanti alla mia porta, Alinari, Firenze, 1995 (che contiene anche un testo di Zavattini su Strand pubblicato in «Portfolio Four», agosto 1981) Materiali sull’incontro tra i due sono contenuti in P. Costantini - L. Ghirri, Strand. Luzzara, Clup, Milano, 1989, P. Strand. Essays on his life and work, a cura di M. Stange, Aperture, New York, 1990 e soprattutto P. Strand- C. Zavattini. Lettere e immagini, Comune di Reggio Emilia- Fondazione «Un paese»- Archivio Cesare Zavattini, Bora, Bologna, 2005. 3. Come ricorda S. Parigi, il tema del viaggio è consustanziale all'ispirazione zavattiniana: «la primissima prosa di Zavattini, apparsa su «La Gazzetta di Parma» il 19 agosto 1926, comincia con la parola viaggio, ed è il resoconto in forma umoristica di una gita scolastica a Fano» (S. Parigi, Fisiologia dell'immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini, Lindau, Torino, 2006, p. 125). Negli anni Trenta, tuttavia, è piuttosto predominante l'immagine del viaggio metropolitano, modernista, di spirito quasi cosmopolita. 4. Le lettere sul progetto di Italia mia sono raccolte in C. Zavattini, Opere. Lettere, Bompiani, Milano, 2005, pp. 474-487. 5. Ivi, pp. 474-5. 6. S. Parigi, Fisiologia dell'immagine, cit., p. 281. Cfr. anche G. Tinazzi, L'Italia di Zavattini, «Bianco e nero», aprile- giugno 1983, pp. 7-20. 7. Italia 1944 è in Straparole, ora in Opere 1931-1986, cit., p. 415; e in Diario cinematografico, cit., p. 45. 8. Si veda M. Soldati, Fuga in Italia (1947), Sellerio, Palermo, 2004; Steno, Sotto le stelle del ’44, Sellerio, Palermo, 1993, R. Freda, Divoratori di celluloide, Emme edizioni, Milano, 1977, pp. 31-44; L. Longanesi, Parliamo dell’elefante (1945), Longanesi, Milano, 2005; T. Kezich- A. Levantesi, Dino De Laurentiis, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 46-48. 9. Un paese, testo di C. Zavattini, fotografie di P. Strand, Einaudi, Torino, 1955 (nuova ed. Alinari, Firenze, 1997). 10. Il progetto di cartone animato Buongiorno Italia è in Straparole, in C. Zavattini Opere 1931-1986, Bompiani, Milano, 1991, pp. 553-569 e Diario cinematografico, cit., 380-7. 11. C. Zavattini, Il mio paese, in Diario cinematografico, cit., p. 32. 12. Stricarm’ in d’na parola (1974) ora in C. Zavattini, Opere 1931-1986, cit., pp. 905-968. 13. La recensione di P. P. Pasolini (19 aprile 1974) è in Descrizioni di descrizioni, ora in Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, pp. 2043-2048. 14. Brano di una lettera di A. Lomax riportata in A. Lomax, L’anno più bello della mia vita, a cura di G. Plastino, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 36. 15. I reportages fotografici di «Cinema Nuovo» erano usciti già all’epoca in volume con una prefazione proprio di Zavattini, I fotodocumentari di «Cinema Nuovo», ed. Cinema Nuovo, Milano, 1956.

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16. Sul rapporto ambiguo dell'antropologia italiana con la pratica del viaggio, e con l'elemento visivo, che ha in fondo in De Martino un ruolo ancillare (anche rispetto alla registrazione sonora) ed è «mediato […] dall'incombenza di un dispositivo intellettuale, quello neorealista», vedi F. Faeta, Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell'osservazione, della rappresentazione e della memoria, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp. 89-131. Vedi anche, sull'influenza del neorealismo sullo sguardo degli antropologi (e dei fotografi come F. Pinna), p. 63. 17. L. Clerici, Introduzione in Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia 1714-1996, Il Saggiatore, Milano, 1999, pp. XVIII. L'antologia è la più completa introduzione al tema dei viaggiatori italiani in Italia. Dell’autore, vedi anche Viaggiatori italiani in Italia 1700-1998: una bibliografia, Sylvestre Bonnard, Milano, 1999. 18. Di G. Comisso si veda soprattutto Capricci italiani, Vallecchi, Firenze, 1952; di A. M. Ortese La lente scura, a cura di Luca Clerici, Adelphi, Milano, 1991. 19. In C. Levi- J. Reismann, Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, Einaudi, Torino, 1960 (ed. originale tedesca 1959), nuova ed. e/o, Roma 2000, p. 64. 20. Il Viaggio in Italia di G. Piovene (A. Mondadori, Milano 1957) è stato ristampato da Baldini e Castoldi, Milano, 2007. 21. Diario cinematografico, cit., pp. 421-35. 22. M. A. Bazzocchi, L'Italia vista dalla luna. Un paese in divenire tra letteratura e cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. 35 (ma cfr. tutto il capitolo intitolato Il Po, la Lucania e le gambe della Loren). 23. Il reportage di Pasolini, commissionato dalla rivista «Successo», è pubblicato in volume: La lunga strada di sabbia, Contrasto, Roma, 2005. 24. Il «ritorno a Luzzara» è C. Zavattini - G. Berengo Gardin, Un paese vent’anni dopo, Einaudi, Torino, 1976.

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Uno stile internazionale? Il neorealismo degli altri Francesco Pitassio Siamo legittimamente abituati a concepire, concettualizzare e guardare al fenomeno neorealista da una prospettiva implicata: esso costituisce una trasformazione rilevante sul piano stilistico e politico della tradizione cinematografica nazionale, di cui in qualche modo diviene espressione chiara ed esemplare, il punto di confluenza di dinamiche avviate nel decennio precedente, e il punto di partenza della crescita del decennio successivo. Il neorealismo in questa narrazione fa funzione di trasduttore, concentrando, veicolando e redistribuendo le energie della cultura nazionale in differenti epoche. Personalmente, vorrei aggiungere un tassello a questa ipotesi, mettendo in rilievo la dimensione internazionale e transnazionale del neorealismo cinematografico italiano attraverso un caso emblematico: la presenza di cineasti stranieri in Italia nell’arco di tempo identificato con la fase neorealista (1945-1952), nella sua accezione più ampia, dalla rivelazione di Roma città aperta (1945) all’insuccesso di Umberto D. (1952). In questo arco di tempo, alcuni registi stranieri furono impegnati in produzioni assimilabili al principale fenomeno nazionale. Si tratta segnatamente dei casi di Max Neufeld, regista nel 1946 di Un uomo ritorna, Michał Waszyński, la cui firma sigla Lo sconosciuto di San Marino nel 1948, René Clément, che diresse nel 1949 Le mura di Malapaga, di Géza Radvány, responsabile nel 1950 di Donne senza nome, e della incursione italiana di Joseph Losey, transfuga dal maccartismo statunitense, per realizzare nel 1952 Imbarco a mezzanotte. Si tratta di opere assai eterogenee, tra loro e spesso internamente. Tuttavia, proprio la natura disorganica dei testi sembra corrispondere a due tratti distintivi del neorealismo: da un lato, la dimensione polistilistica del fenomeno1; dall'altro, la riaggregazione delle componenti discorsive e mediatiche in corso nel secondo dopoguerra2. In tutti i casi menzionati, siamo ben distanti dalla esemplarità dei prodotti definiti lucidamente da Alberto Farassino opere del neorealismo:

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Si può parlare, quindi, di «opere neorealiste» e cioè film che si identificano in massima parte col progetto estetico, teorico e morale del neorealismo (per quanto inespresso esso fosse) e di «film del neorealismo» che, pur sostanzialmente estranei al suo mondo, ne sono stati variamente toccati e contaminati, dimostrando l'ampiezza e la forza della sua influenza sul cinema italiano del dopoguerra3.

Nondimeno, questi film sono attraversati da elementi tematici, strutture narrative, ambientazioni e competenze professionali pienamente ascritte al fenomeno. Per questa serie di ragioni, rivolger loro uno sguardo odierno può forse aiutare a comprendere le dinamiche del neorealismo. Tre sono i punti focali da cui osservare: la rappresentazione dell’Europa postbellica e il dibattito correlato; la questione dello stile e della memoria del cinema; l’identità della produzione neorealistica all'estero. Solitamente, il neorealismo viene considerato un fenomeno autoctono e dalle tenui relazioni con fenomeni coevi. Giustamente, si mette in luce la sua peculiarità e novità rispetto alla vocazione realistica espressa da altre cinematografie: dalla brutalità dei film bellici sovietici espressa in Ona zaščiščaet rodinu (Il compagno P., F. Ermler, 1943) o Raduga (L’arcobaleno, M. Donskoj, 1944) ai film resistenziali francesi, dai Trümmerfilm tedeschi alla singolare esperienza svizzera della Praesens-Film di Leopold Lindtberg, che, giova ricordarlo, ottenne un Oscar e il Grand Prix a Cannes per L’ultima speranza (1946) e l’Orso d’oro a Berlino per Quattro in una jeep (1951). Nondimeno, il neorealismo cinematografico si staglia anche su questo sfondo, incaricato di fornire una cornice di lettura per la rappresentazione delle atroci vicende belliche attraverso le quali il continente europeo era appena passato. Il legame non è esclusivamente e fragilmente tematico, traducibile con la pressione del Reale sulla rappresentazione. Si tratta più articolatamente del tentativo di costituire una nuova cultura continentale, o transcontinentale, capace di far convergere quadri ideologici (pacifismo, neoumanesimo, solidarietà), estetici (realismo, testimonialità) e mediatici (fotografia, cinema), con la funzione di promuovere una cultura della conoscenza dell’Altro e della solidarietà. È questa la lente con la quale oltre i confini patrii il neorealismo viene osservato. L’intervento non è semplicemente spontaneo e dal basso, ma coinvolge talvolta organi istituzionali incaricati di sostenere e indirizzare questa nuova cultura. In particolar modo, come recentemente documentato, l’Unesco pare svolgere tale funzione, attraverso progetti di documentazione fotografica quali

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Children of Post-war Europe, del fotografo della Magnum Chim4, o la diffusione del primo film postbellico di Radvány, scritto con il teorico del cinema ungherese Béla Balázs: Valahol Európában (È accaduto in Europa, 1947)5. L’associazione di uno stile realista con una funzione conoscitiva e un progetto politico fondato sulla democrazia, la reciprocità e la tolleranza verosimilmente trovava un ideale suggello nella funzione rivestita da John Grierson presso l’Unesco nella seconda metà degli anni Quaranta: responsabile delle comunicazioni di massa e delle pubbliche relazioni6. È in questo ruolo che Grierson tra le altre attività promosse la pubblicazione del periodico «Courier», che nel 1951 dedicava uno speciale al cinema che recava in copertina un fotogramma da Il cammino della speranza (P. Germi, 1950) e si apriva con un articolo di Luigi Chiarini sul cinema italiano del dopoguerra7. La funzione conoscitiva e progressista dei media, la cui eco è evidente nelle posizioni sviluppate da Zavattini tra anni Quaranta e Cinquanta, fu espressamente abbracciata tanto dall’Onu, quanto dalla Motion Picture Association of America8. Per incontrare e prendere coscienza della alterità, e sviluppare una cultura della tolleranza, il realismo è uno strumento privilegiato. Per riprendere le parole pronunciate nel 1947 da Gerald M. Mayer, a capo della divisione internazionale della Mpaa, Dato che le immagini in movimento e sonore posseggono tutta l'immediatezza e vitalità della vita stessa, gli spettatori di tutto il mondo sono posti gli uni in presenza degli altri, e vivono la stessa realtà. La comunità degli spettatori cinematografici è un simbolo della comunità mondiale di là da venire9.

Questo umanesimo è ampiamente diffuso, costituisce la parola d’ordine delle democrazie popolari in corso di brutale fondazione e attraversa la cultura francese postbellica10, risuona nell'internazionalismo socialista e al di là dell’Atlantico. Anche nel dibattito italiano esso ha piena centralità, tanto da offrire il titolo al celeberrimo convegno Il cinema e l’uomo moderno, svoltosi a Perugia dal 24 al 27 settembre 1949. In quella sede, echeggiavano simili formule: Il nostro cinema non ha dato generalmente luogo a disquisizioni sul formalismo, ad indagini sui rapporti spaziali sull’inquadratura, ecc. Anche se questo non è mancato, quello che da tutti è stato sottolineato è l'interesse appassionato del cinema italiano per la vita dell’uomo. Sono stati molti di voi a dirci, quando noi stessi non credevamo nella forza del nostro cinema, che l'orientamento seguito da noi era giusto, e che bisognava continuare su questa strada11.

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Oggi, uscendo dalla più spaventevole guerra che la storia ricordi, questa parola di Cristo, questo appello alla buona volontà degli uomini noi possiamo ripeterlo con rinnovata forza: oggi, perché esistono già, forse, le condizioni per cui questo sogno di pace nel lavoro può tramutarsi in realtà completa12.

Sono rispettivamente le voci di Lizzani e Vergano a richiamarsi a valori astratti e superiori – uomo e pace – e indicare la valenza sovranazionale di esse. Analogamente, Lizzani sottolinea il ruolo degli osservatori stranieri nella identificazione e rivelazione del neorealismo alla stessa cultura italiana. Ora, se non vogliamo cristallizzare il neorealismo in un insieme di opere selezionate e la sua interpretazione all'ineguagliabile proposta di André Bazin, può essere utile valutare debitamente il novero dei discorsi sociali circolanti tra Europa e Stati Uniti. L’umanesimo più o meno generico della cultura cinematografica postbellica ha un perno nelle figure infantili. Per riprendere le celebri parole di Elio Vittorini sulle esigenze di rinnovamento culturale, Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l'esistenza dei bambini. Questa non è altro che la cultura […] e se ora milioni di bambini sono stati uccisi, la sconfitta è innanzi tutto di questa cosa che c'insegnava la loro inviolabilità13.

Di fatto, l’infanzia costituisce il punto cieco della fase bellica, una emergenza sociale e antropologica del dopoguerra, ma anche il germe della palingenesi successiva – come in È accaduto in Europa14, o in una celebre produzione sostenuta da un'agenzia Onu, la Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Agency): The Search15(F. Zinnemann, 1948). Soprattutto, i bambini nel cinema neorealista svolgono una funzione sintattica e assiologica fondamentale – dalla conclusione di Roma città aperta al prefinale di La terra trema (L. Visconti, 1948), da Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948) a Cuori senza frontiere (L. Zampa, 1950). Infatti, essi hanno il ruolo di testimoni, costituiscono lo sguardo ignaro destinato a posarsi sulle atrocità perpetrate o subite dagli adulti, e si collocano come figura vicaria degli spettatori: alla loro stessa stregua, il pubblico deve imparare a conoscere. Tale dimensione è ancor più patente nei film realizzati da stranieri in Italia, nei quali una figura infantile è costantemente associata al dispiegarsi di una concatenazione di abiezioni in Donne senza nome, Le mura di Malapaga e particolarmente in Imbarco a mezzanotte. Il neorealismo cinematografico dunque cristallizza una emergenza socioantropologica continentale

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e una questione politica, attraverso una specifica soluzione rappresentativa, fondata sulla opacità infantile dinanzi alla brutalità adulta. In qualche misura, il neorealismo inaugura una nuova epoca epistemica e della immagine (o di epistemologia dell'immagine), sintetizzata da una fortunata formula: era del testimone16. Tale soluzione è tuttavia perfettamente replicabile, passando da un capolavoro incontrastato come Germania anno zero (R. Rossellini, 1947) a un oscuro film didascalico austriaco come Asphalt (H. Röbbeling, 1950). La nozione di testimonianza consente di mettere in luce un’ulteriore questione: lo stile. La molteplicità di modelli compresenti nel neorealismo e la loro adozione da parte di cineasti stranieri attivi in Italia suggerisce due considerazioni. Da un lato, il neorealismo cinematografico italiano deve essere inteso come un campo di forze percorso da una molteplicità di riferimenti momentaneamente aggregati, ma ugualmente scomponibile per componenti. Dall’altro lato, questo modello rappresentativo partecipa di una più ampia cultura transnazionale, funzionale a qualificare la produzione cinematografica europea rispetto all'ingombrante concorrenza hollywoodiana. Si tratta, con evidenza, di opporre una «etica del realismo» internazionale alla fabbrica dei sogni universalista17, come più volte risuona nelle parole dei protagonisti del fenomeno, e come spesso ritorna nelle dichiarazioni dei cineasti progressisti sotto l’egida sovietica. Ora, la proposta di un fronte comune alternativo alla egemonia hollywoodiana risale già al periodo interbellico, con l’adozione di uno «stile di autore internazionale»18, il varo di politiche produttive condivise19, la circolazione di competenze e personalità al di là dei limiti spesso angusti delle cinematografie nazionali, per ragioni spesso legate a diaspore economiche o esili politici e razziali. Il neorealismo pare offrire un momentaneo riparo proprio a cineasti apolidi: gli ebrei austriaco Max Neufeld e della Volinia Michał Wasyński, o i transfughi politici Géza Radvány e Joseph Losey. A partire da una koinè stilistica presumibilmente condivisa, anche questi cineasti contribuiscono a realizzare film di ambientazione bellica, o tra le macerie urbane e morali del dopoguerra. Tuttavia, i loro film manifestano una significativa differenza stilistica, a partire dalla relazione con la storia del cinema e dalla figura del testimone. Sotto il primo rispetto, i film di questi cineasti fanno esplicitamente riferimento a una memoria del cinema, convocata attraverso soluzioni formali riconoscibili: strutture spaziali derivate dalle opere celebri del realismo poetico, come nel caso di Le mura di Malapaga, in cui vicoli e interni sembrano disegnare un de-

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dalo inestricabile simile ai tortuosi percorsi di Pepé Le Moko (Il bandito della casbah, J. Duvivier, 1937); illuminazioni chiaroscurali il cui antecedente per senso comune è l'espressionismo cinematografico, convocato espressamente in alcune sequenze di Donne senza nome o nel flashback di Lo sconosciuto di San Marino; movimenti di macchina debitori al cinema d’arte europeo. Ora, per quanto tale memoria sia dichiarata e patente nel cinema di Lattuada, De Santis, o Germi, e contribuisca a promuovere le loro opere oltre confine, questo aspetto è il più problematico da metabolizzare per la critica coeva. Rendere evidente questo fattore non è l’ultimo merito dei cineasti stranieri attivi in Italia. Il neorealismo non solo non costituisce uno stile compatto, omogeneo, univoco per esiti estetici e intenzioni politiche. Esso consente a una tradizione propria al cinema d’arte europeo, padroneggiata da cineasti italiani e stranieri, di convivere con istanze innovative e moderne, nel duplice senso di attuali e dirompenti rispetto al modo di rappresentazione classico. L’altro aspetto significativo di questo gruppo di film è proprio nella costruzione discorsiva, e nella relazione tra testimonianza e passato. In tutti questi film il protagonista si presenta con trascorsi assai ingombranti: crimini inconfessabili, in Le mura di Malapaga o Imbarco a mezzanotte. Nel film di Losey e in quello di Clément i personaggi interpretati rispettivamente da Paul Muni e Jean Gabin sono uomini soli, gravati dal peso di un passato oscuro, ma impossibile da narrare. Un crimine di cui paiono in qualche modo vittime è alle loro spalle, e ne determina ineluttabilmente il destino mortifero. Altrimenti, l’orrore del passato può riemergere solo in maniera incontrollata e rovinosa, attraverso una alterazione dell’ordine cronologico lineare. Con un flashback, come in Donne senza nome e Lo sconosciuto di San Marino. In entrambi i casi, la funzione mnestica è mortifera. Questi film pongono un duplice problema: quello del veggente, per riprendere i ben noti termini deleuziani della questione20; e quello della memoria storica. Da un lato, l’articolazione discorsiva di questi testi rimanda una concezione del veggente come colui che riesce a vedere al di là del dato fenomenico, e genera perciò un'immagine in cui più temporalità convivono, con una soluzione molto distante da quelle egemoniche nel cinema italiano postbellico. In quest’ultimo, con sporadiche eccezioni, il tempo è sempre lineare e presente: non prevede la convocazione del passato. Non stupisce che questo possa ritornare solo in quelle esperienze marginali al fenomeno: Fan-

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tasmi del mare (F. De Robertis, 1948) o Pian delle Stelle (G. Ferroni, 1946). Dall’altro lato, questa funzione scopica e narrativa rimanda a un passato, in duplice senso: essa rievoca una memoria delle strutture narrative impiegate per articolare il tempo cinematografico precedenti l’esplosione del neorealismo e al contempo essa fa riemergere le responsabilità individuali e collettive nel totalitarismo interbellico e nel conflitto mondiale. Entrambi gli aspetti non costituivano il fulcro del discorso pubblico italiano, progressista o meno. E forse, anche per questo i film furono tutti recisamente rigettati dalla critica e dalla cultura nazionali, proclivi a includersi in una cultura europea laddove questa consentiva una assoluzione collettiva e una memoria strumentale. Forse, più che la mancanza di una tradizione era l’oblio il motore. Sarà anche per questo che nel guardare il presente, i film diretti dai cineasti stranieri ospiti in Italia vi includono anche la memoria dei campi, la dislocazione di intere popolazioni e la condizione dell’esilio. Esattamente gli aspetti che cultura e società italiane stavano in quegli anni dimenticando – con l’eccezione di Rossellini in Stromboli (1948) e Dov’è la libertà? (1954). Il neorealismo divenne un cinema transnazionale anche in virtù di una serie di aspetti semantici abitualmente trascurati dal dibattito italiano, o terreno di contesa nel conflitto ideologico: violenza, immoralità, carnalità, erotismo. Insieme al richiamo alla solidarietà e all'umanesimo, furono proprio questi aspetti a costituire la chiave di volta della strategia promozionale del neorealismo negli Stati Uniti, grazie al lavoro di Burstyn e Mayer. Come ricostruisce dettagliatamente Nathaniel Brennan, La retorica pubblicitaria del cinema postbellico italiano era ancorata a due poli apparentemente contradditori: uno sottolineava le qualità estetiche e la rilevanza critica; l’altro si affidava ad allusioni verbali e accenni visivi a contenuti cinematografici più torbidi. La scelta della pubblicità dipendeva dal giornale o dalla rivista in cui veniva pubblicata, come dalle caratteristiche del cinema in cui i film venivano proiettati21.

Una conferma di questa percezione transnazionale del neorealismo è deducibile dalle componenti presentate dai film girati in Italia da stranieri: tutti squadernano dinanzi allo spettatore scene di violenza brutale, sessualità, abiezione e immoralità. E contribuiscono così a ricordare e ricordarci che l'identità del neorealismo è meno cristallina di quanto la sua ideologia si è spesso affannata a tramandare. E forse, anche meno, e più nazionale.

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Note 1. F. Casetti-L. Malavasi, La retorica del neorealismo, in C. Cosulich (a cura di), Storia del cinema italiano. 1945/1948, vol. VII, Marsilio/Bianco & Nero, Venezia , 2003; F. Casetti, Der Stil als Schauplatz der Verhandlung.Überlegunge zu filmschen Realismus und Neo-realismus, «Montage/ AV», 18 gennaio 2009, pp. 129-139. 2. F. Casetti-A. Farassino-A. Grasso-T. Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in L. Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1999, pp. 331-385. 3. A. Farassino, Neorealismo, storia e geografia, in Id. (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, EDT, Torino, 1989, p. 27. 4. Si veda D. Seymour (Chim), Children of Europe, Unesco, Paris, 1949; The Children of Europe. A Unesco Photo Story, «Courier», a. II, n. 2 (febbraio 1949). Si segnala tangenzialmente che alcuni scatti di Seymour sembrano replicare dettagliatamente le immagini dei ricoveri per sfollati nelle grotte di Mergellina dell'episodio napoletano di Paisà (1946). 5. Si fa riferimento al ruolo distributivo del Consiglio per il cinema dell'Onu in Anonimo, Rassegna cinematografica. È accaduto in Europa-È tempo di vivere, «Il Corriere della Sera» (27 agosto 1949). 6. Per una dettagliata ricostruzione della attività del documentarista scozzese presso l'istituzione internazionale, si veda F. Hardy-J. Grierson. A Documentary Biography, Faber & Faber, London-Boston, 1979, in particolare le pp. 164-179. Ringrazio M. Pollone per l'aiuto nel reperimento della fonte bibliografica. 7. L. Chiarini, The Italian Cinema. A Mirror of Mankind's Social Responsibility, «Courier», a. IV, n. 9 (settembre 1951), p. 3. 8. Al riguardo, si veda l'articolata ricostruzione offerta da K. Schoonover, Brutal Vision. The Neorealist Body in Postwar Italian Cinema, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2012. 9. G. M. Mayer (1947), cit. in Ivi, p. 95. 10. M. Kelly, Humanism and National Unity: the Ideological Reconstruction of France, in N. Hewitt (a cura di), The Culture of Reconstruction. European Literature, Thought and Film, 194550, St. Martin's, New York, 1989, pp. 103-119. 11. Carlo Lizzani, in U. Barbaro (a cura di), Il cinema e l'uomo moderno, Le edizioni sociali, Milano, 1950, p. 122. 12. A.Vergano, ivi, p. 186. 13. E. Vittorini, Una nuova cultura, «Il Politecnico», a. I, n. 1 (29 settembre 1945); poi in C. Milanini (a cura di), Neorealismo. Poetiche e polemiche, Il Saggiatore, Milano, 1980, pp. 46-48. 14. Si veda C. Parvulescu, The Continent in Ruins and Its Redeeming Orphans: Géza Radványi and Béla Balázs' Somewhere in Europe and the Re-building of Postwar Polis, «Central Europe», vol. 10, n. 1 (maggio 2012), pp. 55-76.

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15. Sul film, si vedano B. C. Etheridge, In Search of Germans. Contested Germany in the Production of The Search, «Journal of Popular Film and Television», vol. 34, n. 1 (2006), pp. 34-45. S. Geemie, L. Rees, Representing and Reconstructing Identities in the Postwar World: Refugees, Unrra and Fred Zinnemann's The Search (1948), «IRSH», n. 56 (2011), pp. 441476; J.E. Smith, Fred Zinnemann's Search (1945-48): Reconstructing the Voices of Europe's Children, «Film History», vol. 23, n. 1 (2011), pp. 75-92 16. A. Wiewiorka, L'era del testimone, Raffaello Cortina, Milano, 2000. 17. Al proposito, si veda L. Nagib. World Cinema and the Ethics of Realism, Continuum, London, 2011. 18. K. Thompson, National or International Films? The European Debate During the 1920s, «Film History», vol. VIII, n. 3 (1996), pp. 281-296; A. Farassino, Cosmopolitismo ed esotismo nel cinema europeo fra le due guerre, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. I, Einaudi, Torino, 1999, pp. 485-508. 19. Sulla relazione tra modelli produttivi e ideologia europeista si veda V. De Grazia, European Cinema and the Idea of Europe, in G. Nowell-Smith e S. Ricci (a cura di), Hollywood & Europe. Economics, Culture, National Identity 1945-1995, British Film Institute, London, 1995, pp. 19-33. Per un inquadramento complessivo delle relazioni Europa/Hollywood nel periodo interbellico si veda A. Higson e R. Maltby (a cura di), “Film Europe” and “Film America”. Cinema, Commerce and Cultural Exchange 1920-1939, University of Exeter, Exeter, 1999. 20. G. Deleuze, Cinéma 2. L'image-temps, Minuit, Paris, 1985; tr. it.: Cinema 2. L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, in particolare pp. 12-14. 21. N. Brennan, Marketing Meaning, Branding Neorealism. Advertising and Promoting Italian Cinema in Postwar America, in S. Giovacchini e R. Sklar (a cura di), Global Neorealism. The Transnational History of a Film Style, University Press of Mississippi, Jackson, 2012, p. 91.

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PARTE II REALTÀ/UOMO/ILLUSIONE

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I fantasmi del neorealismo Stefania Parigi Nel 1953 Franco Fortini prova a immaginare «un film dove si incontrino e si scontrino, con tutta la loro complessità, il pescatore di La terra trema, l’operaio di Ladri di biciclette, il professor Battisti, Totò il buono, la signora senza camelie, il fornaio di È primavera…, la dama di Cronaca di un amore, la signora Rossellini, i partigiani di Paisà e Maddalena Cecconi…»1. Questa carrellata di diversità appartiene quale forza costitutiva al fenomeno che va sotto il nome di neorealismo. Un caricaturista potrebbe raffigurarlo come una sorta di personaggio-mondo composto di pezzi abnormi che non combaciano: le gambe della Mangano e la giacchetta di Maggiorani, i capelli scomposti della Magnani e la faccia nera di John Kitzmiller o gli occhi luccicanti di Enzo Staiola. Il neorealismo si espone continuamente nelle forme di un corpo impuro, fatto di denudamenti e, al contempo, di travestimenti, che vive in una dialettica incessante tra il passato, il presente e il futuro: la sua pelle è piena di tanti «nei» − ironizzava un critico già nel 19502 − ma è anche incisa di molti tratti di una vita anteriore, di resti, patologie, ombre e luci che provengono da lontano e che si proiettano lontano. Il clima etico-sociale del dopoguerra tiene insieme, quasi fosse una sovrastruttura aerea, una matassa inestricabile di congiunzioni e divaricazioni, che riguardano − è stato già ampiamente sottolineato − lo stile dei registi, le sperimentazioni narrative, le declinazioni dei generi, i modelli attoriali, le forme drammaturgiche e l'intreccio di vecchie e nuove iconografie paesaggistiche e umane. I traumi della guerra hanno provocato un movimento sussultorio e ondulatorio all'interno dell'immagine cinematografica, in cui i detriti dei vecchi edifici si mescolano alle nuove costruzioni. Questa configurazione caotica esibisce, però, un forte segno di riconoscibilità radicandosi nel costume e nella vita quotidiana, secondo quanto ha mostrato esemplarmente Alberto Farassino3. Il neorealismo può essere interpretato, allora, anche come una sorta di mitografia di una nazione, innervandosi, al di là del cinema, nella stampa giornalistica, nella memorialistica, nello spettacolo popolare, nel modo di sentire di un’epoca. Per questa sua capacità di indicare uno stato d’animo collettivo l'aggettivo neorealista è entrato nel nostro patrimonio linguistico, evocando sia una stagione cruciale e ancora

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irrisolta del passato, sia una modalità di porsi rispetto al mondo e all'arte. Già gli umoristi del «Marc’Aurelio», tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta, si sono divertiti a elencare in un catalogo di cliché le apparenze e le dinamiche estensive del neorealismo4. L’analisi che hanno condotto sulle superfici iconografiche potrebbe essere applicata anche alle parole-chiave del dibattito infuocato che segue, con il ritardo del tuono − per usare una metafora zavattiniana −, i lampi di Roma città aperta, Paisà, Ladri di biciclette o La terra trema. Il vocabolario del neorealismo, che verrà severamente smantellato dalle revisioni marxiste degli anni Sessanta e Settanta, si basa su parole elementari, generiche, a loro modo assolute: realtà, uomo, popolo, nazione. Usate spesso in modo assiomatico, esse permettono un'enorme varietà di accezioni, le più discordanti. Il ritorno alla centralità umanistica, per esempio, accomuna la retorica cattolica e quella comunista, tra vecchio storicismo e nuovo esistenzialismo. La connotazione storico-sociale su cui insiste la stampa marxista coesiste con le determinazioni spiritualiste della tradizione cattolica o con il fronte più moderno della critica francese che coniuga insieme le suggestioni del personalismo e della fenomenologia. L’unico filo che unisce concezioni tanto difformi è il pathos legato a una condizione umana fondata, in tutti i casi, sulla sofferenza e sulle rovine. Con i termini popolo e nazione − riesumati dall’Ottocento secondo le accuse dei revisionisti degli anni Sessanta − si tende, invece, a coprire o portare alla luce la caleidoscopica immagine di un Paese sospeso tra culture antropologiche diverse, dove il mito di rifondazione dell’italianità si appoggia a un’identità incerta e sempre centrifuga, ancorata al passato anche nella sua volontà di affrancarsene o di rimodellarlo in conformità con le nuove istituzioni repubblicane. Ma è la parola realtà, reiterata quale slogan divinatorio ed ecumenico, a manifestare al massimo grado il carattere plurimo e stratificato del neorealismo, rimandando a una vera e propria costellazione di realismi. Se ne possono enucleare rapidamente alcune tipologie, che rendono conto delle diverse componenti del dibattito d'epoca5. 1) Le teorie di Cesare Zavattini, André Bazin e Amedée Ayfre si pongono sulla linea di un realismo fenomenologico che implica l’immersione del soggetto nel mondo attraverso una continua domanda di senso. Ai loro occhi il cinema non restituisce l’oggettività, ma «l’inerenza dell’io al mondo e

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dell’io agli altri» come metteva già in evidenza Merleau-Ponty in un saggio del 1945, precedente il neorealismo, avvicinando l’esperienza cinematografica all’esperienza fenomenologica nel suo «descrivere il mescolarsi della coscienza con il mondo, il suo incarnarsi in un corpo, la sua coesistenza con le altre [coscienze]»6. L’esaltazione delle capacità riproduttive del medium cinematografico non conduce mai Zavattini, per esempio, a considerare l’immagine neorealista un inerte e automatico atto mimetico, ma a vederla piuttosto nei termini di un’operazione conoscitiva dall’esito indefinito: un incontro non predeterminato tra il soggetto e l’oggetto, l’io e gli altri. La natura esperienziale del suo neorealismo porta a una nuova concezione dello spazio e del tempo cinematografici, sottratti alle regole della narrazione tradizionale e rivolti verso la «flagranza» del processo conoscitivo, inteso come simultaneità di percezione e pensiero, mondo esterno e mondo interiore, fisicità e spiritualità, immagine e immaginario7. D'altra parte la teorizzazione del realismo ontologico connaturato al medium non impedisce a Bazin di riconoscere nell'immagine cinematografica un’inevitabile perdita del reale, compensata da un’illusione di realtà costruita attraverso precise scelte e convenzioni artistiche. Il neorealismo si situa in questo solco aperto tra la potenzialità riproduttiva dell’apparecchio e l’artificio dello stile, tra il realismo ontologico del medium e il realismo estetico delle opere. Ciò che distingue il cinema più sperimentale del dopoguerra dalle concezioni precedenti del realismo − dal verismo e dal naturalismo − è per Bazin una nuova modalità della coscienza che si esplica in una purezza estetica ideale, mai raggiunta nella sua integrità. L’immagine pura coincide con un’immagine spogliata dalle incrostazioni di una categoria di realismo fondata sulle vecchie logiche della verosimiglianza oltre che sulla predeterminazione di una tesi o di una sintesi di tipo ideologico8. È un'immagine in cui − afferma Ayfre riferendosi a Rossellini − l’esistenza viene descritta nella sua globalità, concretezza e ambiguità, senza un significato attribuito a priori. Il senso diventa una domanda, un interrogativo, una possibilità che richiede l’atto cosciente dello spettatore, proprio come accade nell’esperienza reale9. Su queste coordinate si muove anche la riflessione di Brunello Rondi negli avanzati anni Cinquanta10. 2) Una seconda specie di realismo può essere denominata realismo delle forme. Sotto la sua egida si pongono le teorie di Luigi Chiarini. Anch’egli, similmente a Bazin o Zavattini, individua nel neorealismo un ritorno alla

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fase aurorale e primitiva del cinema, che comporta una depurazione dalle codificazioni spettacolari del passato. Ma il legame non reciso con gli schemi idealistici conduce Chiarini a operare una distinzione tra il rispecchiamento tecnico dell’apparecchio e l’azione trasfigurante del gesto artistico. Pur sfruttando le potenzialità realistiche del mezzo, il gesto artistico comporta «un distacco e una riflessione sulla realtà», restituendo «un modo di guardare» anziché il semplice «guardato»11. All’immersione nella realtà della teoria fenomenologica Chiarini contrappone dunque l’inevitabile trasfigurazione della realtà. 3) Nell’arco delle posizioni marxiste emerge, invece, un’altra concezione che può essere etichettata realismo delle idee. Nel dopoguerra Umberto Barbaro, intrecciando insieme le ascendenze crociane della propria formazione e l’estetica sovietica zdanoviana, oppone al realismo percettivo e processuale dei fenomenologi, che appartiene seppur più debolmente anche a Chiarini, un realismo che si può definire metodologico e procedurale. Ai suoi occhi il realismo non intrattiene rapporti privilegiati con la materia della rappresentazione, ma si configura come un fatto gnoseologico ed estetico insieme, che rimanda a un’idea precostituita di realtà. Celebrato in quanto metodo ed essenza dell’arte stessa, il realismo consiste nella capacità della forma di ordinare i materiali della realtà in base all’ideologia marxista12. In tal modo esso manifesta la sua valenza operativa, volta al giudizio e alla trasformazione della realtà. Su un fronte almeno esteriormente meno dogmatico troviamo Guido Aristarco e la linea di «Cinema Nuovo». Muovendosi in un’ottica culturalista, che coniuga il materialismo dialettico e lo storicismo, Aristarco invita a non confondere l’immagine filmica con l’immagine del reale, con una sua registrazione meccanica, ma a considerarla un crocevia attivo di mediazioni concettuali, letterarie e figurative che si manifestano nello stile. Solo nella forma si coglie il progetto del regista e il suo giudizio sulla realtà. Senza entrare nel merito della famosa formula del passaggio dal neorealismo al «realismo critico», che comporta il ritorno a schemi narrativi ottocenteschi, si può constatare come le derive contenutistiche della critica marxista degli anni Cinquanta si svolgano tutte al riparo di teorie estetiche apparentemente formaliste13. Il superamento delle concezioni idealistiche nella delineazione dei rapporti tra forma e contenuto si realizza forse soltanto nel pensiero di Galvano della Volpe che ha scarse ricadute sul terreno concreto della critica.

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Il filosofo riconosce allo strumento cinematografico una capacità di «captazione analitica» delle cose, un realismo di base, definito «realismo dei fotogrammi» che viene integrato dalla funzione sintetica del montaggio, il quale costituisce il momento della concettualizzazione e della discorsività. L’immagine ha, quindi, una natura duplice: concettuale ed empirica insieme, basata sulla materia, che costituisce il contenuto stesso dell’immagine, e sulla forma che ne rappresenta la proprietà intellettuale e discorsiva. In questo quadro il concetto aristotelico di verosimiglianza non riguarda l’aderenza al vero o al reale, ma la coerenza interna e la credibilità di una struttura estetica. È verosimile non ciò che è conforme al reale ma ciò che è credibile. L'estetica del realismo cinematografico si fonda sul valore discorsivo dei procedimenti formali e, insieme, sulla materialità della tecnica14. 4) L'ultima posizione a cui è necessario fare riferimento riguarda il realismo cristiano, definito in opposizione, anche terminologica, al realismo socialista. Questo realismo delle anime, rivolto alla realtà trascendente, privo di vere e proprie sponde teoriche e lontano da quel «problematicismo» che il filosofo Ugo Spirito riconosce al neorealismo15, si basa sulla rigida separazione tra materia e spirito, con ricorsi addirittura alla dottrina tomista. Nei discorsi di Félix A. Morlion, di Diego Fabbri, di Giancarlo Vigorelli e soprattutto di Gian Luigi Rondi il realismo è prima che un fatto estetico, un fatto etico direttamente connesso alla precettistica cattolica e, di conseguenza, alle istituzioni democristiane. Questa breve panoramica sui realismi mostra esemplarmente che al suo interno il dibattito del dopoguerra accoglie e in alcuni casi precede le obiezioni future o, addirittura, risponde implicitamente alle intransigenti revisioni del neorealismo intraprese a partire dagli anni Sessanta e proseguite, in chiave strutturalista-semiotica, negli anni Settanta, giungendo alla massima intensificazione nell’era del postmodernismo. Spesso si sono lette in chiave di sostanziale ingenuità teorica problematiche come quelle del rapporto tra oggettività e soggettività, tra realtà e immagine della realtà che, invece, vengono affrontate ossessivamente dalla discussione d’epoca. Nelle analisi più recenti dei film neorealisti sembra quasi sia in atto una gara per dimostrare, in modo invero lapalissiano, che il loro realismo non ha una natura spontanea, ma fa ricorso ad artifici artistici, spesso ancorati al passato. Anche le opposte rielaborazioni di Deleuze e di Rancière, in campo filosofico, sembrano in buona parte riprendere e riarticolare nodi

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essenziali del dibattito d’epoca: la denuncia dei cliché e il rinvenimento di un’immagine «ottica e sonora pura» enunciati da Deleuze, per esempio, appaiono perfettamente in continuità con il dettato baziniano, mentre la drammaturgia della manipolazione e del comando formale, indicata da Rancière a proposito di Rossellini, si colloca sul fronte opposto delle teorie del dopoguerra che rifiutano la prospettiva ontologica16. La demitologizzazione del neorealismo nell’era postmoderna, dominata dalla «potenza del falso», ha coinciso con quella più generale del realismo inteso come una precettistica autoritaria, più etica e dottrinale che estetica. Nel contempo, però, il neorealismo ha continuato a offrire la ribalta per una serie di fantastiche riesumazioni, in linea con quella spazializzazione della temporalità e quella logica della coesistenza che caratterizzano l’orbita postmoderna. Ciò è stato reso possibile grazie alla plasticità della natura neorealista, passibile delle più varie investiture: quasi ci trovassimo di fronte a una tastiera da cui si possono attivare, ogni volta, suoni diversi. Già nel 1955 Chiarini faceva riferimento a questa fluidità e non delimitabilità del neorealismo affermando: «Si parla tanto di neorealismo che si è creata una gran confusione per cui nessuno sa più cosa sia»17. La distanza cronologica ha accentuato il suo carattere fantasmatico che ne permette la dilatazione nello spazio e nel tempo. Il neorealismo, identificato da Farassino come un insieme di temi, soggetti e personaggi diffusi a livello intertestuale e intermediale, è stato un grande generatore di immagini, di tratti semantici e sintattici, sui quali si è articolata non solo la «rigenerificazione» − per usare un’espressione di Rick Altman18 − del cinema italiano del dopoguerra ma anche una più intensiva disseminazione nella storia e nella geografia del cinema nazionale e internazionale. Le resurrezioni del neorealismo proclamate dalla nostra stampa di informazione − il cosiddetto neo-neorealismo − chiamano in causa indifferentemente questioni di stile e campionari tematici, tendendo a concentrarsi soprattutto su istanze etico-politiche, sul problema della responsabilità civile, sull’idea di far vedere e di costruire un «altro» paese. La produttività dell’eredità neorealista viene messa in rapporto soprattutto con la ricerca di un’identità nazionale oppositiva, conflittuale. In questa ottica privilegiata si pongono spesso gli studiosi di area anglossassone che vedono nel neorealismo sia un’eredità genetica sempre in azione nel cinema italiano sia un modello di resistenza politico ed estetico alla globalizzazione

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hollywoodiana. Modello che ha avuto un grande impatto all'estero tanto da fuoriuscire dalle dinamiche spazio-temporali della sua genesi particolare per diventare un riferimento transnazionale19. Lungo tali direzioni anti-istituzionali mi sembrano muoversi anche alcuni scrittori e critici letterari italiani. Da qualche anno, inoltre, la teoria di un New Realism ha invaso i territori della filosofia venendo a coincidere con il dibattito sulla fine dell'epoca postmodernista20. L’elemento comune a romanzieri, filosofi e registi, all’interno di un arco di posizioni tra loro differenziate, risiede nel riferimento generale a una realtà certamente trasformata dalla tecnologia e dalle dinamiche comunicative della contemporaneità, ma ancora dotata di una consistenza materiale esterna al soggetto che la guarda e la racconta: nella quale i fatti esistono e non sono riducibili soltanto alle loro interpretazioni, come vorrebbe l’altrettanto articolata koinè ermeneutica. Il neorealismo continua così a essere chiamato in causa, paradossalmente, proprio per la sua apparenza di inattualità nel quadro postmoderno. Un’inattualità che, riprendendo le parole di Nietzsche, si può porre «contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo»21. Un'inattualità, quindi, sempre contemporanea, perché fondata sul trauma, sulla vertigine e il desiderio che si producono nelle situazioni di passaggio, di trasformazione o di scontro tra il passato e il presente. Il neorealismo è stato una figura del trapasso e della crisi, secondo le riflessioni dei suoi stessi protagonisti, capace di alimentare spinte contrapposte, che hanno riguardato contemporaneamente la storia delle forme e la storia della società. È stato un fenomeno riconoscibile per il senso comune e, contemporaneamente, un corpo dall’identità sfuggente e proteiforme. Questa sua natura, che si potrebbe definire performativa, è strettamente congiunta alla sua capacità di durata, di sopravvivenza – come direbbe Warburg – o alla sua riproposizione anacronistica, secondo le parole di Didi-Huberman22. Così il termine neorealismo, che fin dall’epoca del suo insorgere è stato accompagnato da una vera e propria sequela di orazioni funebri, può continuare ancor oggi a indicarci un corpo insepolto e reviviscente, esibendo la plasmabilità che appartiene a ogni racconto dell’esperienza reale, ma anche a ogni finzione: come ci ricorda l’etimologia originaria del verbo fingere nella lingua latina.

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Note 1. F. Fortini, Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa, risposta a un’inchiesta fra gli scrittori, in «Cinema Nuovo», 13, 15 giugno 1953, p. 363. 2. F. Venturini, Origini del neorealismo, in «Bianco e Nero», 2, febbraio 1950, p. 51. 3. Cfr. A. Farassino (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, Torino, EDT, 1989. 4. Cfr. Steno, Decalogo del perfetto regista neorealista e Personaggi inevitabili del film neorealista. Si tratta di testi del 1948, ripubblicati in A. Farassino (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, cit., p. 139. 5. Richiamo in questa sede le tipologie che ho più dettagliatamente individuato nel mio Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia, 2014. 6. Mi riferisco alla conferenza Le cinéma et la nouvelle psycologie tenuta da M. Merleau-Ponty il 13 marzo 1945 presso l’Institut des Hautes Etudes di Parigi, poi inclusa nel suo libro Sens et non-sens, Nagel, Paris, 1948; trad. it. Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano, 1962 e Garzanti, Milano, 1974, pp. 69-83. 7. Cesare Zavattini ha disperso il suo pensiero teorico in un’infinità di sedi e di interventi. Mi limito a citare i due volumi che raccolgono le sue riflessioni più significative sul neorealismo: Neorealismo ecc., a cura di M. Argentieri, Bompiani, Milano, 1979 e succ. ed.; Diario cinematografico, a cura di V. Fortichiari, Bompiani, Milano, 1979. 8. Cfr. A. Bazin, Che cosa è il cinema?, presentazione, scelta dei testi e traduzione di A. Aprà, Garzanti, Milano, 1973. 9. A. Ayfre, Néo-Réalisme et Phénomenologie, in «Cahiers du Cinéma», 17, novembre 1952. 10. Cfr. B. Rondi, Il neorealismo italiano, Guanda, Parma, 1956 e Cinema e realtà, Cinquelune, Roma, 1957. 11. Si veda in particolare L. Chiarini, Il film nella battaglia delle idee, Bocca, Roma, 1954, pp. 60-61. 12. Cfr. U. Barbaro, Neorealismo e realismo, vol. II: Cinema e teatro, a cura di G. P. Brunetta, Editori Riuniti, Roma,1976. Si tratta di un’antologia di scritti dal 1926 al 1959. 13. Cfr. G. Aristarco, Antologia di Cinema Nuovo 1952-1958. Dalla critica cinematografica alla dialettica culturale, volume primo: Neorealismo e vita nazionale, Guaraldi, Firenze, 1975. 14. Cfr. l’intervento di Della Volpe in U. Barbaro (a cura di), Il cinema e l’uomo moderno, Le Edizioni Sociali, Milano, 1950. Il volume raccoglie gli atti del convegno internazionale di cinematografia tenutosi a Perugia nei giorni 24-27 settembre 1949. Cfr. anche G. della Volpe, Il verosimile filmico e altri scritti di estetica, Ed. di Filmcritica, 1962 (II ed.) 15. U. Spirito, Il neorealismo del cinema italiano, in «Bianco e Nero», 10, novembre 1948, pp. 16-22.

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16. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano, 1984, pp. 234244 e L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano, 1989, pp. 11-36. Le riflessioni di J. Rancière si trovano nel suo La favola cinematografica, a cura di B. Besana, Edizioni di Cineforum-Edizioni ETS, Bergamo-Pisa, 2006 (cfr. in particolare i capp. Da un’immagine all’altra? Deleuze e le epoche del cinema e La caduta dei corpi: fisica di Rossellini). 17. L. Chiarini, Facciamo un inventario dei film neorealisti, in «Cinema Nuovo», IV, 53, 25 febbraio 1955, pp. 145-146. 18. Cfr. R. Altman, Film/Genere, Vita e pensiero, Milano, 2004. 19. Tra i molti contributi elaborati in area anglosassone mi limito a citare due tra i volumi più recenti, esemplificativi fin dal titolo: L. E. Ruberto, K. M. Wilson (a cura di), Italian Neorealism and Global Cinema, Wayne State University Press, Detroit, 2007; S. Giovacchini, R. Sklar (a cura di), Global Neorealism.The Transnational History of a Film Style, Jackson, University Press of Mississippi, Jackson, 2012. 20. Si veda M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012 e M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, 2012. 21. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano,1973 e 1979, p. 5. 22. Cfr. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

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Il realismo: una questione aperta Alessia Cervini Spiegare perché tornare a parlare di realismo oggi è cosa per certi versi scontata, per altri assolutamente necessaria. L’estrema attualità di un tema come quello che intendo affrontare è dimostrata infatti, in maniera pressoché inequivocabile, dall'abbondanza di pubblicazioni che, negli ultimi tempi, in Italia e non solo, sono tornate a discutere di una questione che era apparsa per anni definitivamente metabolizzata1. Un po’ meno facile è spiegare il perché, per mostrare come il realismo sia a tutt’oggi una questione «aperta», si decida di risalire – alla ricerca delle ragioni di tale apertura – a una stagione del nostro cinema (quella neorealistica, nello specifico), della cui «chiusura» si cominciò a parlare, in maniera per nulla pacifica, già sessant’anni fa, nel corso del famoso convegno che si tenne a Parma, fra il 3 e il 5 dicembre 1953. La tesi che vorrei proporre è che fra i lasciti dell’eredità neorealista vada annoverata certamente la questione del realismo che, lungi dall'essere unicamente problema teorico, si dimostra ancora in grado di determinare, segnandole in maniera più o meno diretta, molte delle pratiche artistiche contemporanee, ivi comprese, quelle cinematografiche. Una questione (quella del realismo) che, problematizzata come vedremo dal neorealismo italiano – che la forzò fino a spingerla verso la soglia della modernità – è sopravvissuta più o meno sottotraccia, per ritornare a galla negli ultimissimi anni, in forme anche molto distanti fra loro: in un fenomeno, per rimanere al solo ambito cinematografico, come il neo-neorealismo, di cui si cominciò a parlare alla fine dello scorso decennio sulla scorta dell’uscita di un film sopra tutti, Gomorra di Matteo Garrone; o ancora più di recente nella sempre più evidente rinascita di un cinema che solo con estreme semplificazioni riusciamo a definire pacificamente documentarista, la cui rilevanza, semmai ce ne fosse bisogno, è ribadita dai premi ricevuti ai festival di Venezia e di Roma rispettivamente da Sacro GRA (G. Rosi, 2013) e Tir (A. Fasulo, 2013). Forme filmiche diverse fra loro hanno riproposto evidentemente, attualizzandola, una vecchia diatriba: quella fra modi diversi, a volte inconciliabili, di intendere il realismo. Prima di arrivare a questo tipo di considerazioni, è forse però giusto

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sottolineare come il tanto decantato «ritorno alla realtà» passi oggi attraverso la necessità di una riconsiderazione complessiva di quel fenomeno che, almeno per un paio di decenni, abbiamo definito con il nome di postmodernità (un fenomeno che, in contrapposizione alla modernità, è stato schiacciato su posizioni anti-realistiche) e che solo interpretazioni particolarmente intransigenti possono spingersi a considerare definitivamente concluso. Il cortocircuito che ci costringe a ripensare il realismo dalla posizione, storicamente situata, di chi vive – come noi in questo momento – la condizione della post-postmodernità non può non implicare la necessità di tenere insieme quelle che a lungo sono apparse come polarità abissalmente disgiunte, ovvero il riconoscimento del fatto che tanto il realismo quanto il postmodernismo «agiscono trasversalmente attraverso vari prodotti artistici e culturali e che non si configurano nei termini di una distinzione binaria e anzi possono coesistere»2. Tanto più che ogni posizione forzatamente storicistica (quella che considera il percorso della storia come il susseguirsi lineare e irreversibile di fasi l’una in frizione con l’altra) è destinata a mostrare il fianco, quando applicata a una materia impura come il cinema. Una precisazione analoga a questa si ritrova, non a caso, anche in una pagina di Firme del visibile di Fredric Jameson, il quale, dopo aver sostenuto che «la storia del cinema può venire illuminata […] applicando la teoria dei periodi storici»3 (specificamente individuati in realismo, modernismo, postmodernismo), si affretta a mostrare ai propri lettori come «questa periodizzazione non sia particolarmente lineare o persino evolutiva»4, proprio perché il cinema sembra, per esempio, molto poco disponibile a rinunciare a quella vocazione realista che è per certi versi connaturata al mezzo cinematografico stesso. A una vocazione realista in termini generici, infatti, il cinema non ha mai rinunciato, prendendola in carico, in alcuni casi, in maniera del tutto evidente o addirittura programmatica. E allora dovrebbe cominciare a emergere la prima ragione, forse la più importante, sulla scorta della quale tornare al neorealismo per parlare, ancora una volta, ma con un dato storico in più, di realismo. Pur nella sua brevità – dovuta forse proprio alla sua eccezionalità – il neorealismo ha mostrato con ogni evidenza la peculiare «instabilità» di un concetto come quello di realismo. È ancora Jameson a invocare l’idea di «instabilità» per

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designare, nello specifico, il carattere quasi ossimorico di un'espressione come «rappresentazione della realtà», che tiene in sé le due anime del realismo: quella epistemologica (che consiste nel volersi proporre del realismo come strumento di conoscenza della realtà) e quella estetica (che consiste appunto nell'aspirare a organizzarsi in quanto modalità di rappresentazione, ovvero elaborazione formale della realtà stessa)5. Se si riparte da queste considerazioni jamesoniane – la periodizzazione non lineare delle epoche cinematografiche e l’instabilità del concetto di realismo – si comincia, allora, a comprendere meglio l'assoluta eccezionalità del neorealismo che, con le armi proprie del realismo, riuscì ad aprire le porte della modernità a venire. Il neorealismo riuscì infatti a contenere in sé l’instabilità propria del realismo, ricomponendo rivendicazioni che di lì a poco – forse già nel momento stesso della sua fine – si sarebbero dimostrate inconciliabili; lasciandosi attraversare «trasversalmente», cioè, da opzioni di realismo divenute poi, in alcuni passaggi, addirittura incompatibili fra loro. Si può forse dire, ma è quello che dovrà essere mostrato nello specifico, che quelle posizioni emerse problematicamente sessant’anni fa siano le stesse (dunque eccola qua l’eredità diretta del neorealismo con cui avremmo a che fare) che riemergono ora, quando è il rapporto fra postmodernità e realismo a dover essere pensato, esattamente come allora quello fra modernità e realismo. Le posizioni che il recente dibattito ha fatto emergere sono, fatte salve le singole sfumature che qui non è possibile riferire nella loro completezza, riconducibili a due diverse accezioni di realismo che ricalcano per certi versi i due poli dell’instabilità di cui parla Jameson: una che potremmo definire «dura», l’altra «negativa». Nella prima accezione (a cui si rifanno nel dibattito contemporaneo molti filosofi analitici) il realismo torna a porre un problema di ordine squisitamente epistemologico e si fonda sull’idea – piuttosto lapalissiana – che esista una realtà del tutto indipendente dalle nostre rappresentazioni6. Nella seconda accezione, invece, il realismo smette di implicare problemi che hanno a che fare semplicemente con la pura «conoscenza» di ciò che chiamiamo realtà e tira in causa la questione estetico-etica (non più solo epistemologica, dunque) del suo «riconoscimento», il che equivale in alcuni casi ad ammettere che «ci sono delle cose che non si possono

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dire, che ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO»7. Questo riconoscimento passa – sostiene Walter Siti – attraverso «uno strappo leggero», un «particolare inaspettato» che contemporaneamente «coglie impreparata la realtà e ci coglie impreparati» di fronte ad essa8. Ogni processo di «riconoscimento», perché sia tale, implica cioè l'instaurarsi di un relazione biunivoca (secondo uno schema di andata e ritorno) fra tutte le parti coinvolte, mettendo radicalmente in questione lo schema binario del rapporto conoscitivo che oppone, invece, il soggetto conoscente all’oggetto conosciuto (o da conoscere). Ma questo, dice ancora Siti, significa disfarsi di un’idea di realismo «come copia del reale», ovvero della «metafora che ha accompagnato, con declinazioni diverse, il percorso del realismo»: la metafora dello specchio9. Ancora una volta l’esperienza del neorealismo e quella del suo dissolvimento sono di una certa utilità per comprendere al meglio certo dibattito contemporaneo, filosofico e non. L’immagine dello specchio a cui Siti fa riferimento rimanda, per esempio, a quella declinazione del realismo inteso come «rispecchiamento» della realtà (concetto di leniniana memoria) che attraversò molta parte del dibattito sorto, nei primissimi anni Cinquanta, sulle pagine dell’allora neonato «Cinema Nuovo». Il progetto portato avanti da molti, Aristarco in primis, consisteva infatti nella fondazione di una nuova idea di cinema realista, a partire dal riconoscimento dell’entrata in crisi dell’esperienza neorealista, che significativamente proprio di un’esigenza analoga di realismo si era nutrito. Allora, come ora, due concezioni del realismo erano a confronto: una «dura» che vede nel problema della rappresentazione della realtà essenzialmente la posizione di una domanda di ordine epistemologico, finalizzata alla conoscenza della realtà, l’altra «negativa» che legava il realismo a questioni di tipo estetico-etico, facendo di esso la modalità propria del «riconoscimento» della realtà. A partire da queste due idee di realismo, altrettante idee di cinema si sarebbero contrapposte, così come il convegno di Parma aveva lasciato presagire, e così come nel giro di un paio d'anni l’intervento di Aristarco a difesa di Senso e del suo «autentico» realismo sancì definitivamente10. Come noto, il passaggio dalla cronaca alla critica della storia, che il film di Visconti avrebbe messo in scena, era secondo Aristarco la ragione della

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transizione necessaria dal neorealismo al realismo, laddove – significativamente per noi – a quest’ultimo lo studioso attribuiva il merito di aver riportato in primo piano la possibilità del cinema di tornare a essere una forma di conoscenza della realtà, posto che ciò che possiamo conoscere è solo quell’oggetto di fronte al quale ci poniamo con atteggiamento critico. Letta in controluce, la prospettiva di Aristarco rimanda, dunque, la definizione del realismo, in primo luogo, alla definizione di ciò che dobbiamo intendere per realtà (non la cronaca, ma la Storia) e, in seconda battuta, alla posizione che deve assumere chi quella realtà è chiamato a rappresentare. Se opposta alla cronaca (ciò che Rossellini, e poi con lui Bazin, definiva più giustamente «fatti») come accadere presente, la Storia (la sola realtà, nella lettura di Aristarco) è infatti il già accaduto. Essa ha per questo già una forma, alla quale la rappresentazione deve, per dirsi realistica, corrispondere. Essa è cioè propriamente «oggetto» e richiede a chiunque le si ponga di fronte un atto di conoscenza, che passi attraverso una presa di coscienza critica. È per questa via che la Storia può e deve diventare contenuto di ogni rappresentazione realistica. A questa linea interpretativa del realismo si opponeva quella che fu soprattutto di Rossellini e di Zavattini. Al problema epistemologico della conoscenza della realtà si sostituisce, in questo caso, quello fenomenologico che ha a che fare con l'emersione di una «verità» (si noti tangenzialmente che anche il passaggio, solo apparentemente linguistico, dalla realtà alla verità non è di poco conto) che si condensa in quella che Bazin ha definito – proprio in prospettiva fenomenologica – «immagine fatto». La verità non è dunque già composta in una «Storia», ma emerge in un «evento» che, in quanto non già accaduto, non richiede di essere conosciuto, ma di essere «riconosciuto» nell'atto stesso del suo accadere. Questa consustanzialità all’evento è ciò che fa della rappresentazione dell’evento stesso un fatto specificamente «morale», dal momento che implica non il posizionamento esterno di chi conosce (il soggetto conoscente si distingue sempre dall'oggetto del suo conoscere), ma quello interno di chi per «riconoscere» la verità nel suo accadere, deve essere a sua volta da essa «riconosciuto». Andava in questa direzione la necessità espressa da Zavattini, nella poetica del pedinamento, che la macchina da presa rimanesse in scena, in modo da riuscire a cogliere ciò che davanti a essa sarebbe accaduto, nel momento stesso del suo accadere. È solo insistendo sulla scena che la macchina da presa può

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riuscire infatti a cogliere, quando ha imparato a riconoscerlo, l’accadere di eventi che sfuggono totalmente alla possibilità di essere previsti. In una prospettiva simile a questa possono essere interpretate anche le parole di Rossellini che, in una famosa intervista con i «Cahiers du cinéma», definiva il suo neorealismo come una «posizione morale da cui guardare il mondo», come a qualcosa di prossimo, nei confronti del quale nutrire nongià un’aspirazione conoscitiva (nella quale un soggetto e un oggetto sono contrapposti), ma una vera e propria relazione amorosa, nata dal riconoscimento reciproco di due o più soggetti fra loro. È per questo che nella stessa intervista ai «Cahiers du cinéma» Rossellini definisce il suo neorealismo come espressione di un umanissimo «amore per il prossimo»11. Mi pare dunque di poter affermare che è possibile riattraversare utilmente (a partire dall'esperienza del neorealismo italiano e della sua conclusione) il dibattito sul realismo a partire dalla questione, non solo teorica, che riguarda il posizionamento dello sguardo di chiunque si ponga il problema di raccontare «la realtà»; questione che a ben vedere riattualizza – anche in chiave postmoderna, come propone Antonello nel volume già citato, dal titolo solo apparentemente provocatorio, Dimenticare Pasolini – il problema dell’impegno intellettuale. Tale prospettiva (quella che vuol porre al centro della discussione sul realismo il problema specifico del posizionamento di chi intenda dar rappresentazione alla realtà) se per un verso, infatti, è un modo per scartare da tutte le posizioni che, di volta in volta, hanno ridotto il realismo a una questione formale o, viceversa, contenutistica, è per l’altro la chiave attraverso cui riconoscere nel realismo un tema di discussione ancora del tutto attuale. «Scrivendo Il contagio – ha detto Walter Siti nel corso della conversazione che è già stata ricordata – mi rendevo conto che se rimanevo del tutto fuori, se raccontavo con la mia lingua la vita di cui avevo fatto in qualche misura esperienza, il tutto sarebbe risultato quasi come un compiacimento decadente»12. A questo modello «immersivo» (che preserva da esiti inutilmente estetizzanti o addirittura decadenti – là dove il decadentismo non è che l'esito più estremo dell'estetismo) della rappresentazione realistica dal di dentro, ancora Siti, oppone il modello oggettivante della descrizione, che implica il rimaner fuori del narratore, in una posizione di onniscienza che riconduce a concezioni di realismo come quelle espresse, nella storia della letteratura, dal grande romanzo storico di Scott e Manzoni. Nel primo caso, il realismo si nutre della ricchezza di un modello dialo-

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gico della narrazione, dal momento che il narratore è dentro la storia che racconta, anzi incontra la realtà da raccontare nel suo accadere, attraverso frammenti di discorso che sono in grado di sorprenderlo. Nel secondo, la narrazione procede in maniera monologica – perché l’autore non dialoga con la realtà, ma la osserva da una posizione che, in quanto esterna, garantisce alla rappresentazione oggettività e completezza – e il realismo si declina del senso dell’adequatio alla realtà, tornando ad assumere su di sé esigenze specificamente conoscitive. Tornando al cinema, e nello specifico alle produzioni italiane degli ultimissimi anni, mi pare di poter sostenere che un fenomeno come quello del cosiddetto ritorno della «realtà» difficilmente si pieghi a categorizzazioni troppo poco pregnanti come quelle che hanno incluso sotto la generica etichetta di «neo-neorealismo» film anche molto diversi fra loro, accomunati ora da una forma (intesa qui soprattutto come stile), ora da sensibilità tematiche tutte riunificabili sotto il segno generico dell’attenzione a una «realtà», spesso declinata nel senso semplificato dell’attualità. In una prospettiva come questa, la rinata questione del «realismo» della rappresentazione si riduce alla discussione di concetti tanto vecchi, quanto imperituri come quelli di «forma» e «contenuto», oltreché, ovviamente del rapporto sempre complesso fra i due. Molto più proficuo, sulla scorta da quanto detto fin qua, mi pare il tentativo di rintracciare l'alternanza o la convivenza (esattamente come accadeva sessant’anni fa) di declinazioni di realismo diverse, determinate, come è stato detto, dalla posizione a partire dalla quale il lavoro della messa in forma prende avvio, determinandola di conseguenza. Si può far riferimento a puro scopo esemplificativo (i titoli potrebbero molti di più e soprattutto diversi da quelli qui proposti) a due film italiani usciti nelle sale nel corso degli ultimi anni: Bellas mariposas di Salvatore Mereu (2012) e L'uomo che verrà di Giorgio Diritti (2009). Sebbene solo di esempi si tratti, si può dire che i due film ripropongano alcuni degli stilemi che furono del neorealismo e che potrebbero bastare a farli rientrare entrambi nella macro-categoria che un’etichetta come quella di neo-neorealismo identifica: la presenza di bambini, l’uso di attori non professionisti (mescolati ad attori di professione nel caso del film di Diritti), un uso attento del dialetto che spingerebbe verso una declinazione realista dell’elemento linguistico. Ma c'è di più perché, spostando l’attenzione al piano strettamente con-

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tenutistico, scopriamo che i due film ripropongono l’opposizione aristarchiana fra cronaca e storia: nel primo caso la giornata di due ragazzine che vivono la realtà disagiata della periferia cagliaritana; nel secondo una delle pagine più angosciose della storia italiana del Novecento, l’occupazione nazifascista del Paese, prima della sua Liberazione. Ma se ciò che abbiamo detto ha un qualche fondamento, è da questa distanza fra cronaca e Storia che hanno origine le forme di realismo che i due film sembrano avanzare, secondo modalità che, a ben vedere, hanno una ricaduta sulle tecniche rappresentative che essi mettono in campo e che chiamano in causa ancora una volta il regista e la posizione che egli sceglie di occupare rispetto al nocciolo del proprio racconto. Stiamo parlando, evidentemente, di esperienze che non sono più direttamente riconducibili a quelle del neorealismo. Nel caso di Mereu, soprattutto, sono evidenti le interferenze di certa postmodernità cinematografica: l'uso eccentrico del colore, la costruzione per accumulo del racconto, il carattere ridondante delle immagini, la forma ibrida della narrazione con l’inserzione di elementi diegetici fantastici, all’interno di un registro che si muove sempre fra realtà e surrealtà (elemento questo che, a dire il vero, ben prima della postmodernità, ha attraversato la storia del cinema italiano, identificando quel filone che potremmo definire «grottesco fantastico-favolistico»13 e che ha avuto certamente origine in uno dei capolavori della coppia De Sica-Zavattini: Miracolo a Milano). Ma è forse proprio per questo che i due film sono di un certo interesse per chi voglia tornare a riproporre oggi il problema del realismo, scartando da questioni di contenuto e di forma. Bellas mariposas chiede al suo spettatore di star dentro il racconto della giornata di due ragazzine, esattamente come fa una delle due protagonista con il regista del film, rivolgendo il suo sguardo in camera, già fin dalla primissima inquadratura. È così che siamo costretti a seguirla e a vivere con lei i piccoli accadimenti di una giornata qualunque. Il realismo del film non è altro che la conseguenza di questo primo incontro e di questo reciproco e fondativo riconoscimento. Il film di Diritti si muove evidentemente su tutt’altro piano: a partire da una piccola storia comune, quella di una famiglia emiliana, fa sua la volontà di realizzare l’affresco meticoloso e attento di una pagina di storia italiana: l’eccidio nazista di Marzabotto. In questo intento lo sguardo del regista non può che rimanere distante, ed è da lontano infatti che la macchina

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da presa si ferma, nella sequenza finale del film, ad ascoltare il canto della bambina che ha appena messo in salvo l’uomo che verrà. Sono solo due esempi quelli che ho appena riportato: molti altri se ne potrebbero fare. Quello che essi dicono con chiarezza però è che il realismo ha a che fare, più che con ogni altra cosa, con il rapporto che si costruisce con la realtà che si vuole raccontare, e al cinema questo rapporto dipende, con ogni evidenza, con la posizione che la macchina da presa, decide di volta in volta di assumere.

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Note 1. Mi riferisco, evidentemente, al dibattito filosofico che ha fatto seguito alla pubblicazione di un discusso volume di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2013, ma anche al fiorire di una serie di pubblicazioni in ambito strettamente cinematografico che, negli ultimi anni hanno rimesso al centro della discussione la questione della realtà. Si vedano per esempio: R. Guerrini, G. Tagliani, F. Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Genova, 2009; G. Spagnoletti (a cura di), Il reale allo specchio. Il documentario italiano contemporaneo, Marsilio, Venezia, 2012; D. Dottorini (a cura di), Per un cinema del reale. Forme e pratiche del documentario italiano contemporaneo, Forum, Udine, 2013. 2. P. Antonello, Impegno postmoderno: l’ossimoro che avanza, in Id., Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea, Mimesis, Milano, 2012, pp. 156-157. 3. F. Jameson, Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, Donzelli, Roma, 2003. 4. Ivi, p. 156. 5. Ivi, p. 159 e sgg. 6. È questa la posizione di due filosofi analitici come J. R. Searle e H. Putnam, autori di due dei saggi (intitolati rispettivamente Prospettive per un nuovo realismo e Realismo e senso comune) contenuti nel volume a cura di M. De Caro e M. Ferraris, Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, 2012. 7. U. Eco, Di un realismo negativo, in M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, cit. pp. 91-112. 8. Cfr. L’inganno della realtà. Conversazione con Walter Siti (a cura di A. Cervini e D. Dottorini), in «Fata Morgana» n. 21, Settembre-Dicembre 2013, pp. 7-18. 9. Ibidem. 10. G. Aristarco, Senso, in «Cinema Nuovo», n. 52, 10 febbraio 1955. 11. R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du Cinéma» (a cura di M. Schérer e F. Truffaut), in Id., Il mio metodo. Scritti e interviste, Marsilio, Venezia, 2006, pp. 111-121. 12. W. Siti, L’inganno della realtà, cit., p. 10. 13. Riprendo l’espressione da R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 1999, p. 29 e sgg.

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«Una sconfinata tematica sull’uomo»: umanismi neorealisti Michele Guerra Il tema dell’umano è stato fin dalle primissime riflessioni sul neorealismo un tema centrale per comprendere le prospettive, la vitalità e il lascito del neorealismo. È un tema che poi ha continuato, nei decenni, a riaffiorare, ora legato a letture filosofiche del fenomeno neorealista, ora ad analisi stilistiche, ora a ricostruzioni storiche che si interrogavano sulle ragioni e le premesse di quelle opere e sul senso della loro italianità. Solo molto recentemente, però, l’umano è stato assunto a punto di riferimento privilegiato, a bussola decisiva per orientarsi nella rosa di significati che il neorealismo è venuto assumendo nella storia e nella storiografia del cinema italiano. Introducendo il primo volume del Lessico del cinema italiano, Roberto De Gaetano, proprio indagando l’irriducibile e inalienabile italianità del neorealismo, è arrivato a parlare di «invenzione dell’umano al cinema, che è allo stesso tempo la reinvenzione del cinema»1. Il comune sentimento morale con cui i registi e gli sceneggiatori del neorealismo, entro una nebulosa politica che ancora non delineava divisioni, indicava la via di una ricerca del vero che facesse dell’uomo lo strumento e la misura dell’indagine. Come scrive ancora De Gaetano, «il cinema scopre, una volta dissolti le illusioni e i miti maturati nei decenni precedenti, la possibilità di accedere ad una verità, quella di rivelare l’umano, la sua universalità, attraverso l’incontro (del personaggio e della macchina da presa) con la contingenza del reale»2. La residualità dell’umano, a guerra finita, abbandonato sulla zattera del dubbio di cui parlava Zavattini, diventa la leva da muovere per restituire pensiero e visione al cinema italiano e ad ogni vero tentativo di «riscoprire» il nostro cinema sembra ci sia come la necessità di ritornare all’uomo. Alcuni anni fa è stato ripubblicato il Dibattito su Rossellini, che contiene i testi di un dibattito sui generis organizzato da Adriano Aprà e Gianni Menon a Pisa nel 1969. Un gruppo di giovanissimi cinefili, tutti piuttosto politicizzati e insofferenti rispetto allo stato delle cose del cinema italiano, veniva messo di fronte ai film di Rossellini e interrogato sul senso di quel cinema per le loro vite. Molti di questi giovani avrebbero poi fatto strada, con ruoli diversi, nel cinema (Paolo Benvenuti, Marco Melani, Enzo Ungari, Franco Ferrini, tra gli altri), ma in quel momento erano ragazzi

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imbevuti soprattutto di underground, abbastanza decisi alla rottura con il cinema italiano a loro contemporaneo, e tutt’a un tratto posti di fronte al più «scivoloso» e politicamente incerto dei registi. Ebbene, ciò che colpì quei giovani fu l’attenzione all’umano presente in Rossellini; fu sull’uomo che scattò la scintilla, che fece di Rossellini (che una sera partecipò di persona al dibattito) un loro compagno, un punto di riferimento e di partenza per ripensare tutto il cinema italiano. Così, se Carlo Alberto Bianchi (uno dei partecipanti) parte dicendo, alla prima seduta del dibattito, che Rossellini lavora sulla realtà e sull’uomo, che si innalza a umanità intera, per cui non ci sono differenze tra Edmund in Germania anno zero e la Magnani amante disperata o pastorella nei due episodi de L’amore3, Paolo Benvenuti sposta addirittura l’attenzione sul rapporto che questo tipo di cinema intesse con il suo spettatore, per cui ciò che lo atterrisce è che quando vede i grandi film di Rossellini avverte «un rapporto diretto, da uomo a uomo, io e lui»4. Alfredo Rossi aggiunge: «A me finora di Rossellini ha colpito molto il modo in cui la disponibilità umana dell’uomo si concreta nella estrema duttilità stilistica»5, col che significa che questa umanità che riempie il piano cinematografico orienta anche lo stile essenziale e secco di Rossellini. Franco Ferrini arriva a sostenere che Rossellini rappresenterebbe una figura nuova, non meglio specificata, di «regista-uomo»6, mentre Enzo Ungari nota come sia difficile trovare «giustificazioni» al e nel cinema di Rossellini proprio perché è «un cinema molto umano che ci coinvolge visceralmente prima che razionalmente»7. Non è il caso di citare altri interventi che si soffermano sulla questione (alcuni di essi appaiono tra l’altro piuttosto criptici, tesi a un certo misticismo che il cinema di Rossellini è spesso capace di ingenerare), ma è importante ricordare che quando Rossellini interviene al dibattito parla dell’importanza che ha per lui l’istinto, termine con cui intende riferirsi «alla complessità dell’atteggiamento necessario a chi vuole studiare la realtà». E aggiunge: «Vede, per “istintivo” io intendo questo: mi voglio mettere in una posizione critica nei confronti del quadro generale dell’uomo e quindi tento di vederlo nelle sue reali prospettive, con tutti i rischi che questa operazione comporta, da una parte e dall’altra. Allora cerco di andare a scoprire la verità più piccola, più puntiforme, perché magari è quella che può servire per capire»8. Se ho voluto richiamare il caso del Dibattito su Rossellini, è perché viene a costituire una rilevante testimonianza di come il cinema neorealista rechi

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in sé una carica di novità e modernità che si spinge oltre i confini storici della sua esistenza e si offre come modello anche in ambienti in cui emerge chiara una certa tendenza al rifiuto della tradizione. L’idea è che l’umano sia il tema che riaffiora nel momento in cui si cerca di «prendere coscienza» del neorealismo e di capirne l’incidenza sulla propria vita e sulla vita della società. Non è un caso che già il 6 novembre 1946, in una intervista a Henry Berryer per «Front national», Rossellini parlasse di «una nuova specie di uomo», che attraversa molte cinematografie europee. Del resto, se ci rivolgiamo agli scritti che cercavano questa presa di coscienza del fenomeno neorealista negli anni stessi del neorealismo (o in quelli immediatamente precedenti e immediatamente successivi), ritroviamo la certezza che l’uomo sia la pietra angolare di un discorso rivoluzionario sia sul piano morale che su quello estetico e sia una figura che in qualche modo si sdoppia: l’uomo come cellula del racconto e l’uomo che si pone dialetticamente rispetto a quel racconto; l’uomo come misura della narrazione e del piano neorealista e l’uomo con una macchina da presa, della pellicola e qualcosa da dire, a voler citare Zavattini, il quale d’altra parte, durante il convegno sul neorealismo di Parma nel 1953, disse che il neorealismo, in fondo, era nulla di più e nulla di meno che «una sconfinata tematica sull’uomo»9. L’umanismo neorealista, così come viene delineandosi in tempo di guerra, tra fine anni Trenta e primi Quaranta, sembrerebbe quasi essere la reazione necessaria allo scoramento con cui Vittorini apriva, alla prima pagina, Conversazione in Sicilia, dove «il terribile» è «credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa per lui». In un articolo apparso su «Rinascita» il 3 febbraio 1967 e intitolato Il romanzo della svolta, Gian Carlo Ferretti scrive: Sembra quasi che Vittorini scopra qui per la prima volta la dimensione dell’uomo, nelle sue membra, parole, gesti, pensieri, come rinato a una nuova vita […] guardato con stupore incredulo e ammirato dal protagonista-viaggiatore che credeva il «genere umano perduto». E se in ciò si avverte quel mito vitalistico-irrazionale di una realtà sentita nella sua vergine «freschezza» e nella sua nuda «purezza», da aggredire e riscoprire incessantemente al di là di ogni ideologia e contesto storico […] non c’è dubbio che vi agisca attivamente altresì […] una consapevole tensione a ricostruire dalle rovine del vecchio mondo, un uomo nuovo, un valore universale, una nuova totalità, non limitandosi a rimettere insieme pezzo a pezzo i frantumi di quelle rovine, di quei valori ormai «morti», ma vivendo e superando dall’interno le offese alle più elementari manifestazioni dell’esistenza e le più intime lacerazioni della coscienza intellettuale e morale.

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Ciò che Ferretti coglie in Conversazione in Sicilia, ma che noi potremmo rintracciare col medesimo umore in tante pagine di riviste come «Cinema» e non solo, è quella dimensione dell’umano fatta di membra e parole, di gesti e pensieri, come se i pensieri e le parole fossero incapsulati e da ricercarsi nelle membra e nei gesti. Una dimensione scoperta «per la prima volta», si azzarda a dire Ferretti, ed è però proprio questo il sentimento più condiviso intorno al progetto non scritto del neorealismo, la primogenitura di un cinema di membra e gesti che veicolano pensieri e parole di un genere umano che si credeva perduto e che invece si fa strada, rinnovato, tra le macerie della guerra finita. Il superamento delle offese, la ricucitura delle lacerazioni morali e intellettuali vanno al di là delle ideologie e strutturano la tensione alla ricostruzione che è la prima caratteristica dell’«uomo nuovo». E però non va trascurata quella «vergine freschezza» e «nuda purezza» che paiono scaturire dal mito vitalistico-irrazionale della realtà, uno degli aspetti di norma meno approfonditi della cultura neorealista e che invece ne ha talvolta garantito l’impatto su certe cinematografie del terzo mondo, ad esempio, o su spettatori quali potevano essere i «giovani turchi» riuniti a Pisa che cercavano il senso dell’umano nel cinema di Rossellini. C’è uno scandalo nella proposta della nuova dimensione dell’umano che si ritrova uguale (nel cinema come nella letteratura) nella proposta della nuova dimensione del paesaggio, non a caso i due elementi su cui si insiste di più per riformare il cinema italiano. Quando Visconti parla di cinema antropomorfico, fonda la sua proposta sull’attore in quanto uomo, che «possiede qualità umane-chiave», che vanno graduate in quanto «manifestazioni di vita». Visconti parla di storie che raccontino «uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse» e sottolinea la naturale disponibilità cinematografica dell’umano e la duttilità del cinema nel raccontarlo: «l’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola “cosa” che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo»10. Dunque sono anni in cui la dimensione dell’uomo di cui parla Ferretti sembra porsi come denominatore comune e sembra sprigionare un ecumenismo morale in grado di suggerire la sua declinazione estetico-formale. Il sentimento morale è così forte che, proprio relazionando sul convegno di Parma,

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i «Cahiers du cinéma» parleranno di «espérance invincible d’une nouvelle civilisation humaine» (si veda il saggio di Jean Gili in questo volume). Il vagheggiato assottigliamento della distanza del personaggio dall’individuo presuppone nuove pratiche di osservazione che dovrebbero funzionare ancora meglio se quell’uomo, così inseguito e voluto, è preso fuori da ogni esperienza finzionale e recitativa. Zavattini al convegno di Perugia del 1949 parlerà non per nulla di osservazione dell’uomo in quanto uomo, che ci permette di aprire gli occhi sopra di lui e di trovarcelo di fronte «senza favola, senza storia apparente» e dirà: «ci pare di essere alla vigilia di ritrovare plasticamente il valore originale della nostra immagine»11, tentando di ricondurre a unità l’originale e la sua messa in immagine. Proprio a Perugia, del resto, la scommessa del convegno era capire se il cinema fosse in grado di rispecchiare «i problemi dell’uomo moderno», vale a dire metterli in immagine, raccontarli e offrire proposte non solo estetiche, ma anche sociali e politiche. La curvatura che tende a dare alla discussione il curatore del convegno, Umberto Barbaro, denuncia il prevalere, almeno da parte sua, di una volontà a ricondurre ogni discorso sul cinema e sui film (non solo sul neorealismo) nell’alveo di una riflessione più sociale che estetica di stampo marxista. Barbaro non accetta quell’idea di uomo disarmato e indifeso che, a suo dire, si ritroverebbe in certi scritti di Chiarini e massimamente in Zavattini, a indicare sia l’individuo come protagonista della storia, sia l’artista, che dovrebbe porsi in quel modo di fronte alla realtà12. Ciò che Barbaro teme è che taluni propositi programmatici del neorealismo, tra cui soprattutto l’iperbole riguardo la rinuncia a soggetti e sceneggiature (per cui, scrive, si smetta di andare al cinema, si faccia un buco nel muro e si sbirci lo scorrere della vita reale), finiscano con l’offuscare il vero obiettivo di quel nuovo umanismo, e cioè la formazione di una coscienza del proprio compito, ispirata ideologicamente e capace di «contribuire al grande processo storico in corso di trasformazione della realtà, che segnerà ovunque la piena emancipazione umana, il trapasso dal regno della necessità a quello della libertà»13. Quella di Barbaro rimane una proposta interna al dibattito sul cinema dell’uomo, ma rispetto alla proposta di Zavattini, che più che disarmata appare libertaria nella sua essenziale e irrevocabile progettualità, si connota ideologicamente e pare in linea con un’altra idea di nudità dell’umano che è quella marxiana, dove gli uomini saranno infine costretti a guardare con

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Autori Vari

occhio disincantato (fuori da ogni favola avrebbe detto Zavattini) le vere condizioni delle proprie vite e i rapporti con gli altri uomini, lungo una linea di emancipazione che procede attraverso fasi di disvelamento su cui ha scritto pagine importanti Marshall Berman14. La critica di Barbaro, tuttavia, sembra più interessarsi all’aspetto teorico e politico dell’umanismo neorealista che non alla sua effettiva necessità di incarnarsi in opere che lascino respirare, anche nell’ambiguità, questo nuovo uomo postbellico; c’è un’idea di umanità che si cala dall’alto e una che cerca di ritrovarsi nelle traiettorie pedonali, ellittiche e dispersive che problematizzano la soggettività dell’individuo neorealista. In altre parole, c’è in gioco molto di più della presa di coscienza di una precisa missione sociale, c’è in gioco la ricostruzione della relazione uomo-mondo e la ricerca di una forma che la renda raccontabile. De Gaetano ne scorge la possibilità proprio al lato opposto del discorso di Barbaro, in quello «sfaldamento sociale» che «lascia emergere un’umanità segnata, sì dal bisogno, ma anche dalla disponibilità all’incontro». Si tratta di un’«umanità senza società», fuori da forme di relazionalità organizzata che oscilla tra una condizione passiva e una di apertura che significa occasione di rinnovamento15. Sembra ricorrere questo tema della disponibilità dell’umano come possibile nucleo della riflessione neorealista e resta il fatto che questa fiducia e questo rinnovato interesse per l’uomo e per la sua ricostituzione e progettualità vadano pensati entro quel sentimento di nuova vita che si respira a guerra finita. Come ha ricordato Stefania Parigi, il mito della rifondazione è consustanziale al neorealismo quando ancora non si chiama neorealismo, basta riandare all’accoglienza che fu riservata a Roma città aperta16. Quel gigante che ancora Parigi, alla prima pagina del suo libro, definisce «addormentato», stende la sua ombra sul cinema italiano (e non solo) ancora oggi, eppure è un fenomeno che moralmente e, in un certo senso, filosoficamente rimane veramente vivo per un periodo di tempo circoscritto, che potremmo davvero fermare intorno al 1953. Proprio in quell’anno, al convegno di Parma, Zavattini lo definisce fenomeno «attuale» (che è il suo modo di unire il concetto immanente di modernità a quello proiettivo di progettualità) e dice che il neorealismo è il cinema dei rapporti tangibili, del contatto, cioè un cinema che ha senso, come abbiamo visto, proprio in quegli anni17(e che tuttavia Zavattini cercherà di protrarre più di tutti; quando nel 1962 scrive una lettera a Blasetti in cui gli parla del progetto

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Diario di un uomo, dice che si tratta «di un martellamento di anni, sempre su quel tema»)18. Questo martellamento, questa insistenza e convergenza sull’uomo, sta dentro un discorso più vasto sull’umano, che incrocia il dibattito sugli umanismi postbellici senza volercisi mai confrontare, anzi si potrebbe dire che il movimento neorealista dà conto e in certi casi cristallizza, quasi senza accorgersene, temi che all’indomani della fine della guerra e poi negli anni Cinquanta segneranno la grande interrogazione del pensiero europeo sulla crisi che la guerra aveva così manifestamente enfatizzato. Eppure, nonostante ciò, la parola «umanismo» (e meno ancora «umanesimo») non si trovano negli scritti del periodo, e non tanto per una volontà a evitare compromissioni filosofiche di sorta, quanto piuttosto per una condivisa tendenza alla semplificazione. Questo discorso vale sia per il dibattito coevo alla grande stagione neorealista, sia per quello immediatamente successivo, alimentato molto presto da incontri pubblici, convegni, dalle discussioni aperte sulle riviste e dalle inchieste che cercavano di comprendere cosa si celasse veramente dietro la parola magica «neorealismo»19. Adelio Ferrero, nel pieno del ripensamento neorealista che si ebbe nel cuore degli anni Settanta, valutò con una certa amarezza gli esiti dei convegni e delle settimane di studio sul neorealismo, ponendo tra le distorsioni più notevoli la scarsa partecipazioni dei protagonisti ai dibattiti, un certo carattere corporativo degli incontri e soprattutto il respiro corto della discussione, che forse non spingeva l’impatto del movimento fino ai punti che invece aveva senz’altro toccato20. Quel che è certo è che si continua a incardinare, più o meno consapevolmente, il fenomeno neorealista entro la cornice dell’umanismo postbellico, di cui verrebbe a rappresentare la più radicale e convincente concretizzazione artistica, ed è su quell’idea così nuova e scandalosa di umano che si incontrano l’etica e l’estetica, destinate a diventare uno degli slogan più diffusi nel descrivere il movimento. Ancora negli anni Settanta, Mario Verdone definiva il neorealismo «un realismo umano, o più che umano, un realismo dei valori umani, talché si potrebbe definirlo, meglio, come cinema dell’uomo»21. Verdone aggiungeva che questa umanità neorealista era il risultato di una coscienza documentaristica che era la sola capace di raccontare l’uomo nella sua essenza, tant’è che parla di «realismo all’italiana, di origine documentaristica», secondo

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Michele Guerra

un’idea che aveva già espresso al convegno di Perugia Joris Ivens, e cioè che solo il documentario può rappresentare e raccontare l’uomo moderno, in quanto unica forma filmica che può dirsi sempre «contemporanea»22. Più che alla grande domanda «Che cos’è l’uomo?», il cinema neorealista risponde al perentorio invito zavattiniano «Uomo, vieni fuori!», da cui procede un tipo di narrazione già presupposta dal gesto di uscire infine e di offrire il proprio corpo e la propria humanitas. Sta qui quell’«umanesimo rivoluzionario» di cui parla Bazin e che, a suo dire, è il vero motivo del credito morale amplissimo che il movimento gode nelle nazioni occidentali e non solo. Scrive Bazin: «In un mondo ancora e già ossessionato dal terrore e dall’odio, in cui la realtà non è più quasi mai amata per se stessa ma solo rifiutata o difesa come segno politico, il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno stesso dell’epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario»23. Nella sconfinata progettualità di questo umanesimo rivoluzionario si ritrova quella necessità biologica, più che drammatica, di raccontare storie: il tatto della macchina da presa, per seguire ancora Bazin, che per l’appunto asseconda le trame tangibili di cui parlava Zavattini. C’è accordo sul fatto che il neorealismo abbia contribuito alla reale ricostruzione del paese, ma quel che è certo è che come movimento a-programmatico e a-sistematico, il neorealismo ha risposto ad un bisogno di populismo e umanismo richiesto da un preciso momento storico. Del resto pensiamo bene a questo concetto di umanismo alla fine della seconda guerra mondiale (un concetto che dopo la presa di potere del nazionalsocialismo ha sempre più decisamente intersecato filosofia e politica) e a come si è fatta strada l’idea di un umano da cercarsi fuori dalla storia. Scriveva Nicola Chiaromonte ricordando il suo incontro ad Algeri, nel 1941, con Albert Camus: «Ero tutto occupato da un solo pensiero, e quello solo m’importava: che si era giunti all’anno zero dell’uomo, che la storia era insensata, e solo ciò che dell’uomo rimaneva fuori dalla storia, esterno, estraneo, imperturbabile al turbine degli eventi, aveva un senso; se, tuttavia, esisteva»24. L’idea dell’esternalità e dell’estraneità non appartengono al neorealismo, ma quell’anno zero dell’uomo e la volontà di scoprirne l’effettiva presenza ci riportano a quella possibilità di rivelare l’umano di cui parla De Gaetano. Anche la famosa conferenza che Jean-Paul Sartre tiene nell’ottobre del 1945 e che poi diventa, l’anno dopo, il volumetto L’esistenzialismo è un

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umanismo, ci consegna un’immagine di uomo nudo di fronte al proprio nudo destino, la cui esistenza soltanto può reinventarne i valori attraverso l’azione, un uomo che cerca di ritrovare se stesso e di ritrovarsi nell’insieme dei suoi atti, in niente altro che la sua vita. L’uomo nudo di Sartre (altra nudità da quella marxiana di cui parla Berman) è condannato alla libertà e tale condanna è inestricabilmente collegata a una forte e decisiva interrogazione morale. La riflessione intorno all’umanismo segnala il bisogno di rispondere a un sentimento umano che è stato costretto a chiedersi, dopo tanto dolore e con un po’ di imbarazzo, come capire la vita dell’uomo e come farlo rigorosamente restando vicini al fluire di questa vita, attaccati alla «fatticità del suo darsi». Nell’indiretta risposta di Heidegger a Sartre (che scaturiva dalla domanda, posta al filosofo tedesco nel 1946 da Jean Beaufret sulla possibilità o meno di trovare o di ridare un senso alla parola «umanismo»25) è contenuta una proposta di riflessione sull’humanismus come cura che l’uomo sia umano e non non-umano, nonché il ritorno a un’interpretazione non già stabilita della natura dell’umanismo (che Marx poneva nella società, i cristiani nella delimitazione rispetto al divino, Sartre nell’esistenza che precede l’essenza). Sartre e Heidegger rappresentano i poli di una dialettica attorno all’umano che restituisce un confronto più ampio e complesso tra esistenzialismo e fenomenologia, ma quel «senso dell’umano» di cui parlano è per la verità ricercato da tutti a guerra finita. Non possiamo ritenere che i vari Barbaro, Zavattini, Lizzani, Pandolfi (e forse nemmeno Bazin) partecipino di una tale discussione portando il cinema neorealista come risposta al problema dell’umanismo postbellico o come risposta ai rischi dell’atto di barbarie artistico di cui avrebbe parlato Adorno nel 1949. E tuttavia rimane il fatto che il loro atteggiamento e le loro proposte rispecchino la storicità di una discussione e cerchino di dare corpo, lontano da soluzioni metafisiche, al sentito problema dell’uomo nuovo che si ritrova alla fine dei totalitarismi e degli stermini di massa. Come osserva Stefania Parigi, la riflessione zavattiniana, così come quella di Brunello Rondi (che si rifà esplicitamente alla filosofia heideggeriana), gravitano nell’orbita di un «umanesimo radicale che ha evidenti punti di contatto con il concetto sartriano di “uomo totale”»26. Il fatto che nei discorsi sul cinema si usi di più il termine «uomo», che il

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termine «umano» o «umanismo», è segno di un’attenzione all’individuo che deve fare riferimento al film in quanto oggetto, ad un’idea impressionata dal reale che è di per sé più concreta e osservabile dei concetti che la presuppongono. Da questo punto di vista, è importante recuperare proprio le poco ricordate riflessioni che Brunello Rondi dedicò al neorealismo e ai rapporti tra cinema e realtà in due volumi della seconda metà degli anni Cinquanta27. Come ha scritto Stefania Parigi, che di recente ha restituito il giusto peso a questi libri, Rondi amplia il concetto di oggettività che ricorreva nel dibattito sul neorealismo, sottraendolo alla sfera dell’ascendenza naturalista e verista del movimento e riorientandolo entro il quadro della «scoperta di una dimensione relazionale tra l’io e gli altri, di una rete di nessi che uniscono gli uomini in tutte le forme della loro esistenza fisica, sociale, storica e artistica.» Rondi resta dell’idea che il neorealismo abbia cambiato il modo di concepire la presenza umana sullo schermo e che proprio attraverso la durata abbia scoperto «il battito del tempo dell’uomo», ma recepisce al contempo perfettamente le suggestioni della fenomenologia e dell’esistenzialismo rispetto al neorealismo. Nel suo Cinema e realtà dirà che «il neorealismo cinematografico è l’espressione della storia del cinema più vicina alle istanze profonde della crisi della cultura europea e la meno portata a subirla come riflesso […] Il neorealismo contiene un pensiero implicito che può rinnovare la cultura del suo tempo»29. La sfida del nuovo umanismo è al centro di tutti i dibattiti e le prospettive, che i teorici e i critici vicini al movimento neorealista rappresentano bene: è al centro della visione del mondo marxista espressa da Barbaro, da Lizzani o da De Santis (che arriva a parlare di «neo-umanismo»), della piega meno sistematica, ma in fondo tendente a comprendere le suggestioni sartriane e quelle fenomenologiche che fanno la modernità di Zavattini, perfino del discorso cattolico, perché alla fine è chiaro che l’Uomo con la maiuscola, di cui scrivono molti critici cattolici, è l’Ecce Homo, l’incarnazione contemporanea del Servo Sofferente, la realtà «veramente umana» di cui parla Félix Morlion30, ponendola entro un’ottica che ricorda a tratti l’umanesimo integrale proposto in area cattolica negli anni Trenta da Maritain. Un altro raffinato studioso del neorealismo, Amédée Ayfre, studiando lo sguardo neutrale di Rossellini, osservava come fosse miracolosa quella capacità di fissare «attitudini umane» senza imporre loro un senso (un cinema troppo umano, senza giustificazioni, avrebbe detto il giovane Un-

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gari al Dibattito su Rossellini). La flagranza dei fatti e dei corpi sottendeva lo sforzo del ripensamento della relazione uomo-mondo anche a rischio di mettere a dura prova la tenuta stilistica dei film stessi, come in fondo ha scritto Karl Schoonover (soprattutto in riferimento ai corpi abusati), aprendo a un nuovo, e finora ultimo, tipo di umanismo neorealista che ha definito «brutale»31. Dei multiformi umanismi neorealisti, quello che ha resistito di più alle contingenze del tempo e ha dimostrato una tenuta teorica rilevante è quello che corre sull’asse Bazin, Ayfre e, nel corso degli anni, Rossellini e Zavattini, il cui forte connotato di modernità è arrivato, in fondo, fino alle pagine che Deleuze dedica al neorealismo all’inizio dell’Immagine-tempo. Non per nulla è quello che attecchisce a Pisa nei giorni del dibattito su Rossellini, tra giovani cinefili e filmmakers imbevuti di letture al tempo nuovissime e agguerrite. In più, in quell’umanismo, c’è il rinnovato senso di fiducia cui Goffredo Fofi fa riferimento proprio ripensando agli anni del Dibattito su Rossellini e che dopo quel momento non si rinnoverà più: erano «anni di eccezionale fiducia nella possibilità di costruire un nuovo mondo, una nuova società. Dentro la quale si credeva che il cinema, liberato dalla pesantezza degli apparati e delle tecniche e soprattutto dalle costrizioni che lo vedevano soltanto come merce […] potesse dare un contributo centrale di conoscenza e di trasformazione, di liberazione»32. A voler prendere come centro della riflessione del nuovo cinema italiano del dopoguerra l’uomo neorealista e quell’emanazione dell’umano che viene dai film del periodo, si finisce per pensare che all’ombra del neorealismo, stesa con così tanta decisione su molto cinema a seguire, abbia fatto difetto la carica rivoluzionaria e per certi versi anarchica di quell’idea di uomo, quasi non più rintracciabile, nella sua miracolosa sintesi di forma e contenuto, nei tanti «neo-neorealisti» che con buona frequenza sembrano apparire. Che serva riflettere sul concetto di umanismo per capire, alla fine, l’irripetibilità o certe nuove forme del neorealismo?

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Note 1. R. De Gaetano, Il cinema senza uniforme, in Id. (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis, Milano-Udine 2014, vol. I, p. 16. Ivi, p. 17. 2. Ivi, p.17 3. G. Menon (a cura di), Dibattito su Rossellini, nuova edizione a cura di A. Aprà, Diabasis, Reggio Emilia 2009, p. 34. 4. Ivi, p. 33. 5. Ivi, p. 36. 6. Ivi, p. 35. 7. Ivi, p. 37. 8. Ivi, pp. 73-74. 9. C. Zavattini, Il neorealismo secondo me, ora in Id., Neorealismo ecc., a cura di M. Argentieri, Bompiani, Milano 1979, p. 123. 10. L. Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», 170, 25 luglio-10 agosto 1943, pp. 108-109. 11. C. Zavattini in U. Barbaro (a cura di), Il cinema e l’uomo moderno, Le edizioni sociali, Roma 1950, p. 44. 12. U. Barbaro, Il cinema di fronte alla realtà. Problemi e discussioni, in «Rivista del cinema italiano», 6, giugno 1953, p. 29. 13. Ivi, p. 33. 14. M. Berman, L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, pp. 138-143. 15. R. De Gaetano, Un sentimento scettico del mondo, in «Fata Morgana», 20, maggio-agosto 2013, pp. 46-47. 16. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014, pp. 53-sgg. 17. C. Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit., p. 124. 18. C. Zavattini, Uomo, vieni fuori! Soggetti per il cinema editi e inediti, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2006, p. 442. 19. Per una ricostruzione di quella che Parigi definisce una «veglia funebre», si veda S. Parigi, Neorealismo, cit., pp. 269-275. 20. A. Ferrero, La «coscienza di sé»: ideologie e verità del neorealismo, in L. Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia 1975, pp. 231-232. Sulla consumazione, persistenza e trasformazione del neorealismo si veda anche V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1974, pp. 13-17. 21 M. Verdone, Il cinema neorealista. Da Rossellini a Pasolini, Celebes Editore, Palermo 1977, p. 17. 22. Più recentemente, su questi temi, si può vedere il saggio epistolare M. Bertozzi, T. Ro-

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che, L’autre néo-réalisme. Une correspondance, Festival international du film d’Amiens-Yellow Now, Crisnée, 2013, pp. 30-sgg. Si veda anche, sulla problematicità documentaria del neorealismo, il saggio di Bertozzi in questo volume. 23. A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999, p. 280. 24. N. Chiaromonte, Albert Camus, ora in Id., Il tarlo della coscienza, Il Mulino, Bologna 1992, p. 218. 25. Si veda al riguardo la Nota introduttiva di Franco Volpi a M. Heidegger, Lettere sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995. 26. S. Parigi, Fisiologia dell’immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini, Lindau, Torino 2006, p. 222. 27. B. Rondi, Il neorealismo italiano, Guanda, Parma 1956 e B. Rondi, Cinema e realtà, Cinque Lune, Roma 1957. 28. S. Parigi, Neorealismo, cit. p. 282. 29. B. Rondi, Cinema e realtà, cit., pp. 158-159. 30. F. Morlion, Le basi filosofiche del neorealismo, in «Bianco e nero», n. 4, giugno 1948, ora in P. Noto, F. Pitassio, Il cinema neorealista, Archetipolibri, Bologna 2012, pp. 95-99. «L’Uomo» era anche il titolo della rivista voluta da Mario Apollonio nel 1943 di cui trattano in questo volume Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni. 31. K. Schoonover, Brutal Vision: The Neorealist Body in Postwar Italian Cinema, University of Minnesota Press, Minneapolis 2012. 32. G. Fofi, Per un cinema etico, in G. Menon (a cura di), Dibattito su Rossellini, cit., p. 171.

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Oltre l’illusione Roberto De Gaetano 0. «Non vuol capire che c’è stata una guerra; una guerra che ha distrutto tutte le illusioni, tutte le apparenze. Qui viviamo di realtà ora per ora, minuto per minuto». Questa battuta non è tratta né da un romanzo né da un film neorealista, ma dall’autore che forse più di ogni altro ha rappresentato l’ossatura e la coscienza di tutto lo spettacolo del Novecento italiano, e cioè Eduardo De Filippo. La battuta è tratta da Le bugie hanno le gambe corte del 1947, e sintetizza con grande forza ciò che è accaduto, ciò che la guerra ha significato sia dal punto di vista delle forme di vita sociale, sia dal punto di vista delle forme di rappresentazione. Cosa significa che le illusioni sono crollate? Che significa la distruzione di tutte le apparenze? Per rispondere a queste domande farò un breve passo indietro verso uno dei nomi fondatori della modernità (controversa) italiana, le cui idee e parole arrivano potenti fino all’oggi. Parlo di Giacomo Leopardi e del suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani1, che ci dice che la vita sociale è animata e rinsaldata dalle «illusioni», che legano gli uomini gli uni agli altri, e permettono di dare forma e senso al vivere insieme. Onore, rispettabilità, prestigio, ricchezza, coraggio sono valori, e dunque illusioni, che fondano la «società stretta» (di fatto le élite di un Paese), l’unica depositaria di un «costume». E senza costume non c’è società. È solo attraverso il costume che il soggetto sperimenta il suo essere felicemente vincolato agli altri, sente la gratificazione del riconoscimento sociale. Senza costume non c’è legge che tenga, una società si sfalda. Un costume corrisponde dunque in primo luogo al desiderio di essere e di essere riconosciuto, di piacere a sé e agli altri; e solo la vita sociale può alimentare questo. Senza illusioni una società non può reggersi, anche se le capacità di cogliere verità profonde – pensa Leopardi – aumentano, perché si è più vicini a comprendere l’essenza della vita. La società è il meccanismo immunitario più potente rispetto alla verità dolorosa della vita, cioè alla vanità del tutto.

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1. Ora, se questo è vero, e per tornare all’iniziale citazione di Eduardo, se le illusioni dopo la seconda guerra mondiale sono crollate significa che prima c’erano e davano coesione, anche immaginaria, alla vita sociale. In effetti, tutto il cinema tra le due guerre è fondato sulla potenza delle illusioni sociali, siano esse quelle ideologiche, di fatto meno frequenti, del cinema di propaganda2, alimentato dai valori dell’eroismo, del coraggio, dell’identità da difendere, o quelle della commedia, dove le pratiche di vita sociale delle élite, dell’alta borghesia e della nobiltà, la disponibilità di tempo, associata a quella economica e ad uno status sociale elevato, diventano oggetto di invidia, di ambizione sociale, che può spingere fino a mascheramenti continui e rocamboleschi come ne Il signor Max di Camerini o ne La contessa di Parma di Blasetti. In questi film il gioco di simulazioni non è demonico, non cela il nulla, ma attiva le forme di un desiderio sociale che non può prescindere dalle apparenze che lo regolano (pensiamo anche al cinema di Soldati, da Dora Nelson a Quartieri alti). La fine del fascismo e della seconda guerra mondiale hanno dunque significato il crollo di ogni ordine illusorio, a partire dal cinema come grande industria popolare capace di orientare l’immaginario della popolazione. Il gioco delle classi sociali (piccola e grande borghesia) non esiste più: le situazioni, fattesi dispersive e frammentarie, rimandano ad uno stato problematico del soggetto, la cui azione diviene incerta, sospesa, e dove la questione del costume sociale diventa secondaria rispetto alla necessità di corrispondere ad esigenze primarie: fame, lavoro, sopravvivenza. Le relazioni, svincolate dai costumi (perché un costume si forma se una società è libera dal bisogno), si riconfigurano nella dinamica aperta dell’incontro fra eterogenei, per classe, razza, nazionalità (come in Paisà), i cui destini sono imprevedibili. Con il cinema neorealista lo sfaldamento sociale lascia emergere un’umanità segnata, sì dal bisogno ma anche dalla disponibilità all’incontro. Questa umanità senza società, gettata in un mondo senza coordinate, presa nelle oscillazioni emotive fra paura e fiducia, è priva della capacità di simulare, di giocare e di fingere. Tramontate le illusioni del fascismo, sulle macerie materiali e morali del dopoguerra, nessun’altra possibilità che tracciare le linee sottili di una rinnovata fiducia nel mondo (Umberto D.) o, cosa più frequente, percorrere

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la linea del ritiro dal mondo nelle forme della morte e della fine, reale o simbolica: da Ladri di biciclette a Germania anno zero. La scommessa di una costruzione dell’umano al di fuori della relazionalità sociale (e dunque oltre ogni illusione) è una scommessa difficile (e forse questa scommessa è uno dei tratti distintivi del nostro cinema)3. Frantumato lo schermo illusorio, nella dispersività delle situazioni, sotto l’urgenza del bisogno, resta un conflitto disperato fra una linea scettica, dove il personaggio è votato ad una condizione di passività (è il carattere patetico del neorealismo), di cui è indice significativo la sua erranza-veggenza, e il tentativo (difficile) di ribaltare questa condizione in occasione per una nuova fiducia ed apertura al mondo. Da un lato abbiamo la linea «melodrammatica» del neorealismo e il precipitare di personaggi e situazioni sotto la spinta di un cupio dissolvi a cui non sanno resistere perché vogliono troppo, e vogliono qualcosa di inconciliabile con la situazione (le dark ladies di Ossessione e Caccia tragica): denaro e amore, passando attraverso il crimine. Questa linea oltrepassa l’illusione in direzione di un scetticismo che fa del vivere insieme la forma di un tradimento illimitato di fiducia, tanto più grave se teniamo conto della situazione in cui i personaggi si trovano (reduci da un campo di prigionia tedesco, come in Caccia tragica). Dall’altro lato questa linea scettica (che contempla comunque la presenza dell’azione) trova un contrappeso in una direttrice dove il crollo delle illusioni mette i soggetti in una condizione di disponibilità, senza necessariamente destinarli ad una fine tragica. Qui l’azione propriamente detta lascia il posto all’incontro, che diventa centrale, perché non solo segna l’idea dell’accadimento che da fuori colpisce e segna i personaggi, ma più profondamente presuppone la disponibilità del soggetto – che è non è altro che l’energia vitale non orientata verso scopi determinati – ad accoglierlo. Il personaggio in condizione di disponibilità (uno stato del personaggio moderno, che attraversa Nouvelle Vague e Nuovo Cinema Tedesco) è un personaggio che, svincolato dai legami sociali (perché bambino, disoccupato, straniero), è anche oltre ogni illusione sociale, che la sua condizione non può contemplare. Questo essere oltre l’illusione può prendere una «direzione melodrammatica» e dunque al fondo scettica, orientata verso l’incandescenza simbiotica del passato, sia delle forme che del vissuto dei personaggi, legati sempre a nuclei sociali

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ristretti come la famiglia (e qui abbiamo in primo luogo la linea «operistica» di Visconti), oppure può aprirsi alla contingenza del presente, a partire dalla quale è veramente possibile aprire il futuro (il «commedico» di Zavattini-De Sica e il «romanzesco» di Rossellini). È solo da questa prospettiva che possiamo pensare una eredità neorealista. Solo se arriviamo a cogliere che indietro il cinema non sarebbe mai più tornato (per quanto alcuni film, italiani e non, abbiano continuato a tornarci, ma non è questo il punto naturalmente), e che andare avanti significava misurarsi direttamente con questa duplice prospettiva, interna al neorealismo stesso, quella melodrammatica da un lato (quello che Bazin ha chiamato il «demone del melodramma») e quella commedico-romanzesca dall’altro (contatto con il presente e trasformazione delle forme in seguito a questo contatto). Ma se la prima direttrice, quella melodrammatica, aspira il neorealismo verso un fondo demonico, che rende incandescenti le forme e spinge personaggi e situazioni verso la distruzione, la seconda orienta il presente verso il futuro, inscrivendo il contingente in una logica di intreccio, il cui approdo finale porta personaggi e situazioni verso un «mondo verde» (Northrop Frye). Per questo la commedia non è interruzione e tradimento della spinta etica e civile del neorealismo, tutt’altro, è lo sviluppo di una sua componente interna, quella che non fa precipitare il presente sotto la potenza di un passato che lo sopraffa, ma è capace di aprirlo verso un futuro di rinnovamento (pensiamo a Due soldi di speranza di Castellani). Certo, pur appartenendo ad uno stesso movimento, alimentandosi alla stessa sorgente (quella di un contatto vivo con il presente), commedia e romanzo non si sviluppano nella stessa direzione. Se la prima si inscrive nella forma di un mythos che elabora l’avvicendamento generazionale e il passaggio, se riuscito, all’età adulta del soggetto (perlomeno nel caso di quelle che Maurizio Grande chiama «commedie ascensionali»4), e se questo movimento è in un certo senso guidato dalla sutura tra l’ottativo e il doveroso (tant’è che si desidera sempre ciò che è opportuno fare, in primo luogo sposarsi: pensiamo ancora a Due soldi di speranza ma anche a Le ragazze di Piazza di Spagna di Emmer e a Il segno di Venere di Risi), nella forma romanzesca questa sutura è più complicata, meno pacifica. La forma romanzesca permette di compiere un passo in avanti rispetto alla forma-commedia, e ci consente di misurare la più forte e significativa eredità del neorealismo. E Bazin questo l’aveva magistralmente intuito quando com-

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parava i film neorealisti alla grande tradizione del romanzo americano (Dos Passos, Faulkner). Il romanzo non è un genere tra gli altri, ma è una forma capace di metabolizzare ogni materiale narrativo, di prevedere al suo interno digressioni, intervalli, di includere l’alea dell’incontro (come sostitutiva del carattere motivato dell’azione) nello svolgimento della storia5. Ma ciò che fa in primo luogo il romanzo è eludere quel movimento netto e radicale dalla felicità all’infelicità (tragedia) e dall’infelicità alla felicità (commedia) che i due grandi mythos costruiscono. Eludere il movimento «espulsivo» del melodramma e quello «integrativo» della commedia, o meglio superarli raccontando la dissonanza uomo-mondo nella forma di un percorso che fa della crisi qualcosa che può portare o alla morte (Roma città aperta) o a una rinnovata fiducia nel mondo (Umberto D.). Ma anche la morte non ha mai un carattere conclusivo e senza speranza. È una morte sacrificale, dunque capace di affermare la vita, come il sacrificio di Pina in Roma città aperta, o come quello di don Pietro nel finale del film, sotto lo sguardo-testimone dei bambini. O sono anche le morti sacrificali di Paisà su cui torna Scorsese nel suo omaggio al cinema italiano, Il mio viaggio in Italia: «Gli episodi che più mi colpirono furono quelli riguardanti il sacrificio. Il sacrificio per qualcosa che all'epoca non ero in grado di capire perché troppo giovane, il sacrificio per la libertà». La forma romanzesca si percepisce soprattutto a partire dall’elemento della contingenza, che diviene centrale, legandosi a quello dell’incontro. Può essere la contingenza degli incontri in Paisà, o l’«incontro» con il cane che nel finale di Umberto D. devia il pensionato dal proposito di suicidarsi, o l’intera costruzione di Ladri di biciclette dove è in gioco la possibilità che il disoccupato ritrovi la sua bicicletta e non la sicurezza che non la ritrovi (che lo trasformerebbe in un film a tesi, come ha sottolineato Bazin). Insomma, ciò che emerge nella forma romanzesca (e in quanto di questa forma il neorealismo porta con sé) è una questione ancora più spinosa della questione della realtà, perlomeno nel modo in cui è stata correntemente intesa: è la questione di cosa resta una volta che le illusioni sono perdute, definitivamente infrante. Ogni romanzo è in fondo il racconto della perdita di queste illusioni.

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2. Dunque, cosa resta dopo la fine delle illusioni, per tornare alla domanda d’apertura? Due possibili strade: o l’abbandono ad uno scetticismo irredimibile, che porta a vicoli ciechi, epistemologici e relazionali (pensiamo al cinema di Antonioni), o la possibilità di rilanciare sulle macerie dell’illusione la scommessa sulla vita e sul mondo in virtù di qualcosa che eccede le «differenze di ragione» (per dirla con Kierkegaard) e che troviamo in quel film-chiave che è Viaggio in Italia di Rossellini. Una coppia inglese, dissoltasi l’illusione di un rapporto trasparente, ma anzi rendendosi conto di essersi ignorata per ben otto anni, giunta a Napoli per vendere una casa ereditata, si ritrova sull’orlo di un divorzio, evitato per il casuale imbattersi in una processione che riattiva «miracolosamente» la fiducia dei due nel loro rapporto e nel mondo. La piega che prende il finale, quando tutto sembrava essersi risolto nella consapevolezza che il rapporto fosse finito, risponde alla potenza di un incontro contingente che cambia «senza ragione» il corso delle cose. È certo che Rossellini è l’autore che più di altri ha saputo immaginare, oltre le macerie dell’illusione, una ripresa della «croyance» nel mondo (termine che Deleuze usa per distinguere il cinema moderno da quello classico, fondato invece sul «sapere»6) . E questa «credenza», laica o religiosa essa sia, è il grande contrassegno della modernità, perché è credenza non nonostante tutto ciò che è accaduto, ma proprio per tutto ciò che è accaduto. Tiene conto cioè delle macerie di una esistenza singolare e collettiva, prima delle quali esisteva solo la «bolla illusoria» e dopo le quali si rischia di avere solo disincanto, disillusione, scetticismo. E questo «romanzesco» rosselliniano poi cambierà, si trasformerà, diventerà il romanzo-saggio televisivo e pedagogico. Rinascere dalle proprie macerie (accettandole in quanto tali) è un’avventura che anche il romanzesco felliniano compie. Pensiamo al finale di 8½, dove Guido supera la crisi creativa e personale con un sì al mondo, che è accettazione del caos della vita, della confusione, che si conclude con «la vita è una festa, viviamola insieme», e con il girotondo finale, che non ha spettatori ma solo partecipanti. Il neorealismo presenta e genera dunque perlomeno tre forme che attestano il superamento dell’illusione: la forma melodrammatica, con il sentimento

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scettico che l’attraversa, che trova in Visconti prima, in Bertolucci poi, e che giunge fino a Martone, la sua direttrice fondamentale; la forma commedia che, tra anni cinquanta e sessanta attraversa prima le forme «rosa» di una nuova trasparente illusione, poi quelle «nere» di un grottesco cinico che giunge fino all’orrido (Ferreri); infine la forma romanzesca, l’unica capace di attraversare lo scetticismo non per ricomporre artificiosamente una illusione, ma o per giungere alla credenza che supera lo scetticismo tenendone conto (qui abbiamo Rossellini e Fellini) o per fare dello scetticismo una condizione esistenziale cronica (Antonioni). 3. È alla luce di questo quadro che possiamo pensare eredità e prodromi dell’immagine neorealista, che non sono pensabili soltanto in termini stilistici né tantomeno contenutistici. Il liberarsi dell’immagine dalla sua subordinazione illusoria significa una messa in questione radicale di tutte le più pacifiche distinzioni tra reale e immaginario, vero e falso, soggettivo e oggettivo. Il romanzesco, lo sappiamo da Pasolini (che riprende Bachtin), è fondato sulla «soggettiva libera indiretta», cioè sulla pratica di intercessione tra personaggio e autore, che proprio il neorealismo avvia, facendo dei personaggi (in disponibilità) spettatori e della macchina da presa un personaggio tra gli altri, che non sa nulla di più di quanto non sappiano gli altri. Qui è sufficiente pensare alla scena straordinaria della presunta individuazione del ladro in Ladri di biciclette: noi partiamo, convinti come Antonio Ricci che quel ragazzo che padre e bambino incrociano sia effettivamente il ladro, poi questa sicurezza diminuisce, si fa incerta davanti alla mancanza di prove e tutta la situazione (incluso l’attacco d’epilessia che colpisce l’accusato) diviene indecidibile. L’attacco di epilessia è vero o simulato? Gli amici difendono un innocente o coprono un colpevole? La questione rimane in sospeso, De Sica colloca lo spettatore vicino al personaggio, non gioca alle sue spalle e non scioglie il nodo sulla effettiva colpevolezza del sospettato (cosa inimmaginabile nel cinema classico). Il ruolo che svolge il neorealismo, non solo in Italia ma in uno scenario mondiale, è dunque decisivo da molti punti di vista, perché sulla dissoluzione del regime «illusorio» del cinema classico, e del contesto socio-culturale di cui

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Roberto De Gaetano

è stato espressione, è capace di creare un nuovo cinema, una nuova forma dell’immagine («immagine-fatto» la chiama Bazin, «immagine ottico-sonora pura» Deleuze), il cui cosiddetto realismo rivela solo un aspetto marginale e sintomatico della questione. Questa nuova forma risponde in primo luogo ad un ethos, a una credenza nel mondo, che diviene effetto di un incontro che personaggio e macchina da presa hanno con il mondo e con la sua contingenza. Quando la via di accesso al mondo tramite il sapere e la conoscenza falliscono, e non sono proponibili a causa di una situazione disgregata, allora il soggetto deve essere capace di reinventare il suo rapporto con il mondo a partire da una disponibilità «folle» a incontrarlo, quella per esempio di una ragazza siciliana che incontra un soldato americano con cui non condivide né lingua né mondo, ma semmai una condizione umana di marginalità e solitudine; o – sempre per rimanere agli episodi di Paisà – quella di uno sciuscià orfano che incontra un soldato nero tra le macerie di Napoli, e anche in questo a caso a prevalere è la vicinanza nella distanza, quella di un sentimento di spaesamento e di dolore che accomuna i due, la loro umanità, per altro verso distanti in tutto. Allora, l’ethos della forma, fondato sull’arte degli incontri tra eterogenei, ci fa capire come la posta in gioco del cinema neorealista sia qualcosa di molto radicale: con uno stesso gesto accedere ad una nuova forma, romanzesca, e inventare una nuova umanità dell’umano, colta al di là delle maschere della vita sociale, in quel momento imprevedibile, sorprendente (drammatico o gioioso), capace di convertire l'incontro con la contingenza nella necessità di una scelta, e di cui, come abbiamo visto, il finale di Viaggio in Italia, film profondamente neorealista nel suo sguardo e nel suo sentimento (anche se non parla di povertà e di dopoguerra), è esemplare: quando tutto sembra finito tutto ricomincia in virtù di nulla se non del miracolo di un incontro e di una nuova scommessa sulla vita.

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Invenzioni dal vero

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Note 1. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano, 1991. 2. Il nostro cinema del fascismo ha prodotto ben poca propaganda, riservata semmai ai cinegiornali dell’Istituto Luce. 3. Ci permettiamo di rimandare su questo a Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano-Udine, 2014, e in particolare a Id., Introduzione. Il cinema senza uniforme, pp. 7-39. 4. Cfr. M. Grande, La commedia all'italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma, 2003, pp. 58-67. 5. M. Bachtin, Estetica e romanzo, tr. it., Einaudi, Torino, 2001. 6. G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano, 1989, pp. 191-193.

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PARTE III MITOGRAFIE/STEREOTIPIE/SOSPENSIONI

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«Sospesi nel vuoto». Fortune e miserie del contro-neorealismo. Giacomo Manzoli Il titolo di questo saggio non è altro che la citazione di un breve intervento radiofonico di Carlo Emilio Gadda, tenuto del 1950, poi confluito nell’Inchiesta sul neorealismo curata da Carlo Bo nel 19511 e quindi inserito da Gadda stesso in I viaggi la morte del 19582. L’intervento di Gadda, infatti, produce ancor oggi una certa impressione per come fluttua, appunto sospeso nel vuoto, come unica posizione «contraria» al neorealismo nel prezioso volume curato nel 1980 da Claudio Milanini, Neorealismo, poetiche e polemiche3, nel quale largo spazio è dato alle poetiche ma uno assai ridotto, per non dire inesistente, alle polemiche. Le considerazioni che seguono, a differenza di molte altre contenute nel volume, non hanno la pretesa di porsi dalla prospettiva di un’analisi sistematica, da esperti4, e abbiamo ritenuto valesse la pena partire da questa posizione minoritaria5 per provare a esplorarne la portata, soprattutto in funzione del recupero delle radici di una certa produzione discorsiva contemporanea che – invece – sembra avere assunto il neorealismo a mito indiscutibile e al contempo a paradigma negativo. Come una sorta di peccato originale del cinema italiano, emendato ma pur sempre capace di far sentire la sua tara e di condizionare in maniera nefasta la produzione cinematografica nazionale ancora ai tempi nostri6. Le opinioni di Gadda sono piuttosto note, ma conviene ricordarle per avere chiari i termini della questione. Ciò che Gadda rimprovera ai neorealisti è in sostanza riassumibile in cinque punti: a) Una narrazione paratattica, sostanzialmente piatta. Incapace di produrre identificazione e assorbimento: Nella poetica del neorealismo (…) direi che ogni fatto, ogni quadro è nudo nocciolo, è grano di un rosario dove tutti i grani sono giustapposti ed eguali di fronte all’urgenza espressiva. Direi che la poetica neorealista riesce a un racconto astrutturale, granulare.

b) La stereotipia tendenziosa:

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Giacomo Manzoli

C’è da credere che i temi e le figure più vivamente presenti ai neorealisti sono soltanto una parte dei temi, dei motivi e dei personaggi che la realtà ci propone. Le figure talvolta diventano simboli: e io aborro dal personaggio simbolo. La virtù pura mi irrita… sento tremendamente le ragioni del suo contrario.

c) La negatività: E il modo con cui i neorealisti trattano i loro temi è di preferenza quello di un umore tetro e talora dispettoso, come di chi rivendica qualcosa da qualcheduno e attenda giustizia, di chi si senta offeso, irritato.

d) La mancanza di predisposizione alla dialettica e una marcata impermeabilità all’ambiguità del reale: Altra impressione… è quella di una tremenda serietà del referto. Ne risulta al racconto quel tono asseverativo che non ammette replica e che sbandisce a priori le meravigliose ambiguità di ogni umana condizione… l’incertezza, il «può darsi che io sbagli», «può darsi che da un altro punto di vista le cose stiano altrimenti…»

e) L’astrattezza: Un lettore di Kant non può credere in una realtà obiettivata, isolata, sospesa nel vuoto. Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia. Vorrei dunque che la poetica dei neorealisti si integrasse di una dimensione noumenica7.

Appare chiaro che le prime due critiche derivano da un presupposto estetico, la terza e la quarta scontano una predisposizione, per così dire, di natura politica, mentre l’ultima affonda le sue radici nell’ontologia. Ad ogni buon conto, il rifiuto resta radicale e certamente espresso con chiarezza e senza mezzi termini. A partire da questa critica feroce e definitiva, abbiamo deciso di provare ad andare a ritroso e verificare se si trattasse di posizioni davvero isolate, come appariva nella raccolta del Milanini, o se invece questa insofferenza avesse radici più profonde e diffuse. Proveremo allora ad offrire una sintesi della ricognizione svolta, che esclude – dandoli per scontati – i rifiuti più marcatamente politici, a partire dalla celebre lettera di Andreotti a De Sica su «Libertas»8, che peraltro meriterebbe un approfondimento nelle parti in cui Andreotti si improvvisa critico cinematografico e descrive il quadro di negatività a 360° che circonda il protagonista di Umberto D.:

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È stato detto in questo dopoguerra, che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con il limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni…9

Dunque, fra i tanti documenti che è possibile reperire nell’abbondantissima pubblicistica sul neorealismo, conviene partire forse proprio dall’insofferenza di Luchino Visconti il quale, all’indomani della Terra trema, il 12 dicembre 1948, su «Rinascita», stigmatizzava la natura prescrittiva che stava assumendo la corrente che egli stesso aveva contribuito a fondare: Che cosa vuol dire Neorealismo? In cinema è servito a definire i concetti ispirativi della recente scuola italiana. Ha raccolto coloro che credevano che la poesia nascesse dalla realtà. Era un punto di partenza. Comincia a diventare, a me sembra, un’assurda etichetta che ci si è appiccicata addosso come un tatuaggio e invece di significare un metodo, un momento, si fa addirittura confine, legge. Abbiamo già bisogno di confini?

Visconti, quindi, rivendicava il diritto alla frequentazione di un teatro delle meraviglie, di una spettacolarità in grado di produrre adesione e entusiasmo: segnatamente, una versione della Rosalinda shakespeariana con le scenografie addirittura di Salvator Dalì, accolta come il preludio di un abbandono del neorealismo (peraltro previsione rivelatasi esatta): Libertà, insomma, e ritrovamento del meraviglioso. Di un mondo delle meraviglie che il teatro ha smarrito da tempo e che vorremmo fargli ritrovare, assieme con la sua destinazione che è di incanto popolare. Sarebbe strano attribuire al teatro la funzione dell’anacoreta solitario, dell’austero eremita che rifugge dalle pompe del mondo e per protesta va a recitare i suoi misteri in soffitta10.

Colpiscono, in questo brano, tre elementi. Per prima cosa, Visconti rivendica il sacrosanto diritto a fare altro: così facendo colloca storicamente il neorealismo in una fase definita della storia del cinema e del costume italiani. Una fase fondamentale, ma destinata – come ogni cosa – a finire. Poi, implicitamente, afferma che una prosecuzione del paradigma neorealista suonerebbe elitario (l’uso dell’aggettivo «popolare», per contrasto) e condurrebbe ad una sorta di autosegregazione moralistica. Ma, soprattutto, colpisce nel titolo dell’intervento quell’espressione, «in barba ai neorealisti» che è un

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chiaro indice di insofferenza nei confronti di un atteggiamento censorio e normativo. E siamo solo al 1948, anno mirabilmente riassunto in un volume curato da Orio Caldiron, nel quale compare anche una testimonianza di Riccardo Freda intitolata Mi interessa l’eroe11, nella quale il regista lancia un proclama, piuttosto naif per la verità, in favore di personaggi forti e eroici, in grado di fondare una narrazione high concept su cui ricostruire un cinema spettacolare: «L’uomo banale, l’uomo quotidiano non mi interessa per niente. Sono cinico riguardo a questo. Neanche nella vita reale mi interessano». Di nuovo, pare dire: «in barba ai neorealisti». Ancora, sempre nel 1948, da registrare un formidabile manifesto satirico, pubblicato il 24 agosto su «Star», firmato Steno e riprodotto nel celebre volume di Alberto Farassino che accompagnava il festival di Torino del 198912. Il titolo è caustico, Tutto vero e Steno si diverte a fare un decalogo del perfetto regista neorealista, in cui sono riconoscibili alcune delle opere più celebrate del periodo: • Il film neorealista si gira ovunque, sempre, con ogni mezzo, anche nella ritirata di un treno che risulti occupata. • Sporca rudemente il viso del protagonista; sporcalo con polvere, fango, carbone, se è necessario col tuo sangue. • Ambienta la storia in periferia e avrai la vittoria nel pugno. • Il telefono bianco è il tuo nemico: non dargli quartiere. • Le gambe femminili scoperte fino a mezza coscia hanno sempre ragione. E ancor più interessante è il catalogo dei personaggi inevitabili del film neorealista, precursore di quel Do Your Movie Yourself di Umberto Eco13, che costituirà uno degli omaggi parodici più celebri e acuti al cinema d’autore degli anni Sessanta e Settanta: • Il negro ricercato dalla Mp. • Il padre adiposo che ricerca nei postriboli la figlia scomparsa durante un bombardamento. • Un prete in bicicletta diretto a Comacchio. • Lo scemo del villaggio (zoppo, storpio, sciancato, muto e anche balbuziente) che è innamorato della figlia del fattore e che alla fine l’ucciderà nottetempo dopo averne abusato.

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• Pescatori siculi, contadini di una cooperativa, reduci, camionisti e rurali a scelta. • Un organetto. L’organetto è evidentemente quello di Macario in L’eroe della strada di Carlo Borghesio, film sceneggiato dallo stesso Steno assieme a Monicelli, Benvenuti e molti altri. Ma a interessare è soprattutto quel riferimento ai telefoni bianchi, che chiude anche un ben noto intervento del gruppo Cinegramma al Festival di Pesaro del 1974 e che confluirà nell’altrettanto celebre volume curato da Lino Micciché nel 1975: Nell’elenco dei media che compongono il quadro eterogeneo della cinematografia neorealista ne manca forse solo uno, e l’assenza è particolarmente significativa perché racchiude in sé il giudizio che il neorealismo dà su se stesso e sul cinema del decennio precedente e individua l’avversione mediologica del neorealismo, la sua falsa coscienza di sé e del proprio corpo diviso, le sue proiezioni schizo-paranoidee. Questo medium è il telefono, il bianco capro espiatorio14 del sacrilegio intermediologico neorealista.

Questo documento è stato poi antologizzato nel bel volume curato da Paolo Noto e Francesco Pitassio15, nel quale troviamo, assai meno sperduti nel vuoto, anche interventi come quello di Massimo Alberini in difesa di Germi, che ricalca le posizioni gaddiane sulla frammentazione paratattica della narrazione neorealista in termini di «diffidenza» e giungendo alle medesime conclusioni: in sostanza, un cinema «di parte» e «respingente»: Tutto il neorealismo, da Uomini sul fondo a Ladri di biciclette, è una affermazione del frammento, della scena pregevole, del clima parziale inteso come descrizione di un ambiente, ma senza che, da scena a scena, si formi quella continuità, quel sentimento unico che fanno superare allo spettatore l’ideale parete divisoria fra lui e i personaggi per condurlo a sentirsi dentro al film16.

Accusa che, giustamente, Noto e Pitassio, nella loro antologia, contrappongono alla risposta di Franco Fortini, che assume una posizione – questa sì, davvero minoritaria – di critica «da sinistra», allorché stigmatizza la natura ecumenica del movimento e dei film che ne sono derivati: E poi quei film rappresentano una realtà ad un’altra realtà; una realtà di piedi nudi a platee di gente calzata. Parlano del sud al nord. Proprio questo è l’errore teorico e programmatico del neorealismo […] Il torto dei film neorealisti italiani non è quello di essere

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troppo tendenziosi, ma di esserlo troppo poco. A questo punto non so dar torto a Emanuelli se è urtato dal moralismo e dal vittimismo di Zavattini e di De Sica […] che non servirà e non salverà nulla17.

Si tratta di un giudizio drastico, che del resto viene ripreso e storicamente corroborato da un perfido saggio contenuto nuovamente nel volume curato da Farassino, scritto da Paolo Lughi, dove, parlando della prima edizione del festival di Roma, si ricorda lo sfarzo (relativo, ovviamente, siamo nel settembre del 1945…) che accompagna le prime proiezioni di Roma città aperta e Giorni di Gloria: Una cornice, quella da festival e comunque mondana, che sembra dunque, fin da subito, una vocazione e una necessità per il neorealismo in sala. E che costituisce uno dei molti aspetti intriganti e contraddittori di questo cinema, nel confronto curioso che si aveva, da ritratto di Dorian Gray, fra un’umanità povera che si voleva reale sullo schermo e un pubblico in smoking, assente dalla neorealtà, che affollava realmente la sala. Una specularità deformante che faceva immediatamente dire a Umberto Barbaro: un solo appunto. I prezzi non sono certo alla portata di tutte le borse. Le masse popolari non saranno certo presenti nella sala del Quirino […] L’alternativa è dunque fra la protezione faunistica dei «poveri» (e del loro habitat) e la loro assunzione in Cielo. Delle due, quest’ultima ipotesi si rivelerà la più profetica18 .

E via con le «grandi prime», la retorica pubblicitaria, poltrone numerose, aria condizionata, sale metropolitane: «il neorealismo sembrava comunque abbonato alle sale più prestigiose e meglio frequentate» o «si può dire che negli occhi del pubblico milanese di allora il neorealismo si identificava con lo schermo dell’Odeon, la sala da cui nascevano le recensioni di Guido Aristarco». Articolo malizioso, per quanto ben documentato, sebbene Stephen Gundle dia una lettura del fenomeno più conciliante: Realizzati al di fuori delle strutture convenzionali della produzione cinematografica, avevano un tono documentaristico, non si servivano di diversivi comici e rinunciavano al lieto fine convenzionale in favore di soluzioni più problematiche. Il pubblico più impreparato anche per questa ragione si mostrò freddo nei confronti di questi film, che godettero di un riconoscimento immediato solo nelle maggiori città del Nord e del Centro dove il movimento operaio era forte e l’intellighenzia di sinistra più presente19.

Ma Gundle non nasconde tutti i problemi e le contraddizioni della cultura

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di sinistra, da Togliatti in giù, nel trattare la cultura popolare prima ancora della cultura di massa, e più in generale tutte le forme culturali non canoniche e legittimate da un rigido protocollo di istituzionalizzazione, cosa che evidentemente con il neorealismo era avvenuto in forma spontanea e immediata. Tornando però al libro di Farassino – che a questo punto potrebbe sembrare un testo revisionista ma non lo è – sono da segnalare ancora un bel pezzo di Piero Medini, sul meccanismo di stereotipizzazione del cinema neorealista (non dissimile, in fondo, da quello di qualunque altro cinema) che si conclude con una nota polemica verso le pulsioni populiste, in linea, in fondo, con le posizioni di Fortini: Legato ai modelli ideologici e agli stereotipi iconografici del più schietto populismo, il cinema neorealista è irrimediabilmente prigioniero del presente. Alla denuncia – sacrosanta – delle diseguaglianze sociali non s’accompagna la più scarna e provvisoria delle prospettive. Il rigetto del vecchio mondo scava vuoti paurosi di fantasia. Dove si abiterà? Di che cosa ci si circonderà, come ci si vestirà, cosa si mangerà nel Regno di Utopia? Si coglie, per giunta, il serpeggiare di una segreta inquietudine: il ricco è il futuro del povero?20

Populismo utopico e falsa coscienza. E molti altri rincarano: Giulio Carlo Argan liquida l’arte neorealista come «arte pedagogica»21, mentre Bruno Zevi detesta l’architettura neorealista perché: «La sua pretesa di rinsanguare gli schemi esausti del razionalismo internazionale, alla prova dei fatti si è dimostrata velleitaria e provinciale»22. Giorgio Strehler lo esalta, ma finché è stato un movimento elitario: «Il neorealismo è stato realismo. Se, purtroppo, è diventato di moda, lo si deve ai cattivi epigoni!»23. Fanno eco le dichiarazioni di Federico Zeri («Ben presto il neorealismo è precipitato verso formule retoriche e di maniera»24) e persino, insospettabilmente, Pietro Ingrao, per il quale vale in discorso opposto a quello di Gadda: «L’importante furono il volto, le parole, i luoghi. Gente senza storia, scoperta nel suo dolente muoversi dall’occhio della macchina da presa e l’altezza spoglia del quotidiano». Anche per lui, però, è durata poco: «Quando poi si è voluto aggiungere altro e costruire vere e proprie narrazioni, il neorealismo, così mi sembra, è caduto. Difatti non poteva dare di più. Chaplin, nella sua apparente semplicità, era enormemente più complesso»25. Fino all’espressione di odio di Elémire Zolla, che ha almeno il pregio della sintesi: «Non ricordo nulla, l’incontro non ebbe la forza di impiantarsi nella mente. È una storia di sopraffazione che spero si dimentichi con cura»26.

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Potremmo continuare a lungo, ma è un repertorio più che sufficiente per provare a tirare le fila del discorso e avanzare un’ipotesi conclusiva. Con buona pace di Elémire Zolla, il neorealismo non è affatto dimenticato, sebbene ci sia in giro una certa confusione. Neppure sono dimenticati i discorsi elogiativi o canonici, diciamo, per intenderci, la retorica sul neorealismo. Quelle che spesso vengono dimenticati sono appunto le critiche. Al punto di ripeterle all’infinito e addirittura riproporle con ciclica regolarità anche per discorsi sul cinema del presente che con il neorealismo hanno ben poco a che fare ma hanno molto a che vedere, evidentemente, con l’uso che del neorealismo è stato fatto nei già citati processi di istituzionalizzazione. Qualche esempio. Un numero di «Cinema & Cinema» dedicato all’asfittico cinema italiano dei primi anni Novanta, che ruotava attorno a pericolose accuse di «carineria» respinte al mittente nel nome di un «neo-neorealismo» che non piaceva a nessuno degli interessati27. Bernardo Bertolucci che il 19 maggio del 2000 rilascia a «Le Figaro» una dichiarazione ripresa da tutti i quotidiani italiani: «Il cinema europeo e soprattutto quello italiano non hanno tagliato il cordone ombelicale col loro passato: in Italia siamo ancora legati al neorealismo e alla commedia»28. Maurizio Nichetti, che il 26 luglio 2010 rilascia all’agenzia Dire queste dichiarazioni: «Basta neorealismo, il mondo va avanti!»29. Anche se poi, in realtà, il vero oggetto della sua polemica sono le sovvenzioni pubbliche al cinema. E ancora Francesca R. Recchia Luciani, filosofa barese che accusa Emma Dante e Paolo Sorrentino di far parte di una deriva neo-neorealista, concentrandosi su alcuni punti che a suo avviso caratterizzano in negativo il cinema italiano contemporaneo e che i due registi in oggetto interpreterebbero, segnatamente: 1) Abbandonando del tutto l’ironia 2) Attraverso una «estetica del brutto che un certo cinema italiano neorealista aveva inaugurato in ben altri tempi e ben altro clima storico […] Ma oggi che senso può avere il rimasticamento continuo e ossessivo di quella denuncia?». 3) «Quanto amiamo dare di noi l’idea di una società completamente devastata sul piano morale e culturale e non c’è dubbio circa l’entusiasmo con cui gli stranieri sappiano apprezzare il nostro sport nazionale dell’autoflagellazione».

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Invenzioni dal vero

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4) Infine, essi rappresenterebbero un «ripiegamento dello stile a esigenze ideologico culturali di pura denuncia […] come se il prenderne atto fosse già la soluzione o – peggio – lavasse tutte le colpe di un ceto intellettuale del tutto autoreferenziale, perennemente imbambolato di fronte allo spessore incombente della realtà»30. Il cortocircuito è completo. Le esatte – identiche quasi letteralmente – obiezioni poste ai neorealisti dai loro detrattori vengono riproposte ai supposti neo-neorealisti, al netto di una esaltazione incondizionata del neorealismo medesimo: Se il neorealismo riscopriva il mondo dei fatti facendo film straordinari con scarsissimi mezzi e lasciandosi illuminare dalla loro potenza espressiva, oggi tutto questo è pura concentrazione sul proprio ombelico […] L’arte, e il cinema in quanto arte, non dovrebbe più limitarsi alla pura e semplice registrazione della realtà, poiché questa non è che la scorciatoia per una presa d’atto, nonché per la sua definitiva accettazione. D’altra parte questo è il paese che sembra aver adottato come slogan consolatorio l’hegeliano ciò che è reale è razionale, privilegiando il momento sintetico della dialettica pur di non doversi mai imbarcare nella contraddizione o nel conflitto innescato dall’antitesi31.

La dinamica è vertiginosa. E si comprendono allora due studiosi anglosassoni come Alan O’Leary e Catherine O’Rawe quando nel 2011, sul «Journal of Modern Italian Studies», pubblicano un pamphlet dal titolo significativo, Against realism: on a certain tendency in italian film criticism32. Il loro obiettivo è il privilegio assiologico accordato al realismo nella tradizione degli Italian studies, dove il paradigma neorealista ha assunto una valenza perfino prescrittiva e viene solitamente trattato con un atteggiamento di sacrale rispetto, che appare come il preludio a una monumentalizzazione dalla quale è bandito ogni sguardo critico e ogni posizione obliqua rispetto alla vulgata dominante. E gli esempi portati sono quasi inquietanti, da Christopher Wagstaff a Geoffrey Nowell-Smith, da Millicent Marcus a Michael Atkinsson, specie perché riguardano critici e studiosi di comprovato valore a rigore, molti dei quali sono anche amici e maestri degli autori del saggio. Alla luce di tutto quello che abbiamo riportato, si rivela uno scenario assai più frastagliato e composito, in merito alla ricezione (più o meno) specializzata del neorealismo di quanto i discorsi istituzionali di stampo canonico lascerebbero immaginare. Il neorealismo, insomma, non è mai stato assorbito in maniera lineare, ma si sono spesso e volentieri messi in rilievo – con

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ricorrenza ciclica – tutti i suoi problemi strutturali e le sue contraddizioni. Tuttavia, è utile specificare che – soprattutto oggi, a distanza di così tanto tempo – l’esigenza non è certamente più quella di ridimensionare un fenomeno che resta, in termini di influenza e di risultati obiettivamente raggiunti, assolutamente seminale per l’intera storia del cinema e un concetto imprescindibile per comprendere le dinamiche profonde del cinema italiano. Ciascuno potrà assumere la posizione che meglio crede, scegliere quali critiche gli appaiono sensate e quali eccessive, stabilire quali sono le reali dimensioni e coordinate del fenomeno. Scegliere se adottare una posizione canonica, una – per così dire – revisionista, o adottare il principio della distanza e della neutralità storiografica. Qualunque sia la scelta, è ugualmente vero che il processo di demistificazione, nel senso attribuito alla parola da Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi33, comporta in maniera quasi automatica anche una «ri-politicizzazione» dell’oggetto. In altri termini, soprattutto in un periodo in cui la questione del realismo, a partire dal campo letterario34, è tornata ad essere percepita come urgente o «di moda», ricordare le prospettive critiche, di contrarietà, di rifiuto, le insofferenze di ciò che abbiamo chiamato «controneorealismo», può essere un modo proficuo per mantenere un rapporto problematico, cioè vitale, con i film della stagione neorealista e i loro autori. Per sfuggire, cioè, ai pericoli di quella messa cantata che deriva dalla monumentalizzazione e che sterilizza da qualsiasi reale interesse gli oggetti che finiscono, peraltro loro malgrado, coinvolti in questa forma retorica di mummificazione culturale.

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Note 1. C. Bo (a cura di), Inchiesta sul Neorealismo, ERI, Torino, 1951. 2. C. E. Gadda, Un’opinione sul neorealismo, in Id., I viaggi, la morte, Garzanti, Milano, 1977. 3. C. Milanini, Neorealismo: poetiche e polemiche, Il Saggiatore, Milano, 1980. 4. Per un quadro esaustivo che deriva da uno studio sistematico del fenomeno neorealista nelle sue varie sfaccettature, rimandiamo al recente, fondamentale contributo di S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia, 2014. 5. Il fatto che si tratti di posizione minoritaria è ovviamente un parere soggettivo, motivato, crediamo, dalla grande maggioranza della pubblicistica relativa al neorealismo. Tuttavia, vi è chi sostiene una tesi radicalmente opposta, ritenendo che il neorealismo e i suoi principali esponenti siano stati oggetto di una sistematica persecuzione intellettuale. Si veda al riguardo A. Martini, L'antirosselinismo, Kaplan, Torino, 2010. 6. Facciamo riferimento, in particolare, al saggio di A. O’Leary e C. O’Rawe, Against Realism. On a “certain tendency” in Italian film criticism, «Journal of Modern Italian Studies», n. 16, vol 1, 2011, sul quale torneremo in seguito. 7. Tutte le dichiarazioni citate sono contenute in C. E. Gadda, cit., pp. 123-6. 8. G. Andreotti, Piaghe sociali e necessità di redenzione, «Libertas», n. 7, 28 febbraio 1952. 9. Ibidem. 10. Entrambe le citazioni sono tratte da L. Visconti, Un sogno colorato in barba ai neorealisti, «Rinascita», 12 dicembre 1948. 11. R. Freda, Mi interessa l’eroe, in AAVV, C’era una volta il ’48. La grande stagione del cinema italiano, a cura di O. Caldiron, Minimum Fax, Roma, 2008. 12. Il manifesto di Steno è riportato in A. Farassino (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-49, EDT, Torino, 1989. 13. U. Eco, Do your movie yourself, in Id, Diario Minimo, A. Mondadori, Milano, 1983. 14. Cinegramma (F. Casetti, A. Farassino, A. Grasso, T. Sanguinetti), Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in L. Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1975. 15. P. Noto e F. Pitassio, Il neorealismo cinematografico, Archetipolibri, Bologna, 2010. 16. M. Alberini, Annotazioni su una diffidenza, «Cinema», n. 17, 30 giugno 1949, ora in P. Noto e F. Pitassio, cit., pp. 124-5. 17. F. Fortini, Due soldi di speranza, (1952), in Id., Dieci inverni, De Donato, Bari, 1973, ora in P. Noto e F. Pitassio, cit., pp. 133-6. 18. P. Lughi, Il neorealismo in sala. Anteprime di gala e teniture di massa, in A. Farassino (a cura di), cit., p. 53. 19. S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa, Giunti, Firenze, 1995, p. 127.

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20. P. Medini, L’abito e l’arredamento, in A. Farassino (a cura di), cit., pp. 124-5. 21. G. C. Argan, Memorie e testimonianze, in A. Farassino (a cura di), cit., p. 12. 22. B. Zevi, Memorie e testimonianze, cit., p. 18. 23. G. Streher, Memorie e testimonianze, cit., p. 16. 24. F. Zeri, Memorie e testimonianze, cit., p. 18. 25. P. Ingrao, Memorie e testimonianze, cit., p. 14. 26. E Zolla, Memorie e testimonianze, cit., p. 18. 27. L. Quaresima (a cura di), Nuovo cinema italiano, «Cinema & Cinema», n. 62, 1991. 28. B. Bertolucci, Italiani, basta con il neorealismo, «La Repubblica», 19 maggio 2000. 29. M. Nichetti, Basta Neorealismo, il mondo va avanti!, http://www.occhioche.it/news. php?nid=1009 . 30. F. R. Recchia Luciani, La deriva del cinema italiano, il neo-neorealismo da Emma Dante a Paolo Sorrentino, «Affaritaliani.it», 27 settembre 2013. 31. Ibidem. 32. A. O’Leary e C. O’Rawe, cit. Il saggio dei due studiosi inglesi, naturalmente, ha un respiro molto più ampio e inquadra polemicamente una prospettiva di studi – tipicamente interna al sistema accademico italiano – che pare aver espulso per molti anni i cultural studies dai suoi orizzonti. L’inizio di tale tendenza, tuttavia, è da ricondurre proprio alla produzione discorsiva relativa al neorealismo, sebbene negli ultimi anni le cose stiano velocemente cambiando, anche grazie al più intenso dialogo con studiosi stranieri e alla presenza di altri fattori endogeni. 33. R. Barthes, Miti d’oggi, Lerici, Milano, 1966. 34. Sulla questione del realismo in campo letterario, la bibliografia degli ultimi anni, anche a seguito del «caso Gomorra», è decisamente nutrita. Per ovvie esigenze di sintesi, ci limitiamo a segnalare alcuni dei testi più significativi. Fra questi: F. Bertoni, Realismo e letteratura: una storia possibile, Einaudi, Torino, 2007; W. Langewiesche, R. Saviano, Raccontare la realtà, Internazionale, Roma, 2008; A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma, 2010; A. Pascale, Questo è il paese che non amo. Trent’anni nell’Italia senza stile, Minimum fax, Roma, 2010; A. Mazzarella, Poetiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.

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Rossellini e il neorealismo Elena Dagrada E c’è perfino uno che esclama con tono ispirato da avvocato di quarta categoria «Vai, vai caro Rossellini, con la tua macchina da presa sulle spalle, sulla lunga strada che porta al mondo, come Chaplin con il suo bastoncino». E certo che se la macchina da presa è una Mitchell la fatica è improba, senza contare che Rossellini è pigro. Lui comunque è tutto contento e sorride. Paolo Valmarana, Neorealismo Parma

Nella tarda primavera del 1954, Roberto Rossellini rilascia alcune dichiarazioni al settimanale «Arts», pubblicate sul numero del 16 giugno con un titolo perentorio: Non sono il padre del neorealismo1. Il regista di Roma città aperta (1945) e di Paisà (1946) si dice consapevole di non potersi sottrarre alla definizione di «inventore del neorealismo» attribuitagli da più parti, «visto che su questo punto tutti i critici sono d’accordo e che non si ha mai ragione contro il parere di tutti»2. Nega tuttavia che possa esistere una definizione di neorealismo comune a ciascuno dei film e dei registi italiani riuniti dalla critica sotto quell’etichetta, perciò rivendica la propria singolarità, unitamente al diritto di essere un’eccezione. Si dichiara persino disposto a pagare un prezzo molto alto per esercitare tale diritto, dato che – aggiunge – in questo campo non si fanno sconti. Sono parole dure, che contengono almeno tre verità. La prima consiste nel fatto – oggi ancor più conclamato – che Rossellini è davvero considerato da più parti il padre del neorealismo. Era vero allora e lo è a maggior ragione tuttora. Non esiste scritto sull’argomento che non indichi il regista di Roma città aperta e di Paisà come l’iniziatore ufficiale della stagione più influente della storia del nostro cinema, né che manchi di citare quei film come il momento fondativo che ha disvelato al mondo il nuovo cinema italiano del secondo dopoguerra. Roma città aperta, in particolare, è identificato unanimemente con l’atto di nascita del neorealismo3, a tal punto da stabilire tra quel cinema e il suo regista una vera e propria equazione. La seconda consiste nel disagio derivato dalla consapevolezza dell’ambiguità intrinseca al termine «neorealismo». Un disagio diffuso, che

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si manifesta – non solo in Rossellini – proprio quando si inizia a utilizzarlo, intorno alla primavera del 1948. Da un lato lo si percepisce come un’etichetta lasca, un «termine ombrello» che non può dar conto delle specifiche differenze; proprio sulle pagine di «Arts», lo stesso Rossellini sentenzia in proposito: «Mi sembra evidente che ognuno possieda il proprio realismo e che ognuno reputi che il suo è migliore. Io compreso»4. Dall’altro se ne avverte la componente costrittiva, propria di un’etichetta rigida come una gabbia, poiché man mano che la critica prende coscienza dell’importanza del fenomeno neorealista ne elabora definizioni sempre più programmatiche e politicamente mirate, rispetto alle quali Rossellini rivendica il diritto alla diversità. C’è tuttavia una verità ulteriore – più profonda – nascosta tra le pieghe delle dichiarazioni che Rossellini rilascia al settimanale «Arts». Quando pronuncia il «gran rifiuto», per liberarsi dell’ingombrante patente di «padre del neorealismo», sono passati già sei anni dal 1948 e quasi dieci dall’uscita di Roma città aperta e Paisà. Rossellini si trova a Parigi per la tournée dell’oratorio Jeanne au bûcher e ha terminato da troppo tempo la lavorazione di Viaggio in Italia (1954), che deve ancora uscire nelle sale5. Ha inoltre diretto altri sette film, nonché tre episodi di altrettante pellicole a più voci6, che immancabilmente la critica italiana ha accolto in modo diseguale, quando non negativo o decisamente disastroso, accusando il regista di aver tradito il neorealismo e chiedendogli di «tornare» a Roma città aperta e Paisà. Se perciò, nella tarda primavera del 1954, Rossellini rivendica il diritto di essere un’eccezione – usando non a caso parole simili a quelle pronunciate qualche tempo prima a proposito di Europa ’51 (1952)7 – è perché l’accostamento tra il suo cinema e il neorealismo è diventato un problema. Se afferma che per esercitare quel diritto e sfuggire al conformismo è necessario esser disposti a pagare un prezzo molto alto, è perché lui lo sta pagando da un pezzo. Di fatto, quel rifiuto per Rossellini equivale alla volontà di sottrarsi alle aspettative di una critica che vorrebbe fargli rifare sempre lo stesso film, secondo un’accezione di neorealismo che non è sua. Equivale, insomma, a rivendicare di poter intendere il neorealismo come gli pare, anche per considerare neorealisti i suoi film che molta critica italiana non ritiene tali e giudica, perciò, negativamente. Ma che cos’è il neorealismo secondo Rossellini? Cosa significa, per il suo supposto «inventore», quella parola tanto controversa utilizzata per nominarlo?

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Rispondere non è semplice, ma neppure impossibile. Nel corso del tempo, infatti, Rossellini non è stato sempre altrettanto riottoso. Al contrario: sollecitato più volte a esprimersi in proposito, al netto delle inevitabili contraddizioni e della specificità dei contesti che fanno la differenza, ricorre nelle sue parole una concezione di neorealismo certamente vaga e sfumata, ma così lucida e coerente da meritare attenzione. Le prime dichiarazioni significative risalgono alla fine del 1946. In Italia il neorealismo non è ancora chiamato con quel nome, più comune in Francia – sintomaticamente, proprio alla fine del 1946 André Bazin lo usa a proposito di Orson Welles8. Rossellini è a Parigi per presentare Paisà e, intervistato per «L’Ecran français»9 e per «Le Figaro»10, spiega il suo metodo di lavoro. Evoca il suo rifiuto delle scenografie fittizie e la predilezione per gli ambienti naturali, meglio se coincidenti con i luoghi dove si sono svolti i fatti che si vogliono rappresentare; l’arricchimento che può derivare dagli accadimenti accidentali che aggiungono umanità, come l’improvvisazione al momento delle riprese a contatto con gli interpreti, di preferenza occasionali e senza trucco, scelti per aderenza al ruolo (citando i «professionisti» Anna Magnani e Aldo Fabrizi, spiega che «sono stati utilizzati al di fuori dei loro ruoli abituali»)11; l’avversione per la retorica e le sofisticazioni della tecnica, in opposizione al «sapore del documento»; quella per il cinema industriale, in opposizione alla libertà che deriva dall’essere produttore di se stesso, a basso costo... Un insieme di procedimenti che a ben vedere vanno a comporre i tratti principali del canone neorealista, sebbene la parola non venga mai pronunciata. L’anno successivo è lo stesso Rossellini a farlo – o quasi – accostando se stesso alla categoria estetica del realismo. Mentre si trova a Berlino per la lavorazione di Germania anno zero (1948), viene intervistato per «Die Weltbühne»12, un settimanale di politica e cultura del settore russo della capitale tedesca. Alla domanda se la sua idea di cinema può dirsi vicina a quella dei russi, Rossellini risponde di avere una concezione molto realista dell’arte, che crede possa corrispondere in qualche aspetto al naturalismo dei russi; tiene però a precisare che nei suoi film esprime cose molto personali, a cui non si addicono le classificazioni. L’accostamento ritorna nel 1948, ancora sulle pagine di «L’Ecran français»13. Intervistato nuovamente per il settimanale d’oltralpe, con veemenza ribadisce le sue concezioni registiche, arricchendo il proprio

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canone personale con il rifiuto di una sceneggiatura rigorosa, unitamente alla già evocata avversione per il teatro di posa che qui definisce «il grande nemico del cinema»14. Ma precisa anche: Siccome non ho paura della verità e ho la curiosità dell’essere umano, passo per un grande realista! Lo sono, sì, se il realismo significa abbandonare l’individuo davanti alla macchina da presa e lasciare che sia lui stesso a costruire la sua storia! Fin dai primi giorni delle riprese, mi installo dietro ai miei personaggi e poi lascio che la macchina da presa gli vada dietro... 15

È forse la prima volta che Rossellini associa il concetto di realismo all’interesse per l’essere umano, peraltro descritto come una sorta di aspirazione al pedinamento zavattiniano. Nello stesso periodo ripete l’accostamento, ma con toni assai più problematici, non a caso in Italia, durante un colloquio con Fernaldo Di Giammatteo16. Siamo alla fine del 1948. L’amore (presentato in concorso a Venezia, dove non ha vinto alcun premio) è uscito in ottobre ed è stato accolto negativamente; Germania anno zero, bloccato a lungo dalla censura, uscirà il primo dicembre, ma ha già suscitato reazioni critiche negative. Il momento, insomma, coincide con il primo inasprirsi della parabola discendente che caratterizza il difficile rapporto del regista con la critica italiana. E Rossellini si difende. Elaborando, anche, una personale concezione di (neo)realismo, che vuole svincolata da Roma città aperta e Paisà. Dichiara, infatti: Il tipo di realismo che ho inaugurato con Roma città aperta e Paisà oggi non serve più. Andava bene allora quando sembrava delittuoso non suggerire agli uomini la necessità di prender conoscenza del mondo in cui si vive, la necessità di affondarci dentro le mani, di sentire di quale materia è fatto. Oggi altre cose mi premono. Oggi credo si debba trovare una nuova e solida base per costruire e per rappresentare l’uomo qual è, nel connubio che in lui esiste fra poesia e realtà, fra desiderio e azione, fra sogno e vita. Per questo ho fatto Amore e La macchina ammazzacattivi, che è forse il mio film più originale17.

Spiccano, in questo breve passo, due elementi di rilievo. La rivendicazione della qualifica di iniziatore del (neo)realismo, certo in un momento storico che coincide con la massima consacrazione di quel cinema, ma anche in una fase in cui per Rossellini tale qualifica non rappresenta ancora un problema. E la volontà di proiettarsi comunque oltre quell’esperienza. Per Rossellini «l’uomo qual è» non è già più quello dell’immediato dopoguerra. È un altro essere

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umano, confrontato con altri problemi, che ora afferma di voler rappresentare coniugando poesia e realtà (desiderio e azione, sogno e vita), come ritiene di aver fatto in L’amore e La macchina ammazzacattivi (che uscirà solo nel 1952). Sono elementi diversamente presenti anche in una lunga intervista pubblicata su «Bianco e Nero» nel febbraio del 1952, dove si trova però molto altro, perché molto altro è accaduto nel frattempo. Per Rossellini e per il neorealismo. Anzitutto, per Rossellini, l’arrivo di Ingrid Bergman nella sua vita e nel suo cinema, e la realizzazione di nuovi film (con e senza l’attrice). Ma anche, per il neorealismo, il mutamento politicoculturale conseguente all’esito delle elezioni del 18 aprile 1948, segnate da uno scontro ideologico durissimo che il trionfo della Democrazia Cristiana contro il Fronte della sinistra unita inasprisce ulteriormente. Tale mutamento si ripercuote anche nella gestione politica della cultura, fino a trasformare il fenomeno cinematografico di maggior rilievo, nazionale e internazionale, in un terreno di lotta e di conquista sullo sfondo della Guerra Fredda. Così, mentre per Rossellini si consuma la frattura con la critica di sinistra, una parte importante di quella cattolica18 si adopera per sottrarre l’elogio del neorealismo al monopolio dell’esegesi comunista e punta a fare del suo «iniziatore» «il «pioniere […] del neorealismo cattolico, correttivo dell’altro che non sembrava abbastanza cristiano»19. Nel 1952, in ambito critico tale investitura raggiunge forse il suo apogeo quando il neodirettore di «Bianco e Nero» Giuseppe Sala20 – fresco di nomina governativa e subito arruolato alla causa rosselliniana – dedica a Rossellini un numero monografico. Il saggio di apertura è dello stesso Sala, si intitola Significato di Rossellini e affronta il «significato» dell’opera del cineasta a partire da una disamina del neorealismo in chiave cattolica, da Roma città aperta fino a La macchina ammazzacattivi e Europa ’51 (entrambi ancora inediti). L’intervista che segue, invece, intitolata non a caso Colloquio sul neorealismo, estende a ritroso tale lettura fino a Luciano Serra pilota (1938) e La nave bianca (1941)21. Autore dell’intervista è Mario Verdone, che esordisce chiedendo a Rossellini se ritiene di attribuirsi la paternità del neorealismo italiano. Rossellini risponde: Se il cosiddetto neorealismo si è rivelato in modo più impressionante al mondo attraverso Roma città aperta, sta agli altri giudicare. Io vedo la nascita del neorealismo più in là: anzitutto in certi documentari romanzati di guerra, dove anche io sono rappresentato con La nave

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bianca; poi in veri e propri film di guerra a soggetto, che mi hanno visto collaborare per lo scenario, come in Luciano Serra pilota, o realizzatore come in L’uomo dalla croce; e infine e soprattutto in certi film minori, come Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella, Campo de’ Fiori, in cui la formula, se così vogliamo chiamarla, del neorealismo, si viene componendo attraverso le spontanee creazioni degli attori: di Anna Magnani e di Aldo Fabrizi in particolare. Chi può negare che sono questi attori a incarnare, per primi, il neorealismo? [...] Il neorealismo nasce, inconsciamente, come film dialettale; poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani e sociali della guerra e del dopoguerra. E, in tema di film dialettale, non sarà male riferirsi, storicamente, ai nostri predecessori meno immediati: intendo dire a Blasetti per il suo film con i «tipi»: 1860 ed a Camerini per film come Gli uomini, che mascalzoni22.

Colpisce, in questa lunga risposta, la ritrosia di circostanza nell’accettare la paternità del «cosiddetto» neorealismo. E stupisce la volontà di ricostruirne l’albero genealogico, indicando fra l’altro i titoli dei suoi film di guerra e d’anteguerra che in passato Rossellini aveva mostrato più volte di non voler ricordare23. Dato il contesto addomesticato, è verosimile che tale ricostruzione non sia del tutto autentica, tranne forse nell’evocazione di Aldo Fabrizi e Anna Magnani24. Allo stesso modo, più avanti, appare sospetta – perché troppo imparentata con una supposta concezione pauperista del neorealismo, politicamente connotata a sinistra – l’evocazione in chiave negativa di «uscite all’aperto» e «contemplazioni di stracci e sofferenze», fatta da Rossellini quando Verdone gli chiede se a suo avviso «il termine di neorealismo, o più semplicemente di realismo»25, è altrettanto chiaro per tutti coloro che lo discutono e lo rappresentano. Ecco la risposta del regista: A me sembra che sul termine di «realismo» vi sia ancora, dopo tanti anni di film realistico, qualche confusione. V’è tuttora chi pensa al realismo come a qualcosa di esteriore, come ad un’uscita all’aperto, come ad una contemplazione di stracci e di sofferenze. Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostruita, si raggiunge l'espressione. Se è una verità spacciata, se ne sente la falsità26.

Se tuttavia la pars destruens di tale argomentazione non sembra farina del sacco di Rossellini27, la pars construens è invece assai coerente con i suoi convincimenti più profondi e mai smentiti: il bisogno di fuggire la contraffazione, la verità contro la falsità, anche nella forma... Poco prima, il regista evoca di nuovo pure l’interesse per l’uomo. Infatti, alla domanda se «il film italiano del dopoguerra» proponga «un certo realismo che prima della guerra non avremmo neppure potuto concepire»28, risponde:

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Sono un realizzatore di film, non un esteta [...]. Posso dire, però, come lo sento [...]. Una maggiore curiosità per gli individui. Un bisogno, che è proprio dell'uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell'interesse, tipicamente contemporaneo, per i risultati statistici e scientifici. Una sincera necessità, anche, di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario. Una coscienza di ottenere lo straordinario con la ricerca. Un desiderio, infine, di chiarire se stessi e di non ignorare la realtà, qualunque essa sia29.

Prosegue Rossellini: «Oggetto vivo del film realistico è il “mondo”, non la storia, non il racconto»; il film (neo)realistico «[...] Non ama il superfluo e lo spettacolare, che anzi rifiuta, ma va al sodo», perché è «il film che pone e che si pone dei problemi. [...] il film che vuol far ragionare»30 (poco oltre, giustifica il fatto di non credere nella “sceneggiatura di ferro” proprio perché incompatibile con il film «realistico [...] che pone dei problemi e cerca la verità»)31. Quindi, sollecitato in proposito, aggiorna l’elenco delle caratteristiche che compongono il suo canone personale con la ricorrenza di una stessa spiritualità (di nuovo a partire da La nave bianca, fino a Francesco giullare di Dio – uscito nell’anno santo 1950 e che definisce un film realistico) e individua quali elementi costanti del suo cinema la coralità, la maniera documentaria, ma anche la fantasia e infine la religiosità. Gli stessi elementi ritornano l’anno successivo sulla rivista «Retrospettive»32, in uno scritto pubblicato a firma di Rossellini con il titolo Due parole sul neorealismo; si tratta, in effetti, di una sintesi e di un diverso “montaggio” delle dichiarazioni contenute nell’intervista per «Bianco e Nero», dove le caratteristiche suddette diventano quelle del film neorealista (facendo così anche della religiosità un tratto del film neorealista secondo Rossellini). Dobbiamo tornare all’estero, nuovamente in Francia, alle dichiarazioni rilasciate al settimanale «Arts» nella tarda primavera del 1954, per ritrovare il Rossellini furioso che avevamo lasciato nel 1948 in compagnia di Di Giammatteo. Ancor più furioso, per il vero, dato l’esito critico funesto dei suoi ultimi film. Al punto da spingerlo a voler ricusare una paternità – quella del neorealismo – che nel frattempo è diventata un problema da qualunque angolazione la si guardi, compreso quella di chi avrebbe voluto fare di lui il pioniere del neorealismo cattolico, ma non c’è riuscito, o c’è riuscito solo in parte e in ogni caso troppo tardi33. Una paternità che Rossellini rifiuta – si badi – anche perché vincolata a quella di Roma città aperta, con il suo carico ormai istituzionalizzato di canone neorealista, fatto di elementi che

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certamente ha perseguito e condiviso, ma che vuole lasciarsi alle spalle;

scelte di stile a cui non vuole vincolarsi in eterno, senza per questo cessare di considerarsi neorealista a modo suo. Ridimensiona persino la sua attitudine all’improvvisazione, che definisce un «mito», poiché

la sua è solo sicurezza di ciò che sa di voler fare, senza bisogno di scriverlo34. E afferma con forza che il suo neorealismo personale è solo una posizione morale racchiusa nelle parole: l’amore per il prossimo. Nient’altro. Da questo momento, tutte le volte che Rossellini avrà occasione di tornare sull’argomento si atterrà a due punti fermi. Il rifiuto di ogni vincolo a qualunque canone, specie se inteso come insieme di elementi riconducibili ai suoi due film neorealisti per eccellenza: Roma città aperta e Paisà. E la disponibilità a essere associato al neorealismo purché nella sua accezione personale di posizione morale e interesse per l’uomo, specificando sempre che si tratta di un neorealismo diverso, il suo, in seno al quale c’è continuità nell’insieme della sua opera, non frattura (altrimenti innegabile, sul piano delle scelte estetiche). Nel luglio 1954 esce sui «Cahiers du cinéma» la prima intervista rilasciata da Rossellini alla prestigiosa rivista francese. Alla domanda se si considera «al di fuori del movimento neorealista, nel quale si schiera la stragrande maggioranza dei registi italiani», risponde: Sì, di un certo neorealismo; ma che cosa si intende con questa parola? Sapete che a Parma si è svolto un congresso sul neorealismo; ci sono state molte discussioni e questo termine rimane confuso. Per lo più è solo un’etichetta. Per me è soprattutto una posizione morale da cui guardare il mondo. Diventa poi una posizione estetica, ma il punto di partenza è morale35. (corsivo mio)

È una risposta precisa, che a ben vedere significa: la posizione morale da cui guardare il mondo viene prima di tutto; dopo di che, in base alla porzione di mondo che si vuole guardare, potrà cambiare di volta in volta l’approccio estetico. Perciò può sostenere che nella sua opera non vi sono fratture, diversamente da quel che pretende la critica: [...] Mi considero molto coerente. Credo di essere lo stesso essere umano che guarda alle cose nello stesso modo. Ma si è indotti a trattare altri argomenti, l’interesse si sposta, bisogna intraprendere altre strade: non si può continuare a girare in eterno nelle città distrutte. [...] La vita è cambiata, la guerra è finita, le città sono state ricostruite36.

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Sollecitato dagli intervistatori a esprimersi sui film fatti prima di Roma città aperta, anziché soprassedere afferma che «erano retti dalle stesse intenzioni»37 e che si possono considerare neorealisti ante litteram; ma non per l’attitudine documentaria che li contraddistingue (come appariva nel colloquio con Verdone), bensì per l’attitudine morale38. Anche il suo ultimo film, Giovanna d’Arco al rogo (1954), per Rossellini è caratterizzato dallo stesso approccio, quindi è neorealista: Sono molto contento del risultato. È un film molto strano; so bene che si dirà che la mia involuzione è arrivata al limite massimo, che sono ritornato sotto terra; ma non è per niente del teatro filmato, è cinema, e direi persino che si tratta di neorealismo nel senso in cui l’ho sempre tentato39.

Circa un anno dopo Rossellini stende un primo bilancio della sua attività di regista, destinato ai francesi «Cahiers» con il titolo Dix ans de cinéma e tradotto in italiano su «Cinema Nuovo» con il titolo Il mio dopoguerra. Significativamente, sceglie di cominciare da Roma città aperta, con queste parole: Nel 1944, subito dopo la guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. Quasi tutti i produttori erano spariti. [...] Si poteva godere di un’immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative le più eccezionali. [...] Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale [...] È in condizioni simili che cominciai a girare Roma città aperta [...]40.

Sfodera così la volontà di considerare la nascita del neorealismo come un fenomeno sperimentale, che più avanti associa ai film d’avanguardia, intesi però come film «girati al di fuori delle solite formule»41. Ribadisce che: «Il neorealismo consiste nel seguire un essere umano con amore, in tutte le sue scoperte, in tutte le sue impressioni»42. E quando ricorda Una voce umana afferma: «Anche questa possibilità che il cinema ci offre, di usarne come un microscopio, fa parte del neorealismo: un avvicinamento morale che diventa un fatto estetico»43. La rilettura personale dell’immediato dopoguerra impronta anche la coeva prefazione al libro di Brunello Rondi dedicato al neorealismo. Scrive Rossellini: «Il neorealismo è soprattutto l’arte della “constatazione” (cioè di un avvicinarsi con amore a una realtà obbiettiva vista qual è, senza filtri di pregiudizi e di schemi)»44. Allora, da constatare c’erano le macerie:

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Contemplavamo le rovine dalle quali sbucavamo coperti di polvere. Uscì dai nostri cuori un bisogno profondo e sincero di riconoscerci e di individuarci. Dalla nostra posizione morale, che ci imponeva di capire l’assurda tragedia alla quale eravamo sopravvissuti, nasceva il neorealismo45. (corsivo mio)

Così, la posizione morale è definitivamente indicata come l’origine del neorealismo, del suo valore testimoniale e del suo potenziale di denuncia46. E l’umanesimo che ne consegue impedisce di rinunciarvi, poiché: Era un avvicinarsi all’uomo con uno spirito assoluto di amore e di solidarietà e da questo incontro umano è scaturita una così profonda emozione che noi non vogliamo più abbandonare questa posizione, il suo nucleo. Anche ora che [...] il neorealismo è assediato, e isolato47.

La crisi che minaccia il cinema e il neorealismo, infatti, per Rossellini ne favorirà la rinascita e «il neorealismo sarà ancora una forza vivissima»48. Di sicuro è vivissimo il suo, quello che si appresta a praticare in India, che non a caso definirà «il paese del realismo per eccellenza»49, dove «ripartire dagli inizi del neorealismo»50. Il paese da cui rientra alla fine del 1957 dopo aver girato un film (che in Italia uscirà solo nel 1960, con il titolo India Matri Bhumi) assimilato in più occasioni a Paisà, di nuovo per ribadire che non ci sono cesure nella sua opera. Intervistato nel 1958 a Ginevra per la rivista «Filmklub-Cinéclub», lo ripete con veemenza mettendo sullo stesso piano Roma città aperta e Viaggio in Italia, ma anche Una voce umana e Francesco giullare di Dio. Perché: «Non si può avere a disposizione una guerra ogni quattro giorni, ogni volta che si vuol fare un film o una rivoluzione»51. Torna perciò a tuonare contro il canone per difendere la sua idea di cinema «sperimentale» e di ricerca52. E ribadisce la propria concezione personale di neorealismo: Bisognerebbe intendersi bene su cosa sia per me il neorealismo. Cos’è? è la possibilità di constatare le cose come sono, in qualsiasi campo, anche se si tratta di un movimento di ordine spirituale o morale, e di osservarle all’inizio quasi in modo scientifico. In questo modo ci si può avvicinare a tutto, non importa come; che il film sia in costume o no, non ha alcuna importanza53.

Una concezione che precisa ancora l’anno successivo. Intervistato per «Cinéma 59», alla richiesta di commentare ancora una volta la parola

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neorealismo, mentre sta parlando dello «sguardo giusto» da rivolgere al mondo, risponde: In primo luogo si tratta di cogliere la realtà oggettiva e per così dire fisica, per esempio di un fatto di cronaca. [...] Ma c’è anche una realtà più intima, più segreta, che scaturisce dall’apparenza esterna, dalla scorza degli esseri e delle cose. La mia lotta consiste nel fornire in questo campo dei mezzi di investigazione. Ho un bisogno maniaco di cercare la verità... 54 (corsivo mio)

Mentre nel 1960, rispondendo a un questionario del quotidiano romano «Il Messaggero», dopo aver accusato la politica e il cinema «d’evasione» di aver ucciso il neorealismo, ribadisce: Forse dovrò dire che cosa è stato per me il neorealismo. [...]. Dopo le tante stoltezze e le tante menzogne degli anni fra le due guerre, il neorealismo è stato, per me, appunto la rappresentazione delle passioni autentiche, dei problemi in cui ci dibattevamo. È stato un atto di onestà e di pietà55.

È verso il 1961 che in un lungo scritto, presentato in forme diverse in più occasioni, alle argomentazioni note aggiunge una prospettiva nuova: I suoi meriti [del neorealismo] furono certamente artistici, morali e politici. Ma forse si è trascurato un altro aspetto che ha rappresentato anche una profonda rivoluzione tecnica. Il cinema fino allora era riservato a pochi iniziati; i grandi stabilimenti, gli «studios» estremamente costosi, vietavano la produzione a chi non possedeva questi templi dedicati alla «settima arte». Con il «neo-realismo» il cinema divenne accessibile a molti permettendo la messa in circolazione di nuove idee, il reclutamento di un maggior numero di creatori, e l’affermazione di nuovi autori56.

Forse pensa agli amici della Nouvelle Vague, che hanno imparato dal «suo» neorealismo a fare film a basso costo (potendo così affermarsi come autori). Forse pensa anche alla televisione, che Rossellini ha appena assaggiato con le dieci puntate per la TV italiana e francese di L’India vista da Rossellini / J’ai fait un beau voyage (1959) e sta per diventare il suo nuovo orizzonte di sperimentazione (a basso costo). Dopo il ritorno a Canossa con Il generale della Rovere (1959), le cui tematiche resistenziali sembrano ricondurlo a Roma città aperta e Paisà, ma ricompongono solo in parte le fratture con la critica, Rossellini sostiene ancora che è l’esperienza indiana quella più vicina al suo

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ideale di ricerca57, e giudica quel film come il suo più convenzionale58. Non a caso, proprio a Venezia dove Il generale della Rovere viene premiato, Rossellini partecipa al dibattito sulle Nouvelles Vagues e associa il nuovo cinema francese al neorealismo, che ha avuto anche il merito di rendere più accessibile la possibilità di fare cinema. Un cinema che deve restare libero, senza canone59, esploratore e nuovo come quello che proverà a fare in televisione. Cinque anni prima di morire, nel 1972, Rossellini scrive la prefazione alle sceneggiature desunte di Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero e dichiara: [...] Non c’è alcuna differenza sostanziale, anche se in apparenza non è così, tra questi film e i documentari televisivi didattici del tipo La presa del potere di Luigi XIV o La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza. Comunque si considerino, anche Roma città aperta e Paisà erano didattici, anche Germania anno zero era didattico, proprio perché lo sforzo che facevo [...] era di prendere coscienza degli avvenimenti nei quali ero rimasto immerso, dai quali ero stato travolto. Era l’esplorazione non solo di fatti storici, ma proprio di atteggiamenti, di comportamenti che quel certo clima, quella certa situazione storica determinavano. [...] questo è quello che mi muove ancora oggi: partire dal fenomeno ed esplorarlo e far scaturire da questo liberamente tutte quante le conseguenze60.

È ancora la stessa definizione. Lo stesso rifiuto del canone e il medesimo slancio verso una visione unitaria di quanto ha fatto e di quanto farà. Il diritto di essere un’eccezione che André Bazin aveva colto nel 1958, facendogli notare che si avvicinava alla televisione con le stesse preoccupazioni che avevano fatto di lui «il promotore del neorealismo italiano»61. La televisione è stata la sua ultima utopia62 e, forse, il suo ultimo sogno di neorealismo.

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Note 1. Il titolo originale completo è Je ne suis pas le père du néo-réalisme, je travaille dans une solitude morale absolue, je souffre d’être méprisé et insulté de tous les côtés, je suis obligé de payer moi-même mes films; si tratta di un’intervista a Rossellini, non firmata, ma attribuita a François Truffaut da più fonti e tradotta in italiano con il titolo Non sono il padre del neorealismo in R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia, 1987. 2. Ivi, p. 108. 3. Cfr. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia, 2014. 4. Rossellini in Non sono il padre del neorealismo, cit., p. 108. 5. Uscirà il 7 settembre del 1954. 6. Germania anno zero (1948), L’amore (1948), Stromboli (1950-51), Francesco giullare di Dio (1950), Europa ’51 (1952), La macchina ammazzacattivi (1952), Dov’è la libertà (1954). Gli episodi sono Invidia (in I sette peccati capitali, 1952), Ingrid Bergman (in Siamo donne, 1953), Napoli ’43 (in Amori di mezzo secolo, 1954). 7. Cfr. Rossellini in G. Cane, Rossellini in peccato mortale, «Rassegna del Film», n. 1, 1951 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Europa ’51 o la tragedia del conformismo). 8. Cfr. A. Bazin, La splendeur des Ambersons. Un drame de l’orgueil: toujours Orson Welles, «L’Ecran français», n. 73, 19 novembre 1946. 9. Cfr. G. Sadoul, Un grand réalisateur italien, Rossellini, qui vendit ses meubles pour tourner Rome ville ouverte, a recruté les acteurs de Paisà parmi les badauds, «L’Ecran français», n. 72, 12 novembre 1946 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Su Roma città aperta e Paisà). 10. Cfr. J.B. Jeener, Roberto Rossellini, réalisateur de Rome ville ouverte, nous expose ses conceptions, «Le Figaro», 20 novembre 1946 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Il sapore del documento). 11. Ivi, p. 55. Si noti che qui Rossellini anticipa in parte la baziniana «legge dell’amalgama»; cfr. A. Bazin,Le réalisme cinématographique et l’école italienne de la libération, «Esprit», gennaio 1948 (tr. it. Che cos'é il cinema?, Garzanti, Milano, 1973). 12. Cfr. K. Kaiser-Blüth, Das Jahr 0..., Roberto Rossellini, der einen Film in Berlin dreht, hat mir gesagt, «Die Weltbühne», n. 16, 2 agosto 1947 (trad. it. in Il dopoguerra di Rossellini, a cura di A. Aprà, Cinecittà International, Roma, 1995). 13. R. Régent, Quand je commence à devenir intelligent je suis foutu, «L’Ecran français», n. 175, 2 novembre 1948 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Quando comincio a diventare intelligente sono fregato). 14. Ivi, p. 58. 15. Ivi, pp. 57-58. 16. Cfr. F. Di Giammatteo, Rossellini si difende, «Il progresso d’Italia» (Bologna), 9 dicembre 1948; poi in «Fotogrammi», n. 1, 4 gennaio 1949 (ora in Rossellini, Il mio

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metodo, cit.). Benché pubblicato la prima volta in dicembre, il colloquio si è svolto a Roma in novembre. 17. Ivi, p. 65. 18. Cfr. E. Dagrada, Quanto la critica si divise. A proposito degli “anni Bergman”, in L’antirossellinismo, a cura di A. Martini, Kaplan, Torino, 2010; e Id., A Triple Alliance for a Catholic Neorealism. Roberto Rossellini according to Félix Morlion, Giulio Andreotti and Gian Luigi Rondi, in Moralizing Cinema: Film, Catholicism and Power, a cura di D. Biltereyst e D.Treveri Gennari, Routledge, New York, 2015. 19. G.B. Cavallaro, Bilancio di un Festival, «Rivista del Cinematografo», a. XXV, nn. 9-10, 1952, p. 6. 20. Democristiano, ex professore di liceo «del tutto nuovo agli studi cinematografici e d'arte» (M. Verdone, Il ruolo di «Bianco e Nero» negli anni Cinquanta, «La scena e lo schermo», nn. 3-4, 1990, p. 242), Sala è nominato direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia dopo la morte di Francesco Pasinetti e direttore di «Bianco e Nero» (al posto di Luigi Chiarini) dal primo numero del 1952. È designato da Nicola De Pirro, che ha sostituito Umberto Barbaro nel ruolo di commissario straordinario del Centro, su nomina dell’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio in materia di spettacolo Giulio Andreotti. 21. Cfr. R. Rossellini, M. Verdone, Colloquio sul neorealismo, «Bianco e Nero», a. XIII, n. 2, febbraio 1952 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit.). 22. Ivi, p. 85. Si noti che l’evocazione di Blasetti e Camerini corrisponde a quanto sostenuto in F. Venturini, Origini del neorealismo, «Bianco e Nero», a. XI, n. 2, febbraio 1950. 23. In Sadoul, Su Roma città aperta e Paisà, cit., Rossellini definisce Roma città aperta il suo primo film importante e in conclusione lo storico francese rileva che il regista «conosce poco le opere degli altri regsti [italiani]» (p. 52). In Jeener, Il sapore del documento, cit., Rossellini ribadisce che Roma città aperta è il suo primo film importante e aggiunge che in precedenza aveva fatto dei cortometraggi (citando solo Fantasia sottomarina) e «soprattutto il “negro” per gli altri» (p. 54). Roger Régent (in Régent, Quando comincio, cit.) chiosando il suo colloquio con Rossellini cita La nave bianca, scrive che prima Rossellini «aveva fatto solo montaggio e doppiaggio» e che dopo sono venuti Roma città aperta e gli altri titoli che conosciamo. In Kaiser-Blüth, Das Jahr 0.., cit., Rossellini afferma: «Vede, non sono uno che fa politica, e ho sempre rifiutato di essere lo strumento di una qualsiasi propaganda, ma le dico con sincerità che sono un uomo di sinistra, e intendo questo con tutte le conseguenze che ne derivano» (p. 182); in precedenza, l’intervistatore aveva scritto che Rossellini: «Durante il fascismo si è tenuto in disparte e ha lavorato, per non dover in alcun modo servire il regime nella sua opera violenta di propaganda, a un livello soltanto tecnico, ma comunque nel campo del cinema» (p. 181). Anche qualche anno più tardi, in R. Rossellini, Dix ans de cinéma, «Cahiers du cinéma», n. 50, agosto-settembre 1955; n. 52, novembre 1955; n. 55, gennaio 1956 (trad. it. Il mio dopoguerra, «Cinema Nuovo», n. 70, anno IV, 10

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novembre 1955, p. 346; n. 72, anno IV, 10 dicembre 1955; n. 77, anno V, 25 febbraio 1956), Rossellini stende un bilancio della propria opera senza risalire più indietro di Roma città aperta. Si veda in proposito E. Seknadje-Askénazi, Roberto Rossellini et la Seconde Guerre mondiale. Un cinéaste entre propagande et réalisme, L’Harmattan, Paris, 2000. E si consideri che, probabilmente, all’estero nell’immediato dopoguerra era più semplice per Rossellini essere evasivo. 24. Che però in precedenza aveva dichiarato di aver fatto «debuttare» sul grande schermo, poiché a suo dire prima di Roma città aperta Anna Magnani «nel cinema era stata solo utilizzata come una figurante intelligente», Rossellini in Sadoul, Su Roma città aperta e Paisà, cit., p. 51. 25. R. Rossellini, M. Verdone, Colloquio sul neorealismo, cit., p. 86. 26. Ivi. 27. Si veda anche, verso la fine dell’intervista, l’affermazione (attribuita a Rossellini) secondo cui la civiltà italiana si è salvata dai disastri della guerra proprio per la sua concezione cattolica della vita, in quanto: «Il cristianesimo non dipinge tutto come buono e perfetto: esso riconosce gli errori e il peccato, ma ammette anche che c’è una possibilità di salvarsi. È dalla parte avversa che non si ammette che l’uomo infallibile, coerente e perfetto. Ed è ciò che mi pare mostruoso e senza senso» (Ibidem, p. 94), dove la «parte avversa», ovvero il materialismo riconducibile all’ideologia comunista, è tale politicamente per la Democrazia Cristiana. 28. R. Rossellini, M. Verdone, Colloquio sul neorealismo, cit., p. 85. 29. Ivi, p. 86. 30. Ivi, pp. 86-7. 31. Ivi, p. 90. Rossellini usa la definizione «cupo realismo» anche nel press book del distributore americano di Germania anno zero (Distributing Film Corporation, 1949), ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Su “Germania anno zero” (p. 62). 32. Cfr. R. Rossellini, Due parole sul neorealismo, «Retrospettive», n. 4, aprile 1953. 33. Degna di menzione è la longevità del sostegno di Gian Luigi Rondi, che ancora nel 1976 appronta un’intervista intitolata Il neorealismo di Roberto Rossellini, distribuita in occasione degli Incontri Internazionali del cinema di Napoli. Per i modi e i contesti in cui questo sostegno ebbe inizio cfr. E. Dagrada, Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, Led, Milano, 2005; e Id., Quanto la critica si divise, cit. 34. Per spiegare «il suo metodo» e contemporaneamente ridimensionare il mito della sua improvvisazione, aggiunge l’attenzione al ritmo che forza a mantenere uno stato di tensione il cui obiettivo è produrre un finale «inatteso e brutale», Rossellini in Non sono il padre del neorealismo, cit., p. 109. Non a caso, torna sul tema ridimensionando anche il suo rifiuto della sceneggiatura in Entretien avec Roberto Rossellini, a cura di M. Schérer [E. Rohmer] e F. Truffaut, «Cahiers du cinéma», n. 37, luglio 1954 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Intervista con i «Cahiers du cinéma», I).

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35. Ivi, p. 111. 36. Ivi, p. 112. 37. Ivi, p. 113. 38. Ivi, p. 114. 39. Ivi, p. 121. 40. Rossellini, Il mio dopoguerra, cit., p. 345. Non è un caso che sia «Cinema Nuovo» a pubblicare la traduzione italiana di questo bilancio rosselliniano, scritto quando l’investitura cattolica del regista è in stallo. Il testo è preceduto da un’introduzione non firmata che si conclude con parole cariche di aspettative: «Accettiamo dunque questi ricordi come un documento della personalità non comune di Roberto Rossellini, un uomo da cui il cinema ha diritto e motivo di attendersi ancora moltissimo» (p. 345). 41. Ivi, p. 346. 42. Ibidem. 43. Ivi, p. 425. 44. R. Rossellini, Prefazione a B. Rondi, Il neorealismo italiano, Guanda, Parma, 1956 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Neorealismo e Kitsch, p. 125). Testo scritto in forma di lettera e datato 19 dicembre 1955. 45. Ivi, p. 126. 46. Aggiunge, infatti: «Il neorealismo ha soprattutto valore come denuncia dei bisogni morali, spirituali, materiali dell’uomo. È un mezzo per sollecitare le coscienze e per mostrare i problemi. È importante soprattutto oggi in un mondo affannato alla ricerca di soluzioni, e dove tutto è possibile», Ivi, p. 125. 47. Ivi, p. 126. 48. Ibidem. 49. R. Rossellini, Quasi un’autobiografia, a cura di S. Roncoroni, Mondadori, Milano, 1987, p. 125. 50. Entretien avec Roberto Rossellini, a cura di F. Hoveyda e J. Rivette, «Cahiers du cinéma», n. 94, aprile 1959 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Intervista con i «Cahiers du cinéma», II, p. 177). Si noti che quando Rivette, nel 1962, cura il quarto volume degli scritti di André Bazin, dedicato al neorealismo italiano, come immagine di copertina sceglie Viaggio in Italia – non Roma città aperta o Paisà. Cfr. A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, IV. Une esthétique de la Réalité: le néo.réalisme, Cerf, Paris, 1962. 51. Roberto Rossellini vous avez la parole!, «Filmklub-Cinéclub», ottobre 1958 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Contro il cinema ufficiale, p. 144). 52. «Dal punto di vista puramente stilistico ho fatto delle ricerche, perché non credo occorra essere così maniaci da rimanere attaccati a esperienze già fatte. No, ci si può benissimo muovere liberamente e [...] essere [...] coerenti e conseguenti con se stessi [...]. Prendiamo per esempio un film molto tipico: Una voce umana. [...] C’è sicuramente nel cinema un aspetto “microscopico” che viene utilizzato. Si può portare fino in fondo questa

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esperienza. Esperienza che è stata per me valida perché poi ho potuto fare e trattare dei personaggi in un certo modo, perché avevo approfondito questa esperienza, questa ricerca, fino all’estremo», Ibidem, p. 145. Qualche tempo dopo Rossellini afferma: «Il solo scopo valido del cinema, il solo che secondo me è degno di un vero regista, è la ricerca. [...] È in questo ultimo senso che si è sempre orientata la mia attività. Non ho fatto altro, da Roma città aperta, che perseverare in uno sforzo cosciente e determinato, per cercare di capire il mondo in cui vivo, mantenendo un atteggiamento umile di fronte ai fatti, alla storia», intervista realizzata dall’ORTF nell’ambito dell’Università radiofonica internazionale e pubblicata senza titolo in «La table ronde», maggio 1960 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Da Roma città aperta a India. Conversazioni radiofoniche, p. 191). Si noti che anche qui Rossellini «comincia» da Roma città aperta... 53. Roberto Rossellini vous avez la parole!, cit., p. 144. 54. Rossellini in Rossellini 59: Le pays des hommes-drapés vu par un homme cousu, a cura di F. Tranchant e J.M. Vérité, «Cinéma 59», n. 36, maggio 1959 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Uomini drappeggiati e uomini cuciti, p. 187). 55. Roberto Rossellini: Il neorealismo è morto ucciso dalla politica, dai tabù e dalle mode (risposta a un questionario con una premessa e una conclusione di G. Biraghi, «Il Messaggero», 29 luglio 1960, ora parzialmente in R. Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Il neorealismo è morto, p. 230). Si veda anche Da Roma città aperta a India. Conversazioni televisive [probabilmente registrate a Roma nel 1962 per l’ORTF e mai andate in onda], in Rossellini, Il mio metodo, cit., dove Rossellini afferma che «l’idea» era «soprattutto di fare un atto di onestà [...]. Da questo è venuto il bisogno di ciò che viene chiamato neorealismo [...] l’importante era dare uno sguardo serio, grave, sulle cose che ci circondavano» (p. 196). 56. R. Rossellini, L’uomo d’oggi: servo o padrone del cinema?, «L’Europa letteraria», a. II, nn. 9-10, giugno-agosto 1961, p. 201. Un testo simile è stato presentato da Rossellini a Milano il 1° luglio 1961 durante la Tavola rotonda sul cinema italiano organizzata dalla Titanus, poi pubblicato con il titolo Un nuovo corso per il cinema italiano in «Cinema Nuovo», n. 152, luglio-agosto 1961 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo I mezzi audiovisivi e l’uomo della civiltà scientifica e industriale). Con quest’ultimo titolo Rossellini ha pubblicato anche un opuscolo presso la Tipografia Sicca, Roma, 1961, dove sono anticipati diversi temi presenti in R. Rossellini, Utopia Autopsia 1010, Armando, Roma, 1974. 57. Cfr. Roberto Rossellini: Le général escroc et héros, a cura di J. Douchet, «Arts», n. 739, 9 settembre 1959 (trad. it. in Rossellini, Il mio metodo, cit.). 58. Cfr. Rossellini: peut être le plus conventionnel de mes films..., a cura di Y. Baby, «Le Monde», 21 novembre 1959. 59. «Posso dire qualcosa, io che sono un regista neorealista? Che cosa ci ha allontanato dal neorealismo? Il fatto che, a un certo momento i neorealisti hanno voluto delle regole. Se voi uscivate dalle regole eravate un mascalzone. Questa è la forza della “nouvelle vague”: che non ha regole fisse, che non le chiede. [...] noi, invece, abbiamo ucciso quel che era vitale facendolo diventare conformista», Rossellini in Papa Rossellini e il primo concistoro

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della “Nouvelle Vague”, «Schermi», n. 19, dicembre 1959 (ora in Rosselini, Il mio metodo, cit., con il titolo Convegno sul nuovo cinema, Venezia 1959, p. 218). 60. R. Rossellini, L'intelligenza del presente, in Id., La trilogia della guerra, a cura di S. Roncoroni, Cappelli, Bologna 1972 (ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., pp. 402-403). Si noti che anche quando accade che torni a rifiutare l'etichetta «neorealismo», ne descrive il significato usando la propria concezione; intervistato per i «Cahiers» nel 1966, gli viene chiesto se la pazienza, l’attesa, siano per lui il neorealismo e Rossellini risponde: «A me le classificazioni non piacciono molto, perché servono a dimenticare quello che contengono. Che cos'é importante? Scoprire gli uomini così come sono. È la cosa più emozionante del mondo. Dunque, partire senza nessuna idea preconcetta», Roberto Rossellini: La prise du pouvoir par Louis xiv, a cura di J. Collet e C.J. Philippe, «Cahiers du cinéma», 183, ottobre 1966 (tr. it. Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Intervista con i «Cahiers du cinéma», p. 363. 61. André Bazin in Cinéma et Télévision. Un entretien d’André Bazin avec Jean Renoir et Roberto Rossellini, «France Observateur», 4 luglio 1958 (trad. it. in «Cinema Nuovo», n. 136, novembre-dicembre 1958, con il titolo Il nostro incontro con la TV; ora in Rossellini, Il mio metodo, cit., con il titolo Cinema e televisione. Incontro con Renoir e Rossellini, p. 165). 62. Cfr. La dernière utopie: la télévision selon Rossellini, film di J.L. Comolli, 2005; cfr. anche R. Rossellini, La télévision comme utopie, a cura di A. Aprà, Cahiers du cinémaLouvre, Paris, 2001.

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Il neorealismo e la mancata democrazia culturale di massa Gianni Canova Al termine di un convegno giustamente celebrativo, io mi sono ritagliato il ruolo di chi prova – forse anche necessariamente, lasciatemelo dire – a buttare là qualche dubbio. A riaprire qualche questione. A porre qualche domanda che vada oltre una rivisitazione puramente apologetica e uniformemente encomiastica del neorealismo. Per provare a farlo, mi riallaccio a un testo dei primi anni Settanta che resta un modello quasi unico e propone un approccio metodologico purtroppo isolato negli studi sul cinema nel nostro paese. Mi riferisco a Cinema e pubblico di Vittorio Spinazzola1: uno dei pochi studi che, utilizzando in maniera intelligente e pionieristica la sociologia dei consumi, abbia provato a investigare il cinema italiano non dal punto di vista degli autori o dei produttori, ma dal punto di vista dei consumatori, sondando la capacità del cinema stesso di aggregare pubblici e di costruire comunità a partire dalla proposta di forme di intrattenimento finzionale che fossero in grado di contribuire alla formazione di identità condivise. La domanda che mi pongo, sulla scorta delle suggestioni ricavate dalla rilettura di Cinema e pubblico, è molto semplice e diretta: il neorealismo ha contribuito o no a vincere la sfida epocale che l’Italia aveva di fronte dopo la fine della seconda guerra mondiale? Detto in altri termini: ha favorito o ha ostacolato la formazione di una democrazia culturale di massa? Perché questo era ed è il problema. Questa la sfida, soprattutto in un paese dalla tradizione culturale elitaria e aristocratica come la nostra, in cui l’avvento dei media precede – invece di seguire, come accade in buona parte degli altri paesi europei – i processi di scolarizzazione e di alfabetizzazione di massa. La risposta che mi sento di dare, anche al termine di questo convegno, è purtroppo negativa. Spinazzola lo intuiva con grande lucidità già quarant’anni fa. La tesi di Spinazzola, che pure guarda al movimento «da sinistra», dall’interno del Partito comunista, a partire da un condivisione convinta delle estetiche e delle poetiche del movimento, è molto netta ed esplicita: l’equivoco su cui si reggeva il neorealismo – scrive Spinazzola – sta nel fatto che «progettava

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di rivolgersi ai ceti subalterni, ma trovava gli interlocutori elettivi solo nell’ala radicale dell’intellettualità borghese»2 . Ma Spinazzola non si ferma qui. Aggiunge infatti che «il fallimento dell’operazione neorealista avviene proprio nel suo punto programmatico più ambizioso e delicato: la volontà di indurre un mutamento radicale nei rapporti fra cinema e pubblico, quali si esplicano negli spettacoli strutturati industrialmente»3. Il neorealismo non avrebbe saputo cioè fornire una risposta adeguata al quesito che i nostri migliori registi si erano proposti alla caduta del fascismo: «inventare un nuovo linguaggio cinematografico, che il pubblico di massa fosse in grado di intendere e da cui potesse trarre un contributo ad acquistare miglior consapevolezza del proprio essere, sociale e culturale»4. Il neorealismo avrebbe eluso la questione del pubblico. Questione rimossa. Questione perfino esorcizzata con fastidio dall’aristocraticismo di un Visconti, e dal suo rifiuto pregiudiziale di instaurare qualsiasi forma di dialogo con il pubblico di massa. Si fanno film sul popolo, ma non film per il popolo. I film per il popolo – con poche, lodevoli eccezioni, a cominciare da Riso amaro di Giuseppe De Santis – si lascia che siano altri a farli. Gli autori cercano soprattutto il consenso dei loro pari. È un atteggiamento che sopravvive ancora oggi e che ha molti più seguaci di quanto possa sembrare. Posso azzardare che un film come Sacro Gra di Gianfranco Rosi è l’ultimo epigono di questo equivoco? E che la decisione di fagli vincere il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013 – sapendo che non avrebbe contribuito neanche un millimetro a far crescere la democrazia filmica e il pubblico del cinema – risponde più al desiderio narcisistico di una giuria di stupire, di épater le bourgeois, che alla volontà – di nuovo – di porsi il problema della costruzione del pubblico e dei pubblici? È questa la contraddizione che dobbiamo affrontare oggi, credo, se vogliamo davvero fare i conti con il neorealsimo. Perché è in essa che il movimento ha bruciato gran parte delle sue energie creative. E se nascesse da qui il male oscuro del cinema italiano? La sua incapacità di essere al contempo colto e popolare, come sa essere il cinema in Francia, o in Inghilterra? Il neorealismo incarna il paradosso di un movimento che legittima gli intellettuali a fare film per loro stessi,offrendo alla loro coscienza infelice l’alibi di aver affrontato comunque temi socialmente importanti, e sentendosi in ogni caso dalla parte giusta. La demonizzazione del successo e del mercato, ancora oggi così radicata nel sentire comune

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e tra gli intellettuali «progressisti» del nostro paese, non ha una buona parte delle proprie radici abbarbicate proprio nel neorealismo? O nella mitologia neorealista? Perché che ci sia una mitologia neorealista è ormai assodato e condiviso. E come tutte le mitologie anche quella neorealista si fonda su favole o leggende. La leggenda del basso costo ad esempio. Carlo Lizzani – che pure del movimento era stato una delle voci più interessanti – lo intuiva con acuta capacità autocritica già all’inizio degli anni Sessanta, quando scriveva che non c’è un solo film del movimento neorealista che non sia stato prodotto a prezzi industriali e secondo schemi produttivi normali, o addirittura di economia allegra5. E ciò vale anche per le esperienze di produzione indipendente, effettuate con il finanziamento di organismi democratici, non speculativi, come l’Anpi o le cooperative. Su questo punto c’è ormai una copiosa letteratura, molto opportunamente richiamata nel bel libro di Paolo Noto e di Francesco Pitassio sul cinema neorealista6. Scrivono ad esempio Conforti e Massironi: «la produzione dei film neorealisti è abitualmente costosa quanto quella dei film realizzati interamente negli studios»7. Come dire: il neorealismo sta nel mercato quando si tratta di acquisire i fondi produttivi, ma lo guarda con fastidio quando si tratta di far tornare i conti. E di portare al cinema il popolo. Che è – di nuovo – uno dei problemi del cinema italiano di oggi. Le colpe o i limiti del neorealismo sono insomma le nostre colpe e i nostri limiti. Ad esempio – l’ha ben evidenziato Barbara Corsi – la colpa di aver operato una «rimozione totale della natura materiale del cinema», e di aver eluso «l’analisi dei problemi della struttura economica a vantaggio di una riflessione tutta impostata sulla discriminante qualitativa»8. Oppure il limite di inadeguatezza culturale che denuncia Alberto Abruzzese quando parla della «mancata consapevolezza mediologica da parte di intellettuali non ancora in grado di calarsi nei panni di organizzatori del consenso popolare»9. Spesso, quando abbiamo parlato del neorealismo, abbiamo accettato di confrontarci con la sua natura mitica invece che con la sua sostanza storica oggettiva. Ma anche entrando nella sua natura mitica, o nell’autorappresentazione che esso dà di se stesso, mi chiedo: la fame neorealista di realtà non rischia di sfociare in un’identificazione irrazionalistica di arte e vita? Magari in una relazione rovesciata, cioè nell’assunzione della vita come forma immediata di arte?

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E la critica viscontiana alla società dello spettacolo – espressa con diamantina evidenza in un film come Bellissima – non rischia di diventare un pamphlet contro l’industria culturale tout court? Non passano per il neorealismo alcuni nodi irrisolti del nostro rapporto con la modernità? Ma al fondo di tutto – sempre ricorrente, perennemente révenant – c’è un fantasma. Che è al tempo stesso un mito e un equivoco. Quello del cosiddetto cinema del reale. La formula – nobile ancorché talora abusata e fraintesa – spesso nasconde la rimozione dell’idea stessa di cinema come rappresentazione. Eppure Zavattini diceva che storicamente l’uomo si è accorto della realtà solo quando l’ha rappresentata. A Zavattini interessavano i «fatti banali» di ogni giorno, sospesi nella loro indeterminatezza di senso, e non lo sfiorava neppure l’idea di trasformare il banale in eccezionale. Scriveva infatti in un lucido intervento dei primi anni Cinquanta: «Per spettacolo bisogna decidersi a intendere non l’eccezionale ma il normale […]. Si tratta di impegnare una lotta contro l’eccezionale e di cogliere la vita nell’atto stesso in cui la viviamo, nella sua maggiore quotidianità»10. Oggi, invece, la fame del reale sfocia in una ricerca spasmodica del marginale, dell’eccentrico, del bizzarro, del freak. Sacro Gra di Rosi, di nuovo, è paradigmatico nel suo fingere un culto del reale che nasconde o dissimula la sua voglia di messinscena, la sua urgenza di rappresentazione. Forse, la colpa più grave del neorealismo, il suo peccato originale, è proprio qui: nel farci sentire come una colpa la voglia di finzione. Per inciso: negli anni Settanta Vittorio Spinazzola sceglieva per la copertina di Cinema e pubblico edito da Bompiani un’immagine di Totò11. Con in mano una pistola.

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Note 1. V. Spinazzola, Cinema e pubblco, Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano, 1974. 2. Ivi, p. 12. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 13. 5. C. Lizzani, Cinema e industria del film, in «Il Contemporaneo», VIII, n. 37, giugno 1961. 6. P. Noto e F. Pitassio, Il cinema neorealista, Archetipolibri, Bologna, 2010. 7. M. Conforti e G. Massironi, Il modo di produzione del neorealismo, in L. Micciché (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia, 1975, p. 49. 8. B. Corsi, Con qualche dollaro in meno, Editori Riuniti, Roma, 2001, pp. 55-56. 9. A. Abruzzese, Per una nuova definizione del rapporto politica-cultura, in L. Micciché (a cura di), op. cit. 10. C. Zavattini, Alcune idee sul cinema italiano, in «Rivista del cinema italiano», I, 2, dicembre 1952. 11. Per la precisione, un’immagine tratta dal film Totò le Moko (1949) di C. L. Bragaglia.

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Neorealismo, italianità e storia sociale del cinema Andrea Minuz Ricordo con piacere i film dell’immediato dopoguerra perché mi ricordano il clima di allora. Erano film fatti molto bene perché ancora oggi, rivedendoli, mantengono intatta la loro validità e ritengo che sia bene che i giovani li vedano per conoscere l’epoca in cui hanno vissuto i loro padri. Tra i film che ricordo con piacere, Roma città aperta, Ladri di biciclette e, se mi è permesso, anche Totò al giro d’Italia Gino Bartali

1. Introduzione «La dolce vita, il neorealismo, la grande commedia anni Sessanta, la cucina italiana…». È l’incipit di Guardiamo avanti, recente campagna pubblicitaria di Enel costruita attorno a una parata di immagini che evocano i successi del Paese negli anni della ricostruzione, il nostro patrimonio culturale, le nostre radici. Lo spot snocciola un elenco di motivi d’orgoglio dell’italianità, salvo poi invitarci a smetterla coi rimpianti e il culto del passato per ritrovare invece lo slancio a «costruire qualcosa di cui essere di nuovo fieri». «Per questo», come sentenzia la rima lapidaria in chiusura, «non serve la nostalgia, serve l’energia». Non importa che nell’elenco il neorealismo venga dopo La dolce vita, o che agli occhi di un critico cinematografico esso sia l’antitesi del film di Fellini, tanto più della sua trasformazione in «brand». Quel che conta è la sua presenza tra i segni dell’identità, del carattere e degli stereotipi nazionali; un neorealismo associato a «gli spaghetti al dente, il tramonto sulla costiera, i giganti della moda, la notte del Bernabeu, le invenzioni di Leonardo». Ma anche un neorealismo che, al pari di molti altri oggetti evocati, è parte di quella insidiosa trappola di nostalgie e rimpianti per tutto ciò che fu e che non potrà più essere. La complessa relazione tra «italianità» e «neorealismo» è il tema che af-

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fronterò in questo breve contributo. Trattandosi di un campo assai vasto, dirò subito che mi interessano in particolare due aspetti. Da un lato, le funzioni tattiche dell’immagine neorealista nell’ideologia italiana e le dispersioni dei suoi segni in contesti molto diversi tra loro. Dall’altro, il posto che il neorealismo occupa oggi nella cultura degli italiani e, in modo particolare, quel che del neorealismo sanno i cosiddetti «nativi digitali», coloro cioè nati nei primi anni Novanta del secolo scorso. Per far questo, nella seconda parte dell’articolo presenterò i primi, provvisori risultati di un progetto in corso che si muove nel quadro delle ricerche di storia sociale del cinema.

2. Neorealismo e italianità «I film del dopoguerra appaiono fortemente segnati dalla nozione di italianità, vista come amalgama tutt’altro che omogeneo di particolarismi locali»1. Come ricorda Stefania Parigi nel suo recente studio sul «nuovo cinema del dopoguerra», l’italianità è uno dei nodi centrali del neorealismo nonché dei fiumi di letteratura critica cui ha dato origine. La cosiddetta «scoperta dell’Italia», ovvero l’uso inedito di paesaggi, volti e dialetti esclusi dalla rappresentazione ufficiale durante gli anni del fascismo, diventa il comune denominatore di film diversi tra loro ma legati da un comune sentimento di rinascita collettiva. Ci troviamo però di fronte anche a una riscrittura dell’idea di italianità. Una nozione non più costruita attorno al mito della patria, del Duce e dell’impero romano (quest’ultimo evocato anche nello spot «Enel»), ma sull’idea di riscatto nazionale. «Con Roma città aperta», come recita un noto adagio godardiano, «l’Italia ha riconquistato il diritto di guardarsi in faccia». Come tutti i miti di rifondazione, non si tratta di un inedito quanto di un amalgama in cui archetipi e stereotipie consolidate si fondono con la necessità di una repentina trasformazione del Paese in una democrazia decisiva per il Patto Atlantico. Attorno all’idea del riscatto, insomma, non c’è solo il mito fondativo di una resistenza unitaria, già notato a suo tempo da Bazin e riletto molti anni dopo da David Forgacs in chiave meno epica e più critica. Sul mito di Roma città aperta, della sua celeberrima avventura produttiva e del suo successo internazionale, si consolida anche lo stereotipo di un popolo che dà il meglio di sé solo nei momenti di maggior difficoltà.

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Che riesce a costruire un capolavoro cinematografico tra le macerie, senza un’industria alle spalle, con la pellicola usata e «le scarpe rotte». Il mito della proverbiale creatività e ingegnosità italiana attraversa i secoli, salta a piè pari la «parentesi» del fascismo e si salda a un’epica della povertà, della semplicità, dell’immediatezza e della denuncia sociale. È un’epica che attraversa forme e generi assai diversi tra loro, dal cinema d’impegno a quello più popolare, per arrivare più o meno intatta ai successi festivalieri di film come Sacro GRA o Le meraviglie. Non è certo un caso che la prima consacrazione di Roma città aperta si consolidi soprattutto all’estero: «[Roma città aperta] ha la semplicità, l’immediatezza e la franchezza di tutti i grandi capolavori, e non riesco a ricordare alcun film di qualsivoglia paese che sia riuscito a cogliere con tanta abilità la dolorosa forza di un popolo in una lotta serrata e indomita per la libertà»2. Semplicità, immediatezza, franchezza. È un’italianità condivisibile in chiave internazionale. Un’italianità diversa da quella evocata da Alessandro Blasetti che, all’indomani del successo del film, si opponeva alle nascenti coproduzioni internazionali, richiamandosi all’arte nei suoi accenti idealistici e crociani, non agli imperativi etici e alla semplicità, lasciando altresì trasparire ancora l’eco della retorica nazionalista (se non razzista): «Il successo planetario di Roma città aperta si deve al suo carattere integralmente italiano che lo differenzia da tutta la produzione mondiale. Contaminare il carattere italiano del nostro film vuol dire rinunciare all’unico, grande elemento di interesse e successo artistico e commerciale che il nostro cinema può avere nel mondo»3. Evocato come un’identità produttiva, il «carattere italiano» si apriva nel frattempo a un’idea di italianità scevra da connotazioni nazionalistiche che ben presto avrebbe fatto a meno anche degli slanci utopici e etici della cultura neorealista. Considerando la cultura visiva, e in particolare guardando al fotogiornalismo italiano del primo dopoguerra, emerge con forza la progressiva industrializzazione dell’immagine neorealista nella sua fusione di «impegno civile» «documentazione immediata» e «pittoresco». È il caso dei cosiddetti «fototesti», già diffusi negli anni Trenta e rilanciati con forza nei rotocalchi e nelle riviste illustrate del primo dopoguerra, sollecitando ora anche l’invio di fotografie da parte dei lettori. Come la rivista «Tempo», ad esempio, che assumerà il nome di «Tempo nuovo» mantenendo la precedente direzione

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artistica di Bruno Munari, ma utilizzando ora numerose immagini provenienti da agenzie italiane e straniere: I grandi temi (e drammi) della società furono gradualmente ridotti a una serie di immagini stereotipate (borsa nera, trasporti irregolari, baraccopoli, rivolte carcerarie, mense popolari e case di tolleranza) che avevano sempre più a che vedere con il pittoresco o lo scandalistico e sempre meno con le tematiche di denuncia […] Queste immagini rappresentavano un neorealismo «scatta e fuggi», destinato alla grande distribuzione, e apparivano come «rubate» dai fototesti più seri e impegnati che circolavano in quegli stessi anni […] Del resto, già a fine anni Quaranta, con la pubblicazione delle immagini degli incontri clandestini di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman durante le riprese di Stromboli, firmate da Patellani e Sorrentino, si registrò un primo cedimento a quel fotogiornalismo scandalistico che nel decennio successivo si sarebbe trasformato in «paparazzismo»4.

L’immaginario neorealista si apriva insomma alle forme del «paparazzismo», molti anni prima di fare da sfondo alle pubblicità di «Dolce&Gabbana» (lo vedremo meglio tra poco). D’altro canto non solo l’immagine, ma anche la nuova drammaturgia neorealista forniva le regole alle modalità di racconto della nuova italianità repubblicana. È il caso del primo numero di «Epoca», il settimanale illustrato della Mondadori, che ha in copertina il viso sorridente di una ragazza qualunque, presa fra le tante giovani commesse milanesi. Viene presentata ai lettori come «Liliana, ragazza italiana», e diventa il simbolo della gente comune, cui nella vita non succede nulla di eccezionale, solo una catena di fatti legati alla sua vita quotidiana (quasi seguendo alla lettera la celebre utopia zavattiniana). Nelle pagine interne viene raccontata, con foto e un ampio servizio, la gita domenicale di Liliana e del suo ragazzo. Da Milano a Como e poi, in battello, sino a Bellagio, la perla del Lario. Liliana è descritta così: «Liliana ha quello che fa. Ha cioè solo e tutto ciò che in ogni minuto della sua esistenza ella compie […] Liliana simboleggia la vitalità, la gentilezza, la semplicità…tutti attributi più durevoli della bellezza»5.

3. Dai «panni sporchi» a Dolce&Gabbana «Leonardo potrebbe essere definito un pittore neorealista». Così nell’incipit del documentario del 2013, Il neorealismo: Non eravamo solo ladri di bi-

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ciclette, diretto da Gianni Bozzacchi in collaborazione con Carlo Lizzani. «Il docu-film», leggiamo nella presentazione, «rievoca i tempi di questo grande movimento cinematografico e dei suoi principali esponenti quali: Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni; a testimonianza del grande periodo storico in cui il cinema italiano ha formato il linguaggio del cinema mondiale e che resta, tuttora, di grande attualità». Presentato in numerosi Festival, inclusa la mostra del cinema di Venezia, il lavoro di Bozzacchi mobilita varie piattaforme (Facebook, Twitter, Pinterest) per costruire un’opera multimediale di divulgazione didattica, dal carattere istituzionale e celebrativo. Il racconto del neorealismo affidato a Carlo Lizzani si sviluppa sulla scia della sua Storia del cinema italiano pubblicata nel 1961. L’aspetto più interessante ai fini del nostro discorso è invece la sua inscrizione dentro un’idea trans-storica di italianità. Il neorealismo cioè non è solo quella tendenza culturale volta a significare l’intero patrimonio del cinema italiano, secondo un ingombrante canone storiografico consolidatosi negli anni Sessanta. Esso diventa parte di una sorta di via italiana all’umanesimo che inizia con il Rinascimento, Leonardo, Galileo e arriva a Rossellini e De Sica. Alla semplicità e all’immediatezza si aggiunge insomma il grande patrimonio dell’arte e della creatività italiane. Tale sovrapposizione tra immaginario neorealista e «Made in Italy» trova oggi nel campo della moda una della sue applicazioni più riuscite e interessanti. Le pubblicità di Dolce & Gabbana con Monica Bellucci e Bianca Balti in mezzo a famiglie di pescatori come nella versione glamour di un’inquadratura de La terra trema sono solo l’aspetto più noto di un’appropriazione che ora si estende anche alla drammaturgia della passerella, con i cosiddetti «modelli presi dalla strada». Per le sfilate della collezione 2013, i due stilisti hanno utilizzato comparse selezionate dopo mesi di ricerca tra le province di Catania, Messina e Taormina: […] Via le colonne sonore urlate, via i modelli professionisti: una orchestrina siciliana e un cast di uomini siciliani, reclutati a Taormina, di tutte le età, dai sette ai quarant’anni. E una scenografia che si vuole semplice (un giardino con le piante di fichi d’India) ma che racconta molto di più di questa semplicità. Racconta di un’Italia autentica che si manifesta attraverso la sicilianità […]Un popolo, una civiltà vissuta e scolpita dalla fatica, dalla terra, dalle origini storico culturali, tutti sulle passerelle di Milano come dei veri e propri attori presi dal popolo, senza aspettative ma con estrema consapevolezza di sapere cosa fare e come fare. L’obiettivo della sfilata era quello di creare un contesto di moda reale ed autentico realizzato da uomini veri, nulla di artefatto6.

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Ai valori dell’autenticità e dell’immediatezza, già celebrati ai tempi di Roma città aperta, Dolce & Gabbana aggiungono quelli della famiglia. Il progetto «The Family» è una sorta di archivio globale di foto di famiglia, composto da chiunque voglia inviare le proprie immagini. Immagini che – dice il testo di presentazione – «possono ritrarre la famiglia in tutte le sue diverse forme, tra le generazioni di oggi e quelle di ieri, fondamentale, però, è che le immagini ricordino le recenti campagne di pubblicità del marchio in termini di atteggiamento, pose, ambientazioni». Il motivo della famiglia ritorna curiosamente anche nello «spot neorealista» (così lanciato dalla stampa) dello stilista Rocco Barocco: «Ho voluto questa campagna per ritrovare il senso della famiglia, i valori umani, qualcosa che sia veramente reale»7. Assieme alla semplicità, all’immediatezza, alla creatività, la famiglia completa così il quadro di una riscrittura dell’immaginario neorealista nel segno dell’italianità da esportazione.

4.Vacanze romane Tramutato in «mito fondativo» e sinonimo di «Made in Italy», il neorealismo sembrerebbe automaticamente convertito in capitale culturale condiviso. «Tutti in Italia hanno un po’ di competenza passiva su questa pagina gloriosa della cultura italiana», affermava nel 1989 Alberto Farassino nel catalogo di una importante rassegna dedicata al neorealismo8. Misurare la portata effettiva di quella «competenza passiva» potrebbe essere un buon punto di partenza per cercare di comprendere il posto effettivo che il neorealismo occupa nella cultura degli italiani. Se da un lato l’evocazione del termine «neorealismo» nello spazio pubblico fa scattare sull’attenti, con l’inno nazionale e le fasce tricolori al petto, dall’altro ciò avviene in un Paese dove la storia del cinema è ancora estromessa dai programmi scolastici istituzionali. A partire da queste premesse, una prima ricerca è stata condotta attraverso un questionario distribuito agli studenti dell’ultimo anno di scuola (età 17-18) tra licei, istituti tecnici e professionali del territorio nazionale a partire dai primi mesi del 2014. La scelta del target riguarda dunque i cosiddetti «nativi digitali», ovvero ragazzi nati a metà degli anni Novanta, cresciuti in una cultura globale e il cui incontro col cinema avviene per lo più in rete nel formato delle sequenze caricate su YouTube (possiamo già anticipare che per molti di loro, ma anche per non pochi studenti univer-

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sitari dei Dams, la sequenza con la corsa e la morte di Pina in Roma città aperta è archiviata come «il finale del film», seguendo l’automatismo per cui la cui star – Anna Magnani – non può che morire alla fine). Tuttavia, quasi nessuno sembra aver mai sentito parlare del neorealismo sul web – dunque, verosimilmente, nessuno pare aver mai letto una voce su wikipedia, pochi hanno visto sequenze di film neorealisti su YouTube o sapendo che fossero tali. Tutti indicano nella scuola il luogo d’incontro con il neorealismo. Ma si tratta più di Pavese, di Verga e del Calvino dei nidi di ragno che non di De Sica o Rossellini. A conferma di ciò, dovendo indicare per quali oggetti tra film, romanzi e opere d’arte, il neorealismo italiano è famoso in tutto il mondo, per la maggior parte di questi ragazzi film e romanzi si equivalgono. Proprio perché si tratta di una conoscenza acquisita sotto forma di capitale scolastico, risposte come questa invitano a una riflessione sulle conseguenze della vocazione letterariocentrica del nostro sistema educativo. Nonostante il cinema sia stato il principale veicolo della cultura italiana del dopoguerra (pari in questo soltanto alla moda, più che alla letteratura), in molti ritengono che l’affermazione del neorealismo italiano nel mondo si debba ai romanzi. La risposta sembra frutto di quella impalpabile barriera che da noi separa la cultura alta e la cultura popolare, nonché da quell’automatica riverenza sacrale per l’oggetto «libro» che, per quanto confusamente, occupa agli occhi dello studente il posto più alto nella gerarchia degli oggetti culturali da temere. Una risposta che assume aspetti tanto più paradossali se pensiamo che, interrogato sul cosiddetto «neorealismo letterario americano» nel 1950, Cesare Pavese diceva che «ormai questa parola ha oggi un senso soprattutto cinematografico, definisce dei film come Ossessione, Roma città aperta, Ladri di biciclette»10 (ricordando en passant la sua celebre definizione di De Sica come «miglior narratore del dopoguerra»). Nella parte del questionario dedicata ai film si trova un elenco eterogeneo di titoli. Si chiede di indicare i film visti, individuando poi quelli da ascrivere al neorealismo. Abbiamo inserito titoli fuorvianti – Vacanze romane (W. Wyler, 1953), C’eravamo tanto amati (E. Scola, 1974) e La grande bellezza (P. Sorrentino, 2013). In questo modo si può fare un controllo incrociato tra i due elenchi e vedere quali titoli sono considerati «neorealisti», indipendentemente dalla loro visione, interrogando cioè la capacità di accoglienza dell’immaginario neorealista o la sua elasticità.

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Roma città aperta e Ladri di biciclette sono senz’altro tra i titoli più riconosciuti. Ma il dato significativo è un altro. Chi ad esempio non ha mai visto Roma città aperta tende comunque a indicarlo come neorealista, ma pressoché tutti coloro che dicono di aver visto Vacanze romane lo inseriscono poi tra i film neorealisti. È l’effetto della mitologia cinematografica di Roma, o se si preferisce del romanocentrismo del cinema italiano (che ad alcuni suggerisce di inserire La grande bellezza nel neorealismo). Eppure, il neorealismo ha rappresentato nel nostro cinema la riscoperta del paesaggio, l’innesco di una volontà o una necessità di decentramento della produzione cinematografica, poi rientrata con la ripresa dell’industria e il rilancio di Cinecittà. Ma sono sottigliezze. Agli occhi di questi ragazzi, Vacanze romane e Roma città aperta sono due film in bianco e nero, ambientati nel primo dopoguerra, che hanno Roma nel titolo. Tanto basta a renderli intercambiabili. Oltre al questionario, stiamo conducendo nel quadro di una ricerca sulla storia sociale del cinema a Roma una serie di interviste per la costruzione di un archivio di fonti orali (abitudini di consumo, storia e memoria delle sale cinematografiche della città, ricordi legati a film, generi o star specifiche)11. Ascoltando i racconti delle persone anziane e i loro ricordi del cinema del primo dopoguerra, la cifra specifica del neorealismo si perde nella dimensione popolare della sala cinematografica, ma anche in quell’inestricabile intreccio di cronaca e cinema dell’epoca («Quello che mi ha fatto impressione di Roma città aperta, tra le altre cose, è stata la caduta della Magnani mentre correva dietro al camion dove era stato preso prigioniero il suo compagno… e lei è caduta in una maniera così naturale che tu dici “è veramente caduta in quel modo” invece no…era tutta quanta una falsità fotografica, però è stata fenomenale perché sembrava di avercela davanti agli occhi»; o ancora: «Rossellini è partito da Napoli e poi uno dopo l’altro ha attraversato le stesse città che anche gli americani liberavano … erano eventi che toccavano tutti noi, eventi cui assistevamo in diretta»). Altri, sempre parlando di Roma città aperta, rievocano addirittura il rastrellamento del ghetto ebraico della città, evento non raccontato né da Rossellini, né negli altri film italiani del primo dopoguerra). In questo progetto di raccolta di fonti orali sulle memorie del neorealismo, trovano spazio anche le interviste alle fasce più giovani (18-25 anni), divise per zone della città. Anche in quartieri universitari, come San Lorenzo e Pigneto, la maggior parte degli intervistati ammette di non avere

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mai sentito il termine o di non saperne dare una definizione. Alla richiesta di tre titoli neorealisti, tra i film evocati trovano posto Amici miei, Nuovo Cinema Paradiso, La grande bellezza (nominata spesso), ma anche Buñuel e Pulp Fiction.

5. Neorealismo e storia sociale del cinema Nel 1954, il cinema Rialto di Roma organizzò «la settimana di film neorealistici». La rivista di area marxista, «Cinema Nuovo» raccontava con grande entusiasmo il successo dell’iniziativa e l’affluenza del pubblico, traendone come conclusione che le obiezioni da parte dell’industria dello spettacolo al cinema neorealista erano a questo punto esclusivamente di carattere politico e non commerciale12. Il fatto che in una sala cinematografica del centro di Roma, a due passi dal Quirinale, nell’ambito di una rassegna di carattere culturale, un pubblico probabilmente colto e di area progressista fosse andato a vedere vecchi film neorealisti, era per la rivista di Guido Aristarco un dato sufficiente a farne una rappresentazione collettiva del Paese. È da simili errori che ci mette in guardia la cosiddetta «new cinema history», dove la prospettiva dei consumi non si esaurisce con le cifre riportate negli annuari o nel box-office. Attraverso un nuovo orizzonte di dialoghi interdisciplinari (che va dall’uso delle fonti orali, alla storia locale, dall’urbanistica alla geografia culturale, dall’economia alla sociologia dei consumi e all’impiego delle Gis) la new cinema history ci permette di tornare su alcuni temi classici della storia del cinema con uno sguardo inedito 13. Ci aiuta a guardare alla sala cinematografica come a un luogo di scambi sociali, culturali, ideologici, più o meno come abbiamo sempre saputo, ma in un' inedita ottica empirica capace di fondare le proprie considerazioni su numeri e dati provenienti da ricerche eterogenee, in grado di costruire una lettura sistemica dell’esperienza cinematografica. Dopo la celebrazione del neorealismo, la sua trasformazione in monumento nazionale e le cicliche ondate di revisioni critiche – da quelle degli anni Settanta alle più recenti (ma pur sempre interne a una battaglia delle idee) – è dalla storia sociale che a mio avviso possono arrivare i contributi più innovativi. Come ricordava sempre Alberto Farassino nel 1989, «molti

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aspetti della storia del cinema neorealista (al di là della storia dei film, delle istituzioni, degli stili) restano ancora da approfondire e molte storie degli anni del neorealismo restano ancora da raccontare». A cominciare dalle storie di coloro che videro e usarono questi film in modi spesso assai distanti da quelli previsti dal canone storiografico e interpretativo ufficiale.

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Note 1. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014, p. 62 Tra gli studi più recenti sull’idea di «italianità» vedi S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010. 2. J. Foster, Rome of the Resistance, in «New Masses», 19 marzo 1946. Cit. in S. Parigi, Neorealismo, cit., p. 23. 3. A. Blasetti in «Film Rivista», IV, gennaio 1947. 4. A. Russo, Storia culturale della fotografia italiana. Dal neorealismo al postmoderno, Einaudi, Torino, 2011, pp. 57-58. 5. E. A. Naldoni, Liliana, ragazza italiana, «Epoca», I, 14 ottobre 1950, n. I, p. 13. 6. M. Ciavarella, Dolce & Gabbana. Italianità neorealista, «Oggi», 23 giugno 2012 (corsivo mio) http://www.oggi.it/moda/stilisti/2012/06/23/dolce-gabbana-italianita-neorealista. 7. P. Bulbarelli, Lo spot neorealista di Rocco Barocco, «Corriere della sera», 11 dicembre 2012. 8. A. Farassino, Neorealismo, storia e geografia, in Id. (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, EDT, Torino 1989, p. 21. 9. Il sondaggio si trova anche sul sito della rivista dell’Istituto Luce, «8e½». Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano» all’indirizzo http://www.8-mezzo.it/questionario-sul-neorealismo/. Per un commento dei primi risultati rinvio a A. Minuz, Siamo tutti neorealisti? – sondaggio sul posto che occupa il neorealismo nella cultura degli italiani nati negli anni Novanta, in «8e½» n.13, 2014, pp.7810. Da un’intervista di Cesare Pavese alla radio (giugno 1950), cit. in S. Parigi, Neorealismo (cit.), p. 23. 11. Si tratta di un progetto-web avviato con l’Università La Sapienza nel 2014, che coinvolge direttamente gli studenti dei corsi di cinema avvicinandoli in modo pratico ai metodi di ricerca della «new cinema history», allo studio dei luoghi e delle esperienze del consumo cinematografico. I materiali sono consultabili sul sito www.romarcord.com. 12. Cfr. E. Pavesi, Anche il neorealismo è un affare commerciale, «Cinema Nuovo», n. 46, 1954, pp. 295-296. 13. Rimando in estrema sintesi a, Explorations in R. Maltby, D. Biltereyst, P. Meers (eds.), New Cinema History. Approaches and Case Studies, Wiley-Blackwell West-Sussex (UK), 2011. In riferimento alla storia del cinema italiano si veda almeno M. Fanchi, E. Mosconi, Spettatori. Forme di consumo e pubblici in Italia, Marsilio-«Bianco e Nero», Edizioni Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma 2002; F. Casetti, E. Mosconi, Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico (1900-1950), Carocci, Roma 2006. Considerazioni di carattere teorico sul rapporto tra storia del cinema italiano e storia culturale si trovano anche nel recente volume di G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma, 2013. Si segnala infine il progetto di ricerca In search of Italian Cinema Audience in the 1940s and 1950s: Gender, Genre and National Identity, curato dall’Università di Exeter, con analisi statistiche e numerose interviste.

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PARTE IV PENSIERI/FIGURE/DIBATTITI

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Un’arte corale. Il neorealismo e le politiche culturali dei cattolici in Italia: Mario Apollonio e la Scuola di Milano Adriano D’Aloia, Ruggero Eugeni1 1. Il dibattito cattolico sul neorealismo e la questione del cinema nella cultura cattolica del Novecento La storiografia più recente sul rapporto tra cattolici italiani e neorealismo sembra impegnata in un’operazione di allargamento di campo. I singoli interventi (pensiamo per esempio a quelli particolarmente virulenti e ai toni «da crociata» de «La Rivista del Cinematografo» o de «L’Osservatore Romano») vengono riletti sullo sfondo di una rete variegata e complessa di posizioni e interessi dell’istituzione religiosa cattolica nei confronti dell’istituzione cinematografica, che vanno per esempio dagli studi filmologici di padre Agostino Gemelli, Enrico Fulchignoni e altri psicologi sperimentali alle iniziative di promozione del cinema educativo attraverso l’Unesco; dai tentativi produttivi e dalla ricerca di un neorealismo cattolico, fino agli interventi legati all’esercizio (sale parrocchiali, cineforum) e alle politiche culturali. Si tratta di un insieme non propriamente sistematico (e anzi ricco di tensioni interne) ma tuttavia improntato a tendenze e linee culturali riconoscibili2. Un simile campo di tensioni contribuirebbe anche a spiegare il cambio di passo della critica cattolica nei confronti del neorealismo, che può essere simbolicamente collocato proprio in relazione al Convegno di Parma del 1953. Un simile approccio implica due conseguenze. In primo luogo il rapporto dei cattolici con il neorealismo funziona da cartina al tornasole di una relazione di più ampio respiro tra cultura cattolica e fatto cinematografico o filmico. Da un lato il dibattito porta infatti alla luce un certo modo di guardare al cinema che privilegia di gran lunga l’aspetto di medium rispetto a quello di oggetto artistico – segno di una complessiva carenza circa una riflessione sull’esperienza estetica in ambito cattolico. Dall’altro lato la discussione evidenzia una certa concezione di spettatore, visto più come un soggetto passivo e manipolabile che come attivo protagonista della visione del film e dell’organizzazione di attività culturali collegate – spia di una cultura organizzativa gerarchica e verticalizzata, incapace di cogliere e va-

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lorizzare le spinte dal basso del popolo cattolico. In definitiva le posizioni cattoliche più diffuse rispetto al neorealismo (per esempio il rifiuto di una estetica realistica, la preoccupazione di un controllo sui contenuti politici e così via) pagano il prezzo del difficile rapporto tra cultura cattolica e modernità. In secondo luogo, l’allargamento di orizzonte della storiografia recente porta alla ribalta una serie di posizioni culturali laterali o minoritarie che pure cercarono di porre con lucidità e fondatezza quella serie di problemi legati al cinema e al rapporto tra soggetto e istituzione. Rivolgeremo la nostra attenzione proprio a una di queste posizioni. Se infatti il dibattito tradizionalmente analizzato ha il suo baricentro a Roma, un altro importante epicentro è costituito da Milano: qui, la presenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore gioca un ruolo significativo, pur se ancora non pienamente riconosciuto e indagato. Il nostro interesse specifico si rivolge alla ricostruzione e allo studio delle origini della cosiddetta Scuola di Milano, e in particolare alle vicende che coinvolgono il suo fondatore Mario Apollonio, uno degli intellettuali più sensibili alle profonde novità introdotte nella società, nella cultura e nella ricerca dall’avvento dei mezzi di comunicazione e dalle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, mosso dalla necessità di fornire uno sbocco positivo alla tecnica e alla modernità, fondandoli sui valori umani, sociali e spirituali. Ed è proprio su Apollonio, professore di letteratura italiana e di storia del teatro, ma in un senso più ampio protagonista della vita culturale milanese e dell’Università Cattolica dagli anni Trenta agli anni Sessanta del secolo scorso, che focalizzeremo la nostra attenzione. Ci concentreremo su due aspetti. Il primo: la posizione intellettuale di Apollonio durante la seconda guerra mondiale e nella Resistenza, ben espressa dall’attività di promozione, in gran parte clandestina, di un’iniziativa editoriale «militante» molto interessante: la rivista antifascista d’ispirazione cristiana «L’Uomo». Il secondo: l’elaborazione del concetto chiave – fondativo della sua intera opera e in essa trasversalmente presente – di coralità. Questo secondo aspetto, intimamente connesso al primo, è centrale per attestare e soppesare il contributo di Apollonio alla cultura cattolica rispetto al neorealismo: un’arte corale, che implica un’idea forte di comunità, una forma d’arte popolare a cui Apollonio si approccia in un senso alternativo al marxismo, ma sintonizzato su alcuni degli stimoli essenziali che

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provengono da quegli sprazzi di vita collettiva, comunitaria – corale –, così difficili eppure necessari, della fase post-bellica di cui anche la poetica neorealista è pervasa. Nelle conclusioni cercheremo di riportare le posizioni di Apollonio sullo sfondo del più ampio dibattito disegnato in questa premessa per valutarne il grado di sintonia e di distacco rispetto ad altre posizioni.

2. L’Uomo. Pagine di vita morale Durante la seconda guerra mondiale Apollonio si schiera intellettualmente su posizioni antifasciste. Come ha scritto Luigi Santucci, suo allievo e compagno di venture, l’8 settembre 1943 fu la «primavera» di Apollonio. L’armistizio aveva infatti posto gli italiani di fronte alla coralità: «non solo nel travaglio d’una democrazia da edificare, ma in una pluralità di costume e di ricerca, in una fantasiosa speranza, in un vivere confrontato e aperto che sembrava attuare sotto i nostri cieli l’umanesimo liberatorio e cristiano del nostro maestro»3. Non a caso è proprio la data dell’armistizio a segnare l’inizio dell’avventura della rivista «L’Uomo», nata e cresciuta a Milano fra l’Università Cattolica e il convento dei Serviti di San Carlo al Corso, dove risiedevano due giovani sacerdoti, David Maria Turoldo e Camillo De Piaz, iscritti alla Cattolica e coinvolti nella redazione della rivista guidata, oltre che da Apollonio, da figure come Gustavo Bontadini (proveniente dall’avventura del Partito della Sinistra Cristiana) e Dino del Bo (futuro deputato e ministro democristiano). Nella prima fase della sua storia – dall’armistizio alla Liberazione – la rivista è clandestina (diffusa in diverse città dell’Alta Italia in alcune decine di migliaia di copie) e davvero poche sono le tracce giunte sino a noi4. Ciò che sappiamo, come ebbe a dire il rettore della Cattolica Ezio Franceschini nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1945-46 a proposito del «movimento» di persone di cui «L’Uomo» era l’organo di comunicazione, è che: La prima preoccupazione era di affermare la carità contro l’odio, concependo la stessa politica come una forma di servizio verso la comunità e creando le premesse per un centro cattolico nel quale trovassero lo sbocco naturale e il punto d’incontro gli altri movimenti nostri5.

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La seconda fase della storia della rivista può essere significativamente fatta cominciare l’8 settembre 1945, consta di 42 numeri, in parte settimanali e in parte bisettimanali, e dura sino al 1° settembre 1946. Sotto la direzione di Apollonio, Bontadini e del Bo si aggiungono altri numerosi collaboratori. Fra gli intellettuali milanesi vi sono Angelo Romanò, Claudio Belingardi, Giovanni Fei, Agostino Lazzati, oltre allo stesso Santucci6. Come si legge nell’articolo d’apertura del primo numero non clandestino, «L’uomo doveva restare il principio e la fine di ogni discorso tra gli uomini», pur in mezzo alle miserie e al dolore della guerra e delle sue conseguenze «la qualità umana no, non poteva essere tolta di mezzo»7. Ancora sui principi ispiratori della rivista, come spiega Stefano Crespi introducendo l’antologia completa de «L’Uomo» non clandestino: La scelta del titolo era ciò che intendeva accomunare il programma, l’impegno, la prospettiva ideale di queste figure. Salvare l’uomo, fare dell’uomo una punta di partenza e di arrivo, riscoprire i valori dell’uomo, fare appello alla sua «indecidibile sostanza» […] Il sottotitolo Pagine di vita morale precisava ulteriormente l’angolazione8.

Un’angolazione almeno triplice: religiosa, culturale, politica – tre fronti fra loro intimamente connessi. La rivista contrapponeva all’odio e al vuoto del nazifascismo un umanesimo cristiano basato su un’interpretazione radicale del comandamento evangelico «ama il tuo nemico». Tutto ciò si contrapponeva al giustizialismo sommario mosso da sentimenti di vendetta esplosi nei giorni immediatamente seguenti la caduta del Fascismo9. Significativo è l’episodio raccontato da Santucci (peraltro ospite rifugiato a casa di Apollonio come altri perseguitati politici, tra cui Giuseppe Dossetti) che vede come malcapitato protagonista il suo maestro e protettore, un pomeriggio dell’autunno del 1944 a San Babila: Quel pomeriggio, sotto la brutalità dei fascisti e delle Ss che lo tartassano con gli stivali e coi mitra, Apollonio non è il più corifeo della bella sapienza e della bella parola. È anonima carne, materasso di botte, meschini ecceomo che, gettati tutti i prestigi dell’ars discendi, si aggomitola entro il furore della sbirraglia: la sua cattedra è sotto quelle scarpe e quei calci di moschetto, altro insegnamento non può dare – ne esca vivo o morto – se non quella muta testimonianza di cavaliere cervantesco10.

E il racconto di Santucci prosegue con una scena che pare davvero tratta da un episodio di neorealismo cinematografico:

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Apollonio e la moglie Lina che incontrano un furgone di deportati politici in sosta, comprano delle mele e si prodigano a offrirle agli ostaggi attraverso i finestrini; la Lina respinta con un ceffone, lui che si avventa a proteggerla e il «coro» abbietto che prende a linciarlo e poi fa mucchio su lui per finirlo… […] Sembrò – conclude Santucci – […] che come in un dramma alfieriano la turba dei filistei compisse su di lui una vendetta: si recitò il pantomimo della materialità ottusa e feroce contro il vangelo insopportabile dell’intelligenza11.

Le premesse e l’esito dell’esperienza de «L’Uomo» sono l’attestazione di un impegno maturo e non ideologicamente motivato dei cattolici che operavano prima e durante la guerra e avrebbero continuato a operare sul fronte della cultura e della comunicazione. Ne «L’Uomo» c’è l’essenza della Resistenza cattolica: rivolta morale, moto ideale della dignità e della libertà dell’essere umano mortificato e oppresso – come provano peraltro le testimonianze biografiche che abbiamo riportato. Se le istanze etiche vengono prima delle scelte politiche e gli ideali sono anteriori e superiori alle prese di posizione partitiche e ideologiche, allora Apollonio è una delle figure da porre all’origine di una prospettiva cattolica del neorealismo, salva dalla retorica anatemica e difensiva della crociata che abbiamo all’inizio brevemente riassunto. Come scrive Massimo Marcocchi, anche per Apollonio «il passaggio alla Resistenza fu il necessario esito di un iter intellettuale e morale»12 che ne fece persino uno scrittore civile di cui varrebbe la pena studiare la produzione13.

3. Apollonio e la coralità tra teatro, civitas e nuovi media Tra i vari aspetti di maturazione intellettuale che la stagione resistenziale e post resistenziale produsse in Apollonio, uno in particolare attira la nostra attenzione: l’evoluzione che subì nel suo pensiero il concetto di coralità. L’idea è presente in nuce già nel suo primo lavoro sulla Commedia dell’arte (1930), poi maturata nella sua opera principale, Storia del teatro (1938-1950)14 e infine riassunta nel più tardo Storia, dottrina e prassi del coro15. In questo giro di anni la nozione apolloniana di coralità subisce una prima fondamentale evoluzione: il suo fondamento etico si sostanzia in termini non solamente estetici e drammaturgici, ma più ampiamente civili e politici. Rivelatrici in tal senso le attività di politica culturale attiva intraprese da Apollonio, sospese e tese tra mondo cattolico e mondo laico milanese: la

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partecipazione al circolo teatrale Diogene insieme a Valentino Bompiani, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Enzo Ferrieri; il progetto di un teatro alternativo alla censura fascista e al conservatorismo della cultura idealista (anche con il coinvolgimento, in verità fallito, dell’Università di Milano e della Cattolica); e a partire da quest’ultima esperienza, la fondazione del Piccolo Teatro e la redazione in prima persona nel 1947 della relativa Lettera programmatica17. Emerge in questa sede l’idea del coro come matrice di un teatro di incontro e di partecipazione, di trasformazione sociale e culturale, di interazione tra attore e spettatore, libero tanto dal formalismo estetico e dalle derive intellettualistiche del teatro di regia come dal dilagante conformismo del teatro d’intrattenimento. Il teatro è «il luogo dove la comunità, liberamente riunita per contemplare e per rivivere, rivela se stessa»18; luogo della dialettica e non dell’uniformazione sociale, un simile teatro esprime le sue funzioni sulla base della libertà e della diversità. Dunque un’istanza etica di drammaturgia come luogo della communitas, certamente ispirata al personalismo e al comunitarismo francese di Maritain e Mounier. La coralità così intesa è allora qualcosa che trascende la specifica drammaturgia teatrale e può essere estesa alla drammaturgia della vita e della storia. Usiamo una sintesi di Sisto Dalla Palma, e invitiamo a pensare quanto, pur se non esplicitamente, queste parole possano descrivere l’esperienza neorealista intesa come impresa comunitaria [Il coro] è il gruppo che parla attraverso il poeta, che gli presta la materia di un sentire collettivo perché la illumini e la faccia emergere nella trascendenza di un’immagine capace di rivelare il senso di una storia comune. […] Il coro è figura da riconoscersi entro una vasta pratica di comunicazioni sociali, che deve intendersi, in questo senso, come scena. […] La scena sociale infatti non è una generica metafora: più in concreto essa è un luogo di accadimenti e di rapporti collettivi, che si organizzano alla ricerca di una identità, nell’escursione dialettica che sta in sommo grado tra la polarità creatrice del singolo atto poetico e la polarità ri-creatrice del collettivo che si dispone attorno ad esso, che lo prepara, lo genera e lo riascolta in qualche modo come cosa propria. […] storia, infine non solo di singole individualità creatrici, ma di coscienze umane che si costituiscono entro un sistema inaudito di eventi e di soggetti e persino di testi in rapporto tra di loro. La storia della cultura, e della poesia in particolare, è storia di questo movimento circolare, del dialogo che si stabilisce in termini, staremmo per dire, parateatrali tra una vasta platea, e dei protagonisti, tra un coro e delle singolarità più autenticamente creatrici, che non si costituiscono mai come figure

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isolate, ma che sono piuttosto entità concretamente celate nel flusso vivente della vicenda umana, nelle alchimie straordinarie cui dà luogo la vita del costume, entro orizzonti culturali difficilmente commensurabili19.

D’altra parte a questa prima evoluzione del concetto di coralità ne avrebbe immediatamente fatto seguito una seconda, altrettanto sostanziale – per quanto solidamente legata alla prima. Se la coralità descrive l’incontro pregnante fra istanza creativa e istanza ricettiva, fra autore e spettatore, nell’indole apolloniana essa è assolutamente estendibile alle «arti della comunicazione» e dunque alle discipline dello spettacolo. Essa rappresenta l’ascendente dello sviluppo della concezione pragmatica di comunicazione che costituisce la specificità della Scuola di Milano: una conversazione costante fra istanze, reali o astratte, che rimandano e incarnano una relazione concreta e significativa, una relazione umana nel teatro della realtà e della storia. Il seme della coralità infatti darà i suoi frutti anche sul terreno dei media moderni – il cinema, la televisione, la pubblicità – ricompresi da Apollonio nel proprio progetto didattico, scientifico e culturale sulle forme di esperienza mediale e artistica che portò alla fondazione e alla guida della Scuola. Come ha ricordato Gianfranco Bettetini: Il suo pensiero sui nuovi mezzi di comunicazione si basava sulle sue intuizioni culturali a proposito dell’esperienza teatrale e, in particolare, sul rapporto fra pubblico e coro, formato, quest’ultimo, da «tutti coloro che partecipano di fatto all’evento scenico». Il suo intento era quello di riattivare la funzione del pubblico, di arrivare a una drammaturgia che comportasse per lo spettatore la coscienza di aver compiuto un atto libero entrando in teatro e, nello stesso tempo, di far parte volontariamente dell’evento scenico, di non limitarsi a viverlo dall’esterno passivamente o, peggio, consumisticamente20.

Il modello apolloniano di comunicazione teatrale fu applicato anche al cinema e soprattutto alla televisione. Va ricordato che dal 1954, in epoca fanfaniana, Apollonio fu commissario di concorso, docente di corsi e consulente alla programmazione in Rai, oltre cha autore di un romanzo sulla televisione21 e di un’opera di tre volumi sulla regia, scritta a più mani. In quest’ultima scrive significativamente Apollonio:

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Se ci abituiamo a considerare come ultimo termine di concretezza l’uomo, l’uomo spettatore, intendo, per cui tutto è da principio ordinato, sarà più facile riguadagnare a ritroso, dalla invenzione alla cronaca, quel senso umano che deve essere perduto in nessuno dei fatti trasmessi22.

Un’idea di televisione indubbiamente alta, oggi tornata utopica, il cui umanesimo di fondo resta tuttavia un auspicio e un insegnamento.

4. Conclusioni La posizione di Apollonio rimane senza dubbio liminare, tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta: per un verso il suo progetto di incontro con il mondo culturale laico milanese fallisce, per altro verso i suoi contatti con il mondo cattolico romano e i suoi rappresentanti culturali rimangono vaghi e sporadici. Liminare non vuol dire tuttavia improduttivo: già dall’inizio degli anni Cinquanta il progetto di Apollonio si traduce sempre più in termini didattici e incontra gradualmente quello filmologico del fondatore dell’Università Cattolica Agostino Gemelli: esso giunge così a produrre una sintesi di interessi scientifici (drammaturgia, psicologia, sociologia) e di interessi pratici (la formazione di una nuova generazione di operatori professionali del giornalismo, della televisione e della pubblicità), che si concretizza nella fondazione della Scuola Superiore di Mezzi audiovisivi. La scuola viene avviata a Bergamo nell'anno accademico 1961-1962, per poi passare a Milano nel 1966-1967. Come giudicare le idee di Apollonio sullo sfondo del complesso sistema di interventi del mondo cattolico sul cinema dell’epoca? Da un lato non può sfuggire il potenziale dirompente delle idee apolloniane, in particolare della sua concezione di coralità. Il porre alla base della rappresentazione drammaturgica una forma ideale di esperienza imperniata sulla tensione creativa e dialogica tra la comunità degli spettatori e l’artista come loro interprete responsabile; il considerare lucidamente la dimensione politica e civile di tale esperienza; l’estendere tale esperienza drammaturgica a qualunque altro tipo di rappresentazione collettiva: tutto questo implicava una progettualità anche sul mezzo cinematografico e sulle forme della sua costruzione e fruizione – e, prima ancora, una concezione dell’opera cinematografica in quanto legata a un

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rapporto vitale con la comunità civile che l’ha generata e che la fruisce. Per altro verso occorre sottolineare che pur con queste premesse, o forse a ragione di esse, la posizione di Apollonio resta essenzialmente mediologica e non propriamente estetica. Sotto questo aspetto (che spiega peraltro il suo incontro con l’operatività di Gemelli) il cinema in quanto specifica forma di esperienza rimane inevitabilmente distante dalle corde di Apollonio, mentre i suoi sforzi e i suoi interessi vengono attratti dal nuovo medium per eccellenza, la televisione, intesa come piena riattualizzazione del progetto coreutico basato sull’evento della parola responsabile. La latenza di un’idea di esperienza filmica collegata alla teoria coreutica spiega i due aspetti chiave degli interventi di Apollonio: per un verso il suo sostanziale silenzio sul neorealismo – tale da rendere di fato inutilizzabili i pur ricchi orientamenti del suo pensiero al riguardo del cinema come espressione di una comunità nazionale; per altro verso il ricongiungersi del suo operato con la successiva stagione della progettualità culturale cattolica, ormai decisamente rivolta alla formazione degli operatori professionali dei nuovi media e in particolare della televisione24.

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Note 1. Nell’ambito di un lavoro comune di ideazione, Ruggero Eugeni ha steso i paragrafi 1 e 4, mentre Adriano D’Aloia ha redatto i paragrafi 2 e 3. Il presente intervento costituisce il frutto di un lavoro collettivo del gruppo di ricerca in cinema dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulle origini della Scuola di Comunicazione dell’Università, coordinato da Ruggero Eugeni, Mariagrazia Fanchi e Massino Locatelli, che ringraziamo per la collaborazione e per i materiali di ricerca che ci hanno messo a disposizione. 2. Le posizioni dei cattolici nei confronti del neorealismo sono state oggetto di varie ricostruzioni: si veda in particolare M. Arosio, G. Cereda, F. Iseppi, Cinema e cattolici in Italia, Massimo, Milano, 1974; F. Pinto, Progetto neorealista e politica culturale cattolica, in Storia del cinema. Dall’affermazione del sonoro al neorealismo, a cura di A. Ferrero, Marsilio, Venezia, 1978 , pp. 134-151; Bianco e nero. Gli anni del cinema in parrocchia, a cura di S. Pivato, G. Gori, Maggioli, Rimini, 1981; G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 3, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 97-126; S. Trasatti, I cattolici e il Neorealismo, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 1989; I cattolici e il cinema degli anni Cinquanta, a cura di S. Trasatti, Fondazione Ente dello Spettacolo, Bulzoni, Roma, 1990; B. Valli, Il film ideale. I cattolici, il cinema e le comunicazioni sociali, F. Angeli, Milano, 1999; G. Chinnici, Cinema, chiesa e Movimento cattolico italiano, Aracne, Roma, 2003; Pio XII e il cinema, a cura di D. E. Viganò, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2005; Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, a cura di R. Eugeni, D. E. Viganò, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2006, 3 voll., in part. il vol. 2; T. Subini, Nel segno di una continuità sostanziale. Il dopoguerra e gli anni Cinquanta, in Nero su Bianco. Le politiche per il cinema negli ottant’anni della «Rivista del Cinematografo», a cura di E. Mosconi, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2008, pp. 85-108; T. Subini, La doppia vita di “Francesco giullare di Dio”. Giulio Andreotti, Félix Morlion e Roberto Rossellini, Il Libraccio, Milano, 2013; C. Siniscalchi, Il cinema e la politica nell’Italia del dopoguerra, in Luigi Gedda nella storia della Chiesa e del Paese, a cura di E. Preziosi, AVE, Roma 2014; Moralizing Cinema. Film, Catholicism and Power, a cura di D. Biltereyst, D. Treveri Gennari, Routledge, New York-London, 2014 (in particolare i saggi di E. Mosconi, T. Subini e M. Fanchi). Sugli aspetti produttivi: E. Lonero, A. Anziano, La storia della Orbis-Universalia. Cattolici e neorealismo Effata, Torino, 2004, C. Siniscalchi, Cattolici e cinematografia. Giuseppe Dalla Torre e la storia della Orbis-Universalia (1942-1950), Vita e Pensiero, Milano, 2010. 3. L. Santucci, Nell’amore della memoria, in Istituzione letteraria e drammaturgia. Atti del Convegno Mario Apollonio: I giorni e le opere, a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 42. Cfr. anche L. Santucci, Apollonio, uomo e maestro, nell’amore della memoria, in «Comunicazioni Sociali», 1986, n. 3-4, pp. 5-10. 4. Osserva S. Crespi: «le notizie riguardo a “L’Uomo” clandestino sono alquanto incerte e nebulose perfino nella memoria dei protagonisti che non ricordano nemmeno il numero esatto delle copie uscite, fatto del resto spiegabile nel contesto pressante del periodo», S.

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Crespi, L’Uomo, pagine di vita morale, Edizioni Otto/Novecento, Brunello (Va), 1981. 5. E. Franceschini, Discorso di apertura dell’Anno Accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano tenuto dal f.f. di Magnifico Rettore, prof. Ezio Franceschini l’8 dicembre 1945, in Per amore ribelli. Cattolici e Resistenza, a cura di G. Bianchi, B. De Marchi, Vita e Pensiero, Milano, 1976, p. 71ss. 6. Sulla storia della rivista cfr. anche G. Piccioli, D. Piccioli, Il gruppo de’ L’Uomo’ nella temperie post-resistenziale, in Studi sulla cultura lombarda in memoria di Mario Apollonio, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano, 1972, pp. 314-328; L’Uomo. Pagine di vita morale: 8 settembre 1945, 1 settembre 1946, Otto/Novecento, Brunello (Va) 1981; G. Gozzini, Sulla frontiera. Camillo De Piaz, la resistenza, il concilio e oltre, a cura di S. Crespi, Libri Scheiwiller, Milano, 2006, pp. 37-43 e 56-72; B. De Marchi, Gli humaniora di un intellettuale non separato, in «Comunicazioni Sociali», 1986, n. 3-4, pp. 208-210. 7. Anon, [attribuibile ad Apollonio], VIII Settembre, in «L’Uomo», 1945, n. 1, p. 1. 8. S. Crespi, L’Uomo…, cit. 9. Pur non firmando alcun articolo Apollonio è anche nel gruppo che diede vita a un altro giornale clandestino della Resistenza cattolica: «Il ribelle delle Brigate «Fiamme Verdi», nato per impulso di Teresio Olivelli (poi ucciso in un campo di concentramento nel 1945) e con la partecipazione di Carlo Bianchi (presidente della Fuci), don Giovanni Barbareschi, Dino del Bo, Franco Rovida (tipografo, anch’egli morto in campo di concentramento), stampato in 26 numeri nella macchia tra Milano e Lodi tra il 1942 e il 1945). Testimonia Barbareschi: «Crebbe in non pochi giovani, proprio dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, la volontà di resistere alla dittatura nazifascista, all’ingiustizia, all’intolleranza non solo con le armi ma soprattutto con le idee affermanti i valori della persona, della libertà, della democrazia» (in «Avvenire», 16 ottobre 2003, http://archive.is/uglO). Su Olivelli cfr. anche M. Apollonio, Teresio Olivelli, Edizioni Cinque Lune, Roma, 1966. 10. L. Santucci, Nell’amore della memoria, in Istituzione letteraria e drammaturgia, cit., p. 43. 11. Ibidem. Cfr. anche A. L. Carlotti, Il memoriale di padre Carlo, fonte autentica per la storia della Cattolica nella Resistenza, in Per amore ribelli. Cattolici e Resistenza, a cura di G. Bianchi, B. De Marchi, Vita e Pensiero, Milano, 1976, in particolare il part. Mario Apollonio e gli altri professori: l’esperienza di “L’uomo”, pp. 101-102. 12. Apollonio infatti scrive articoli anche su «Cronache sociali», rivista del gruppo dossettiano: Il fascismo come crisi culturale, in «Cronache sociali», 31 marzo 1949, pp. 21-23 e I cattolici e l’oscurantismo culturale, in «Cronache sociali», n. 16/17, 1949. Cfr. M. Marcocchi, La vita religiosa a Brescia nella prima metà del Novecento, in Istituzione letteraria e drammaturgia, a cura di C. Annoni, cit., p. 100. 13. Peraltro nel 1945 Apollonio viene chiamato dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia a ricoprire l’incarico di commissario regionale della scuola. Cfr. F. Pruneri, L’impegno di Mario Apollonio per la rinascita democratica della scuola all’indomani dellla liberazione, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 1999, n. 6, pp. 309-336.

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Adriano D'Aloia-Ruggero Eugeni

14. In quest’opera si legge per esempio: «la storia del teatro è la storia di questo incontro fra l’autore, che propone, e la folla, che risponde», M. Apollonio, Storia del teatro italiano (1938, Firenze), vol. I, Rizzoli, Milano, 2003, p. 7. 15. M. Apollonio, Storia, dottrina, prassi del coro, Morcelliana, Brescia, 1956: «Coro è il gruppo umano che celebra in sé l’immagine, l’accerta nella sua vita di relazione, le assicura il viaggio nel mondo dei vivi, un itinerario storico, l’inserirsi in un linguaggio dove i rapporti semantici e suggestivi siano codificati; e nel tempo stesso che l’accoglie si dona a lei, di lei s’accresce, per le acquista nuovo spazio di vita. Il rapporto che si stabilisce [...] è dunque fra la libertà creativa dell’immagine e la responsabilità attività della partecipazione» (pp. 25-26). 16. La costituzione di un centro teatrale interateneo trovò l’insormontabile opposizione di Padre Gemelli: cfr. C. Scarpati, Alcune lettere di Apollonio a padre Gemelli, in Istituzione letteraria e drammaturgia, a cura di C. Annoni, cit., pp. 326-333. 17. S.a., Lettera programmatica per il Piccolo Teatro di Milano, in «Il Politecnico», 3 (1947), 35, p. 68. Circa l’attribuzione del documento alla penna di Apollonio cfr. le osservazioni di S. Locatelli, Mario Apollonio between theatre and media. On the roots and premises of the ‘Scuola superiore di giornalismo e mezzi audiovisivi’, in Il cinema si impara? Sapere, formazione, professioni, a cura di A. Bertolli, A. Mariani, M. Panelli, Forum, Udine, 2013, p. 76 e nota 6 p. 81; cfr. anche Id., La ricerca della stabilità. Appunti per uno studio dei primordi del Piccolo Teatro, in «Comunicazioni Sociali», 2008, n. 2, pp. 150-195. 18. S.a., Lettera programmatica, cit. 19. S. Dalla Palma, La poetica della persona e le istanze della coralità, in «Comunicazioni Sociali», 1986, n. 3-4, pp. 233-234. 20. G. Bettetini, Un’opera di Apollonio: la Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali, in Istituzione letteraria e drammaturgia, a cura di C. Annoni, cit., p. 558. 21. M. Apollonio, Cinquantacinque, Bietti, Milano, 1970. 22. M. Apollonio, E. Ferrieri, A. Mantelli, G. L. Rondi, La regia, ERI, Torino, 1955. Sul contributo di Apollonio allo studio della televisione si veda anche G. Bettetini, Le attenzioni teoriche e operative ai nuovi media e alla nuove metodologie di analisi, in «Comunicazioni Sociali», 1986, n. 3-4, pp. 133-149. 23. Cfr. M. Apollonio, Il lavoro del gruppo intellettuale nella redazione delle trasmissioni televisive, in Drammaturgia della televisione, La Scuola, Brescia 1968, pp. 142-159, in cui l’autore scrive: «[…] Il film, qualunque ne sia l’origine mescidata e il vario concorso di personalità diverse […] resta una forma di scrittura; mentre la regia televisiva […] equivale piuttosto all’intervento moderatore del direttore d’orchestra […] vivo centro sensibile ed attivo della varia recettività, della varia espressività pur qui dei due gruppi che interferiscono, il gruppo attivo degli attori e dei musicisti e il gruppo recettivo degli spettatori [in particolare nel caso delle trasmissioni in diretta]» (p. 148). 24. M. Fanchi. The ‘Ideal Film’. On the Transformation of the Italian Catholic Film and Media Policy in the 1950s and the 1960s, in Moralizing Cinema, a cura di D. Biltereyst, D. Treveri Gennari, cit., pp. 221-236.

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Il neorealismo visto dalla Francia, bilancio critico Jean A. Gili All’indomani della seconda guerra mondiale, l’immagine del cinema italiano in Francia è tutta da ricostruire. Pochi sono stati i film distribuiti negli anni Trenta e per quanto riguarda quelli degli anni Quaranta occorreva molta attenzione per scorgere i segni di un’evoluzione. Il pubblico non conosceva più una cinematografia che era stata tra le più floride (anche se non in Francia) durante il periodo del muto. A partire da quali lavori i francesi hanno avuto modo di farsi un’idea più precisa del cinema italiano? Gli articoli e i libri sono dapprima quelli di critici o storici italiani, come ad esempio Antonio Pietrangeli, che pubblica un lungo saggio, Panoramique sur le cinéma italien, su «La Revue du cinéma» (n. 13, mai 1948) diretta da Jean George Auriol. Seguono poi il libro di Nino Franck, scritto direttamente in francese, Cinema dell’Arte (Editions André Bonne, Paris 1951) e quello di Carlo Lizzani, Le cinéma italien (Les Editeurs Français Réunis, Paris 1955). Quest’ultimo, tradotto da Armand Monjo, il critico de «l’Humanité», ha una prefazione di Georges Sadoul. Nel 1954, va ricordato che Henri Langlois, con l’aiuto di Maria Adriana Prolo, direttrice del Museo del cinema di Torino, organizza alla Cinémathèque un’importante rassegna, che offre l’occasione ai «Cahiers du cinéma» per pubblicare un corposo dossier (quasi un numero monografico) intitolato A propos du cinéma italien (n. 33, mars 1954), nel quale appaiono articoli di André Bazin, Philippe Demonsablon, Nino Franck, Maria Adriana Prolo e Cesare Zavattini. Nella sua lunga introduzione, che va sotto il titolo di Destin du cinéma italien, Henri Langlois ripercorre la storia del cinema italiano dagli splendori del muto fino all’affermazione del neorealismo. Vi si legge, ad esempio: A deux reprises, dans les années 10 et 40, le cinéma italien a joué un rôle déterminant. Lorsqu’en 1946, les fortes personnalités d’Amidei et de Rossellini imposèrent Rome ville ouverte, le cinéma italien paru sortir du néant.

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Jean A. Gili

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A proposito della genesi del neorealismo, Langlois scrive: On pouvait tout prévoir: le grand cinéma d’après guerre serait l’Italie. Dieu sait si l’on s’est moqué de nous lorsque nous l’annoncions et pourtant cela fut. Si l’on peut empêcher le monde extérieur d’approcher un prisonnier, on ne peut empêcher le prisonnier de vivre, on ne peut l’empêcher de respirer le même air que les hommes libres, on ne peut l’empêcher de devenir si sensible que les bruits les plus étouffés parviennent toujours jusqu’à lui. Ni De Santis, ni Castellani, ni Lattuada, n’étaient sortis d’Italie, mais si on pouvait les empêcher de voir les grands chef-d’œuvre de la cinématographie mondiale, pouvait-on les empêcher de savoir qu’un Prévèrt, un Eisenstein, un Ben Hecht existaient, pouvait-on les empêcher de lire et, à défaut de films, de regarder les photos.Pouvait-on empêcher Visconti de se souvenir de Renoir ; Amidei, Zavattini, De Sica, de se souvenir de leur enfance et de leur passé. Ainsi, le cinéma néo-réaliste ne surgissait pas plus du néant en 1946 que le vieux cinéma italien en 1906. Il avait pris à la fois racine à l’étranger partout où le cinéma et la littérature avaient su exprimer la réalité sociale de notre temps, aux U.S.A. et à Moscou, à Paris et à Berlin, mais aussi et surtout sur le sol même de cette Italie, où selon le code de la censure, il n’y avait plus de mendiants, plus de mouches, plus d’inondations du Pô, plus de misère, plus d’affamés, plus d’orgues de Barbarie, plus de vie populaire, mais des Palaces, d’élégants officiers, des Ministres, des téléphones blancs et des hommes qui, tous les matins, se mettaient en toge pour mieux cacher le sexe qu’on leur avait ôté.

Così, il cinema italiano conosce, alla fine della seconda guerra mondiale un formidabile rinascimento: Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis, Germi, Lattuada, Zampa, Castellani, Vergano, girano film che segnano gli animi in profondità. Con Roma città aperta di Rossellini si assiste alla nascita del movimento neorealista, che era stato in qualche modo annunciato da opere premonitrici come Ossessione di Visconti o I bambini ci guardano di De Sica. In Italia, l’accoglienza di questi film è piuttosto mite: se il film di Rossellini è un grande successo, gli altri, con l’eccezione relativa di Ladri di biciclette, realizzano incassi abbastanza modesti. L’accoglienza critica italiana non è sempre puntuale e sarà spesso dalla Francia che arriveranno segnali positivi capaci di aiutare gli italiani a comprendere il ruolo di una produzione in grado di ricostruire all’estero l’immagine dell’Italia.

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«L’Ecran français» Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, la prima rivista che gioca un ruolo importante nei confronti del cinema italiano è «L’Ecran français», diretto da Jean-Pierre Barrot (il primo numero esce il 4 luglio del 1945, l’ultimo il 12 marzo del 1952). Tra i nomi dei collaboratori si trova quello di Jean-Charles Tacchella, un critico di origine italiana che dimostra spesso il suo interesse per la produzione transalpina. Infatti, è su «L’Ecran français» che compare, nel numero 60 del 21 agosto 1946, poco prima che si inaugurasse la prima edizione del Festival di Cannes, un articolo che intende fare il punto sul cinema italiano, come si evince dal titolo stesso: Où va le cinéma italien? Il giornalista Michel Favier-Ledoux (che rimarrà un critico poco conosciuto) propone un’analisi estremamente pessimista: condizioni materiali disastrose, studi di posa distrutti o trasformati in campi profughi, carenza di pellicola, nessun tipo di rinnovamento stilistico, completa sottomissione ai gusti del pubblico. Favier-Ledoux parla di «une absence d’intelligence dans le cinéma italien». On ne voit aucune révélation sensationnelle, pas plus du côté des scénaristes et réalisateurs que du côté des comédiens. Parmi les réalisateurs : M. Soldati, A Blasetti, M. Camerini, G. Franciolini, Lattuada, Roberto Rossellini, L. Zampa. Quant aux scénaristes, les noms intéressants sont toujours ceux de Zavattini, De Benedetti, Piovene, Calvino, Flaiano, Amidei, Antonioni, etc. On le voit le problème le plus important du point de vue artistique est celui du renouvellement des cadres.

Per quanto ricca possa sembrare la lista dei nomi, salta all’occhio l’assenza di Visconti e di De Sica, di cui l’autore, evidentemente, non conosce i primi film; certo, il neorealismo non presenta un rinnovamento generazionale, dal momento che la gran parte dei registi e degli sceneggiatori è attiva già da prima del 1945, ma occorre insistere sul fatto che le nuove condizioni legate alla fine del conflitto e alla caduta del fascismo, consentono a quegli autori di esprimersi liberamente e di sprigionare appieno il loro genio. Va infine osservato che questa valutazione, inficiata da un’evidente carenza d’informazione, non introduce separazioni generazionali tra autori di età molto diverse e di formazioni eterogenee. Nelle pagine che seguono, avremo modo di trovare numerosi articoli provenienti da «L’Ecran français».

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Cannes 1946 La scoperta del cinema italiano in Francia si compie in occasione del primo Festival di Cannes, che inaugura nel settembre del 19461. Quattro film sono in concorso: Roma città aperta di Roberto Rossellini (che ottiene uno degli undici grands prix assegnati sulla Croisette), Il bandito di Alberto Lattuada (storia del reduce che ritrova Torino devastata dalla guerra), Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti (che dopo opere di smaccata retorica fascista come Vecchia guardia, aveva svoltato con un film riuscito quale Quattro passi tra le nuvole; a Cannes porta un film di produzione cattolica della Orbis, che racconta il sacrificio di un gruppo di suore fucilate dai tedeschi per aver accolto dei partigiani), Le miserie del signor Travet di Mario Soldati (una commedia brillante, ispirata dall’omonima commedia in dialetto piemontese, sulle tribolazioni di un uomo comune). Il festival di Cannes è una vetrina importante in quegli anni per il cinema italiano e vale la pena riportare di seguito un elenco dei film presentati nel dopoguerra (considerando che il festival non si tenne nel 1948 e nel 1950): 1946 Roma città aperta di Roberto Rossellini Il bandito di Alberto Lattuada Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti Le miserie del signor Travet di Mario Soldati 1947 Il delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada La figlia del capitano di Mario Camerini Sperduti nel buio di Camillo Mastrocinque 1949 Le mura di Malapaga di René Clément Riso amaro di Giuseppe De Santis L’amorosa menzogna (cortometraggio) di Michelangelo Antonioni

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1951 Miracolo a Milano di Vittorio De Sica (che vinse il Grand Prix) Il cammino della speranza di Pietro Germi Il Cristo proibito di Curzio Malaparte Napoli milionaria di Eduardo De Filippo 1952 Due soldi di speranza di Renato Castellani (che vinse il Grand Prix) Umberto D. di Vittorio De Sica Guardie e ladri di Mario Monicelli Il cappotto di Alberto Lattuada 1953 La provinciale di Mario Soldati Stazione Termini di Vittorio De Sica Tra il 1946 e il 1953 vennero dunque presentati: tre film di De Sica e tre di Lattuada; due film di Soldati; un film di Rossellini, Blasetti, Camerini, Mastrocinque, Castellani, De Santis, Monicelli, Germi, Malaparte, De Filippo. E furono due i personaggi che ebbero un ruolo decisivo nella difesa e nella promozione del cinema italiano: Georges Sadoul e André Bazin.

Georges Sadoul: «Regarder dans la rue» Si trovano numerosi interventi di Sadoul in due settimanali, «L’Ecran français» e «Les Lettres française» (pubblicazioni legate al partito comunista, come la rivista «Europe», fondata nel 1923 da Romain Rolland e vicino al partito dalla seconda metà degli anni Trenta, poi rilanciata nel 1946 da Louis Aragon e pubblicata dagli Editeurs Français Réunis, un editore comunista, a partire dal 1949), senza dimenticare che fu sul quotidiano del partito comunista francese, «l’Humanité», che Sadoul, ad esempio, espresse la sua meraviglia davanti a Paisà in un articolo del 30 novembre 1946. La posizione di Sadoul rimanda ai conflitti ideologici della Francia del tempo. A suo avviso, la difesa del cinema italiano serve a mostrare il carattere esemplare di una cinematografia impegnata nelle lotte politiche e sociali,

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soprattutto in confronto alla tiepidezza ideologica del cinema francese. Da questo punto di vista, Sadoul si serve del cinema italiano (più vicino alle sue idee politiche) per spronare i cineasti francesi. Su «L’Ecran français» (n. 72, 12 novembre 1946), pubblica un articolo intitolato Un grand réalisateur italien. Rossellini, in cui sostiene che «le cinéma italien a été la révélation du festival de Cannes» tenutosi in settembre. Sadoul cita Roma città aperta e si sofferma su Paisà che parrebbe aver visto a Bruxelles in anteprima, dal momento che il film esce in Italia nel dicembre del 1946 e in Francia nel 1947. Sadoul avverte l’importanza di quel che sta succedendo in Italia e adotta un tono premonitore che appare del tutto giustificabile: Beaucoup d’entre ceux qui ont vu – Paisà – ont eu la révélation qu’apporte seul, et si rarement, le cinéma. J’étais pour ma part enthousiasmé comme lorsque je vie pour la première foi Caligari, Potemkine ou Peter Ibbetson. […] S’il tient ses promesses actuelles, le cinéma italien doit occuper dans notre après-guerre la place qu’ont tenue, vers 1920, les films expressionnistes allemands ou les films suédois. Avec le cinéma italien, un torrent de vie quotidien envahit l’écran2.

Altrove, l’interesse per il neorealismo è più tardivo, come nel caso delle riviste di destra come la«Revue des Deux Mondes» o «La Revue de Paris». In certi casi, il neorealismo provoca forme di ostilità. Su «La Table Ronde», Michel Braspart, in un articolo intitolato Séries noires (n. 23, novembre 1949) denuncia il miserabilismo e il pessimismo del cinema neorealista, ne sminuisce il portato rivoluzionario e sferza una scuola cui imputa di «noircir le ciel du cinéma». Guardando ai quotidiani, Henry Magnan, su «Le Monde», non è affatto entusiasta. Solo De Sica viene apprezzato (e in modo particolare Sciuscià). Lo stesso mitigato interesse si ritrova anche su «Le Figaro», dove tuttavia spicca, nella redazione, Louis Chauvet con articoli favorevoli nei confronti del movimento. Ciò detto, alcuni film italiani conoscono in Francia accoglienze calorose, avvalorate da quell’idea che la Francia resti pur sempre il paese che sancisce il reale valore delle opere. Prendiamo l’esempio di Caccia tragica, il primo film di Giuseppe De Santis al quale Sadoul dedica una particolare attenzione. Prsentato a Venezia nel settembre del 1947, Caccia tragica arriva in Francia alla fine dell’anno grazie a una serata di gala organizzata alla Maison de la Chimie dalla Fédération Française des Ciné-Clubs il 20 dicembre 1947. Nel piccolo dépliant che presenta la serata, si può leggere, sotto il nom de plume di P. Chwat:

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Après Paisà et Sciuscià qu’elle fit connaître en France, la Fédération Française des CinéClubs se devait d’être à l’origine de la carrière de Caccia tragica. Giuseppe De Santis, le réalisateur, à peine âgé de trente ans, est, selon nous, l’une des plus fortes personnalités cinématographiques depuis Jean Vigo pour lequel l’auteur de Chasse tragique ne dissimule pas son admiration. Chaque image de ce premier film nous apporte la preuve d’un sens peu commun du cinéma et M. Pasinetti, l’excellent documentariste italien, a droit aux remerciements de tous les amateurs du Septième Art: G. De Santis se destinait à la carrière des lettres, c’est à l’auteur de la Storia del cinema que l’on doit ses débuts dans la mise en scène.

Georges Sadoul ha assistito alla proiezione organizzata dalla FFCC e scrive immediatamente un lungo articolo per «L’Ecran français» del primo gennaio 1948. Tenuto conto dell’orientamento politico di De Santis, la stampa comunista sostiene il film con entusiasmo: Deux amants embrassés: on ne voit que leurs visages et leur baiser. Puis, sans cesser de les voir s’étreindre, la caméra, en s’élevant et en s’éloignant, découvre le camion qui les emporte, une route en hiver, de grandes plaines dénudées, des paysans qui passent, chantent, crient, plaisantent. Autour du couple un monde est né, celui de l’Italie moderne, ou plus précisément de la Romagne durant l’hiver qui suivit sa libération. Ce passage du particulier au général ou, inversement, du général au particulier, est la marque du style adopté ou inventé par Giuseppe De Santis, le plus jeune des réalisateurs italiens, l’ancien assistant de Luchino Visconti dans Ossessione et de Vergano dans Il sole sorge ancora, un réalisateur qui, par sa première oeuvre, Chasse tragique, récemment présentée en privé à Paris, s’est classé d’emblée au premier rang des réalisateurs contemporains. Ce passage du particulier au général n’est pas l’adoption d’un style formel, mais presque une conception du monde. Le cas individuel intéresse De Santis dans la mesure où il est représentatif d’un moment historique, et de la vie d’un peuple. La Chasse tragique, qui est la poursuite par deux mille paysans d’une somme volée par une bande de criminels et de nazis, est d’abord, pour le réalisateur, un moyen de peindre la paysannerie italienne en 1946, la naissance des coopératives agricoles, la prise de conscience politique par ceux qui viennent d’abattre le fascisme. Pour lui l’homme est toujours lié au moment historique, le vit et le crée. Marcel Carné, l’autre soir, au sortir de la représentation organisée par la Fédération Française des Ciné-Clubs, s’enthousiasmait, comparait Chasse tragique à Paisà et donnait sa préférence à De Santis. L’avenir justifiera – ou non – le choix de Carné. Malgré certains traits communs, qui sont ceux de la jeune école italienne réaliste, les tempéraments de Roberto Rossellini et de Giuseppe De Santis sont éloignés, opposés même sur certains points, comme pouvaient l’être, il y a vingt-deux ans, ceux de Poudovkine et d’Eisenstein. Rossellini est nuancé, intelligent, mesuré : il ne fait de nouveau pas en avant qu’après avoir sondé le terrain, mûri sa décision, supputé les possibilités, élaboré ses hardiesses. Cet homme, d’un goût parfait et d’une grande culture, s’il

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s’est volontairement limité à la vie, sait toujours la trier, la choisir la plus caractéristique. Le dernier épisode de Paisà ne vaut pas seulement par son émotion et sa vérité mais aussi par la sûreté du ton et des moyens, qui en fait un chef-d’oeuvre, une page d’anthologie, un monument… Giuseppe De Santis est largement le cadet de Rossellini. Chasse tragique n’est pas son septième film mais sa première oeuvre et, comme d’autres débutants, il s’efforce de tout dire, il en dit presque trop. Il n’est pas retenu par la crainte du paroxysme dans le geste ou de l’outrance dans le scénario. Il ne cherche pas à éviter certains effets que des tempéraments plus rassis pourraient trouver gros. Ce qui ne veut pas dire que sa fougue de Méridional exclut le goût et le choix, mais selon des règles qui ne sont pas exclusivement esthétiques. Dans le dialogue qu’il entreprit l’autre soir avec le public de la Maison de la Chimie, le jeune réalisateur, qui se voyait reprocher un dénouement jugé par certains mélodramatique et proche des traditionnelles intrigues policières, répondit qu’il avait eu recours à de tels moyens pour toucher un très large public. De Santis ne se contente pas de peindre les masses, il veut aussi les atteindre. Ce qui est, selon Deluc, la marque des vrais maîtres du cinéma.

Su «La Revue du cinéma» (n. 1, 1948), Jean George Auriol nota come l’opera di De Santis sia disturbante: L’oeuvre de De Santis (Riz amer le confirmera) semble nettement subir un certain nombre d’influences: l’épique d’Eisenstein, la cruauté de Stroheim, l’humanité de Renoir. On pourrait encore nommer Dovjenko, Franck Borzage, Carné, Avec Chasse tragique, il semble que De Santis ait voulu prouver qu’il connaissait bien ses maîtres et ses classiques. […] Le besoin de violer le public dans des positions rares a fouetté l’imagination du réalisateur, ainsi ce jeu des enfants masqués dans une maison sans murs. On pense à la fois à Callot, à Ensor, à Céline, à Carné, et d’autre part aux oncles d’Amérique du cinéma italien : Capra, Borzage. Étalage d’érudition, goût du bizarre, superstition de l’insolite, luxe du bric à brac, snobisme de la merde, etc. etc. On connaît la mode. Elle passera et De Santis restera.

In occasione dell’uscita del film, il 23 marzo del 1948, Sadoul torna lungamente su Caccia tragica su «Les Lettres françaises». Nelle pagine dello stesso settimanale, facendo il punto, un anno dopo, sulla necessità per il cinema di «regarder dans la rue», Sadoul sottolinea l’impegno, in questo senso, del cinema italiano (7 avril 1949): Chasse tragique est un des chefs-d’oeuvre de l’école italienne, il mérite d’être placé à côté de Paisà, Sciuscià et Le Soleil se lèvera encore. L’école italienne est, dans ce bout de l’Europe, celle qui regarde le plus souvent dans la rue. Son message nous parvient d’autant mieux qu’il est pour une part issu de Renoir et de Feyder, et qu’il nous arrive à une époque où un large secteur de notre cinéma côtoie la médiocrité ou l’académisme. La sensation profonde

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causée à Paris par la présentation du Voleur de bicyclette, chef-d’oeuvre de Vittorio De Sica et de la jeune école italienne, démontre que nous avons beaucoup à retenir de ces leçons qui passent à nouveau les Alpes, et nous reviennent : il n’est peut-être pas, depuis dix ans, de film qui ait mieux «regardé dans la rue» que Le Voleur de bicyclette.

Un altro esempio dell’impegno di Georges Sadoul nei confronti del cinema italiano si trova nel 1951, sempre su «Les Lettres françaises», con una vibrante analisi di Miracolo a Milano, in cui si sofferma sulle difficoltà del film con la censura: Une telle thèse ne pouvait plaire aux censeurs italiens. Le scénario choqua vivement le gouvernement De Gasperi. La féerie fut passée au crible policier de l’ordre moral. On exigea plusieurs suppressions, et notamment l’épisode final, auquel tenaient tant les auteurs, où les policiers tiraient à la mitraillette sur les pauvres volant vers le ciel. Le talent, la volonté et la gloire eurent pourtant raison des censeurs. La réussite parfaite de ce chef-d’œuvre apporte à nos réalisateurs et à nos scénaristes une grande leçon. S’ils veulent s’en donner la peine, ils peuvent tout dire, malgré les flics de service. Car l’artiste digne de ce nom est celui qui sait toujours trouver un moyen pour braver la répression intellectuelle.

Va detto, en passant, che Sadoul non appare molto ben informato sulla realtà dei fatti: il film ha certamente avuto problemi con la censura, doveva intitolarsi I poveri disturbano e terminare su dei poveri che non sanno dove appoggiarsi perché dappertutto trovano scritto «proprietà privata». Non è mai stata questione di mitra… Il punto culminante del lavoro militante di Sadoul per il cinema italiano si ha nel 1955, quando scrive la prefazione al libro di Carlo Lizzani pubblicato dagli Editeurs Français Réunis e che era stato tradotto da Armand Monjo, redattore di «l’Humanité» e «Europe». In questo scritto, Sadoul riprende il parallelo tra il cinema francese e quello italiano, al fine di indicare quest’ultimo come modello: La force du néo-réalisme fut accrue par les travaux théoriques menés par les jeunes critiques dans la nuit fasciste. Et l’on peut penser que si un effort identique avait été poursuivi en France durant les noires et glorieuses années de l’occupation et de la Résistance, le néo-réalisme et l’école italienne ne seraient pas devenus entre 1945 et 1950 des synonymes : on aurait en effet parlé de néo-réalisme à Paris comme à Rome, et La Bataille du Rail serait devenu un film-clef d’une importance identique à celle de Rome ville ouverte.

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Poco più avanti aggiunge : Depuis 1945 le cinéma italien est profondément admiré en France, et son influence n'a cessé de croître. […] Les expériences et les réalisations françaises ont joué un rôle capital dans la renaissance du film italien. Une meilleure connaissance des causes profondes de la présente expansion italienne peut contribuer pareillement au développement de notre cinéma, qui n'a pourtant jamais oublié ces principes de la création moderne: coupée du peuple et de la nation, l'œuvre d'art est stérile, elle ne peut prétendre à la permanence et à l'éternité si elle ne commence pas par se tremper dans la brûlante actualité des luttes pour l'indépendance de la patrie et pour les aspirations des travailleurs, qui sont la majorité de la nation.

Infaticabile, Sadoul torna ancora sul cinema italiano su «Europe» (n. 52, avril 1950), con un nuovo articolo intitolato Le néo-réalisme italien. La critica «ideologica» di Sadoul lo porta a mettere in luce ciò che minaccia la scuola neorealista: Le Voleur de bicyclette est venu couronner l’évolution du néo-réalisme italien. Mais cette école pourra-t-elle se développer longtemps? Elle est née de la chute de l’oppression; survivra-t-elle à un nouvel établissement de l’oppression? Elle s’est imposée pour avoir reflété, bien ou mal, les luttes italiennes […]. Le néo-réalisme italien est lié, pour son devenir et son existence, à l’issue des luttes sociales actuelles.

Si noti che come Bazin (come vedremo tra poco), Sadoul segue la rivista «Cinema Nuovo», fondata nel 1952 da Guido Aristarco in seguito alla scissione da «Cinema» e con il fine di sviluppare una critica vicina al partito comunista. Sadoul intrattiene una corrispondenza con Glauco Viazzi, Ugo Casiraghi e Guido Aristarco e quando quest’ultimo viene arrestato nel 1953, insieme a Renzo Renzi, per il fatto de L’armata s’agapò, Sadoul pubblica due articoli su «Les Lettres françaises» per difenderlo. Sadoul è anche in contatto con Luigi Chiarini e soprattutto con Antonello Trombadori (vi sono molte lettere negli archivi di Sadoul alla BiFi).

I convegni di Perugia e di Parma Nell’ottobre del 1949, Sadoul è a Perugia per partecipare al convegno internazionale organizzato per iniziativa dei cineasti italiani intorno alla do-

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manda se il cinema del tempo sia in grado di esprimere i problemi dell’uomo moderno. Come si può vedere, e contrariamente a ciò che capita talvolta di leggere, il convegno non è specificamente incentrato sul neorealismo o sul cinema italiano, ma approccia in maniera più ampia la situazione del cinema di fronte ai problemi del dopoguerra e della pace. Sadoul scrive un resoconto dei cinque giorni di interventi e discussioni in un lungo articolo per «L’Ecran français» (n. 223, 10 octobre 1949) intitolato Rencontre à Pérouse. Sadoul ricorda che le sessioni erano state presiedute da Alessandro Blasetti, Cesare Zavattini, Umberto Barbaro, Paul Strand, Robert Flaherty, Joris Ivens, Alexander Ford; sottolinea l’attiva partecipazione di Camerini, Lattuada, Soldati, Lizzani, di padre Morlion, di Jean Lods, Jean George Auriol, Paul Strand, Ben Barzman e (arrivato verso la fine del convegno per difficoltà di viaggio) di Poudovkin, alla fine del cui intervento ci fu una vera e propria ovazione. Sadoul dà conto della presenza dei critici italiani Ugo Casiraghi, Virgilio Tosi, Mario Gromo, Ettore Margadonna, Galvano Della Volpe e insiste sul taglio internazionale che si è riconosciuto alle responsabilità dei cineasti «à Paris ou à Hollywood, à Rome ou à Moscou, à Budapest, Varsovie, Prague ou Amsterdam». Aggiunge che tutti i relatori si sono trovati d’accordo sul fatto che «le cinéma, sous peine de n’être plus un art mais une mécanique à fabriquer les bénéfices, devait aborder, étudier et aider à résoudre les problèmes de l’homme moderne». In un box (Message aux cinéastes du monde entier) viene ripresa la mozione votata all’unanimità dai congressisti il 28 settembre 1949: Les cinéastes de différents pays, invités à Pérouse par leurs confrères italiens, conscients de la grande responsabilité qu’ils assument par leurs travaux, et de l’importance considérable du cinéma dans la vie morale et sociale, déclarent vouloir favoriser dans chaque pays le développement d’un véritable art du film. Cet art, avec la plus large variété de formes, et la plus totale liberté d’expression, saura inspirer à l’humanité la confiance dans son avenir, et aider les peuples dans leur lutte pour surmonter les périodes critiques de leur histoire, en leur montrant les vrais chemins du bonheur, de la vérité et du progrès, en leur faisant comprendre la vraie situation du monde présent. […] Ils demandent aux créateurs et aux travailleurs du cinéma, dans le monde entier, de s’engager de toutes leurs forces dans la lutte pour la paix. Cette paix qui seule, grâce à la fraternité des peuples, assurera, avec une véritable liberté d’expression, le plein développement du cinéma comme art, comme moyen incomparable de culture, comme expression d’une nouvelle étape de la civilisation.

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Qualche anno dopo, a Parma, nel dicembre del 1953, si tiene un nuovo convegno: questa volta la sua finalità è più orientata verso la situazione del cinema italiano e in particolare del neorealismo. Se ne trova una dettagliata ricostruzione sul n. 41, décembre 1954, dei «Cahiers du cinéma». Nella Presentation, abbastanza breve, di Jean-Louis Tallenay (inviato a Parma da André Bazin, che è impossibilitato a viaggiare nonostante il suo costante interesse per il cinema italiano), si ritrova lo stupore dell’autore di fronte al successo del convegno: Un Français ne pouvait manquer d’être étonné de constater que, du matin au soir et en semaine, la salle d’environ mille places ne désemplissait pas. Ce public parmesan ne venait pas au cinéma car, sauf un soir, il n’y eut pas de projection. Il venait écouter les orateurs qui, pendant trois jours, se succédèrent sans interruption à la tribune pour parler du néoréalisme. Quelle ville en France d’égale importance aurait pu fournir un public aussi fidèle et aussi patient pour un débat sur un sujet d’esthétique cinématographique? L’autre étonnement porte non sur le nombre des auditeurs mais sur celui des orateurs. Serait-il possible en France de trouver des dizaines d’individus compétents qui désirent vivement défendre des thèses personnelles sur un aspect de l’art cinématographique? Serait-il possible surtout de réunir à l’occasion d’un tel débat une dizaine de réalisateurs et scénaristes et même quelques producteurs qui aient une opinion sur la question? […] La Rencontre de Parme était chose sérieuse. On y travaillait du matin au soir comme dans un congrès scientifique.

Tallenay ha portato con sé da Parma una ricca documentazione, che viene affidata a Jules Gritti, il quale ne ricava sette fitte pagine di rivista sotto il titolo En feuillettant les comptes rendus. Gritti offre una descrizione molto dettagliata delle diverse questioni discusse in occasione del convegno e cita molti degli intervenuti (alcuni dei quali presenti anche a Perugia): Giuseppe De Santis, Mario Soldati, Luigi Chiarini, Guido Aristarco, Alfredo Guarini, Gian Carlo Vigorelli, Cesare Zavattini, Carlo Lizzani, Renzo Renzi, Carlo Bernari, Alberto Lattuada, Nicola Ciarletta, Piero Nelli... Gritti cita poi De Santis: «Il n’est pas possible pour le néoréalisme de maintenir et de développer les formidables secousses des années qui suivirent la chute du fascisme, sans un climat de liberté politique pour l’artiste». E conclude così la sua lunga analisi: Si crise il y a du néoréalisme, c’est bel et bien une crise de croissance. Un Congrès d’une telle envergure devait porter à l’attention générale autre chose qu’une simple forme locale de cinéma: un mouvement général de la culture contemporaine, l’espérance invincible d’une nouvelle civilisation humaine.

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André Bazin: «Un humanisme révolutionnaire» André Bazin è a Cannes nel 1946 e scrive dal festival per «Le Courrier de l’étudiant» (30 octobre-13 novembre 1946)3. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Bazin esprime delusione nei riguardi della selezione: «On retiendra 5 ou 6 films dont la réalisation répond à une incontestable utilité : Bataille du rail, Rome ville ouverte, La Dernière Chance, Brève rencontre, La Symphonie pastorale, Maria Candelaria.» A proposito del film di Rossellini scrive: «La scène de torture de Rome ville ouverte prolonge sans faille et naturellement le sobre et vigoureux réalisme de l'action.» Oltre a ciò, non manifesta particolare entusiasmo nei confronti del film. Per Bazin sarà Paisà, prima di Germania anno zero e di Viaggio in Italia, a rivelare veramente Rossellini. Gli articoli di Bazin appaiono su «Le Parisien libéré», «L’Ecran français», i «Cahiers du cinéma», «Radio-Cinéma-Television» (che diventerà «Télérama»); testi essenziali compaiono anche sulla rivista «Esprit» e comunque gli studi più significativi sono ripresi nel quarto volume della serie Qu’est-ce que le cinéma? Nel gennaio 1948 esce su «Esprit» il famoso articolo Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione, in cui Bazin scrive: In un mondo ancora e già ossessionato dal terrore e dall’odio, in cui la realtà non è più quasi mai amata per se stessa ma solo rifiutata o difesa come segno politico, il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno stesso dell’epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario4.

Sempre su «Esprit», nel novembre del 1948, esce un articolo su La terra trema di Visconti e nel novembre del 1949 un altro su Ladri di biciclette di De Sica. Secondo Bazin, i film più importanti di quegli anni sono Paisà, La terra trema e soprattutto la trilogia di De Sica composta da Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D, film che corrispondono meglio all’impegno ideologico di un critico segnato dallo spiritualismo. Questo interesse per De Sica è rilevato anche in Italia, tant’è che nel 1953, quando l’editore Guanda di Parma pubblica il terzo volume della sua collana Piccola biblioteca del cinema (il primo era stato su Clouzot e il secondo su Flaherty), assegna a Bazin il compito di scrivere sull’autore di Miracolo a Milano (e va però precisato che il volume è un libriccino e che il testo di Bazin è assai breve). A proposito di De Sica, l’accoglienza riservata a Ladri di biciclette in occasione della presentazione alla Salle Pleyel nel marzo 1949, era stata

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particolarmente calorosa e nel suo libro La porta del cielo, De Sica stesso racconta lungamente quella prima trionfale: Alla sala Pleyel si dava la prima europea del film. Il regista Becker aveva visto il film a Roma e aveva voluto che la critica, gli artisti, i letterati di Parigi lo vedessero perché lo giudicava una rivelazione del nuovo cinema neorealista italiano. Passeggiavo fuori della sala Pleyel in attesa che il film cominciasse, e mi chiedevo se il film, con dei personaggi tipicamente italiani, con abitudini e sentimenti così nostri, sarebbe piaciuto a un pubblico abituato a forme di spettacolo così diverse dagli spettacoli d'Italia. A un certo punto vidi un operaio che attraversava la strada e che portava in braccio un bambino. Mi bastò per tranquillizzarmi. Il pubblico parigino non si sarebbe meravigliato che un uomo, un operaio, si accompagnasse per le strade con un figlioletto. Ed entrai tranquillo nella sala. Mi sedetti accanto al critico delle «Nouvelles Littéraires», Geoges Charensol. Vide la mia espressione di terrore nell'accorgermi che nella sala, piena fino all'inverosimile, vi erano i nomi più illustri della letteratura, del teatro e del cinema francese. Charensol mi prese una mano, la strinse e mi disse di aver già visto il film, e che era sicuro del suo successo. Mentre Becker parlava sul palcoscenico, raccontando come per caso era entrato in un cinema romano per vedere questo film, siccome sapeva che i distributori europei e americani non avevano dimostrato nessun interesse ad acquistarlo,volle che almeno gli artisti di Francia lo conoscessero. Alla fine del suo breve discorso, si rivolse a me pregandomi di dire due parole ai presenti. Mi alzai pallido e tremante, le gambe quasi non mi reggevano salendo i gradini che portavano sulla scena, e dissi in francese alcune parole di gretitudine verso Becker, augurandomi che il film avesse il successo che meritava realmente. La proiezione si svolse nel silenzio più assoluto e nell'attenzione più profonda di quel pubblico abituato a spettacoli, a manifestazioni artistiche così alte e nobili che fanno di Parigi il luogo dove si decide la sorte di qualsiasi forma di spettacoloe di ogni forma d'arte. Alla fine della proiezione, il pubblico era profondamente commosso. André Gide uscendo dalla sala e passandomi davanti mi disse: «Domani le mando in albergo un mio libro con dedica». Il regista René Clair scese le scale che portavano al posto dov’ero io per abbracciarmi, singhiozzando. Sono ricordi che non si potranno più cancellare dalla mia mente. Mani protese di attori come Madeline Renaud e Jean-Louis Barrault, tutti i registi francesi da Renoir a Becker a Delannoy, tutti i più grandi critici di Francia. E dal loggione mille voci gridavano: «Bravo, bravo!». Ero impietrito. Non volevo piangere per non sembrare troppo napoletano, e non potevo respirare. Balbettavo soltanto: «Grazie, grazie»5.

Di fatto la proiezione si concluse tra l’entusiasmo delle persone presenti e nel lungo articolo pubblicato qualche mese più tardi su «Esprit» (novembre 1949), Bazin chiude la sua riflessione in questi termini:

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La riuscita suprema di De Sica, a cui altri non hanno fatto sinora che avvicinarsi più o meno, è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell’azione spettacolare e dell’avvenimento. In ciò, Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione perfetta della realtà: niente più cinema6.

Nel libro del 1953 Cinéma 53 à travers le monde, pubblicato dalle Editions du Cerf e cui collaborarono Jacques Doniol-Valcroze e Chris Marker, è Bazin a scrivere il capitolo En Italie, dove analizza nel dettaglio l’evoluzione della cinematografia transalpina ed esprime la sua ammirazione per i film di De Sica (Umberto D., sottolineando invece la debolezza di Stazione Termini), Rossellini (Europa 51), Antonioni (La signora senza camelie, I vinti), Germi (Il cammino della speranza), De Santis (Non c’è pace tra gli ulivi, Roma ore 11). Nel tentativo di essere il più esaustivo possibile, Bazin, dopo aver passato in rassegna i film più significativi della stagione 1952-1953, aggiunge anche delle considerazioni riguardanti «les oublis et les anomalies d’une exploitation parfois digne du royaume de Pologne du Père Ubu»: Deux films au moins auraient dû sortir depuis longtemps avec tout l’éclat digne de leur mérite. C’est d’abord un film d’Alberto Lattuada : Le Manteau. Réalisé d’après la célèbre nouvelle de Gogol, ce film sans doute le meilleur de Lattuada aurait dû remporter au Festival de Cannes 1952 le prix de la mise en scène. Souhaitons d’en parler plus en détail l’année prochaine. Enfin, si les distributeurs français connaissaient leur métier, ils n’auraient pas manqué non plus de faire un sort à un délicieux petit film comique – Le Scheik blanc – du scénariste Fellini présenté au Festival de Venise 1952 et que je trouve pour ma part supérieur à I Vitelloni, du même auteur, dont les Italiens ont fait grand cas cette année.

Bazin, nella sua foga di ministrante del cinema italiano, arriva fino ad incrociare le lame con Guido Aristarco, direttore della rivista «Cinema Nuovo», di cui la critica francese trova eccessiva la severità nei confronti del cinema italiano all’inizio degli anni Cinquanta. Così, in una lettera famosa pubblicata sulla rivista italiana e di cui l’originale si trova nel volume delle Editions du Cerf, si può leggere una vigorosa difesa di Rossellini a seguito della polemica divampata in Italia per il film Viaggio in Italia, che in Francia veniva considerato, per usare una terminologia più tarda di Serge Daney, come «l’atto di nascita del cinema moderno»:

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Oserai-je vous dire, cher Aristarco, que la sévérité dont Cinema Nuovo fait preuve à l’égard de certaines tendances considérées par vous comme des involutions du néo-réalisme me fait craindre que vous ne tranchiez à votre insu dans la matière la plus vivante et la plus riche de votre cinéma? Pour ma part j’admire le cinéma italien avec assez d’éclectisme, mais il est des sévérités que j’admets venant de la critique italienne. Que le succès en France de Pain, amour et jalousie vous irrite, je le comprends, c'est un peu comme celui des films de Duvivier sur Paris pour moi. Par contre quand je vous vois chercher des poux dans la tête ébouriffée de Gelsomina ou traiter comme moins que rien le dernier film de Rossellini, force m’est de trouver que, sous couvert d’intégrité théorique, vous contribuez à stériliser certaines des branches les plus vivaces et les plus prometteuses de ce que je persiste à nommer le néo-réalisme.

Così, all’indomani della fine della guerra, il cinema italiano è stato largamente sostenuto dalla critica francese, la quale ha preso parte al dibattito sul neorealismo, lo ha discusso dall’alto del suo magistero e del suo livello culturale e ha sostenuto in particolare e più vigorosamente i cineasti italiani che non ricevevano riscontri adeguati nel loro paese. È una delle prerogative più frequentemente notate quella secondo cui la critica francese si vuole bussola del gusto e adotta con piacere posizioni normative nei confronti delle cinematografie straniere. Nei casi di Sadoul e Bazin, pronti anche a scontrarsi con la critica italiana, questa critica apporta anche il suo filtro ideologico di analisi, comunista in un caso, spiritualista nell’altro.

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Note 1. Cfr. L. Latil, Le festival de Cannes sur la scène internationale, Nouveau Monde Editions, Paris, 2005. 2. Questo articolo è riportato da Olivier Forlin in uno studio molto documentato: Les élites intellectuelles et la diffusion du cinéma italien en France de 1945 aux années 1970 , in «Rives méditerranéennes», n. 32-33, 2009. 3. Il testo è ripreso in A. Bazin, Le cinéma de l’occupation et de la resistance, Union générale d’éditions, Paris, 1975. 4. A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999, p. 280. 5. V. De Sica, La porta del cielo. Memorie 1901-1952, Avagliano, Cava de’ Tirreni, 2004, pp. 104-106. 6. A. Bazin, Che cos’è il cinema?, cit., pp. 317-318.

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Italia-America: sguardi ‘altri’ sul neorealismo e il suo oltre Manuela Gieri La lontananza rimpicciolisce gli oggetti all’occhio, li ingrandisce al pensiero. Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena

Nel dicembre del 2013 a Parma, in occasione del sessantesimo anniversario del primo convegno sul neorealismo tenutosi in città nel dicembre del 1953, ha avuto luogo un altro convegno che si è proposto di riflettere «nuovamente» sul neorealismo, sulla sua evoluzione e sulla sua eredità. Quel primo e storico incontro, nato da un’idea di Cesare Zavattini e sostenuto da Pietro Barilla, Attilio Bertolucci, Luigi Malerba, nonché Antonio e Virginio Marchi, aveva visto la partecipazione di alcuni tra i protagonisti di quella straordinaria stagione del nostro cinema e pur anche dei maggiori rappresentanti della critica del tempo; tutti si interrogarono sulla «questione neorealista» e cercarono di comprenderne il destino proprio nell’anno in cui sarebbe iniziato il suo declino. O almeno così parve ai più. Il convegno del 2013 si poneva, ovviamente, in altra posizione prospettica e cercava di scandagliare la stessa questione neorealista, di comprenderne i limiti, etici ed estetici, ma anche spazio-temporali, e di prospettarne, eventualmente, le nuove potenzialità sulla scia di un rinnovato interesse registrato a livello mondiale e promosso dalle sollecitazioni pervenuteci dalle nuove tecnologie che ci impongono una ulteriore riflessione sulla questione del «realismo» dell’immagine, e ancor di più dell’immagine in movimento. All’interno del nuovo convegno, il mio ruolo è stato ovviamente riflettere sul neorealismo ma, soprattutto, sulla sua «fortuna» Nord-Americana: era da un lato un progetto ambizioso, e dall’altro è risultata un’emozionante avventura poiché il neorealismo, o, per meglio dire, i neorealismi sono da sempre uno dei fulcri della mia investigazione critica, una delle mie «ossessioni», e il ritornare a tale riflessione ha anche significato riallacciarmi a uno dei periodi più intensi e più belli della mia vita e, nella fattispecie, ai miei ventiquattro anni nord-americani. Iniziati nel 1983 con un dottorato in Ita-

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lian and Film Studies, quasi a ridosso del completamento della mia prima laurea presso l’Ateneo bolognese, e terminati nel 2007, dopo ben diciotto anni di carriera accademica tra la California e Toronto, con il mio ritorno in Italia, casualmente essi costituiscono un periodo che ha magicamente coinciso con una delle fasi apicali nelle sorti progressive, o per meglio dire, nella ricezione del cinema italiano, ed in particolare, appunto, del neorealismo e del suo oltre, e cioè gli anni Ottanta e Novanta, sia nel panorama della critica sia nella storia spettatoriale del Nord-America. Naturalmente, avrei potuto concentrarmi soltanto sul lavoro da me svolto per più di un ventennio in Nord-America sull’oltre del neorealismo, e cioè sui percorsi attraverso i quali quel momento rivoluzionario nella storia del nostro cinema, e di quello mondiale, si è costantemente rigenerato, lasciando tracce indelebili sul cinema contemporaneo. Sarebbe stata cosa giusta e fors’anche opportuna sia in considerazione degli svariati saggi che negli anni ho dedicato a questo argomento1 sia grazie al fatto che l’ultimo decennio ha registrato il fiorire di studi sull’oltre del neorealismo, appunto, in diverse cinematografie ma anche nel mondo dei media audiovisivi, sulla scia di un rinato interesse per il dibattito più generale sul realismo promosso dalle nuove tecnologie, come si accennava in precedenza, nonché, cosa forse più rilevante in questa sede, su quello studioso che forse più di altri, nel Novecento, ha contribuito a posizionare il neorealismo in un paradigma correttamente storicizzato, sortendo l’effetto di ampliarne così i confini, e cioè André Bazin2. Mi è parso, invece, più giusto ed appropriato, forse anche in uno sforzo auto-ermeneutico, per così dire, ripercorrere la storia di quella fortuna, partendo da quello che ne è stato l’inizio vero, e non solo per me. Gli anni Ottanta, appunto. La decisione è stata motivata dalla realizzazione, maturata molti decenni fa, della distanza, non solo geografica, tra l’accademia italiana e quella nord-americana, una distanza che ha prodotto una sostanziale diversità nella valutazione del fenomeno neorealista, del suo destino e non solo. Certo, ovviamente, la Storia non inizia in quel decennio e in quel modo: il primo racconto articolato storicamente sull’evoluzione del nostro cinema pubblicato negli Stati Uniti mi risulta sia The Italian Cinema di Vernon Jarratt, uscito nel lontano, ma non lontanissimo (considerato il fatto che i primi film italiani sono della fine dell'Ottocento) 1951. Il testo è pressoché

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assente dalle biblioteche italiane, ma questo non è un dato significativo, visto che la nostra accademia ha, nei decenni passati, mostrato una certa disattenzione nei confronti degli sforzi fatti sia dalla storiografia sia dalla critica nord-americane in relazione al cinema italiano; questo è indiscutibilmente vero, ovviamente, e lo è sino alla fine degli anni Novanta del Novecento, o giù di lì, quando si registra un nuovo interesse verso la produzione nord-americana sul cinema italiano. A riprova, è sufficiente visionare le collezioni delle nostre biblioteche, nonché le bibliografie dei testi sul cinema italiano pubblicati in Italia sino alle porte del nuovo millennio. È alquanto evidente che tale «non presenza» era dovuta, per buona parte, a due diverse interpretazioni del neorealismo e della sua «influenza», maturate in Nord-America e in Italia, vista la centralità che tale riflessione venne ad avere negli studi nord-americani sin dai primi sforzi fatti in tale direzione e vista invece la coltre di oblio che per qualche decennio ha coperto la questione neorealista negli studi della nostra accademia. In ogni caso, l’assenza del volume di Vernon Jarratt nelle bibliografie sul cinema italiano pubblicate in Italia è soltanto un «peccato veniale», per così dire, poiché è indubbiamente un testo marginale, che trova la sua unica rilevanza nel fatto di rappresentare il primo lavoro più o meno sistematico scritto sul cinema italiano e pubblicato in Nord-America. A questo ne seguirono presto altri, ma il primo studio di una certa rilevanza sulla storia del nostro cinema realizzato nel nuovo continente è Italian Cinema: From Neorealism to the Present, scritto da Peter Bondanella e pubblicato nel 1983; è questo un volume che, pur iniziando in maniera alquanto canonica con il brevetto di Alberini del 1895 e dedicando il primo capitolo al grande cinema muto italiano nonché a quello del ventennio, proclama già nel suo titolo la centralità del neorealismo, un riconosciuto protagonismo che successivamente, almeno per alcuni decenni, divenne il cuore pulsante dello sforzo storiografico e critico-teorico sviluppato in Nord-America sul cinema italiano. Dello stesso tenore è, infatti, anche il volume, quasi contemporaneo, di Mira Liehm, e cioè Passion and Defiance. Film in Italy from 1942 to the Present, pubblicato nel 1984 (seppur terminato nel 1982, come testimonia la prefazione dell’autrice). Il testo dedica, tra l’altro, un’interessante, oltre che poetica, introduzione all’incontro magico tra Luchino Visconti e Giuseppe De Santis, avvenuto nell’estate del 1940 su una nave diretta a Capri, e

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il cui esito fu, come lo definisce la stessa Liehm, «a film, a milestone, Ossessione»3. Da questo antefatto, e cioè appunto dal riconoscimento di Ossessione come pietra miliare di un processo evolutivo quasi rivoluzionario del fatto filmico, parte una intensa e profonda disanima del ruolo imprescindibile che il cinema neorealista ebbe nella storia del cinema italiano dell’immediato dopoguerra, ma anche di quello successivo. L’autrice, infatti, chiude il suo volume con un capitolo intitolato Under the Sign of Violence in cui, attraverso l’analisi dei lavori dei Taviani e di Olmi, spiega quanto la svolta metaforico-poetica degli anni Settanta fosse già iscritta nel paradigma neorealista, e, citando le parole di Luchino Visconti, e cioè «considero il neorealismo come l’inizio dell’evoluzione del cinema italiano come arte»4, di fatto riconosce al neorealismo, così come aveva fatto Bondanella, un ruolo centrale nell’evoluzione del nostro cinema nazionale. La domanda che è necessario porsi pare essere, dunque, in che cosa consistesse veramente, e su che cosa si sia costruita tale centralità nell’immaginario nord-americano, poiché se non è sconosciuto ai più il contributo che il cinema italiano delle origini, ed in particolare quello della prima età dell’oro della nostra cinematografia, e cioè il periodo che all’incirca va dal 1905 al 1915, aveva già generosamente offerto alla storia del cinema a stelle e strisce, si deve poi registrare che per molti decenni tale periodo sfugge all’analisi dell’accademia americana. Se si va a scartabellare pazientemente nei diversi cataloghi delle biblioteche nord-americane, si nota come una prima, se non significativa, a volte, curiosa, presenza del nostro cinema si possa registrare sul finire degli anni Sessanta, spesso traghettata da titoli di pubblicazione anglosassone. È del 1966, ad esempio, la pubblicazione di Italian Cinema Today, traduzione inglese di un volume di Gian Luigi Rondi (London, Dobson); del 1968 l’edizione cartacea della sceneggiatura del capolavoro neorealista di Vittorio De Sica, Bicycle Thieves: a Film (London, Lorrimer Publishing Ltd.), e del 1970 quella di due sceneggiature di opere viscontiane, e cioè La terra trema (1948) e Senso (1954), in Two Screenplays, uscito, finalmente, nel Nuovo Continente, a New York con la casa editrice Garland Publishing. Agli albori del nuovo decennio, nel 1973, vediamo anche la pubblicazione in lingua inglese del volume di Pierre Leprohon, The Italian Cinema (London, Secker and Warburg), anche se gli anni Settanta, sempre scartabellando lo si scopre, sono un tempo che vede nell’accademia e nell’entourage cri-

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tico americani l’esplosione, vera e propria, del cinema «d’autore», di marca italiana, e non solo. Il neorealismo, dunque, in quella decade rimane, per così dire, ancora uno sfondo che attende di essere completamente svelato. Eppure, alcuni fatti importanti erano già accaduti negli anni Sessanta: in primo luogo, nel 1962, Andrew Sarris pubblica su «Film Culture» Notes on the Auteur Theory in 1962, e cioè il famoso saggio con il quale in Nord-America inizia, con forza, un dibattito sul cinema d’autore, sull’autorialità, in stretto dialogo con i critici dei «Cahiers du Cinéma», un dibattito che si rivelò centrale e che produsse, tra l’altro, il fiorire di studi su registi come Antonioni, Fellini, Visconti, Pasolini e anche Rossellini5, alcuni cioè degli autori italiani certamente più amati dall’accademia e dal pubblico dei cinefili americani. A partire dalla traduzione e dalla pubblicazione del saggio di Leprohon su Antonioni nel 1963, Michelangelo Antonioni: an Introduction, e sull’onda della politique des auteurs proliferano in quella decade studi sui nostri grandi protagonisti degli anni Cinquanta e Sessanta appunto, e cioè su quel cinema d’autore che insieme alla Nouvelle vague francese, al Free Cinema inglese e ad altre voci autorevoli, quali quelle di Ingmar Bergman e Luis Buñuel, venne a scuotere l’egemonia del sistema hollywoodiano e aprire la strada a una nuova interpretazione del fatto filmico. Quella interpretazione, però, non era del tutto cosa nuova, ed era anzi figlia di ciò che era accaduto al cinema europeo nella seconda metà degli anni Quaranta, e soprattutto grazie al neorealismo, o quantomeno dell’interpretazione che di quegli eventi se ne dava oltre Oceano, alla luce di alcune acquisizioni che venivano dal vecchio continente, ed in particolare dalla Francia. Per riuscire ad avvicinare ulteriormente l’oggetto della nostra analisi, è necessario ricordare un altro evento che segna, nel contesto di questa panoramica storiografica, la seconda metà degli anni Sessanta, ed è in gran parte responsabile di quel ripensamento d’oltreoceano sul neorealismo stesso di cui si accennava in precedenza. Ciò che motivò, infatti, quella prima messa a fuoco del cinema italiano in generale e del neorealismo in particolare da parte dell’accademia americana, fu la pubblicazione, in inglese, in due volumi, presso la University of California Press, di Qu’est-ce que le cinéma? di André Bazin, nella traduzione di Hugh Gray: il primo volume uscì nel 1967, con una prefazione di Jean Renoir, il secondo nel 1971, con la prefazione di François Truffaut. Non è necessario, in questa sede, dilungarsi sui numerosi motivi per i

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quali il neorealismo debba così tanto al lavoro di André Bazin, e non solo relativamente alla sua ricezione d’oltreoceano, poiché sono fatti noti, né è opportuno o quantomeno necessario indagare qui i motivi per i quali tanto si debba alla lettura baziniana l’influenza che il neorealismo venne ad avere nello sviluppo di altre cinematografie nazionali poiché questa non è la sede adatta a tale riflessione: l’unica cosa che è forse opportuno dire per accompagnare il lettore attraverso le maglie del nostro ragionamento, è che, alla luce degli scritti del padre dei «Cahiers» e della NouvelleVague, il neorealismo si venne a liberare dell’ipoteca «sociologica» che ne aveva segnato la s/fortuna nei primi anni del dopoguerra, e se ne enfatizzò, invece, la dimensione umanistica, nonché la seria e puntuale ricerca stilistica, all’interno di un preciso paradigma, adeguatamente storicizzato. È infatti sia nel riposizionamento del regista come autore sia in questo slittamento di enfasi dal contenuto alla forma di marca baziniana, se si vuole, che si rilevano le due prime e più importanti motivazioni della «messa in rilievo», e cioè del riconoscimento esplicito di una centralità ideale e paradigmatica del neorealismo italiano che sono i primi responsabili di quella proliferazione di studi nord-americani sul neorealismo e sul suo oltre a partire dagli anni Ottanta. Dunque, per ciò che riguarda la ricezione nord-americana del cinema italiano in generale e del neorealismo in particolare, poiché appare chiaro che le due cose vanno a braccetto, la pubblicazione del saggio di Sarris e quella dei volumi di Bazin sono due eventi che paiono collegati, poiché mettono al centro dell’investigazione critico-teorica americana, come si è già detto, sia la questione del regista come autore sia la questione del ruolo del cinema italiano in quel generale movimento di rivoluzione del linguaggio filmico che in Europa si è chiamato Modernismo, e che esplode sul finire degli anni Cinquanta, in Francia, in Inghilterra ed anche in Italia, mettendo in seria crisi l’egemonia hollywoodiana e imponendo un ripensamento globale del fatto filmico, nel Vecchio ma anche nel Nuovo Continente. Di tale centralità sono prova certamente i già citati volumi di Bondanella e di Liehm, ma anche, e non deve essere dimenticato, il precedente Patterns of Realism di Roy Armes, uscito nel 1971, e cioè a soli quattro anni di distanza dalla pubblicazione dei testi baziniani, e di cui gli studi nord-americani degli anni Ottanta raccolgono indubbiamente l’importante eredità: è Armes, infatti, che tratteggia con puntualità le caratteristiche del neorealismo, molte

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delle quali vengono identificate sulla traccia del discorso baziniano, e che dichiara senza ambiguità, nella presenza del regista come autore, una delle acquisizioni più significative del neorealismo stesso, e quella a cui si deve, a suo avviso, quella ricchezza di interpretazioni del realismo filmico che contrassegnò la storia del cinema italiano negli anni Quaranta. Nella sezione finale del suo volume, Evaluation, nel paragrafo intitolato Anatomy of a Style, Armes, infatti, afferma: The construction of an artefact implies the existence of someone who interprets reality and it is the director who, by filling this role, reasserts this supremacy. All the basic methods employed by neo-realism contribute […] to this preheminence of the director, who emerges unrivalled as the creative force in neo-realism6.

Il decennio degli anni Settanta, dunque, porta a compimento un tragitto inziato negli anni Sessanta per una messa fuoco e in centralità del neorealismo come propulsore di un nuovo «pensiero cinema», in cui l’autore si costituisce come forza creatrice del fatto filmico e la realtà riasserisce la propria posizione di privilegio nella rappresentazione cinematografica, una voce e uno sguardo che si vogliono protagonisti nella messa in forma di quella «coralità» fatta di voci e sguardi individuali e personali di cui parlava Calvino nella famosa prefazione aggiunta nel 1964 al suo Il sentiero dei nidi di ragno. Questa è l’eredità che raccolgono ed amplificano le diverse storie del cinema italiano uscite in Nord-America nei primi anni Ottanta, affidando al neorealismo una posizione di rilievo e di centralità all’interno del movimento riformatore del linguaggio filmico che, nato negli anni Quaranta, esplose poi alla fine degli anni Cinquanta per compiersi definitivamente nei Sessanta. Eppure gli anni Ottanta non sono solo questo, e cioè non sono definiti soltanto dal tentativo di interpretazione del superamento dello stile classico hollywoodiano nella proposta neorealista, poiché invece segnano anche il superamento della modernità stessa nell’allucinazione post-moderna. Per questo motivo, e per comprendere adeguatamente le motivazioni grazie alle quali la storiografia nord-americana abbia, dagli anni Ottanta a oggi, dedicato tanta e tale energia alla «messa in prospettiva» del neorealismo (diversamente da quanto è accaduto in Italia, ove si è costantemente cercato invece di circoscrivere il fenomeno – e la discussione adeguata di tale prospettiva richiederebbe un’altra occasione), è necessario considerare

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Manuela a cura di C. Annoni,

un terzo evento, che al tempo scosse profondamente gli studi di cinema in Europa, ma anche in Nord-America: nel 1983, in Francia, si pubblica Cinéma 1 – L’image-mouvement, e, fatto per noi ancor più rilevante, nel 1985, esce Cinéma 2 – L’image-temps, entrambi frutto del ricco e complesso pensiero di Gilles Deleuze. Pubblicato in inglese per la prima volta nel 1986 da The Athlone Press, e cioè la casa editrice della University of London, il primo volume ricevette poi nuova pubblicazione nel 1989 dalla University of Minnesota Press, accompagnato subito dal secondo, confermando così un esplicito interesse da parte dell’accademia americana. La novità di Deleuze, con le necessarie approssimazioni, è sia l’enfasi posta su quella che è la natura vera dell’esperienza filmica, e cioè la sovversione ontologica, sia il rifiuto sistematico di quei codici che altri tipi di analisi davano allora per scontati (e il riferimento qui, visto il contesto storico in cui l’analisi deleuziana si andò ad inserire, è la psicoalnalisi di marca lacaniana che, tra l’altro, proprio in quegli anni dilagava in Nord-America, ma anche la semiotica), sia la forza con cui il filosofo francese giunse ad identificare l’essenza del cinema nel fatto che esso ci consente di «abitare il reale», e ci invita a pensare così al film come alla modalità grazie alla quale ciò ci è possibile. Questa nuova ontologia non costituiva una fuga dalla Storia, ma anzi si sostanziava e si rivelava proprio nella storia del cinema nonché in date e specifiche situazioni storiche. È così che, in un certo senso, Deleuze «ritorna» a Bazin, alla sua concezione della realtà filmica, della dimensione ontologica del film, della sua forma, nonché del reale e del tempo nel cinema. Nonostante le tante differenze che li dividono, come è stato già osservato da altri, nella loro marginalità, per così dire, Bazin e Deleuze trovano un importante punto di contatto: rigettando le analisi semiotiche del cinema («to the "avatars of the signifier"», «Cinema» 2, p. 137; edizione italiana p. 154), infatti, Deleuze ritorna sia alla concezione della storia del cinema promossa da Bazin sia alla sua idea della dimensione ontologica dell’immagine filmica. Il debito più rilevante di Deleuze nei confronti di Bazin, ai fini di questo nostro discorso, pare essere allora il suo utilizzo del paradigma storiografico baziniano come principio strutturante di entrambi i suoi due volumi sul cinema. Questa messa in prospettiva storica, con un accentuato movimento

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in avanti, anziché all’indietro, una sorta di mise-en-avant, invece che mise-en-abyme, è indubbiamente il contributo che, in relazione al neorealismo nonché alla sua ricezione e interpretazione nord-americana, si è reso più produttivo. È come se Deleuze ci abbia permesso, e consentitemi di prendere a prestito una bella immagine dalla biologia, di realizzare il rapporto tra ontogenesi e filogenesi, e cioè tra individuazione e storia della specie-cinema, aiutandoci a concentrare il nostro sguardo, finalmente, sulla temporalità, l’anello forse mancante nella proposizione baziniana. Il contributo deleuziano, dunque, offrì quella complessità che ha consentito, dagli anni Ottanta ad oggi, quella messa in prospettiva del neorealismo che mi pare abbia caratterizzato lo sforzo storiografico di tanta produzione critica americana, iniziata con i testi di Bondanella e Liehm ma rafforzatasi con quelli di Millicent Marcus, a cominciare dal suo Italian Film in the Light of neorealism pubblicato nel 1986, ma anche con i volumi curati da Antonio Vitti, e con i lavori di tanti altri studiosi, fra i quali mi permetto di includermi, che negli ultimi trent’anni hanno contribuito a mantenere vivo il dibattito nord-americano e internazionale su uno dei momenti di rinnovamento più significativi del fatto filmico, identificandone se non l’influenza di certo la continuità nel cinema a noi contemporaneo, e che oggi vedono una straordinaria fioritura di testi, come ad esempio il volume curato da Lúcia Nagib e Cecília Mello, Realism and the Audiovisual Media (2009) ma anche Global neorealism. The Transnational History of a Film Style, curato da Saverio Giovacchini e Robert Sklar ed uscito in hardcover nel 2011 ma in paperback nel 2013, che ne vanno a rintracciare i riverberi nella storia di un cinema globale e nella più generale evoluzione del media audiovisivo. E così la storia continua.

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Manuela Gieri

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Note 1. Si vedano, ad esempio: L’urgence de l’Histoire dans le ‘nouveau cinéma italien’: l’événement, du factuel au spectatoriel in D. Budor (a cura di), L’événement à l’épreuve des arts, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris, 2013, pp. 83-98; Liberare lo sguardo: nuovi percorsi per una storiografia del cinema italiano del dopoguerra in E. Biasin, R. Menarini e F. Zecca (a cura di), Atti del XIV Convegno Internazionale di Studi sul Cinema. Le età del cinema/the ages of cinema,Forum, Udine, 2008, pp. 245-258; Corsi e ricorsi del neorealismo: da Italo Calvino ai fratelli Taviani tra magia, mito e memoria, in un numero speciale di «Esperienze letterarie - Letteratura e cinema», curato da M. Santoro e A. Vitti, ottobre-dicembre 2006, pp. 27-57; Strategie della memoria e dell’oblio nel nuovo cinema italiano in A. Vitti (a cura di), Incontri con il cinema italiano, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2003, pp. 289-313; Landscapes of Oblivion and Historical Memory in the New Italian Cinema, in G. Marrone (a cura di), Annali d’Italianistica. New Landscapes in Contemporary Italian Cinema, 17 (1999), pp. 39-54. 2. Questo rinato interesse per la riflessione di André Bazin mi ha portata a riconoscergli centralità anche nella redazione del primo volume della mia storia del cinema, Cinema. Dalle origini allo Studio System (1895-1945), Carocci, Roma, 2009. 3. M. Liehm, Passion and Defiance. Film in Italy from 1942 to the Present,The University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1984, p. 1. 4. Ibid, p. 314. 5. P. Leprohon, Michelangelo Antonioni: an Introduction, Simon and Schuster, New York 1963; Ian Cameron & Robin Wood (eds.), Antonioni, Praeger, New York, 1968; O. Stack, Pasolini on Pasolini: interviews with Oswald Stack, Thames & Hudson, London, 1969; José Luis Guarner, Roberto Rossellini, translated by Elisabeth Cameron, Praeger, New York 1970; A. Solmi, Fellini, Merlin, London, 1967; G. Salachas, Federico Fellini, Crown Publishers New York, 1969; G. Nowell-Smith, Luchino Visconti, Garden City, Doubleday, New York, 1968. 6. R. Armes, Patterns of Realism, Cranbury, A.S. Barnes and C., Inc., New Jersey, 1971, p. 188.

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PARTE V PAESAGGI/FORME/TEMPORALITÀ

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Modelli, chimere, anacronismi. Neorealismo e paradossi documentari Marco Bertozzi 1. Umanità perdute La sottostima italiana per le ricerche sul cinema documentario trova nel neorealismo un caso emblematico. Come ricordava Gian Piero Brunetta, in quegli anni restano «consistenti zone d’ombra, vaste terre incognite, o appena esplorate, o in pratica uscite dalla memoria, come era accaduto al cinema muto fino a qualche decennio fa»1. Indagare il cinema documentario vuol dire misurarsi con «un lavoro sommerso entro cui si esercita, in maniera ancora più radicale, la possibilità di controllo e manipolazione da parte del potere politico. Ma anche incontrare uno spazio entro cui si continuano a proporre discorsi e ad esplorare realtà, godendo di margini di libertà e di sperimentazione impossibili per un lungometraggio»2. Stupisce come la riflessione sul neorealismo, eletto a potente transcategoria capace di accogliere quasi di tutto, sino a definire una serie di percezioni fortemente stereotipate, abbia trascurato in maniera evidente proprio il suo orizzonte documentario. Mai come per questo cinema sembra ampliarsi «la divaricazione tra il piano delle idee, delle poetiche, delle teorie e quello delle opere: ovvero tra i discorsi sull’identità del neorealismo e la dimensione testuale in cui tale identità dovrebbe incarnarsi o trovare conferma»3. La quasi totalità delle analisi ha privilegiato il cinema di finzione, citando tutt’al più gli esordi d’autore (i cortometraggi di Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini, Francesco Maselli, Valerio Zurlini, Florestano Vancini, Luigi Comencini e altri) o alcuni momenti celebri di cinema ibrido (i film a episodi curati da Zavattini, nel 1953). Per il resto, il documentario di quegli anni resta un cinema perduto, dimenticato come i profughi che vissero a Cinecittà negli anni fra il 1944 e il 1950. Analoghi oblii storiografici, racconti mai assurti alla sfera pubblica: forse possiamo ripartire da lì, da quella potente allegoria sui destini degli uomini – dove gli spazi della finzione cinematografica

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diventano luoghi di «vere» vite scampate al massacro – per affrontare alcune dimenticanze del nostro più importante realismo cinematografico. Proprio il neorealismo sembrò non accorgersi dell’umanità – decine di migliaia di persone – che per anni vissero accampate dentro la ex città del cinema. Mentre i cinegiornali seguivano l’enfasi filogovernativa della resurrezione, arrestando le cineprese ai cancelli del campo, nessuno dei grandi registi italiani del periodo pensò di rivelare quel palcoscenico di umanità sofferente. Solo alcune panoramiche di Umanità, un film di finzione pressoché sconosciuto, diretto da Jack Salvatori e prodotto dall’Unrra4, ci consegnano una incredibile visione dello Studio 5, un reticolo di baracche osservate dall’alto, dense del vitale brulichio dei profughi5. Per cui oggi, disvelare il «reale» sotterraneo di quella dimenticata Cinecittà, mi sembra risulti potente metafora di altri oblii, e di altri, possibili, neorealismi. Forse la tragedia della guerra era troppo vicina per essere raccontata in presa diretta, secondo un’immersione documentaria? L’esperienza personale, maturata con la realizzazione del film Profughi a Cinecittà, sembrerebbe confermarmelo. Gran parte dei profughi che transitarono nella ex città del cinema preferì non raccontare quella condizione. Visse un rapporto afasico, per cui i figli stessi non avrebbero saputo di tragedie e miserie accadute ai padri e alle madri. Astrarsi, allontanarsi, per meglio capire, per raccontare, richiese tempo, decenni. E in generale, per il neorealismo, la necessità di trovare una dimensione meno diretta potrebbe forse spiegare lo «spostamento» dell’idea documentaria verso una più «protetta» finzione narrativa. L’esigenza di non attestarsi sull’evidenza documentale, di non riuscire a sostenere lo sguardo innanzi a quelle ferite, a quel tragico disorientamento, necessitava probabilmente di un livello di astrazione altro, capace di ricomporre il mondo in una nuova dimensione epica. Una «separazione dal reale» che richiama le considerazione di Walter Benjamin espresse ne Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov6. Il testo, uscito nel 1936 sulla rivista «Orient und Occident», richiama il programmatico distacco alla base del narratore, quando ricorda che dopo l’esperienza al fronte, durante la prima guerra mondiale, la gente tornava a casa ammutolita, incapace di qualsiasi desiderio comunicativo. E una nuova presa

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sui dati, tragici, di quella esperienza si sarebbe attivata solo a distanza. Per questo pensare al mancato rapporto fra neorealismo e un certo cinema documentario significa attraversare alcuni paradossi. Il primo: il desiderio di racconti e sguardi dal paese reale irrora le migliori intenzioni teoriche, ma i film realizzati stemperano questo afflato in rappresentazioni sceneggiate, nutrite spesso di grandi attori e modi di produzione tradizionali. Da un lato l’intenzione di un nuovo realismo nasce già nel documentario d’anteguerra – Antonioni, con Gente del Po, su tutti7 – poi con i film di guerra – l’umanesimo di Rossellini nella sua «trilogia della guerra»; dall’altro, il neorealismo «vincitore» sembra privilegiare un approccio letterario, nella linea verghiana auspicata da Alicata e De Santis8, piuttosto che in quella del pedinamento teorizzata da Zavattini. Il paradosso del neorealismo limita cioè la portata dello sguardo documentario ai citati «esordi d’autore». Nutrendo, per il resto, il cinema di finzione. Se l’intenzione documentaria emersa dalla guerra sembrerebbe costringere a guardare in faccia il paese disastrato, con le sue lingue regionali, i suoi italiani disgraziati e le sue città devastate, le prassi produttive risentono, sin dal 1945, di vincoli legislativi che sanciscono floridità economica, per pochi, e pedante obbligatorietà, per tutti. Inteso solo come cortometraggio, il documentario subisce riduzioni estetiche e semplificazioni formali che costringono lo spettatore a «fare massa», a opporre resistenza, sino a fischiarlo e non volerlo più vedere9. Perché quella forma filmica stava divenendo non più credibile? Che il documentario italiano di quegli anni continuasse a essere l’epifenomeno di qualcosa di «tipico» – stile «l’Italia non è un paese ma un’emozione» – di un carattere originario, di una Weltanschauung stregata da visioni antecedenti l’ultimo secolo del cinema? (i film sui nostri giardini di pietra, sulle fontane di Roma, le bellezze costiere e marine…). Dunque qualcosa di insostenibile, in un paese distrutto e che voleva solo rinascere? O, piuttosto, stava continuando a rappresentare – dopo la grancassa del Luce e i film del Piano Marshall – immaginari percepiti come propagandistici? Insomma, la palingenesi postbellica strappa davvero la tela delle mistificazioni «documentarie» fasciste? O la permanenza di questo cinema in quanto «istituzione» costituisce un fattore di forte continuità?

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2. Teoriche documentarie, pratiche di finzione L’idea che il documentario sia soprattutto una istituzione costituisce un ulteriore contributo al ripiegamento dall’iniziale libertà teorica verso posizioni di guida civica e valoriale. L’esigenza di controllare la sfera pubblica, gli immaginari sociali, le attitudini critiche, appare vincolata da un cinema agganciato ai desiderata governativi10. La messa in film del mondo resta ancorata alle necessità di un paese essenzialmente autoritario, fra il diffuso paternalismo delle istituzioni e la consapevolezza che sul versante realistico-documentario, ben più che sul cinema di finzione, si giochino i valori della democrazia, la tenuta della rinascita, l’appartenenza al Patto Atlantico. Quale artefatto mediatorio fra il fragile stato e i suoi giovani cittadini, il documentario emerge come forma convenzionale – soggetto a rigide regolamentazioni, incentivi, premi, valutazioni – sino a tradire gli stessi ideali innovatori alla base del neorealismo. Anche Lizzani ricorda che «il fenomeno più strano del dopoguerra cinematografico italiano è la scarsa partecipazione del documentario al generale movimento di rinascita della nostra cinematografia, alle lotte, alle battaglie, alle polemiche che i registi «a lungo metraggio» hanno saputo suscitare e promuovere in Italia e in campo internazionale»11. Laddove potrebbe annidarsi il tentativo di un cinema anticonformista, la scure ministeriale batte forte e, unita alle maglie della censura, oscura i pur labili tentativi di un documentario «libero». Lizzani lo sa bene, ha vissuto in prima persona il successo politico e il relativo insuccesso istituzionale dei suoi documentari su Modena e sul Mezzogiorno12: «sacrilegio – il documentario sul Sud faceva vedere i contadini che occupavano le terre!»13. La parte più rivoluzionaria del neorealismo, quella epifanico-rosselliniana, che avrebbe potuto costituire l’orizzonte sperimentale di un cinema alieno alle tradizionali convenzioni produttive, viene limitata nelle sue derive improvvisative a favore di modalità formattate, i canonici dieci minuti, fortemente strutturate, fra musiche aggiunte e voci narranti, ipocritamente ancorate a tutelare l’immagine pubblica nazionale. Sintomatico il caso di Matera, un’inchiesta documentaria diretta da Romolo Marcellini nel 1951. Il soggetto parla chiaro: «Matera: la città vecchia ricavata in caverna ove si conduce una vita semiprimitiva e, per contrasto, le nuove costruzioni in collina inquadrate nel piano di risanamento delle

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zone depresse»14. La commissione di censura concede il nulla osta per l’Italia. Ma per l’estero, vista la richiesta di esportazione in Inghilterra, impone che «siano eliminate le scene in cui appaiono animali addetti ai lavori agricoli convivere nelle case degli abitanti in quanto esse possono suscitare errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». I Sassi sono un problema scandaloso, un «habitat trogloditico» ai margini della storia: l’Italia in corsa verso lo sviluppo se ne vergogna. La Documento film, produttore esecutivo per il Piano Marshall, ricorre in appello il 7 febbraio 1951. Qualche giorno prima, l’Information Division del Piano scrive una lettera a Nicola De Pirro, Direttore Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio, nel quale rivendica la fondamentale importanza visiva delle scene che gli organi di censura vorrebbero eliminare. Per gli americani la dialettica fra l’Italia del passato e quella del futuro necessita proprio delle sequenze sgradite ai censori – «le faccio notare che tutto il documentario è imperniato su questo contrasto», scrive Frank Gervasi, Chief Information Division – e il 20 giugno 1951 la commissione si convince ad esprimere «parere favorevole per la proiezione in pubblico»15. Che il realismo sia un insieme di convenzioni mutevoli nel tempo e nelle culture, in grado di consentire una determinata soglia di ammissibilità al racconto del mondo, lo si osserva sin dall’atto di nascita del neorealismo, quando Rossellini muta l’idea iniziale per un documentario sull’uccisione di due sacerdoti – Don Pappagallo e Don Morosini – in un film di finzione come Roma città aperta (1945); o, ancora, nel film che secondo la «periodizzazione breve» sarebbe l’atto conclusivo del neorealismo, La terra trema (1948). Visconti parla inizialmente di «un racconto esclusivamente per immagini» su pescatori, contadini e solfatari: «il documentario in questione dovrà avere il tono e il significato di un pamphlet sociale»16. Solo successivamente decide di tramutare il soggetto per un documentario sui lavoratori siciliani, Appunti vari per un documentario da girarsi in Sicilia, in quel capolavoro recitato che è La terra trema. Nonostante alcune modalità (i tempi lunghi delle riprese, le modifiche in corso d’opera, i tratti da indagine antropologica, gli scenari «dal vero»…) avvicinano le due produzioni a orizzonti che oggi potremmo definire «documentari», lo slittamento verso la finzione sembra raccontarci una più ampia difficoltà estetica, in cui tutto doveva probabilmente risultare più protetto, controllato, garantito. Le due opere sembrano cioè privilegiare il realismo come «teatralizzazione», piuttosto che come «rivelazione» del mondo. Che il dirottamento espressivo verso la

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finzione fosse anche da attribuirsi alle difficoltà della cultura italiana nell’esautorare modelli d’ispirazione letteraria (la scelta verghiana auspicate da Alicata e De Santis sulle pagine di «Cinema»)? Forse il privilegio di una matrice idealistica impediva di riporre piena fiducia in un cinema della realtà alieno ad arti esogene? Oppure l’esperienza del film «documentario» – dopo vent’anni di Istituto Luce – appariva definitivamente compromessa?

3. Realismi, rivelazioni, epifanie Mi rendo conto di forzare una prospettiva apertamente anacronistica: l’idea che un’altra rivoluzione estetica avrebbe potuto aver luogo, anticipando quella liberazione scopica che solo pochi anni dopo avrebbe mutato il cinema documentario, avviando Nouvelle Vague, Free Cinema e cinema diretto. Un allargamento di campo che coinvolge il cantiere teorico del reale al cinema: in altre parole, e con ogni termine utilizzato – immagini della realtà, realismo cinematografico, cinema del reale, film documentario, documentario di creazione… – i modi diversi, a volte inconciliabili, d’intenderlo. La definizione di reale filmico resta prodotto dell’interazione fra forme del testo e aspettative cultural-spettatoriali, e sembra porsi quale irrisolvibile aporia di gran parte del discorso sul cinema17. Se il campionario terminologico investe aree di forte sovrapposizone semantica, in quella partita aperta «tra il concreto e l’astratto, tra la verità e la menzogna, tra la realtà e l’illusione, tra la natura e l’arte, tra la potenzialità riproduttiva dell’«apparecchio» e l’artificio dello stile»18 il neorealismo ha continuato a essere combattuto terreno di battaglie teoriche. Per molti l’approccio neorealista è rimasto filmare frammenti di realtà «non ricostruiti», immagini tangibili della sofferenza, supposti attori non professionisti, presunte location dal vero. Un’ode alla verosimiglianza, bellica e post-bellica, la cui immediatezza è stata spesso scambiata per uno specchio della realtà: un mondo già dato, che sarebbe stato sufficiente cinematografare e che avrebbe offerto un cinema essenzialmente «documentario». Eppure, più che strumento riproduttore, il miglior cinema neorealista appare quale dispositivo teso alla rivelazione. Paisà spalanca ai nostri occhi una «spirale di vita e invenzione, di osservazione e creatività»19 in cui

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il reale – ri-mediato dalla tecnologia cinematografica – è materia viva, in espansione verso l’imponderabile. L’istanza sperimentale dei migliori film neorealisti pone cioè l’asticella aldilà dell’orizzonte fattuale, investendo una «documentarietà» filmica non banale. Oltre l’orizzonte percettivo canonizzato del mondo, il reale neorealista attiene piuttosto al perturbante, a qualcosa che scombussola il quadro della realtà, lo tra-valica e lo riconfigura. Ciò che per Freud incrociamo negli incubi: la vita sotterranea, i desideri profondi. Qualcosa che scompagina la realtà velata, l’ordine evidente del mondo in cui tendiamo ad abbassare la soglia critica e ad alzare quella dell’accettazione20. Un incontro, quello con il reale neorealista, che ci scuote profondamente. E, con un rimbalzo anacronistico (e nella ricerca terminologica di un’alternativa alla parola «documentario»), investe la contemporanea, certamente rischiosa, definizione di «cinema del reale». Si tratta di aperture e pulsazioni in grado di esprimere gli sperimentalismi di un certo «non-fiction» film, un cinema che si presta alla definizione di Jean-Louis Comolli, nel confronto con «realtà che sono le nostre, individuali e sociali, private e pubbliche, prendendosi il rischio di questo impegno nel mondo, essendo al tempo stesso meno protetto e meno protettivo rispetto ai film di finzione, che operano, per parte loro, a maggiore distanza»21. O, ancora, alle considerazioni di Walter Siti, per cui «Il realismo è l’impossibile, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale»22. Dunque incontri non predeterminati, fra usi privati e usi pubblici delle immagini, fra poetiche personali, convenzioni comunicative e sfere sociali: pragmatiche del «reale» che spostano frammenti del visibile da un gruppo ad un altro, in spazi di continua rimediazione patemica. Negli anni Cinquanta, mentre gli immaginari spettatoriali migrano verso le maggiorate del neorealismo rosa e i rassicuranti valori della tradizione cattolica, il documentario «medio» resta un prodotto funzionale a cementificare il senso dello Stato, avviare il cittadino verso il basic-italian televisivo, illustrargli lo sforzo per dotarsi di quell’«arsenale di simboli e oggetti rappresentati dagli Stati Uniti»23. La visione del paese che emerge da gran parte di questi film attiene a un mix fra idillio paesaggistico e agognate modernità, una formula epurata dai riti locali e dalle deprivazioni sociali che travagliano ancora gran parte della popolazione: ciò che disturba in film

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come Ignoti alla città (1958) di Cecilia Mangini, un raffinato lavoro sui ragazzi di strada che trae linfa dall’apporto offerto da Pasolini al commento dei film; o ne Il ballo delle vedove (1963) di Giuseppe Ferrara – bocciato in prima istanza dagli organi di censura per la presenza del seno femminile, intravisto nelle immagini inerenti le danze rituali dell’Argia, in Sardegna. L’aria di questi film è dimessa, la redenzione lontana, l’accettazione di una condizione vissuta come perenne sembra totale: come, d’altronde, nel potente L’antimiracolo (1965), lungometraggio post-neorealista di Elio Piccon, alla frontiera fra finzione e documentario, premiato alla XXVI Mostra del Cinema di Venezia e massacrato da una incredibile serie di tagli di censura.

4. Memorie dilatate Il tentativo di ampliare la periodizzazione del neorealismo non è nuovo. Il riconoscimento dei rapporti complessi tra il cinema italiano degli anni Trenta, il neorealismo «classico» e il cinema successivo è una possibilità recepita da gran parte della storiografia del cinema, sin dagli anni Settanta24.. Allargare le maglie temporali del neorealismo significa riannettere agli immaginari del cinema italiano una messe di film quasi invisibili. E di accostamenti audaci, non canonici. Un corpus migrante, ben al di là della semplice collocazione nel «neorealismo che continua», si manifesta anche nella libertà godardiana di trafiggerne i limiti canonici. Nelle sue Histoire(s), Godard elegge la poetica della «non manipolazione» quale asse di congiunzione Rossellini-Pasolini: la capacità di ritrovare col cinema, Rossellini in primis, un pensiero che forma – sulle immagini di Pier Paolo Pasolini – e una forma che pensa – sulle immagini di Piero della Francesca. Uno scontro/incontro titanico, per evocare nuove riflessioni sul realismo: «comment le cinéma italien a-t-il pu devenir si grand puisque tous, de Rossellini à Visconti, d’Antonioni à Fellini, n’enregistraient pas le son avec les images? Une seule réponse. La langue d’Ovide et de Virgile, de Dante et de Leopardi, était passée dans les images»25. L’analisi di Godard evoca aperture e riscritture, critiche lancinanti e amori primigeni. Rompendo la gabbia cronologica del neorealismo breve e l’abusata formula de «l’artista e il suo tempo», gli anacronismi di Godard conducono verso un caleidoscopio di ribaltamenti prospettici, in cui ben

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si colloca la prospettiva di un neorealismo pulviscolare, che continua nella sperimentalità di una certa idea documentaria a venire. Parafrasando Georges-Didi Huberman, pensare che «il neorealismo abbia più memoria e più avvenire di colui che lo guarda, come un caleidoscopio in cui la polvere dei minuscoli oggetti resta erratica, ma è racchiusa in una scatola magica, una scatola intelligente, una scatola dotata di struttura e di visibilità […]. La magia del caleidoscopio dipende dal fatto che la perfezione chiusa e asimmetrica delle fome visibili deve la sua ricchezza inesauribile all’imperfezione aperta ed erratica di un pulviscolo di frammenti»26. Esempi pulviscolari di sopravvivenze, ritorni, latenze emergono proprio dall’apertura dei limiti classici (siano essi il 1949 con il convegno di Perugia, il 1951 con Bellissma di Visconti, il 1953 con il convegno di Parma, il 1956 con Il tetto di De Sica e Zavattini) verso sequenze erratiche di una supposta trilogia del mare. Tre film documentari assai diversi tra loro: Tra Scilla e Cariddi (1948), di Francesco Alliata, Quintino Di Napoli e Pietro Moncada; Lu tempu di li pisci spata (1955) di Vittorio De Seta; Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno (1960), di Mario Soldati e Cesare Zavattini. Al centro, una figurazione particolare, tematizzata sulla pesca del pesce spada: una modulazione di sguardi, composti da dettagli e orizzonti aperti, campi e controcampi, sino all’accensione del pathos, culminante con la cattura del pesce. Sequenze che si danno la mano in un unico, lunghissimo film. Tre idee documentarie differenti: la prima, tradizionale, anche se dotata di forti sperimentazioni tecnologiche per le riprese subacque, che usa la classica voce narrante; la seconda, rivoluzionaria, del cinema immenso di Vittorio de Seta; l’ultima, quella di Soldati e Zavattini, che scardina il cortometraggio documentario istituzionale a favore dell’inchiesta televisiva, col presentatore in campo. Sono diversi «generi documentari» ma il trattamento estetico della materia – nell’illustrare la concitazione dell’atto culminante della cattura del pesce – è il medesimo. Nella convergenza tematica di una attività che stava scomparendo, con uno sguardo antropologico sulle cosiddette culture subalterne, si associano analoghi processi di messa in forma, debitori delle grandi teorie del montaggio sovrano.

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5. Rituali amatoriali e teoriche zavattiniane È utile il film di famiglia per ripensare il neorealismo? Possiamo parlare di un apporto naif, di migliaia di cineoperatori, al movimento italiano del dopoguerra? Se prendiamo le indicazioni di Zavattini in merito all’andare incontro alla realtà nella vita quotidiana, al pensare a un cinema di tanti per tanti e non più di pochi per tanti, al dotarsi di tecnologie leggere per un cinema fuori dagli schemi industriali, perché le storie del cinema non hanno mai considerato il cinema amatoriale? Non è stato lì che sono stati prodotti migliaia di film, «cinegiornali liberi» aldilà delle intenzioni massmediali zavattiniane, ripresi nel mondo a portata di mano delle famiglie, delle vacanze, dei rituali collettivi? Insisto su Zavattini perché esprime pienamente il paradosso neorealista del mancato riconoscimento del documentario. Se la «necessità documentaria» accomuna tutto il cinema italiano del periodo lo si deve soprattutto al suo manifesto pratico-teorico, a intenzioni che si precisano nel corso del tempo grazie a una serie di interventi critici, ruoli istituzionali, collaborazioni cinematografiche27. Per Zavattini il cinema dovrebbe essere arte sociale, nel senso più ampio della parola: già nel 1942 sostiene la necessità di impadronirsi dei mezzi cinematografici mettendoli alla portata di molti individui, come altre attività artistico-creative «casalinghe»28. Folgorazioni massmediologiche che sembrano anticipare il manifesto di Alexandre Astruc sulla caméra stylo29. Per il rischio che il cinema possa paragonarsi alla letteratura Zavattini arriva a dichiarare «Basta con i soggetti»: per lui «solo nei documentari, come in qualcosa di totalmente estraneo al mondo del cinema vero e proprio, si è cercato qualche volta di accorciare le distanze tra immaginazione e realtà»30. Ma al di là di questi interventi critici, e del suo incessante sperimentare comunicativo, la sua verve di sceneggiatore per Vittorio De Sica richiama un ruolo piuttosto istituzionale: mentre l’attenzione della critica e del più vasto dibattito culturale sul neorealismo si focalizza sul cinema di finzione, la riflessione sul documentario languisce su aspetti tecnici, economici e produttivi. E, dopo aver nutrito idealmente il neorealismo, torna a giacere, a parte pochissimi casi, nei più rassicuranti limbi del cortometraggio a produzione industriale. Il documentario medio del periodo risulta, paradossalmente, opposto all’idea professata da Zavattini secondo la quale bisognerebbe «scegliere quei fatti che si svolgono sotto i nostri occhi, e

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seguirli, e pedinarli con la fede paziente di chi sa che ogni punto e ogni momento dello spazio e del tempo dell’uomo sono importanti e narrabili»31. Se l’istanza di «verità» emergente dalle sue teorizzazioni riesce a informare l’approccio realistico nel lungometraggio di finzione, non sembra cioè in grado di fare altrettanto nel documentario, un cinema che vede interrompere il rinnovamento in atto nell’incapacità di sottrarsi a quegli orizzonti didattici e ideologici sfornati dalle fabbriche immaginifiche del Luce. Anche il pedinamento zavattiniano risulta, nella pratica di quegli anni, un concetto ambiguo, ricostruito piuttosto nel cinema di finzione per sfruttarne gli effetti di penetrazione simpatetica. Affermazioni come «intendo io stesso andare incontro alle cose, immettermi in esse: il soggetto deve scaturire spontaneamente dal contatto fra le cose e me»32 scontano una difficile traducibilità pratico-tecnica e risultano sganciate dalle coeve logiche produttive del documentario. E i suoi film inchiesta, teoricamente permeati da un’innovativa idea di cinema della realtà e da un antispettacolare legame con le culture popolari, diventano film di finzione con cast, attrici, meccanismi produttivi da cinema commerciale. Opere interessanti come L’amore in città (1953, Federico Fellini, Francesco Maselli, Carlo Lizzani, Dino Risi, Michelangelo Antonioni) e Siamo donne (1953, Alfredo Guarini, Gianni Franciolini, Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Luigi Zampa) partono da storie «prese dalla vita» ma sono poi trasformate in soggetti per film di finzione33. Nonostante Zavattini evochi un cinema che irrompa nel mondo dello spettacolo per «seguire novanta minuti consecutivi nella vita di un uomo»34; nonostante l’estetica del pedinamento faccia supporre un’idea antesignana del cinéma verité, egli «non serve la realtà ma se ne serve per rendere più verosimile la finzione»35. Un’aria che, paradossalmente, attraversa anche le produzioni governative promosse da Alcide De Gasperi, con la creazione del Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio (dal 1952). Analizzando l’idea documentaria di un film come Tiriamo le somme (Giovanni Paulucci, 1953), la professata ottica esplorativa riguarda esclusivamente gli enunciati della voice over, mentre il resto del film è segnato da una accurata ricostruzione formale. Se in un primo momento – al mercato, «per capire la gente» – sembra emergere quella modalità di conoscenza dal basso professata dai redattori della rivista «Cinema» (su cui Paolucci scriveva), alla base dell’onda lunga neorealista, ben presto emerge una forma drammaturgica

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in cui nulla è lasciato alla «rivelazione dell’esistenza». Vince un’idea documentaria che parte dalla realtà ma non si immerge in essa. La guarda, la scruta, ma la ricostruisce, secondo una soglia di realismo affascinata da una esemplarità alta (la madre di Tiriamo le somme è bellissima, sembra una diva americana, proprio come le dive di Siamo donne).

6. Flussi e ricicli L’innovatrice idea documentaria professata da Zavattini riesce solo parzialmente a produrre la rivoluzione estetica auspicata: e gli esiti migliori del suo impegno saranno nel decennio successivo, in film collettivi come I misteri di Roma (1963) o nell’esperienza dei Cinegiornali liberi, dove, a basissimo costo si potrà aspirare a «un cinema senza titoli» o a «un cinema a costo zero», a «un cinema insieme» o a «un cinema subito», a «un film inchiesta autobiografico» o a «un cinema di tanti per tanti» (non un cinema di casta per tanti)36. Particelle filmiche pulviscolari, a proposito di relazioni che sembrano diluirsi, ancora una volta, al di là dei limiti storici attribuiti al neorealismo, per lambire alcuni autori dell’underground italiano degli anni Sessanta/Settanta. Sembrano mondi lontani: eppure Alberto Grifi è giovanissimo seguace di Zavattini e film come Anna (1973, con Massimo Sarchielli), Parco Lambro (1977), Lia (1978) sembrano condensare «davvero» i principi teorici espressi dal maestro un ventennio prima. Le parole di Grifi sono indicative: «scaricati dal peso di dover preferire il tempo di un momento particolarmente significativo contrapposto alla realtà banale di tutti i giorni, buttata nel cesso la sceneggiatura, questo libro mastro del tempo del capitale, abbiamo trovato il sempre, il tempo continuo della vita reale, che è l’intersecarsi osmotico di tutti i tempi soggettivi»37. L’idea di flusso filmato, consentita dall’utilizzo dei primi registratori portatili a un quarto di pollice, definisce modalità cinematografiche libere di crescere per accumuli, in cui il reale diviene possibilità di una esperienza estetica mai protetta, né per chi fa il film, né, tanto meno, per lo spettatore. Immagini vibranti, che privilegiano lunghi piani sequenza, in cui il processo di cambiamento psichico dei protagonisti costituisce il cuore pulsante dei film. Grifi non registra giornalisticamente le situazioni ma, nella difficile

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modulazione privato/collettivo, si fa guidare da una sensibilità relazionale che richiama i principi umanistici del neorealismo. Dunque una storia in movimento, che parte dalle pietre e dalle macerie; un sapere in movimento, continuamente da ricostruire, in cui torna l’idea dell’immagine dialettica benjaminiana e la messa in movimento della storia dell’arte compiuta da Aby Warburg. Proprio l’uso e il riuso delle immagini costituisce una linea importante: da Giorni di gloria (il documentario storico-resistenziale girato nel 1945 da Luchino Visconti, Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero, Mario Serandrei per conto del Comitato di Liberazione Nazionale) sino all’esplosione degli anni Sessanta, in una serie di opere «riciclanti» che abbracciano di volta in volta approcci storiografici (in particolare, sul fascismo), categorie esotico-erotiche (i mondo-movie), riflessioni politico-filosofiche (la pace, le libertà dei popoli) o ribaltamenti ludico-espressivi (attraverso interventi di straniamento e manipolazione dell’immagine). Il found footage italiano vive una stagione di esaltante sperimentalità, in una linea che coinvolge All’armi siam fascisti! (1961, Lino Micciché, Cecilia Mangini, Lino Del Fra, nel tentativo di riflettere sul ventennio attraverso un confronto con le immagini prodotte dal cinema); La rabbia di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi (1963, un film cult, segnato dalla speranza di «inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico»)38; Stalin (Cecilia Mangini e Lino Del Fra, 1963, con il commento di Franco Fortini)39; Tempo libero e Tempo lavorativo (1964, ludicamente realizzati da Tinto Brass per la Triennale di Milano); Verifica incerta (1964, in cui Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi rimontano il cinema di genere americano in un fantastico metafilm dedicato a Marcel Duchamp); We Insist ! Suite per la libertà subito (1964, esordio alla regia di Gianni Amico con immagini fotografiche montate in un trittico dedicato ai musicisti jazz «da anni all’avanguardia nella lotta per la libertà della razza negra»); sino a Forza Italia! (1977, il film di Roberto Faenza che tenta di riscrivere la storia italiana ribaltando l’ufficialità dei cinegiornali filogavernativi legati alla Dc). Cosa accomuna queste opere? Aldilà dell’evidente afflato ideologico, sono film che superano l’idea compilativa, di messa in serie d’archivio guidata dalla voce dello storico, per costruire un cinema in cui l’elaborazione espressiva del materiale – non di rado prodotto del fronte politico opposto – gode di un forte processo di risemantizzazione. Una rimeditazione composita, sino ad ora trascurata dalle tradizionali storie del cinema – ir-

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resistibilmente attratte dal lungometraggio narrativo – che in anni recenti sta suscitando un rinnovato interesse teorico ed estetico40. Un’altra deriva possibile nel viaggio post-neorealista nel documentario italiano.

7. Un cinema umanista Ma non è che si tratta di una questione di Pathos? Un «essere con» emotivamente, un «prendere con sé» che diviene una delle categorie transcinematografiche più potenti di quel cinema? Un orizzonte percettivo capace di lavorare in trasferta, di misurarsi con opere diverse fra loro ma accomunate da un medesimo sentire? Che non c’entra nulla con categoria quale lungo o cortometraggio, insuccesso o campione d’incassi, cinema industriale o cinema amatoriale, uso di attori sociali o attori professionisti? Il neorealismo sembra essere in altri sguardi, avere un carattere essenzialmente ibrido e una dimensione antropologica fondamentale, realtà alla passione dell’uomo per le sue mura e le sue città. Lo avverto, ad esempio, in Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Fausto Fornari, 1953, premiato a Venezia, mai distribuito ufficialmente nelle sale), osservando i luoghi della vita e della carcerazione dei partigiani che scrivono l’addio ai familiari, prima di morire. Oppure nel potente sguardo antropocentrico di Cinema a tutti i costi (Leonardo Autera, 1961), un documentario girato a Morrone di Sangro, un paesino di montagna in provincia di Campobasso, dove l’arrivo del proiezionista costituiva un momento di festa per tutta la comunità. Autera mantiene come protagonista il vero proiezionista ambulante e impone La terra trema di Luchino Visconti come film da proiettare durante le sue riprese. Lo stupore di quegli spettatori, la forza di quel capolavoro del neorealismo incastonato sulle scalinate del paese, tutto l’insieme, appaiono oggi come qualcosa di mitico. Il vibrare della comunità degli sguardi innanzi alle scene dei pescatori di Acitrezza conduce direttamente a ciò che ricordava Jean Renoir, essere divenuti «cittadini del cinematografo»41. Un lungo respiro della storia, quello dell’uomo in città, delle immagini danzanti sulle pietre del suo primo sguardo consapevole. L’evidenza di una dimensione relazionale tra l’io e l’ambiente, una rete di nessi distesa in secoli di storia e accentuata dai mille modi di abitare un paese

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unico: che tutto ciò sia un fantasma nella storia del cinema italiano, qualcosa di sommerso che ritorna, gode di temporalità sotterranee e anacronismi inaspettati? Potrebbe essere questo il neorealismo di cui non riusciamo a disfarci? Qualcosa che chiede a noi stessi di «sentire» i nostri luoghi, eppure, congiuntamente, di essere in movimento, spostandoci da punti di vista precostituiti, procedendo verso alcuni scombussolamenti della visione? Anche in questa prospettiva l’operatività del neorealismo non si esaurisce nell’immediato dopoguerra. Soggetti fortemente legati al periodo continuano a essere rappresentati con lo stesso afflato, in descrizioni cariche di comprensione e del senso tragico della dimensione umana. Sguardi umanistici sul tempo dell’esistenza, sull’ambiguità di ogni nostra esperienza, secondo le note teorie ontologiche di André Bazin. Come i figli della guerra che giocano in città, ai quali vengono dedicati decine di film: alcuni capolavori, Bambini in città di Luigi Comencini (1946), altri importanti per un’analisi antropologica di quella Italia. Come Il mondo nel cortile (Piero Nelli, 1959), un lavoro sui bambini abitanti un caseggiato romano, in una unità di vicinato che costituisce la cellula di tante indagini sociologiche e che qui esplode di prorompente vitalità. O in film come Giocare (Giulio Questi, 1957), che nonostante un certo afflato retorico della voce narrante acquista progressivamente un’aria rarefatta, percepibile nella stasi di momenti apparentemente inutili, nei campi lunghi che sembrano proseguire la lezione neorealista del privilegio dell’orizzontalità sulla verticalità. O in molti film di Maselli, dal celebre Bambini al cinema (1957), girato nel «cinemino» di villa Borghese, a Roma, a I bambini e gli animali (1958), Adolescenza (1959) o Andante affettuoso (1960), in cui scene di adolescenziali impacci, l’immersione nella sala cinematografica, la quinta urbana e i paesaggi di frontiera fra città e campagna tratteggiano un grumo metafisico di rara pregnanza poetica. Una linea, quella della relazione fra cittadino spettatore e città italiana che ha in Pasolini e... la forma della città (Paolo Brunatto, 1974), un ulteriore sviluppo. In questo piccolo film, realizzato per il programma Io e… a cura di Anna Zanoli, Pasolini osserva i processi di distruzione urbana nei paesi in corsa verso «modernità» e «sviluppo»; l’analisi delle città di Orte gli consente di associare in un unico affresco la perdita di secolari riferimenti identitari. Il sentire della civitas, cristallizzato sulle antiche mura dell’urbs, s’incrina ovunque sotto i picconi demolitori di una violenta, quanto agognata «modernità» (capitalistica, comunista, monarchica che sia). Una linea

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antropologica che risplende anche in quel masterpiece che è Diario di un maestro (1973), film dall’alto valore programmatico per un’idea di cinema di ricerca. In questa prospettiva, il valore del film di De Seta non risiede tanto nei temi affrontati – il disagio dei ragazzini proletari nella periferia di Roma, il loro abbandono della scuola pubblica – quanto nella capacità di comporre un’opera felicemente ibrida, pulsante sudore narrativo e, al tempo stesso, attenzione alla sacralità dell’accadere. L’aspetto fondamentale di Diario di un maestro attiene proprio al felice ondeggiare fra sequenze previste in sceneggiatura (come le parti del maestro con gli altri insegnanti) e momenti di deriva improvvisativa, nei quali i ragazzi inscenano «naturalmente» il loro mondo fisico e le loro appartenenze immaginifiche. Ben si adattano le parole di Brunello Rondi: «La scoperta della realtà, nel film neorealista, è una apertura di invenzione continua: tra l’artista e il mondo non c’è che la macchina da presa, come la tela e la tavolozza per il pittore»42. De Seta lascia cioè pulsare l’esperienza incerta dell’improvvisazione, come se il progettato-ripreso-montato potesse illuminarsi di un visibile sorprendente, un’epifania celata fra le pieghe dell’esperienza cinematografica. Qualcosa che rimanda all’esperienza poetica rosselliniana e che rinforza il fil-rouge con l’onda lunga di un neorealismo sperimentale. Giustamente, Stefania Parigi ricorda come la passione del tempo si colori «di accenti heideggeriani e di afflati cattolici, stringendo insieme tensioni plurime: la necessità dell’attenzione e della cura verso l’altro (il prossimo), la condivisione amorosa del tempo come sofferenza dell’essere al mondo, la convergenza nel presente e nell’attuale – parola d’ordine del neorealismo – di tutto il peso e la forza del passato, della memoria, della proiezione di futuro»43. Questa linea umanista pervade anche alcune opere di cinema industriale: Joris Ivens e il suo L’Italia non è un paese povero (1960), Bernardo Bertolucci con il visionario La via del petrolio (1965), gli stessi film di Gilber Bovay girati per l’Eni44. Aldilà delle macchine, sono opere che non dimenticano l’uomo, in una costante attenzione alle vite dei protagonisti. Non solo alle loro condizioni materiali ma anche agli orizzonti simbolici e culturali. Per questo li collochiamo fra i paesaggi di un neorealismo che continua, aldilà di alcun proclami, figli dello spirito del tempo, sulla «esaltante» modernizzazione italiana. Penso a film prodotti dalla Olivetti, come Una fabbrica e il suo ambiente (Michele Gandin, 1957) e Sud come Nord (Nelo Risi, 1957), dove il paradigma comunitario di Adriano Olivetti si esprime piena-

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mente, coinvolgendo il documentario in una politica d’immagine coerente e articolata. O, naturalmente, a Ermanno Olmi, con i film per la Edisonvolta, laddove alcune sicumere industrialiste si acquietano per lasciare spazio alla processualità del lavoro, a un’umanità sconosciuta, all’evidenza di una drammaturgia epica, fra silenzi della natura ed operosità di una industria «buona». Partiture ritmiche ammirate anche da Roberto Rossellini45. Racconti su miti molto concreti che, al di là delle cose dette/mostrate, il documentario medio non sempre era in grado di comprendere. Dal chiasso dei mondi industriali ai silenzi delle campagne abbandonate: mentre il cinema industriale procedeva verso l’artificio del nuovo, l’attenzione cine-antropologica scrutava umanità sepolte. Ecco il cinema demartiniano, che affronta «dislessie» culturali e antiche persistenze. Visioni, ancor oggi, emozionanti, altre tappe di un neorealismo che continua e che si reinventa, con opere come Lamento funebre di Michele Gandin (1953), Stendalì di Cecilia Mangini (1959), Frana in Lucania (1960) e Il male di San Donato (1965) di Luigi Di Gianni (1960), La passione del grano di Lino Del Fra (1960), I maciari e Il ballo delle vedove di Giuseppe Ferrara (entrambi del 1962), Li mali mistieri di Gianfranco Mingozzi (1963)46. La miseria psicologica, il basso coefficiente di programmazione temporale, la prevalenza di deprivazioni da «sottosviluppo» emergono da queste opere e costituiscono un’importante esperienza di rivelazione delle problematiche nazionali. Film notevoli, mirabili per la fotografia, la capacità testimoniale, le preoccupazioni sociologiche. Eppure non privi di contraddizioni – l’uso della musica aggiunta, la drammatizzazione degli eventi, l’invadenza del commento over, quasi prevalga la convinzione possa esistere una «prassi dell’antropologia visuale senza una teoria»47 – che ci spingono a pensarli rappresentanti di alcune difficoltà documentarie, in grado di illuminarci sulle vicende teoriche del cinema della realtà o sugli aleggianti spiriti dell’epoca più che sull’oggetto delle loro visioni48. Comunque opere e autori sui quali, in anni recenti, si sono inaugurate nuove ricerche (con diverse tesi dottorali) e orizzonti storiografici (perché il documentario antropologico sembra riferirsi solo al Sud? Pensiamo alle opere di Florestano Vancini nel Delta del Po e a quelle di Giuseppe Taffarel nell’Italia del Nord Est. Figure di congiunzione fondamentali fra gli anni del neorealismo storico e le trasformazioni italiane dal secondo dopoguerra).

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8. Partitura per suoni e voci E poi una linea sperimentale, ricca di increspature e bizzarrie. Germi capaci di condurre a poetiche personalissime, lucide alternative estetiche ai modelli del «cortometraggio garantito». Ricordo film come Il miracolo di San Gennaro (1948), di Luciano Emmer, Lettere dalla provincia (1957), di Raffaele Andreassi, i primi documentari di Gian Vittorio Baldi, Divino Amore (1963) di Cecilia Mangini, Domenica Sera (1964) di Franco Piavoli, Note su una minoranza (1964) di Gianfranco Mingozzi, Appunti per un film sul Jazz (1965) di Gianni Amico. Per Amico, spostare le soglie del realismo, ridefinirne la sua ammissibilità, accettarne dosi impreviste significa cambiare radicalmente l’idea di documentario. Non è un caso se Godard, nelle citate Histoire(s), gli dedica un capitolo: il suo è un cinema della «veggenza» che attraversa e lascia parlare il reale, nei suoi aspetti non finalizzati, erratici, dispersivi. Una estrema libertà stilistica che porta Amico a rafforzare l’idea di paesaggio ambientale dal vivo, amplificando la necessità della registrazione con strumenti leggeri e moltiplicando l’impegno a favore di un suono «in diretta». Un suono capace di dare libero sfogo alla pulsioni più sensualmente creative, irriducibile alla prosopopea pseudo oggettiva della voce fuori campo49. Non si tratta di semplici considerazioni di ordine tecnico o produttivo. La possibilità di godere di tecnologie leggere consente a questo cinema una libertà espressiva aliena ai sistemi di produzione industriale: c’era «un ostruzionismo assoluto, che andava dai tecnici... ai produttori. I montatori e gli addetti ai lavori non volevano lavorare con il suono diretto e con il 16 mm, perché, per loro, da un punto di vista artigianale, era piu’ complicato e piu’ faticoso. In quell’epoca parlare di suono diretto con un produttore italiano significava fasi dire che si voleva qualcosa di assolutamente impossibile»50. Dopo De Seta, un precursore nell’eliminare commenti over e musiche classiche spalmate sul film, le sperimentazioni di Andreassi, di Amico, ma anche di Gian Vittorio Baldi e di Gianfranco Mingozzi, risultano decisive per la cultura del suono e la captazione realistica del mondo. Opere che hanno un forte tratto comune nell’intendere il realismo come una sfida aperta, una frontiera dai limiti mai definiti, un campo di battaglia per l’affermazione di una propria idea di cinema. Proprio l’idea che la molteplicità delle forme documentarie potesse esprimere al meglio un paese in movimento tellurico esplode nel cinema italiano di quegli anni.

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È un fenomeno internazionale ma in Italia si innesta in un momento in cui l’esperienza cinematografica raggiunge l’apice, in termini quantitativi e qualitativi. Anni in cui l’onda lunga del migliore neorealismo irrora pienamente le poetiche di Olmi, De Seta, Pasolini. Ancora una volta autori diversi tra loro, ma congiuntamente segnati da una prospettiva antropocentrica, per la quale il realismo documentario è ben lontano dall’essere semplice riproduzione dell’universo. Nel 1961 esordiscono nel lungometraggio narrativo in grande stile, con tre film come Banditi a Orgosolo di De Seta, Il posto di Olmi e Accattone di Pasolini. Film di finzione, nati da un pronunciato demone per il «reale», opere che segnano un primo abbandono da ciò che sino al decennio precedente sembrava inesorabile: la visione teleologica per cui il documentario poteva essere solo una palestra formativa, un allenamento per poi puntare al «vero» cinema, quello lungo e di finzione. Olmi, De Seta e Pasolini, nell’irriducibile diversità delle loro poetiche, sono accomunati da questa esperienza rivoluzionaria. Il cinema è troppo grande per essere separato fra «giovanili» cortometraggi documentari e «adulti» lungometraggi narrativi. E tutti e tre avranno una carriera in cui il dialogo estetico con il mondo avverà attraverso sguardi migranti, fra modi e forme cinematografiche capaci di lavorare alla frontiera fra diverse idee di cinema. Viaggi in cui l’immagine sensibile non prospetta il raggiungimento di un maggior grado di realtà, quanto, nell’asse Bergson – Deleuze, la liberazione dal cinema classico e la rifondazione di un paradigma della visione dinamica secondo altre coordinate spazio-temporali. Come loro, alcuni autori fondamentali per un viaggio a venire nel documentario neorealista: i citati Andreassi e Baldi, Mangini e Mingozzi, Piavoli e Grifi, Amico e Ferrara, e poi Carlo Di Carlo, Silvano Agosti, Ansano Giannarelli. Autori che tradiscono il «cortometraggio documentario» per un cinema del reale in prima persona, ad assetto e durate variabili. Un’aria internazionale che resta fuori dai circuiti mentali del documentario precotto. E che, a mio avviso, costituisce l’importante linea sperimentale del neorealismo che persiste.

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Note 1. G.P. Brunetta, Il cinema neorealista italiano da “Roma città aperta” a ”I soliti ignoti”, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 99. 2. Ivi, p. 100. 3. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia, 2014, p. 9. 4. L’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) viene istituita nel novembre del 1943 per assistere i paesi gravemente danneggiati dalla guerra. 5. Rimando al saggio di N. Steimatsky, The Cinecittà Refugees Camp (1944-1950), in «October», 128, 2009, pp. 23-50 e al mio film Profughi a Cinecittà, Istituto Luce – Cinecittà – Vivo film, 2012, 52’. 6. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino, 2011. 7. Ricordo che la prima idea di Antonioni si trova nell’intervento, Per un film sul Po, in «Cinema», n. 68, 25 aprile 1939. La riflessione sull’autonomia delle forme documentarie è forte: dalle pagine di «Cinema» anche Fernando Cerchio si distacca dall’idea cronachistica di documentario e sostiene, all’opposto, una costruzione in grado di indagare intimamente il sentire dei protagonisti: «si deve arrivare non solamente a «presentare» e a «far vedere», ma veramente a raccontare e ad esprimersi. Il cinema non è solo - si potrebbe forse dire – «non è» un mezzo di riproduzione dal vero, il cinema è un nuovo mezzo per «parlare» alle folle, forse il più immediato ed efficace», F. Cerchio, Evoluzione del film giornale, in «Cinema», 25 marzo 1940. 8. M. Alicata e G. De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in «Cinema», n. 127, 10 ottobre 1941; M. Alicata e G. De Santis, Ancora di Verga e del cinema italiano, in «Cinema», n. 130, 25 ottobre 1941. Si veda anche A.Pietrangeli, Verso un cinema italiano, in «Bianco e nero», agosto 1942. 9. Con il passare degli anni i documentari realizzati per concorrere alla spartizione del «bottino» ministeriale assumono la definizione, fra l’ironico e il pragmatico, di «Formula 10». Il dieci nasce dalla durata, rigida, di dieci minuti, corrispondente a un unico rullo di pellicola (295 metri, per permettere cinque programmazioni giornaliere fra fiction, gassosa, popcorn e cinegiornale); «formula» dal fatto che vengono sfornati a ritmo regolare, da case specializzate, secondo modalità fortemente standardizzate. Il sistema prende l’avvio con la legge del 1945 che, per incentivare il documentario, riserva ad esso il 3% dell’introito lordo degli spettacoli (costituiti dalla proiezione di un film lungometraggio preceduta dal «corto», che poteva essere un cinegiornale, una piccola fiction o un documentario). È qui che si consolida l’associazione automatica fra formato breve e film documentario, una semplificazione che segna ancora gli immaginari spettatoriali nazionali.

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10. Si tratta di uno dei fattori elencati nel Libro bianco sul cortometraggio italiano realizzato dai documentaristi dell’Anac nel 1966, in cui si richiamano, fra l’altro, «le forme di speculazione che hanno permesso a un piccolo gruppo di monopolisti la realizzazione di enormi profitti» nonché «lo sconcertante affare che le provvidenze statali a favore del cortometraggio hanno rappresentato per vent’anni». 11. C. Lizzani, Il documentario alla retroguardia, in «Cinema», n. 35, marzo 1950, cit. in R. Nepoti, Gli anni del documentario (1945-1965), in L. Micciché (a cura di), Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Lindau-Associazione Phlilip Morris Progetto Cinema, Torino-Roma, 1995, p. 32. 12. Mi riferisco a Modena città dell’Emilia rossa (1950), I fatti di Modena (1950) e Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). 13. C. Lizzani, Addio documentario, in «Filmcritica», n. 2, 1951, p. 39. 14. Come appare dalla domanda per il nulla osta ministeriale. Rimando al mio saggio Ai limiti del reale. La censura italiana e il cinema documentario, realizzato per la mostra on line realizzata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, www.cinecensura.com. 15. I film promossi dallo European Recovery Program (Erp) investono l’Italia quale principale teatro europeo di propaganda, ma lo sguardo americano sembra più libero nell’osservare l’indigenza di intere classi sociali e aree del paese. Si vedano D. W. Ellwood, L’impatto del Piano Marshall sull’Italia, in G. P. Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Fondazione Giovanni Agnelli , Torino 1996; F. Anania e G. Tosatti, L’amico americano. Politiche e strutture per la propaganda in Italia nella prima metà del Novecento, Biblink, Roma 2000. 16. Cfr. la lettera di Visconti pubblicata in L. Miccichè (a cura di), “La terra trema” di Luchino Visconti / Analisi di un capolavoro, Philip Morris Progetto cinema-Lindau, Roma-Torino, 1994, pp. 41-42. 17. Si veda il numero monografico di «Fata Morgana», 23, 2013, dedicato a Reale. 18. S. Parigi, cit., p. 277. 19. Federico Fellini, in G. Grazzini (a cura di), Intervista sul cinema, Laterza, Bari, 1983, p. 57. 20. Rimando a due testi di M. Recalcati, Il miracolo della forma. Per una estetica psicanalitica, Bruno Mondadori, Milano, 2007 e Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano, 2012. 21. J. L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Donzelli, Roma, 2006, p. 3. 22. W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, Roma, 2013, p. 8. 23. S. Lanaro, L’Italia nuova – Identità e sviluppo 1861-1988, Einaudi, Torino, 1988, p. 82.

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24. Per le diverse ipotesi di periodizzazione rimando a una serie di ricerche compiute negli ultimi quarant’anni da Alberto Farassino, Lino Micciché, Gian Piero Brunetta, Pierre Sorlin, Jean Gili, Vito Zagarrio, Francesco Pitassio, Stefania Parigi (rinvio all’esaustiva bibliografia del suo recente Neorealismo, cit., qualsiasi approfondimento). 25. Per l’edizione italiana, Histoire(s) du cinéma – J. L. Godard, volume e cofanetto DVD, Bologna, Cineteca del comune di Bologna – Il cinema ritrovato, 2010. 26. G.-Didi Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 129. 27. Grande organizzatore culturale, Zavattini avvia, presiede, partecipa a numerose istituzioni della cultura italiana, fra le quali l’Associazione Culturale Cinematografica Italiana (dal 1944), la Federazione Italiana circoli del cinema (dal 1953 ne è presidente), l’Anac (presidente dal 1964), l’Associazione Internazionale Documentaristi (Presidente onorario, del 1972), l’Archivio audiovisivo del movimento operaio (fondato, con altri, nel 1979). 28. Si veda lo scritto di Zavattini Un minuto di cinema, raccolto in M, Argentieri (a cura di) Polemica col mio tempo, Bompiani, Milano 1997. 29. Teorico del cinema e giornalista Astruc diviene celebre per un articolo pubblicato su «L'Ecran français» il 30 marzo 1948, Naissance d'une nouvelle avant-garde : la caméra-stylo, nel quale vede nel cinema una nuova possibilità espressiva, una forma attraverso la quale un artista può dar corpo al suo pensiero «scrivendo» con la camera, come uno scrittore scrive con la penna. 30. C. Zavattini, Neorealismo, ecc., Bompiani, Milano, 1979, pp. 70-71. 31. C. Zavattini, Il neorealismo continua, ora in V. Fortichiari e M. Argentieri, Cesare Zavattini Opere – Cinema, Bompiani, Milano 2002, p. 715. 32. C. Zavattini, Il Cinema, Zavattini e la realtà, in Fortichiari e Argentieri (a cura di), Cesare Zavattini…, cit., pp. 703-704. 33. Alcuni anni dopo Zavattini stesso riconoscerà il compromesso di fondo alla base di quei tentativi, prossimi a formule patetiche e narrative tradizionali, ben lontane dal idee documentarie emergenti, pochissimi anni dopo, come quelle di Jean Rouch o Richard Leacock. 34. C. Zavattini, Relazione al convegno internazionale di cinematografia – Perugia, 24-27 settembre 1949, in U. Barbaro (a cura di), Il cinema e l’uomo moderno, Edizioni sociali, Milano, 1950, poi in Aa.Vv., Sul neorealismo. Testi e documenti (1939-1955), cit., p. 108. 35. A. Aprà, Primi approcci al documentario italiano, in Aa.Vv, A proposito del film documentario, Annali, I, Roma, Aamod, 1998, p. 51. Per l’autore «solo Rossellini si affida alla realtà e la conserva in elementi di rozzezza e casualità, improvvisando in Paisà, o nell’episodio con Ingrid Bergman di Siamo donne», ivi.

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36. Rimando a T. Masoni e P. Vecchi (a cura di), Cinenotizie in poesia e prosa. Zavattini e la non-fiction, Lindau, Torino, 2000. Ricordo anche il progetto di Italia mia, il mai realizzato viaggio zavattiniano alla scoperta del nostro paese. 37. A. Grifi, Videomateriali di Alberto Grifi, in «Altrocinema», n. 12-13, giugno – settembre 1977, p. 10. 38. Pier Paolo Pasolini, in L. Betti e M. Gulinucci (a cura di) Pier Paolo Pasolini. Le regole di un’illusione, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991, p. 77. 39. Quando Lucisano, il produttore di Stalin, esige alcuni cambiamenti, l’intero gruppo di lavoro si chiama fuori e sia Fortini che la coppia Mangini – Del Frà preferiscono, nonostante il film fosse ormai finito, non firmarla. Resta Renato May, che firma il montaggio e, con Lucisano stesso, la curatela del lavoro. Il film rimaneggiato esce nel 1963 senza censure, con uno scarso successo di pubblico. Nel faldone conservato al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali troviamo solo una postilla: «Per divergenze censorie con il produttore i due registi ritirano le loro firme». 40. Per questa prospettiva rimando a tre libri recenti: M. Bloemheuvel, G. Fossati, J. Guldemond (edited by), Found Footage Cinema Exposed, Amsterdam, Amsterdam University Press /Eye Film Institute Netherlands 2012; M. Bertozzi, Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia, 2012; C. Blümlinger, Cinéma de seconde main, Klincksieck, Paris, 2013. 41. Jean Renoir, cit. in G. P. Brunetta, Il viaggio dell’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia, 1997, p. 257 42. B. Rondi, Cinema e Realtà, Cinque Lune, Roma, 1957, p. 60. 43. S. Parigi, Neorealismo, cit, p. 285. 44. Ricordo G. Latini, L’energia e lo sguardo. Il cinema dell’Eni e i documentari di Gilber Bovay, Donzelli, Roma, 2011; E. Fescani, Il cane a sei zampe sullo schermo. La produzione cinematografica dell’Eni di Enrico Mattei, Liguori, Napoli, 2014. 45. Rimando a D. Bruni, I cortometraggi industriali, in A. Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, Marsilio, Venezia, 2003, pp. 119-131 e a L. Mazzei, I documentari industriali di Ermanno Olmi, in S. Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano, 1954-1959, Vol. IX, Centro Sperimentale di Cinematografia -Marsilio, Roma-Venezia, 2000, pp. 282-288. 46. Per una analisi dei documentari demartiniani rimando a G. Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico, Palomar, Bari, 2006; F. Marano, Il film etnografico in Italia, Edizioni di Pagina, Bari, 2007. 47. P. Chiozzi, Manuale di antropologia visuale, Unicopli, Milano, 2006, p. 198.

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Marco Bertozzii

48. I film di Di Gianni sono esemplificativi di queste difficoltà: opere superbamente inquadrate, di un bianco e nero potente, rinunciano quasi sempre al soundscape originale per musiche aggiunte e voci narranti, incapaci di comprendere il valore – e non solo il ritardo, la miseria, il sottosviluppo – delle culture indagate. 49. «Io ho girato Appunti per un film sul jazz nel 1965, ed era in assoluto il primo film di Cinéma direct fatto in Italia. E l’ho girato con una troupe composta da un fonico e da un direttore della fotografia che si erano andati a specializzare giustamente in Canada e che erano tornati portando i primi microfoni direzionali». G. Amico, Nuovi modi di produzione: Nouvelle Vague ieri e oggi, in O. Amico, F. Giovanelli Amico, E. Vincenti (a cura di), Gianni Amico, Torino Film Festival, Torino, 2002, p. 28. 50. Ivi, pp.28-29.

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Per un paesaggio (sonoro) italiano: ri-ascoltare il neorealismo Elena Mosconi 1. Compositori a congresso Con tre anni d’anticipo sul convegno parmense dedicato al neorealismo, il Maggio musicale fiorentino nel 1950 destina il tema del settimo congresso internazionale alla musica per film, chiamando a raccolta compositori e critici. L’evento mira ad un pieno e definitivo riconoscimento del ruolo del musicista cinematografico, ancora largamente sottostimato, e a definirne l’identità, il profilo professionale, le estetiche e prassi operative1. Al convegno si accompagnano un vivace dibattito sulla stampa cinematografica e musicale, e un volume edito per le edizioni di Bianco e Nero, uscito in occasione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia2, come prima sistematizzazione delle questioni in campo. Nelle pagine del libro, il tecnico montatore Mario Serandrei offre un’arguta sintesi dei problemi di fondo: «in un film il musicista è considerato uno dei tre autori e questo invidiabile privilegio è ricco di significato, non solo per la partecipazione ai piccoli diritti musicali, ma perché il musicista ha avuto così un riconoscimento di personalità artistica che è negato, per esempio, all’architetto e al fotografo»3. Si rende necessario, pertanto, operare sulla consapevolezza e sulla responsabilità del compositore, affinché «si abitui a leggere una sceneggiatura con occhi cinematografici, si abitui a “vedere” il film prima che il film ci sia, faccia sentire la sua presenza quando il film nasce, per potersene proclamare autore, cioè padre»4; in altre parole, si tratta di portare il musicista a divenire «uomo di cinema […] concreatore di un’opera che è anche musica, ma musica non è»5. Nello stesso tempo, occorre incentivare anche la consapevolezza del regista cinematografico sull’importanza della colonna sonora, ed educarlo a una maggiore conoscenza e al rispetto dell’arte della musica. Se non vi sono dubbi sul fatto che una più stretta relazione tra regista e compositore possa produrre una migliore intesa tra le due soggettività creatrici dell’opera, sono soprattutto i musicisti a lamentare condizioni di lavoro avvilenti, schiacciate dalle esigenze di registi e produttori.

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Troppo sovente il musicista viene chiamato all’ultimo momento, gli si concedono le briciole di tempo rimasto dal piano di lavorazione (in alcuni casi un massimo di dieci giorni) per la composizione e la strumentazione della musica, gli si centellina l’organico dell’orchestra ed i turni di incisione, si bistratta e si deturpa a sua insaputa, in sede di montaggio, il suo commento musicale concepito con amore e sincerità di intenti; il «mixage» poi, molto frequentemente, compie il «servizio» finale, facendo scomparire quell’effetto studiato con tenera cura, oppure riducendo ad un pianissimo insopportabile un fortissimo d’orchestra (tralasciando i tagli operati senza alcun rispetto sulla povera colonna sonora)6.

Anche i tempi – aggiunge Enzo Masetti – sono proibitivi: I pezzi di musica impiegati in un film normale, vanno dai 30 ai 35, e ammettendo che occorrano in media tre ore l’uno per comporli (e non è molto), abbiamo un totale che va dalle 90 alle 105 ore, soltanto per la composizione. Ad un film medio di 30-35 pezzi corrispondono 180-210 pagine di partitura d’orchestra, che a una media di un’ora l’una, richiedono, per essere scritte, dalle 180 alle 205 ore. Aggiungiamo a questo il tempo che un compositore deve passare in sede di «moviola» per studiarsi e misurarsi le scene, un totale di 30 ore, poi un’altra decina di ore spese in colloqui col regista e accordi con la produzione, abbiamo un totale di 310-355 ore che diviso per 30 giorni fa la bella media di 10-11 ½ ore al giorno7.

Il mito neorealista della «presa diretta» sembra trovare applicazione più che alla registrazione dal vivo, che non è una prerogativa del cinema italiano del dopoguerra8, alle modalità frenetiche di lavoro, così distanti rispetto all’organizzazione americana. Le condizioni di lavoro a Hollywood, come testimonia Daniele Amfitheatrov, sono del tutto opposte: «Lì il musicista, che accompagna tutte le fasi della lavorazione del film, a partire dal soggetto, deve produrre 45 minuti di partitura (scritta per pianoforte) in due mesi; mentre nelle fasi esecutive è assistito da uno stuolo di figure professionali specializzate»9. Nonostante le difficoltà, è però diffusa l’opinione che il commento musicale del film possieda un enorme potenziale, «e dal punto di vista creativo» spinga a «cercare vie nuove, consone a questo particolare genere di musica»10, una musica adatta al tempo presente, nella quale il pubblico è disposto ad accettare «delle “arditezze” moderne» che potrebbero disorientarlo «in sede di concerto»11. Condizione necessaria è però che il commento sonoro venga «completamente liberato da ogni preconcetto di stile» e che possa «valersi di tutti i mezzi armonici, strumentali, timbrici di cui il

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nostro secolo lo ha, almeno potenzialmente, arricchito»12. Tra questi vi sono le possibilità offerte dal microfono, la fonogenia dei singoli strumenti, il missaggio di più piste sonore, i vari tipi di effetti ottenibili, come echi, riverberi, suoni rovesciati, ecc. Nello stesso tempo si rende necessario incrementare la consapevolezza critica attraverso apposite rubriche sulle riviste specializzate, e soprattutto operare per una nuova estetica, affrontando analiticamente e senza posizioni aprioristiche le questioni che investono il rapporto tra musica e immagini: il rapporto sincronismo/asincronismo, l’uso del leitmotiv, ma anche – a livello più generale – la concezione «unitaria» della musica in un organismo dinamico come quello del film e l’idea di un ritmo audiovisivo13.

2. La musica del reale Tra i numerosi interventi di carattere generale, solo il compositore e critico Fernando Ludovico Lunghi si spinge a delineare una possibile estetica musicale del film neorealista invocando un cambiamento analogo a quello avvenuto sul piano delle immagini: anche per la musica si tratta «di uscire dal chiuso all’aperto, dal particolare al “tutti”», così come di trasformare il «commento» in una «visione»14. Ma tali auspici sembrano stemperarsi in una vaghezza che non va oltre le buone intenzioni: musica neorealista è quella «che senza rinunciare alle esigenze formali e di sviluppo tematico si identificherà con il moto, l’azione, la vita del mondo visivo, dilatandolo con le sue infinite risonanze»15. Si può supporre che, senza farne esplicita menzione, Lunghi avesse avvertito l’inadeguatezza del commento sonoro di film come Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) Paisà (Id., 1946) e Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), che risentivano di formule piuttosto tradizionali. Con chiarezza gli studi successivi hanno messo in luce la mancata capacità da parte dei musicisti, anche i più impegnati (su tutti Renzo Rossellini e Alessandro Cicognini), di adeguare le loro colonne sonore al portato rivoluzionario delle immagini, e la scarsa sensibilità musicale moderna dei registi: Sergio Miceli ha sottolineato «la discrepanza fra l’innovazione linguistica che caratterizza i film e il riproporsi degli stereotipi musicali già utilizzati nel cinema del ventennio»16 ad esempio la magniloquenza degli interventi musicali, anche fuori tempo, in Roma città aperta17, mentre Ermanno Comuzio ha rilevato l’eccesso interpretativo di prefinale e finale in Ladri di biciclette18. Ma non

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è possibile discernere in quale misura la scelta fosse da imputare al regista oppure al compositore Alessandro Cicognini che, pochi anni dopo, ritorna a riflettere sullo stile musicale dei film (neo)realisti19. Qui la musica deve «rispecchiare la complessa sensibilità emozionale dell’uomo moderno» attraverso una pluralità di registri «attuali»: «la musica dotta vi riprodurrà le vibrazioni psichiche e la misteriosa angoscia dell’uomo contemporaneo; il jazz allo stato puro o innestato alla musica dotta sarà la voce delle nostre evasioni dionisiache, e infine la melodia popolare (folklore) troverà rispondenza esteriore con gli ambienti e i sentimenti popolareschi»20. Una proposta improntata alla contemporaneità e al polistilismo, che traduce un’indecidibilità di cui è traccia un’altra osservazione più radicale di Cicognini: l’importanza di bandire dal film realistico ogni musica d’atmosfera, perché opera uno spostamento dalla verosimiglianza ad una dimensione fantastica. Impreparati a definire il realismo musicale del film, i compositori sembrano più a loro agio nell’individuare quale sia la «musica del reale», ossia la musica diegetica che meglio ricrea l’ambiente di vita dei personaggi: «per la musica cinematografica […] è possibile riprodurre in alcuni casi il vero musicale nella sua assoluta, fotografica realtà, fare, insomma, del realismo musicale al cento per cento: tutto ciò che, al di dentro del fotogramma può essere fonte realistica di musica, è suscettibile di essere usato dal regista alla stessa stregua di un mobile, di un rumore, di una luce, realtà tutte che cadono sotto i sensi dello spettatore […] Possono essere il canto popolare, la sinfonia celebre, l’inno nazionale, il minuetto classico, la fanfara di caccia…»21. Sul piano degli interventi sonori di carattere diegetico il cinema neorealista rivela una ricchezza forse inaspettata, come testimoniano – tra le altre – la presenza della canzone Mattinata fiorentina22 in Roma città aperta, oppure l’inno religioso tradizionale T’adoriam ostia divina e il brano napoletano Ciccio formaggio23, cantato dagli attori di una filodrammatica durante le prove di una rivista, in Ladri di biciclette. Per mettere ordine nel vasto complesso delle musiche in scena, Richard Dyer ha identificato cinque tipologie prevalenti: canzoni folk, religiose, inni militari, brani d’opera (o di musica classica) e popular. Mentre le prime, in generale, sono associate a valori positivi (o tutt’al più neutri, come alcuni canti religiosi che fungono da indicatore ambientale), le canzoni pop – secondo lo studioso anglosassone – raccolgono un portato problematico, legato a situazioni dubbie o apertamente negative24. Una conferma è rap-

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presentata dalle scene di danza di due film di Giuseppe De Santis, entrambi con la colonna sonora di Goffredo Petrassi: Riso amaro (1949) e Non c’è pace tra gli ulivi (1950). Se in quest’ultimo la tradizionale danza ciociara del saltarello da parte della protagonista Lucia Bosè, sottolineata dal composto «contenimento» del suo corpo operato dalla macchina da presa, esprime l’aderenza del personaggio ai valori della giustizia sociale e dell’amore, nello sfrenato boogie-woogie di Riso amaro, in cui Silvana Mangano libera la propria sensualità, si preannuncia il destino drammatico della mondina. Spingendosi ancora oltre nell’individuazione del panorama sonoro rilanciato dai film neorealisti, Francesco Pitassio ha osservato come l’opera lirica costituisca un tratto identitario forte e permanente nel passaggio dal periodo fascista al dopoguerra25, mentre la musica americana, in particolare nelle sonorità jazz che conoscono una più ampia diffusione cinematografica dopo lo sbarco degli alleati26, sotto un’apparente euforia apra vissuti di crisi e di indeterminatezza nei personaggi, costretti a rielaborare la propria identità personale e collettiva. Già Tom Granich, in un’interessante analisi di fine anni Quaranta, individuava nel jazz un potenziale di esaltazione del realismo del film, definendolo «forse l’effetto sonoro più efficace del cinema verista»27, per quanto ancor poco sfruttato. In generale il cinema del secondo dopoguerra denota una maggior consapevolezza dell’importanza della canzone e della musica diegetica nella caratterizzazione e nella definizione psicologica di personaggi e situazioni, risvegliando nello spettatore una memoria sonora e musicale che i film del periodo precedente sembravano aver anestetizzato in favore di canzonette e brani commerciali. Tuttavia, proprio mentre riconosce e celebra l’importanza culturale e antropologica del repertorio della tradizione, soprattutto folk, il cinema neorealista ne sancisce anche l’inevitabile inscrizione in un nuovo panorama mediale che sembra talvolta mettere tra parentesi la sua diretta scaturigine da una comunità popolare. Questa tendenza, che d’altra parte risponde a una legge inscritta nei processi di mediatizzazione, si può cogliere in film molto diversi. Sempre in Riso amaro, alcuni tra i canti delle mondine vengono adattati, come tutti gli altri materiali del film, alla resa filmica; ossia sono riformulati e re-inventati per la nuova cornice discorsiva, come racconta la costumista Anna Gobbi: «non ci fu possibile riprendere i cori durante la monda, perché le mondine, lavorando chine, in una posizio-

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ne che rende difficile il canto, non avrebbero potuto rendere efficacemente i passaggi che davano alla loro voce l’alto tono drammatico che era richiesto dalla situazione. Li registrammo allora a parte, servendoci di un maestro dei cori per coordinare le voci e scandire i tempi»28. Anche il testo viene in parte riscritto da Corrado Alvaro in funzione del racconto del film, e si sofferma ora sulla patetica storia d’amore di una ragazza, ora sulla contrapposizione tra mondine regolari e «crumire» (clandestine)29. Nei medesimi anni in cui sta emergendo un’attenzione alla cultura folklorica30, diventa chiaro che tale musica popolare – che «non è musica scritta, è legata direttamente a condizioni reali e ambientali di esistenza, è considerata patrimonio culturale, spesso unico, di alcune classi che per lungo tempo hanno avuto una funzione subalterna nel corso della storia»31 viene ad essere inscritta, attraverso radio, cinema, industria discografica e mediale, nell’orizzonte della musica di consumo, espressione di «un insieme di forze che […] la trasformano, la “sistemano”, adattandola a vari interessi e convenzioni»32. Ancor di più in un film come Natale al campo 119 (di Pietro Francisci, 1947, su soggetto di Michele Galdieri) le canzoni, che – insieme all’inflessione dialettale – formano il substrato della comune appartenenza alla patria per un gruppo di prigionieri in un campo americano, appartengono indifferentemente alla tradizione folk (i canti siciliani, come Tirannia, lo stornello romano) o popular (come Munasterio ’e Santa Chiara, O mia bela Madunina, ecc. 33). Due dei protagonisti, Rocco D’Assunta (il siciliano) e Massimo Girotti (il veneto), spiegano in questi termini il passaggio dalla musica folk alla canzone di consumo: «magari poi un giorno viene un maestro di musica del continente, gli piace il motivo, dice che è suo, lo pizzica e ci fa la speculazione». «Eh, sì, è il destino dei canti popolari». Il risultato è quello di una «compilation» di motivi attinti da diverse tradizioni che cementano un’identità nazionale collettiva di cui i media diventano artefici e depositari (la radio, i dischi, il cinema, come, più tardi, la televisione). Canzone e musica diegetica, inoltre, non si limitano ad ambientare alcune vicende o a fornire una temperatura emotiva della situazione; talvolta agiscono sul piano narrativo, contribuendo alla chiarificazione di una situazione. Ne è un celebre esempio la sequenza dell’ubriacatura del tedesco e del nero di Vivere in pace di Luigi Zampa, 1947, con musiche di Nino Rota. In tutto il film abbondano interventi musicali di commento, volti a sottolineare i tratti caratteriali o biografici dei personaggi con particolari timbri sonori di tipo

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infra ed extradiegetico, dalla tromba del nonno bersagliere (Ernesto Almirante) imbracciata anche dal soldato americano Joe (John Kitzmiller) con modalità jazz, ai corni che accompagnano ironicamente il modo di incedere e di parlare del podestà. Nella sequenza che pone a confronto un soldato tedesco ubriaco (Heinrich Bode) con un nero americano nella casa di una tranquilla famiglia italiana di un paese dell’Appennino, dopo l’imbarazzo iniziale la musica opera una «pacifica» coesistenza tra i popoli e le generazioni (giovani, adulti, anziani): l’inno tedesco scivola in quello dei bersaglieri, piegato a sonorità jazz e poi interpolato, nell’attitudine alla variazione tipica del jazz. La musica anticipa le relazioni ideali tra i popoli (in particolare quello italiano e americano), all’insegna di una reciproca tolleranza se non di un possibile legame affettivo. Poco importa che intervenga a supporto un’orchestra non presente sulla scena, spia di un portato favolistico e da apologo del film mai sopito: al pubblico popolare viene richiesto di mettere in gioco le proprie competenze musicali per riconoscere e interpretare la situazione; per questo «il gioco del regista su personaggi-simbolo caratterizzati in modo così estremo è assecondato da quello di Rota sugli stereotipi musicali»34.

3. Il paesaggio dei suoni Oltre alla «musica del reale», vale la pena indagare nei film del neorealismo anche lo spazio sonoro, ossia il rapporto tra ambiente, suoni e percezione uditiva. L’ipotesi che guida questa ricognizione, necessariamente sintetica, è che il neorealismo abbia determinato, in subordine alla riscoperta del paesaggio fisico finalmente affrancato dai vincoli dei teatri di prosa, anche una diversa attenzione al paesaggio sonoro, così profondamente sconvolto dall’esperienza bellica. Non si tratta di una rivoluzione capace di spazzare via stili di ascolto e pratiche produttive precedenti: come ha osservato Stefania Parigi, «pochi sono i registi […] che si pongono problemi di autenticità sonora: l’ansia di verità viene completamente assorbita e soddisfatta dall’immagine, mentre il suono rimane largamente legato ai trucchi del cinema, a una evidenza realistica raggiunta attraverso gli artifici permessi dalla tecnologia»35. D’altra parte anche l’invito alla riscoperta del paesaggio italiano del celebre intervento di Giuseppe De Santis su «Cinema»36, ossia di «atmosfere» e ambienti autentici – case, strade, natura

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– lasciava solo trapelare, senza nominarla apertamente, una memoria anche acustica degli spazi attraverso le sensazioni associate alla percezione sonora37. Negli stessi anni in cui si compie un processo di riscoperta del reale va però maturando una nuova attenzione al rumore. «Attraverso i rumori e la loro selezione» - scrive Luigi Chiarini – «il suono ha la capacità di creare un ambiente: pure essendo in una stanza, noi possiamo sapere se ci si trova in campagna, in una grande città, in una stazione ferroviaria, in un porto»38. Se si è ancora – comprensibilmente – lontani dal problema dell’autenticità sonora, tuttavia l’impiego ragionato e produttivo del rumore viene tematizzato sia da musicisti come Enzo Masetti, che riflette sulle reciproche trasmutazioni tra rumore e suono che consentono «di ottenere degli effetti che al di fuori del cinematografo non sarebbero assolutamente realizzabili»39, sia da critici come Renato May il quale, evidenziando l’importanza dei rumori come «materiale plastico» del film, introduce anche il concetto di punto d’ascolto soggettivo40. Pur nella consapevolezza delle numerose cautele che il concetto di paesaggio sonoro impone41, è indubbio che l’esperienza d’ascolto dei film del periodo neorealista faccia emergere sonorità ignote o trascurate dal cinema precedente: basti pensare ai rumori delle armi da fuoco, delle esplosioni e delle sirene, che rievocano negli spettatori dolorose memorie belliche e resistenziali, o a quelli dei numerosi mezzi di trasporto che – tanto nelle città quanto in campagna – attraversano in lungo e in largo la penisola. Ci si può chiedere, con Raymond Murray Schafer42, quali siano allora le «toniche», ossia i suoni di sfondo – spesso inavvertiti – che evidenziano un ambiente e il carattere delle persone che vivono in esso, come quelli climatici o geografici. Quali invece «i segnali», cioè i suoni posti in primo piano, percepiti distintamente e in modo consapevole in funzione di un avvertimento comunitario: sirene, allarmi, campane, fischietti, ecc. Quali infine le «impronte sonore» (soundmark), i suoni caratteristici di un’area o di una comunità che, in nome della loro unicità, meritano di essere difesi e protetti. Nella vastità dei percorsi possibili per identificare un paesaggio sonoro del neorealismo, ho scelto di privilegiare un particolare tipo di segnale, quello delle campane, non solo perché ricorre in un nutrito gruppo di film di ambientazione rurale che attraversano sia il filone resistenziale che quello più sentimentale, ma anche per la sua indubbia rilevanza comunicativa e simbolica. Il bronzo delle campane si contrappone sia figurativamente che dal punto

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di vista sonoro alle armi da fuoco che avevano drammaticamente sconvolto l’esperienza sensoriale degli italiani. Non è un caso che Rossellini, dopo una serie di inquadrature di spari e mitragliatrici, apra l’episodio dei frati di Savignano di Romagna in Paisà (1946) con il suono festoso e liberatorio delle campane che annunciano l’ingresso in un tempo nuovo della storia. Poste in una posizione sopraelevata, dall’alto dei campanili esse hanno il potere di riconfigurare uno spazio sonoro ampio e potenzialmente senza limiti, spesso rimarcato dalle immagini in campo lungo, quasi una sottolineatura visiva che conferma l’estensione acustica, e che tuttavia allo stesso tempo identifica una specifica comunità, caratterizzata dal riferimento al (proprio) campanile. Talvolta – assecondando le funzioni più classiche della colonna audio – la campana funge da elemento di riempimento sonoro o di collegamento tra due spazi diversi, ad esempio in Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948), laddove si sentono rintocchi allorché la barca del boss Pierluigi arriva in porto. Più di frequente le campane costituiscono un marcatore acustico con un preciso valore referenziale: si tratti di un evento ufficiale, di una cerimonia religiosa o anche solo dell’orario. In tutti questi casi la messa in evidenza del suono, attraverso rintocchi ribattuti o uno scampanio prolungato, sostenuta in diverse occasioni dalle inquadrature della fonte sonora, attraversa vari livelli di senso. In primo luogo ha una rilevanza deittica; inoltre determina nei personaggi una chiara consapevolezza della presenza e del significato della fonte sonora. Infine segna un tempo forte a livello simbolico, perché l’«ora», il momento annunciato dalle campane, rappresenta un punto di svolta narrativo o riassume i valori veicolati dal film. Il rintocco di campana – nella sua duplice natura di suono e di elemento musicale – attraversa con facilità tutte le configurazioni dello spettro sonoro; dalla presenza in campo della fonte sonora, scivola spesso nello spazio di commento (oversound), nel quale il significato espressivo viene potenziato. Ne Il sole sorge ancora (Aldo Vergano, 1946) i rintocchi accompagnano il funerale di un bambino, premessa di un evento più tragico, quello della fucilazione del parroco del paese. La processione delle persone che seguono il pastore d’anime si svolge in un intenso crescendo sonoro ed emotivo nel quale il coro che risponde alle litanie si mescola ai mesti rintocchi delle campane, fino agli spari che mettono in fuga la folla.

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In alcuni film di stampo populista e sentimentale, le campane ricorrono come simbolo comunitario, benché con alcuni cedimenti allo stereotipo, che favorisce peraltro l’immediato riconoscimento nello spettatore. Nel già ricordato Vivere in pace, la vita si svolge all’ombra del campanile, mostrato fin dalle prime battute, mentre la voce fuori campo spiega che nel borgo dell’Appennino che fa da teatro alle vicende «non mancava nulla: la chiesetta per battezzare quelli che nascevano, il piccolo cimitero per seppellire quelli che morivano, il campanile per dire l’ora a quelli che vivevano». Nel corso della narrazione le campane acquistano la funzione di segnale (legittimamente dato dal parroco) per tutta la popolazione che, allontanatasi dal paese per paura di ritorsioni naziste, deve capire se sia il caso di ritornare (al suono di campane a festa) o piuttosto se debba continuare a stare nascosta (al suono di campane a morto)43. Ma al termine si caricano di una problematica dimensione anempatica, quando la morte sacrificale del generoso zio Tigna (Aldo Fabrizi) viene montata con lo scampanio festoso dell’arrivo degli americani. Anche in Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1952), la campana accompagna la vita di Cusano nell’Irpinia, offrendo benedizioni alle nuove imprese (l’inaugurazione della corriera) e protezione al giovane disoccupato Antonio, assunto come sagrestano. Il distacco dalla tradizione rurale, e il richiamo della città (Napoli) sono presentati come un tradimento della cultura originaria: «ma come», gli dice il parroco prima di licenziarlo, «fai il comunista a Napoli e suoni le campane qua?». Castellani arriva anche a mostrare – insolitamente – il punto d’ascolto attraverso la petulante Carmela che, salita sul campanile per gelosia, viene assordata dall’intensità del suono. In virtù della loro posizione, le campane sono la voce di uno sguardo che si erge al di sopra della vivace commedia umana, e che assicura – nell’inquadratura dell’allegro scampanio finale – l’aiuto di una provvidenza laica, quella di una naturale capacità di arrangiarsi che non farà mancare un futuro alla giovane e squattrinata coppia di novelli sposi. In un film come Non c’è pace tra gli ulivi, che fa del folklore e del radicamento nella tradizione ciociara la propria cifra espressiva più manifesta (per quanto mescolata con apporti eterogenei), la simbologia liturgica delle campane organizza sia i tempi di vita che il nucleo drammaturgico del plot: gli eventi più cruciali, ossia il sacrificio di una vittima innocente e la sconfitta del malvagio usurpatore avvengono tra il giovedì santo (dopo che

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sono state legate le campane) e il giorno di Pasqua, che segna l’inizio di una «risurrezione» sociale e politica. Ad essa fa riferimento il personaggio di Salvatore: «a duecento metri da noi ci sta un agnello strangolato, l’agnello di questa Pasqua». E, subito dopo, ponendosi in ascolto, esclama: «si son sciolte le campane. Inginocchiamoci». Proprio mentre risuonano a festa le campane pasquali si svolge il lungo duello tra l’eroico Francesco e il perfido Bonfiglio, e solo dopo che quest’ultimo si è gettato in un dirupo, suicidandosi, il suono delle campane si attenua fino al silenzio. De Santis ricorre al suono delle campane anche in Caccia tragica (1947), un’opera ricca di elementi sonori eterogenei: questa volta i rintocchi ritornano a più riprese, nel corso della narrazione, per annunciare l’allarme generale e la chiamata a racconta dei contadini delle campagne per la cattura della banda che ha sottratto i denari della cooperativa. Ogni volta che suonano le campane, i personaggi verbalizzano il segnale; così, a un gruppo di bambini mascherati (evidente metafora della condizione di una parte degli italiani) che se ne domandano il motivo, pare rispondere la donna della banda, Daniela, che – verso la fine del film – si sente accerchiata: «le senti queste campane? Sembrano a festa. Sai per chi suonano? Per noi, come se ci sposassimo». Apparentemente fraintende il segnale, paragonandolo a un suono di festa; in realtà opera un montaggio verticale di tipo contrappuntistico. Più che di un matrimonio, il suo è il presagio di un’imminente tragica fine che suggella il chiasmo tra le due coppie del film: quella dei giovani freschi di nozze, presentati in apertura, dolorosamente separati dalla rapina, e la coppia degli amanti malvagi destinata, a causa delle sopraffazioni e delle violenze operate, a una fatale separazione44. L’uso delle campane in funzione di contrappunto ha illustri precedenti – che non dovevano essere oscuri a De Santis – nella scuola sovietica. In particolare Dziga Vertov, nel film Entusiasmo (Entuziazm, 1930), realizzato con mezzi rudimentali all’inizio dell’epoca sonora, si proponeva di valorizzare le condizioni d’ascolto affidando alla colonna audio, e in modo precipuo ai rumori, il compito di celebrare l’esaltazione della macchina. Nella prima parte il suono martellante delle campane esprimeva il giogo della religione che, se pure richiamava donne e uomini verso la sfera del sacro, verso pratiche rituali e di culto, dall’altra li spingeva a una mancanza di consapevolezza, espressa con ubriacature e perdita di controllo: le immagini parevano ripetere e amplificare il potere del sonoro, creando una

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sensazione di vertigine. Successivamente il dinamismo della rivoluzione imprimeva un nuovo impeto alla storia: i suoni della macchina dovevano esprimerne la forza liberatoria, in una relazione asincronica con le immagini che declinavano – dopo l’entusiasmo della gioventù operaia – verso i temi del piano quinquennale della costruzione socialista45. Ma è soprattutto La terra trema (Luchino Visconti, 1948) a offrire un vasto repertorio di funzioni legate all’uso delle campane all’interno di una tessitura sonora asciutta nei commenti musicali quanto accurata e verosimile nella resa di un paesaggio fatto di voci e di grida, di canzoni e strumenti della tradizione siciliana, di rumori ambientali, spesso ottenuti in presa diretta46. L’ingresso dello spettatore nel film, mentre scorrono i titoli di testa su inquadrature molto scure, avviene con un montaggio sonoro: l’accordo iniziale orchestrale si stempera nel rintocco di campane che battono le ore, a cui si aggiungono il fischio di un passante e le urla dei mercanti di pesce, mentre le immagini, con due panoramiche, mostrano la chiesa e l’arrivo delle donne alla funzione mattutina. Poco dopo (inqq. 3-7)47, è la campanella della Messa che risuona ininterrotta durante l’arrivo in porto delle barche e il risveglio delle donne in casa Valastro. Con pochissimi tratti Visconti designa un microcosmo sociale collocato in un ambiente preciso. Dapprima circoscrive il tempo, un «tempo controllato, storicizzato, perché scandito dai rintocchi della campana»48; subito dopo evidenzia gli aspetti rituali, sia religiosi (la Messa) che laici (il ritorno dal lavoro, la casa e la famiglia). In questo modo, attraverso il suono della campana che «fonda il tempo, lo rende manipolabile, lo concretizza» e l’immagine che «occupa invece lo spazio, lo rende visibile, lo localizza» con la chiesa, il porto, la casa, istituisce un modello di meridionalità arcaica. Nel corso della narrazione le campane battono le ore quando scandiscono momenti forti, soprattutto notturni, come la partenza di Cola (inq. 406) – che è anche un allontanamento dalla comunità, dal campanile – o l’ispezione del maresciallo (inq. 432) che disperde ‘Ntoni e gli altri ubriachi 49. La campana attraversa invece un doppio livello, interno e di commento (off e over), quando si fa metafora di una condizione esistenziale, come la promessa di un futuro felice che attende Nedda e ‘Ntoni soli, dall’alto della scogliera (inq. 213), espressa da uno scampanio festoso. Il suono delle campane subisce il medesimo trattamento delle voci e delle cose che essi «diventano simboli e i simboli tornano ad essere oggetti quotidiani»50, in un interscambio continuo tra cronaca e rielaborazione mitica.

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In posizione centrale nel racconto, l’episodio della tempesta è introdotto e accompagnato dal suono insistente della campana a martello che, nella sua monotona ineluttabilità, scandisce l’ansiosa, disperata ricerca di aiuti da parte di Mara per recuperare i familiari in mare (inqq. 251-259), e cede soltanto al fragore dei flutti davanti ai quali infine sostano, immobili, le donne (inq. 260 e segg.). Il suono stigmatizza i termini dell’eterna lotta per la sopravvivenza che oppone l’uomo, con la sua operosità, alla sferzante implacabilità della natura. E la conformazione sonora di questi rintocchi ribattuti e prolungati che, dopo il pesante colpo di battacchio, lasciano espandere il loro riverbero nel corpo cavo del bronzo, è tale da esprimere la doppia natura delle campane di cui parla Schafer: una forza centripeta, di richiamo dei fedeli verso il campanile (mostrato da Visconti nell’inq. 251), e un’opposta forza centrifuga, di allontanamento degli spiriti del male51. Un’ultima occorrenza in cui ritornano le campane è quella della mesta partenza dei Valastro da casa (inqq. 472-475) dopo lo sfratto, accompagnata da rintocchi a lutto, lenti e cupi. Per contrasto, le inquadrature seguenti (inqq. 476-482) sono dedicate alla cerimonia di «battesimo» delle nuove barche dei grossisti, alla presenza di tutto il paese: un festoso scampanio satura lo spazio acustico senza riuscire tuttavia a coprire i suoni più gravi, legati ai Valastro, che perdurano. Il montaggio sonoro riprende la dialettica affidata ai due gruppi di inquadrature per cui la rovina dei Valastro, priva del sostegno di una embrionale coscienza di classe, si contrappone al successo di Raimondo, Lorenzo e dei vari grossisti, festeggiati da un concorso di popolo. E tuttavia nella traccia sonora i due differenti suoni di campane non si limitano a fronteggiarsi, come le immagini: l’uno, quello grave associato alla sconfitta di ‘Ntoni, continua a far breccia nell’altro festoso, quasi un monito a considerare come le forze che agiscono nella storia non solo si oppongano, ma coesistano le une con (e nel-) le altre. È a questo punto che si può arrestare, provvisoriamente, l’itinerario proposto. Ri-ascoltare il neorealismo, come si è cercato di argomentare, non è un’attività rivoluzionaria, ma un paziente esercizio di affinamento sensoriale che può consentire di riarticolare, anche sul piano sonoro, gli strumenti, i significati e le estetiche attraverso i quali si è codificato un linguaggio cinematografico della realtà. Perché, per quanto sia prodotta attraverso effetti di verosimiglianza e di autenticità, l’impronta del reale fornita dalle immagini ha un’eco che risuona, proprio come quella delle campane.

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Note 1. Il convegno fiorentino era stato preceduto dal congresso dei compositori per la musica cinematografica svoltosi a Londra, e si inseriva in un esteso processo di ripensamento della musica per film. 2. Il volume curato da E. Masetti, La musica nel film, Bianco e Nero, Roma 1950, corrisponde ai numeri 4-5 della rivista «Bianco e Nero» dello stesso anno (con un’unica eccezione). 3. M. Serandrei, Il parere del regista, del montatore e della critica, in E. Masetti (a cura di), La musica nel film, cit., p. 5. 4. Ibidem. 5. L. Chiarini, Nota dell’Editore, in E. Masetti (a cura di), La musica nel film, cit., p. 5 6. M. Nascimbene, Incontro con Amfitheatrof, «Cinema», a. II, n. 19, 31 luglio 1949, p. 45. 7. E. Masetti, Introduzione ai problemi della musica nel film, in Id. (a cura di), La musica nel film, cit., p. 28. 8. Cfr. S. Masi, L’hardware del neorealismo. Ferri del mestiere e strategie della tecnica, in A. Farassino (a cura di), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, EDT, Torino 1989, pp. 49-50; M. Locatelli, Paesaggi sonori. Cinema, media e tecnologia in Italia dalla rivoluzione sonora al boom economico, in L.L. Cavalli Sforza (a cura di), La cultura italiana, vol. IX, Utet, Torino 2009, pp. 383-91; P. Valentini, Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche, Marsilio, Venezia 2006, pp. 46-99 . 9. M. Nascimbene, Incontro con Amfitheatrof, in «Cinema», n. 19, 1949, p. 45. 10. A. Veretti, Aspetti della musica nel film, in E. Masetti (a cura di), La musica, cit., p. 47. 11. R. Vlad, Tecnica della musica per film, in «Bianco e Nero», n. 8, 1949, p. 9. 12. G. Marinuzzi jr., Aspetti della musica nel film, in E. Masetti (a cura di), La musica nel film, cit., p. 38. 13. R. Vlad, Tecnica della musica per film, cit., pp. 7-13; E. Masetti, Introduzione ai problemi della musica nel film, cit., pp. 7-29. 14. F. L. Lunghi, La musica e il neo-realismo, in E. Masetti (a cura di), La musica nel film, cit., p. 58. 15. Ivi, p. 59. 16. S. Miceli, Musica per film. Storia, estetica, analisi, tipologie, LIM-Ricordi, Lucca-Milano 2009, p. 333. 17. Ivi, p. 335. 18. E. Comuzio, Alessandro Cicognini, un musicista italiano per il cinema, in Aa.Vv., Trento Cinema 1990. Incontri internazionali con la Musica per il Cinema, Trento 1990, p. 41. 19. A. Cicognini, La musica d’atmosfera nel film storico e nel film neorealista, in S. Biamonte (a cura di), Musica e Film, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1959, p. 166. 20. Ivi, p. 168.

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21. E. Masetti, Il realismo musicale nel film, in «Bianco e Nero», n. 3, 1950, pp. 32-33. 22. G. D’Anzi e M. Galdieri, 1941, portata al successo da A. Rabagliati. 23. Ciccio Formaggio, di E. Pisano e G. Cioffi, fu eseguita per la prima volta da N. Taranto nel 1940. Della canzone venne fatta una celebre parodia da Totò e A. Magnani, su parole di M. Galdieri, al Teatro Valle di Roma nel 1944. 24. R. Dyer, Music, People and Reality: the Case of Italian Neo-realism, in M. Mera, D. Burnand (a cura di), European Film Music, Ashgate, Aldershot 2006, p. 30. 25. F. Pitassio, Popular Tradition, American Madness e Some Opera. Music and Songs in Italian Neo-realist Cinema, in «Cinéma & Cie», nn. 16-17, 2011, pp. 141-146. 26. Si veda su questo argomento A. Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dallo swing agli anni sessanta, vol. 2, EDT, Torino 2010. 27. T. Granich, Cinema e jazz, in «Bianco e Nero», n. 8, 1950, p. 42. Granich fa distinzione tra un uso ambientale e uno psicologico delle sonorità jazz nel cinema, attingendo a una nutrita casistica italiana e internazionale. 28. A. Gobbi, Come abbiamo lavorato per “Riso amaro”, in «Cinema», n. 8, 1949, p. 245. 29. Sui canti delle mondariso si veda: F. Castelli, E. Jona, A. Jovatto, Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia, Donzelli, Roma 2005; sulla musica del film C. Cano, La musica. Petrassi, i canti popolari e il boogie-woogie, in G. Michelone, G. Simonelli (a cura di), Visioni moltiplicate. Immagini culturali di Riso amaro, Mercurio, Vercelli 1996, pp. 99-100. 30. Si ricordino, a puro titolo esemplificativo, le registrazioni del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare, attivo dal 1948. 31. D. Carpitella, Musica popolare e musica di consumo (1955), ora in Id. (a cura di), Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche 1955-1990, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, pp. 42-43. 32. Ivi, p. 43; S. Frith, L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in J.J. Nattiez (a cura di), Enciclopedia della musica, vol. I, Einaudi, Torino 2001, pp. 953-965. 33. Munasterio ’e santa Chiara (Galdieri, Barberis, 1946), O mia bella Madunina (G. D’Anzi, 1934); tra gli altri, vi è anche il brano El specio me ga dito che son bela, dal primo atto dell’opera I quattro rusteghi di Ermanno Wolf-Ferrari (1906). Nel film l’opposizione tra i generi musicali è sottolineata dagli strumenti di riproduzione e accompagnamento (dal disco alla voce nuda o sostenuta dalla chitarra). 34. G. Mangini, Nino Rota, il cinema, le canzoni ovvero: “Quanta gente c’era da contentare!”, in V. Rizzardi (a cura di), L’undicesima musa. Nino Rota e i suoi media, Fondazione Cini-Rai-Eri, Venezia-Roma, 2001, p. 142. 35. S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014, p. 68. 36. G. De Santis, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», vol. I, n. 116, 1941, pp. 262-263. 37. Sul problema del «realismo» del suono audiovisivo – anche in rapporto alla capacità di esprimere le sensazioni legate a una causa - rimando a M. Chion, L’audiovisivione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001, in particolare le pp. 97-121.

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38. L. Chiarini, Cinque capitoli sul film, Edizioni italiane, Roma, 1941, p. 96. Chiarini incoraggia tuttavia un uso simbolico, e non realistico del rumore. 39. E. Masetti, Introduzione ai problemi della musica nei film, cit., p. 21. 40. R. May, Colonne sonore, in «Bianco e Nero», IX(1948), n. 12, pp. 8-16. 41. Lo studio del paesaggio sonoro si deve a R.M. Schafer, Il paesaggio sonoro, LIM-Ricordi, Milano 1985). Le problematiche ad esso connesse in ambito cinematografico sono state messe in luce in particolare da: M. Chion, Promenades d’écoute, in J. Mottet (a cura di), Les paysages du cinéma, Champ Vallon, Seyssel 1999, pp. 57-60 e da G. Lavarone, Il paesaggio sonoro della città e il cinema della Nouvelle Vague, in M. Di Donato, V. Valente (a cura di), Ascoltare il cinema. Studi sul suono nel film, Bulzoni, Roma 2014, pp. 85-87. 42. R.M. Schafer, Il paesaggio sonoro, cit., pp. 21-23. 43. In Campane a martello (1949), sempre di Luigi Zampa (con musiche di Nino Rota), la campana si fa segnale sia – come recita il titolo – della chiamata a raccolta della popolazione per un problema etico di rilievo, sia della morte del protagonista che, simbolicamente, non viene capita dagli abitanti del paese. 44. Sulla struttura binaria del film si veda G. Moneti, Studio su Caccia Tragica, Nuova Immagine, Siena 2004, pp. 18-31. 45. Il libretto del film, così come il primo progetto della Marcia sonora e altre testimonianze dell’autore sono presenti in D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, a cura di P. Montani, Mimesis, Milano – Udine 2011, pp. 234-238 e 140-146. 46. «L’inquadratura viscontiana è sempre risonante: ora colma magmaticamente di rumori e di grida, ora incisa di suoni scarni, ora invasa da voci che arrivano dall’esterno, a sottolineare la profondità della “scena sonora” costruita dal regista» (S. Parigi, Il dualismo linguistico, in L. Miccichè, (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti. Analisi di un capolavoro, Lindau, Torino 1996, p. 141). 47. Per la numerazione delle inquadrature si fa riferimento alla sceneggiatura desunta di F. Montesanti, in «Bianco e Nero», XII(1951), nn. 2-3. 48. Questa e le citazioni che seguono sono tratte da F. Marano, Suoni da vedere, immagini da sentire, in N. Scaldaferri (a cura di), Santi, animali e suoni: festa dei campanacci a Tricarico e San Mauro Forte, Nota, Udine 2005, pp. 39-40. 49. Altrove la campana risuona nella notte come elemento di unificazione tra inquadrature differenti (cfr. inqq. 81-82). 50. S. Bernardi, La terra trema. Il mito, il teatro, la storia, in V. Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Marsilio – Biblioteca di Bianco e Nero, Venezia – Roma 2000, p. 84. 51. R.M. Schafer, Il paesaggio sonoro, cit., pp. 242-244.

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Neorealismo/Paesaggio Thierry Roche 1. Un’idea di paesaggio Non è facile trovare un accordo su una definizione precisa di paesaggio. Comunemente si parla di paesaggio definendolo come uno spazio percepito a partire da un punto di vista: è una distesa di spazio che si offre allo sguardo di un osservatore. In altri termini, il paesaggio è la somma di elementi del proprio ambiente che l’uomo può percepire ponendoli in un contesto; esso è costituito di elementi visibili e invisibili, animati e inanimati, ma sempre legati e messi mentalmente in relazione. Dunque non v’è dubbio sul fatto che il paesaggio porti a pensare, in una qualche maniera anche a vedere, e che certe idee ci vengano dal paesaggio stesso. È questa la proposta avanzata da Augustin Berque, che distingue un pensiero di tipo paesaggistico (la maniera con cui i popoli hanno trasformato il loro ambiente fino al Rinascimento) e un pensiero del paesaggio che lo considera un oggetto di riflessione e/o di rappresentazione e che si è sviluppato a partire dal momento in cui sono state disponibili le parole e le immagini per designarlo1. Questa posizione, seppur corretta, non ci aiuta a pensare il paesaggio nel cinema. Per Eugenio Turri, il paesaggio è un teatro senza un direttore di scena, senza un regista e spesso evanescente: basta un cambiamento minimo di luce e la magia scompare2. Parlare di paesaggio come di un teatro non significa assimilarlo tuttavia a un fondale. La metafora presuppone che esso sia la scena, il luogo in cui si muovono gli attori, ma altresì la sala in cui si trovano gli spettatori. Un paesaggio non è separabile dal suo controcampo, che ha un ruolo determinante nel suo apprezzamento: ciò che guardo mi guarda (da cui l'idea di sito e di luogo). Apprezzare un paesaggio è anche sentire fisicamente delle sensazioni, provare il piacere di un odore, di un suono (o di un silenzio), è sentire il bruciore dell'aria sulla pelle; questi momenti particolarmente intensi (quando ci si rende disponibili e recettivi) sono quelli che ci fanno sentire vivi. Un paesaggio si può apprezzare solo se ne siamo uno degli attori, all'interno di una relazione sottile e fragile, catturati da una scena dalle molte potenzialità.

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2. Due idee di paesaggio Due testi scritti nei primi anni della seconda guerra mondiale, entrambi pubblicati sulla rivista «Cinema», pongono il paesaggio al cuore delle sfide del futuro cinema italiano, due testi che, ognuno alla sua maniera, anticipano il momento del neorealismo. Il primo è scritto da Antonioni, Per un film sul fiume Po (1939), il secondo da De Santis3, Per un paesaggio italiano (1941). Si tratta di testi citati molte volte che riassumo brevemente. Nel suo articolo, Antonioni immagina un film il cui tema principale sarà la pianura padana. Secondo Antonioni «sembra che il destino di queste terre sia raccolto nel fiume. Qui la vita vi acquista dei modi e degli orientamenti particolari». Antonioni non separa il fiume dagli uomini. La concezione del paesaggio che egli sviluppa non parte da una volontà di strumentalizzare la pianura per parlare degli uomini, che significherebbe «psicologizzare» la natura. Non vuole nemmeno inscrivere gli uomini in un paesaggio metaforico, ma vuole dare lo stesso peso all'una e all’altra componente. Questo film in fieri è un documentario? Una fiction? La tentazione del documentario sembra grande e l’autore ha il ricordo di The River, il film di Pare Lorentz (1937), ma proprio per questo non vuole cadere nella trappola della dialettica prima/dopo, ciò che era/ciò che è ora. Pertanto la fiction non gli sembra possa essere la strada giusta e conclude augurandosi di poter realizzare un film che abbia il Po come protagonista e nel quale il centro di interesse sia non il folklore (un'accozzaglia di elementi esteriori e decorativi), ma un insieme di elementi morali4. Antonioni antepone il documento al documentario esprimendo un timore reale di fronte a forme ibride di narrazione. Diffida sia degli approcci puramente estetici che dell'utilizzazione superficiale delle trame narrative. Due anni dopo Giuseppe De Santis pubblica nella stessa rivista un articolo intitolato Per un paesaggio italiano. Anche qui si potrebbe scorgere un manifesto quasi programatico che, secondo Antonio Costa, getta le basi poetiche di Ossessione (le cui riprese cominciano quindici mesi dopo la pubblicazione dell'articolo)5. De Santis chiede al paesaggio di assumere une funzione drammatica, rivelatrice dei caratteri umani e sociali dei personaggi. Si tratta di legare in maniera dinamica la rappresentazione dell'uomo a quella dell'ambiente naturale e sociale che lo circonda e che meglio di ogni altra cosa lo esprime:

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Come sarebbe possibile [...] comprendere l'uomo e darne un’ interpretazione isolando gli elementi in cui egli vive ogni giorno, quelli con i quali ogni giorno entra in relazione, possono essere i muri della sua casa, che portano esplicitamente il segno delle sue mani, dei suoi gusti, della sua natura; o delle strade della città in cui egli incontra gli altri uomini6.

De Santis pensa a un paesaggio che non sia né rarefatto, né vistoso, né folklorico, vuole un paesaggio che corrisponda all’umanità dei personaggi, che diventi sia un elemento emotivo che un indicatore dei loro sentimenti. Il testo di De Santis si conclude con un panegirico del documentario: Noi vorremmo che in Italia si smetta di considerare il documentario come cosa separata dal cinema. È solo dalla fusione di questi due elementi che, in un paese come il nostro, si potrà trovare la formula di un autentico cinema italiano. [...] Il paesaggio non ha alcuna importanza senza l’uomo e vice versa7.

Malgrado i legami che li uniscono, i due testi non anticipano lo stesso cinema e quando, qualche anno più tardi, sia Antonioni che De Santis filmeranno il paesaggio del Po, le loro posizioni saranno chiaramente distinte, anche se nei due film il paesaggio sarà profondamente realista. L'approccio di De Santis sarà partecipe di una lettura politica del mondo (Caccia tragica, 1947), concepirà l'uomo all’interno di un processo sociale collettivo e il paesaggio sarà elemento di una dinamica vitale nella quale gli uomini sono attori. Antonioni (dopo il travagliato Gente del Po) si muoverà piuttosto verso un approccio poetico, guardando alla solitudine dell’uomo (Il grido): il paesaggio è vissuto, ma per molti aspetti sùbito più che agito.

3. Nudo/Nudità Per comprendere meglio cosa distingue i due autori, faremo nostra la distinzione sul paesaggio di Alain Roger, che utilizza l’ immagine del nudo e della nudità8. Il nudo si differenzia dalla nudità, che è un’esperienza della natura. L’uomo è nato nudo e da ciò deriva la necessità di vestirsi. Il nudo, che è una categoria estetica, segna il passaggio dalla sfera della natura a quella dell’arte. È attraverso lo sguardo dell’arte, dell'artista che il nudo si trova modificato, trasformato. A partire da questa distinzione Alain Roger ha separato il paese dal paesaggio:

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Come la nudità femminile, che è considerata bella solo attraverso il Nudo, che varia secondo le culture, un luogo naturale è esteticamente percepito solo attraverso il Paesaggio che esercita dunque in questo ambito una funzione di messa in arte (artialiation in francese). Al dualismo Nudità-Nudo, propongo di associare il suo corrispondente concettuale Paese-Paesaggio.

Ci sembra che tra i testi di Antonioni e De Santis, e più tardi nelle loro opere, ci sia una linea invisibile di separazione di questo ordine; l’uno porta sul mondo uno sguardo singolare che mira a trasfigurarlo senza sacrificarlo al reale, mentre l’altro osserverà il mondo nella sua crudezza cercando di migliorarlo. De Santis filma il paese, mentre Antonioni crea un paesaggio. Un paesaggio mette sempre in gioco tre componenti unite da una relazione complessa: uno spazio, uno sguardo, un’immagine. La nozione importante è quella di sguardo, che permette di legare diversi approcci al paesaggio mescolando natura, ciò che è dato e ciò che è costruito. Il paesaggio non è né semplice presenza, né pura rappresentazione, ma il punto di incontro tra il mondo e un punto di vista9. Lo sguardo trasforma uno spazio in un paesaggio.

4. Ermanno Olmi: «tutto un mondo» Questa distinzione paese/paesaggio, nudità/nudo è sufficiente per una classificazione dei film del neorealismo e per sviluppare un pensiero del paesaggio nel cinema? Senza dubbio no. Il paesaggio inquadrato del cinema, al di là di qualche panoramica o immagine fissa, offre allo spettatore un'immagine discontinua e frammentaria degli spazi. In fondo il paesaggio al cinema è raramente percettibile in quanto tale, è fugace, evanescente, il piano si auto-distrugge continuamente e contribuisce a creare uno spazio nel quale spesso per lo spettatore è difficile immergersi. Inoltre, in sede di analisi filmica, a causa del susseguirsi dei piani e del loro frequente mutare, non è semplice distinguere un’inquadratura di paesaggio da un’inquadratura di altra natura. Non siamo sempre in grado di decifrare esattamente ció che in ultima analisi interessa il regista. Altri approcci al paesaggio sono possibili e vorrei rapidamente illustrare alcune piste di riflessione appoggiandomi agli eredi del neorealismo e fermandomi in particolare su Ermanno Olmi del quale Depuyper ha scritto:

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Nel giovane regista di film di impresa che è Olmi nel 1961, Rossellini scopre più che un discepolo, un figlio naturale, e vede immediatamente un autentico autore, capace di far apparire «tutto un mondo» filmando semplici gesti del lavoro industriale, in armonia spirituale con lui. [...] Entrambi sono sulla stessa lunghezza d'onda morale e dunque estetica10.

Come se avesse fatto proprio il consiglio di Lubitsch, Ermanno Olmi comincia a imparare a filmare le montagne11. Si tratta di film industriali destinati a esaltare i meriti della Edisonvolta e più ampiamente, quelli di un’Italia in pieno sviluppo industriale. Le tematiche dei film sono centrate sulle attività dei lavoratori dell’azienda per cui Olmi stesso lavora, come ad esempio l’installazione o la riparazione dei tralicci di alimentazione dell'elettricità per i paesi e le valli intorno al centro di produzione. Per Olmi si tratta di documentare una realtà minore, di legarsi al quotidiano dei più umili, di lavorare con attori, per forza di cose, non professionisti, di raccontare la realtà come se fosse una storia. Questi principi che, per certi aspetti sono quelli che legano tra loro i film neorealisti, tutti o in parte, saranno rispettati e protratti da Olmi per tutta la sua carriera. In questi film la voce off e la musica contribuiscono a una vera celebrazione dei servizi resi dalla Edisonvolta alle popolazioni più isolate. Olmi indugia sull'attività professionale degli operai, ma si prende anche il tempo di mostrarli nei momenti e nei pensieri di evasione; focalizza il suo sguardo su un gruppo di uomini che lavorano, ma poi se ne distacca per descrivere la vita contadina ancora presente sui monti . Fin da questo periodo, e ancora di più in quello attuale, è evidente che per Olmi c'è e deve esserci una necessaria armonia tra l'uomo e la natura. Olmi percepisce il mondo come una totalità, un essere ragionevole e saggio e in un certo senso applica al suo cinema l'idea di Merleau Ponty: «io sono una parte della natura e funziono come qualunque evento naturale: sono, nel mio corpo, parte della natura»12. Il nostro corpo, nelle sue dimensioni fisiologiche, affettive e simboliche è ciò che ci lega alla natura, ci mette in comunicazione con essa. In molti dei suoi film Olmi mette in scena il corpo come carne del mondo. Per Olmi l’uomo non combatte la natura, ma si cala nel ritmo delle stagioni, si immerge in un paesaggio che diventa un’epifania. Il tema del paesaggio deturpato dai cantieri delle grandi aziende è evitato con cura e sullo schermo quel che vediamo è un paesaggio abitato e trasformato dall’attività umana, non la riproposizione di una relazione edenica. Secondo Simmel, il

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legame tra spiritualità e paesaggio esiste. Massimo Venturi Ferriolo riassume così il suo pensiero: «il paesaggio si forma concretamente quando noi lo delimitiamo ai nostri occhi, ritagliando la natura nel suo infinito simbolico»13. Si tratta di un atto spirituale (Stimmung), percezione che differenzia il paesaggio dalla natura. Olmi si colloca in questa corrente di pensiero per cui la natura, sempre compresa nella sua totalità, è a fondamento di tutto ciò che esiste. Dal punto di vista filosofico ricorda Ritter: «la contemplazione della natura significa che lo spirito si volge verso la totalità, verso il divino che tutto comprende»14. Lungo il fiume è forse il film in cui il suo mondo è più palpabile, quello in cui la natura è più esplicitamente sacralizzata. Di nuovo il Po trattato come un protagonista autonomo, allo stesso tempo soggetto e oggetto15. Stranamente il film di Olmi opera un’inversione «storica»: mentre la nozione di paesaggio è nata da una laicizzazione della società, Olmi procede ad una evangelizzazione del fiume riportandolo alla sua genesi. Il film si sviluppa su due linee distinte che Olmi arriva a conciliare. Da una parte un documentario di osservazione sul fiume nelle sue molteplici forme, dall’altra una meditazione spirituale sul destino degli uomini associato a quello della natura. Olmi propone una metafora biblica e il fiume diventa una sfida per l’uomo al momento delle sue scelte, in ambito ecologico ma non solo, tra la luce (della conservazione) e le tenebre (dell’inquinamento). Alla fine, la resurrezione del mare. Il fiume, inquinato, abusato in ogni modo, attraverso lo sguardo di Olmi, è magnificato, elevato a metafora. Olmi rende vivo il fiume, ci fa udire la sua voce, trasforma la materia in poesia, contrae la realtà del fiume in una visione trascendente dei luoghi. Propone solo con le immagini e la musica una comprensione del mondo, una lettura del modo con cui lo abitiamo fisicamente e spiritualmente; allo stesso tempo il film è una riflessione sullo sguardo (un atto volontario) e sul cinema. Sandro Bernardi scrive: Il paesaggio è un’interrogazione sulla cultura, non è un oggetto autonomo; studiare il paesaggio è studiare una cultura, il suo modo di costruire lo spazio e di comprendersi, in un rapporto tra noto e ignoto che noi abitualmente chiamiamo mondo. Studiare il paesaggio al cinema significa anche riflettere sull’atto di vedere che è l’atto costitutivo nello stesso cinema16.

Mostrare un paesaggio è sempre mostrare degli uomini; questa equazione è perfettamente dimostrata dal film di Olmi. Non c’è alcun bisogno di una presenza fisica di uomini nelle inquadrature per comprendere il lega-

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me inscindibile che unisce il paesaggio, qualunque esso sia, a coloro che lo abitano (gli uomini non sono soli ad abitare il mondo, dobbiamo condividerlo, questo Olmi ci ricorda en passant tra un piano e l’altro). In un testo di presentazione del suo film scrive: Una realtà immutabile, perfettamente indifferente agli sconvolgimenti, alle trasformazioni delle terre circostanti. Anche se numerose tracce (le ferite, i veleni del benessere) segnano la stupidità dei nostri comportamenti, il Fiume sopporta tutto con una forza inaudita (l’antica, eterna forza della natura) come se egli attendesse pazientemente il nostro pentimento. Questa potente capacità di resistenza è un innegabile atto di fede. Come se la Sua fede e la Sua forza provenissero a esso da cose misteriose e superiori che noi non possiamo conoscere17.

5. Tempi Il paesaggio non è solo uno spazio, è ugualmente un tempo. Merleau-Ponty scrive: Noi diciamo che il tempo è qualcuno, cioè che le dimensioni temporali, in quanto si sovrappongono continuamente, si confermano l’un l’altra, non fanno che esplicitare ciò che era dentro ognuna, esprimono tutte un’unica esplosione, un’unica propulsione che è la soggettività stessa18.

C’è, al cuore del tempo, uno sguardo e questo sguardo ingloba e crea il paesaggio. Un paesaggio è tempo perché esso non esiste che nell’istante stesso di quello sguardo e nell’infinito della sua materializzazione attraverso il lavoro degli uomini. Il tempo è quindi la materia prima dei film di Franco Piavoli, un altro autore che ritroviamo nell’immaginaria linea che stiamo tracciando, in Stagioni e soprattutto nel Pianeta azzurro. Piavoli filma il passaggio del tempo, il susseguirsi delle stagioni, le età della vita, il lungo ritorno di Ulisse o il tempo strascicato, di una lunga domenica d’estate. Alle immagini Piavoli aggiunge un lavoro sul sonoro che fa sì che ogni rumore, ogni suono prodotto dalla terra, dagli animali o dalle macchine dell’uomo diventi un paesaggio in se stesso. È il suono che crea il legame tra un’immagine e l’altra, che lega lo scorrere dell’acqua nel momento dello sciogliersi dei ghiacci a quello di una pioggia di primavera. L’insieme dei nostri sensi è sollecitato da Piavoli, l’udito e lo sguardo e perfino il tatto, attraverso le sensazioni di caldo, freddo o di dolcezza che ci comunicano i suoi piani o attraverso l’ancor più forte sensualità di una mano che carezza un corpo languido.

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Il cinema di Piavoli ci fa passare dal micro-organico al cosmico, dall’istante all’eternità, dall’effimero al ciclico e ci obbliga a ripensarci in seno a un mondo che ci sovrasta. A partire da un’enorme ambizione si arriva a un cinema dell’umiltà. Uno degli eredi di questa famiglia, tra i registi contemporanei, mi sembra Giorgio Diritti. Nei suoi film il paesaggio è onnipresente ma, mi pare, non come uno schermo o fondale, non come un decoro, quanto piuttosto come l’espressione del mondo che a volte attraversiamo e che sempre ci attraversa. Il suo cinema mi sembra corrispondere alla definizione di paesaggio data da Rosario Assunto, secondo cui la vita non è realmente vissuta nel territorio, che è solo un’astrazione burocratica; lo spazio in cui viviamo le nostre speranze e le nostre delusioni, le nostre gioie e i nostri dolori, è il territorio modellato dall’ambiente; l’ambiente concreto, che viviamo e di cui viviamo prende sempre la forma di un paesaggio. Come il concetto di ambiente include quello di territorio, quello di paesaggio include quello di ambiente. Dunque la realtà che noi dobbiamo studiare e sulla quale, se necessario, dobbiamo intervenire, è sempre il paesaggio, non l’ambiente e tanto meno il territorio19. Non si deve confondere il paesaggio con la sua rappresentazione: il paesaggio esiste, è là dove noi viviamo; noi lo modelliamo e contribuiamo a modificarlo con l’insieme delle nostre attività e delle nostre azioni. Pur offrendosi alla contemplazione, pur prestandosi all’estetica, esso rimane nell’ambito del nostro quotidiano. Assunto dà molta importanza all’immersione fisica nel paesaggio e all’esperienza emotiva che esso provoca; la sua contemplazione è legata alla passeggiata, al viaggio, al traversare o al fermarsi in un luogo. Noi contempliamo un paesaggio mentre lo viviamo e mentre esso ci dà il sentimento del vivere. In conclusione, poche cinematografie hanno visto processi di formazione di un’idea filmica che nascevano da articoli programmatici e poi da opere che continuano, dopo tanto tempo, a rispondere a un progetto. All’inizio del movimento neorealista, l’idea era quella di filmare un paesaggio e settant’anni dopo tale progetto è ancora in corso. Ciò che unisce questi film è una certa idea di bellezza, che non distrugge il reale per renderlo «bello», ma lo riconfigura secondo un’idea che vuole un mondo portatore di speranza. Lavorare sul paesaggio significa sempre, in definitiva, definire il mestiere di vivere.

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Note 1. Berque ha sviluppato questa idea in varie opere e in particolare in Cinq propositions pour une théorie du paysage, Champ Vallon, Seyssel, 1994; Les raisons du paysage, Hazan, Vanves, 1995; La pensée paysagère, Archibooks, Paris, 2008. 2. Si vedano E. Turri, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia, 1998 e E. Turri, Antropologia del paesaggio, Marsilio, Venezia, 2008. 3. Mettere insieme questi due testi significa camminare molto tempo dopo, sulle tracce di illustri antesignani . Infatti molti studi delle origini del neorealismo si basano sulla osservazione del testo di Antonioni e di De Santis. Io cerco di seguire un'altra strada,prendendo alla lettera la loro tematica, il paesaggio, per sottolineare due maniere distinte di costruire il cinema. Da questo punto di vista il neorealismo non sarà oggetto della mia attenzione. 4. L'articolo é accompagnato da fotografie che rappresentano da sole un «discorso». Alcune sono attribuite ad Antonioni ( foto di repérage?), altre appartengono chiaramente al tipo di foto di geografia aerea. Sono analizzate da Noa Steimatsky., Dall’aere. Una genealogia del modernismo di Antonioni, «Il Nuovo Spettatore», 7, 2003. Nella loro differenza appare chiaro lo scarto tra la visione dell'artista e quella del regime : alla sensibilità dell'uno risponde «l'obiettività» fredda dell' altro . 5. A. Costa, Invention et réinvention du paysage, «Cinémas», 2001. 6. L. Scotto d’Ardino, La revue Cinéma et le néo-réalisme italien, Presses Universitaires de Vincennes, Saint-Denis, 1999, p. 197. 7. Ivi, p. 200. 8. A. Roger, Nus et paysages. Essai sur la fonction de l’art, Aubier, Paris, 1989. Si vedano anche A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris, 1997 e A. Roger (sous la direction de), La théorie du paysage en France (1974-1994), Champ Vallon, Seyssel, 1995. 9. M. Collot, Actes Sud, Arles, 2011, p. 18. 10. C. Depuyper, Ermanno Olmi un cinéaste solitaire, Études cinématographiques, «Etudes cinématographiques», 187/193, 1992, p. 10. 11. Al di là della boutade, vogliamo dire che Olmi durante questi anni sperimenta diverse piste di lavoro documentario dosando la costruzione scenica, la voce off, l'uso della poesia. 12. M. Merleau-Ponty, La Nature: Cours du collège de France, notes, Seuil, Paris, 1995, p. 159. 13. Citato in J. Ritter, Paysage fonction de l'esthétique dans la société moderne accompagné de L 'ascension du mont Ventoux de Pétrarque et de La promenade de Schiller, Les Éditions de l'imprimeur, Paris, 1997, pp. 43-44. 14. Ivi, pp. 43-44. 15. In una maniera molto diversa prende un approccio simile a quello sviluppato da Van der Keuken ne La jungle plate, restituire un ambiente nella sua complessità.

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16. S. Bernardi, Antonioni: personnage paysage, Presses universitaires de Vincennes, Saint-Denis, 2006, p. 12. 17. Cfr. C. Depuyper, Ermanno Olmi un cinéaste solitaire, cit., p. 6. 18. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1996, pp. 482483. 19. R. Assunto, Retour au jardin. Essais pour une philosophie de la nature, 1976-1987, Les editions de l’imprimeur, Paris, 2003, p. 46.

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Settant’anni dopo: perché il neorealismo continua a essere vivo Pierre Sorlin Nel suo intervento in questo volume, Gian Piero Brunetta ha mostrato come dal dopoguerra fino ai giorni nostri, scrittori, artisti e registi di tutto il mondo non abbiano mai cessato di riferirsi al neorealismo. Tuttavia, questi ultimi non sembrano aver mai considerato il neorealismo come un modello da imitare, ma piuttosto come un orizzonte da tenere a mente, l’espressione singolare di un momento nel quale si coniugarono gli effetti di un disastro internazionale, la speranza di un rinnovamento e una grande libertà di espressione. I giovani cineasti che, negli anni Sessanta del Novecento, lanciarono in Europa e in America latina le «nouvelles vagues», hanno sempre parlato dell’influenza che il neorealismo ha avuto su di loro e ancora oggi, anche se non si manifesta un’unanimità così forte, le forme di dialogo e confronto con il cinema italiano della seconda metà degli anni Quaranta rimangono fortissime. Un tale richiamo a un’epoca ormai così lontana non manca di sorprendere, in primo luogo perché vedere oggi i film neorealisti è diventato più difficile: non vengono riproposti al cinema, né passano in televisione. Si è spesso sostenuto che il neorealismo abbia impedito all’Italia di avere una sua «nouvelles vague», ma si tratta di un’affermazione approssimativa, per non dire del tutto erronea. Le «nouvelles vagues» ebbero grande successo nei loro paesi e segnarono il declino del cosiddetto «cinéma de papa», segnando una svolta nel modo di concepire regia e sceneggiatura; i film neorealisti, invece, con l’eccezione di Ladri di biciclette e pochi altri titoli, non riuscirono mai ad un gran numero di spettatori in Italia, né, tantomeno, riuscirono a suscitare un vero rinnovamento della produzione cinematografica italiana, che in capo a sei o sette anni, ripiegò su un cinema molto più tradizionale. Tuttavia, la gran parte dei giovani registi non trova più ispirazione nelle «nouvelles vagues», che vengono per lo più giudicate un’esperienza interessante ma passata, poco più che una semplice tappa nell’evoluzione del cinema, ma venera ancora il neorealismo, che viene considerato come un movimento fuori dalla storia, in grado di trascendere il tempo. Comunque, pur trattandosi del neorealismo, l’ammirazione legittima per

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un discorso che continua a trovare attenzione dopo così tanto tempo non deve però far ignorare il momento e le condizioni storiche nei quali quei film furono prodotti. Si dice che tutto cominciò con Roma città aperta e non v’è dubbio che senza quest’opera si sarebbe forse parlato ugualmente di neorealismo, ma l’espressione non avrebbe avuto lo stesso significato. Non è esagerato affermare che, in tutto il Novecento, Roma città aperta sia stato il film più consono alla sua epoca. Nonostante il suo carattere melodrammatico e le sue numerose inverosimiglianze (Manfredi, capo della resistenza, amante di una ragazza legata ai tedeschi; il deposito di armi ed esplosivi costituito dai ragazzi; la facile liberazione dei partigiani arrestati dai tedeschi), il film è l’opera per eccellenza del 1945, di cui restituisce perfettamente l’atmosfera. Non a caso, se quest’opera ebbe in Italia un’accoglienza poco entusiasta, il suo trionfo a Roma fu clamoroso e il film rimase in cartellone per sei settimane in due sale. I primi due terzi del film ripiombavano i romani nell’incubo che avevano appena vissuto e per il tramite del film tornavano a vivere le pattuglie tedesche che bussavano alla porta in piena notte per arrestare un partigiano, si rivedevano le file per il pane, la rivolta delle casalinghe, il saccheggio del negozio. Sulla scia di alcune commedie dell’anteguerra, Roma città aperta era la cronaca di un quartiere e di una famiglia che si ingegnava per sopravvivere e mantenere le sue abitudini nel mezzo di una situazione tragica. La presenza di due attori famosi, fino a quel momento protagonisti di opere leggere, rinforzava il carattere drammaticamente attuale della storia: anche queste celebrità soffrivano e Pina, vedova, lavoratrice alla Breda, licenziata perché i tedeschi avevano requisito la fabbrica, era solo una tra le tante donne romane. Mettendo in scena la fame, la paura e la voglia di combattere l’occupante, e poi attentati, l’irruzione di soldati tedeschi in un edificio di periferia, l’arresto dei resistenti, la morte di Pina e la liberazione dei prigionieri, il film assumeva i connotati di un’onesta e discreta epopea resistenziale. Ma ecco che, nell’ultimo terzo, il film cambiava radicalmente orientamento: il passaggio brusco e brutale dalle pene del quotidiano a un orrore così difficilmente sopportabile e a un inattesa forma di misticismo cristologico, davano all’opera un carattere imprevisto, sconcertante, del tutto estraneo alle tradizioni del cinema di guerra. La televisione ci avrebbe poi abituati ai massacri, alle stragi, al sangue sullo schermo, ma fino al 1945 la morte,

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al cinema, era serena, pacifica, il cadavere giaceva su un letto, come addormentato. Nei cinegiornali e nei documentari di guerra le salme sembravano intatte, colpite in piena azione, senza ferita visibile e senza sofferenza apparente. Quanto alla tortura, poi, essa non appariva mai. Éjzenštejn, in ¡Qué viva Mexico!, non aveva mostrato il supplizio dei peones condannati a essere tumulati fino al collo e calpestati da cavalli al galoppo. Rossellini, invece, filmando gli strumenti dei carnefici, indugiando sulle pinze per strappare le unghie, sulla fiamma ossidrica, sulle iniezioni destinate a rianimare il moribondo, sui volti, le guance e gli occhi tumefatti, la pelle bruciata di Manfredi, imponeva al pubblico una sequenza sconvolgente, inconcepibile, urtante, che tuttavia i romani sapevano essere fedele ad una pratica frequente in via Tasso, nelle carceri della Gestapo. La Resistenza raccontata fino a quel punto, cessava di essere un’avventura pericolosa, in alcuni casi mortale, ma piena di dignità e valore, quasi epica, e diveniva in quell’efferatezza, martirio e disperazione: i tre protagonisti del film morivano, non c’era nessuna speranza al di fuori della misericordia di Dio e la nuova generazione era destinata a rimanere drammaticamente orfana. Nei decenni successivi, vi furono diversi film italiani dedicati alla lotta partigiana contro il nazifascismo, ma nessuno di essi mostrò con tanta violenza il supplizio di un partigiano, né scelse di finire con l’annientamento, tra sofferenze disumane, dei suoi protagonisti. Non fu questa, però, la sola audacia di Rossellini. I primi due terzi del film si sviluppano nell’ambiente di un tranquillo cattolicesimo. Pina è una buona parrocchiana, che un po’ si vergogna di essere incinta, e don Pietro un prete tradizionale che, interrogato sul senso religioso delle prove subite da una popolazione pacifica, si nasconde dietro la classica risposta della chiesa: «Siamo sicuri che non ci siamo meritati il castigo?» (facendo così di Dio un semplice castigamatti). Tuttavia dopo l’arresto di don Pietro e di Manfredi, l’orientamento dell’opera cambia radicalmente e si passa da una religione abitudinaria e consolante a un cristianesimo della sofferenza e del sacrificio. Nella cantina dove i carnefici torturano Manfredi, una luce rivolta verso l’alto proietta, contro un muro, l’ombra di una manovella, trasformandola in crocefisso. Il resistente, sfinito, flagellato, picchiato, diviene un Cristo, tanto che i suoi capelli scarmigliati finiscono per somigliare

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a una corona di spine, mentre i tedeschi, sullo sfondo, evocano i soldati sul Golgota e la Chiesa, nella persona di don Pietro, s’inginocchia davanti alla santa vittima. Il sacrificio si adempie poi con la fucilazione del prete innocente e, tornando a Roma dopo avere assistito all’esecuzione, i ragazzi scorgono in lontananza la cupola di San Pietro. In tal modo la comunione dei santi, unione degli esseri umani alla divinità mediante il corpo mistico di Cristo, si è concretata mediante l’immolazione dei giusti e il passaggio della fiaccola ai giovani. La drammaturgia religiosa, che potrebbe sembrare ridicola, raggiunge invece una fortissima intensità emozionale, ancorandosi alla dolorosa esperienza dell’occupazione tedesca. Le riprese della terza parte gestiscono abilmente l’iconografia popolare della Passione e creano un collegamento tra il Cristo agonizzante, il clero romano e le tracce di un periodo angoscioso ancora presente nella mente di tutti. L’audace slittamento da una vicenda storica alla sua mistica per il tramite di un doppio martirio, non tornerà più sugli schermi. Nelle successive opere neorealiste che trattano della guerra e di vittime innocenti (la giovane siciliana e i partigiani di Paisà, o il piccolo Edmund di Germania anno zero) il discorso religioso non traspare: i partigiani non dicono una preghiera prima di essere affogati dai tedeschi, Edmund si uccide in uno stato di disperazione che si oppone totalmente alla speranza cristiana. In Paisà, l’ironico episodio del monastero mette i francescani di fronte alle diversità delle convinzioni e delle credenze, mostrando come la solidarietà umana trascenda la comunione in Cristo. Il cinema italiano si è spesso dimostrato sarcastico nei confronti del clero e il neorealismo si è generalmente conformato all’usanza: il parroco di Ossessione appare gentilmente ridicolo, la messa dei poveri in Ladri di biciclette e la distribuzione di rosari da parte delle suore in Umberto D. attaccano duramente le pressioni esercitate sui deboli per ottenere la loro adesione. C’è, quindi, un elemento di singolarità in Roma città aperta. Incrociando registri e forme diverse, come ad esempio il melodramma (genere apprezzato da moltissimi spettatori) con scene di guerra e resistenza, una brutalità spietata fino ad allora estranea al cinema con un’esaltazione cristologica raggiunta per mezzo del dono totale di se stesso, il film non rispondeva a nessun modello precedente e soprattutto si metteva in una posizione che non gli avrebbe garantito alcun seguito. I film che vengono di norma presentati come modelli pre-neorealisti (Os-

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sessione, Quattro passi fra le nuvole, I bambini ci guardano), a dispetto delle loro qualità, non possedevano la forza esplosiva del film di Rossellini e soprattutto non potevano in alcun modo dare l’impressione di uno sconvolgimento che si produceva nella stessa rappresentazione filmica. Bisogna aggiungere che all’uscita del film, nel settembre del 1945, il pubblico, per emozionato e commosso che fosse, non si rese conto della peculiarità della pellicola, né del fatto che da lì avrebbe preso avvio la nuova corrente cinematografica del neorealismo. Siamo abituati a considerare insieme le opere che riteniamo neorealiste e non prestiamo attenzione al paradosso che fa di un film unico, eccezionale, l’alfiere di quello che Italo Calvino chiamava «un insieme di voci». I tre protagonisti di Roma città aperta sono eroi, nel doppio senso della parola: protagonisti dell’opera e personaggi di raro coraggio, profondamente legati alla loro comunità e pronte a lottare, pur nella consapevolezza della sconfitta e della morte. Nella gran parte dei film neorealisti, invece, troviamo un protagonista, inteso come personaggio posto al centro dell’azione, che però non ha le caratteristiche dell’eroe, non è in relazione con gli altri, vive emarginato, non sa o non può difendersi. In tre film come Germania anno zero, Ladri di biciclette, Umberto D., ritroviamo riprese pressoché identiche del protagonista isolato: gli occhi stralunati, lo sguardo insensibile a ciò che lo circonda. Sopraffatto dalla miseria nella quale si dibatte la sua famiglia, incapace di resistere ai più forti, Edmund sceglie la morte come via d’uscita: l’Antonio Ricci di Ladri di biciclette fa totalmente affidamento su sua moglie, sul piccolo Bruno e sugli amici; il modesto pensionato Umberto Domenico Ferrari ha invece perso ogni forma di contatto con la società. La loro solitudine non è metafisica, come lo sarà, ad esempio, nei film di Antonioni, ma sociale e impedisce loro di mobilitarsi per qualsiasi causa, fosse anche la propria vita. In una delle prime sequenze di Umberto D., l’anziano pensionato, camminando per strada, non presta attenzione ai muratori che stanno ristrutturando un palazzo, non capisce che il suo quartiere popolare, vicino a Termini, sta per diventare una zona medio borghese, ai danni di gente come lui. I film di cui stiamo parlando si sviluppano su due livelli: in primo piano si muove il protagonista, appartato, cieco al mondo, mentre in profondità di campo si svolgono le attività urbane, il traffico stradale, i cambiamenti di Berlino o Roma.

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I personaggi di Roma città aperta, invece, sono stati concepiti come agenti del loro destino e, parzialmente, della storia; quelli degli altri film che abbiamo richiamato, invece, sebbene restino presenti per tutta la vicenda, si trovano alla mercé degli eventi o di decisioni prese da altri. La sorte di Ricci o di Umberto è così poco importante che Ladri di biciclette e Umberto D. non hanno conclusione: che farà Ricci quando dovrà tornare al lavoro? Prenderà in prestito la bicicletta di un vicino o si rassegnerà a restare disoccupato? E Umberto, senza alloggio né denaro, dove andrà sul far della notte? I film problematizzano la nozione stessa di personaggio cinematografico, il cui percorso verso una risoluzione della sua vicenda è la ragion d’essere, il filo conduttore dell’intreccio, e separano radicalmente la persistenza di una figura principale utile a mantenere una continuità narrativa, dagli episodi e dalle situazioni che danno acutezza e vivacità alla storia. Questo significa che esiste un’opposizione forte tra opere giudicate neorealiste sulla base della concezione dei protagonisti e della rappresentazione che ne danno rispetto alla collettività? Certamente. Tuttavia, oltre il contrasto, c’è ugualmente una consonanza: Edmund, Ricci e Umberto sono insicuri e sperduti dal momento che, per ragioni diverse, non sono inseriti in una comunità. Spesso ci si è soffermati sul carattere corale delle opere neorealiste e sul fatto che l’eroe, in molti casi, sia da considerarsi un personaggio collettivo: Paisà è la lenta costruzione di una fiducia reciproca, all’inizio fragile, rinforzata d’episodio in episodio, fino alla solidarietà per la vita e per la morte tra partigiani e soldati americani. I lustrascarpe di Sciuscià si sostengono tra loro e il dramma finale con la morte del più piccolo si consuma quando gli adulti riescono a rompere la loro intesa. Un «miracolo» succede a Milano perché Totò è riuscito a radunare i poveri per resistere all’ignobile Mobbi e per farsi seguire verso un futuro felice. La terra trema è un film che sintetizza le due prospettive del rapporto tra individuo e gruppo. Nella prima parte del film, ’Ntoni appartiene del tutto alla collettività dei pescatori, nasce ed emerge letteralmente dalla folla. In un’inquadratura sorprendente e spettacolare, si alza, stende le braccia e la presenza nella cornice di un crocefisso ne fa un Cristo; non l’agnello del sacrificio di Roma città aperta, bensì l’unificatore, il pastore delle greggi. La sua forza è l’arma dei poveri, l’unità; il personaggio ha un’aura tale da non farlo condannare per avere predicato la rivolta. ’Ntoni però s’illude di poter lottare solo, usando contro i ricchi il loro stesso mezzo di dominazio-

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ne, il denaro. Ma senza gli altri è spacciato, non ha la fortuna necessaria a cavarsela in caso di un colpo duro e improvviso, e il film segue passo dopo passo il processo di decadenza dal quale ’Ntoni può uscire solo mettendosi al servizio dei potenti. La dualità singolare/plurale, individuo/comunità (uno degli elementi distintivi del neorealismo) non si limita soltanto ad una sorta di celebrazione della solidarietà, ma mette in luce ugualmente gli aspetti talvolta negativi della collettività. Quando Ricci tenta di chiedere spiegazioni al ragazzo che considera il ladro della sua bicicletta, il quartiere se la prende colui. Il vestito striminzito e domenicale, l’accento, la goffaggine, ne segnano l’origine rurale e ne fanno quasi uno straniero a Roma, cosa che basta a provocare un’ostilità generale; se al figlio Bruno non venisse l’idea di chiedere aiuto a un carabiniere, Antonio Ricci verrebbe probabilmente picchiato. Germania anno zero si apre con un episodio ancora più drammatico. Il giovane Edmund sostiene da solo il carico della sua famiglia e per questo accetta qualsiasi lavoro e riesce a farsi assumere in un cimitero per scavare fosse (ci sono tanti cadaveri che perfino un ragazzo è utile). Gli adulti assunti prima si scatenano contro di lui, in parte perché ne temono la concorrenza, ma soprattutto perché ne avvertono la debolezza. Stanchi, arrabbiati, disperati, sfogano la loro collera sulla persona incapace di resistere e la cacciano via. Parecchi anni dopo il neorealismo, parlando dei film che aveva diretto nel dopoguerra, Rossellini si rallegrò di aver girato Germania anno zero esattamente come voleva farlo: in un clima di «normalità» sarebbe stato difficile aprire un film con una scena così violenta e sconcertante. Le opere neorealiste furono realizzate in un momento eccezionale. Cinecittà era diventato un campo profughi, i film americani invadevano le sale e non si sapeva se ci sarebbe stato un futuro per il cinema italiano; si finivano i film in corso, ma le banche e i finanziatori non erano disposti a correre rischi. I cineasti neorealisti lavorarono in condizioni precarie, con mezzi di fortuna, il sostegno di mecenati, prestiti di amici, materiale preso a credito, tecnici in partecipazione. In compenso, non dovettero né cedere a un produttore preoccupato della loro audacia, né tener conto dei gusti del pubblico. Dal 1945 al 1948 uscirono, ogni anno, una cinquantina di nuovi film italiani, numero insufficiente per rispondere alle aspettative di un pubblico oramai abituato al suo spettacolo domenicale di due lungometraggi. Stando così le cose, le opere neorealiste, per singolari che potessero parere,

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furono messe in cartellone, almeno fino al 1951, quando la produzione italiana superò le duecento realizzazioni. Tali considerazioni, puramente pratiche, non sono tuttavia trascurabili. I film neorealisti non furono opere fantasma, mai proiettate o viste esclusivamente in circoli privati; anche se molte di loro ebbero una circolazione e un impatto modesto, furono però distribuite, proiettate, e soprattutto discusse e commentate all’epoca della loro uscita. L’attenzione per il neorealismo che caratterizzò tutte le «nouvelles vagues» e che continua a manifestarsi anche adesso, è l’espressione di una nostalgia per un cinema davvero indipendente dalle contingenze del budget e del botteghino. Da questo punto di vista, il neorealismo pare un caso ideale, non un modello possibile da imitare. Grazie a quelle circostanze, i cineasti ebbero la fortuna di non dover rendere conto a nessuno e di trovare un pubblico internazionale, nonostante il contesto in cui i loro film furono girati fosse del tutto particolare e per molti versi disagevole, rappresentasse, cioè, una condizione produttiva e realizzativa che non è pensabile sul lungo periodo. I neorealisti comunque ne approfittarono per condurre a buon fine tentativi inconcepibili tanto prima quanto dopo. L’entusiasmo delle generazioni successive, fino alla nostra, proviene dal fatto che i film neorealisti hanno sollevato problemi che le «nouvelles vagues» hanno tentato di risolvere e che sono ancora attuali. Che cosa è un personaggio filmico? Il ricorso ad attori «presi dalla strada» per i ruoli di Ricci, Umberto ’Ntoni, considerato da certi critici come elemento di realismo, elimina certamente il divo e l’attore professionista e la loro tendenza all’istrionismo, ma cambia pure la funzione del protagonista. I non professionisti non agiscono spontaneamente, come farebbero nella loro vita, ma nemmeno recitano: la loro partecipazione impone una forma inedita di messa in scena nella quale l’intreccio non viene focalizzato sul personaggio principale. L’idea era attraente, permetteva di svolgere la storia su due piani diversi, ma i produttori volevano il nome capace di attirare il pubblico; le sperimentazioni neorealiste non erano destinate ad avere seguito e, per lo meno in questo senso, rappresentano tutt’oggi un tentativo fallito. Sdoppiare l’azione mette in crisi la continuità lineare della trama del film. In Roma città aperta i tre protagonisti e i due personaggi secondari, la fidanzata di Manfredi e l’ufficiale tedesco, compiono percorsi in parte indipendenti rispetto a quelli degli altri. In Germania anno zero, Ladri di biciclette e Umberto D., la vita delle città, le vicende di personaggi seconda-

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ri come il piccolo Bruno o la domestica di Umberto, nel loro contrapporsi all’itinerario del protagonista, offrono un’alternativa al modello narrativo e rappresentativo dominante nel cinema. Il neorealismo offriva soluzioni inedite, senza avere la pesantezza di una «scuola» che si oppone a certe pratiche precedenti e pretende di imporre un altro modo di procedere. Dire con precisione che cosa fu il neorealismo è impossibile, ogni cineasta neorealista metteva alla prova le sue idee, senza preoccuparsi di regole prestabilite ed è proprio la varietà degli schemi attuati che continua a impressionarci. Se una definizione fosse utile, chiameremmo il neorealismo «un cinema in libertà».

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Attorialità e recitazione: vere anomalie nel cinema di Giuseppe De Santis? Antonio C. Vitti Il cinema deve essere lo specchio del proprio paese in movimento: uno specchio che pensa nella febbrile ricerca d’una sistemazione, d’una condizione più umana, la più aderente ai sentimenti base, popolari del paese. Cesare Zavattini, Cinema e Resistenza Dai film di De Santis e dai suoi interventi, è possibile mostrare e delineare la posizione neorealista in generale e, in particolare, quella di questo autore nei confronti dell’uso degli attori? La presa di posizione concettuale riguardo alla recitazione e all’attorialità di De Santis è anomala nel cinema italiano del dopoguerra? Nei testi più diffusi presso le università statunitensi si sostiene con convinzione che il neorealismo ha elaborato e adottato la pratica dell'attore preso dalla strada1. Si tratta, in realtà di una prassi dovuta più al caso e alle circostanze storiche che a un vero progetto teorico, tanto meno a una condivisione generale, a tal riguardo, da parte dei registi del periodo2. Inoltre, nonostante i numerosi volumi scritti e le varie testimonianze degli stessi protagonisti3, nel canone accademico statunitense persiste la consuetudine di identificare il neorealismo con la naturalezza e la spontaneità degli interpreti presi dalla strada, che avrebbero assicurato la credibilità dell'insieme e garantito la rinuncia a certi bamboleggiamenti divistici. È pratica comune negli atenei americani, anche se non regola fondamentale, pensare al neorealismo come a una rappresentazione cinematografica lineare dei fatti, priva di pretenziosi movimenti di macchina o di velleitarie impennate di montaggio. Queste pratiche erano ritenute necessarie per mantenere uno stile rigoroso (privo di certi eccessi avanguardistici, decadenti e formalisti dell’epoca precedente) e pertanto fondamentali per avvicinarsi al vero. La nuova leva di attori del dopoguerra, così come i registi4, si era formata in larga parte al Centro Sperimentale dove si erano sviluppate le discussioni intorno alle teorie e alla prassi della recitazione5, soprattutto per merito di

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Umberto Barbaro , chiamato a insegnare al Centro fin dalla sua fondazione insieme a un altro importante studioso dell’epoca: Luigi Chiarini. I dibattiti si erano svolti intorno ai testi di Vsevolod Pudovkin, soprattutto Film e fonofilm7, tradotto da Barbaro, che inoltre aveva tradotto testi seminali di Béla Balázs e di Sergej Éjzenštejn8. In merito Barbaro soleva ripetere: «Gli scritti di Pudovkin sono la via maestra per la quale il cinema è giunto alla piena coscienza del suo essere un’arte e io sono fiero di averla percorsa e di averla additata per primo in Italia»9. In Italia, tra gli anni Venti e Trenta, per i giovani che si erano avvicinati al cinema, il modello della scuola sovietica serviva da stimolo verso il nuovo, sebbene circolassero anche altre idee come quelle del teorico tedesco Rudolf Arnheim10, il cui libro Il film come arte era letto durante i corsi da lui tenuti in Italia. Tuttavia, in un momento in cui il paese si isolava dalle nuove avanguardie, primeggiava la vasta cultura di Barbaro che mediante i suoi scritti e le sue traduzioni, mostrava il bisogno di allargare gli orizzonti. La sua influenza è confermata da Luigi Chiarini, che lo ricorda in questi termini: Barbaro rappresentò un punto fermo; infatti dalla nostra collaborazione nacque la rivista e quella collana sui diversi aspetti del film, che doveva in seguito avere tanta fortuna. Nacquero quelle antologie che compilammo insieme, Il film nei problemi dell’arte, L'attore, L'arte dell'attore, nelle quali raccogliemmo l'essenziale dei testi più importanti sulla tecnica, l'estetica del cinema e sulla recitazione. Cominciarono così a circolare tra gli allievi le idee di Pudovkin, di Balázs, di Éjsenštejn, di Arnheim, di Stanislavskij mentre si andavano raccogliendo i film classici e si progettavano film didattici di cui Barbaro realizzò quello sulla recitazione cinematografica11.

Gli attori non professionisti erano considerati da Barbaro un’eccezione valida solo in casi estremi, come in certi documentari romanzati, o in ambienti tali da esigere un’autenticità d'interpreti che gli attori professionisti non avrebbero potuto offrire come, per esempio, nei film di ambienti esotici o popolari, o nei film su particolari classi lavoratrici. Barbaro ne riteneva opportuno l’utilizzo specialmente quando la storia narrata non si esauriva attorno a pochi protagonisti, ma dava vita a una storia più generale o di massa, corale. A mio avviso, queste affermazioni richiamano da vicino la pratica del cinema italiano del dopoguerra, cioè dei film classici del neorealismo girati nel momento in cui i registi sentono il bisogno di raccontare le miserie e gli orrori della guerra e la necessità di un riscatto.

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Per Barbaro il vero attore cinematografico doveva avere una preparazione professionale basata sulla didattica della recitazione e sul tirocinio che ne è il naturale complemento. L’aspetto tecnico per Barbaro consiste nella padronanza del mezzo espressivo, del proprio corpo e della possibilità di controllarlo in qualsiasi momento, non piegandolo alle esigenze dei metodi specifici del cinematografo, ma potenziandone la possibilità e il valore, proprio con l’impiego di questi mezzi (che l'attore dello schermo deve dunque conoscere al pari del regista)12. Sull’attore cinematografico, le considerazioni di Barbaro derivano dalla sua concezione del film come opera collettiva e dalla sua distinzione fra l’attore teatrale e quello cinematografico. Mentre l’attore cinematografico è attore creatore, quello teatrale è interprete. Per Barbaro l’opera teatrale è un’opera poetica nella quale i personaggi sono completamente configurati, mentre la sceneggiatura di un film è una semplice traccia, un momento della creazione dell’opera che sarà completata soltanto con le riprese e con un ulteriore atto creativo delegato all’attore. Ecco cosa scrive: Di fronte all’attore non professionista, del film di cui sia unico autore il regista, e di fronte all’attore teatrale, all'avanzo di palcoscenico del film di cui sia autore il soggettista, può oggi stare, in piena giustificazione estetica, l’attore cinematografico che non interpreta un'opera d’arte preesistente e scritta, come i suoi colleghi della ribalta, né si pone come mera natura, tavolino o albero, di fronte al regista e all'operatore, ma che, in ideale accordo con gli altri collaboratori a creare una futura opera d'arte13.

I suddetti concetti e le idee principali di Barbaro erano serviti a far nascere e promuovere un’estetica cinematografica e a stimolare il dibattito, utile base teorica al rinnovo del cinema italiano promosso dal gruppo «Cinema». Nel gruppo di battaglia della rivista degli anni precedenti all’8 settembre 1943, oltre a Luchino Visconti, troviamo: Michelangelo Antonioni, Domenico Purificato, Dario e Massimo Puccini, Carlo Lizzani, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti, Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis e Mario Alicata. Con Mario Alicata, Giuseppe De Santis inizia, intorno a quegli anni, un sodalizio intellettuale14 dal quale nasceranno i testi più noti e importanti per lo sviluppo del realismo nel cinema italiano: mi riferisco agli articoli Verità e Poesia: Verga e il cinema italiano e Ancora di Verga e del cinema italiano15, quest’ultimo concepito come risposta alle critiche mosse da Fausto Montesanti al primo articolo menzionato.

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Già dal giugno del 1940, Alicata era diventato assistente di Natalino Sapegno alla cattedra di Letteratura italiana all’Università di Roma e aveva già iniziato a collaborare a «Primato», la rivista diretta dall’allora ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai. «Primato» rappresentava uno dei tentativi più singolari attuati dal fascismo per assicurarsi la collaborazione dei migliori intellettuali dell’epoca (si pensi per esempio alla pubblicazione delle poesie di Pavese, Ungaretti e Montale). All’inizio degli anni Quaranta l’attenzione dedicata alla realtà aveva già preso la forma di un discorso diffuso, per quanto il suo senso si piegasse a significati diversi e soltanto coi giovani di «Cinema» assumesse i toni di una poetica di gruppo. In un articolo di Alicata apparso il 10 febbraio del 1942 su «Cinema» si legge: Quasi tutti i personaggi del nostro cinema non hanno storia, vivono dei luoghi comuni, dei residui più convenzionali e melodrammatici dei sentimenti e delle passioni, e vivono questa loro esistenza scialba in luoghi altrettanto muti e bigi, senza colore. A chi abbia come noi il gusto di girare per le strade della propria città a cogliere l’inesauribile poesia di ciò che naturalmente esiste, e abbia data alla propria fantasia la semplice ma fruttuosa legge che ogni uomo in cui ci si incontra è un personaggio, accade davvero di stupirsi di questa incapacità che i narratori del nostro cinema dimostrano di adeguarsi alla realtà umana dell’ambiente nel quale convenzionalmente sono collocate a svolgervi le loro storie.

La volontà e il desiderio profondi per il nuovo e il reale, insieme all’influenza di Mario Alicata sui giovani del gruppo, si colgono in un altro articolo firmato da De Santis e Alicata in cui si legge: Fiducia nella verità e nella poesia della verità, fiducia nell’uomo e nella poesia dell’uomo, è dunque ciò che chiediamo al cinema italiano. È una affermazione semplice, un programma modesto: ma a questa semplice modestia sempre più ci sentiamo attaccati, ogni volta che dando uno sguardo alla storia del nostro cinema, vediamo racchiusa la sua parabola fra il dannunzianesimo retorico e archeologico di Cabiria e le evasioni negli inesistenti paradisi piccolo-borghesi dei tabarini di Via Nazionale, dove si sfogano le casalinghe audacia delle nostre commedie sentimentali16.

E in un altro ancora:

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Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo, se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno egli vive, con i quali ogni giorno comunica, siano essi ora le mura della sua casa – che dovranno recare i segni delle sue mani, del suo gusto, della sua natura in maniera inequivocabile -: ora le strade della città dove egli si incontra con gli altri uomini – e tale incontrarsi non dovrà essere occasionale…17

Queste citazioni sono più che sufficienti per mostrare che le critiche del gruppo «Cinema» servivano a due scopi diversi: la divulgazione del cinema come arte e la denuncia dell’insoddisfazione verso lo stato attuale delle cose. Gli scritti di Alicata si mostravano più dialettici e teorici, quelli di De Santis erano più battaglieri, rabbiosi, personali, scritti con i quali tutto il gruppo si identificava. I dibattiti e le aspirazioni del gruppo, com’è ben noto, si realizzarono parzialmente nella produzione del film Ossessione (1943) in cui molti ebbero un ruolo. Anche durante la lavorazione del film (come si legge in una lettera inedita del 30 giugno 1942, che ho trovato nell’Archivio De Santis presso la Wake Forest University), Alicata scrivendo da Roma a Giuseppe De Santis che stava girando come aiuto regista in Emilia, loda l’aspetto «documentario» delle foto ricevute. Si lamenta del colore troppo roseo delle guance di Bragana, loda il vestito scelto per Massimo Girotti che interpreta il ruolo di Gino Costa, ritiene non azzeccata invece, la scelta del cappello che definisce «da facchino» e propone una «scoppoletta» al suo posto. Trova bello, invece, don Remigio e il poliziotto, ma soprattutto raccomanda a De Santis di curare i «fondi» e in particolare il personaggio del caporale che nella versione finale del film sarà quello dello «Spagnolo», figura che nella realizzazione finale ha perso la forza delle istanze politiche e ideologiche che avrebbe voluto Alicata, assumendo di più l’ambiguità omosessuale e vagabonda dell’immaginario viscontiano. Nel 1969, De Santis ricordando «Cinema» ha detto: Tutto quanto io venivo scrivendo con le mie critiche era prima ancora che dentro di me, al di fuori di me; era nell’aria, nel clima che a mano a mano, come una macchia d’olio, aveva cominciato ad allargarsi conquistando l’animo e la coscienza del cinema italiano più insofferente dello stato di cose dentro il quale tutti vivevano. Nessuno mi chieda come potesse succedere tutto questo in pieno regime fascista, e come io riuscissi a sfuggire, ogni volta, alle maglie della censura. Posso solo rispondere che niente mi avrebbe impedito di farlo. Lo volevo, e basta18.

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Le concessioni e le aperture date a «Cinema» permisero a De Santis di criticare i film di quell’epoca e gli diedero la possibilità di sfogare l’insoddisfazione personale che sentiva verso quelle opere e allo stesso tempo di stimolare l’ambiente nella ricerca di qualcosa di nuovo, di più vero e rappresentativo della realtà storica italiana. Un’analisi generale, attraverso una selezione delle recensioni secondo il genere dei film discussi, dimostrerebbe quanto qui sostenuto sul contributo desantisiano alla divulgazione di un cinema realista e artistico. Secondo De Santis, il cinema italiano dell’epoca poteva essere ripartito in generi abbastanza precisi: la commedia sentimentale, il comico-brillante, il comico tout court, il musicale, lo storico avventuroso (generalmente di cappa e spada), i rari film di esplicita propaganda politica e la corrente formalista (di cui facevano parte, tra gli altri, Mario Soldati e Renato Castellani). Citerò soltanto le recensioni più importanti scritte da De Santis per criticare i diversi generi del cinema dell’epoca. Per il critico ciociaro il genere comico-sentimentale è tutt’uno con i telefoni bianchi e a esso attribuisce un linguaggio falso e la mancanza di un vero centro drammatico. De Santis paragona i film italiani del genere comico o comico-sentimentale a quelli di René Clair, trovando quelli italiani privi di una verità da dimostrare o di una poetica da sostenere che possa giustificare con forza creativa e con fantasia ogni schema moralistico senza il quale il comico vive solo di situazioni meccaniche. Fra i film di questo genere De Santis ha il merito di aver salvato Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica e Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti, tratto da un soggetto di Cesare Zavattini, cui il critico, riconosce una grande abilità di scrivere soggetti ricchi di significati nascosti e verità che definisce in questi termini: Il film narra la giornata di un uomo qualunque, un commesso viaggiatore. L’uomo è dipinto con una sottigliezza psicologica perfetta. Reca con sé una coerenza di gesti e di atteggiamenti che non lasciano dubbio fin dall’inizio sulla sua condizione sociale. Il soggetto è dovuto alla penna di Piero Tellini e di Cesare Zavattini. Vorremmo che più spesso il nostro cinema sapesse avvalersi di tali situazioni. Si badi bene, non è una preferenza di contenuto che noi avalliamo, ma piuttosto una linearità e semplicità di racconto: quel pacato e dolce essere anonimo di tutte le cose che si pongono avanti, senza la più piccola affettazione, ma come se le incontrassimo per la strada, allo stesso modo che accade nella vita vera, fa parte di una poetica che da tanto noi desideriamo!19

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Fra i film di esplicita propaganda De Santis elogia Vecchia guardia di Alessandro Blasetti. Nel film, il critico, coglie la forte partecipazione emotiva impressavi del regista e la forte carica di sincerità nel rappresentare le imprese squadriste che il fascismo stesso non aveva intenzioni di riesumare. La critica più severa e più diretta De Santis la rivolge al genere formalistico-intellettuale-pittorico sul quale recensendo il film di Renato Castellani Un colpo di pistola: Quelle colonne d’avorio, quei candidi e composti candelabri altro non sono che la stessa ingigantita proiezione dei bianchi telefoni tanto a lungo commiserati nel clima borghese del nostro cinema… Si fortifichi ormai l’animo dei nostri lettori contro questa dichiarata aspirazione del nostro cinematografo20.

De Santis come tutto il gruppo «Cinema» si scagliava contro la corrente formalista perché considerata ostacolo principale contro il loro progetto di cinema realista. Durante il ventennio l’industria cinematografica italiana non era riuscita a far nascere un nuovo cinema e neanche a far rinascere un sistema divistico simile a quello americano o a quello dei tempi del cinema muto italiano. Le ragioni possono essere tante, ma forse le più plausibili sono da ricercare nella forte personalità del duce, che usava tutti i media per consolidare il culto della propria persona. Altre cause possono essere identificate nella mancanza di forti personalità e individualità, attributi fisici o doti carismatiche da parte degli attori del periodo o alla carenza di quadri formativi e di mobilità. Un’ulteriore causa attendibile è la scarsa rappresentatività, nei film dell’epoca, degli autentici problemi dell’italiano, che costringeva gli attori del periodo a interpretare ruoli poco riconoscibili e dal debole portato divistico. Inoltre con il sistema produttivo esistente e con la politica moralista, nazionalista e sessuofobica, non si poteva neanche immaginare la creazione di una politica divistica di ampio respiro. Quello che offriva il cinema del periodo, se non era un surrogato del cinema americano, non era abbastanza per offrire al pubblico nazionale ideali forti e in grado di innescare un transfert dal privato all’immaginario collettivo. Alla fine del regime, nel primo periodo dell’immediato dopoguerra, esisteva una situazione di possibile sostituibilità degli attori, per cui il neorealismo puntò su attori non compromessi (almeno non eccessivamente) con il regime, sugli

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attori della rivista e dell’avanspettacolo, modificandone completamente l'immagine. Allo stesso tempo si mosse anche nella direzione dell’eliminazione di ogni forma non di professionismo, ma di divismo. Il cinema italiano, nell’affrontare il problema dell’attore, nel periodo precedente alla ripresa industriale e finanziaria degli anni Cinquanta, trovò una situazione fluida proprio per il fatto che l’attore era il punto più debole della fase di transizione. Nei suoi margini più ampi, i film del dopoguerra puntavano a fare dello schermo il luogo della vicinanza e della riconoscibilità e non della distanza e della diversità. Quei film volevano creare la massima permeabilità fra scena e platea per dar luogo a un cortocircuito tra l’immagine e il pubblico: l’unificazione e l’identificazione. Lo scopo del cinema dell’immediato dopoguerra era di mostrare il nuovo italiano, pronto al riscatto. In questo senso l’italiano nuovo era dappertutto, «gli attori sono pochi, mentre vi sono milioni di personaggi» soleva dire Vittorio De Sica. Da quest’ultima considerazione nasce la contraddizione che minerà l'atteggiamento del neorealismo nei confronti dell'attore. Se si vuole trasfondere il cinema negli uomini o si dovevano usare attori presi dalla strada e insegnare loro come muoversi e comportarsi davanti alla cinepresa, oppure, per non utilizzare volti compromessi, bisognava usare i nuovi attori formatisi al Centro sperimentale dove avevano studiato sotto la direzione di Barbaro e Chiarini, le teorie che si richiamavano ai russi, al naturalismo, alla piena identificazione col personaggio, in altre parole la cosiddetta autenticità. Bisognerebbe chiedersi quale divenne la pratica corrente nei confronti dell’attore dopo la prima fase dell’immediato dopoguerra, periodo in cui sono nati film irripetibili dovuti anche a fortunate combinazioni e circostanze storiche. Rossellini, per esempio, utilizza attori professionisti, De Santis e Visconti utilizzano nuovi e vecchi attori. De Sica usa la sua esperienza attoriale per insegnare al non professionista Maggiorani come recitare in Ladri di biciclette e si permette di rifiutare Cary Grant (ma per Stazione Termini sarà costretto a lavorare con Jennifer Jones e Montgomery Clift). Al massimo, l’uomo della strada poteva interpretare se stesso e questa opzione si profilava come una via senza ritorno, fine a se stessa. Una volta finito il film, si poteva ritenere conclusa anche la carriera del personaggio preso dalla strada. Per la rinascente industria cinematografica era impensabile una produzione senza la presenza dell'attore/attrice professionista. Al centro del prodotto

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industriale cinematografico è sempre esistito l'attore e la fase di ripresa dei produttori italiani, dopo il periodo «pre-industriale» dell’improvvisazione, si basa sulla riconquista del pubblico che non aveva partecipato, con poche eccezioni, ai grandi momenti del cinema del dopoguerra. L'attore/attrice con il suo corpo diventa il punto di incontro dello sguardo del pubblico. Il neorealismo peraltro non si era mai prefissato di eliminare l’attore professionista. L’ipotesi di non impiegare attori professionisti fu possibile soltanto fino a quando si girarono film corali come quelli del tipo Paisà o La terra trema, in cui, come aveva predetto Barbaro, gli interpreti erano la comunità e non il singolo personaggio. Questa ipotesi era anche resa possibile dalla relativa staticità della cinepresa, che consentiva una recitazione funzionale, quasi antispettacolare. Con il ripristino di produzioni industriali cinematografiche, avviene il tanto discusso passaggio dalla ricerca del non professionismo al divismo paesano delle maggiorate degli anni Cinquanta, come testimonia l’affermazione di Sophia Loren, Silvana Pampanini, Yvonne Sanson, Gina Lollobrigida. Come si può notare, non ho menzionato Silvana Mangano anche se alla sua interpretazione in Riso amaro di Giuseppe De Santis si fa risalire la rinascita del divismo. Il film segna il passaggio da una fase all'altra, con la sua mescolanza di codici di alta tradizione cinematografica e culturale e codici bassi e popolari. Dopo il film, Silvana diventa la più famosa e pagata star italiana. Tutti sanno del manifesto francese nel quale la si descrive nei modi seguenti: Anna Magnani con quindici anni di meno; Rita Hayworth con dieci chili di più; Ingrid Bergman col temperamento latino; con più sex appeal di Mae West e Jane Russell insieme. Tale mitizzazione segue peraltro il mediocre film, ormai dimenticato, Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti. Con Riso amaro De Santis voleva celebrare il trionfo della solidarietà socialista contro l’individualismo, l’egoismo e il tradimento della classe operaia. Nonostante tutti gli accorgimenti tecnici per mostrare un lento ma inesorabile isolamento dell’individuo secondo i metodi contadini del togliere la mela marcia per salvare il resto del raccolto21, Silvana esce protagonista e vincitrice dalla lotta fra il male rappresentato dalla influenza corruttrice americana e il bene rappresentato dalle laboriose mondine guidate dal buono e leale sergente Marco. La corporeità naturale di Silvana, che da sola riesce a diventare il personaggio più importante del film, non

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rappresenta l’inizio delle maggiorate e il ritorno al divismo, come si è sempre ripetuto, ma conferma ed esemplifica l’applicazione coerente delle idee che De Santis aveva elaborato durante la sua collaborazione alla rivista «Cinema». In verità, rileggendo gli scritti più importanti pubblicati dalla rivista, si vede che la tensione che li percorre è tutta legata alla rinascita del cinema italiano, affidata alla riscoperta del paesaggio e dell’uomo che in esso vive; fra questi due termini in questione si stabilisce un legame dialettico nel quale si trasformano e si identificano le idee di rinnovo. La loro trasmutazione si opera sul piano del visibile e ha per centro il corpo umano e il volto: il tipo. La tipologia per i giovani del gruppo era in verità ancora vuota di tratti particolari ed era sbilanciata verso l’esemplarità di quelli somatici, aspetto, questo, che metteva in secondo ordine le attitudini interpretative del personaggio. Quando De Santis incontrò Silvana in una giornata di pioggia per le strade di Roma, come lui stesso amava raccontare22, fu subito fulminato dai suoi tratti fisici che dovevano rappresentare la nuova mondina stanca del faticoso lavoro nella risaia, che sogna una vita facile come nei fotoromanzi allora in voga. Nel suo schematismo, il regista non si avvide che sarebbero stati proprio i nuovi fenomeni culturali che lui avrebbe voluto distruggere, cioè la modernità rappresentata dal modello americano, a imporsi. Ideologicamente il comportamento di Silvana doveva rappresentare il marcio, ma davanti alla cinepresa il suo corpo disciolto e accattivante diventa l’incarnazione del nuovo, dell'avventura, della fuga dal quotidiano, la sensualità che il regime prima e la guerra dopo avevano represso. Silvana e Riso amaro raccolgono in questo modo un grande successo mondiale. Più che di «deviazione» o «centralità decentrata», come scrisse Alberto Farassino23: Riso amaro rappresenta la coerente evoluzione delle premesse già presenti nei testi programmatici e nei presupposti stessi del rinnovamento artistico e tecnico che De Santis aveva elaborato, influenzato anche dagli insegnamenti di Umberto Barbaro e collaborando a «Cinema» per la rinascita del cinema italiano.

A mio avviso, una riprova di questa tesi risiede nel fatto che nel 1969, Carlo Lizzani riesce finalmente a realizzare L’amante di Gramigna tratto dal racconto di Verga, con l’interpretazione di Gian Maria Volonté e Stefania Sandrelli. In una intervista il regista afferma:

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La Sandrelli porta nel suo sguardo e nel suo corpo qualcosa di moderno, di felino, di inafferrabile… non poteva rappresentare una donna passiva e soltanto soggetto di passione monocorde. Ripeto, anche la scelta di un attore è una scelta di narrazione. Nel saggio che ho scritto per Riso amaro ho affermato che la Mangano fa parte del paesaggio, riempie il fotogramma in un certo modo come non lo avrebbe riempito un altro tipo di fisico… certi volti e certi sguardi sono già un racconto… a volte delle storie si costruiscono proprio su un volto24.

Ben altra cosa è, invece, il fenomeno nostrano delle maggiorate e delle attrici scelte dai registi del tempo tramite i concorsi di bellezza. Esso è il risultato delle previsioni e della programmazione dell’industria cinematografica italiana e dei produttori che si affidano ai miracoli compiuti dai seni delle maggiorate sui maschi italiani dell’epoca. In un importante studio, Lo star-system italiano degli anni Cinquanta, è ben dimostrato come il nuovo divismo italiano del dopoguerra punti sull’onesta ragazza tutta casa e lavoro, nettamente ricomposta nell’ambito della tradizione e nell’ideologia cattolica25. Ripercorrendo nelle linee interne la storia del neorealismo italiano, più che tornare su parole d’ordine come attori non professionisti o attori presi dalla strada (quando non esistono né tesi elaborate o sommarie su queste idee), bisognerebbe riesaminare come la guerra, la lotta di liberazione e poi la guerra fredda abbiano influenzato le varie posizioni sorte nel dibattito precedente intorno alla recitazione e all’uso delle teorie apprese al Centro Sperimentale e poi rielaborate attraverso le pagine di «Cinema».

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Note 1. Pratica usata anche nel cinema italiano degli anni Trenta da Blasetti e da G. Forzano che nel 1932 iniziò le riprese di Camicia Nera per celebrare la bonifica delle paludi Pontine e l’inaugurazione della città di Littoria. In una lettera al segretario privato del Duce afferma: «La mattina alle 5 mi metto a girare in palude per trovare gli attori. Voglio fare tutto senza attori di mestiere. Ho delle sorprese insospettate; gente trovata per la strada, sullo schermo ti danno impressioni di naturalezza e verità sorprendenti … Il sistema oltre ai vantaggi artistici, mi risparmia la ridda delle femmine, le inimicizie dei relativi maschi con tutti gli annessi, i connessi e i consorzi artistici». In, C. E. J. Griffiths, Italian Cinema in the Thirties: Camicia nera and other films by Giovacchino Forzano, The Italianist, Vol. 15, 1995, p. 302. 2. Si potrebbero citare tanti testi ma forse il più letto di tutti è: J. Monaco, How to Read a Film (Oxford University Press, New York, 1981) che a p. 253, afferma: «The Neorealists were working for a cinema intimately connected with the experience of living: non professional actors, rough technique, political point, ideas rather then entertainment-all these elements went directly counter to the Hollywood esthetic of smooth, seamless professionalism». 3. Basta citare tra tutte le testimonianze di R. Rossellini, ritenuto da molti, padre del neorealismo che ha affermato: «Se il neorealismo si è rivelato in modo più impressionante al mondo attraverso Roma città aperta, sta agli altri giudicare. Io vedo la nascita del neorealismo più in là: si viene componendo attraverso le spontanee creazioni degli attori: di A. Magnani e A. Fabrizi in particolare. Chi può negare che sono questi attori a incarnare, per primi, il neorealismo? Che le scene di varietà dei “forzuti” o delle “stornellate romane” giuocate su un tappeto o con l’aiuto di una sola chitarra, come erano state inventate dalla Magnani, o la figura disegnata sui palcoscenici rionali da Fabrizi, già non preludevano a momenti di taluni film dell’epoca neorealista? Il neorealismo nasce incosciamente, come film dialettale; poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani e sociali della guerra e del dopoguerra. E, in tema di film dialettale, non sarà male riferirsi, storicamente, ai nostri predecessori meno immediati: intendo dire Blasetti per il suo film con i “tipi”: 1860 e a Camerini per il film come Gli uomini, che mascalzoni». R. Rossellini. Il mio metodo, a cura di A. Arpà, Marsilio, Venezia, 1987, p.85. 4. Tra gli attori che si formarono al Centro sperimentale figurano: Alida Valli, Clara Calamai, Elli Parvo, Otello Toso, Elena Zareschi, Andrea Checchi, Mariella Lotti, Gianni Agus, Adriana Benetti, Carla Del Poggio, Michele Riccardini, Massimo Serato e Luisella Beghi. Tra i registi: De Santis, Germi, Zampa, Puccini, Antonioni, Chiari, Zeglio, Cerio, Scotese, Morelli, Pozzetti, Furian e Cottafavi. 5. Lo stesso Barbaro ricorda il Centro sperimentale in questi termini: «Fu quella scuola – e qui è il segreto di così splendidi risultati – dove la cultura non era considerata somma di cognizioni morte, ma come fattivo strumento che solo nella pratica e nell’azione può af-

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fermarsi come tale: fu una scuola dove cultura non era informazione ma formazione: e non solo per gli allievi, ma anche per i dirigenti e gli insegnanti: che, nello sforzo di inventare, sperimentare e applicare una didattica del cinema furono portati a costantemente vagliare e approfondire le loro capacità e attitudini, ad accrescerle e a metterle a fuoco, prodigandosi, non senza generosità, in un lavoro che richiedeva, oltre all’entusiasmo, anche una buona dose di abnegazione». In Che succede al Centro sperimentale di cinematografia? in Neorealismo e realismo,voll. II, a cura di G. P. Brunetta, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp.584-5. 6. Ci sono molti studi sul ruolo svolto da U. Barbaro nella cultura italiana che a partire dagli anni Venti spazia dalla letteratura, al teatro, al cinema, all’arte figurativa, alla narrativa e all’insegnamento. Tra i più importanti si vedano lo studio di E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo, Liviana, Padova, 1969 e Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, Pàtron Editore, Bologna, 1972, ambedue di G.P. Brunetta. 7. Dello stesso teorico nel 1932, Barbaro aveva già tradotto Il soggetto cinematografico presso Le Edizioni d’Italia di Roma, la stessa casa che pubblicò la traduzione del testo menzionato nel 1935. 8. Molti dei migliori film stranieri durante l’epoca fascista sono arrivati negli anni Trenta quando il fascismo, con lo scopo di dare al mondo un’immagine di tolleranza e di apertura, dà vita alla Mostra cinematografica di Venezia che diventa un porto franco per la cinematografia mondiale. Per un approfondimento si veda; Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1948, G. P. Brunetta, Editori Riuniti, Roma, 2001. 9. U. Barbaro, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1974, XIII. 10. R. Arnheim aveva trovato ospitalità in Italia dalla Germania nel 1933 ma nel 1938 in seguito alle leggi razziali proclamate dal regime fascista dovette rifugiarsi negli Stati Uniti. 11. In U. Barbaro, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, cit. 12. Tutti i riferimenti alle idee di Barbaro sul ruolo e la formazione dell’attore vengo dal suo saggio, U. Barbaro, L’attore cinematografico in Il film e il rinascimento marxista dell’arte, cit., pp. 13-43. 13. U. Barbaro, L’attore cinematografico ne Il film e il risarcimento marxista dell’arte, cit., p.25. 14. Interessante ricordare che De Santis era stato invitato da G. Puccini e da F. Pasinetti a scrivere critica cinematografica perché considerato scaltro, attento, ciociaro. All’invito, prima di accettare lui aveva risposto: «non sono né scaltro né attento e come ciociaro a sentire A. G. Bragaglia che di Ciociaria se ne intende, sono un ciociaro impuro, della costa, e perciò un mezzo sangue, un ciociaro impuro, un bastardo insomma. I ciociari quelli veri, sono figli di antichi guerrieri, sono alti, fieri, robusti, svelti di coltello, ruba-terre e roditori di confini». Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, G. De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni quaranta, a cura di C. Cosulich, Bulzoni Editore, Roma, 1982, p. 33.

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15. «Cinema» n. 130, 25-11-1941. 16. Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in «Cinema», 127, 10 ottobre 1941, p. 217. 17. Per un paesaggio italiano, in«Cinema», 116, 25-4-1941. 18. Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, G. De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta, cit., pp. 35-6. 19. Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, G. De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta, cit., p.152. 20. Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, G. De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta, cit., p. 144. 21. A detta di G. De Santis il personaggio di Silvana, interpretato da Silvano Mangano, rappresentava «il tipo di giovani incoscienti, incapaci di comprendere la propria condizione e di lottare accanto ai propri compagni, perché deviati verso una vita fittizia che li condanna all’annientamento». 22. Si veda: Cinema , sud e memoria: il regista Giuseppe De Santis racconta in Cinema e Mezzogiorno a cura di V. Camerino, Specimen Edizione, Lecce, 1987, p.19. 23. Si veda: A. Farassino, Giuseppe De Santis, Moizzi Editore, Milano, 1978. 24. Intervista a C. Lizzani in Verga e il Cinema a cura di N. Genovese e S. Gesù, Giuseppe Maimone Editore, Catania,1996, p. 201. 25. F. Pinto, Lo star-system italiano degli anni Cinquanta, in Sociologia della letteratura, Bulzoni, Roma, 1978, pp. 61-76.

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Un neorealismo a colori? Itinerari cromatici nel cinema neorealista Livio Lepratto Ancora oggi, parlando di neorealismo, il pensiero comune va alla corsa e al grido disperati di Pina, falcidiata da una raffica di mitragliatrice, in Roma città aperta; o allo struggente vagare di un padre e di un figlioletto in una città che resta indifferente alle loro disgrazie, in Ladri di biciclette. Tutte immagini, queste, impresse nella nostra memoria e tutte immagini in bianco e nero. Viene allora da chiedersi se il neorealismo sia stato per sua intrinseca natura refrattario al colore, o se invece vi sia stato qualche caso in cui il connubio tra cinema neorealista e componente cromatica sia riuscito con successo. Per tentare di rispondere a tale domanda, è necessario però, dapprima, ricordare brevemente le circostanze e le modalità dell’introduzione del colore nel cinema italiano. Sebbene già a partire dagli anni Trenta il cinema a colori cominci a essere avvertito in Italia come un vero e proprio problema nazionale1, è tuttavia soltanto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale che prende avvio, a tutti gli effetti, la storia del cinema a colori italiano2. Una volta lasciati alle spalle i problemi della ricostruzione, nel corso degli anni Cinquanta, sotto l’egida centrista, l’Italia inizia a imboccare la strada della modernità e dello sviluppo economico, approdando, a partire dalla metà del decennio, ad un modello consumistico che promette benessere alla portata di tutti. I film realizzati in tale decennio mediano e amministrano il lascito neorealista ricorrendo alle formule di genere, offrendo una rappresentazione in presa diretta dei processi di cambiamento, veicolando forme simboliche, modelli comportamentali e interpretazioni del mondo3. Ebbene: anche il processo di transizione dal bianco e nero al colore è leggibile all’interno di tali pratiche di mediazione di valori sociali, simbolici e culturali. Come ci fa notare Federico Pierotti, «il colore entra in gioco, fuori e dentro il cinema, come uno degli attori della transizione tra vecchi e nuovi modelli»4. La crescente richiesta sociale di colore – testimoniata dal moltiplicarsi dei cromatismi non naturali negli oggetti d’uso quotidiano,

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negli arredi, nella moda, nelle automobili, nei cibi e nelle bevande – impone un superamento del sistema rappresentazionale del bianco e nero, preparando l’avvento del colore, che avrà luogo compiutamente soltanto nel decennio successivo. Il colore cinematografico viene così ben presto arruolato nella «battaglia delle idee» che ha luogo in Italia tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta: Di fronte al grigiore delle macerie e delle miserie postbelliche, al centro delle attenzioni rigorosamente in bianco e nero dei mal tollerati autori neorealisti, la rappresentazione a colori si identifica con la modernità e lo sviluppo, ricette di cui il paese ha bisogno per uscire dalla crisi del dopoguerra e proiettarsi positivamente verso la società dei consumi5.

Dal 1949 al 1953, tale partita si gioca prevalentemente sul terreno del documentario, che in questi anni si configura quindi come un laboratorio sperimentale per la messa a punto del colore6. Alcuni recenti studi7 hanno messo in luce alcuni aspetti autoriali, da una parte sottolineando la funzione formativa del documentario italiano per molti cineasti in attesa di passare al lungometraggio, dall’altra individuando, in alcuni casi particolari, la persistenza di uno sguardo riconducibile alla cosiddetta «etica dell’estetica» neorealista. L’elenco di autori che risulta da tali prospettive comprende, tra gli altri, Antonioni, Comencini, De Seta, Emmer, Guerrasio, Maselli, Olmi, Renzi, Dino e Nelo Risi, Vancini, Verdone, Zurlini. Nonostante ciò, le poetiche d’autore restano largamente minoritarie e quasi sempre relegate ai margini produttivi: ciò si spiegava con l’articolo 15 della legge Andreotti del 1949 che, prevedendo un premio maggiorato del 2% per i cortometraggi «di eccezionale valore tecnico e artistico», sembrava scritto appositamente per premiare la scelta del colore8. Cinque anni dopo le fatidiche elezioni del 18 aprile 1948, è come se la classe dirigente centrista avesse scelto di imboccare una nuova strada, lasciandosi alle spalle le fatiche degli sforzi postbellici: la rappresentazione che ora si vuole dare è quella di un paese positivamente orientato verso una società di sviluppo e benessere. Ecco allora emergere un primo e significativo rovesciamento di prospettiva rispetto alle poetiche neorealiste:

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In questi anni di transizione, mentre l’indagine sociale e la denuncia civica sono pensate in un legame necessario e consustanziale con il bianco e nero, il colore si prende carico di rappresentazioni pacificate, indirizzate a uno spettatore che deve essere persuaso della validità di un progetto culturale e ideologico, in cui ogni riferimento agli scontri sociali e alla povertà viene sistematicamente rimosso9.

Da quanto detto sinora, si evince come, nel caso specifico del documentario, il colore non solo non costituisca una garanzia di «realismo», ma serva addirittura a prendere polemicamente le distanze da esso. Tanto che alcuni hanno fatto rientrare la produzione documentaristica italiana a colori di quel periodo nella categoria di «antineorealismo»10. Se nei primissimi anni Cinquanta i cromatismi che invadono gli schermi nazionali sono quelli dei paesaggi, delle cartoline, delle architetture e delle pitture che popolano il gran numero di documentari realizzati con scopi propagandistici e speculativi, la fase successiva si caratterizza come la stagione del lungometraggio di finzione, inaugurata ufficialmente con l’uscita di Totò a colori di Steno nell’aprile del 1952, ed entrata nel vivo a partire dall’anno seguente. Pierotti individua «tre strade lungo cui si indirizza il cinema italiano nei primi anni di adozione del colore»11. La prima può essere definita «attrazionale»; legata soprattutto al periodo di emergenza della novità del colore sugli schermi nazionali, «questa tipologia stilistica è mossa dalla duplice esigenza di mostrare le capacità riproduttive del mezzo e portare in primo piano la novità attraverso elementari logiche di esibizione e di accumulo»12. Validi esempi di tipologia «attrazionale» possono considerarsi: Totò a colori, Miseria e nobiltà (Mario Mattoli, 1954), Gran varietà (Domenico Paolella, 1954). Esaurita la prima ondata attrazionale, con la crescita degli investimenti in produzioni più impegnative comincia a essere avvertita l’esigenza di operare un maggior controllo formale del colore. E si approda così alla seconda strada, che può essere definita «narrativa»: all’interno di questa via, chiaramente filo-hollywoodiana, è possibile operare un’ulteriore divisione tra un orientamento spettacolare e uno realistico. Al filone spettacolare appartengono i film di genere storico-mitologico, i cui esempi insuperati restano: Ulisse (Mario Camerini, 1954), Attila (Pietro Francisci, 1954) e Teodora (Riccardo Freda, 1954). Altro genere riconducibile al filone spettacolare è il peplum, che affida il suo successo, assai spesso, alla spettacolarizzazione dei muscoli dell’attore/atleta di turno e che

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riscuote puntualmente un grandissimo successo di pubblico (un esempio fra tutti: Le fatiche di Ercole, 1958, ancora di Francisci). La proliferazione e la fortuna di tale filone dimostravano come la necessità di esibire la novità tecnologica attraverso effetti cromatici ben visibili allo spettatore spingesse a rivolgere l’attenzione verso ambientazioni lontane dal presente e quindi catapultate nel passato. Per evitare traumi nelle abitudini degli spettatori, le storie rappresentate si collocano in luoghi e tempi passati, nei quali la riproduzione cromatica è più facilmente accettata: Mentre il qui e ora sugli schermi è ancora culturalmente concepito in associazione al bianco e nero, in base a un’unione sancita agli inizi del Novecento dalla diffusione dello spettacolo cinematografico. Il grado di libertà concesso a scenografi, arredatori e costumisti appare direttamente proporzionale alla distanza temporale percorsa: maggiore è il divario con il presente, maggiore tende a essere l’esuberanza cromatica proposta dalle pellicole13.

Tuttavia, in quegli stessi anni, iniziarono a uscire anche alcuni film a colori a tendenza realistica e ambientati nel presente, film che miravano a «ridurre, anziché accentuare, la forbice che separa la nuova forma di rappresentazione dal bianco e nero»14. Si tratta di un processo fondamentale ai fini della naturalizzazione del colore sugli schermi, poiché costituisce il primo tentativo di incrinare l’identificazione tra bianco e nero e rappresentazione della realtà propugnata con forza dal cinema neorealista15. L’utilizzo in chiave realista del colore è aperto da alcuni film melodrammatici, come: Vortice (1953), Torna! (1954) e La risaia (1955) – tutti e tre di Matarazzo – e proseguito poi da De Santis con Giorni d’amore (1954), Lattuada con La spiaggia e Leonviola con il melodramma realistico Noi cannibali (1953): nessuno di tali film ha però la forza propositiva per imporsi all’attenzione del pubblico. Soltanto con l’introduzione del colore nel filone della commedia, la rappresentazione cromatica inizia ad essere accettata anche per le ambientazioni nel presente. Il nuovo ciclo ha inizio alla fine del 1955, quando, a poche settimane di distanza, escono Racconti romani di Gianni Franciolini e Pane, amore e… di Risi, due titoli che si ricollegano esplicitamente alla tradizione del bozzettismo e del neorealismo rosa, portata ai vertici del successo dal precedente Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini. La terza possibile via al cromatismo del cinema italiano degli anni Cin-

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quanta, infine, è la tendenza «poetica», costituita dall’approccio autoriale al colore. A dire il vero, l’idea di associare l’uso della novità cromatica a motivazioni di ordine poetico, artistico ed espressivo rimane nei primi anni più un’ipotesi sognata dalla critica e dagli intellettuali che una possibilità realmente praticata. Essa troverà invece piena manifestazione in seno alle peculiari preoccupazioni autoriflessive e metalinguistiche tipiche del cinema moderno. Nella tendenza poetica Pierotti inscrive tre film, usciti tutti nel 1954, ma assai diversi tra loro, quali Senso, il Giulietta e Romeo di Castellani e Giorni d’amore. Se i primi due film attingono a piene mani al patrimonio pittorico italiano, del tutto diverso è invece il caso di De Santis, che con il suo Giorni d’amore tenta quello che può essere considerato «un esperimento di neorealismo a colori»16. Nei tre film menzionati, l’esigenza di superare un approccio al colore avvertito come decorativo spinge a unire a una motivazione diegetica una al contempo espressiva, artistica e culturale. I tre rispettivi registi mirano perciò ad attuare il passaggio sempre problematico dal pittorico al filmico: La posta in gioco dell’intera operazione è costituita dall’attribuzione di un superiore grado di dignità all’elemento cromatico: […] il colore, non più avvertito come presenza residuale ai fini della rappresentazione, può recitare un ruolo di primo piano. […] Il colore è portato a sottrarsi alla subordinazione al regime narrativo ed è chiamato a partecipare più attivamente alle procedure di produzione di senso17.

Secondo la tripartizione compiuta da Pierotti, quindi, a partire da circa metà anni Cinquanta si sarebbero verificate alcune evenienze di cinema neorealista (o meglio, tardoneorealista) che avrebbe «osato» abbandonare il bianco e nero, in favore di un colore utilizzato quale efficace e ulteriore strumento critico di indagine della realtà. Ciò ci conduce al cuore della nostra analisi, che si propone appunto di indagare i rapporti tra il cinema neorealista e il colore. Uno dei primi (e pochi) studiosi a prendere in considerazione l’insolito binomio neorealismo/colore è stato Alberto Farassino. Nel suo saggio Viraggi del neorealismo: rosa e altri colori, Farassino ha esaminato tutte le possibili declinazioni, derive e ibridazioni assunte nel corso degli anni Cin-

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quanta dal movimento neorealista italiano18. A conclusione del suo scritto – e in sintonia con l’emblematico titolo che esso riporta – Farassino si sofferma su quello che è stato (e, soprattutto, che sarebbe potuto essere) l’utilizzo del colore nel cinema neorealista19. Anche Farassino individua, nella varietà di generi colonizzati dal colore, alcune opere di matrice verista, e in parte riconducibili al filone neorealista: a dimostrazione del fatto che «il realismo non è necessariamente pauperismo in bianco e nero»20. Musoduro (o Amore selvaggio, 1953), di Giuseppe Bennati, è un interessante campione di quel filone di film che Farassino definisce come «neorealismo verde»21: ovvero quel sottoinsieme neorealista caratterizzato da una forte predisposizione naturalistica. Il film di Bennati è quasi interamente girato in esterni, o comunque in ambienti reali della Maremma toscana, e rievoca vicende di amore e caccia di fine Ottocento con costumi e figure tardoromantiche fra prati, boschi e una gran quantità di animali selvatici: il tutto tratteggiato in una dimensione quasi documentaristica e nel contempo calda e lussureggiante22. Altrettanto accesi sono i cromatismi di Noi cannibali (1953), di Antonio Leonviola, melodramma a tinte fosche di lavoro e violenze girato in gran parte nella zona portuale di Civitavecchia, «fra rovine, catapecchie, panni stesi e un’umanità che si riconosce nei riti collettivi del bagno, del ballo e dello spettacolo popolare»23. Il film di Leonviola lascia solo subodorare il ruolo potenzialmente assai efficace che il colore avrebbe potuto esprimere ai fini della causa neorealista. Non si dimentichi, infine, che proprio in quel giro di anni escono due film, su cui intendiamo soffermarci qui, quali La spiaggia e il già citato Giorni d’amore (entrambi del 1954), firmati rispettivamente da due dei maggiori e più irriducibili esponenti del neorealismo: Alberto Lattuada e Giuseppe De Santis. Seppur immediatamente accostati da certa critica al filone leggero o bozzettistico-paesano, tali film mantenevano innegabilmente una natura neorealista, tentando di coniugare le istanze neorealiste con la nuova componente del colore. Sin dalla sua uscita, La spiaggia apre un vero e proprio dibattito ideologico, ponendo interrogativi su come sia più corretto classificare tale film: se

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cioè esso sia ancora in qualche modo neorealista, oppure solamente realista, oppure se appartenga piuttosto a un «realismo borghese»24. In tale dibattito si inserisce – ancora una volta in maniera decisiva – la critica francese, sollecita a cogliere e a decantare la portata realista del film e a inserirlo nel filone neorealista italiano. In un articolo dall’emblematico titolo Il realismo italiano non è morto, si sottolinea la portata ideologica de La spiaggia: Questa storia non si svolge in un mondo di cartapesta, ma in un mondo in tutto e per tutto simile a quello in cui viviamo. Quello di Alberto Lattuada non è uno studio naturalista né una versione espurgata a uso di quanti si coprono gli occhi davanti alla realtà; ma è la ricreazione, compiuta attraverso la scelta di particolari caratteristici, del mondo degli oziosi che popolano gli alberghi di lusso delle località balneari […] I pescatori vengono presentati come contrappunto; quando i turisti vanno a dormire e i locali alla moda chiudono, loro si alzano e riprendono possesso del porto25.

Pur riconoscendo la correttezza delle osservazioni sin qui proposte, è altrettanto innegabile che con La spiaggia si registri il primo significativo punto di svolta nell’opera lattuadiana. C’è chi, come Gianluca Farinelli, ha visto ne La spiaggia un superamento del neorealismo in direzione della commedia: per la precisione: Una commedia su un’Italia in cui le vacanze stanno per diventare una meta possibile per milioni di persone, un paese che si è lasciato alle spalle la guerra, che vuole vivere le nuove ricchezze che ormai hanno invaso l’immaginario quotidiano. Memorabili le sequenze in spiaggia, lo sfarzo (anche erotico) dei costumi, le immagini della preparazione della serata, parata di creme, profumi, smalti, diete, stoffe…26

Tale ipotesi è avvalorata dalla testimonianza niente meno che di Rodolfo Sonego, sceneggiatore del film: Dal punto di vista letterario La spiaggia è veramente il mio film; è il primo film che rispetta inoltre la mia tendenza a fare quel tipo di commedie chiamate in seguito «all’italiana». […] Mi trovai di fronte al problema di scrivere un film molto popolare ma con pretese a qualcosa di più. […] Un tipo di soggetto e scrittura simbolico, emblematico, e che nello stesso tempo si fondava sul reale27.

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Altri invece hanno visto ne La spiaggia qualcosa di «altro» rispetto sia al neorealismo sia alla stessa commedia. È il caso di Guido Aristarco: «Forse più ancora che una commedia La spiaggia è un brillante apologo in chiave giornalistico-illustrativa, dove i toni dell’abile reportage balneare stile «Epoca» si combinano ai procedimenti e al gusto della satira borghese con moderna concisione e scioltezza»28. Gli fa eco Tatti Sanguineti, che dal canto suo osserva come il «documentario» firmato da Lattuada fosse così esatto da diventare profezia: Ricordiamoci che il film si svolge in un’epoca in cui i cartelloni più vistosi alla stazione sono quelli della pasta Agnesi e del dentifricio Chlorodont. La spiaggia non è solo il documentario e la profezia, ma diventa il reportage in stile Epoca delle vacanze di quegli italiani che hanno i soldi per andare in vacanza. E diventa la filmina pubblicitaria di questo nuovo mondo29.

Di un parere sostanzialmente simile è anche Adriano Aprà, che classifica La spiaggia quale primo film lattuadiano appartenente alla categoria da lui ribattezzata «radiografie della realtà»30. Secondo Aprà, con La spiaggia si registrerebbe un acutizzarsi ulteriore dello sguardo realista del regista, con il passaggio da una fase neorealista a una che potremmo definire «iperrealista». La causa di tale sensibile mutamento nell’opera di Lattuada è individuata dallo stesso Aprà proprio nell’introduzione del colore: Può darsi che la difficoltà tecnica delle riprese a colori e la scelta di smorzare il Ferraniacolor abbiano sollecitato Lattuada a rinunciare alle formalizzazioni comuni a tutti i suoi film precedenti, optando per uno stile più neutro, che definirei radiografico per la capacità di scomporre «divisionisticamente» la materia narrativa, povera peraltro di eventi, e ricomporla in un quadro emblematico, perché astratto, della realtà contemporanea31.

La scelta del colore era all’epoca un vero azzardo, come ci rivela una testimonianza di Bianca Lattuada, sorella del regista: «Il set fu faticoso: il Ferraniacolor era una scommessa. Mio fratello si fece convincere da Craveri che aveva già girato con quella pellicola Magia verde e che anche dopo farà alcuni documentari di lungometraggio in Ferraniacolor»32. Dal canto suo, l’attrice Valeria Moriconi ricorda così l’avventurosa storia del film e della sua nuova tecnica del colore:

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Ricordo che si dovettero fare alcuni rifacimenti per via del colore. Bisognava evitare i cosiddetti «salti di colore». E ci voleva tanta, tantissima luce. […] A proposito di colori, tutte avevamo unghie laccate, lucidissime. Era un segno dell’epoca a cui Lattuada era attentissimo e che non voleva perdere. […] Tutte le mattine gli assistenti truccatori ci ripassavano le unghie delle mani e dei piedi che dovevano essere sempre brillantissime33.

Lattuada, tuttavia, già sin da questo suo primo film a colori, dà prova di saper utilizzare la componente cromatica in una maniera altamente simbolica e metaforica: capacità che peraltro il regista aveva già dimostrato nell’utilizzo dei contrasti bicromatici del suo cinema in bianco e nero, e che dimostrerà anche nelle sue opere successive34. Un altro innegabile merito che va riconosciuto al Lattuada de La spiaggia è quello di aver saputo (e voluto) evitare ogni facile quanto inutile esagerazione e indulgenza cromatica, «particolarmente possibile con un tema estivo e balneare, suscettibile perciò di atroci interpretazioni cartolinesche»35. Tale capacità di Lattuada di evitare ogni sorta di eccesso stilistico viene riconosciuta anche da Lorenzo Pellizzari: Forse condizionato dal suo primo passaggio al colore – un Ferraniacolor sorprendentemente pastelloso, dai toni tenui, con la voluta esclusione dei rossi, ben dominato da Mario Craveri – Lattuada adotta una regia priva di particolari slanci o di ricercatezze (salvo nella sequenza, a rapido montaggio, in cui le varie signore si truccano e si vestono per prepararsi alla serata), facendosi ora cronista curioso, ora entomologo osservatore, mai concedendosi quelle ridondanze formali che caratterizzano i film precedenti, indipendentemente dal genere36.

Lattuada stesso allude comunque, in diverse interviste, a un lavoro di «contenimento» del colore (in particolar modo del rosso) da lui compiuto ne La spiaggia: «Il film era a colori, fra i quali avevo escluso il rosso, e la selezione tonale favoriva i grigi, i gialli, gli azzurri, tutti i “freddi” che reagivano opponendosi alla vampa solare, mentre i caldi avrebbero ingenerato una festosità di facile effetto»37. Pur all’insegna di tale contenimento, l’adozione del colore ne La spiaggia – come pure la «scottante» tematica messa in scena nel film – ha assunto un’inevitabile valenza definibile in qualche modo, almeno per quei tempi, «rivoluzionaria». Come ci fa notare ancora Pellizzari, infatti, «La spiaggia è un film che cade come un sasso nello stagno di un’Italia saldamente in mani democri-

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stiane»38. Componente stilistica e componente tematica concorrono perciò, ne La spiaggia, a una precisa funzione di «rottura»: quello rappresentato: È un mondo prima balneare, poi borghese, infine summa di un paese alle soglie del boom, che viene trascritto in sguardo. E in colore. Dieci anni prima de Il deserto rosso (Antonioni, 1964) Lattuada dipinge tutta una zona di spiaggia e di albergo dei propri colori, i colori della sua visione delle cose39.

A conferma della portata eversiva e «conturbante» che il colore assume ne La spiaggia, basti pensare che esso ha subìto una conversione forzata in bianco e nero, vera e propria «violenza» proseguita imperterrita sino a pochi anni fa, come testimoniatoci da Tatti Sanguineti: «Un film che [ancora oggi] la Rai trasmette e ritrasmette vergognosamente in bianco e nero»40. Ecco, invece, la suggestiva definizione che Giuseppe Bonaviri ci offre di Giorni d’amore di Giuseppe De Santis: Un film che favolisticamente racconta una vicenda paesana – la fuga e il matrimonio di due giovani poveri e innamorati – e, attraverso la semplicità di ancestrali gesti quotidiani, propone gli aspetti e i pregiudizi della realtà contadina meridionale, ancora presenti negli anni dell’immediato dopoguerra41.

De Santis, originario proprio di Fondi, ci consegna con questo film un ritratto della propria terra natale, la Ciociaria. Di essa il regista compie in parte una trasfigurazione, costruendo sapientemente una piccola epopea di paese, con personaggi veri, reali, ciociari fino in fondo nel carattere e nell’ambientazione. In Giorni d’amore De Santis dà l’impressione di non voler affrontare direttamente questioni politiche, né sociali. Eppure in esso, a ben vedere, pur sotto forma di commedia, ritornano molti temi ricorrenti della sua filmografia «sociale»: la povertà, i contadini, le lotte agrarie42. Tuttavia è innegabile come l’approccio del regista alla realtà italiana dei primi anni Cinquanta sia più morbido, sottile, mediato rispetto alle opere precedenti, intrise di slanci utopistici e di fervore artistico e ideologico. Ormai esaurita la spinta neorealista, il cinema italiano si avvia a una generale mutazione estetica e contenutistica che lo condurrà verso i lidi della commedia e dell’esistenzialismo. È un approdo quasi inevitabile conside-

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rata la metamorfosi sociale ed economica che sta avviando l’Italia verso il successivo e ormai imminente «miracolo economico». I nuovi gusti del pubblico, animato dal clima euforico di quegli anni, spingono produttori e registi alla «creazione di una narrativa popolare che sommi gli elementi più esteriori del neorealismo (più che altro i panni sporchi, o i panni scarsi quando si tratta di ragazze) ai vecchi elementi della commedia tradizionale (equivoci, travestimenti, scambi di persona, ecc.)»43. È la nascita del cosiddetto «neorealismo rosa», in cui bozzetto strapaesano, ottimismo, amoreggiamenti e un realismo edulcorato mettono alla porta l’analisi, l’impegno sociale e la pluridimensionalità dei personaggi. Ai capostipiti di tale nuovo genere cinematografico – Due soldi di speranza (1951) di Renato Castellani e Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini – Giorni d’amore sarà indebitamente accostato da una parte della critica, facendo così insorgere persino lo stesso autore44. In particolare, all’inizio del 1955, Fernaldo Di Giammatteo scrisse un articolo, in cui si proponeva di delineare la situazione del cinema italiano di allora. E a tale scopo scelse tre film usciti sul finire dell’anno precedente: Senso, L’oro di Napoli e Giorni d’amore. Di Giammatteo intendeva esaminare la situazione cinematografica italiana, partendo per l’appunto da quanto rimaneva del neorealismo in un cinema che, per propria volontà o per forza di cose, dal neorealismo si stava allontanando. Passando poi a esaminare separatamente i tre film, premetteva che tutti e tre i registi – Visconti, De Sica e De Santis, vale a dire tre maestri del neorealismo – davano l’impressione, con quella loro ultima opera, di voler «parlare d’altro». In altre parole evitavano «le zone più pericolose del neorealismo più impegnato nei problemi contemporanei»45 e attuavano «una specie di fuga nei “regni della realtà riflessa”»46: Visconti nella storia; De Sica e De Santis nella commedia e nel folklore. Dei tre film citati, però, l’unico ad essere sostanzialmente «bocciato» da Di Giammatteo risultava appunto Giorni d’amore. Il critico, pur riconoscendo al film di De Santis alcuni innegabili pregi, tra cui appunto il pionieristico e poetico utilizzo del colore, esprimeva un sostanziale giudizio negativo: Il regista dà l’impressione – esattamente come la dà gran parte del cinema italiano con una propria responsabilità culturale – di essere frastornato da sollecitazioni diverse, da suggestioni e velleità che non sa dominare. Mostra di non saper ritrovare se stesso, e di non saperlo neppur tentare47.

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In quel 1954 il neorealismo si trovava ormai sul tratto terminale della sua parabola e forse per questo se ne parlava tanto, come mai si era fatto in precedenza. Tutti ne auspicavano, seppur in modi diversi, un superamento: la critica d’ispirazione marxista suggeriva il passaggio dalla denuncia alla proposta, ovvero dalla fase critica alla fase costruttiva, avendo a modello il realismo socialista; la critica d’ispirazione cattolica postulava invece il passaggio a un realismo più votato al trascendente. Tra «realismo socialista» e «realismo spirituale», il cinema di De Santis restava sostanzialmente «sospeso», venendo puntualmente tartassato dalla critica e dalla censura48. Alle numerose accuse subìte da Giorni d’amore, tacciato di essere un film di «compromesso» e di «riposo ideologico», lo stesso De Santis reagì vivacemente con una lunga lettera inviata a Guido Aristarco, pubblicata il 25 dicembre 1954 su «Cinema Nuovo». In tale lettera il regista si dispiaceva innanzitutto per il fatto che Giorni d’amore venisse collegato a Due soldi di speranza e a Pane, amore e fantasia, specificandone puntigliosamente le vistose differenze: I protagonisti di Due soldi di speranza sono un disoccupato, che ha tutte le caratteristiche dell’operaio-artigiano, e la giovane figlia di un vero e proprio artigiano. Categorie sociali, psicologie assolutamente opposte a quelle dei miei personaggi, che sono tutti contadini, di quelli che vivono sulla terra e per la terra, con tutto il loro buon senso, la loro ipocrisia, il loro attaccamento alla «roba», il loro desiderio di vivere e di gioire, bene o male che sia, ma pur sempre di continuare ad andare avanti, senza farsi abbattere dai trabocchetti che le strutture di questa società tendono a ogni passo. Invece sono venuti fuori termini come «idillio agreste», «bozzetto paesano», «macchiettismo» e tante altre corbellerie del genere, che di solito formano il frasario della critica nostrana, ogni qual volta si trova di fronte a un film ambientato in campagna, tra i contadini e in un bel paesaggio49.

De Santis prosegue, chiedendo di essere giudicato in base a quelle che sono le sue reali ambizioni (la «visione nazionale-popolare dei contenuti e del linguaggio con cui questi contenuti devono essere espressi») e di non essere accusato di «spettacolarismo», «erotismo», «dannunzianesimo», «cattivo gusto», «formalismo» e altri «ismi» del genere, che costituiscono a suo avviso i pregiudizi accumulati nei confronti del suo lavoro. Pur rivolgendo la sua recriminazione a tutti i critici in generale, era evidente che le accuse mosse da De Santis fossero indirizzate soprattutto contro la critica di sinistra. Una risposta positiva e costruttiva a tali recriminazioni di De Santis giun-

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gerà proprio dal destinatario ufficiale della lettera: ovvero Guido Aristarco. Quest’ultimo giunge addirittura a considerare Giorni d’amore il film migliore girato sino ad allora da De Santis, spiegando così le ragioni del suo giudizio: [In Giorni d’amore] il divertimento non si articola più nella complessità della tecnica (il colore di Purificato non si «sente»), ed erompe sincero il grido di De Santis come liberato da una responsabilità troppo grande di cui sente il peso […] Il film non è diversivo o ambiguo come Due soldi di speranza o controrealista o addirittura «reazionario» come Pane amore e fantasia e Pane amore e gelosia […]; insomma non si adagia su una facile filosofia e un facile ottimismo visti sotto specie di fatalismo e meccanicismo o modo di difendere la propria pigrizia […]50.

Giorni d’amore è il primo esempio nella storia del cinema italiano e internazionale in cui viene affidato a un unico esperto, e cioè al pittore Domenico Purificato, il compito di sovrintendere alla scenografia, ai costumi e al colore di un intero film. L’entusiasmo con cui Purificato affrontò tale esperienza è senz’altro dovuto al fatto che il film è interamente girato a Fondi, sua terra d’origine (oltre che dello stesso De Santis), nonché fonte di ispirazione della sua intera opera pittorica. Guardando Giorni d’amore, si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte a quadri che improvvisamente si animano e proseguono l’azione che l’occhio di un artista aveva precedentemente deciso di cristallizzare sulla tela51. Il tipo di narrazione favolistica del film si accorda perfettamente con l’opera di Purificato che, influenzata dal Realismo Magico, presenta i suoi soggetti avvolti in un’atmosfera di sospensione e di favola, sospesa, atemporale, filtrata attraverso il sogno e resa quindi più nobile e meno desolata52. Una realtà «innaturale», quindi, e «partecipata» attraverso la sensibilità e i ricordi del pittore53. D’altronde, tra il maggio e il novembre 1940 erano già apparse sulla rivista «Cinema» ben undici lezioni sui rapporti tra cinema e pittura firmate proprio da Purificato, il quale insisteva sull’importanza di rivalutare il cinema come forma d’arte, mettendo l’accento su quei valori che lo avvicinavano alla pittura. I valori del film, il tono del racconto, il riuscire a tradurre in immagine visiva un’idea della mente, procurare emozioni tramite la vista: sono tutte caratteristiche che il cinema eredita appunto dalla pittura54. Il discorso si fa più complesso e problematico nel momento in cui viene appunto affrontato l’argomento del colore. Purificato sostiene che proprio in questo ambito si manifestano i limiti e le differenze maggiori esistenti

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tra cinema e pittura. Il motivo fondamentale di tali discrepanze va ricercato nella limitatezza insita nel mezzo cinematografico. La riproduzione meccanica toglie al colore la più importante funzione riservatagli dalla pittura, e cioè quella di stabilire i valori costruttivi dell’immagine attraverso le gradazioni dei toni e degli impasti. Nel cinema il colore rimane definito in sagome e blocchi delineati dalla fotografia. La limitatezza del mezzo, però, può d’altro canto rivelarsi un’efficace alleata, nel momento in cui si vuole conferire al colore cinematografico una funzione poetica. Focalizzando in particolare l’attenzione sui colori infantili, si può notare come questi appaiano privi di impasto e tonalità, cristallizzati nella loro forma primaria, contribuendo di conseguenza a creare un clima e un’atmosfera favolistica55. Giorni d’amore rappresentò allora la possibilità di mettere in pratica quanto egli aveva teorizzato quasi quindici anni prima; e Fondi costituiva già di per sé, con la sua vasta gamma cromatica, il paesaggio adatto per creare l’atmosfera da favola che il pittore auspicava56. Della sua prima esperienza con il colore compiuta in Giorni d’amore, De Santis saprà fare tesoro in altri film successivi, di cui almeno ancora uno viene spesso fatto rientrare nell’alveo del tardo neorealismo, ovvero Uomini e lupi (1956).

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Note 1. Cfr. A. Ferrario, Il cinema a colori problema nazionale, «La Tribuna», 18 dicembre 1936. 2. Si potrà ricordare che la rivista «Sequenze» decide, nel 1949, di dedicare il suo primo numero a «Il colore». I principali articoli sono antologizzati in M. Guerra, G. Parmigiani (a cura di), Sequenze. Quaderni di cinema 1949-1951, Uninova, Parma, 2009 (e si veda, nello specifico e nello stesso volume, il saggio di R. Campari, Il problema del colore). 3. Cfr. S. Bernardi, Gli anni del centrismo e del cinema popolare, in Id. (a cura di) Storia del cinema italiano 1954/1959, Marsilio - Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2001, vol. IX, pp. 3-34. 4. F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film. Il cinema italiano alla prova del colore (1930-1959), in S. Bernardi (a cura di), Svolte tecnologiche nel cinema italiano. Sonoro e colore. Una felice relazione fra tecnica ed estetica, Carocci, Roma, 2006, p. 102. 5. Ivi, p. 105. 6. Cfr. F. Pierotti, Prima di Totò a colori. Il passaggio al colore nel cortometraggio italiano (1949-1952), «Cabiria», n. 174, 2 settembre 2013, pp. 4-17. 7. Cfr. L. Miccichè, Documentario e finzione, in Id. (a cura di), Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Lindau, Torino, 1995; I. Perniola, Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Bulzoni, Roma, 2004. 8. Cfr. F. Pierotti, Il catalogo è questo. Fonti per la storia del documentario a colori in Italia nel secondo dopoguerra, in Il racconto del film. Narrating the film, XII Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Udine/Gorizia, 2005, p. 58. 9. Ivi, p. 61. 10. Ibidem. 11. F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film, cit., p. 123. 12. Ibidem. 13. Ivi, pp. 114-115. 14. Ivi, p. 126. 15. Cfr. M. Grande, Bozzetti e opere, in G. Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni ’50, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 148-177. 16. F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film, cit., p. 127. 17. Ivi, p. 128. 18. Cfr. A. Farassino, Viraggi del neorealismo: rosa e altri colori, in L. De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano 1949/1953, Marsilio - Edizioni di Bianco & Nero, VeneziaRoma, 2003, vol. VIII, pp. 203-222. 19. Ivi, p. 221. 20. Ibidem. 21. Ibidem.

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22. C’è inoltre chi ha visto in Musoduro molteplici assonanze con il western americano. Cfr. Guido Fink, Distanze di sicurezza: modello americano e cinema italiano, in L. De Giusti (a cura di), cit., p. 225. 23. A. Farassino, Viraggi del neorealismo, cit., p. 221. 24. Cfr. F. Di Giammatteo, La spiaggia, «Rassegna del Film», n. 20, gennaio-maggio 1954, p. 45. 25. Anonimo, Il realismo italiano non è morto, «Les Lettres Françaises», 10 settembre 1954. 26. G.L. Farinelli, Introduzione, in T. Sanguineti (a cura di), La spiaggia, Le Mani, Recco - Genova, 2001, p. 7. 27. R. Sonego, Parla Sonego, in T. Sanguineti (a cura di), cit., pp. 36-38. 28. G. Aristarco, La spiaggia, «Cinema Nuovo», n. 31, 15 marzo 1954. 29. T. Sanguineti, La puttana, il sindaco, il miliardario e il contapalle, in Id. (a cura di), cit., p. 265. 30. A. Aprà, Primi approcci a Lattuada, in Id. (a cura di), Alberto Lattuada. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia, 2009, p. 15. 31. Ibidem. 32. B. Lattuada, Il colore di Spotorno, in T. Sanguineti (a cura di), cit., p. 20. 33. V. Moriconi, Testimonianze, in T. Sanguineti (a cura di), cit., pp. 306-307. 34. A proposito della densa valenza metaforica (quasi ejzenstejniana) sprigionata dalla contrapposizione tra il bianco e il nero nel cinema di Lattuada, cfr. G. Turroni, Alberto Lattuada, Moizzi, Milano, 1977, p. 23. 35. G. Bezzola, Elogio del Ferraniacolor, «Ferrania», n. 4, aprile 1954. 36. L. Pellizzari, La spiaggia, in A. Aprà (a cura di), Alberto Lattuada. Il cinema e i film, cit., p. 186. 37. L. Peroni, Incontro con Alberto Lattuada, «Inquadrature», n. 11, autunno 1963. 38. L. Pellizzari, La spiaggia, cit., p. 183. 39. G. Volpi, Il signore dei linguaggi, in A. Aprà (a cura di), cit., p. 29. 40. T. Sanguineti, La puttana, il sindaco, il miliardario e il contapalle, in Id. (a cura di), cit., p. 254. 41. G. Bonaviri, Divagazioni in Ciociaria, in G. Spagnoletti, M. Grossi (a cura di), Giorni d’amore. Un film di Giuseppe De Santis, tra impegno e commedia, Lindau, Torino, 2004, p. 9. 42. Cfr. S. Toffetti, L’arte della profondità. Conversazione con Giuseppe De Santis, in Id. (a cura di), Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, Lindau, Torino, 1996, p. 49. 43. E. Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, Roma, 1990, p. 23. 44. Su questi temi e sulle forme di dialogo del film con il cinema coevo e con le altre opere di De Santis, si vedano le pagine dedicate a Giorni d’amore in M. Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Bulzoni, Roma, 2010. 45. F. Di Giammatteo, La situazione del cinema italiano, «Rivista del Cinema Italiano», n. 1, gennaio 1955.

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46. Ibidem. 47. Ibidem. 48. C. Cosulich, «Giorni d’amore» e la critica, in G. Spagnoletti, M. Grossi (a cura di), cit., p. 78. 49. G. De Santis, De Santis ci scrive, «Cinema Nuovo», n. 49, 25 dicembre 1954. 50. G. Aristarco, Il mestiere del critico, «Cinema Nuovo», n. 50, 10 gennaio 1955, pp. 3133. Di un parere simile è Antonio Vitti, il quale, inoltre, sottolinea la venatura fantastica del neorealismo desantisiano (cfr. A. Vitti, La Ciociaria nel cinema, in F. Zangrilli (a cura di), La Ciociaria tra letteratura e cinema, Metauro, Pesaro, 2002, pp. 297-298). 51. Cfr. P. Marchi, Cinema e pittura in «Giorni d’amore», in G. Spagnoletti, M. Grossi (a cura di), cit., p. 52. 52. Si ricordi, a tal proposito, che per creare un effetto antinaturalistico, Purificato fece colorare alberi, pareti e oggetti, anticipando di dieci anni quanto farà Antonioni in Deserto rosso (1964). 53. Cfr. Z. Daniele, Domenico Purificato, la Scuola romana e il Realismo Magico, Fondi, Associazione Giuseppe De Santis, 2002, p. 120. 54. Cfr. D. Purificato, Pittura e cinema, III - Basilare identità, «Cinema», n. 98, 25 luglio 1940, p. 57. 55. Cfr. D. Purificato, Pittura e cinema, V - L’avventura del colore, «Cinema», n. 106, 25 novembre 1940. 56. Il rosso, per esempio – uno dei colori preferiti da Purificato per la sua carica di energia e di passione – è un colore ricorrente nella realtà di Fondi (e quindi anche nel film): rossi sono i pomodori, le trecce di peperoncini messi a essiccare fuori dalle finestre, e rossa è la maglia da lavoro del protagonista del film, Pasquale.

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PARTE VII TESTIMONIANZE

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Parma 1953 Roberto Campari

Il convegno di Parma sul neorealismo si tenne nei giorni 3, 4 e 5 dicembre del 1953. L’apertura fu nel Salone San Paolo del Casino di Lettura alle ore 16, con una relazione di Vittorio De Sica intitolata Vita lunga al neorealismo. In un’Italia povera e disastrata, per certi versi assimilabile a quella di oggi, passati esattamente sessant’anni , c’erano tuttavia grande forza morale, grandi speranze e grande desiderio di rinascita. Io proprio in quei giorni compivo, qui a Parma, undici anni e di tutto ciò non potevo certo ancora rendermi conto. Ero entrato in prima media, il cinema era già da qualche anno la passione della mia vita e aspettavo le grandi uscite di Natale: Le avventure di Peter Pan di Walt Disney naturalmente, al cinema Orfeo, quello vecchio ancora pieno di stucchi liberty con le poltrone di velluto rosso già un po’ spelacchiato; ma anche Giulio Cesare al Ducale, col nuovo divo Marlon Brando che combatteva a Filippi; e poi Lili, musical dove Leslie Caron parlava coi burattini, al Lux, la sala che prometteva spettacoli «nel segno della qualità». I miei famigliari invece restavano entusiasti della rivelazione Audrey Hepburn vista al Centrale in Vacanze romane; ma il maggior successo di quella stagione felice sarebbe stata una commedia italiana, Pane, amore e fantasia, in uscita per le feste di Natale al cinema Ariston. Qui De Sica era solo attore protagonista, insieme alla Lollobrigida, e proprio in questo film, com’è noto, la critica avrebbe poi identificato uno dei segni della fine del neorealismo. Di questa possibile fine si era discusso a Parma al convegno di dicembre, al quale ovviamente non avevo partecipato ma di cui avrei visto fotografie e resoconti su «Cinema Nuovo», rivista che qualche volta compravo con la paghetta settimanale. Circa trent’anni dopo mi sarei occupato del convegno quando, nel 1985, riprendemmo il discorso su Parma e il cinema (con un nuovo convegno, un libro e una mostra) e incontrai e discussi con molti dei personaggi di un tempo che erano ancora presenti.

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Roberto Campari

Primo fra tutti Cesare Zavattini, la cui relazione al convegno del 1953, Il neorealismo secondo me, era stata una delle poche pubblicate e che affermava con convinzione la vitalità del neorealismo. Sono qui davanti a voi, che la sapete lunga, nella mia quasi natale Parma con il timore, la paura anzi, di ripetermi… Il neorealismo è vivo per tutti, la domanda da farsi è come può continuare a vivere… Come il sudore alla pelle, il neorealismo sta attaccato al presente. Non posso dire certo quali saranno i suoi sviluppi futuri, perché non posso conoscere quali saranno gli sviluppi futuri della nuova società, ma il neorealismo li racconterà senza posa, questi nuovi sviluppi. Esso non dilaziona mai la conoscenza di un fatto del proprio tempo : credo che la sua morale e il suo stile siano tutti qui… I cartoni di Disney non sono neorealismo ma noi andiamo a vederli volentieri e così per ogni manifestazione cinematografica dove si manifesta l’ingegno umano.

Organizzatori del convegno erano stati Pietro Barilla, Attilio Bertolucci, Pietro Bianchi, Luigi Malerba, Antonio e Virginio Marchi. Al convegno che organizzammo più di trent’anni dopo, preparato insieme ad Antonio Marchi e a Giuseppe Calzolari, vennero in tanti già presenti nel 1953: Luigi Malerba, Michelangelo Antonioni, oltre al già citato Zavattini e ad alcuni critici e studiosi allora ancora attivi. «Quell’aria buona di efficienza democratica dentro gli agi di una tradizione cortigiana, Maria Luigia e il Casino di lettura, Stendhal e i lunghi pranzi nelle osterie fuori porta col cartoncino del menu raffinato come fosse un programma di concerto» di cui Livio Zanetti parla in uno degli articoli su «Cinema Nuovo», era la cultura della mia città, dove l’illuminismo settecentesco aveva lasciato, appunto, tracce ancora visibili (penso ai caratteri bodoniani sui menu). E perciò un imprenditore come Pietro Barilla non solo era stato nel comitato promotore del convegno, ma aveva poi finanziato una rivista culturale quale «Palatina» e si era circondato di intellettuali e di artisti, eccellenze nel mondo culturale italiano. Antonio Marchi e Luigi Malerba, già direttori di riviste come, rispettivamente, «La critica cinematografica» e «Sequenze», appena chiusosi il convegno presero a girare, al castello di Torrechiara, quel Donne e soldati, a cui collaborò anche Attilio Bertolucci che, poeta affermato, era stato critico cinematografico sulla «Gazzetta di Parma» e continuava a mettere il cinema al centro dei suoi interessi (non a caso, avrebbe visto entrambi i suoi figli, Bernardo e Giuseppe, diventare registi).

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Invenzioni dal vero

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Il convegno di Parma ebbe successo perché, come affermò Sergio Amidei, era vivo e urgente in quel momento, in tutti coloro che si occupavano di cinema, il bisogno di fare il punto della situazione. E infatti la relazione di Carlo Lizzani, ponendo il problema del realismo, aveva in certo senso preannunciato delle evoluzioni che il cinema italiano avrebbe avuto in futuro, ad esempio con Visconti. Partendo dall’affermazione dell’esistenza di varie forme di realismo nel corso dei secoli («quello medievale di Dante, quello borghese di Tolstoj, quello socialista dei film sovietici»), Lizzani sostenne che per uscire dai problemi che si stavano profilando per il cinema neorealista occorreva «forza artistica più impetuosa, calore di convinzione più pieno, maggiore popolarità nelle opere che tendono al vero realismo». Era, in sostanza, l’idea del ritorno al grande realismo ottocentesco: nei personaggi di Guerra e pace, anche in quelli minori, aggiunse Lizzani seguendo il modello dell’estetica di Lukács, Tolstoj faceva vivere tutta la Russia, paesaggi e classi, fedi e furori; e toccava adesso al cinema, a Visconti prima di tutti, raccogliere l’eredità dei grandi romanzieri. Neppure un anno dopo, a proposito di Senso ( 1954), capolavoro viscontiano, Guido Aristarco avrebbe ribadito la sua formula del «passaggio dal neorealismo al realismo», esaltando in tal modo un’opera che di neorealismo, ormai, non presentava più tracce.Alla fine del convegno di Parma fu votata una mozione in quattro punti: 1) valore positivo del neorealismo; 2) esigenza di salvaguardarlo; 3) esigenza di maggior studio e diffusione; 4) necessità di interventi statali. Chiuderò questa mia breve testimonianza con un auspicio: se abbiamo toccato il fondo, dopo almeno un ventennio di degrado in cui la cultura è stata sostanzialmente penalizzata in quanto inutile e non produttiva; se il Paese riuscirà a darsi una scossa morale e qualche nuovo giovane politico riuscirà a far trionfare l’idea che, al contrario, proprio nei beni artistici e nella cultura consiste la vera, unica e inimitabile ricchezza dell’Italia, può darsi che possiamo assistere alla nascita di un altro neorealismo.

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Che strano richiamarsi al neorealismo Lorenzo Codelli Scrive Carlo Lizzani: E il Neorealismo diventa formula, genere esso stesso. Anche se nobile come Le ragazze di piazza di Spagna (1952). Luciano Emmer regista e Sergio Amidei sceneggiatore ne fissano alcuni codici, alcune regole destinate ad avere una funzione non secondaria per la nascita della commedia di costume dei decenni successivi... e nella stessa direzione operano Comencini e Risi, e Vittorio De Sica, come attore (ma si racconta anche come supervisore), con la serie dei Pane amore e fantasia (1953), Pane amore e gelosia (1954), ecc. Sarà anche la forza del genere a determinare la riconoscibilità di certi codici e stilemi e a consentire forse al Neorealismo di riapparire anche come genere, di tanto in tanto, nei decenni successivi e forse come si dice ancora oggi1.

Nella stessa Sala Grande e alla stessa Mostra di Venezia 2013 ove un manipolo di spettatori ha ammirato le riflessioni testamentarie sul neorealismo del regista di Achtung banditi!, un più vasto pubblico ha applaudito ilare e commosso un’altra confessione testamentaria: Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini, di Ettore Scola. Il film di Scola è centrato sul rapporto d’amicizia tra il giovane Scola, disegnatore e sceneggiatore debuttante, e il già affermato Federico Fellini, inanellando rapidi flashback sul percorso parallelo di ambedue. Scola rievoca in un soffuso bianco e nero d’antan le riunioni pre e post-belliche della redazione del «Marc'Aurelio», e schizza personaggi a lui assai cari come Ruggero Maccari, Age, Scarpelli, Attalo. Ricorda Scola: Come spettatore continuava il mio amore per il cinema. Quasi tutti i soldi che guadagnavo li spendevo per il cinema [...]. Allora il mio grande amore per il cinema era un po' schizofrenico: da una parte, la mia affinità con il cinema comico, il cinema di Totò, per il quale cominciavo a lavorare, e, dall'altra, la mia ammirazione per il neorealismo, per Paisà, per Roma città aperta, ma soprattutto per De Sica. De Sica mi piace a più di tutti, più di Visconti, più di Rossellini, perché De Sica, oltre la forza e la capacità di commuovere, oltre l'ironia, dovuta indubbiamente a Zavattini, possedeva la grazia e la leggerezza2.

Si trattava di schizofrenia oppure di un duplice standard?

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Lorenzo Codelli

Scola, rispetto a Lizzani, non deve certo giustificare nel 2013 le posizioni storico-critiche portate avanti negli anni Cinquanta dai teorici ufficiali del movimento neorealista. Nello stesso tempo, la straordinaria devozione che Scola esibisce nel suo ultimo film per le fantasie e i mistici egocentrismi felliniani, lo collocherebbe quasi nel girone dei vituperatori del neorealismo. Ho avuto la fortuna di fare alcune visite sul set di Che strano chiamarsi Federico al Teatro 5 di Cinecittà. Un set enorme quanto unico, ove erano stati collocati, uno accanto all’altro, il bar, la redazione, la strada, la spiaggia, l’automobile, la fontana ecc. Luciano Tovoli, direttore della fotografia, utilizzava proiezioni di gigantografie sulle pareti dello studio, beninteso senza cancellare cavi, imperfezioni, tecnici in scena. E Scola, tornato giovane e imperioso, dirigeva all’antica, con il megafono, un bel po’ d’amici e parenti chiamati a incarnare di fronte alla macchina da presa Ettore, Federico e comprimari vari. Il Teatro 5 veniva umanizzato, se vogliamo «neorealistizzato», rispetto ai giochi pirotecnici iperbolici cari al genius loci. Il montaggio a ripetizione di celeberrime sequenze dai capolavori felliniani si scontra ironicamente con le sequenze dei dialoghi platonici tra Federico, Ettore, un pittore di strada, una prostituta. Le voci di Scola e di Fellini sono quelle reali, tratte da registrazioni e non ridoppiate. Soprattutto nel ritmo delle conversazioni e degli incontri notturni si ritrova la armoniosa lentitudo che ha caratterizzato l’intera visione scoliana. Terza incomoda «ombra neorealista» apparsa alla Mostra di Venezia 2013, il film italiano al quale la giuria, presieduta da Bernardo Bertolucci, ha assegnato il Leone d’oro: Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Agli antipodi dell’inchiesta, e del reportage sociale, l’itinerario extraurbano del regista italo-americano si apparenta piuttosto con certe installazioni paesaggisticoavanguardiste, più con Christo che con Cristo si è fermato a Eboli. Due mesi più tardi, al Festival del Cinema di Roma il massimo premio è stato assegnato a Tir di Alberto Fasulo. Un ibrido palese, una finta cronaca sulla vita d’un camionista; il quale in realtà reinterpreta se stesso basandosi su dialoghi riscritti ad hoc e situazioni laboriosamente rimesse in scena. Nulla di nuovo sotto il sole, dato che già avevano compiuto analoghe imprese, ad esempio, anti-documentaristi quali Gualtiero Jacopetti e Folco Quilici, ottenendo risultati spesso sconvolgenti, oltre che apprezzati a livello internazionale.

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Invenzioni dal vero

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Il neo-paupero-realismo attuale, che si abbevera ai micro-fondi elargiti da uffici cinema regionali e da enti turistici locali, nulla ha in comune con le disastrate situazioni socio-economiche che avevano generato e motivato il neorealismo italiano dal 1945 in poi. Rappresenta piuttosto un trend, forse passeggero e forse no, o magari una «fiction»: fingendo di non riuscire a fare veri film a soggetto, fingendo d’evitare «le trappole del documentarismo televisivo», si finge d’imboccare una terza via, un raccordo anulare che si riavvita su se stesso all’infinito.

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Lorenzo Codelli

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Note 1. C. Lizzani, G. Bozzacchi, Non eravamo solo Ladri di biciclette... Il Neorealismo, Triworld, Roma, 2013, p. 175. Volume ispirato all’omonimo documentario presentato alla Mostra di Venezia 2013. 2. A. Bertini (a cura di), Ettore Scola. Il cinema e io, Officina Edizioni/Cinecittà International, Roma, 1996, p. 39.

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Indice dei nomi

Abruzzese, A., 155, 157. Adorno, T.W., 105. Age (Agenore Incrocci), 313. Agee, J., 35, 41. Agosti, S., 233. Agus, G., 286. Alazraki, B., 31. Alberini, F., 205. Alberini, M., 127, 133. Alicata, M., 217, 220, 234, 277, 278, 279. Alliata, F., 223. Almirante, E., 245. Altman, R., 85. Alvaro, C., 26, 244. Amfitheatrov, D., 240. Amico, G., 227, 232, 233, 238. Amico, O., 238. Amidei, S., 28, 185, 186, 311, 313. Anania, F., 235. Andreassi, R., 232, 233. Andreotti, G., 124, 133, 182, 290. Annoni, C., 183, 184. Antonello, P., 92, 96, 194. Antonioni, M., 58, 60, 96, 116, 117, 163, 187, 188, 199, 207, 212, 215, 217, 222, 234, 256, 257, 258, 263, 264, 269, 277, 286, 290, 298, 305, 310, 317. Anziano, A., 182. Apollonio, M., 6, 109, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184. Aprà, A., 84, 97, 108, 236, 237, 296, 304. Aragon, L., 189. Arata, U., 28. Arena, M., 49. Argan, G.C., 129, 134. Argentieri, M., 50, 84, 108, 236. Aristarco, G., 80, 84, 90, 91, 96, 128, 167, 194, 196, 200, 296, 300, 301, 304, 305, 311.

Armes, R., 31, 40, 208, 209, 212. Arnheim, A., 276, 287. Arosio, 182. Ashley, 31. Assunto, 262, 264. Astruc, 224, 236. Atkinsson, M., 131. Attalo (Gioacchino Colizzi). 313. Auriol, J.G., 33, 40, 185, 192, 195. Autera, L., 228. Ayfre, A., 78, 79, 84, 106, 107. Bachtin, M., 117, 119. Baldi, G.V., 232, 233. Baldini, G., 54, 64. Balti, B., 163. Barbachano Ponce, M., 45. Barbareschi, G., 183. Barbaro, U., 23, 25, 26, 40, 72, 80, 84, 101, 102, 105, 106, 108, 128, 195, 236, 276, 277, 282, 283, 284, 286, 287. Barberis, A., 253. Barboni, L., 28 Bardem, X., 31, 36. Barilla, P., 203, 310. Barocco, R., 164, 169. Barrault, J.L., 198. Barrot, J.P., 187. Bartali, G., 159. Barthes, R., 132, 134. Baruchello, G., 227. Barzman, B., 195. Bazin, A., 24, 32, 68, 78, 79, 84, 91, 104, 105, 107, 109, 114, 115, 118, 160, 185, 189, 194,196, 197, 198, 199,200,201, 207, 208, 210, 212, 229. Bazzocchi, M.A., 64.

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Beaufret, J., 105. Becker, J., 31, 198. Beghi, L., 286. Belingardi, C., 176. Bellucci, M., 163. Benetti, A., 286 Benjamin, W., 216, 234. Bennati, G., 294. Benvenuti, L., 127. Benvenuti, P., 97, 98. Berengo Gardin, G., 62, 64. Bergman, Ingmar, 207. Bergman, Ingrid, 139, 147, 148, 149, 162, 236, 283. Bergson, H., 233. Berlanga, L., 31, 36. Berman, M., 105, 108. Bernardi, S., 237, 254, 260, 264, 303. Bernardini, A., 41. Bernari, C., 196. Berque, A., 255, 263. Bertini, A., 316. Bertolli, A., 184. Bertolucci, A., 11, 12, 203, 310. Bertolucci, B., 31, 117, 130, 134, 230, 310, 314. Bertolucci, G., 310. Bertoni, F., 134. Bertozzi, M., 15, 18, 108, 109, 237. Bettetini, G., 179, 184. Betti, L., 237. Bezzola, G., 304. Biamonte, S., 252. Bianchi, C.A., 98, 183. Bianchi, G., 183. Bianchi, P., 11, 310. Bianciardi, L., 58. Biasin, E., 212. Biltereyst, D. 148, 169, 182, 184. Biraghi, G. 151. Birri, F., 31. Blasetti, A., 26, 32, 53, 57, 102, 112, 140, 148, 161, 169, 187, 188, 189, 195, 280, 281,

Autori Vari

286. Bloemheuvel, M., 237. Blümlinger, C., 237. Bo, C., 123, 133, 175, 176, 183. Bode, H., 245. Bompiani, V., 40, 50, 52, 63, 84, 108, 156, 157, 178, 236. Bonaviri, G., 298, 304. Bondanella, P., 205, 206, 208, 211. Bontadini, G., 175, 76. Borghesio, C., 127. Borzage, F.,192. Bosè, L., 243. Bottai, G., 278. Bovay, G., 230, 237. Bozzacchi, G., 15, 163, 316. Bragaglia, C.L., 157, 287. Brando, M., 309. Brass, T., 227. Brennan, N., 71, 73. Brizzi, A., 28. Brunatto, P., 229. Brunetta, G.P., 16, 40, 73, 84, 182, 215, 234, 235, 236, 237, 240, 265, 287. Bruni, D., 237. Budor, D., 212. Bulajic, V.,31. Bulbarelli, P., 169. Buñuel, L., 167, 207. Burnand, D.,253. Burstyn, J., 71. Cacoyannis, M., 31. Calamai, C., 286. Caldiron, O., 16, 50, 108, 119, 126, 133. Callot, J., 192. Calvino, I.,165, 187, 209, 212, 269. Calzolari, G., 310. Camerini, M., 26, 112, 140, 148, 187, 188, 189, 195, 286, 291. Camerino, V., 288. Cameron, I., 212.

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Invenzioni dal vero

Campari, R., 11, 15, 19. Camus, A., 104, 109. Cane, G., 147. Cano, C., 253. Canova, G., 17. Capra, F., 192. Capuana, L., 26. Carlotti, A.L., 183. Carné, M., 191, 192. Caron, L., 309. Carpitella, D., 57, 253. Casetti, F., 72, 133, 169. Casiraghi, U., 194, 195. Cassola, C., 58. Castellani, R., 29, 114, 186, 189, 248, 280, 281, 293, 299. Castelli, F., 253. Castello, G.C., 23, 30, 40. Cavallaro, G.B., 148. Cavalli Sforza, L.L., 252. Celant, G., 40. Céline, F., 192. Cerchio, F., 234. Cereda, G., 182. Cerio, F., 286. Cervini, A., 17, 96. Charensol, G., 198. Chauvet, L., 33, 41, 190. Checchi, A., 286. Chiari, W., 58, 286. Chiarini, L., 2, 23, 28, 67, 72, 79, 80, 82, 84, 85,101, 148, 194, 196, 246, 252, 254, 276, 282. Chiaromonte, N., 104, 109. Chim (David Szymin), 72. Chinnici, G.,182. Chion, M., 253, 254. Ciarletta, N.,196. Ciavarella, M., 169. Cicognini, A., 241, 242, 252. Cioffi, G., 253. Cirillo, S., 40. Clement, R., 30.

319

Clerici, L., 58, 64. Clift, M., 252. Cocteau, J., 34, 41. Codelli, L., 19. Coletti, D., 283. Collet, J., 152. Comencini, L., 215, 229, 290, 292, 299, 313 Comisso, G., 64. Comolli, J.L., 152, 221, 235. Comuzio, E., 241, 252. Conforti, M., 155, 157. Coppi, F., 33. Coppola, F., 31, 39. Corsi, B., 155, 157, 212. Costa, A., 41, 256, 263, 279. Costantini, P., 63. Cosulich, C., 62, 287, 305. Cottafavi, V., 286. Craveri, M., 296, 297. Crespi, S., 176, 182, 183. D’Aloia, A., 18, 109, 173, 182. D’Anzi, G., 253. D’Assunta, R., 244. Dal Lago, A., 134. Dalì, S., 125. Dalla Palma, S., 178, 184. Daney, S., 199. Dante (Alighieri), 222, 311. Dante, E., 130, 134. Daquin, L., 31. Dassin, J., 30. De Benedetti, A., 187. De Caro, M., 85, 96. De Filippo, E., 111, 189. De Gaetano, R., 15, 17, 96, 97, 102, 104, 108, 119. De Gasperi, A., 33, 193, 225. De Giusti, L., 303, 304. De Laurentiis, D., 54, 63. De Marchi, B., 183.

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Autori Vari

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320

De Martino, E., 58, 64, 237. De Piaz, C., 175, 183. De Pirro, N., 148, 219. De Robertis, F., 71. De Santis, G., 15, 19, 29, 31, 36, 52, 70, 106, 154, 163, 186, 188, 189, 190, 191, 192, 196, 199, 205, 220, 227, 234, 243, 245, 249, 253, 256, 257, 258, 263, 275, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 286, 287, 288, 292, 293, 294, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305. De Seta, V., 39, 223, 230, 232, 233, 290. De Sica, V., 28, 29, 31, 32, 34, 35, 37, 38, 48, 52, 53, 60, 68, 94, 114, 117, 124, 128, 163, 165, 186, 187, 189, 190, 193, 197, 198, 199, 201, 206, 223, 224, 241, 280, 282, 299, 309, 313. De Vincenti, G., 50. Del Amo, A., 36. Del Bo, D., 175, 176, 189. Del Fra, L., 227, 231. Del Poggio, C., 286. Delannoy, J., 198. Deleuze, G., 28, 40, 73, 81, 82, 85, 107, 116, 118, 119, 210, 211, 233. Della Volpe, G., 84, 195. Demonsablon, P., 185. Depuyper, C., 259, 263, 264. Di Carlo, C.,, 233. Di Donato, M., 254. Di Giammatteo, F., 141, 147, 299, 304. Di Gianni, L., 39, 231, 238. Di Napoli, Q., 223. Didi-Huberman, G., 85. Diritti, G., 19, 93, 94, 262. Dolce & Gabbana, 163, 164, 169. Dolci, D., 58. Doniol-Valcroze, J., 199. Donner, J., 37, 41. Donskoj, M., 66. Dos Passos, J., 115. Dossetti, G., 176. Dottorini, D., 96

Dovjenko, 192. Duncan, C., 63. Duvivier, J., 70, 200. Dyer, R., 242, 253. Eco, U., 96, 133. Éjzenštejn, S.M., 176, 267. Ellwood, D.W., 235. Emanuelli, E., 128. Emmer, L., 114, 232, 290, 313. Engel, M., 31. Enriquez, C., 37. Ensor, J., 192. Ermler, F., 66. Etheridge, B.C., 73. Eugeni, R., 18, 109, 182, 255. Fabbri, D., 43, 52, 81. Fabrizi, A., 37, 137, 140, 248, 286. Faenza, R., 227. Faeta, F., 64. Fanchi, M., 169, 182, 184. Farassino, A., 65, 72, 73, 82, 84, 126, 128, 129, 133, 134, 164, 167, 169, 236, 252, 288, 293, 294, 303, 304. Farinelli, G., 295, 304, 320. Fasulo, A., 87, 314. Faulkner, W., 34, 115. Favier-Ledoux, M., 187. Fei, G., 176. Fellini, F., 58, 60, 117, 159, 163, 199, 207, 212, 222, 225, 235, 313, 314. Ferrara, G., 222, 231, 233. Ferrario, A., 303. Ferraris, M., 85, 96. Ferreri, M., 117. Ferrero, A., 103, 108, 182. Ferretti, G.C., 99, 100. Ferrieri, E., 178, 184. Ferrini, F., 97, 98. Ferroni, G., 71.

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Invenzioni dal vero

Feyder, J., 192. Fink, G., 304. Fiore, T., 58. Flaherty, R., 195, 197. Flaiano, E., 187. Fofi, G., 107, 109. Folena, G., 23. Ford, A., 195. Forgacs, D., 160. Forlin, O., 201. Fornari, F., 228. Fortichiari, V., 50, 84, 236. Fortini, F., 77, 84, 127, 129, 133, 227, 237. Forzano, G., 286. Fossati, G., 237. Foster, J., 169. Franceschini, E., 175, 183. Franciolini, G., 187,225, 292. Francisci, P., 244, 291, 292. Franck, N., 185, 192. Freda, R., 54, 63, 126, 133, 291. Freud, S., 221. Frith, S., 253. Frye, N., 114. Fulchignoni, E., 173. Furian, L., 286. Gabin, J., 70. Gadda, C.E., 17, 32, 40, 123, 129, 133. Galdieri, M., 244, 253. Galilei, G., 163. Galvao, R., 29, 40, 321. Gandin, M., 230, 231. Garcia Espinosa, J., 31. Garibaldi, G., 32, 40. Garin, E., 287. Garosci, A., 54. Garrone, M., 87. Geemie, S., 73. Gemelli, A., 173, 180, 181, 184. Germi, P., 29, 31, 67, 70, 127, 186, 189, 199, 232, 286.

321

Gervasi, F., 219. Ghirri, L., 63. Giacovelli, E., 304. Giannarelli, A., 233. Gide, A., 198. Gili, J.A., 18, 40, 41, 101, 236. Ginzburg, N., 52. Giovacchini, S., 73, 85, 211. Giovanelli Amico, F., 238. Girotti, M., 244, 279. Gobbi, A., 244, 253. Godard, J.L., 31, 45, 222, 232, 236. Gogol, N.V., 199. Gomez, F., 36. Gori, G., 182. Gozzini, G., 183. Grande, M., 34, 114, 119, 236, 303, 313. Granich, T., 243,253. Grant, C., 282. Grassi, P., 178. Grasso, A., 72, 133. Gray, H., 128, 207. Graziati, A., 28. Grazzini, G., 235 Grierson, J., 67, 72. Griffiths, C.E.J., 286. Grifi, A., 226, 227, 233, 237. Gritti, J., 196. Gromo, M., 195. Grossi, M., 304, 305. Guareschi, G., 227. Guarini, A., 196, 225. Guarner, J.L., 212. Guerra, M., 17, 303, 304. Guerra, T., 52. Guerrasio, G., 290. Guerrini, R., 96. Guevara, A., 36. Guldemond, J., 237. Gulinucci, M., 237. Gundle, S., 128, 133. Guthrie, W., 57.

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Autori Vari

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322

Hardy, F., 72. Hecht, B., 186. Heidegger, M., 105, 109. Hepburn, A., 309. Hewitt, N. 72. Higson, A., 73. Hitler, A., 32. Hoveyda, F., 150. Hulten, P., 40.

Kaiser-Blüth, K., 147, 148. Kant, I., 124. Kaulen, P., 37. Kautner, H., 31. Kelly, M., 72. Kezich, T., 63. Kierkegaard, S., 116. Kitzmiller, J., 77, 245. Kracauer, S., 30, 40. Kubelka, P., 31. Kurosawa, A., 31

Latini, G., 237. Lattuada, A., 29, 31, 36, 38, 43, 53, 70, 186, 187, 188, 189, 195, 196, 199, 247, 292, 294, 295, 296, 297, 298, 304. Lattuada, B., 296, 304. Lavarone, G., 254. Lazzati, A., 176. Le Chanois, J.P., 236. Leacock, R., 31. Leonardo (da Vinci), 159, 162, 163, 237. Leonviola, A.L., 292, 294. Leopardi, G., 17, 111, 119, 222. Leprohon, P., 206, 207, 212. Levantesi, A., 63. Levi, C., 59,61, 64. Liehm, M., 205, 206, 208, 211, 212. Lindtberg, L., 66. Livolsi, M., 40. Lizzani, C., 15, 36, 68, 72, 105, 106, 155, 157, 163, 185, 193, 195, 196, 218, 225, 235, 277, 284, 288, 311, 313, 314, 316. Locatelli, M., 182, 252. Locatelli, S., 184. Lods, J., 195. Lollobrigida, G., 283, 309. Lomax, A., 57, 62. Lonero, E., 182. Longanesi, L., 26, 54, 63. Longhi, R., 26. Loren, S., 64, 283. Lorentz, P., 256. Losey, J., 65, 69, 70. Lotti, M., 286. Lubitsch, E., 259. Lughi, P., 128, 133. Lukács, G. 311. Lunghi, F.L., 241, 252.

Landolfi, T., 59. Langewiesche, W., 134. Langlois, H., 185, 186. Latil, L., 201.

Macario, E., 127. Maccari, R., 50, 313. Maggiorani, L., 47, 48, 77, 282. Magnan, H., 190.

Ingrao, P., 129, 134, 277. Iseppi, F., 182. Ivens, J., 104, 195, 230. Jacopetti, G., 314. Jameson, F., 17, 88, 89, 96. Jarratt, V., 204, 205. Jeener, J.B., 147, 148. Jona, E., 253. Jones, J., 282. Jovatto, A., 253. Joyce, J., 26, 33.

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Invenzioni dal vero

Magnani, A., 32, 77, 98, 137, 140, 149, 165, 166, 253, 283, 286. Malaparte, C., 26, 189. Malavasi, L., 72. Malerba, L., 11, 203, 310. Maltby, R., 73, 169. Mangano, S., 73, 243, 283, 285, 288. Mangini, C., 39, 222, 227, 231, 232, 233, 237. Mangini, G., 253. Mann, D., 31. Mantelli, A., 184. Manzoli, G., 12, 17, 123, 169. Manzoni, A., 92. Marcellini, R., 218. Marchi, A., 310. Marchi, P., 305. Marchi, V., 11, 203, 310. Marcocchi, M., 177, 183. Marcus, M., 131, 211. Margadonna, E., 195. Mariani, A., 184. Marinuzzi, G., 252. Maritain, J., 106, 178. Marker, C., 199. Marrone, G., 212. Martelli, O., 28. Martini, A., 106, 178. Martone, M., 117. Marx, K., 105. Maselli, F., 44, 215, 225, 229, 290. Masetti, E., 240, 246, 252, 253, 254. Masi, S., 252. Masoni, T., 237. Massironi, G., 155, 157. Masters, E.L., 55. Mastrocinque, C., 188, 189. Matarazzo, R., 292. Mattoli, M., 291. May, R., 237, 246, 254. Mayer, G.M., 67, 71, 72. Mazzarella, A., 134. Mazzei, L., 237.

323

Mazzoletti, A., 253. Medini, P., 129, 134. Meers, P., 169. Melani, M., 97. Mello, C., 211. Menarini, R., 212. Menon, G., 97, 108, 109. Mera, M., 253. Mereu, S., 93, 94. Merleau-Ponty, M., 79, 84, 261, 263, 264. Meyers, S., 31. Micciché, L., 15, 41, 72, 108, 127, 133, 157, 227, 235, 236. Miceli, S., 241, 252. Michelone, G., 253. Milanini, C., 72, 123, 124,133. Mingozzi, G., 24, 35, 231, 232, 233. Minuz, A. 15, 18, 159, 160, 162, 164, 166, 168, 169. Monaco, J., 286. Moncada, P., 223. Moneti, G., 254. Monicelli, M., 43, 53, 60, 127, 189. Monjo, A., 185, 193. Montale, E., 278. Montani, P., 254. Montuori, C., 28. Morelli, G., 286. Moriconi, V., 296, 304. Morlion, F., 81, 109, 148, 182, 195. Morosini, G., 219. Morreale, E., 16. Mosconi, E., 19, 169, 182. Mounier, E.,178. Munari, B., 162. Muni, P., 70. Muñoz Suay, R., 35, 36. Mussolini, B., 32, 33. Nagib, L., 73, 211. Naldoni, E.A., 169. Nascimbene, M., 252.

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324

Nelli, P., 196, 229. Nepoti, R., 235. Neufeld, M., 65, 69. Nichetti, M., 130, 134. Nietzsche, F.W., 83, 85. Noto, P.,, 109, 17,133, 155, 157. Noussinova, N., 35. Nowell-Smith, J.,73, 131, 212. O’Leary, A., 131, 133, 134. O’Rawe, C., 131, 133, 134. Olivelli, T., 183. Olivetti, A., 230. Olmi, E., 19, 39, 206, 231, 233, 237, 258, 259, 260, 261, 263, 264, 290. Orkin, R., 31. Ortese, A.M., 29, 64. Pagliero, M., 227. Pampanini, S., 283. Pandolfi, V., 105. Panelli, M., 184. Paolella, D., 291. Paolucci, G., 225. Pappagallo, P., 219. Paranaguá, P.A., 36, 37, 41. Parigi, S., 15,16, 50, 53, 63, 102, 105, 106, 108, 109, 133, 147, 160, 169, 230, 234, 235, 237, 245, 253, 254. Paris, R., 33, 41. Parmigiani, G., 303. Parvo, E. , 286. Parvulescu, C., 72. Pascale, A., 134. Pasinetti, F., 148, 191, 277, 287. Pasolini, P.P., 56, 61, 63, 64, 92, 96, 108, 117, 207, 212, 222, 227, 229, 233, 237. Patellani, F., 53, 162. Pavese, C.,165, 169, 278. Pavesi, E.,169. Pellizzari, L., 297, 304.

Perniola, I., 303. Peroni, L., 304. Petrassi, G., 243, 253. Philippe, C.J., 152, 185. Piavoli, F., 19, 232, 233, 261, 262. Piccioli, D., 183. Piccioli, G., 183. Piccon, E., 222. Pierotti, F., 289, 291, 293, 303. Pietrangeli, A., 185, 234, 277. Pinto, F., 182, 288. Piovene, G.,59, 60, 64, 187. Pisano, E., 253. Pitassio, F., 16, 109, 127, 133, 155, 157, 236, 243, 253. Pivato, S., 182. Plastino, G., 63. Pollone, M., 72. Ponti, C., 43, 54. Portalupi, P., 28. Pozzetti, A., 286. Pravadelli, V., 254. Prévèrt, J., 186. Preziosi, E., 182. Prolo, M.A., 185. Proust, M.,26. Pruneri, F., 183. Puccini, G., 286, 287. Puccini, M., 277. Pudovkin, V., 26, 40, 276. Puig, M., 38, 41. Purificato, D., 277, 301, 305. Putnam, H., 96. Quaresima, L., 134. Questi, G., 70, 229,259. Quilici, F., 314. Rabagliati, A., 253. Radvány, G., 65, 67, 69. Rancière, J., 81, 82, 85.

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Invenzioni dal vero

Ray, S., 31. Recalcati, M., 235. Recchia Luciani, F.R., 130, 134. Régent, R., 147, 148. Reismann, J., 64. Renaud, M., 198. Renoir, J., 23, 152, 186, 192, 198, 207, 228, 237. Renzi, R., 52, 194, 196, 290. Resnais, A., 31. Riccardini, M., 286. Ricci, S., 73, 117, 269, 270, 271, 272. Rigoglioso, C., 44. Risi, D., 114, 225, 292, 313. Risi, N., 230, 290. Ritter, J., 260, 263. Rivette, J., 150. Rizzardi, V., 253. Röbbeling, H., 69. Rocha, G., 31. Roche, T., 6, 15, 19, 108, 255, 256, 258, 260, 262, 264, 324 Roger, A.,148, 257, 263. Romanò, A., 173. Roncoroni, S., 150, 152. Rondi, B., 87, 154, 156, 314. Rondi, G.L., 87, 154, 156, 314. Rosi, G., 87, 154, 156, 314. Rossellini, Renzo, 241. Rossellini, Roberto, 17, 27, 28, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 41, 48, 52, 53, 56, 60, 69, 71, 77, 79, 82, 85, 91, 92, 96, 97, 98, 99, 100, 106, 107, 108, 109, 114, 116, 117, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 162, 163, 165, 166, 182, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 197, 199, 200, 212, 215, 217, 219, 222, 225, 236, 247, 259, 267, 269, 271, 282, 286, 313. Rossi, A., 98. Rota, N., 244, 245, 253, 254. Rouch, J., 236. Rovida, F., 183.

325

Roy, B., 31, 208. Ruberto, L.E., 85. Russo, A., 169. Russo, G., 58. Russo, L., 26. Sadoul, G., 18, 31, 40, 147, 148, 149, 185, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 200. Sala, G., 139, 148, 313.Salachas, G., 212. Salvatori, J., 216. Sandrelli, S., 284, 285. Sanguineti, T., 72, 296, 298, 304. Sanson, Y., 283. Santoro, M., 212. Santucci, L., 175, 176, 177, 182, 183. Sapegno, N., 278. Sarris, A., 207, 208. Sartre, J.P., 104, 105. Saviano, R., 134. Scaldaferri, N., 254. Scarpati, C., 184. Scarpelli, F., 313. Schafer, M., 251, 254. Schérer, M. (E. Rohmer), 96, 149. Schoonover, K., 72, 107, 109. Schopenhauer, A., 203. Sciannameo, G., 237. Sciascia, L., 58, 212. Scitova, V., 35. Scola, E., 19, 165, 313, 314, 316. Scorsese, M., 31, 39, 41, 115. Scotellaro, R., 58. Scotese, G.M., 286. Scott, W., 92. Scotto d’Ardino, L., 263. Searle, J.R., 96. Seeger, P., 57. Segui, A.M., 35, 37, 41. Seknadje-Askénazi, E., 149. Sellerio, E., 58, 63. Serandrei, M., 227, 239, 252.

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Autori Vari

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326

Serato, M., 286. Shindo, K., 31. Simmel, G., 260. Simonelli, G., 253. Siniscalchi, C., 182. Siti, W., 90, 92, 96, 221, 235. Sklar, R., 73, 85, 211. Solaroli, L., 25, 26, 40. Soldati, M., 52, 54, 60, 63, 112, 187, 188, 189, 195, 196, 223, 280. Solmi, A., 212. Sonego, R., 295, 304. Sordi, A., 58. Sorrentino, P., 130, 134, 162, 165. Spagnoletti, G., 96, 304, 305. Spinazzola, V., 18, 108, 153, 154, 156, 157. Spirito, U., 81, 84. Stack, O., 212. Staiola, E., 77. Steimatsky, N., 234, 263. Steno (S. Vanzina), 63, 84, 126, 127, 133, 291. Stieglitz, A., 51. Strand, P., 16, 51, 52, 53, 54, 56, 57, 59, 62, 63, 195. Strehler, G., 129, 178. Subini, T., 182. Tacchella, J.C., 187. Tagliani, G., 96. Tallenay, J.L., 196. Taranto, N., 253. Taviani, P. e V., 31, 29, 206, 212. Tellini, P., 280. Terttula, E., 37. Tery, G., 32, 40. Terzano, M., 28. Thompson, K., 73. Tinazzi, G., 63, 303. Toffetti, S., 304. Togliatti, P., 33, 129. Tolstoj, L., 311.

Tonti, A., 28. Tosatti, G., 235. Tosi, V., 51, 195. Toso, O. , 286. Totò (A. de Cu rtis), 77, 157, 159, 253, 270, 291, 303, 313. Tranchant, F., 151. Trasatti, S., 182. Treveri Gennari, D., 148, 182, 184. Trombadori, A., 194. Truffaut, F., 31, 96, 147, 149, 207. Tual, D., 40. Turoldo, D., 175. Turri, E., 255, 263. Turroni, G., 304. Ungaretti, G., 278. Ungari, E., 97, 98, 206. Valente, V., 254. Valentini, P., 252. Valli, A., 286. Valli, B., 182. Valmarana, P., 135. Van der Keuken, J., 263. Van Gogh, V., 44. Vancini, F., 39, 215, 231, 290. Vecchi, P., 237. Venturi Ferriolo, M., 260. Venturini, F., 34, 148. Verdone, M., 1103, 108, 139, 140, 143, 148, 149, 290. Veretti, A., 252. Verga, G., 14, 26, 165, 234, 277, 284, 288. Vergano, A., 68, 72, 186, 191, 247. Vérité, J.M., 151. Vertov, D., 249, 254. Viazzi, G., 194. Viganò, D.E., 182. Viganò, E., 40. Vigorelli, G., 81, 196.

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Invenzioni dal vero

Vincenti, E., 50, 238, 320. Visconti, L., 29, 31, 36, 38, 53, 60, 68, 90, 100, 108, 114, 117, 125, 133, 154, 163, 186, 187, 191, 197, 205, 206, 207, 212, 219, 222, 223, 225, 227, 228, 235, 250, 251, 254, 277, 282, 299, 311, 313. Vitti, A., 19, 211, 212, 305. Vittorini, E., 68, 72, 99. Vlad, R., 252. Volonté, G.M., 284. Volpi, F., 109. Volpi, G., 304.

327

Zecca, F., 212. Zeglio, P., 286. Zeri, F., 129, 134. Zevi, B., 129, 134. Zinnemann, F., 68, 73. Zolla, E., 129, 130, 134. Zucconi, F., 96. Zurlini, V., 39, 215.

Wagstaff, C., 131. Wajda, A., 31. Warburg, A., 83, 206, 227. Warshow, R., 35, 41. Waszyński, M., 65. Welles, O., 147 Wenders, W., 31. Wiewiorka, A., 73. Wilson, K.M., 85. Wolf-Ferrari, E., 253. Wood, R., 212. Wyler, W., 165. Zagarrio, V., 236. Zampa, L., 31, 60, 68, 186, 187, 225, 244, 254, 286. Zanetti, L., 310. Zangrilli, F., 305. Zanoli, A., 229. Zareschi, E., 286. Zavattini, A., 58. Zavattini, C., 11, 12, 16, 19, 26, 28, 29, 34, 36, 37, 41, 43, 44, 45, 47, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 67, 78, 79, 84, 91, 94, 97, 99, 101, 102, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 114, 128, 156, 157, 185, 186, 187, 195, 196, 203, 215, 217, 223, 224, 225, 226, 236, 237, 275, 280, 310, 313

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Libri pubblicati collana PANDORA COMUNICAZIONE

Cinema Victor Oscar Freeburg, L’arte di fare film Torben Grodal, Immagini-corpo. Cinema, natura, emozioni Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo, a cura di Michele Guerra

Analisi e scenari Maura Franchi, Augusto Schianchi, L’intelligenza delle formiche Di prossima pubblicazione Fotografia Ennery Taramelli, I viaggi immaginari di Luigi Ghirri. Il pensiero narrante di un fotografo

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Preziose riflessioni sul dibattito neorealista tenutosi in un convegno a Parma testimoniate dai pù importanti critici cinematografici in questo libro che viene stampato nel carattere Simoncini Garamond per conto di Diabasis nel settembre dell’anno duemila quindici

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