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Italian Pages 169 Year 2007
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SYRAKOUSAI –8–
Collana diretta da Dario Giugliano, Manlio Iofrida, Silvano Petrosino
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FABIO POLIDORI
NECESSITÀ DI UNA ILLUSIONE Lettura di Nietzsche
BULZONI EDITORE ROMA
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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-217-2 © 2007 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]
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INDICE
PREMESSA
p.
9
»
11
1. IL SOGGETTO ARTISTA: CONTRO LA RAGIONE ................................................ » Soggetto e ragione ............................................................................................. » La soggettività dell’artista e i suoi limiti ............................................ »
19 19 21
2. ARTE, VERITÀ, VALORE .............................................................................................. Dioniso ........................................................................................................................ Arte e verità in dissidio ................................................................................. Verità e valore ........................................................................................................ Valore e trascendenza ..................................................................................... Verità e illusione .................................................................................................. Il soggetto illusorio ...........................................................................................
» » » » » » »
25 25 27 30 33 34 40
3. L A CADUTA DELLA TRASCENDENZA ..................................................................... » Permanenza dell’illusione ............................................................................. » La morte di Dio .................................................................................................... »
45 45 49
4. IL SUPERUOMO: TRASCENDENZA E IMMANENZA ............................................. Necessità del trascendente .......................................................................... L’ultimo uomo ....................................................................................................... Il superuomo .......................................................................................................... La stella danzante ................................................................................................
» » » » »
53 53 56 60 62
5. L’INTERPRETAZIONE DEL SOGGETTO. VERSO IL LINGUAGGIO .................. » Via dalla trasparenza ......................................................................................... »
67 67
ALLA SECONDA EDIZIONE ..........................................................................
INTRODUZIONE. IL
DECLINO DEL SOGGETTO ........................................................
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Indice
L’interpretazione .................................................................................................. Il soggetto come senso ................................................................................... La fede nel linguaggio ..................................................................................... Volontà di potenza e interpretazione ..................................................
p. » » »
71 72 76 79
6. VOLONTÀ E SOGGETTO. VERSO LA VOLONTÀ DI POTENZA ...................... Il soggetto nell’interpretare ........................................................................ Parola e concetto ................................................................................................. Soggetto e causalità ........................................................................................... Contro la logica .................................................................................................... La negazione della volontà ..........................................................................
» » » » » »
81 81 83 84 86 91
7. VOLONTÀ DI POTENZA COME PARADOSSO DEL SOGGETTO ...................... Volontà e volontà di potenza ..................................................................... Il «di potenza» ........................................................................................................ Volontà di potenza come paradosso .................................................... Verso l’eterno ritorno ......................................................................................
» » » » »
95 95 98 100 107
8. L A COMUNICAZIONE DELL’ETERNO RITORNO .................................................. Contro il tempo .................................................................................................... L’eterno ritorno e il tempo del soggetto .......................................... La visione e l’enigma ........................................................................................ Togliersi dalla scena ...........................................................................................
» » » » »
111 111 114 118 122
9. INVISIBILE, INDICIBILE .............................................................................................. L’enigma della visione ...................................................................................... Il convalescente .................................................................................................... L’inevitabile soggetto ........................................................................................ Infine .............................................................................................................................
» » » » »
127 127 131 134 137
APPENDICE: IL SIMBOLO, IL GIOCO .............................................................................
»
141
NICHILISMO
DEL SIMBOLO .............................................................................................
»
143
IL
NIETZSCHE
»
157
GIOCO DI
.................................................................................................
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PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE
Questa seconda edizione di Necessità di una illusione si legittima, se così si può dire, solo perché in più di una occasione mi è stato segnalato, da amici e studenti, che la prima (del 1995) risultava da molto tempo non più disponibile alla vendita. Ho allora pensato, spero non del tutto a torto, che magari il libro potesse ancora contenere qualche motivo, non solo rigorosamente privato, di interesse. A convincermene definitivamente è stato l’amico Dario Giugliano, che ringrazio per l’insistenza, sempre amabile e discreta. Ne ho approfittato per aggiungere, in appendice al testo che (tranne per alcune citazioni) non ho modificato, un paio di scritti – già pubblicati rispettivamente in Esercizi Filosofici 2000. Annali del Dipartimento di Filosofia di Trieste, Edizioni Goliardiche, Trieste 2001 e in aut aut, 295, gennaio-febbraio 2000 – il cui argomento mi è parso non completamente avulso dal contesto del libro. Trieste, settembre 2006
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INTRODUZIONE
Il declino del soggetto Nonostante l’apparente disinvoltura con cui Nietzsche si sbarazza del soggetto, la questione non cessa di riproporsi, più o meno surrettiziamente e su piani molteplici. Non lo attesta soltanto quella che rimane una nozione fondamentale, il superuomo, ipotesi che lavora all’interno di un progetto di distruzione e superamento della soggettività. Anche gli esiti più estremi di questo progetto, l’eterno ritorno dell’uguale e la volontà di potenza, serbano un vincolo con la soggettività. Sia perché si configurano, a livelli diversi, come tentativi di rompere con una impostazione filosofica incentrata sulle regole della ragione e, in fondo, sulla trasparenza del cogito che le sostiene; e in questo, da ultimo, troverebbero la propria origine. Sia, soprattutto, per gli intrinseci risvolti fondativi che caratterizzano, suo malgrado, le due parole chiave del pensiero nietzscheano, attraverso cui il discorso filosofico stesso esibisce, con il proposito e il desiderio di evitarla, la permanenza di un fondo, o almeno un precipitato nel quale si riconoscono i tratti essenziali di una identità. Che si intenda con “soggetto” l’uomo o una qualche forma antropologica, oppure un qualsiasi elemento extra- o sovraindividuale intorno a cui si accentra il pensiero importa meno del fatto che la presenza di un luogo tensionale, di un fuoco di convergenza si riveli insuperabile. Nel caso di Nietzsche questo è apparso con particolare evidenza so-
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Fabio Polidori
prattutto attraverso la lettura condotta da Heidegger, dove volontà di potenza e eterno ritorno esprimerebbero l’estremo punto di approdo del soggettivismo moderno. Ma che cosa consente di formulare una corrispondenza tra quello che rimane un termine tradizionale della filosofia, il soggetto, e le espressioni che si assumono il compito di eliminarlo dalla scena filosofica? O, con maggiori cautele: posto che il pensiero di Nietzsche si qualifica anche come lotta contro la soggettività, quale residuo non cessa di sottrarsi alle sue strategie? In questi interrogativi si indica non solo l’ipotesi di una impasse che investe complessivamente l’opera nietzscheana ma anche un generale luogo teorico di resistenza che abita la filosofia, tanto più significativo in quanto capace di perdurare pur sotto i colpi di una critica radicale. Più ancora: si sarebbe per ciò tentati di descrivere questa resistenza – che, detto in forma di tesi, coincide con il (o quanto meno è strettamente assimilabile al) soggetto – come un che di mobile, le cui dinamiche non soltanto attestano la sua irriducibilità ma anche la giustificano; come se il suo costante differimento, le sue trasformazioni e le sue derive fossero le forme della sua necessaria permanenza nell’interno del discorso filosofico; e come se essa si realizzasse sempre, e comunque al prezzo di una indefinita trasmutazione. Da qui può suggerirsi l’idea che ogni distruzione o svuotamento del soggetto porta con sé un suo necessario riconfigurarsi in un altro luogo, una sua ricomparsa, una riqualificazione della soggettività su un piano diverso. Il pensiero di Nietzsche sarebbe in tal senso leggibile anche come la mappa di un percorso che la soggettività compie a partire dallo sgretolamento della sua configurazione classica o moderna per ritrovarsi su un altro piano di consistenza, connotato da una più accentuata ambiguità. Proprio l’estremo tentativo del suo accantonamento, condotto da Nietzsche con toni a volte addirittura derisori, ne ripropone la persistenza, e perciò anche la stabilità, sotto un aspetto o aspetti differenti e moltiplicati. Questi non sempre sono subito trasparenti, sia per lo scarto che segnano da una visione abituale del soggetto, sia per il continuo gioco di spiazzamento dei testi nietzscheani. Il che comporta, nei loro confronti, una lettura e un atteggiamento quanto meno differen-
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Necessità di una illusione
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ziati: da una parte, seguire Nietzsche nella sua critica frontale alla soggettività, considerandola come una fase propedeutica, un tentativo di fuoriuscita dai vincoli imposti dalla tradizione; dall’altra, sondare il modo in cui, proponendo e sollecitando nuclei filosofici dichiaratamente antisoggettivistici, il luogo della soggettività si disponga su un altro registro: permanendo così all’interno dello stesso gesto teorico che ne decreta la scomparsa o almeno l’inconsistenza. Certo non più il registro umanistico o sostanzialistico, ma quello, stavolta meno appariscente e perciò più insidioso e delicato, del discorso filosofico stesso, delle sue figure e dei suoi scopi, del suo linguaggio. Come se, in altri termini, nonostante le prese di distanza e le messe all’indice, il luogo della soggettività non fosse eliminabile, abbandonabile; come se in esso, qualsiasi sia la sua posizione o la sua configurazione, il pensiero non potesse non abitare. Perciò la zona problematica che i testi di Nietzsche dischiudono al soggetto, più che rappresentarne un superamento – nei termini di un affrancamento definitivo dalle illusioni razionali: verità come certezza, trasparenza del pensare, univocità del linguaggio, pretesa metafisica di una riduzione a unità del reale, a un principio unico ecc. – sta a indicare la permanenza di una polarità che Nietzsche non riesce ad abbandonare completamente e da cui non può che farsi costantemente attrarre. E il “declino” del soggetto si configura allora come una attenuazione e una riduzione di alcune pretese “filosofiche”; ma rivela anche la permanenza ineliminabile di un risvolto (o residuo) soggettivo, per quanto si possa essere consapevoli, e proprio dopo Nietzsche, del suo carattere illusorio. Insomma, il soggetto come illusione, ma come illusione necessaria. Questa ipotesi viene così a porsi a una certa distanza dallo stesso Nietzsche, o quanto meno dal pathos con cui i suoi testi mirano a scardinare il pensiero dalle ipoteche metafisiche del discorso filosofico, e per prime l’univocità del logos e il principio di identità che lo governa. Non per volontà di aderire a questi ultimi ma, quasi al contrario, per il sospetto di una loro presenza in ogni affrettarsi nel congedarsene. A
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Fabio Polidori
una certa distanza quindi dalla disinvoltura con cui si può ritenere liquidata la macchina della metafisica solo per averne smascherato il carattere illusorio e fittizio. Questa lettura di alcuni testi nietzscheani 1 – dove il tentativo di sopprimere il soggetto (in filosofia), per quanto porti a una attenuazione del suo peso, rilancia il tema di una sua necessaria permanenza, magari dislocata altrove – sembrerebbe contrastare anche con il tratto di fondo che emerge dal denso confronto che con il pensiero di Nietzsche è stato condotto da Heidegger. Questa interpretazione di Nietzsche non rappresenta soltanto uno fra i tanti luoghi critici o delle numerose versioni che del pensiero di Nietzsche sono state fornite, ma – e in particolare per quanto riguarda la questione della soggettività, del soggettivismo metafisico e del suo eventuale superamento da parte di Nietzsche – è un punto di riferimento obbligato. Heidegger legge Nietzsche come pensatore metafisico; anzi, egli rappresenterebbe il punto di approdo finale, il compimento di quel percorso storico del pensiero che va sotto il nome di metafisica. E Heidegger riesce a formulare questa equazione – cioè Nietzsche uguale estremo esito della metafisica – proprio intendendo la metafisica come quella via che il pensiero compie in direzione di un fondamento unico, di un principio unitario che racchiude in sé l’ente nella sua totalità e che, in base al medesimo fondamento, lo rende pensabile; questo fondamento non può che essere l’autoriconoscimento del pensiero come soggettività assoluta.
1 Questo lavoro non si sofferma sistematicamente su tutti i testi di Nietzsche, e nemmeno su tutti i luoghi in cui compaiono i termini di “soggetto” e derivati. Nei suoi scritti, compresa la grande mole dei frammenti inediti, le ripetizioni tematiche sono alquanto frequenti, e sono frequenti anche le contraddittorie posizioni che Nietzsche assume nei confronti della questione. La scelta dei luoghi citati e discussi si basa perciò su un criterio di migliore rappresentatività e, insieme, di maggiore notorietà, nell’intento di costruire uno sguardo di insieme che possa consentire una lettura teorica compatta, sufficientemente completa e nel contempo non troppo dispersiva. Tutti i rimandi e le citazioni fanno riferimento alla traduzione italiana dell’edizione critica delle opere complete in corso di pubblicazione: Friedrich Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg.
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Necessità di una illusione
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Il compimento della metafisica, leggibile attraverso il pensiero di Nietzsche, è il tramonto definitivo, per Heidegger, di quella differenza tra l’ente e ciò che da esso si distingue e ci consente di pensarlo, che concede all’uomo la possibilità di pensare la totalità dell’ente da un luogo che non coincide con questa medesima totalità; è il tramonto definitivo della differenza ontologica, cioè della differenza tra essere e ente. La metafisica, in questa sua essenza nichilistica, dice Heidegger, è «la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente» 2. E questa storia giunge a termine nel momento in cui la totalità dell’ente è concepita da Nietzsche come volontà di potenza e eterno ritorno dell’uguale. In particolare, la volontà di potenza è ciò in base a cui l’ente come tale è e nel contempo ciò in base a cui esso può venire pensato, in un costante, eterno movimento di autofondazione. Così, Heidegger rintraccia in tutte le nozioni fondamentali del pensiero di Nietzsche il dispiegamento completo e in certo qual modo insuperabile del soggettivismo metafisico. Ovviamente non è possibile non tenerne conto; anche soltanto per segnalare che alla fine, pur (o proprio?) nel tentativo di chiudere i conti, almeno storicamente, con il soggettivismo nietzscheano, ce ne lascia in eredità il problema. Questo non significa che una ipotesi come quella di un declino del soggetto, ossia di una sua irriducibile permanenza ma anche di una sua attenuazione nel pensiero di Nietzsche, tenti di stare a metà strada tra le dichiarazioni di quest’ultimo (la volontà di un superamento, di una distruzione del pensiero del soggetto) e il modo per dir così ipersoggettivistico con cui viene letto da Heidegger. Si tratterà piuttosto di vedere come, nel momento in cui il pensiero tenta di prendere congedo dal soggetto, si ritrova nell’impossibilità di lasciarselo alle spalle. E questo è in fondo un tratto che avvicina moltissimo Heidegger a Nietzsche; quale potrebbe essere in fondo il senso dell’operazione con cui Heidegger indica in Nietzsche il massimo dispiegamento del soggettivismo come momento conclusivo della metafisica se non quello di aprirsi la strada per,
2
M. Heidegger, Nietzsche (1961), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 812.
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Fabio Polidori
dopo averlo definito, un possibile oltrepassamento del soggetto? Così la soggettività diventa l’indice non tanto di un luogo tra gli altri del pensiero ma di quel luogo sempre aperto, questione di fondo e, heideggerianamente, del fondo, del fondamento, sulla quale il pensiero inevitabilmente si ritrova a tornare. Si profila allora una connotazione che può forse venire espressa nel suo tratto di fondo più vasto e perdurante con quella nozione di tragico che marca il primo contatto di Nietzsche con la filosofia. Il soggetto come luogo tragico: il che indica tanto un esito (involontario e comunque imprevisto) della riflessione nietzscheana – e biograficamente si parla talvolta addirittura di una incarnazione – quanto un compito, una via per il pensiero il cui accesso è nelle smagliature e nei cedimenti che distinguono i suoi scopi dichiarati dagli esiti conseguiti. Questi ultimi non ne compromettono il rigore, ma propongono un perimetro tematico, e problematico, al cui interno ci si ritrova a sostare. “Tragico” vuole così intendere, nel contempo, qualcosa di insuperabile e qualcosa di sempre mancato; più ancora: di insuperabile per il pensiero perché sempre mancato dalla riflessione. Come se, dopo aver tentato invano di afferrarsi, la soggettività abbandonasse l’illusione di potersi sbarazzare di se stessa. Forse, e maggiormente attraverso Nietzsche, il pensiero si vede costretto ad assumere questa spaccatura, ad assumersi come questa spaccatura. L’apparente serenità con cui vengono pronunciate sentenze del tipo «Il “soggetto” non è altro che una finzione» 3 non deve perciò trarre in inganno, poiché esse offrono l’immagine condensata di quello spostamento della soggettività con cui questa viene a collocarsi sul piano di una finzione sempre riprodotta: chi, se non un soggetto, potrebbe averla pronunciata? Non quindi una scomparsa o una dissoluzione, ma una permanenza connotata da una cifra diversa. In questo perciò non si an-
3 Frammenti postumi 1887-1888, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. 2, 9[108], p. 55; i testi di Nietzsche sono percorsi da numerosissime dichiarazioni di simile tenore, sia nel caso delle opere pubblicate in vita che, e ancor più, nel Nachlass.
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Necessità di una illusione
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nuncia nemmeno una facile liberazione; al contrario. Per quanto il soggetto sia indispensabile al discorso della verità – la cui caduta significherebbe la liquidazione di tutti i suoi elementi costitutivi, tra i quali anche il soggetto stesso – la consegna della filosofia al piano della finzione o dell’interpretazione non escluderà, implicherà anzi, il permanere del soggetto. Un soggetto fin che si voglia fittizio eppure necessario, la cui ricomparsa è allora da intendersi come risvolto veritativo di cui, paradossalmente, la finzione non può fare a meno. Un’ultima osservazione preliminare: data l’ampiezza del tema e delle letture critiche che lo hanno sino a oggi più o meno direttamente affrontato, un riferimento analitico e dettagliato a queste ultime mi è parso a un certo punto improponibile. Ne sarebbe uscita non una lettura di Nietzsche ma della storia della sua ricezione. Ho dovuto perciò abbandonare il proposito di dar conto puntualmente delle discussioni e delle controversie, così come dei molteplici e anche conflittuali approcci a loro sostegno, che pure mi hanno guidato. Non credo che per questo l’importanza degli autori che vi hanno dato vita ne venga sminuita. Anzi, in misura ancora maggiore a ogni pagina può essere individuata la presenza del debito contratto nei loro confronti. Debito che si profila come quel luogo da cui mi è stato possibile prendere le mosse per dirigermi verso ciò che questa lettura tenta di mostrare. È il luogo dove i testi e l’eredità di Nietzsche si sottraggono ostinatamente a una qualsiasi prospettiva univoca; è, forse anche, il luogo più appropriato a Nietzsche 4.
4 Tuttavia alcuni punti di riferimento, decisivi, non vanno taciuti. Anzitutto, l’ambito più generale è quello della lettura “metafisica” (anti- o ultra-) di Nietzsche. Qui tutto incomincia con Martin Heidegger, in particolare Nietzsche, cit., e «La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”», in Sentieri interrotti (1950), tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968. Quasi contemporaneamente viene pubblicata un’altra lettura “epocale” di Nietzsche, quella di Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), a cura di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002. Non presenta la medesima intonazione di Heidegger – con cui Deleuze per altro non dialoga molto – ma contribuisce a incrementare questo tipo di interesse per Nietzsche (e forse non è del tutto ininfluente sui tempi relativamente brevi in cui uscì la traduzione francese di P. Klossowski (1971) dei due volumi heideggeriani). Entrambi produssero una certa eco in Italia; in maniera più diretta Deleuze, at-
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Fabio Polidori
traverso la vecchia traduzione (1978) dell’editore Colportage di Firenze; Heidegger soprattutto grazie agli studi di Gianni Vattimo. Quest’ultimo d’altronde propose negli anni settanta una interpretazione di Nietzsche legata al problema della liberazione (Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974), che via via andrà modificandosi in ulteriori scritti (Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980; Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1981; Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano 2000). Accanto al territorio nietzscheano, e in riferimento alla questione del linguaggio, le maggiori suggestioni vengono, oltre che da Heidegger, dal grande lavoro sul linguaggio filosofico di Jacques Derrida (che entro i limiti del discorso nietzscheano ha preso la parola, tra l’altro, con Sproni. Gli stili di Nietzsche (1978), a cura di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, e con Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio (1984), tr. it. di R. Panattoni, Il Poligrafo, Padova 1993). Ancora, la questione del soggetto nel suo vincolo con il linguaggio si è sviluppata, in ambito fenomenologico e negli immediati dintorni, attraverso i lavori di Paul Ricœur in Francia e di Pier Aldo Rovatti in Italia. Per limitarci a questo ultimo decennio, del primo vanno ricordati soprattutto i tre volumi di Tempo e racconto (1983-1985), tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1986-1988 e Sé come un altro (1990), tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993; del secondo in particolare Il declino della luce, Marietti, Genova 1988 e L’esercizio del silenzio, Raffaello Cortina, Milano 1992. Testi indispensabili per le indicazioni sull’intrico che avviluppa la soggettività del discorso filosofico, non privi inoltre di importanti, per quanto non massicci, riferimenti a Nietzsche.
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1. IL SOGGETTO ARTISTA. CONTRO LA RAGIONE
Soggetto e ragione Il declino del soggetto allude a una delle svolte di maggiore ampiezza che i testi di Nietzsche hanno prodotto nella cultura contemporanea, portando un attacco deciso a tutte le filosofie della ragione. Queste si sviluppano in maniera imponente sui presupposti e con la scoperta del cogito. Il nesso che unisce le potenzialità della ragione, la sua capacità di afferrare e di conoscere in maniera incontrovertibile il reale, con la certezza e la trasparenza indubitabili del soggetto cartesiano si evidenzia da quel momento in maniera così forte da rimanere sullo sfondo del pensiero successivo senza venire messo in discussione, ininterrogato. La polemica, ma si potrebbe parlare addirittura di lotta, che Nietzsche ingaggia contro la ragione e le sue pretese totalizzanti è considerata uno dei motivi di fondo di tutto il suo pensiero. Di sapore fortemente critico, con esso vengono definitivamente distrutti errori o pregiudizi che si erano originati, tramandati e consolidati lungo il corso della tradizione occidentale, e non soltanto filosofica. Inauguratasi con la nascita dell’uomo socratico, l’uomo della ragione e della morale, con essa vede il tramonto quell’elemento dionisiaco – l’elemento della vita pulsionale, dell’ebbrezza, dell’esaltazione, ma anche della sofferenza e del dolore dell’esistenza – che la grecità presocratica si era sforzata di contenere ma da cui non aveva distolto lo sguardo.
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Fabio Polidori
Tuttavia, va anche detto che se da una parte la critica mossa dal pensiero nietzscheano agli elementi “razionalistici” che innescano la decadenza dell’uomo ha un impatto molto diretto e preciso, è elaborata in numerosissimi luoghi della sua opera e ne percorre in fondo l’intero arco, per quanto riguarda invece la questione del soggetto le cose richiedono una cautela maggiore. Non perché manchino nei testi riferimenti al soggetto, ma piuttosto perché tale questione, nei suoi elementi più espliciti (primo fra tutti: la presunta “identità” soggettiva), rimane come all’interno della critica alla razionalità. Questo vale soprattutto per i testi composti prima degli anni ottanta, in cui la soggettività sembrerebbe presentarsi – ed essere posta a tema di critica – per lo più come una semplice conseguenza, o al massimo un sintomo, un effetto della “ragione”. In sintesi: il nesso ragione/soggetto è sì ben configurato come obiettivo polemico, ma il versante che Nietzsche sceglie come bersaglio principale è quello della ragione, quasi a voler esprimere una linea genealogica il cui elemento predominante è rappresentato da quest’ultima; nella quale si produrrebbe, come suo elemento strutturale, un asservimento, un assoggettamento dell’uomo. D’altro canto però, con il peso e l’importanza che negli scritti più tardi viene ad assumere la nozione di superuomo, si può anche più che ipotizzare una presenza e consistenza tematiche molto accentuate della dimensione del soggetto. Al punto che «Übermensch» non può non far pensare a un potenziamento della soggettività, o per lo meno di qualche suo aspetto. Le conflittuali conseguenze si traggono da sé: se il superuomo è un indice positivo, “costruttivo”, di ciò che Nietzsche ha in mente, con esso si esprime anche una rottura, o almeno una trasformazione degli aspetti che rinsaldano la figura della soggettività alla ragione. Il soggetto, in questo caso, non si esaurisce nella ragione e nella conformità alle sue regole ma, a partire dalla fase in cui compare il tema del superuomo, ne diviene una eccedenza. All’interno dell’antirazionalismo di Nietzsche si presenta così una accezione “positiva” della soggettività; che oltretutto mira a una effrazione del vincolo tra soggetto e ragione. E qui già si affaccia un primo problema: se Nietzsche si muove in una direzione opposta a quella di un rafforzamento delle capacità razio-
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Necessità di una illusione
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nali dell’uomo, anzi, individua in esse un elemento frenante, di decadenza, e posto che il superuomo sia una riqualificazione della soggettività, in quale direzione bisognerà cercare i tratti di questa nuova figura del soggetto dopo che è stata sciolta dal vincolo della ragione? In altre parole, se si intende – come in fondo anche Nietzsche intende – con soggetto ciò che, nella sua trasparente autofondazione cartesiana, non solo regge l’intero edificio della ragione, della scienza, del calcolo, della programmazione, ma esibisce anzitutto la necessità di una identità, di un autoriconoscimento, sarà davvero possibile non ritrovare più alcun elemento, o traccia, di questa soggettività nel superuomo nietzscheano, dal momento che quest’ultimo insorge contro la (infondata e illusoria) identità della ragione?
La soggettività dell’artista e i suoi limiti Una prima risposta (positiva) a questo problema viene in realtà ampiamente sviluppata dallo stesso Nietzsche e procede parallelamente alla sua critica della ragione e della morale. Anzi, si potrebbe addirittura assumere che questa risposta Nietzsche incominci a intravederla nei suoi elementi essenziali, già dalla Nascita della tragedia, quando ad esempio, indica nell’artista lirico la perdita della dimensione soggettiva, la liberazione dalla soggettività. Limitatamente però ai termini entro cui il giovane Nietzsche prende in considerazione la soggettività: come aspetto “individuale”, come identità dell’io: … conosciamo l’artista soggettivo soltanto come cattivo artista e in ogni forma e grado dell’arte pretendiamo soprattutto e innanzitutto superamento del soggettivo, liberazione dall’«io» e assenza di ogni volontà e capriccio individuale; anzi senza oggettività, senza pura e disinteressata contemplazione, non potremo mai credere minimamente a una produzione veramente artistica. […] L’artista ha già annullato la sua soggettività nel processo dionisiaco: l’immagine che ora la sua unità col cuore del mondo gli mostra è una scena di sogno, che dà una figura sensibile a quella contraddizione e a quel dolore originari, oltreché alla gioia originaria dell’illusione. L’«io» del lirico risuona dun-
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que dall’abisso dell’essere: la sua «soggettività» nel senso dell’estetica moderna è un’immaginazione 1.
E, qualche pagina più in là: Noi sosteniamo invece che […] il soggetto, l’individuo che vuole e promuove i suoi scopi egoistici, può essere pensato solo come avversario, non come origine dell’arte. In quanto però il soggetto è artista, esso è già liberato dalla sua volontà individuale ed è diventato per così dire un medium, attraverso il quale l’unico soggetto che veramente è [scil.: Dioniso] celebra la sua liberazione nell’illusione 2.
Solo due brevi considerazioni, almeno per il momento. Anzitutto l’io, la soggettività individuale, quella che insomma può – e potrà sempre più – coniugarsi con la ragione, si presenta già come un qualche cosa di derivato: eco, risonanza di quell’«unico soggetto che veramente è», ossia quell’unità e quell’indistinzione originarie in cui si annullano tutte le individualità, le singolarità e le identità individuali. In secondo luogo, il prodursi e insieme il dissolversi della soggettività individuale accadono nell’artista, in chi cioè, privandosi «di ogni volontà e capriccio individuale», può dare vita a una «figura sensibile» della «contraddizione» e del «dolore» originari, del mondo del dionisiaco. Sarebbero sufficienti questi due aspetti del modo in cui Nietzsche intende la soggettività per percepire già un preciso sovvertimento, una negazione e un rifiuto di quel nesso tra soggetto e ragione che sostiene il pensiero filosofico nel corso della sua storia e che si destina a un progressivo rafforzamento nell’età moderna. E di conseguenza anche una conflittualità, o almeno una oscillazione, interna al suo stesso pensiero nel significato da attribuire alla nozione di “soggetto”. Oscillazione nella quale già forse si preannunciano le difficoltà che si presenteranno nel momento in cui del soggetto Nietzsche si vorrà definitivamente sbarazzare.
1 2
La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, vol. Ivi, pp. 44-45.
III,
t. 1, pp. 40-41.
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Qui, in fondo, la lotta viene ingaggiata tra una soggettività che si potrebbe anche sommariamente definire “buona” e una soggettività “cattiva”, tra i diversi valori che possono venire acquisiti, magari dagli stessi individui. Il che distoglie lo stesso Nietzsche dal pensare alle intersezioni, agli elementi di identità che permangono, sul piano della soggettività, tra i due versanti: quanto meno per il fatto che il soggettoartista in parte si configura anche “per via negativa” in relazione al soggetto della volontà, del capriccio individuale. E ciò va detto nonostante la portata eversiva e critica che hanno avuto e hanno sentenze quali «il soggetto è l’artista» che, proprio come in questo caso specifico, possono venire lette come un venire in primo piano dell’arte e un suo contrapporsi alla verità. Se poi a questa si fa seguire per esempio un frammento che risale alla metà del 1888, pochi mesi prima della follia, in cui si afferma che «l’arte ha più valore della verità» 3, è possibile profilare un tratto di fondo del pensiero nietzscheano che accompagna tutto il percorso della sua riflessione. Questa tesi può essere assunta in tutta la sua compattezza, e pesantezza: Nietzsche, per quanto riguarda la soggettività, pare situarla nel più ampio contrasto tra arte e verità, tra l’uomo della creazione (colui che impone nuove forme, che sovverte i valori stabiliti dalla morale, dalla ragione) e l’uomo della conoscenza, che invece si assoggetta ai canoni della ragione e ai limiti entro cui questa pretende di racchiudere il pensiero. Se perciò la tradizione filosofica si riconosce nel percorso lungo il quale la soggettività è venuta sempre più identificandosi con la conoscenza e con la ricerca della verità entro il tracciato definito dalla ragione, il gesto filosofico di Nietzsche, se visto solo per contrasto, si protenderebbe verso una cancellazione di questo soggetto (che però è il soggetto della filosofia) e a una riqualificazione, che si può addirittura pensare nel senso di un potenziamento dell’uomo in termini extrarazionali. Ma l’ipotesi di un Nietzsche irrazionalista, oltreché abusata, è filosoficamente irrilevante. Così come sarebbe irrilevante e filosoficamente
3
Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di S. Giametta, vol.
VIII,
t. 3, 17[3], p. 312.
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improduttiva la volontà di contrapporre, o di mantenere contrapposte e in antagonismo, posizioni “razionalistiche” e “irrazionalistiche” in qualche modo già date per acquisite. Piuttosto, il percorso da seguire si dirige da questo primo contrasto all’interno della soggettività a quello spazio di questionabilità che Nietzsche apre – o che con Nietzsche si apre – per il soggetto nel suo tentativo di prendere le distanze dalla ragione; e non solo attraverso la rapida scorciatoia dell’arte, ma anche per via filosofica. Per poi vedere come la spinta che i testi nietzscheani imprimono verso un tramonto definitivo della soggettività (e della filosofia che in essa si riconosce) non approdi a una liquidazione compiuta del soggetto. Perciò, dato che è in gioco la liberazione dell’uomo dai limiti imposti dalla ragione alla soggettività, la questione investe il come, se non il perché, questa liberazione non si realizzi completamente e porti con sé costantemente il residuo, il vincolo di una identità soggettiva.
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2. ARTE, VERITÀ, VALORE
Dioniso Nella Nascita della tragedia dunque, si manifesta già una tensione critica molto accentuata nei confronti dell’identità individuale. Nietzsche parla di “io” e lo fa in riferimento alla dimensione dell’artista: nell’arte, l’arbitrio e il capriccio individuale si rivelano inadeguati a comprendere quale sia la fonte dell’opera. E sebbene il punto focale del suo discorso sia interno alla tragedia attica e al passaggio che all’epoca si verifica, con Socrate, verso l’ottimismo razionalistico e il definitivo tramonto del senso tragico per l’esistenza, gli elementi della riflessione nietzscheana portano ben oltre un approccio circoscritto alla filologia o all’estetica. Anzitutto, l’evento che segna la scomparsa dell’attenzione per l’elemento dionisiaco, cioè la nascita dell’uomo socratico, inaugura una fase epocale che non si limita alla civiltà greca ma che si prolunga, nel suo tratto di fondo, sino al presente. Nietzsche la considera sotto il segno della decadenza, e lungo il suo corso e attraverso eventi storici di grande portata ne mette in risalto gli effetti destinali. Come ad esempio la nascita del cristianesimo, che per Nietzsche può essere compresa solo come volgarizzazione, e quindi entro i presupposti, del platonismo. Un «platonismo per il “popolo”» 1, dove tutto ciò che non è assumibile en-
1
Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. 2, p. 4.
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tro l’universo razionale viene screditato, allontanato, rifiutato come non veramente esistente, quindi come peccato. In secondo luogo poi, Nietzsche non considererà mai la Nascita della tragedia semplicemente come un’opera giovanile. Pur criticandone in seguito il forte debito nei confronti di Schopenhauer e Wagner, dai quali gli erano provenute numerose suggestioni, l’impianto di quest’opera, la sua lettura del tragico e del suo significato per l’uomo, e forse addirittura la venatura nostalgica per questa origine scomparsa tendono a permanere, magari sullo sfondo, in tutta l’opera nietzscheana 2. Come per esempio la figura di Dioniso, il dio dell’ebbrezza, della gioia, ma anche della sofferenza, della dilacerazione, del dolore senza riscatto perché è distruzione del principium individuationis, smembramento e annientamento di ogni causalità o finalità. È il dio dagli infiniti volti, in cui coesistono l’estrema leggerezza e la pesantezza più greve. Dioniso lo si ritrova implicato in tutte le parole chiave del pensiero di Nietzsche: nella volontà di potenza, che è l’espressione in base a cui Nietzsche concepisce la totalità di ciò che è, una totalità che non possiamo individuare, afferrare con un concetto perché essa è il «mondo dionisiaco del perpetuo creare e distruggere» a cui non può essere attribuito un senso, un significato unitario o univoco. E Dioniso è anche perciò figura dell’eterno ritorno, di questo creare e distruggere che ritornano eternamente, in cui non soltanto si distrugge la stabilità, la pre-
2 Il che può confermarsi – prima ancora che attraverso la ricomparsa o ripresa delle tematiche dell’opera giovanile nei testi più tardi – semplicemente dalla attenzione che Nietzsche continua a dedicare a questo scritto. Nel quale riconosce il primo momento del suo filosofare. Come per esempio accade, oltre che nelle pagine di Ecce homo rivolte espressamente alla Nascita della tragedia (cfr. tr. it. di R. Calasso, vol. VI, t. 3, pp. 318-324), nel Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. 3, p. 161: «E così io torno a toccare il punto da cui una volta presi le mosse – la Nascita della tragedia è stata la mia prima trasvalutazione di tutti i valori […] – io, l’ultimo discepolo del filosofo Dioniso, – io, il maestro dell’eterno ritorno…» A questo libro Nietzsche dedica inoltre numerosi appunti per integrazioni e revisioni a distanza di parecchi anni; cfr. in particolare Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, vol. VIII, t. 1, 2[110], pp. 102-104 e 2[113], pp. 105-106; Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14[14-26], pp. 1521. Si veda anche il «Tentativo di autocritica», comparso con la terza edizione della Nascita della tragedia nel 1886.
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tesa di stabilità e di sussistenza di ciò che è, ma è confutata una concezione lineare, quindi finalistica e escatologica del tempo. Dioniso è l’impossibilità di attribuire un senso unitario a tutto ciò che è nel tempo, un «divenire senza sazietà», che non si compie ma eternamente ritorna 3.
Arte e verità in dissidio Infine, alla luce del dionisiaco è possibile leggere il già menzionato dissidio tra l’arte e la verità. È un contrasto che, com’è noto, viene po-
3 Vale la pena di riportare per intero il frammento che forse più e meglio fra tutti indica la prossimità e l’unità fra le parole-chiave del pensiero nietzscheano più tardo, volontà di potenza e eterno ritorno dell’uguale, e la figura di Dioniso. Quest’ultima, soprattutto nella sua qualità affermativa ma anche e simultaneamente disgregativa, andrebbe costantemente tenuta presente quale aspetto intrinseco e proprio sia alla volontà di potenza che all’eterno ritorno. Questo spunto verrà ripreso più ampiamente nei capitoli 6 e 7; per ora, ecco il testo di Nietzsche, in Frammenti postumi 1884-1885, tr. it. di S. Giametta, vol. VII, t. 3, 38[12], pp. 292-293: «E sapete anche cos’è per me “il mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio specchio? Questo mondo: un mostro di forza, senza principio e senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più piccola, che non si consuma ma soltanto si trasforma, in complesso di grandezza immutabile, un’amministrazione senza spese né perdite, ma del pari senza accrescimento, senza entrate, un mondo attorniato dal “nulla” come dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente esteso, ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e non in uno spazio che sia in qualche parte “vuoto”; piuttosto come forza dappertutto, come giuoco di forze e onde di forza esso è in pari tempo uno e “plurimo”, che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di forze tumultuanti e infurianti in se stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso, con anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, passando dalle più semplici alle più complicate, da ciò che è più tranquillo, rigido e freddo a ciò che è più ardente, selvaggio e contraddittorio, e ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in eterno, come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza: questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se un anello non ha buona volontà verso se stesso – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? Una luce anche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!»
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sto già da Platone quando condanna l’arte in quanto imitazione; se il mondo vero è il mondo delle idee, di cui il mondo sensibile costituisce una copia, l’arte, in quanto copia di questa copia, si distanzia ancor più dalla verità. Se Platone inaugura questo conflitto tra l’arte e la verità, Nietzsche lo assume capovolgendone il senso: «l’arte ha più valore della verità» 4, scrive in uno dei suoi appunti più tardi. Egli così non solo vuole invertire la gerarchia tra due aspetti o campi di azione dello “spirito”, ma soprattutto intende prospettare una nuova costituzione del reale: il sensibile, il mondo del divenire, il mondo della continua trasformazione, instabile, transitorio, inafferrabile avrebbe più valore di quello stabile, immutabile e permanente. Vale la pena qui di aprire una breve parentesi su questo importante luogo del pensiero di Nietzsche e chiamare in causa la lettura che ne dà Heidegger. Tra l’altro, la posizione di Nietzsche sull’arte viene da Heidegger accreditata di grandissima importanza, al punto che sarà questa la nozione intorno a cui egli inaugurerà il suo confronto con le principali parole-chiave nietzscheane 5. Come è noto, Heidegger individua in Nietzsche un fondamentale accordo con la posizione platonica, di cui il suo pensiero sarebbe l’esito estremo e il compimento. Se Nietzsche capovolge i termini del dettato platonico, dice Heidegger, ciò significa però anche che ne rimane all’interno per ciò che riguarda l’assunto di fondo; e necessariamente anche per il modo di interpretare e intendere le nozioni di “arte” e di “verità”. Queste ultime, nonostante il loro «appassionante dissidio», rimandano all’unità metafisica che si esprime nel carattere prospettico della vita: «Ora vediamo anche in quale misura il rapporto di arte e verità debba essere per Nietzsche, e per la sua filosofia in quanto platonismo rovesciato, un dissidio. V’è dissidio soltanto là dove i termini che si dividono devono divergere partendo dall’unità del coappartenere e passando per essa» 6.
4 5
Frammenti postumi 1888-1889, cit., 17[3], p. 312. Il primo capitolo del Nietzsche si intitola proprio «La volontà di potenza come
arte». 6
M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 212, tr. it. modificata.
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È in gioco la posizione metafisica di Nietzsche: il senso, necessariamente unitario, di ciò che è. E per Heidegger Nietzsche interpreta la totalità dell’ente in maniera univoca a partire dalla nozione di vita, omologabile a quella di volontà di potenza. All’interno di questa posizione l’ente e il suo essere pensato vengono ricondotti a un medesimo fondamento, vengono a coincidere. Il che significa che della loro differenza, della differenza ontologica, non vi è più traccia. Nietzsche insomma, riportando la verità a quel carattere prospettico in cui si esprime il vivente – creazione e imposizione di forme: in fin dei conti attività “artistica” – sarebbe giunto a una identificazione completa di ciò che è. Sarebbe giunto a pensare cioè l’ente nella sua totalità nella maniera più stabile, riconducendo a esso il principio della sua stessa “pensabilità”, e questo nei termini di un radicale prospettivismo. In fin dei conti però, per quanto la nozione di prospettivismo vada in senso contrario a ciò che tradizionalmente si è inteso con “verità” (al punto da essere assimilabile all’arte), con essa si acquisisce una interpretazione definitiva, unitaria, stabile – e perciò metafisica, e ancora una volta “vera” – della totalità dell’ente in relazione al suo essere pensabile. È proprio questa esigenza – il tendere a questa stabilità e giungervi nel modo che si è detto – ciò che fa di Nietzsche l’ultimo e più completo interprete della storia della metafisica. Ma proprio in quanto alla lettura heideggeriana di Nietzsche si deve moltissimo – anche per ciò che viene qui discusso – è forse in questo caso lecito discostarsene un pochino, almeno per ciò che attiene a una sfumatura di accento. Sarebbe forse possibile infatti intravedere all’interno del conflitto tra la verità e l’arte un tentativo, da parte di Nietzsche, di muovere verso la soppressione di un pensiero stabile del reale, di un pensiero della totalità dell’ente in termini di verità. Possiamo ricorrere per un momento ancora alla figura di Dioniso: all’interno di questo discorso si potrebbe ritenere che con essa non sia tanto la stabilità (per quanto prospettica) dell’ente a essere oggetto della critica di Nietzsche, quanto invece la stabilità – la verità – che all’ente, in termini di totalità, viene accordata dal pensiero; e da ultimo la possibilità di verità per il pensiero. Il fatto che la verità importi in primo luogo non tanto per il suo oggetto – in questo caso la risposta a «che cosa è ente?» –
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quanto invece per il suo soggetto – lo stesso porre la domanda per ottenerne una risposta univoca –: in ciò si esprime, prima ancora del bisogno di una versione soddisfacente del “reale”, il bisogno di una versione soddisfacente del pensiero stesso; e appunto nei termini della stabilità e della univocità: in termini di verità 7. Ecco, che una questione di questo tipo non sia del tutto estranea a Nietzsche potrebbe venire convalidato dal fatto che la verità e l’arte sono pensate qui da lui anzitutto sulla base dell’elemento del valore.
Verità e valore Nel capovolgere la posizione di Platone, Nietzsche non si limita a invertire una gerarchia, a mettere cioè l’arte al posto della verità, in quanto più vera della verità. Che l’arte abbia più valore della verità è anzitutto una critica alla pretesa di verità da parte del pensiero. Nietzsche non intenderebbe tanto affermare che l’arte è più vera della verità stessa, quanto invece sciogliere il pensiero dal vincolo alla stabilità e alla sussistenza che si pone assumendo la verità come valore supremo. Se il pensiero può scorgere nell’arte un valore più alto, ha la possibilità di non riconoscersi più nella verità in quanto ambito di stabilità. Il senso del pensare non può più, secondo Nietzsche, essere tutto contenuto nella stabilità, da cui il concetto di verità ha da sempre tratto il suo valore supremo. Questo è però già implicito nel fatto che, valga più o meno dell’arte, l’essere assimilata a un valore è per la verità un radicale mutamento di essenza. La verità, come è stata concepita, non può avere la stessa natura del valore. Il valore è ciò che vale per e in funzione di qualcosa e perciò rimanda sempre ad altro da sé, è privo di autosussistenza; la sua essenza è custodita altrove, come del resto è attestato dallo stesso prospettivismo di Nietzsche. La verità invece è ciò che il pensiero, nel suo
7
Su ciò si tornerà in maniera più articolata nei capitoli dedicati alla volontà di po-
tenza.
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tratto parmenideo-platonico, non può che concepire come autonomo e assoluto, come ciò che non può rimandare ad altro da sé (sarebbe già un divenire nella, e quindi della, verità; perciò una contraddizione) ma che rimane saldo in se stesso al di fuori e al di sopra di tutto il mutevole, di tutto quanto diviene. In questo senso la verità non solo non può venire interpretata come qualcosa che vale, ma addirittura deve invece venire intesa come ciò a partire da e in riferimento a cui ciò che vale trae la propria validità; nella prospettiva della tradizione filosofica, così come viene intesa e criticata da Nietzsche, la verità è il luogo dei valori, è ciò che si pone al di sopra del carattere contingente del valere considerato di per sé di cui costituirebbe anzi l’origine. Se l’arte ha più valore della verità non solo e non tanto si afferma qualcosa circa il rapporto tra verità e arte, ma si indica soprattutto una precisa trasformazione nel modo di concepire la verità stessa. Se la verità è un valore, non è più il luogo da cui i valori traggono la propria origine ma è, in quanto valore, non più assoluta e immutabile: trae la propria validità da altro da sé. L’inversione del rapporto tra arte e verità affermata da Nietzsche costituisce così una vera e propria presa di posizione ontologica: l’essere, in quanto pensabilità di tutto ciò che è, della totalità dell’ente, non ha il suo carattere di fondo, il suo fondamento nella stabilità, nella saldezza della verità che lo renderebbe pensabile in base a un principio unico. La totalità dell’ente è pensabile per Nietzsche solo come valore; perciò in riferimento a un luogo da cui i valori provengono, ma che non è più identificabile con la verità. La assoluta stabilità che il concetto di verità implica si rivela ingannevole e illusoria. Entro questa interpretazione della verità, nozione su cui il pensiero ha riversato i suoi investimenti maggiori, si gioca una questione di importanza storica decisiva. Sarebbe sufficiente considerare questa tesi di Nietzsche alla luce delle molteplici forme che viene ad assumere, soprattutto nella Genealogia della morale 8; e che si riassume in quella fa-
8 Si vedano soprattutto le pagine finali della Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, vol. VI, t. 2, dove Nietzsche prende in esame il modo in cui persiste nell’u-
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mosa pagina del Crepuscolo degli idoli che traccia il percorso della verità iniziato con Platone 9. Testo importante non tanto per la ricostruzione che vi si fa delle varie tappe storiche, ma soprattutto per l’idea che lo ispira: la verità come immagine che va via via modificando il modo in cui il pensiero si concepisce, si contempla. E in fondo, che la verità possa avere una storia è già la sua negazione, quanto meno per una verità come quella che sostiene l’intero edificio della metafisica.
manità, nell’uomo, la necessità di una meta per il proprio volere, che altro non esprimerebbe se non una insopprimibile volontà di verità. Il che per esempio rende impossibile lo spirito libero: «Ancora sono ben lontani costoro dall’essere spiriti liberi: poiché ancora essi credono alla verità…», p. 355. E ancora: «… quella assoluta volontà di verità, è la fede nello stesso ideale ascetico, sia pure come suo imperativo inconscio, non ci si inganni al riguardo – è la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità…», p. 356. 9 Testo fondamentale, che giova riportare integralmente. Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 75-76: «COME IL “MONDO VERO” FINÌ PER DIVENTARE FAVOLA Storia di un errore 1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”). 2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”). (Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…). 3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica). 4. Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?… (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo). 5. Il “mondo vero” – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi). 6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).»
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Qui però è necessaria una constatazione di fondo: sia invertendo il rapporto che sussiste tra la verità e il valore – per cui come si è visto per Nietzsche la verità non è più luogo di provenienza dei valori ma è divenuta essa stessa un valore –; sia poi facendo precedere, dal punto di vista del valore, l’arte alla verità, l’intenzione ultima di Nietzsche non è in realtà quella di eliminare la verità. Egli non toglie di mezzo la verità, né vuole negarne il senso, ma si limita a cambiare il significato di ciò che il termine “verità” può rappresentare per il pensiero. Dicendo che, dopo tutto, la verità non è ciò che il pensiero ha sempre ritenuto che fosse, ossia il luogo della certezza e della stabilità, ma che è un valore. Essa ha, rispetto al pensiero, una certa funzione; magari è anche necessaria, indispensabile, e tuttavia non assoluta. Inoltre, non è nemmeno la cosa più utile, perché più utile è l’arte.
Valore e trascendenza Per tentare un chiarimento ulteriore, va sottolineato come l’elemento critico con cui Nietzsche cerca di prendere le distanze da una interpretazione del pensiero ancora legata a una originaria fondazione della metafisica, non sta nel fatto che al posto della verità viene posta l’arte (tra parentesi, questo escluderebbe anche una possibile interpretazione in senso irrazionalistico di questa sentenza di Nietzsche, e di altre); quanto invece che il luogo tradizionalmente occupato dalla verità, dal carattere eterno e immutabile dell’identità cui il pensiero si è sempre affidato quale unico punto di riferimento, è da lui indicato nel valore. Ma di quale valore si tratta? È forse possibile risalire a una qualche forma concreta o positiva di valore? Se così fosse, si ricadrebbe nuovamente nell’ambito della verità, assumendo che quel preciso valore vale al di là di ogni contingenza, è perciò immutabile e da esso proverrebbero tutti gli altri valori. Non può trattarsi allora di nessun valore, particolare o universale; si tratta piuttosto di indicare come, e quanto, il pensiero ha a che vedere con il valore, con i valori. La condizione è di tenere ben presente una distinzione fondamentale che Nietzsche introduce tra il valore
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e la verità: quella per cui la verità occupa necessariamente il piano della trascendenza, che le accorda immutabilità e stabilità; mentre la natura del valore è dell’ordine della imposizione (“soggettiva”) di forme; il che però non implica – tutt’al più consente – la fede nella immutabilità e stabilità di queste ultime. Come si può vedere in un importante frammento che situa l’origine del valore nell’attività prospettica del vivente: Il punto di vista del «valore» è il punto di vista delle condizioni di conservazione e di potenziamento rispetto a strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire; – non ci sono unità durevoli ultime, non atomi, non monadi… 10
Se perciò il valore assume una importanza decisiva per il pensiero, bisogna fare molta attenzione a non dislocarlo là dove da sempre è stata situata ogni immagine in cui il pensiero abbia riconosciuto la propria validità: esteriormente a esso, su un piano cioè trascendente. Per non ricadere nella illusione platonica di un mondo vero di forme immutabili e intemporalmente essenti, di un mondo vero in quanto trascendente e sovrasensibile, Nietzsche traspone la natura di ciò che vincola il pensiero all’interno del pensiero stesso, ampliando e nel contempo rendendo più complessa la sua struttura, per dir così, soggettiva.
Verità e illusione Si dovrebbe però, a questo punto, cercare di comprendere perché, secondo Nietzsche, l’arte ha più valore della verità. È una affermazione che trasforma lo statuto della verità, che indebolisce il peso di quest’ultima in relazione al pensiero. Ma per ciò potrebbe anche suonare un po’ fuorviante. Se infatti si assume che per il pensiero è necessario che qualcosa valga, non dovrebbe essere più che una conseguenza il fatto che qualcosa valga più di qualcos’altro, che l’arte abbia più valore della ve-
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Frammenti postumi 1887-1888, cit., 11[73], p. 247.
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rità. Eppure Nietzsche sostiene che il punto di vista del valore non è indifferente, che non solo c’è un preciso vincolo tra il pensiero e il valore ma che la natura di questo vincolo può essere chiarita e portata alla luce soltanto attraverso l’arte e il rapporto che sussiste tra l’arte e la verità. L’affermazione su cui ci si è soffermati finora (l’arte ha più valore della verità) risale agli ultimi mesi prima del crollo definitivo e si trova alla fine di un frammento abbastanza lungo della tarda primavera del 1888 che fu inserito dalla sorella di Nietzsche nella Volontà di potenza, ma che egli stese in vista di una elaborazione di alcuni temi della Nascita della tragedia: … La vita deve ispirare fiducia: il compito, posto in questo modo, è immane. Per assolverlo, l’uomo deve essere, già per sua natura, mentitore, deve essere, più che qualsiasi altra cosa, artista. Ed egli lo è anche: metafisica, religione, morale, scienza: non sono altro, tutte, che emanazioni della volontà dell’uomo di ricorrere all’arte, di mentire, di fuggire di fronte alla «verità». La facoltà stessa, grazie alla quale egli fa violenza alla realtà mediante la menzogna, questa facoltà artistica per eccellenza dell’uomo: egli l’ha in comune con tutto ciò che è […]. L’arte e nient’altro che l’arte! Essa è la grande creatrice della possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere […]. Ma la verità non vale come supremo criterio di valore, ancor meno come potenza suprema. La volontà di parvenza, di illusione, di divenire e di cangiamento (di illusione obiettiva) vale qui come più profonda, più originaria, più metafisica della volontà di verità, di realtà, di essere: – quest’ultima a sua volta non è altro che una forma della volontà di illusione […]. Nessuno, a quanto sembra, potrebbe farsi, più severamente dell’autore di questo libro [Nascita della tragedia], portavoce di una negazione radicale della vita, di un vero fare di no più ancora che di un dire di no nei riguardi della vita. Solo che egli sa, – perché lo ha vissuto, perché forse non ha vissuto se non proprio questo! – che l’arte ha più valore della verità 11.
Non è difficile a questo punto comprendere quale sia il nesso che unisce l’arte alla verità, il terreno comune su cui entrambe poggiano e il motivo per il quale la prima ha più valore della seconda: «la vita deve ispi-
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Frammenti postumi 1888-1889, cit., 17[3], pp. 309-312.
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rare fiducia» e per questo l’uomo deve essere «mentitore», anzi, deve mentire nel modo più estremo, deve essere «artista». E con questo Nietzsche stabilisce che l’arte è una forma di menzogna, anzi è la forma più alta di menzogna. Ma a fermarsi a questa considerazione, che l’arte è menzogna, si ricade immediatamente entro la visione platonica dell’arte, che sarebbe quanto si distanzia di più dalla verità, e quindi anche per Nietzsche l’arte continuerebbe a essere intesa come una forma di non-verità. Così egli avrebbe assunto surrettiziamente la verità come ciò in base a cui si giudica l’arte; la verità sarebbe posta di nuovo come più originaria dell’arte e non si comprenderebbe in virtù di che cosa allora l’arte possa avere più valore della verità, tranne che per una semplice velleità di privilegiare la dimensione estetica, la dimensione del bello, a scapito della conoscenza. In realtà, quel che Nietzsche intende per menzogna non ha niente a che vedere con la verità come criterio di uniformità o conformità al vero; perché le cose stiano così, sarebbe necessario postulare l’esistenza di un vero in sé, cosa che Nietzsche rifiuta recisamente. Del resto, come si è appena visto, l’arte non nega o scredita il conoscere, ma anzi viene intesa come una forma ancora più profonda del conoscere: la menzogna come la forma più alta del conoscere, la conoscenza tragica. Cercando una determinazione di che cosa sia e che cosa intenda Nietzsche per valore, si trova che ciò che vale è la menzogna; non però in quanto si contrappone alla verità ma come una forma più alta (“artistica”) della verità stessa da cui questa deriverebbe. Nietzsche lo afferma in modo molto esplicito e perentorio: «La volontà di parvenza, di illusione, di divenire e di cangiamento (di illusione obiettiva) vale qui come più profonda, più originaria, più metafisica della volontà di verità, di realtà, di essere: – quest’ultima a sua volta non è altro che una forma della volontà di illusione». L’arte ha più valore della verità in quanto ciò che è essenziale all’arte – la volontà di illusione, di divenire, di cambiamento ecc. – è necessaria alla verità stessa; la quale non è altro che una forma derivata da questa volontà di illusione. È la verità a provenire dall’arte, attraverso un oscuramento di ciò che costituisce un tratto essenziale per l’uomo, o forse il suo tratto essenziale: «l’uomo deve essere, già per sua natura, mentitore, deve esse-
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re, più che qualsiasi altra cosa, artista». E in rapporto a che cosa l’arte e la verità valgono, la prima più della seconda? «L’arte e nient’altro che l’arte! – scrive Nietzsche – Essa è la grande creatrice della possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere». Allora è chiaro che ciò in virtù di cui l’arte ha più valore della verità, in quanto è il luogo stesso da cui proviene il valore, da cui provengono i valori, è la vita. L’arte rappresenterebbe così ciò che consente, che dà la possibilità di vivere. La possibilità di vivere l’uomo la trova essenzialmente nell’arte, nella creazione di menzogne, di parvenze, di illusioni. Non è difficile a questo punto comprendere che senso e quale portata abbia per la visione che Nietzsche ha del pensiero il fatto che l’arte è ciò che consente all’uomo di vivere: pensare non è in primo luogo tendere alla verità, adeguamento dell’intelletto alle cose, non è un’attività metafisica volta anzitutto al luogo dell’identità, del discorso univoco del logos, dell’essere come ciò che è veramente in quanto stabile e immutabile; pensare è essenzialmente e originariamente creazione, produzione di illusioni e di parvenze, indispensabili alla vita. Di conseguenza, il valore stesso è ciò in cui sta la misura di quanto queste forme di illusione siano utili o indispensabili al vivere. Di tutta la riflessione di Nietzsche la lotta contro la verità è un tratto costante. Ma bisogna aggiungere: solo quando la verità copre la sua natura illusoria. La verità ha pur sempre un valore; ma va combattuto l’atteggiamento nei confronti della verità o, se si vuole, contro un certo modo di intendere la verità. A rigore, questa interpretazione della verità (e già il fatto che della verità possa esserci una interpretazione…) perde immediatamente il suo oggetto. Nel senso che così parlando della verità, è ovvio, la si distrugge. Resta però che Nietzsche vede come non sia facile (o possibile?) sbarazzarsi della verità e come essa ci richiami al compito paradossale di parlarne. In che modo si può allora intendere la verità? Si è visto come la verità, pur essendo un’attività che non si contrappone radicalmente all’arte, alla volontà di illusione e di creazione di parvenze e di forme, si distingua dall’attività artistica. Anche la verità è illusoria, afferma Nietzsche, è anzi una forma derivata dell’illusione originaria necessaria alla vi-
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ta e che è rappresentata dall’arte. Ma ciò che fa sì che a un certo punto la verità entri in conflitto con l’arte, che rappresenti cioè un elemento contraddittorio all’interno della vita stessa che originariamente l’ha prodotta, è il suo modo di valere, il significato che a essa viene attribuito dal pensiero: verità è una forma dell’illusione, la quale ha però volto le spalle al luogo da cui ha tratto origine, lo ha cancellato e si è posta su un piano di stabilità e di immutabilità, di validità eterna. Il senso della forma, dell’imposizione di una determinata forma a ciò che ne sarebbe originariamente privo si è trasformato. In principio, ripetendo la concezione dionisiaca della Nascita della tragedia, il mondo apollineo di forme plastiche al di sopra del caos è indice di una assunzione di quest’ultimo, della sofferenza, del dolore, della dilacerazione. L’artista è «colui che scorge il carattere spaventoso e problematico dell’esistenza, anzi lo vuole scorgere, colui che ha la conoscenza tragica»; e non solo lo scorge, «ma anche lo vive, vuol viverlo; dell’uomo tragico bellicoso, l’eroe» 12. Ma questa assunzione si trasforma, diventa rimozione. Rimozione che significa anche negazione di ciò che è più proprio alla vita, ossia, potremmo dire, della instabilità della vita stessa. E qui si potrebbe indicare un significato di ciò che Nietzsche intende con l’espressione «conoscenza tragica»: una conoscenza le cui forme (necessariamente stabili) sono un differimento del caos, dell’instabilità e di quel mondo dionisiaco che è loro dissoluzione, dissoluzione del soggetto, dell’artista stesso che le produce. La conoscenza eroica, la conoscenza tragica è sì imposizione di forme e di stabilità al caos ma come ciò cui è preclusa di fondo ogni stabilità e ogni identità solida e immutabile. La vita, in quanto ha bisogno dell’arte, dell’imposizione di forme al caos, è questo medesimo paradosso, dove ogni forma stabilmente acquisita si produce da uno spaesamento originario e vi si riconduce. È in questo senso allora che l’arte, la quale nell’epoca tragica non si sarebbe distinta dalla conoscenza, ha più valore della verità per la vi-
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Ivi, p. 311.
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ta. La conoscenza, per Nietzsche, deve mirare alla sua essenza artistica, cioè assumere la propria instabilità, la propria contingenza e la propria precarietà per adeguarsi a cogliere quella “verità”, che egli scrive con le virgolette, di fronte a cui l’uomo è costantemente tentato di fuggire proprio in quanto in essa ogni saldezza e afferramento del mondo, e di se stesso, si rivelano illusorie. Necessità della menzogna allora; ma perché? Per quale motivo è necessario che vi sia menzogna? Per quale motivo è necessario che vi sia un qualcosa come l’arte, in quanto imposizione di forme, di leggi al caos, e quindi anche di verità? Perché, da ultimo, la vita avrebbe la necessità di fuoriuscire da se stessa, avrebbe bisogno di una «illusione obiettiva», ossia di conoscenza? E poi, di quale tipo di conoscenza? Se Nietzsche la chiama «conoscenza tragica» non ignora la sua contraddittorietà, il paradosso per il quale ogni forma, ogni creazione, pur sorgendo dal bisogno di individuazione, di oggettività, e quindi di stabilità, è radicalmente instabile, fittizia. Ma ancora: perché, se alla vita è necessario affidarsi all’illusione, criticare proprio la verità, quella forma della volontà di illusione che, attribuendo a tutte le parvenze e immagini da essa create il massimo di stabilità, dovrebbe considerarsi l’illusione meglio riuscita, quella che salvaguarda di più dal pericolo, dall’orrore del caos? E, più in fondo: perché alla vita è necessaria l’illusione? Sono tutte domande che credo sia lecito porsi nei confronti di Nietzsche. Ma per rispondervi bisogna tenere fermo che, tragica o meno, è necessario un qualcosa come la conoscenza, sia essa riferita all’artista come creatore di forme, o all’uomo della conoscenza razionale che obbedisce ai principi della verità. Quando Nietzsche per esempio parla di illusione obiettiva, di un’illusione il cui porsi è un oggettivare, un individuare un qualcosa come altro da sé, riconoscerlo in una determinata forma o configurazione, che cosa lascia intendere propriamente? Se è necessario, per la vita stessa, porre un elemento oggettivo, non bisogna forse ritenere che Nietzsche stia anche pensando a un elemento soggettivo, a un elemento di soggettività? E dove si dovrà cercare questo elemento di soggettività, se non nella vita stessa? In base a ciò, e magari solo provvisoriamente, si può forse concludere che tutto quanto Nietzsche intende con “vita” non
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sia altro che un principio, o addirittura una forza soggettiva che produce al proprio interno e in virtù della medesima forza un oggetto, gli oggetti, l’oggettività? Ma questo sarebbe un modo per liquidare immediatamente Nietzsche e tutto il suo pensiero secondo una formula idealistica che certo non riuscirebbe a dar conto del perché poi, per esempio, Nietzsche giudichi la comparsa della verità, o meglio delle verità di ragione, come un segno di decadenza, come un andare contro la vita, come nichilismo in quanto negazione di ciò che è per la vita essenziale. Oltretutto, volendo attribuire immediatamente alla vita il carattere della soggettività, ci si ritroverebbe in mano una nozione, una equazione (vita = soggettività) che potrebbe suonare come una sorta di biologismo metafisico a cui tutta la realtà potrebbe essere ricondotta quale suo fondamento ultimo.
Il soggetto illusorio Il fatto che Nietzsche si richiami alla necessità della conoscenza, e in particolare di una conoscenza tragica, della conoscenza artistica, e che l’arte sia considerata «il grande stimolante per vivere», apre invece la strada a una questione che si rivela molto più complessa, in cui sarà difficile trovare un saldo punto di appoggio da cui far poi derivare tutte le conseguenze e le spiegazioni. Esiste tuttavia la possibilità di tentare una comprensione più chiara di quello a cui Nietzsche implicitamente rimanda quando parla di «illusione obiettiva». Nel momento in cui questa si trasforma in illusione stabile, in realtà, in essere, diviene qualcosa che contraddice la vita stessa, contraddice cioè quell’elemento soggettivo, di cui si deve ancora scoprire la costituzione, che è senz’altro implicato dal termine “vita”. Quale figura della soggettività viene a prodursi nel momento in cui l’illusione originaria viene accreditata di stabilità assoluta? Non è difficile dare una risposta: certamente, la soggettività che si produce è una soggettività il cui tratto di fondo non può che essere, al pari dell’illusione a cui si affida e in cui si riconosce, il tratto della stabilità, il tratto della per-
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manenza. Ma affinché ciò avvenga è necessario obliare proprio ciò che produce questa oggettività stessa, ossia l’illusione, la volontà di parvenza. Rimuovere il carattere illusorio dell’oggettività significa anche non vedere più il processo che l’ha prodotta; e in definitiva rimuovere il carattere illusorio della soggettività stessa. Nel momento in cui la verità si produce, scompare necessariamente il suo luogo di provenienza, che Nietzsche indica con l’aspetto soggettivo della vita stessa. La sua necessaria scomparsa segna un radicale conflitto con la soggettività che si produce invece intorno alla nozione di verità. Il soggetto della verità, tanto per chiamarlo così, quel soggetto cioè che non può che reggersi su una identità chiara, stabile, la cui identità è una questione di principio, è in contrasto con la vita: esso può affermarsi solo distogliendosi dalla forza vitale di illusione che lo ha prodotto. La sua saldezza e la sua identità sono fittizie in grado ancora maggiore proprio perché si producono attraverso una duplice illusione: quella, per così dire, originaria, e quella con cui viene tolta di mezzo la prima, l’illusione cioè che non ci sia illusione. In tal senso si può capire perché la nascita della ragione, la nascita dell’uomo socratico, ottimista e fiducioso in se stesso e nella ragione, venga indicata da Nietzsche come l’inizio della decadenza, di quella fase nichilistica il cui tratto di fondo consiste nel volgere le spalle a ciò che di essenziale vi è nella vita. E si può anche capire perché tra arte e verità egli scorga non solo una distanza, una differenza dal punto di vista del valore, ma addirittura un contrasto, un conflitto, come appare in modo evidente da un lungo frammento della primavera-estate 1888 in cui, a un certo punto, si legge: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità. […] È stato sui rapporti tra arte e verità che io sono diventato serio prima che in ogni altra questione: e ancora adesso mi trovo con sacro orrore davanti a questo dissidio. ‹Fu› a esso dedicato il mio primo libro; la Nascita della tragedia crede nell’arte sullo sfondo di un’altra credenza: che non sia possibile vivere con la verità; che la «volontà di verità» sia già un sintomo di degenerazione… 13
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Ivi, 16[40], p. 289.
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Nel mettere in luce l’aspetto “mistificatorio” della verità, la verità come una sorta di duplice illusione, originariamente artistica e successivamente razionalistica, Nietzsche indica nel soggetto il contrario di ciò che lo stesso termine pretenderebbe di custodire. Soggetto, subjectum, non è ciò che sta sotto, o ciò che viene prima, il fondamento o il principio metafisico in base al quale ci è data comprensione del reale, della totalità dell’ente, ma è l’ultima tappa di un processo, che è insieme produzione della soggettività e rimozione di questo stesso prodursi. A questo punto è stato messo in luce quanto meno lo smascheramento che Nietzsche implicitamente porta avanti in questa fase del suo pensiero a riguardo della soggettività, e in particolare di quell’elemento soggettivo su cui il pensiero razionale si fonda. Si tratta certo di un punto di arrivo in negativo, da cui però si può vedere come la distruzione della fede nella ragione che il pensiero di Nietzsche tenta di condurre non possa non configurarsi anche come una distruzione della fede nel soggetto, ossia di quel fondamento stabile che la ragione ha bisogno di assumere come eterno e immutabile. Il soggetto, insegna Nietzsche, non è niente di stabile di per sé, niente di originariamente sussistente, ma è piuttosto un qualcosa che viene stabilito o stabilizzato dopo essere stato prodotto da una illusione e a patto che questa scompaia. Il rovesciamento del platonismo – non soltanto della dottrina di Platone ma anche degli effetti che ha prodotto nel corso dei secoli fino a oggi attraverso la separazione di un mondo vero da un mondo apparente e l’assunzione della verità e delle sue seduzioni (stabilità, immutabilità, eternità ecc.) – se letto attraverso il filtro della questione della soggettività può allora considerarsi come un porre la soggettività stessa non più come identità originaria ma come termine, punto di arrivo di un processo di mistificazione. Questo permette tra l’altro di comprendere perché Nietzsche identifichi l’uomo della conoscenza con l’uomo morale, la conoscenza stessa con la morale: in entrambi i casi si tratta di dovere assoggettarsi a un principio di stabilità, a un valore o a un universo di valori che sono supposti esistere di per se stessi. Attraverso questa considerazione diviene chiaro anche il motivo per cui Nietzsche può tracciare quella linea genealogica
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secondo la quale il cristianesimo non rappresenterebbe altro che una versione volgarizzata del platonismo. Ma al di là di questo primo punto di arrivo critico, distruttivo, ciò che va ancor più sottolineato e che costituisce un nodo problematico in cui sostare ancora, è il permanere, nell’orizzonte di pensiero di Nietzsche, della soggettività, di quel luogo che, per quanto fittizio, è indispensabile per la possibilità stessa di vivere.
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3. LA CADUTA DELLA TRASCENDENZA
Permanenza dell’illusione All’interno del rapporto tra l’arte e la verità si dischiude un ambito di interrogazione che riguarda la pensabilità stessa dell’ente, e di conseguenza il senso del pensare. La posizione di Nietzsche, per quanto in parte riferibile al platonismo, non si esaurisce però nel semplice capovolgimento di quest’ultimo. È vero che la linea platonica, in cui tutto il pensiero occidentale si è mantenuto, viene da Nietzsche combattuta con la condanna della verità a favore dell’arte, a favore di un pensiero del mutevole, del molteplice, del divenire o addirittura del dionisiaco che non si affidi più alle garanzie del sovrasensibile ma che rischi l’abbandono della posizioni assolute, delle verità eterne. Ma per quanto sia proprio in questa chiave che la riflessione di Nietzsche ha prodotto gli esiti eversivi – e “creativi” – di maggiore portata, questa lettura non può condurre molto lontano. Se non altro perché una sostituzione dei termini non comporta per nulla una trasformazione della volontà di verità che comunque a essi si appoggia. Anche se al posto della verità si pone il suo contrario (ciò che continuamente diviene e si trasmuta in forme sempre diverse), questa medesima posizione non potrebbe che ripresentarsi come verità. Comporterebbe, una volta di più, un principio, una forma di verità incontrovertibile, come quella che afferma che «non ci sono verità». Sostenere che non c’è nessuna verità significa niente meno che assumere come assolutamente vero il
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presupposto che non ci sono verità, ossia affermare ancora una volta una verità. Arte e verità sono sì tra loro in contrasto, ma lo sono dal punto di vista del valore. È attraverso questo elemento che ci si può avvicinare al significato del contrasto in questione per la soggettività. Alla vita è necessario un valore, è necessaria una illusione obiettiva, come la chiama Nietzsche; ma nel contempo, il trasformarsi di tale illusione obbiettiva in verità contraddice la vita stessa; è insomma la perdita, l’oblio del carattere illusorio delle forme che impone e in cui si riconosce, a far sì che, nel pensiero, la vita entri in conflitto con se stessa. La perdita del carattere illusorio dell’oggettività significa anche rimozione del carattere illusorio della soggettività, del soggetto che le si pone di fronte ma che, per questo medesimo fatto, in quella stabilità riconosce anche la propria. Necessariamente, nel momento in cui si produce un qualcosa come la verità, si produce anche la scomparsa del suo luogo di provenienza, di quel luogo che Nietzsche indica, anche, con il termine “vita”. È quindi da ritenere che, proprio per la necessaria scomparsa dell’illusione vitale dall’orizzonte del pensiero, la verità – che così si afferma – entrerebbe in radicale conflitto con la vita. Il soggetto della verità, tanto per chiamarlo così, quel soggetto cioè che si regge su una presunta identità forte, stabile, governata dal principio di identità, è in contrasto con la vita in quanto esso può mantenersi solo attraverso la rimozione di quel carattere vitale e insieme illusorio, a sua volta soggettivo, che lo ha prodotto. Ma non solo; la sua saldezza e la sua identità sono fittizie in grado ancora maggiore proprio perché si producono attraverso il raddoppiarsi della illusione: quella, per così dire, originaria, e quella con cui viene tolta di mezzo la prima, l’illusione cioè che non ci sia illusione. Tutti questi motivi, che ci fanno vedere un falso soggetto dietro al soggetto vero e viceversa, sarebbero sufficienti per non parlarne più. Salvo che il gesto di liquidare il soggetto “vero” perché falso non liquida proprio niente, se non appunto se stesso poiché alla fine risulta veridico tanto quanto ciò che vorrebbe sopprimere. È lo stesso Nietzsche a mostrare che quel luogo a cui è stata tolta la prerogativa di fondare, che è una illusione prodotta da una volontà di
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parvenza, resta indispensabile. L’arte crea la possibilità di vivere, ma da essa proviene anche la verità. Con ciò si duplica la pensabilità dell’elemento soggettivo: illusorio e nel contempo necessario, oscillante tra l’essere indispensabile forma di vita e negazione della vita stessa, il soggetto ritrova la sua necessità in questa ambigua permanenza. È vero che una assunzione del soggetto in questi termini può rappresentare una emancipazione del pensiero dalle ipoteche metafisiche che ne hanno segnato la storia. L’asservimento a un universo di principi trascendenti è finito con la caduta del valore di verità che a questo universo medesimo veniva riconosciuto e il pensiero, liberato da questo vincolo, si apre a una condizione di maggiore felicità, di minore oppressione, alla produzione di sempre nuove forme dopo essersi scrollato di dosso l’universo di valori che lo soggiogava. Qui si può riconoscere una figura del superuomo o, secondo il termine introdotto da Vattimo, dell’oltreuomo 1, dell’uomo che ha oltrepassato la sua stessa natura troppo umana, troppo “assoggettata” per valorizzare le componenti di creatività, di gioco, di danza, di leggerezza che gli possono derivare dall’assumere la condizione di un pensiero privo del vincolo del fondamento. Tuttavia le possibilità che si dischiudono in questo quadro interpretativo al soggetto non cessano di provenire da (e quindi di mantenere) un elemento di fondo che ne contrasta il senso. Questa situazione viene esemplificata da un aforisma della Gaia scienza, l’aforisma 54 che Nietzsche intitola «La coscienza dell’apparenza» e che esprime in maniera molto efficace questa oscillazione e questo conflitto nonché il carattere liberatorio che tale presa di coscienza può avere per l’uomo:
1 Cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, cit. Il riferimento a questo testo di Vattimo non è motivato solo dall’impiego del termine “oltreuomo” ma, soprattutto, dal tenore appunto liberatorio che il suo libro va a leggere in Nietzsche. Nel senso cioè di una liberazione dell’attività “simbolica” dell’uomo entro una ridefinizione della sua essenza. Per esempio, pp. 292-293: «Il simbolo è un modo che ha l’uomo di impadronirsi del mondo. […] Attività simbolica è tutta l’attività con cui l’uomo plasma il mondo secondo la propria ragione, la propria volontà, il proprio amore, la propria immagine. […] La riappropriazione che l’oltreuomo opera del mondo del simbolico è in generale la liberazione di tutta l’attività dell’uomo da ogni soggezione ad autorità divine ed umane.»
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Fabio Polidori
La coscienza dell’apparenza. In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta! Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, – mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me, «apparenza»! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più; che tra tutti questi sognatori anch’io, l’«uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno 2.
La coscienza dell’apparenza è allora una presa di congedo dell’uomo della conoscenza dalle istanze metafisiche, e forse anche più una presa di congedo dalla propria identità forte che in queste istanze si è da sempre riconosciuta. Nel contempo però, è anche chiaro come Nietzsche intenda questo abbandono non come un superamento e un accantonamento definitivo delle forme stabili del vero ma come una assunzione della loro necessità: «devo continuare a sognare se non voglio perire», egli dice. Tutto è allora sogno, tutto è apparenza; ma apparenza e sogno sono necessari. Certo in questo si esprime un passo decisivo, che può consentire all’uomo della conoscenza di danzare la sua danza. Tuttavia la liquidazione di quell’orizzonte di saldezza, che altro non è se non la trascendenza, in cui il soggetto trova stabilita anche la propria identità, non viene data da Nietzsche come compiuta, e nemmeno for-
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La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, vol. V, t. 2, pp. 75-76.
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se come raggiungibile. La necessità di continuare a sognare per non perire esprime un tratto estremamente inquietante, che si profila al di sotto della liberazione che il pensiero raggiunge allorché riconosce l’illusorietà di tutto ciò in cui deve comunque credere. Allora la liberazione dal vincolo della trascendenza presenta anche un altro risvolto, a essa complementare: l’estremo rischio, l’estremo pericolo cui l’uomo si trova esposto nel momento in cui non possiede più un punto di appoggio trascendente. Ancora una volta, la caduta del «mondo vero», la caduta della trascendenza si trovano in contraddizione con la vita stessa, con la possibilità per l’uomo di sopravvivere; rappresentano, si potrebbe anche dire, un motivo tragico che la liberazione dell’uomo porta necessariamente con sé.
La morte di Dio È opportuno a questo punto mettere in gioco un’espressione fondamentale di Nietzsche, attraverso la quale egli indica la caduta della trascendenza, l’estinguersi della possibilità di credere in un mondo vero e stabile, e quindi in definitiva il venire meno di quel luogo sovrasensibile che garantisce la forma o le forme dell’identità soggettiva. Si tratta della morte di Dio, a cui è senz’altro legata la questione del soggetto che permane nel termine Übermensch. L’avvento del superuomo, che sarà annunciato da Zarathustra, si inscrive nella consapevolezza della avvenuta morte di Dio che viene ribadita nella sua “Prefazione” 3. Ma è nella Gaia scienza che la morte di Dio si affaccia per la prima volta e in una figura compiuta, nell’aforisma 125, in cui proprio il venire meno del trascendente provoca il tono della follia: L’uomo folle. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di
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Così parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, vol. VI, t. 1, pp. 4-5.
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quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!». Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem æternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?» 4.
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La gaia scienza, cit., pp. 129-130.
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La prima e decisiva cosa da sottolineare è la contrapposizione tra la follia dell’uomo che cerca Dio e la disinvoltura, l’indifferenza ironica di coloro i quali non credevano in Dio. «Siamo stati noi ad ucciderlo», grida l’uomo folle. Alla follia, allo smarrimento, alla ricerca affannosa di Dio, di quell’unico elemento di stabilità in grado forse di far rinsavire quest’uomo si contrappone l’indifferenza, l’ironia addirittura da parte di quelli che non credono in Dio: la saldezza, la padronanza di sé, la superiorità di questi ultimi. Si tratta però solo in apparenza di due possibili modi di vivere, di affrontare il medesimo evento, la morte di Dio. «Vengo troppo presto […] non è ancora il mio tempo», dice poi l’uomo folle, verso la fine del suo discorso; gli uomini non hanno ancora appreso il significato di questo evento che, propriamente, non li riguarda. Non basta l’ateismo per decretare e per assumere la morte di Dio, di un dio che poi non coincide neppure con una particolare divinità, il dio cristiano piuttosto che il dio ebraico o gli dèi greci. Il folle sta invece parlando esclusivamente della trascendenza, di quel luogo trascendente che salvaguarda la stabilità e la validità dei valori. Per l’ateo, il fatto che dio non esista non rappresenta necessariamente la mancanza di un universo di valori; anzi, da questo punto di vista, l’ateismo potrebbe venire considerato come la sostituzione dei valori divini con valori umani. Il che non significa tanto la sostituzione di Dio da parte dell’uomo, quanto invece la pretesa di una simile sostituzione. In questo caso infatti, la fede in un universo trascendente (per quanto dissimulato da una connotazione “umana”) non si troverebbe per nulla indebolita. Da qui il senso di superiorità degli uomini di fronte a questo terribile annuncio. Ma la morte di Dio di cui ci parla l’uomo folle appare come una cosa diversa: non la semplice sostituzione di una divinità con un’altra, non la sostituzione di un universo di valori con un altro, ma la perdita, per l’uomo, del trascendente. La follia è appunto la perdita dell’identità, lo smarrimento della soggettività e del suo valore, la perdita di un luogo cui necessariamente è affidata la costituzione soggettiva, cui il pensiero ha bisogno di riferirsi, di appoggiarsi; su di esso soltanto può fondarsi. La caduta della trascendenza, la perdita del fon-
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damento o la distruzione di quell’elemento di stabilità che, per quanto fittizio, illusorio, è indispensabile alla sua costituzione soggettiva, non sono eventi che l’uomo è in grado di assumere. Né per altro si può pensare che di questo compito sia all’altezza il superuomo, dato che se così fosse perderebbe completamente senso il tono drammatico – e il significato tragico che lo muove – dell’annunciata morte di Dio 5. Se quindi vale l’ipotesi per cui la scoperta del carattere illusorio della verità e del carattere illusorio di ciò che le fa da correlato, ossia la stabilità e certezza del soggetto, comporta una liberazione, anche nel senso di un ampliamento di potenzialità, questo non è tutto. A questo passo in avanti verso un esito felice della storia dell’umanità – non va trascurato il tono anche profetico che l’opera di Nietzsche vuole avere – fa da correlato un passo verso un massimo di rischio che il soggetto affronta nel momento in cui assume il peso dell’illusorietà di ciò che lo costituisce in quanto tale, il rischio cioè della dissoluzione e della dilacerazione.
5 Fraintendimento, questo, cui l’opera di Nietzsche talvolta si presta, come per esempio con la celebre frase di Così parlò Zarathustra, cit., p. 93: «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva». Su come non si deve intendere questo appello valgano le parole di Heidegger, «La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”», cit., pp. 234-235: «Si potrebbe credere grossolanamente che queste parole stiano a significare che il dominio sull’ente passa da Dio all’uomo o, peggio ancora, che Nietzsche pone l’uomo al posto di Dio. Chi pensasse in tal modo, penserebbe ben poco divinamente l’essenza di Dio. L’uomo non può mai porsi al posto di Dio, perché l’essenza dell’uomo non può innalzarsi alla regione dell’essenza divina. Ma può accadere qualcosa di assai più inquietante di questa impossibilità, qualcosa a cui abbiamo appena incominciato a badare. Quel posto che, nell’ordine della metafisica, appartiene a Dio, è il luogo della efficienza causale o della conservazione dell’ente in quanto ente creato. Questo posto di Dio può restare vuoto. In sua vece può aprirsi un altro posto, metafisicamente corrispondente, che non è identico né alla regione dell’essenza divina né all’essenza dell’uomo, col quale però l’uomo intrattiene una particolare relazione. Il superuomo non subentra e non può subentrare al posto di Dio; il posto in cui si insedia il volere del superuomo è un altro dominio, da cui procede un’altra fondazione dell’ente in base a un suo altro essere. Questo altro essere dell’ente è la soggettività, quale si è costituita all’inizio della metafisica moderna».
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4. IL SUPERUOMO: TRASCENDENZA E IMMANENZA
Necessità del trascendente Già da quanto trapela a una prima lettura del passo in cui Nietzsche ne dà l’annuncio, la morte di Dio non è una questione che ha a che vedere esclusivamente con contenuti religiosi. Anzi, dal punto di vista della fede, sembrerebbe che la morte di Dio non stia a rappresentare niente di drammatico per l’uomo. Lo si vede dalle parole con le quali gli uomini cui viene dato questo annuncio replicano, sminuendo e svilendo la portata dell’evento: la superiorità, ironica, delle loro parole proviene da una saldezza e sicurezza che permettono all’uomo di oggi di reggersi da sé senza affidarsi a una entità, a un ente superiore. Che il dio di cui parla Nietzsche, per la cui morte l’uomo che ne dà l’annuncio diventa folle, non si limiti a contenere o a simboleggiare tratti esclusivamente religiosi lo si apprende soprattutto dalle inquietanti domande che si susseguono nel tono concitato di quello che sembra quasi un monologo, e che non richiamano i tratti di una figura positiva del religioso, quanto invece la dimensione – molto più complessa da delineare, e forse anche soltanto da nominare – del trascendente. Ma perché sottolineare questa differenza? E, soprattutto, che cosa si gioca intorno a essa? In termini credo abbastanza chiari: il fatto che il luogo della trascendenza non coincide con l’ente, con l’entità che lo occupa; non necessariamente il trascendente coincide con Dio, non necessariamente la
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rappresentazione e il simbolo della trascendenza coincidono con ciò che la trascendenza è per l’uomo. Di volta in volta il pensiero si rappresenta una figura, una forma della trascendenza in cui si riassume ciò che ne costituisce il significato: i valori nei quali l’uomo si identifica, da cui ricava il profilo della propria identità. E non sempre infatti, come anche Nietzsche ha modo di constatare, la dimensione della trascendenza ha mantenuto la medesima configurazione: l’antichità è stata soppiantata dalla visione cristiana dell’era volgare, che man mano è venuta declinando sino alla morte di Dio – morte del Dio cristiano in questo caso – decretata da Feuerbach, Marx, Stirner… Ancor più ci si può allora avvicinare all’idea che questo gioco di rispecchiamento tra l’uomo e la figura del trascendente sia lo spazio in cui si decide, si costruisce l’identità soggettiva. Ecco il perché dell’atteggiamento di superiorità indifferente degli uomini: ciò che per loro l’annuncio comunica è esclusivamente la morte, il tramonto di un nome, di un simbolo in cui magari già non si credeva più. Di certo però, quel simbolo era già stato sostituito con un altro: con una rappresentazione dell’uomo che è andata a occupare il posto del vecchio Dio. Il che però non significa in alcun modo che il rapporto dell’uomo con la trascendenza si sia trasformato o modificato. Al contrario, è divenuto ancora più vincolato e vincolante, ancora più stretto. Ora Dio è l’uomo stesso, nel senso che la fede ha cambiato il proprio oggetto: da fede in Dio si è trasformata in fede nell’uomo; in virtù di un sempre maggiore dominio sulla natura, l’uomo ha avuto la possibilità di constatare la propria onnipotenza e di sostituire così alla figura di Dio la propria. Evento in apparenza gioioso per l’uomo, finalmente liberato da vincoli e da catene di tipo religioso, morale ecc. Evento le cui conseguenze possono sembrare talmente felici per l’uomo che questi non se ne è nemmeno accorto, oramai totalmente identificato con ciò che da sempre lo aveva trasceso sotto spoglie diverse da quelle umane, e in grado di non sentirne più il peso e l’oppressione. E tuttavia l’annuncio della morte di Dio è dato da Nietzsche in toni profondamente drammatici che per nulla rispecchiano questa situazione di estrema libertà e affrancamento in cui l’uomo sarebbe venuto a trovarsi con la sua elevazione al di sopra di tutto. Questo può far pensa-
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re che non solo il venire meno del trascendente, dell’universo autonomo, autosussistente e eterno dei valori e della verità sia un evento di grande portata che non può essere preso alla leggera. Ma anche, e soprattutto, che se tale evento viene preso alla leggera è solo in virtù del fatto che il modo in cui fino a ora la trascendenza è stata interpretata, individuata, nominata non rende conto di ciò che il trascendente rappresenta per l’uomo. Nietzsche non propone o non contempla affatto la possibilità che l’uomo si liberi di ciò che lo trascende senza inquietudine, senza arrischiare la propria identità soggettiva. Al contrario, proprio perché costituisce il fondamento dell’identità del soggetto, il trascendente, nel modo in cui Nietzsche lo intende, è anche ciò che, scomparendo, ne mette in crisi la stabilità. E questo può darsi solo se la trascendenza viene considerata non per la figura o le figure in cui si esprime ma per la necessaria fede che la pone e la sostiene – e su cui si sostiene – come verità. Soltanto se Dio viene identificato con ciò che ne costituisce il tratto di maggiore peso – ossia la possibilità della verità, della fede nella verità – la sua morte può provocare la follia e, insieme, richiedere il superuomo 1. L’uomo è ancora impreparato a comprendere questo evento; ed è chiaro il senso implicitamente profetico di questa riflessione con cui Nietzsche individua nel superamento dell’uomo di oggi colui il quale sarà in grado di comprendere, di assumersi la responsabilità della morte di Dio, della sua uccisione. Appartiene alla figura del superuomo por-
1 La necessità della fede nella verità come aspetto più fondamentale della verità stessa è mostrato da Nietzsche in più luoghi; tra i quali cfr. Frammenti postumi 18871888, cit., 9[38], p. 14: «Il giudizio di valore “io credo che questo e quello sia così” come ESSENZA della “verità”; […] la fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, cioè il giudizio di valore della logica, dimostrano solo la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro “verità”. Che dev’esserci una quantità di fede, che è permesso giudicare, che su tutti i valori essenziali manca il dubbio: – è questo il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Cioè che qualcosa sia ritenuto vero, è necessario; non che qualcosa sia vero»; e Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15[58], p. 235: «– i vantaggi che ci si attendevano dalla verità erano i vantaggi del credere in essa; in sé cioè la verità potrebbe essere assolutamente imbarazzante, nociva, funesta […]. Ciò che si volle, fu sempre la fede, e non la verità…»
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si all’altezza di assumere il peso e la responsabilità della morte di Dio. L’uomo di oggi è impreparato a tale compito, è impreparato all’evento di cui tuttavia è l’artefice, a cui ha predisposto il terreno e che porta con sé anche il superamento dell’uomo stesso. Alla morte di Dio, secondo Nietzsche, non potrà che conseguire il superamento dell’uomo come è stato sino a oggi, dell’ultima figura in cui l’umanità fino a oggi ha potuto riconoscersi, l’ultima figura dell’uomo.
L’ultimo uomo Di questa figura Nietzsche descrive i tratti in Così parlò Zarathustra e lo fa sin dalle primissime pagine della “Prefazione”. Dopo essere disceso dalla sua montagna, Zarathustra va tra gli uomini per annunciare il superuomo. Alla fine del paragrafo 4 della “Prefazione” Zarathustra dice: «Ecco, io sono un messaggero del fulmine e una goccia greve cadente dalla nube: ma il fulmine si chiama superuomo». Di fronte a questo annuncio, la folla che lo circonda assume un atteggiamento molto simile a quello degli uomini che avevano deriso l’uomo folle: Dette queste parole, Zarathustra guardò di nuovo la folla e tacque. «Ecco, che se ne stanno lì – disse egli al suo cuore – e ridono: non mi intendono, io non sono la bocca per questi orecchi. Forse bisogna rompergli i timpani perché imparino a udire con gli occhi? Bisogna strepitare come tamburi e predicatori di penitenza? O forse fan credito solo ai balbuzienti? Essi hanno qualcosa di cui vanno fieri. E come chiamano ciò di cui vanno fieri? Istruzione lo chiamano, è ciò che li distingue dai caprai. Perciò non sentono parlare volentieri di “disprezzo” nei loro riguardi. Ebbene farò appello alla loro fierezza. Voglio parlare loro dell’essere più di tutti spregevole: questi però è l’ultimo uomo». E così parlò Zarathustra alla folla: È tempo che l’uomo fissi la propria meta. È tempo che l’uomo pianti il seme della sua speranza più alta. Il suo terreno è ancora fertile abbastanza per ciò. Ma questo terreno un giorno sarà impoverito e addomesticato, e non ne potrà più crescere un albero superbo.
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Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare! Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi. Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso. Ecco! io vi mostro l’ultimo uomo. «Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?» – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. «Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore. Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini! Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo. Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuol ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose. Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio. «Una volta erano tutti matti» – dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. «Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio 2.
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Così parlò Zarathustra, cit., pp. 10-12.
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Nonostante il tono allegorico la figura dell’ultimo uomo non può essere fraintesa. Rappresenta la fase in cui la soggettività umana ha raggiunto l’apice della propria potenza e prosegue lungo il proprio cammino senza oramai incontrare più nessun ostacolo nell’assoggettamento di tutto ciò che è, nell’assoggettamento della totalità dell’ente a se stessa. «Ecco! io vi mostro l’ultimo uomo» scrive Nietzsche; «“Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio». Più volte l’ultimo uomo strizza l’occhio. È il gesto che compendia l’intero suo atteggiamento. Non ci vuole molto per capire cosa significa; ci si può limitare a osservare che è anzitutto un cenno di intesa, come quando si dice una cosa ma se ne intende un’altra. Le prime cose su cui l’ultimo uomo si interroga sono l’amore, la creazione, l’anelito, la stella: ambiti di interrogazione “alti” che rappresentano non solo ciò che vi è di più alto e nobile nell’uomo, ma anche ciò che porta l’uomo al di là di se stesso, che ne rappresenta il superamento, nel senso di metterlo in rapporto con una esteriorità che lo trascende. E che perciò può insidiarlo nel suo puro e semplice sussistere così com’è. Di fronte a quanto vi è di più alto, nobile e perciò insidioso l’ultimo uomo non fugge; anzi, si interroga; ma strizza l’occhio. Il suo interrogarsi è una finzione, si interroga come chi conosce già la risposta, o come chi non riconosce l’importanza della domanda. Il suo strizzare l’occhio ci comunica che si sente al riparo dal pericolo delle sue stesse domande, che l’amore, la creazione, l’anelito, la stella gli sono sottomessi, sono ormai in suo potere perché egli è riuscito ad abbassarli al suo livello, più che elevarsi al loro. L’ultimo uomo è riuscito ad assoggettare, ad addomesticare ciò che è più in alto di lui; perciò non le teme più e si instaura su un piano di superiorità e di dominio. «La terra allora sarà diventata piccola – continua Zarathustra – e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti». Non solo quindi ciò che sta in alto ma anche ciò che sta in basso, la terra, viene ridotto dallo sguardo dell’ultimo uomo; non soltanto lo spirituale è caduto in potere dell’ultimo uomo, ma egli ha la
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possibilità di esercitare il suo dominio anche sulle cose terrene, di estendere il suo agire pratico in tutte le direzioni, su tutta la terra, in tutti gli ambiti dell’ente e, così facendo, di assicurarsi con sempre maggiore sicurezza la propria sussistenza, di campare più a lungo di tutti perché niente più oramai è in grado di costituire un ostacolo per lui. Già questo primo affresco è sufficiente a comprendere su che cosa si fondino la superiorità e la sicurezza dell’uomo: attraverso le parole di Zarathustra, Nietzsche descrive una figura della soggettività pienamente autonoma, in grado di assoggettare e ridurre a sé tutto quanto incontra, capace di manipolare la totalità dell’ente proprio perché il punto di vista su questa totalità è esattamente ed esclusivamente il suo punto di vista. L’ente, ciò che è, non è altrimenti pensabile che come oggetto per un soggetto che può così instaurare il proprio dominio incontrastato; è la riduzione dell’ente a un principio unico, l’estrema umanizzazione di tutto ciò che è e che nulla può contrastare. E che cosa potrebbe esserci di meglio per l’uomo? «“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio». La felicità è questo stesso strizzare l’occhio che decreta l’impossibilità oramai per l’ultimo uomo di incontrare ostacoli sul proprio cammino di assoggettamento dove nulla resiste più alla sua potenza. Il dominio è certo di ordine pratico, e quindi, prima ancora, di ordine conoscitivo: «“Una volta erano tutti matti” – dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità”», ripetono ancora gli ultimi uomini strizzando l’occhio. Ogni conoscenza è dunque a portata di mano, le cose non custodiscono più nessun mistero e l’ultimo uomo è colui il quale ha la possibilità di spiegare tutto sulla base dei propri strumenti conoscitivi. Questa però, avverte Zarathustra, non è conoscenza; il sapere per filo e per segno come siano andate le cose, la riduzione di tutto ciò che è o accade a una catena indefinita di cause e effetti non è altro che la
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possibilità di estendere all’infinito ciò che è soltanto oramai «materia di scherno», ciò di cui è possibile sorridere, di fronte a cui si può rimanere indifferenti e imperturbati a fare l’occhiolino. È, questa, una visione quasi profetica; Nietzsche, verso la fine del XIX secolo, indica l’ultimo tratto di strada lungo il quale l’umanità si è incamminata, o sta incamminandosi: «“Dacci l’ultimo uomo, Zarathustra […] fa’ di noi degli ultimi uomini! E noi ti lasciamo il tuo superuomo!”» 3 Una strada che procede nel senso opposto rispetto a quello che per lui è il traguardo del superuomo. L’ultimo uomo è quindi l’alternativa radicale del superuomo – è la folla che circonda Zarathustra a invocarlo, rifiutando il superuomo – in quanto rappresenta il punto di approdo verso cui l’umanità, lungo tutto il corso della sua storia, si è diretta.
Il superuomo Se l’ultimo uomo è l’antitesi del superuomo, c’è la possibilità di ricavare da questa figura quanto meno qualcosa di ciò che il superuomo non è. E il superuomo non sarà, di certo, colui il quale strizza l’occhio, colui per il quale la terra si è rimpicciolita, non sarà l’inventore della felicità né colui il quale «sa per filo e per segno come sono andate le cose» ecc. Il superuomo non è, in altri termini, quella configurazione della soggettività per la quale tutto, l’ente nella sua totalità, è oggetto di dominio, pratico e conoscitivo. Nel superuomo non si esprime una soggettività tesa al dominio, all’assoggettamento. Nei confronti della morte di Dio, certamente il superuomo non può assumere un atteggiamento di superiorità, di indifferenza; e forse sarà riuscito ad attraversare quella follia, a sopravvivere al venire meno di ciò che, nel luogo del sovrasensibile, custodiva la garanzia della identità soggettiva, della soggettività dell’uomo. Potrà essere quel tipo di
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uomo che ha imparato il carattere illusorio della propria soggettività, che ha nei confronti della verità l’atteggiamento di chi sa di dover continuare a sognare pur sapendo di sognare. Certo, anche per l’ultimo uomo la verità può non esistere; l’ultimo uomo può fare a meno della verità, della verità intesa come ciò che è supposto valere di per sé, e che il pensiero si rappresenta come immutabile e eterna; l’ultimo uomo ha la possibilità di strizzare l’occhio anche di fronte alla verità perché oramai, come dice Zarathustra, è diventato intelligente, sa come sono andate le cose, può accontentarsi delle verità che servono a lui, che gli sono utili. Anche la verità, divenuta piccola, è assorbita, già compresa all’interno di questa figura della soggettività che è divenuta principio che regola la conoscenza e l’assoggettamento della totalità dell’ente. Ma proprio per essersi messo al posto di Dio, l’ultimo uomo è quanto di più distante da una emancipazione dal bisogno di consistere su un saldo fondamento. Il suo nichilismo, che abbassa tutto ciò che è altro da sé a un mero essere relativo all’uomo è la contropartita di quel bisogno di fede in un che di stabile che egli è sempre meno disposto a perdere. Al punto da ridurre sempre più, sino a farla scomparire, la distanza che lo separa dal luogo trascendente della propria identità. E se in apparenza la trascendenza del divino viene riassorbita dall’immanenza dell’umano, più in profondità questa immanenza è del tutto dipendente da una immagine di sé come trascendente, che si riverbera nella inconsapevole – e per questo inconfutabile – fede che tutto è relativo all’uomo. «Guai! – dice Zarathustra – Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!» Il timore di Zarathustra è che l’uomo non possa più andare oltre se stesso, non possa più guardare in direzione di ciò che lo trascende. Ma in che modo è possibile che l’uomo vada oltre se stesso, si superi? O meglio ancora, che cosa consentirebbe all’uomo di superarsi, di guardare alla trascendenza in modo da evitare che essa assuma sempre più quei tratti “umani” i quali, facendone scomparire l’immagine, la rendono impensabile, rendono impensabile il pensiero?
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La stella danzante «Io vi dico – prosegue Zarathustra –: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi». «Caos» e «stella danzante» richiamano la figura del dio Dioniso che, come si sa, aveva consentito a Nietzsche di considerare la nascita dell’uomo socratico, il cui ottimismo e fiducia nella ragione gli impediscono di mantenere lo sguardo al dionisiaco. E poiché non si può assimilare il caos all’irrazionale, che nasce invece proprio dalla ragione e dai limiti che essa con le sue regole traccia, il caos che è dentro di noi non può essere ridotto a semplice irrazionalismo. Il caos può partorire una stella danzante. Ciò che è elemento interiore, profondamente intimo per Nietzsche, il caos che si nasconde nell’uomo dietro l’apparente trasparenza della ragione, fa nascere una stella, che è una figura della distanza, dell’esteriorità. È un elemento celeste, sta in alto. Può farci pensare a una lontananza irraggiungibile, al di fuori della portata dell’uomo; ma le stelle sono anche dei punti di riferimento; guardandole, abbiamo la possibilità di orientarci e di procedere lungo la rotta facendoci guidare dall’alto. È l’immagine di una regione che sta al di là e al di sopra di noi, in cui la filosofia, ma anche la religione, hanno riconosciuto l’ambito del trascendente. Luogo verso cui tendere, per elevarsi; luogo a cui affidarsi, per una guida. Come la stella, anche il valore è ciò che, nel contempo, ci trascende e ci guida. È dal riconoscimento di un valore, dalla sua stabilità, che si riceve costantemente la sicurezza. Un valore può essere una stella. Ma Zarathustra parla di una stella danzante. In Nietzsche la figura della danza ricorre con una certa frequenza nello Zarathustra, ed è presente già nei primi scritti e nella Nascita della tragedia. Legata alla musica, è un’arte intimamente vicina al dio Dioniso. A questo proposito c’è, fra i molti, un passo di un breve testo che Nietzsche compose nel 1870 e che ha come titolo La visione dionisiaca del mondo: Nel ditirambo dionisiaco […] l’esaltato seguace di Dioniso viene stimolato a potenziare massimamente tutte le sue facoltà simboliche: qualcosa di mai sentito – l’annientamento dell’individuazione, l’unificazione nel genio della specie,
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anzi della natura – tende a manifestarsi. Ora l’essenza della natura vuole esprimersi: è necessario un nuovo mondo di simboli, e le rappresentazioni concomitanti si trasformano in simboli attraverso le immagini di un potenziato essere umano. Tali rappresentazioni si manifestano con la massima energia fisica attraverso l’intero simbolismo del corpo, attraverso i movimenti della danza4.
Qui si trova ripetuto – o meglio, anticipato – un qualcosa di molto affine alla danza della stella partorita dal caos. La danza è movimento, movimento che esprime potenziamento: come Dioniso, un radicale dinamismo. Questo, fuso con la stella, è dell’ordine del paradosso, o almeno dell’ossimoro. Se si vuole stare per un momento al simbolismo nietzscheano, vanno sottolineati questi due aspetti: anzitutto la mobilità (la danza) di ciò che dovrebbe costituire un punto di riferimento stabile (la stella, il valore); in secondo luogo, l’estrema distanza tra l’intimità del caos e l’esteriorità, l’altezza trascendente della stella danzante, elementi che sono tuttavia della stessa natura, che appartengono e provengono dalla medesima radice dionisiaca. Se Nietzsche, dopo aver decretato la morte di Dio, pensa ancora la trascendenza, ciò è possibile soltanto dopo che il trascendente ha cambiato completamente luogo e natura: non più separato dall’uomo oppure comunque offerto alla sua portata, ma indefinitamente distante e irraggiungibile perché custodito e generato dall’intimo dell’uomo. Non più lo stabile e immutabile mondo delle idee platoniche o dei valori eterni della religione cristiana – troppo umani per restare trascendenti e resistere alla conquista dell’ultimo uomo – ma una stella danzante, un universo di valori il cui luogo di provenienza non è più, metafisicamente o teologicamente, posto in alto ma, dionisiacamente, situato ad altezza d’uomo. È il compito di istituire valori senza la pretesa che essi valgano come assoluti e eterni, ma con la consapevolezza del loro carattere mobile, danzante; se si vuole, anche, illusorio: nel senso di quella il-
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vol.
III,
La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, t. 2, pp. 76-77.
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lusione, di quel sogno che dobbiamo continuare a sognare pur sapendo che stiamo sognando. La figura del superuomo che si profila attraverso le parole con cui Zarathustra identifica l’ultimo uomo, si compone allora di quei tratti, non ancora scomparsi sotto la identità soggettiva modellata secondo l’immagine della ragione, che preludono e consentono l’avvento di una forma di soggettività instabile, in bilico e arrischiata. Non c’è uomo, né superuomo, senza il prodursi di una forma, senza un universo di valori. Ma il superuomo è colui che assume l’illusorietà e la precarietà di ciò in cui è costretto a credere; che non può sottrarsi alla necessità di dire “io”, pur sapendo che da nessuna parte potrà mai trovare nulla che possa garantire la stabilità, l’univocità, la trasparenza e la permanenza, insomma il valore di quell’io. Pur sapendo di nominare sempre un’altra cosa, pur sapendo che ogni “io”, pronunciato e perciò vissuto, è soltanto una maschera di volta in volta diversa dietro la quale non si troverà mai un volto vero ma un’altra maschera. Pur sapendo però anche che sotto tutte le maschere c’è il mondo dilacerato, caotico e disindividuante di Dioniso, che le maschere non possono dissimulare 5. «Guai! – continua a dire Zarathustra – Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso. Ecco! io vi mostro l’ultimo uomo». Si avvicinano i tempi, mette in guardia Zarathustra, in cui l’uomo, stabilizzatosi e collocatosi entro il profilo univoco della ragione, non sarà più capace di trascendenza. Il suo sguardo non sarà più all’altezza della creazione, di vedere se non la propria immagine perché il valore unico della sua identità soggettiva avrà eliminato ogni distanza e ciò che da essa, come le stelle, si dà. Perciò Zarathustra insegna il disprezzo verso se stessi. Non il disprezzo che può sentire per se stesso il peccatore cristiano e che proviene dal senso di colpa provocato dal non essersi comportati in conformità con i precetti di una morale, ma piuttosto una presa di distanza dal
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Sul tema della maschera cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, cit.
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valore di verità che si riconosce alla propria identità. Più che un disprezzo una riduzione, che consenta di rivolgere lo sguardo alla struttura soggettiva in cui ci identifichiamo, con un abbassamento delle pretese della nostra ragione, delle nostre verità. La soggettività che si esprime nel superuomo è chiamata quindi ad assumere un profilo mobile; è chiamata a prodursi ma nel contempo a rimanere in una sorta di mobilità, alla superficie, come la maschera. La sua libertà, la molteplicità delle maschere che trasfigura in continuazione, declinandola, la forma della soggettività, è la sua necessità, perché non c’è alcun volto se non quello caotico e dilacerato di Dioniso.
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5. L’INTERPRETAZIONE DEL SOGGETTO. VERSO IL LINGUAGGIO
Via dalla trasparenza Il superuomo non ha la possibilità di prendere alla leggera la morte di Dio, di strizzare l’occhio con indifferenza e superiorità perché tutto ormai gli è noto; non sa comprendere tutto, non sa affidarsi completamente alla trasparenza dello sguardo che rivolge alle cose. Il superuomo è il soggetto che non è capace dei presupposti che consentono all’ultimo uomo di rimpicciolire e abbassare, di esercitare un dominio che introduce l’insignificanza più completa in ciò che ne sia oggetto. Lo attestano l’ironia sulla morte di Dio – il tono di chi sta a distanza, o più in alto – e il tacito occhiolino. Oramai le parole non hanno più nulla da dire e ci si capisce al volo. Basta un cenno d’intesa, muto perché parlare è inutile: è la sordità del dire troppo, dell’aver detto tutto, e non certo il silenzio che invece chiama a sé le parole. Questo può dirci qualcosa di più sullo Zarathustra e sul linguaggio della sua scrittura. Andrà verificato, ma già da qui si può incominciare a credere che nonostante la prima impressione dica il contrario, lo Zarathustra è un testo silenzioso. Per lo meno vuole esserlo, con tutti i suoi proclami e simboli rutilanti che manifestano più l’intenzione di non dire che di dire. Forse Nietzsche ha calibrato male la portata degli effetti di questo esperimento di scrittura. Riuscito o meno, è però incontestabile l’esperimento, e cioè i motivi che vi hanno portato. Ma su questi Nietzsche è reticente, per lo meno in sede di riflessione.
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Tuttavia, un po’ di questione intorno al linguaggio può essere sospettata, per esempio proprio nel gesto dell’ultimo uomo. Cenno d’intesa, l’occhiolino lascia intravedere anche ciò su cui questa intesa è basata. Sulla trasparenza: ogni intesa, e soprattutto un’intesa che non è basata sulle parole ma addirittura su un semplice gesto, presuppone una preliminare trasparenza e univocità generalmente, o anche universalmente, condivisa. L’intesa è l’ambito dove i significati delle parole sono per lo più noti a tutti e da tutti condivisi, dove il margine sempre minore di fraintendimento sembra rendere inequivoca e piana la conversazione, lo scambio di opinioni, l’uso del linguaggio. Sotto quel gesto, la cui immagine colpisce per la sua volgarità e perché ritorna più volte, si può vedere un implicito rifiuto della trasparenza nella comunicazione (si ripensi, ancora, a cosa può motivare l’idea di un poema filosofico), dell’illusione che la verità possa ridursi all’accordo e all’intesa comune circa gli strumenti, o lo strumento di cui supponiamo servirci, il linguaggio appunto. Non solo; Nietzsche potrebbe avere qui in mente anche l’insostenibilità di una significazione univoca, nel linguaggio e nelle parole, l’inevitabile ambiguità, gli scivolamenti metaforici. Solo nel momento in cui non ci fosse opacità alcuna tra la parola e il suo significato, tra il discorso e ciò che esso vuole intendere, ci si potrebbe figurare una intesa virtualmente perfetta, tale addirittura da rendere superflue, in qualche caso, le parole stesse: basterebbe un cenno d’intesa… Questo ordine di problemi non è estraneo a Nietzsche. Per esempio già nel 1872, quando scrive quel breve ma denso saggio intitolato Su verità e menzogna in senso extramorale, il cui punto centrale è la critica a quella pretesa uniformità tra le parole e le cose, che regge una ben determinata configurazione della verità. Dopo avere messo in luce il carattere convenzionale del linguaggio, Nietzsche scrive: … non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie. […] Ogni parola diventa senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve adattarsi al tempo stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigo-
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re – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale 1.
E ancora: Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete 2.
Queste indicazioni già bastano per mostrare perché l’ultimo uomo strizza l’occhio: per la trasparenza dell’intesa (e del conoscere: che è intesa con le cose), egli ha rimosso e obliato il carattere metaforico, cioè illusorio della verità. L’ambito del linguaggio, il modo in cui l’uomo a esso si rapporta, non è estraneo alla forma della soggettività che Nietzsche critica. L’illusione di trasparenza di un soggetto fondato sulla ragione passa necessariamente attraverso un’altra illusione: che nel linguaggio non ci sia metafora; che esso possieda, e univocamente, le cose; che tra le parole e i loro significati non ci sia alcuno scarto. L’annuncio del superuomo è insieme annuncio di un altro rapporto con la verità, e perciò richiede un altro linguaggio. Di questo, lo Zarathustra è profezia, necessariamente imperfetta. Non limitandosi a ritenere che il linguaggio lirico e simbolico in cui è scritto sia un semplice artificio retorico e considerandolo parte costitutiva del problema che questo annuncio comporta, si può anche arrivare a dire che una nuova configurazione della soggettività quale Nietzsche intende proporre passa, per lui, attraverso una radicale messa in discussione dell’uso, se non proprio del concetto, di linguaggio. Non tematizzati, la forma e lo stile
1 Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti 1870-1873, cit., pp. 359-360. 2 Ivi, p. 361.
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dello Zarathustra sono una questione, quella tra il linguaggio e la soggettività. Alle spalle di tutti i tratti che del superuomo Nietzsche tenta di indicare positivamente, di tutto ciò che apprendiamo dalla storia o dalle parabole di Zarathustra, si dispone un problema di scrittura filosofica. La soluzione, enfatica e iperbolica, è nelle intenzioni volta a rompere gli schemi tradizionali della trattazione filosofica. E proprio nel momento in cui Nietzsche muove il suo attacco più esplicito alla ragione, all’ideale di trasparenza del soggetto. Non solo retorica o artificio stilistico, ma messa in questione di quel centro virtuale di ogni discorso filosofico che è riconoscibile nel soggetto che lo pronuncia. È insomma la pretesa della filosofia a dire la verità, è la pretesa del soggetto a dirsi come verità nella parola filosofica che viene qui messa in questione e che mostra un problema i cui termini, linguaggio e soggetto, non consentono di venire considerati separatamente. Come se per Nietzsche il superamento dell’uomo di fino a oggi, di colui che invoca l’ultimo uomo ecc. passasse necessariamente attraverso una riconfigurazione del linguaggio. Perché il superuomo non è un incremento di verità, di univocità, ma un moltiplicarsi di pieghe e di zone oscure all’interno del linguaggio. L’über può anche far segno verso la dimensione del simbolo, o anche della parola poetica. E a contatto, o addirittura dentro l’universo del discorso filosofico produce un effetto spaesante tanto più accentuato quanto più permane nella necessità, o forse anche nella volontà, di darsi nel tono della verità (addirittura profetica). È, questo, l’aspetto contraddittorio più accentuato dello Zarathustra, dove la spinta verso le verità più alte richiede un linguaggio che si contrapponga all’univocità, che si dissolva in una simbologia. Per il fatto stesso di voler essere filosofica, la verità, con Nietzsche, deve abbandonare l’illusione di trasparenza e rinunciare alla troppo facile promessa di ritrovarla all’interno delle regole di ragione. Ma oltre a questo deve abbandonare anche il luogo per eccellenza da cui ha sempre ritenuto di parlare, l’“io” (filosofico) che il pensiero deve indossare per distinguersi dalla contingenza e dalla opinione.
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L’interpretazione Più che i significati delle numerose figure simboliche e allegoriche, degli enigmi che Zarathustra propone, è importante trovarsi di fronte al dissolvimento della fiducia e fede per le quali il linguaggio, i concetti, avvolgerebbero senza ombre e opacità i propri contenuti, i significati, le cose. Potrebbe, questo, venire considerato come altro versante su cui si distende o elabora la critica e il (tentato) accantonamento del tenore esplicativo del discorso filosofico. Al di sotto del prodursi della verità c’è, come si impegna a mostrare Nietzsche in testi più didascalici, una irriducibile attività interpretativa che non può affidarsi a un punto di appoggio. Che non ci sia un fondamento dell’interpretare viene ribadito in numerosissimi testi; uno di questi, un frammento che risale alla primavera del 1887, è particolarmente significativo: Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono soltanto fatti», direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto «in sé»; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. «Tutto è soggettivo», dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il «soggetto» non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi. In quanto la parola «conoscenza» abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. «Prospettivismo». Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti 3.
Non ci sono fatti dunque, ma solo interpretazioni. Espressione di cui è stata subito sottolineata, e sperimentata, da parte della filosofia, la ragguardevole forza eversiva nei confronti della volontà di verità, che da un certo momento in poi ha adottato un modello espressivo scientistico. Non a caso qui l’aggancio polemico di Nietzsche è dato dal positivismo
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Frammenti postumi 1885-1887, cit., 7[60], pp. 299-300.
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che si basava sul presupposto indiscusso di una completa coincidenza tra i fatti e i fenomeni; una polemica che, come si sente, non si ferma a questa corrente filosofica, per quanto di moda a suo tempo, ma mira a un bersaglio molto più grosso e evidente, presente nell’opera di Nietzsche sotto le spoglie dell’illusione kantiana di una cosa in sé, di un in-sé interpretabile come fondo di realtà sussistente al di fuori del soggetto. Ma Nietzsche è anche molto accorto nel cogliere l’insidia più sottile che si nasconde nella sua confutazione dell’esistenza di una realtà in sé. Dal presupposto che non ci sono fatti ma solo interpretazioni deriva certo una soppressione del dualismo che si esprime nella contrapposizione tra un soggetto e un oggetto. Togliere di mezzo l’oggetto però non è sufficiente per eliminare la presenza di un sostrato metafisico e fondativo comunque persistente al di sotto di un pensiero che si ritrova a possedere soltanto interpretazioni, le sue proprie interpretazioni. Con la soppressione dell’oggetto, del fatto o della cosa in sé in nome di una attività esclusivamente interpretativa del pensiero, non necessariamente si elimina quel fatto ultimo che consiste proprio nell’interpretare, nell’attribuire un senso a tutto l’accadere. Se tutto è interpretazione, allora l’interpretazione diviene in certa misura spiegazione e giustificazione, e addirittura fondamento di se stessa. Si verifica un passaggio a un monismo soggettivistico. E infatti, avverte Nietzsche, ritenere che tutto sia interpretazione implica l’assunzione di un soggetto che interpreta, la presenza di un residuo sostanzialistico al di sotto dell’infinito gioco dell’interpretare: «“Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi».
Il soggetto come senso Non si tratta allora soltanto, nell’ipotesi critica ed ermeneutica di Nietzsche, di slegare, di sciogliere il senso da una referenza oggettiva:
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dai fatti, dalle cose o ancor più dai fatti e dalle cose in se stessi; non si tratta solo di screditare quel configurarsi della verità come adeguazione tra cosa e intelletto che ha guidato la storia del problema della conoscenza. Di più, si tratta di eliminare una ulteriore illusione, quella per cui ci sia in generale un qualcosa come il senso, pregiudizio che si basa sulla credenza e la fede che in generale vi sia un soggetto. Anche nel moltiplicarsi infinito delle interpretazioni che procede dalla messa sotto accusa di una realtà fattuale delle cose si annida un pregiudizio metafisico, l’ipotesi di un centro virtuale dell’interpretare, dell’attribuire sensi, scopi, significati che Nietzsche indica proprio nel soggetto. In un soggetto, tra l’altro, ancora più libero e potente perché dispensato dall’obbligo di rendere conto di un mondo vero, perché coincidente quest’ultimo ormai con il soggetto medesimo dell’interpretazione. Una distruzione del soggetto deve portare con sé la distruzione del senso, anche se inteso già come molteplice e relativizzato; ossia dell’attestazione di un centro e quindi di un nucleo, almeno virtualmente, soggettivo: «In quanto la parola “conoscenza” abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro a sé un senso ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti». Il valore di queste affermazioni di Nietzsche non va ricercato nella direzione di un biologismo prospettivistico, ma nella direzione di una critica alla fede che si annida in ogni attribuzione di senso, anche qualora questa venga assunta nei termini relativi e non assoluti di una verità soltanto soggettiva. Non basta moltiplicare le verità, fare della verità un evento molteplice per eliminare la fede in un qualcosa di vero, la fede in un valore. Al di là di una più o meno corretta decifrazione dei simboli e degli enigmi di Zarathustra, si può tentare una strada che porti verso l’individuazione e la messa fuoco del nesso che si profila tra la questione della soggettività e il linguaggio. Il punto di forza sta nell’ipotesi di un senso sempre attribuibile (prima ancora che vero) in cui è implicato un riconoscimento di sé da parte del soggetto. E anche se in questa attività que-
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st’ultimo si dichiara infondato, non può non provenirne un senso per le cose, per la realtà: un mondo. E un senso è, in quanto ordine, sempre anche uno scopo: direzione, telos. Una teleologia è implicita in ogni evento di senso, in ogni interpretazione in quanto evento di linguaggio. Persino le categorie della ragione provengono da lì, come si legge in una importante pagina del Crepuscolo degli idoli: – Stabiliamo finalmente al contrario in che diverso modo noi (dico noi per cortesia…) consideriamo il problema dell’errore e dell’apparenza. Una volta si prendeva la trasformazione, il cangiamento, il divenire in generale come una prova dell’apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a fissare unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti nell’errore, necessitati all’errore: per quanto si sia intimamente certi, sulla base di una rigorosa verifica in noi stessi, che qui sta l’errore. È lo stesso di quel che accade nei movimenti delle grandi costellazioni: nel caso di queste l’errore ha il costante patrocinio del nostro occhio, nel nostro caso invece ha quello del nostro linguaggio. Il linguaggio, quanto alla sua origine, appartiene all’epoca della più rudimentale forma di psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione. Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto «cosa»… L’essere viene ovunque pensato, interpolato come intima causa delle cose; dal concepimento dell’«io» consegue, come derivato da esso, il concetto di «essere»… Al principio sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente, che la volontà sia una facoltà… Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola… Assai più tardi, in un mondo reso chiaro in mille forme, la sicurezza, la soggettiva certezza nel maneggiare le categorie della ragione giunse sorprendentemente alla coscienza dei filosofi: essi conclusero che queste non potevano avere un’origine empirica – ma che anzi l’intera esperienza era in contraddizione con esse. Dove sta dunque la loro origine? – E in India come in Grecia si è commesso lo stesso errore: «Dobbiamo già avere dimorato una volta in un mondo superiore (– invece di dire: in un mondo molto inferiore: ciò che sarebbe stata la verità), dobbiamo essere stati divini, giacché abbiamo la ragione!»… In realtà, nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l’errore dell’essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che noi pronunciamo! – Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione del loro
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concetto dell’essere: tra gli altri Democrito, quando escogitò il suo atomo… La «ragione» nel linguaggio: ah, quale vecchia donnaccola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica… 4
In questo passo i legami tra linguaggio, ragione, sostanzialità dell’io, concetto di “cosa” e concetto di “essere” sono esibiti più negli effetti che hanno prodotto, o che producono, che non nella loro provenienza. Ciò nonostante è possibile intuire la implicita genealogia che consente a Nietzsche di smascherare quella «truffa» che è la ragione nel linguaggio. Egli parla di «feticismo»: così come il nostro occhio crede alla fissità delle stelle solo perché non riesce a percepirne il movimento, allo stesso modo il linguaggio, soprattutto con i suoi concetti, coglie solamente sostanze: uomini, azioni, cose ecc. Crede all’io come sostanza, proiettando poi questa medesima fede tutto intorno a sé, producendo il «tutto ciò che è». Tutto ciò che è, in quanto viene nominato e afferrato dal concetto, si presenta quindi alla nostra ragione come sostanza. Anzi, la sostanzialità stessa sembra addirittura quel medesimo essere-riferito, quel medesimo presentarsi alla ragione: «dal concepimento dell’“io” consegue, come derivato da esso, il concetto di “essere”». L’essere coincide quindi con la sostanzialità non senza prima aver trovato la propria sede originaria nell’io da cui, come nel paragone tra l’occhio e il linguaggio, riceve l’impronta della stabilità e della permanenza. È in riferimento alla stabilità dell’io in cui crediamo – e da dove questa possa provenire Nietzsche lascia qui a mala pena intravedere – che tutto ciò che ci accade e che ci sta intorno si presenta a sua volta stabile. Certo non per questo manchiamo di percepire movimento e mutamento; ma ciò avviene all’interno di una stabilità già posta e consolidata, la stabilità del concetto, della parola che di volta in volta si presenta nella sua pretesa di un significato, di un senso univoco. «Al principio sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente, che la volontà sia una facoltà… Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola…». La volontà è solo una parola, ma proprio per
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Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 72-73.
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il fatto di essere una parola, sembra dire Nietzsche, può essere considerata una cosa: che agisce o che si può intendere come facoltà, che è dotata di un senso, la cui esistenza è implicitamente finalizzata e diretta… Ma diretta dove? A consentirci una interpretazione, una spiegazione di ogni accadere, alla nostra possibilità o necessità di dare un ordine a tutto ciò che è in relazione alla nostra fede nella sostanzialità, nell’esistenza fattuale dell’io. Tra la concezione dell’essere come fondamento e il linguaggio vi è perciò una stretta interconnessione che si basa sulla implicita teleologia e sul carattere di sostanzialità presente in entrambi: lo scopo, e insieme la causa ne è la necessità, per il soggetto, per l’io, di una conferma della propria stabilità, della propria sostanzialità, quasi vi fosse un gioco di rispecchiamento tale per cui la possibilità di nominare un ente, una cosa, costruendone la stabilità all’interno della dimensione del linguaggio – un concetto, una parola è sempre identica a se stessa pur designando enti molteplici – costituisse anche una conferma della stabilità, dell’identità soggettiva.
La fede nel linguaggio Ed è proprio nel linguaggio che si produce l’ispessimento rafforzativo dell’identità: «In realtà nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l’errore dell’essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che noi pronunciamo». È probabilmente la dottrina parmenidea dell’essere che Nietzsche ha qui in mente, quella dottrina che secondo le parole attribuite a Parmenide dice che l’essere è e non è possibile che non sia, una dottrina che egli vede confutata da Eraclito quando a sua volta sostiene che l’essere è una «vuota finzione» 5. Ma non ha qui molta importanza; molta di più ne ha il fatto che Nietzsche metta in luce come una dottrina della permanenza stabile e assoluta dell’essere, di cui non si può dire che non sia, verrebbe confermata da ogni parola, da ogni fra-
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Ivi, p. 70.
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se che pronunciamo; non da frasi o parole a sostegno di questa affermazione, ma da ogni parola o frase in quanto tali. Nietzsche sembra vedere distintamente che è nel linguaggio che si genera o si conferma la fiducia metafisica nella ragione e, più in generale, nella possibilità di conoscenza, di formulare giudizi, del darsi della verità. E questa visione o concezione di fondo del linguaggio come struttura portante della metafisica compare in primo piano nella frase con la quale Nietzsche chiude il paragrafo: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…». La fede in un dio – e si sa cosa rappresenta per Nietzsche: luogo ultraterreno dell’identità, delle verità eterne, dei valori supposti eterni ecc. – è ricondotta alla fede nel linguaggio e nella sua grammatica, all’ordine che attraverso le parole e le frasi noi, in quanto soggetti della conoscenza, della morale ecc. attribuiamo all’ente nella sua totalità con la semplice ed elementare fiducia nel fatto che l’identità sostanziale di una parola o di un concetto denoti una analoga identità sostanziale nell’ente, nella cosa che nomina. Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni: Nietzsche stesso indica l’inclinazione soggettivistica di questa affermazione. Abbiamo ora la possibilità di vedere a quale profondità si annida questo rischio. Qui, con il termine «interpretazione» non è intesa soltanto la predicazione del giudizio, come quando cioè di un ente si predica una qualità che non è implicata dal suo concetto, ma interpretazione potrebbe essere già lo stesso concetto con il quale noi attribuiamo a un ente, a una cosa, una identità. Interpretare, prima ancora di fornire una spiegazione o attribuire un senso, può essere inteso come l’attribuzione di una identità (di un significato e di un senso per noi, per il soggetto) a ciò che in origine, per Nietzsche, si sottrae a ogni individuazione. Esistono numerosi passi e frammenti del Nachlass che possono confermare questa ipotesi. Ne andrebbero citati alcuni, molto vicini tra loro, scritti tra l’autunno 1885 e l’autunno 1886: Una «cosa in sé» è altrettanto assurda di un «senso in sé», di un «significato in sé». Non si dà un «fatto in sé»; perché si possa dare un fatto, bisogna sempre prima introdurvi un senso.
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Il «che cos’è ciò?» è un dar senso, visto da un’altra cosa. L’«essenza», l’«entità» sono qualcosa di prospettivistico e presuppongono già una pluralità. Alla base c’è sempre un: «che cos’è ciò per me?» (per noi, per tutto ciò che vive, ecc.). Una cosa sarebbe designata solo quando rispetto a essa tutti gli esseri avessero domandato e risposto al loro «che cos’è ciò?». Posto che mancasse un unico essere, con le sue relazioni e prospettive verso tutte le cose, la cosa non sarebbe ancora «definita». In breve, l’essenza di una cosa è anche solo un’opinione sulla «cosa». O piuttosto: l’«essa è considerata» è il vero «essa è», l’unico «essa è» 6.
E ancora: La genesi delle «cose» è in tutto e per tutto opera degli esseri che formano rappresentazioni, pensano, vogliono, sentono. Ciò vale per il concetto stesso di «cosa» come per tutte le qualità. – Anche «il soggetto» è una creazione del genere, una «cosa», come tutte le altre: una semplificazione per indicare la forza che pone, inventa, pensa, come tale, distinta da ogni singolo porre, inventare e pensare. Dunque la facoltà distinta da ogni atto singolo: in fondo il fare, considerato in relazione a ogni fare ancora prevedibile (il fare e la probabilità di un fare simile) 7.
Infine, sul carattere arbitrario e creativo della designazione linguistica: Sul capitolo «Artisti» (in quanto individui che plasmano, aggiungono valori, prendono possesso). Le nostre lingue come risonanze delle più antiche prese di possesso delle cose, da parte di dominatori e pensatori insieme –; a ogni parola coniata si accompagnava il comando: «così dovrà essere chiamata la cosa d’ora in poi !» 8
Ogni designazione linguistica che pretenda di cogliere concettualmente una cosa, la sostanzialità di un ente, come ciò a cui si attribuisce una identità altro non è che una organizzazione e costruzione finalizzata
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Frammenti postumi 1885-1887, cit., 2[149], pp. 126-127 e 2[150], p. 127. Ivi, 2[152], p. 127. Ivi, 2[156], p. 129. Su questo argomento cfr. anche Genealogia della morale, cit.
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di sensazioni che provengono e si producono da una prospettiva; «L’“essenza”, l’“entità” presuppongono già una pluralità». Il concetto di cosa, e ogni concetto, rimanderebbe in altri termini a singole qualità e forze che di per se stesse non costituiscono né una entità né un fatto ma che solo nel venire considerate a partire da uno sguardo prospettivistico, che organizza e impone forme, verrebbero ad assumere lo statuto di entità, di cosa, di ente. Ma quel che più importa è che l’introduzione di un senso, di uno scopo provengono dal bisogno, dalla necessità che il soggetto ha di organizzare l’accadere imponendogli un fine per la conferma del carattere sussistente, sostanziale della propria soggettività. In questo senso si può parlare di una implicita teleologia del linguaggio. Volontà di potenza e interpretazione Si è partiti da una considerazione alquanto generale circa la possibile connessione che sussisterebbe tra la forma allegorica dello Zarathustra e l’annuncio del superuomo che vi è contenuto. È stato necessario questo giro per introdurre alcune considerazioni che Nietzsche, in modo più o meno esplicito, conduce sul linguaggio, per imbattersi alfine in una serie di ipotesi che sempre più avvicinano la questione del linguaggio alla questione della soggettività. Questo giro non può concludersi qui; ci sono altri luoghi della riflessione nietzscheana da cui si può cogliere in maniera ancora più articolata e ampia questo nesso, che rivela la sua centralità nel momento in cui si consideri che la critica nietzscheana alle nozioni di fine e scopo, alla teleologia che è implicita nei concetti o addirittura più in generale nel linguaggio sta alla base della dottrina dell’eterno ritorno e della sua comunicazione. Così come centrale è anche la questione dell’interpretazione in rapporto alla volontà di potenza; anzi, come scrive Nietzsche in più di qualche passo, l’interpretazione è una delle forme della volontà di potenza 9.
9 Cfr. ivi, 2[148], p. 126: «La volontà di potenza interpreta: nella formazione di un organo si tratta di una interpretazione; essa traccia confini, determina gradi, diversità di
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Nietzsche, disarticolando alcuni luoghi del pensiero filosofico, e quelli più implicitamente assunti come punti fermi – come nel caso della nozione di cosa o di fatto – va a scoprire, al di sotto di quella presunta unità con cui essi si presentano a noi, una molteplicità di aspetti, di qualità, di forze la cui organizzazione, in termini di sostanza, è l’effetto di un interpretare che trova il suo luogo di provenienza in quel fatto interpretativo originario che è la fede nella sostanzialità, nell’identità del soggetto che interpreta, di un soggetto che ha la necessità di mettersi al riparo dalla molteplicità del mutamento 10, dal carattere arbitrario, illusorio e fittizio della sua costituzione. L’effetto della sua volontà di dire “io”, di imporre all’essere una permanenza e un fondo di salda persistenza per poter riconoscere in esso la propria stabilità si rivela così nelle pieghe non solo del discorso filosofico ma del linguaggio stesso, in quella usura, in quella perdita del carattere metaforico che già il giovane Nietzsche aveva colto nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale. Allora anche il parlare per enigmi e simboli di Zarathustra indica, al di sotto delle suggestioni poetiche e del moltiplicarsi dei significati, dei sensi, quel tenore conflittuale, di tensione e insieme di rischio che è sempre sotteso all’interpretare in quanto luogo da cui si produce il soggetto e dove l’«oltre», l’über del superuomo vuole forse segnare un tentativo di superamento, di presa di congedo dalla fede nell’uomo in quanto individuum, “fatto” ultimo e originario, ma insieme anche residuale, di ogni interpretazione.
potenza. Le mere diversità di potenza non potrebbero ancora sentire se stesse come tali: ci dev’essere qualcosa che voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere […]. In verità l’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa. Il processo organico presuppone costantemente L’INTERPRETARE»; e 2[151], p. 127: «Non si deve chiedere: “chi interpreta allora?”. L’interpretare stesso, come una delle forme della volontà di potenza, ha esistenza come un affetto (ma non come un “essere”, bensì come un processo, un divenire).» 10 Cfr. per esempio Frammenti postumi 1887-1888, cit., 9[98], pp. 48-49.
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6. VOLONTÀ E SOGGETTO. VERSO LA VOLONTÀ DI POTENZA
Il soggetto nell’interpretare Per quanto il terreno non sia di quelli più frequenti e frequentati in Nietzsche, tra linguaggio e soggettività si consolidano rapporti e nessi che, seppure trapelino con guizzi più che per giri di argomentazioni, sono sostenuti dalla tesi (che però è anche un problema) per la quale entrambi partecipano dell’illusione. Se è vero che egli non si sofferma molto a lungo e diffusamente sul linguaggio, questo è forse dovuto al fatto che la scoperta che tutto è interpretazione trovava diretto e esplicito antagonismo, e quindi più immediata applicazione, nella solidità delle tradizionali parole filosofiche, come sostanza e essere, che non in una riflessione, tutta da creare, sulle implicazioni ontologiche del linguaggio. Tema questo che viene sempre più prendendo piede nella riflessione filosofica di questo secolo – quanto Nietzsche vi abbia contribuito è difficile dire; ma probabilmente più di quel che sembra – ma che in Nietzsche già cerca di affacciarsi, magari ricoperto dalla vis polemica contro un avversario ormai precisamente individuato. Leggendo alcuni passi dei Frammenti postumi si può riconoscere come la nozione di interpretazione, usata prevalentemente per distruggere, provenga da una intuizione di cui Nietzsche stesso non vide la complessità e la ricchezza. Nonostante sia proprio lui per primo a constatare che il tratto che raccoglie insieme ciò che è evento linguistico e ciò che è soggetto sta nell’interpretare.
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Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni. E da quanto segue a fare da corollario a questa formula si apprende che non solo il “fatto” o la “cosa” si frantumano, ma anche le implicazioni soggettivistiche dell’evento interpretativo. L’argomentazione di Nietzsche vuole mettere in guardia dal pericolo, ancora più insidioso dal suo punto di vista, di intendere l’interpretazione come una attività da ricondurre a un elemento o fatto originario. Dall’assumere cioè che, per quanto tutto sia interpretazione, al di sotto dell’interpretare ricompaia un (il) soggetto che interpreta, esterno all’interpretazione stessa e quindi presente come residuo di sostanza. A questa ricaduta in una visione metafisica dell’interpretazione, Nietzsche sbarra la strada sostenendo che nemmeno il soggetto dell’interpretare è qualcosa di dato che si porrebbe su un piano diverso (trascendente o trascendentale) dall’interpretare, ma anch’esso è un «qualcosa di appiccicato dopo». Anche nel momento in cui “interpretiamo”, consapevoli di aver eliminato la fede che ci porterebbe a ritenere “vera” la nostra interpretazione (questo, come accennato in precedenza, vale anche per i giudizi), di aver eliminato la verità come adeguazione di intelletto e cosa ecc., abbiamo tuttavia sempre la necessità di affidarci al fatto (bruto e residuale) che c’è pur qualcuno che interpreta e che mentre lo fa non può rientrare in ciò che fa ma deve rimanersene al di fuori. È il presupposto necessario – un agente al di fuori dell’azione, un pensiero al di fuori del pensato – da cui procede la possibilità di assegnare un fondamento alla totalità dell’ente. Per quanto ridotta quest’ultima ormai all’«ultimo fumo della svaporante realtà» 1, permane un elemento che si assume (e però meglio sarebbe dire: da cui si viene assunti già nel parlarne) come originario dell’interpretare, nel soggetto che interpreta. Le cose, i fatti già da molto tempo non sono più «in se stessi», ma per un soggetto: puri e semplici eventi di senso – e in ciò completamente relativizzati. Ma questo non comporta affatto che si relativizzi alcunché nel pensiero. Nell’indebolirsi e perdere via via di spessore da parte di tutto ciò che accade al di fuori dell’ambito sempre più inapparente e perciò
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Crepuscolo degli idoli, cit., p. 71.
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sempre più potente del soggetto, quest’ultimo, quale punto e centro stabile di ogni essere-relativo, rivela la sua posizione assoluta. La stabilità della posizione soggettiva verrebbe dal trovarsi di fronte le cose in quanto significati riferibili a un soggetto. Come in un gioco di specchi: dopo aver introdotto o creato o ritrovato un senso, organizzato cioè un molteplice in unità, il soggetto – rimirando la stabilità di quanto ora gli sta di fronte nella forma dell’identico, dell’identificabile – può assumere la propria posizione assoluta che gli viene rimandata da quella relativa (anzitutto al proprio sguardo) di ciò che vede. Come corollario e in altri termini, la possibilità di credere in ciò che si vede e l’impossibilità di dubitare che si vede. È da qui che Nietzsche può parlare di prospettivismo per cercare di descrivere cosa possiamo trovare in fondo a ogni costruzione di senso. E questo non solo per il concatenarsi di fatti o eventi tra loro, ma addirittura al di sotto del singolo fatto, del singolo evento, della singola cosa. Ogni cosa, in quanto tale, è ricondotta a una formazione di senso, a una organizzazione del molteplice che si produce dal bisogno di identificazione (i cui luoghi privilegiati e più praticabili sono i finalismi e i causalismi) cui il soggetto non può rinunciare se non rinunciando alla propria sussistenza.
Parola e concetto È a questo proposito che entrano in scena le relativamente scarse ma concentrate osservazioni sul linguaggio, soprattutto in riferimento alla parola e al concetto in quanto fungerebbero, proprio essi, da elementi ultimi di una aggregazione del molteplice, di una formazione di senso. Ogni concetto, ogni parola sarebbero già il punto terminale di un processo (nascosto, e invisibile) attraverso il quale una molteplicità viene raccolta, organizzata e dotata di senso. Per questo motivo è possibile parlare anche di un invisibile aspetto teleologico del linguaggio. Il che potrebbe venire confermato quando Nietzsche sostiene che il mondo è privo di scopo, privo di senso, di direzione e, da ultimo, riconducibile alla emblematica figura del dio Dioniso o del divenire eracliteo.
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Da questo punto, che in fondo è la base critica dalla quale poi vengono a costruirsi, si possono accostare le nozioni di volontà di potenza e eterno ritorno dell’uguale che – come si vedrà, in stretto rapporto tra loro – cercano di esprimere quanto Nietzsche, fino al momento di coniarle, ha elaborato. Soltanto per esempio: mondo caotico del divenire, mancanza di scopo, fine ecc. sono elementi che fanno da cornice alla dottrina dell’eterno ritorno, elementi che Nietzsche non ricava soltanto da una speculazione filosofica ma che si trovano elaborati e discussi anche in rapporto a considerazioni scientifiche o a ipotesi che al suo tempo la scienza veniva formulando. Ma questa inclinazione per la scienza, che in Nietzsche c’è ma che a volerla approfondire comporterebbe un giro troppo largo, deriva dal bisogno di trovare elementi sulla cui base mettere in discussione ciò che implicitamente regge l’intero edificio della scienza e, prima ancora, ciò su cui pretende di poggiare il pensiero; ossia la nozione di causa, la possibilità (nel senso, soprattutto, del limite) di spiegare – e quindi conoscere – qualcosa attraverso qualcos’altro. Se allora l’eterno ritorno è una sfida radicale del pensiero alla nozione di causa che lo domina, sia nel senso di causa efficiente che nel senso di causa finale, e di conseguenza dell’interpretazione della realtà stessa in termini di cause e effetti, è anche una sfida alla nozione di soggetto quale abbiamo visto derivare in quanto causa dell’interpretare, ciò che è supposto esserci dietro ogni interpretazione come punto fermo; magari trascendentalizzato, ma necessario a ogni attribuzione e riconoscimento di senso 2.
Soggetto e causalità La relazione tra l’eterno ritorno e la soggettività si mostrerà più avanti, entro un esame di alcuni passi dello Zarathustra. Per il momen-
2 Sul tenore anticausalistico e antifinalistico delle riflessioni di Nietzsche intorno alla scienza (e anche sulle sue considerazioni “scientifiche” in proprio) soprattutto in relazione alla dottrina dell’eterno ritorno, cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit.
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to va ancora tenuta l’equazione che attraversa tutti i testi del periodo più maturo di Nietzsche, per la quale il concepire, o anche semplicemente l’affidarsi all’esistenza di una causa implica il riferimento a un soggetto, a una sostanza. Alcuni passi, tra i molti, possono dare l’idea di quanto questo fenomeno sia visto da Nietzsche con chiarezza, e combattuto. Anzitutto un brano di Al di là del bene e del male: … se si volesse con il virtuoso entusiasmo e la balordaggine di alcuni filosofi togliere completamente di mezzo il «mondo apparente», ebbene, posto che voi possiate far questo, – anche della vostra «verità», almeno in questo caso, non resterebbe più nulla! Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esista una sostanziale antitesi di «vero» e «falso»? Non basta forse riconoscere diversi gradi di illusorietà, nonché, per così dire, ombre e tonalità complessive, più chiare e più oscure, dell’apparenza, – differenti valeurs, per usare il linguaggio dei pittori? Per quale ragione mai il mondo, che in qualche maniera ci concerne, – non potrebbe essere una finzione? E se a questo punto qualcuno domandasse «ma non si richiede per ogni finzione un autore»? – non gli si potrebbe rispondere chiaro e tondo: E perché mai? Codesto «si richiede» non rientra forse nella finzione? Non è forse permesso essere alla fine un po’ ironici verso il soggetto, come verso oggetto e predicato? Non potrebbe forse il filosofo innalzarsi al di sopra della fiducia nella grammatica? Con tutto il rispetto per le governanti, non sarebbe questo il momento che la filosofia rinunciasse alla fiducia nelle governanti? 3
E ancora, nelle note postume: Il credere nella causalità deriva dal credere che ciò che agisce sia l’io, dal separare l’«anima» dalla sua attività. Cioè da un’antichissima superstizione. Ricondurre l’effetto a una causa significa ricondurlo a un soggetto. Si crede che tutte le modificazioni siano prodotte da soggetti. – Il concetto «modificazione» presuppone già il soggetto, l’anima come sostanza 4.
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Al di là del bene e del male, cit., pp. 42-43. Frammenti postumi 1885-1887, cit., 1[38-39], p. 12 e 1[43], p. 13.
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Questo però ci porta verso la volontà di potenza, per quanto – ed è molto – essa ha a che fare con l’interpretazione. Proprio di questo tratta il seguente frammento: La volontà di potenza interpreta […]. In verità l’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa. Il processo organico presuppone sempre L’INTERPRETARE 5.
Immediatamente ci si trova qui di fronte a una considerazione che sembra contrastare molto e anche a breve distanza di tempo (pochi mesi) con la distruzione della causalità e della soggettività. Pur dichiarando di volere eliminare il presupposto soggettivistico di ogni interpretazione, Nietzsche separa qui l’azione, in questo caso l’interpretare, dal suo agente, in questo caso la volontà di potenza. Si reintroduce, e non ce ne sarebbero dubbi, una sostanza che, sebbene non omologabile o assimilabile alla nozione psicologica di soggetto (anima, “io” ecc.), viene a svolgerne la stessa funzione. In realtà, questo contrasto indica uno stato di complessità, più che di contraddizione, assai spinto della riflessione di Nietzsche, al punto che è opportuno anticiparne in forma di tesi gli esiti: la volontà di potenza è radicalmente duplice. È un colpo portato a fondo contro la soggettività (la desoggettivazione implicata dall’interpretare come attività priva di fondamento), e una ineluttabile risoggettivazione dell’interpretare stesso, slegata da una psicologia sostanzialistica ma ricondotta a un’altra forma di soggettività, al processo stesso di soggettivazione che la volontà di potenza è.
Contro la logica Prima di proseguire verso questa complessità, va fatta altra luce sul legame tra soggettività e linguaggio, cercando di comprendere quale ti-
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Ivi, 2[148], p. 126; cfr. sopra, cap. 5, nota 9.
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po di interpretazione soggettivistica Nietzsche tenta di combattere e di soppiantare con l’interpretare della volontà di potenza. Per questo c’è bisogno di sostare a lungo su un frammento molto importante dell’autunno 1887 che fa vedere come, a partire da una critica del principio di contraddizione e alle sue derivazioni logiche, Nietzsche riconduca la logica stessa alla formazione arbitraria e illusoria dei concetti: Noi non riusciamo ad affermare e a negare una stessa e identica cosa: è questo un principio di esperienza soggettivo, in esso non si esprime una «necessità», ma solo un non potere. Se, secondo Aristotele, il principio di contraddizione è il più certo di tutti i princìpi, se è l’ultimo e il più elementare, a cui si riconducono tutte le dimostrazioni, se in esso risiede il principio di tutti gli altri assiomi, tanto più rigorosamente si dovrebbe riflettere sulle affermazioni che esso in fondo già presuppone. O con esso si afferma qualcosa in relazione alla realtà, all’essere, come se esso lo conoscesse già da altra fonte: cioè che non gli si possono attribuire predicati opposti. Oppure il principio vuol dire che non gli si dovrebbero attribuire predicati opposti? Allora la logica sarebbe un imperativo non per conoscere il vero, ma per porre e ordinare un mondo che dev’essere vero per noi. Insomma, la questione rimane aperta: gli assiomi logici sono adeguati al reale o sono criteri e mezzi per creare il reale, il concetto di «realtà» per noi?… Per poter affermare la prima cosa, occorrerebbe però, come si è detto, conoscere già l’essere: il che assolutamente non è. Il principio non contiene quindi un criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che DEVE valere come vero. Posto che non si desse affatto una tale A identica a se stessa, come ogni proposizione di logica (e anche di matematica) presuppone, la A sarebbe già un’illusione, e così la logica avrebbe come presupposto un mondo meramente illusorio. In realtà noi crediamo a quel principio sotto l’impressione dell’infinita empiria, che sembra costantemente confermarlo. La «cosa» – è questo il vero e proprio sostrato di A: il nostro credere a cose è il presupposto per credere alla logica. L’A della logica è, come l’atomo, una ricostruzione della «cosa»… Non comprendendo ciò e facendo della logica un criterio del vero essere, noi siamo già sulla strada di porre tutte quelle ipostasi come sostanza, predicato, oggetto, soggetto, azione, ecc., come realtà; ossia di concepire un mondo metafisico, cioè un «mondo vero» (ma questo è il mondo illusorio ancora una volta…). Gli atti di pensiero più originari, l’affermare e il negare, il tener per vero e tener per non vero, sono, in quanto non presuppongono solo un’abitudine, ma un diritto in genere di tener per vero o di tener per non vero, già dominati dalla credenza che per noi la conoscenza esista, che il giudizio POSSA effettivamente cogliere la verità; insomma, la logica non dubita di poter enunciare qualcosa sull’«in sé vero» (cioè che a esso non possono spettare predicati opposti).
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Vige qui il grossolano pregiudizio sensistico che le sensazioni ci insegnino verità sulle cose – che io non possa nello stesso tempo dire di una stessa e medesima cosa che è dura e che è molle. (La prova istintiva «non posso avere due sensazioni opposte contemporaneamente» – è del tutto grossolana e falsa). Il divieto concettuale di contraddizione proviene dal credere che noi possiamo formare concetti, che un concetto non solo designi, ma anche afferri il vero di una cosa… In realtà la logica (come la geometria e l’aritmetica) vale solo per verità fittizie, CHE SONO STATE DA NOI CREATE. La logica è il tentativo di comprendere, o meglio di rendere per noi formulabile, calcolabile, secondo uno schema di essere da noi posto, il mondo reale… 6
Dunque: il principio di contraddizione, su cui si fonda l’intero impianto logico del pensiero e che dovrebbe costituirne il presupposto, non può fondare niente perché in realtà a sua volta presuppone: 1. la conoscenza dell’essere, per la quale l’essere è ciò di cui non possono darsi predicati opposti (se A è A ne consegue che è non B); ma questo viene negato da Nietzsche perché dell’essere, del reale come anche egli lo chiama, non abbiamo alcuna conoscenza anteriore al principio di contraddizione stesso. E questo è vero in assoluto in quanto ogni forma di conoscenza proviene dal principio di contraddizione medesimo al cui interno si trova anche il concetto di essere (e necessariamente, in quanto concetto); 2. oppure il principio di contraddizione non riveste un significato originariamente logico ma pragmatico, secondo il quale all’essere «non […] si dovrebbero attribuire predicati opposti». Da questo punto di vista allora il principio di contraddizione non ha niente a che vedere con la verità, non contiene «un criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che DEVE valere come vero». E fin qui nulla di particolarmente nuovo: si è già potuto vedere come Nietzsche, assimilando la verità all’arte, l’abbia inevitabilmente posta sul piano del valore, facendola così dipendere non da un presunto vero in sé ma da ciò che è vero in quanto deve valere come tale per noi. L’espressione «l’arte ha più valore della verità» significa non solo che la ve-
6
Frammenti postumi 1887-1888, cit., 9[97], pp. 46-48.
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rità non è più un valore supremo o ciò a partire da cui un valore vale, ma che la verità è dotata esclusivamente di un carattere pragmatico e, come l’arte ma a un livello più basso, illusorio. Fino a questo punto però Nietzsche si limita a una critica dei giudizi logici sulla base di una messa in discussione del carattere originariamente veritativo del principio di contraddizione: ogni verità che noi pretendiamo di ricavare da un giudizio, dalla predicazione, è fittizia in quanto non esistono giudizi che non derivino da un imperativo. Ma dalla continuazione del suo discorso si apprende che non è soltanto il carattere pragmatico del giudizio a rimanere nascosto dietro l’illusione della verità. Prima ancora di poter dire che A è A, è necessario che un qualcosa come A, nel senso di quell’ente o quel concetto di cui dobbiamo predicare in questo caso l’identità – e logicamente non possiamo non predicarla – è necessario che un A sia già dato. Ma già questo A, scrive Nietzsche, è un’illusione: «Posto che non si desse affatto una tale A identica a se stessa […] la A sarebbe già un’illusione, e così la logica avrebbe come presupposto un mondo meramente illusorio». Non solo quindi la logica è illusoria, ma anche il mondo a cui vuole applicarsi, che vuole conoscere, di cui vuole impadronirsi in termini di verità. E ancor più rilievo ha il fatto che l’illusorietà della logica deriva dall’illusorietà proprio di quel mondo, del mondo empirico; scrive infatti Nietzsche: «in realtà noi crediamo a quel principio [al principio di contraddizione] sotto l’impressione dell’infinita empiria, che sembra costantemente confermarlo. La “cosa” – è questo il vero e proprio sostrato di A: il nostro credere a cose è il presupposto per credere alla logica. L’A della logica è, come l’atomo, una ricostruzione della “cosa”». Allora, prima ancora di essere illusoria nei suoi giudizi, la logica è illusoria nei concetti e nelle parole a cui si applica. Il concetto stesso è un’illusione che consisterebbe nel ritenere afferrabile ciò che non lo è, ossia una unità materiale, un elemento empirico, una cosa. Ma questa critica al concetto, e più estesamente alla pretesa di far corrispondere il particolare all’universale, il molteplice all’unità ecc., è in questo frammento toccata da Nietzsche solo lateralmente e superficialmente; il passo si chiude infatti con una ripresa della critica alla logi-
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ca condotta sul piano della formulazione dei giudizi e quindi della comprensibilità e calcolabilità del mondo secondo uno schema posto da noi. La parte più penetrante della sua ipotesi sembrerebbe così da lui stesso lasciata sullo sfondo. In realtà però già alcuni anni prima egli aveva tentato di fare chiarezza su questo punto. È lecito perciò pensare che la critica del rapporto tra l’unità empirica della cosa e l’unità logico-linguistica del concetto, fosse da lui data per scontata. Vanno ora letti alcuni passi in cui molto succintamente ma con estrema precisione Nietzsche dà testimonianza di quanto fraintendimento, errore, illusione ci sia nella formulazione dei concetti e soprattutto nella loro applicazione alla presunta realtà delle cose. I tre frammenti che seguono sono dell’estate-autunno 1884: … In sé sarebbe possibile che, per la conservazione dell’essere vivente, fossero necessari appunto errori radicali, e non «verità radicali». Per esempio, si potrebbe pensare un’esistenza, nella quale il conoscere stesso sarebbe impossibile, perché vi è contraddizione tra il fluire assoluto e la conoscenza: in un mondo tale, una creatura vivente dovrebbe credere agli oggetti, alla durata, e così via, per poter esistere: l’errore sarebbe la sua condizione di esistenza. Forse è così. L’intero apparato conoscitivo è un apparato di astrazione e semplificazione – non diretto alla conoscenza, bensì al dominio delle cose: «scopo» e «mezzo» sono tanto lontani dall’essenza quanto i «concetti». Con «scopo» e «mezzo» ci si impossessa del processo (si inventa un processo che è afferrabile), con i «concetti», invece, delle «cose», che fanno il processo. Alla fine l’inconoscibilità della vita potrebbe appunto risiedere nel fatto che tutto è in sé inconoscibile e noi arriviamo a comprendere soltanto ciò che noi stessi abbiamo prima costruito e connesso: intendo dire sulla contraddizione tra le funzioni prime del «conoscere» e la vita. Quanto più una cosa è conoscibile, tanto più essa è lontana dall’essere, tanto più essa è concetto 7.
Senza dilungare i commenti, basti sottolineare una volta di più la relazione in cui Nietzsche vuole mettere, soprattutto nel secondo dei
7 Frammenti postumi 1884, tr. it. di M. Montinari, vol. 26[61], p. 149 e 26[70], p. 151.
VII,
t. 2, 26[58], p. 148;
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frammenti, lo «scopo» con il «concetto» quali strumenti di semplificazione, di schematizzazione e di afferramento della realtà; questi producono sì “conoscenza”, la possibilità di conoscere, ma nel contempo, come è affermato nel passo successivo, un allontanamento dall’essere verso il rafforzamento della fede in un soggetto (inteso come sostanza, causa ultima ecc.). È utile mettere in relazione questo discorso, che scredita l’implicito presupposto soggettivistico (causalistico) dell’interpretazione, con l’affermazione riportata prima e che sembra in netto contrasto con ciò che Nietzsche qui sostiene. Dire che «la volontà di potenza interpreta» rilancia la questione se sia davvero possibile un abbandono, una distruzione di quell’elemento soggettivo contro cui Nietzsche combatte. E, di conseguenza, la questione di come verrebbe a modificarsi la figura della soggettività nella volontà di potenza.
La negazione della volontà Trovano qui sede adeguata due frammenti, scritti da Nietzsche tra la fine del 1887 e l’inizio del 1888, dai quali si può cogliere la conflittualità in cui egli si trova nel momento in cui, proprio con la volontà di potenza, vuole raggiungere la massima desoggettivazione, ossia negare la volontà. Come se, anticipando, volontà di potenza significasse tutto il contrario che un rafforzamento della volontà: la sua negazione, l’eliminazione della componente soggettiva che nella volontà resta ineliminabile. Quindi: massimo sforzo di desoggettivazione e, insieme, tenore paradossale, quasi fallimentare di questa intrapresa. E tutto ciò all’interno o accanto a una costante ripresa (critica) del linguaggio concettuale. Ecco il testo: Deduzione psicologica della nostra fede nella ragione Il concetto di «realtà», di «essere», è ricavato dal nostro senso del «soggetto». «Soggetto», interpretato in base a noi stessi, in modo che l’«io» funga da soggetto, da causa di ogni fare, da autore.
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I postulati logico-metafisici, il credere nella sostanza, nell’accidens, nell’attributo, ecc., trovano la loro forza di persuasione nell’abitudine di considerare tutto il nostro fare come conseguenza della nostra volontà, in modo che l’«io», come sostanza, non perisca nella molteplicità del mutamento. – Ma non c’è nessuna volontà. Non abbiamo categorie in base alle quali poter distinguere un «mondo in sé» da un mondo come apparenza. Tutte le nostre categorie razionali hanno origine sensistica: ricavate dal mondo empirico. «L’anima», «l’io» – ‹la› storia di questo concetto mostra che anche qui la più antica divisione («fiato», «vita») --Se non esiste niente di materiale, non esiste neppure niente d’immateriale. Il concetto non contiene più niente… Niente «atomi»-soggetto. La sfera di un soggetto cresce o diminuisce continuamente – il centro del sistema si sposta continuamente; se non può organizzare la massa di cui si è appropriato, si divide in due. D’altra parte esso può trasformare un soggetto più debole, senza distruggerlo, in un suo tributario, formando fino a un certo grado, insieme con esso, una nuova unità. Nessuna «sostanza», piuttosto qualcosa che in sé aspira a rafforzarsi; e che solo indirettamente vuole «conservarsi» (vuole superarsi) 8.
Negazione della volontà, a cui fa da correlato la chiusa del frammento con la negazione della sostanza. La sostanza è dunque volontà, e la volontà non può concepirsi se non come sostanza. Tranne che nel caso di «qualcosa che in sé aspira a rafforzarsi…», come dicono le ultime righe del passo. Qui Nietzsche parla di rafforzamento e superamento con intento antisostanzialistico. Nel frammento che segue egli dice qualcosa di più sul significato di questi termini: Il punto di vista del «valore» è il punto di vista delle condizioni di conservazione e di potenziamento rispetto a strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire; – non ci sono unità durevoli ultime, non atomi, non monadi: anche qui «l’essere» è stato introdotto solo da noi (per ragioni pratiche, di utilità, prospettiche);
8
Frammenti postumi 1887-1888, cit., 9[98], pp. 48-49.
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– «Strutture di dominio»; la sfera di ciò che domina cresce continuamente, oppure diminuisce e aumenta periodicamente oppure, col favore o lo sfavore delle circostanze (del nutrimento) – – «Valore» è essenzialmente il punto di vista dell’accrescimento o diminuzione di questi centri di dominio («pluralità» in ogni caso; l’«unità» invece non esiste affatto nella natura del divenire); – un quantum di potenza, un divenire, in quanto in esso nulla ha il carattere dell’«essere»; in quanto --– i mezzi espressivi del linguaggio non servono per esprimere il «divenire»; fa parte del nostro ineliminabile bisogno di conservazione il porre costantemente un più grossolano mondo del permanente, di «cose», ecc. Relativamente possiamo parlare di atomi e di monadi, ed è certo che il mondo più piccolo in durata è il più durevole… – non c’è una volontà: ci sono puntuazioni di volontà, che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza 9.
La conservazione, il superamento, il potenziamento che nel frammento precedente esprimevano una portata antisostanzialistica e antisoggettivistica sono qui messi in relazione al valore come punto di vista. Ma ciò che Nietzsche vuole sottolineare è il fatto che il valore come elemento prospettico, come punto di vista non corrisponde a una volontà. Ossia non corrisponde a, e non dipende da, qualcosa di unitario, non dipende da un volere in quanto tendere a uno scopo a esso trascendente, mirare a un fine, ma da una molteplicità in divenire, da puntuazioni di volontà che egli chiama anche quanta di potenza e che esprimono, nel volere, esattamente l’opposto di una unità e di una permanenza. Allora quel «di potenza» che Nietzsche affianca al termine volontà si presenta, contrariamente al senso immediato che si sarebbe tentati di attribuirgli, non come un potenziamento della volontà bensì, tutto al contrario, come una sua frammentazione, una sua dispersione nel molteplice, la mancanza, anche, di una identità con se stessa. La volontà insomma, nell’espressione volontà di potenza, vorrebbe indicare tutt’altro
9 Ivi, 11[73], pp. 247-248. Sulla negazione della volontà e le sue implicazioni per il pensiero anche in riferimento al concetto di «io» e di «causa», cfr. Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 86-88.
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che un elemento soggettivo e sostanzialistico unitario; piuttosto una forma “soggettiva” derivata, dinamica, che invece di tendere a una unità o identità individuale si dilata e si comprime, «cresce o diminuisce […] si sposta continuamente». Siamo così sulla soglia di quel tenore paradossale, preannunciato, che in Nietzsche assumono le nozioni di volontà e di soggetto. E la loro presenza nei testi della sua riflessione più matura è indice non solo della necessità di una loro confutazione ma anche della impossibilità stessa della loro eliminazione, come se si trattasse appunto di un incessante prodursi e scomparire.
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7. VOLONTÀ DI POTENZA COME PARADOSSO DEL SOGGETTO
Volontà e volontà di potenza A più riprese Nietzsche sostiene che «non c’è nessuna volontà», in particolare nel frammento intitolato «Deduzione psicologica della nostra fede nella ragione». Per contro, la volontà di potenza è una delle parole chiave del suo pensiero, e se si volesse accordare importanza al fatto che sopraggiunge per ultima, anche la più importante. Quale differenza, allora, si introduce tra «volontà» e «volontà di potenza»? Domanda legittimata dal fatto che l’affermazione della volontà di potenza e la negazione della volontà appartengono a un medesimo gesto filosofico, che non si presta a essere scomposto nemmeno sul piano della cronologia. Cosa si rappresenta Nietzsche con questo contrasto? E come possiamo parlarne? L’imbarazzo nasce dalla ovvietà per la quale la volontà di potenza non dovrebbe essere una negazione della volontà. Anzi, il «di potenza» è un rafforzativo della volontà perché di essa si pone a complemento. Una volontà che volesse la potenza, e in particolare la propria, può aspirare all’affermazione del proprio sussistere, e addirittura a sussistere come fondamento: forma (o soggetto) suprema per la quale tutto ciò che è posto lo è nel modo del complemento e quindi, in quanto esito necessario del porre, risulta essere un rafforzamento del porre stesso. Per la metafisica il fondamento come volontà è assoluto, e solo la volontà può essere il fondamento assoluto. Lo attesta la via che da Kant conduce a Schopenhauer, per il quale nella volontà la distinzione tra soggetto
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e oggetto (il volente e il voluto) non tiene più: entrambi scompaiono nella purezza di un volere assolutamente privo di determinazioni. Con Nietzsche, una volontà che vuole la potenza (che non può che essere la propria) è assolutamente riflessiva, vuole non altro che se stessa e la propria affermazione incondizionata. Volontà di potenza, come suggerisce Heidegger, non è altro che volontà di volontà e quindi raggiungimento di una posizione metafisica assoluta: «La domanda decisiva è per l’appunto: come e in base a che cosa fanno parte del volere, nel volere, il voluto e il volente? Risposta: in base al volere e per mezzo del volere. Il volere vuole il volente in quanto tale, e il volere pone il voluto in quanto tale» 1. Sono conseguenze tratte correttamente, per ciò che prendono in considerazione. E certo in considerazione tengono molto di più la «volontà di potenza» nel suo derivare dal concetto metafisico di volontà che non la decisa presa di posizione di Nietzsche contro il “sussistere” della volontà. Nel caso di Heidegger in particolare, la negazione della volontà da parte di Nietzsche viene presa in considerazione quel tanto che basta a liquidarla definitivamente. Nel Nietzsche egli cita un frammento che risale all’epoca della stesura dello Zarathustra e che dice: «Io rido della vostra libera volontà e anche di quella non libera: per me è un’illusione quella che voi chiamate volontà, la volontà non esiste» 2. Ed ecco il commento, più sorprendente per la brevità che per il tributo reso a Nietzsche: «strano che il pensatore per il quale la volontà è il carattere fondamentale di tutto ciò che è dica che “non esiste volontà”. Ma Nietzsche intende dire che non esiste quella volontà che finora era nota e denominata come facoltà psichica e come appetito universale» 3. Questa osservazione coglie nel segno e già si è avuto modo di vedere Nietzsche impegnato a togliere alla nozione di volontà – e proprio con la volontà di potenza – il suo aspetto sostanzialistico e soggettivisti-
1
M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 53. Frammenti postumi 1882-1884, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, vol. VII, t. 1, parte seconda, 13[1], p. 80. 3 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 51. 2
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co. «Non c’è nessuna volontà» significa soprattutto, come egli dice nella «Deduzione psicologica della nostra fede nella ragione», che non c’è «nessuna “sostanza”, piuttosto qualcosa che in sé aspira a rafforzarsi; e che solo indirettamente vuole “conservarsi” (vuole superarsi)». Si deve anche pensare che la ripetuta negazione della volontà esprima lo sforzo con cui Nietzsche tenta di discostarsi da quella formulazione della volontà data da Schopenhauer e a cui, nelle sue opere giovanili, egli era stato molto vicino. Avvalendosi della distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, Schopenhauer aveva trovato la possibilità di fondare il reale (rappresentato) sull’irrappresentabile (appunto la cosa in sé) che si dà come volontà. Il significato etico-metafisico della dottrina di Schopenhauer – che nel riconoscere il dolore e la sofferenza in quanto provocati dagli ostacoli che la volontà di vivere incontra propone un abbandono di questa medesima volontà in direzione di una noluntas, di una non-volontà liberatoria – viene radicalmente capovolto da Nietzsche attraverso l’insistenza sul carattere affermativo della volontà, in cui non va riconosciuto alcunché di positivo o negativo, al di là di ogni forma di ottimismo o pessimismo. Ma così la sua negazione della volontà può venire interpretata anche come una negazione di quella volontà che è sostanza di tutto ciò che è reale, quale era stata individuata dal pensiero di Schopenhauer ma anche quale da Heidegger è attribuita a Nietzsche stesso 4.
4 Per quanto concerne Heidegger e la riconduzione della volontà in Nietzsche alla sua interpretazione metafisica va detto che, oltre a Schopenhauer, Heidegger ha in mente la concezione della volontà così come incomincia ad affermarsi con l’età moderna. Perciò, oltre a quelli di Kant e Schopenhauer, Heidegger fa i nomi di Leibniz (a proposito dell’unità monadica di perceptio e appetitus), Fichte, Hegel, Schelling. A quest’ultimo in particolare, e alle «poche frasi» dedicate alla volontà che si ritrovano nelle sue Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi del 1809, egli fa riferimento per indicare il significato metafisico della volontà quale da Nietzsche è assunto. Cfr. M. Heidegger, «Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?» in Saggi e discorsi (1954), tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, da cui riporto il testo schellinghiano citato da Heidegger e il commento di quest’ultimo, p. 74: «“In ultima e suprema istanza, non c’è altro essere che il volere. Il volere è l’essere originario (Urseyn) e solo a questo (il volere) si applicano tutti i predicati di quello (dell’essere originario): assenza di fondamento, eternità, indipendenza dal tempo, affermazione di sé.
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La negazione della volontà da parte di Nietzsche è rivolta tanto contro una interpretazione del volere come facoltà dell’anima quanto contro la metafisica della volontà schopenhaueriana; ma ciò che va sottolineato in particolare, e su cui ad esempio l’interpretazione di Heidegger tende a sorvolare, è che in Nietzsche la negazione della volontà procede in linea con una sua interpretazione metafisica. E se Nietzsche è ben lungi dal negare la realtà del volere, egli tuttavia si decide per una negazione del carattere unitario del volere, o verso una possibilità di spiegazione metafisica della realtà sulla base di una volontà concepita in termini assoluti, in termini di fondamento. Per non limitarsi agli inediti, lo si può leggere in un passo di Al di là del bene e del male: Il volere mi sembra soprattutto qualcosa di complicato, qualcosa che soltanto come parola rappresenta una unità, – e appunto nell’uso di un’unica parola si nasconde il pregiudizio del volgo, che ha prevalso sulla cautela dei filosofi, in ogni tempo esigua 5.
Ma questo è quanto Heidegger tende a non vedere nel pensiero di Nietzsche, così da attribuirgli l’ultimo passo compiuto dalla storia della metafisica, della riduzione di tutto l’ente a principio unico nella volontà.
Il «di potenza» La destrutturazione della volontà in quanto sostanza è un compito che Nietzsche ha cura di ripromettersi in numerosi promemoria più o meno articolati 6 e che tengono conto sia degli investimenti filosofici sia Tutta la filosofia è solo uno sforzo di trovare questa espressione suprema” (F.W.J. Schelling, Philosophische Schriften, vol. I, Landshut 1809, p. 419). Schelling pensa che i predicati che il pensiero della metafisica attribuisce fin dai tempi più remoti all’essere si trovano, nella loro forma ultima e suprema, e perciò perfetta, nel volere. Tuttavia la volontà di questo volere non è intesa qui come una facoltà dell’anima umana. La parola “volere” indica qui l’essere dell’essente nella sua totalità. Questo essere è volontà.» 5 Al di là del bene e del male, cit., p. 22. 6 Si confrontino soprattutto le annotazioni intorno all’anno 1884.
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delle concrezioni di senso comune intorno a questo termine. Nozione insomma troppo contaminata, sia per continuarne l’uso che per evitarlo (troppo filosofica per essere abbandonata), la tenuta della «volontà» deve verificarsi attraverso quel «di potenza» che sta a completarne, nel segno dell’ambiguità, l’enunciato. Non è possibile attribuire all’espressione «di potenza» il senso di un potenziamento o di un rafforzamento della volontà perché non c’è nessuna volontà. Cos’altro può rafforzarsi, incrementare il proprio grado di sussistenza se non ciò che in qualche modo già sussiste di per sé? Affinché il «di potenza» possa essere preso per un rafforzamento della volontà, sarebbe necessario postulare anzitutto che esiste una volontà. Poi, che questa volontà concepisca, o ponga, l’oggetto del proprio volere, trascendendosi in uno scopo da raggiungere o da perseguire. Entrambe queste condizioni sono escluse in anticipo da Nietzsche: non solo non esiste nessuna volontà, ma qualsiasi idea o concetto di scopo, qualsiasi finalità è strumentale, atta soltanto a introdurre un senso, una direzione in un accadere che, propriamente, ne è privo. In altri termini, è proprio la mancanza di una volontà concepita come entità autonoma e autosussistente che richiede il «di potenza». La volontà non può venire considerata, nel caso di Nietzsche, come ciò a partire da cui viene posto un oggetto, come un’attività che procede per posizione e raggiungimento di uno scopo, fosse anche l’incremento della propria potenza. A prendere in esame questo caso particolare, si vede con chiarezza che non è possibile dare questo significato all’espressione volontà di potenza. Se la “potenza” volesse intendere, quale proprio telos, la volontà stessa, il volere, dovendo porre se stesso a proprio oggetto, si sarebbe già posto come soggetto. La volontà, per volere se stessa, deve prima sussistere in quanto sostanza. È proprio tale concezione, molto ravvicinabile a una interpretazione idealistica, a essere evitata in partenza con la negazione della volontà. Così, è necessario assumere l’espressione volontà di potenza nella sua interezza, evitando di separare la volontà dalla potenza, per non incorrere nel rischio di interpretare la volontà come un qualcosa di soggettivamente dato e di autonomamente sussistente, di cui la potenza
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rappresenterebbe un complemento, una modalità di esistenza tesa al rafforzamento di ciò che già sussiste in origine. Come è facile capire, una tale configurazione della volontà di potenza implicherebbe oltretutto una forte ipoteca teleologica, ossia ontoteologica: una volontà soggettivamente posta sarebbe riflessivamente in grado di porre in termini oggettivi il ciò verso cui tendere, il proprio fine, e di conseguenza i mezzi o le tappe attraverso le quali raggiungerlo. Dicendo volontà di potenza si ricadrebbe allora in una serie (anche logicamente ricostruibile) di cause e effetti, di scopi e fini ecc. che implicherebbe una posizione originaria e un compimento, la nozione di un essere teleologicamente orientato e strutturato in base al fondamento della volontà che vuole se stessa. Proprio assumendo e perseguendo questo punto di vista Heidegger avrà la possibilità di salutare in Nietzsche il compimento della metafisica. Il motivo per il quale egli coglie questa possibilità non sta nella volontà di potenza di Nietzsche ma nel modo in cui egli va a cercarvi il soggettivismo estremo. Con lo stesso scrupolo con il quale Nietzsche aveva cercato di evitarlo.
Volontà di potenza come paradosso A questo punto la concezione nietzscheana della volontà di potenza non può che prospettarsi alla luce di un paradosso, e di una ineliminabile circolarità: la volontà propriamente non esiste, o meglio non si dà nel modo di un ente, direbbe Heidegger, semplicemente sussistente. Non può essere oggetto di se stessa e meno ancora possiamo attribuirle oggetti esterni, scopi o fini da raggiungere. Quindi: la volontà, nel suo volere, non può che volere se stessa; ma può volersi solo nel modo, paradossale appunto, di non rappresentarsi come oggetto di se stessa. Continuando questo ragionamento: ciò che non può rappresentarsi un oggetto fuori di sé – si tratti di una realtà esterna o anche della propria medesima realtà – non può nemmeno concepirsi come soggetto. Un soggetto è sempre soggetto di o per qualcosa, soprattutto per Nietzsche, che sostiene che il soggetto è «qualcosa di appiccicato dopo»: è dal
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bisogno di attribuire una azione a un agente che si forma l’ipotesi, la «mitologia» di un soggetto: Errore è che il soggetto sia causa. – Mitologia del concetto di soggetto. (Il «lampo» illumina – raddoppiamento – l’effetto concretizzato) 7.
O, il che è lo stesso: dalla necessità di trovare un agente per ogni azione deriva il concetto di causa: Mitologia del concetto di causalità. La separazione tra «agire» e «agente» è radicalmente falsa. L’illusione di ciò che rimane immutato, dopo come prima -- 8.
7
Frammenti postumi 1885-1887, cit., 2[78], p. 87. Ibid. Questa assimilazione del concetto di causa al concetto di soggetto, per quanto qui limitata al carattere «mitologico» di entrambi, non è di importanza secondaria. Soprattutto se, per dare un ulteriore sguardo alla nozione di soggetto che Nietzsche sta lateralmente pensando, ci serviamo del punto di osservazione fornito dal concetto di causa. Quest’ultimo è assunto da Nietzsche come asse portante del pensiero in quanto ciò che gli conferisce unità, permanenza, “essere”. Andrebbero allora tenuti in considerazione tre punti: 1. causa e soggetto sono simili; 2. causa è ciò in virtù di cui possiamo spiegare la stabilità e la permanenza (coincide con l’essere); 3. da un punto di vista psicologico, questo consente niente meno che la rappresentazione dell’io, di un io sostanziale, stabile, slegato da ogni mutamento, o divenire. Cfr. ivi, 7[1], p. 239: «Il mondo non è così e così: e gli esseri viventi lo vedono come appare loro. Piuttosto, il mondo è costituito da tali esseri viventi, e per ciascuno di essi esiste un piccolo angolo, partendo dal quale esso misura, si accorge di qualcosa, vede e non vede. L’“essere” manca. Ciò che “diviene”, il “fenomenale” è l’unica specie di essere. “Si modifica”, nessun cambiamento senza causa – presuppongono sempre già qualcosa che stia e rimanga dietro la modificazione. “Causa” ed “effetto”: con una considerazione psicologica, si tratta della fede che si esprime nel verbo, attivo e passivo, fare e patire. Ciò significa: c’è stata in precedenza la separazione dell’accadere in un fare e in un patire, la supposizione di un agente. Dietro a ciò si nasconde la fede nell’autore, come se, togliendo dall’“autore” tutto il fare, l’autore stesso continuasse a esistere. Ciò che così induce a credere è sempre la “rappresentazione dell’io”. Tutto l’accadere è stato interpretato come “fare”: con la mitologia di un essere corrispondente all’“io” –.» Al di là dei complessi – e certo non qui esauriti – rapporti tra causa, soggetto e essere, ciò che è importante sottolineare di quanto Nietzsche pensa è la necessità di una riduzione del reale a unità, la necessità dell’essere – o del pensiero – come nozione unitaria. Necessità che è «mitologia» (una spiegazione: cioè “a posteriori”? come se allora l’uno derivasse, si producesse dal molteplice – e non viceversa – quale unica sua spiegazione e necessaria falsificazione?), che è mistificazione, ma che tuttavia non può essere fatta scomparire: deve essere “raccontata”. La «separazione» tra l’accadere e il suo necessario e presunto autore ricomparirà, 8
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Al soggetto risulta perciò necessario ciò che di solito si ritiene dipenderne – come nel caso dell’agire, o come nel caso dell’oggetto. La volontà di potenza di Nietzsche allora, con la paradossale circolarità che in essa si esprime, ci preclude la possibilità di pensarla tanto in termini soggettivi quanto in termini oggettivi; ci preclude la possibilità di pensarla cioè in termini di sostanza, di ente, di essere sostanziale; di pensarla come una cosa sola, o soltanto una volta e per tutte. Contro il rischio di unificare e uniformare la volontà di potenza e di trovare nella sua «dottrina» ciò che non deve esserci, Nietzsche ci mette in guardia in un celebre frammento che risale approssimativamente all’inizio del 1887: Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza 9.
Il frammento poi continua, ma sono sufficienti queste poche parole per un primo passo verso il senso filosofico di «volontà di potenza»: la suprema volontà di potenza consiste nell’imprimere al divenire il carattere dell’essere. Essere e divenire sono due nozioni filosofiche molto dense e rilevanti e in più, per Nietzsche, esprimerebbero due concezioni contrapposte. Quella del divenire gli è derivata dal pensiero di Eraclito, quella dell’essere da Parmenide e spesso nei suoi testi danno vita a antitesi perfettamente simmetriche. Ma farsi indurre perciò a ritenere, nel caso di un pensatore come questo, che una sia per lui la vera e l’altra la falsa non sarebbe certo prenderlo sul serio. Nietzsche richiede un giro un po’ più lungo. Si sa comunque che l’intima essenza della realtà si configura per lui non certo come essere stabile, immutabile e eterno ma come mondo in continuo cangiamento, in continuo movimento, anche sulla scorta di quella concezione dionisiaca cui Nietzsche si rifà sin dalla Na-
in forma di problema insuperabile, nelle pagine dedicate all’eterno ritorno dell’uguale e alla sua necessaria e impossibile comunicazione. 9 Ivi, 7[54], p. 297.
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scita della tragedia. Sapendo inoltre che il suo pensiero è assai poco incline a qualsiasi forma di conciliazione, mescolanza o mediazione, dialettica e non, l’accostamento di questi due termini resta sorprendente. Ma quale intonazione si può dare alla frase perentoria: «imprimere al divenire il carattere dell’essere»? E poi, quale significato assumono i termini di essere e di divenire messi, per così dire, a contatto tra di loro? E soprattutto: che cosa significa questo in relazione alla volontà di potenza? Certamente non si tratta né di trasformare il divenire in essere né, viceversa, di trasformare l’essere in divenire. I due concetti sono inconciliabili e come tali debbono rimanere separati. Questo tra l’altro viene confermato dalle righe che seguono e che sono contenute nel medesimo frammento: «L’essere» come illusione; rovesciamento dei valori: l’illusione era ciò che conferiva valore – la conoscenza è in sé impossibile nel divenire; com’è dunque possibile la conoscenza? Come errore su se stessa, come volontà di potenza, come volontà di ingannare. Divenire come inventare, volere, negazione di sé, superamento di sé; non un soggetto, ma un fare, un porre, creativamente, niente «cause ed effetti» 10.
L’essere è quindi, ancora una volta, illusione: ogni forma stabile di verità è fittizia, è, nella sua essenza, un errore. Sappiamo anche però che per quanto ingannevole e illusorio l’errore, cioè la verità, o anche la conoscenza che qui Nietzsche nomina esplicitamente, è necessaria. Dobbiamo continuare a sognare pur sapendo di sognare se non vogliamo perire; quindi l’interpretazione della verità, della conoscenza e insomma dell’essere come forme di errore non è una confutazione. Anzi, come si è appena letto, non si dà conoscenza se non dell’essere, di ciò che è stabile, in quanto «la conoscenza è in sé impossibile nel divenire». Il divenire, per contro, è il tratto essenziale di tutto ciò che è. Anzi, se si dà un qualcosa come la conoscenza o la verità, pur nel loro ca-
10
Ibid.
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rattere di errori, ciò è dovuto proprio al fatto che la realtà nella sua dimensione più essenziale non può essere conosciuta, è priva di qualsivoglia tratto di stabilità, è la negazione del principio di individuazione e quindi di ogni forma del conoscere, è la negazione dell’essere. Il divenire è misconosciuto e negato dall’essere così come il divenire è negazione di ogni essere. Arrivati al fondo di questa radicale inconciliabilità di opposti, vediamo però che, sebbene con termini diversi, tra il divenire e l’essere si profila la stessa contraddizione di una volontà di potenza che comporti la negazione di ogni volontà. E così come nel caso della volontà di potenza il «di potenza» significa che il concetto di volontà è del tutto privo di una tenuta metafisica, nel contrasto tra divenire e essere con il primo viene invalidata ogni pretesa fondativa del secondo. A patto però che a questo vada contemporaneamente soggiunto che l’essere non scompare lasciando il suo posto al divenire, ma rimane come ciò che dal divenire è negato per impedire che il divenire venga pensato come essere, cioè come sostanza. Sarebbe perciò una scorciatoia fuorviante assimilare l’essere alla volontà e il divenire alla volontà di potenza: perché la volontà di potenza è imprimere al divenire il carattere dell’essere. Essere e divenire sono implicati nella volontà di potenza; ma così come prima si era visto che non poteva sussistere nessun elemento soggettivo, sostanziale, originario su cui la volontà di potenza potesse fondarsi («non c’è nessuna volontà»), allo stesso modo ora vediamo che si profila lo stesso processo di soggettivazione (essere) nei confronti di ciò che, paradossalmente, non può venire identificato con alcuna forma di soggettività. In altri termini: la volontà di potenza è quel processo per il quale una soggettività, sempre derivata e seconda, prodotta da una interpretazione e frutto di un errore, si trova fondata da – e nello stesso tempo tende a – ciò che ne è la negazione. È uno dei luoghi più ardui del pensiero di Nietzsche, e si potrebbero articolare numerose altre argomentazioni intorno a queste lapidarie asserzioni. Ma il punto a cui preme arrivare, punto centrale per la questione della soggettività, sta nel fatto che, con la volontà di potenza, Nietzsche pensa la soggettività, nel suo carattere necessario, come un
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che di derivato, sempre secondo, che si produce, quasi piega di superficie, al di sopra di ciò che rimane dell’ordine dell’indicibile. Ogni forma, cioè ogni soggetto, proprio in quanto volontà di potenza (la conoscenza «come errore su se stessa, come volontà di potenza, come volontà di ingannare…»), fa segno non verso la propria stabilità e il proprio rafforzamento, ma verso la propria caducità, il proprio indebolimento ontologico. In altri termini ancora: ciò che si presenta necessariamente con i tratti della presenza solida e stabile, come nel caso della conoscenza o, come già detto, della logica – e che sono i luoghi tradizionali del soggetto, dell’identità – rinvia a una ontologia soltanto promessa, che invece di sostenerne la legittimità ne esibisce il declino, la caducità. Per ciò valga, ma cambiata di segno, una riflessione che risale a un periodo di aurorale ottimismo: Con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine: mentre la realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato… 11
A pochi anni di distanza, la promessa liberatoria che Nietzsche aveva scorto nella infondatezza della metafisica e dei suoi ordini si trasforma in chiave «tragica». Il fondamento resta infondato, ma Nietzsche vede che non è possibile sbarazzarsene. È questo, credo, il senso che si può ricavare più esplicitamente da quanto si trova ancora affermato nel frammento in questione: Duplice falsificazione, attraverso i sensi e attraverso la mente, per conservare un mondo dell’essere, del persistere, dell’uguaglianza di valore, ecc. 12
In altri termini, questa riflessione viene proposta nella «Storia di un errore», dove il mondo apparente viene tolto di mezzo insieme al mondo vero 13. Riappare la questione della verità, richiamata anche dal ter-
11 12 13
Aurora, tr. it. di F. Masini, vol. V, t. 1, p. 39. Frammenti postumi 1885-1887, cit., 7[54], p. 297. Cfr. sopra la nota 9 del capitolo 2.
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mine di «falsificazione». Il quale può essere investito di un significato solo liberatorio a patto che, negando una verità, ne scorga un’altra e sia a questa rimandato. Qui invece si presenta l’inabissarsi, e con esso l’insignificanza che fa da indice tragico della negazione della volontà, ossia del soggetto. La negazione (ontologica) della soggettività, condotta attraverso uno smontaggio dei caratteri sostanzialistici dell’accadere (non ci sono scopi, non ci sono cause che motivano il mutamento o il cambiamento ecc.), si esprime in una «volontà di potenza» che è negazione di sostanza e permanenza. Ma allora in che cosa viene a tradursi questa negazione della stabilità? Nel fatto che della volontà di potenza non si possa parlare se non nei termini di un movimento, di un mutamento, di un divenire senza origine o telos. È a questo punto che la volontà di potenza può essere vista nel suo concatenamento con la dottrina dell’eterno ritorno: Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione 14.
Si conoscono gli elementi che stanno alla base di questa dottrina: il carattere antiteleologico che vi è custodito e la questione della temporalità che vi è implicata. Affrontarla sulla scorta di quanto si è sinora detto a riguardo della volontà di potenza può indicare un ulteriore aspetto di quella desoggettivazione che Nietzsche sta tentando di pensare. E senza entrare subito nelle difficoltà maggiori, ci si può limitare ad alcune conferme: un rifiuto di una versione lineare del tempo, che ribadisce, sul versante della temporalità, la negazione della volontà. Un tempo lineare si dà in presenza di un inizio, o di una fine. Se ciò manca alla temporalità che Nietzsche vuole pensare, è perché alla volontà di potenza non può appartenere alcuna causa, alcuno scopo, appunto alcuna volontà. Poiché la volontà di potenza è proprio una confutazione del pensare in termini di cause o fini, essa necessariamente deve accompagnarsi a un sovvertimento anche dell’ordine temporale.
14
Frammenti postumi 1885-1887, cit., 7[54], p. 297.
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Verso l’eterno ritorno Poco importa qui – per non ritenerlo addirittura fuorviante – che Nietzsche, per la dottrina dell’eterno ritorno, si sia ispirato a una idea pagana, precristiana del tempo, quella di un tempo ciclico e non lineare. Molto più rilevante è che le stesse implicazioni del suo pensiero comportano una ridefinizione della temporalità. E questo è un fatto che potrebbe oltretutto spiegare il motivo per cui il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale gli si presenti, tra l’altro nel modo di una vera e propria folgorazione ai primi di agosto del 1881 a Sils-Maria, separatamente, ma in profonda connessione con la volontà di potenza. Tutto ciò che è, l’ente nella sua totalità, è essenzialmente volontà di potenza che si dà nel modo dell’accadere dell’eterno ritorno, ossia di una temporalità ciclica. A differenza di quanto accade per la volontà di potenza, Nietzsche comunica il pensiero del ritornare eterno di tutte le cose prevalentemente con un altro linguaggio. È lo Zarathustra il testo in cui se ne trova la formulazione più ampia; e soprattutto da qui si vedrà come questa dottrina, proprio per il fatto che viene comunicata per simboli e parabole fa direttamente appello a una ricezione, a un ascolto che implica una trasformazione dell’uomo, forse proprio del suo necessario assumersi in quanto soggetto. È possibile vederlo accennato già nelle forme e nei modi in cui Nietzsche ne parla la prima volta. Una tonalità che si potrebbe anche definire “esistenzialistica” tende a indicare la necessità di uno sguardo che, per coglierne il significato, dovrà abbandonare la pretesa di esser presente a se stesso. Fatto che si può inoltre già ricavare dal sottotitolo di Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Un libro che riguarda ciascuno ma che implica trasformazioni tali da metterne in gioco la possibilità di un autoriconoscimento. E questo lo si potrà percepire in modo particolarmente chiaro proprio quando Nietzsche, di fronte al significato enigmatico del tempo ciclico, della sua dottrina della temporalità, metterà di fronte e in conflitto fra loro non solo due diversi modi di interpretare, di “vivere” questo significato, ma di vederlo e di enunciarlo.
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Del resto, il primo annuncio che di questa dottrina viene dato nelle opere pubblicate da Nietzsche, si rivela immediatamente nella sua tonalità etico-esistenziale. Si tratta di un aforisma che è contenuto nella Gaia scienza, testo che rientra, tematicamente e cronologicamente, nel cosiddetto periodo di mezzo della produzione nietzscheana, il periodo “illuministico” di Nietzsche di cui, proprio con il passo che ora seguirà, si profila il passaggio alla terza e più matura fase del suo pensiero. Si tratta del frammento 341, il penultimo frammento del libro quarto della Gaia scienza e che è immediatamente seguito da un aforisma che si intitola «Incipit tragœdia» in cui compare la figura di Zarathustra. La Gaia scienza è composta da cinque libri ma il quinto fu aggiunto solo in un secondo momento. Quindi in origine quest’opera si chiudeva già proiettandosi verso una nuova fase speculativa: Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?». Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? 15
Come si vede, già dal titolo, «Il peso più grande», la dottrina del ritorno si annuncia come un appello a una dimensione etica, appello che
15
La gaia scienza, cit., pp. 201-202.
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è successivamente ripetuto in riferimento all’atteggiamento dell’uomo, del singolo individuo di fronte alla temporalità. Una temporalità ciclica, eternamente circolare in cui tutte le cose, grandi e piccole, belle e meschine ritornano incessantemente. Ma all’interno di questa dimensione eterna, in cui sembra dominare l’ineluttabile necessità del ritornare di tutte le cose, si ritaglia la nozione di attimo, di istante, nella quale la stessa eternità sembrerebbe condensarsi per far luogo a una trasformazione della soggettività dell’uomo. Da un atteggiamento di raccapriccio e di dolore, attraverso un attimo immenso, la valutazione di ciò che dice il demone si trasformerebbe completamente, riconoscendo nel messaggio del demone addirittura parole divine. Questa stessa duplicità di atteggiamenti la si ritrova in altre figure che compaiono nei capitoli dello Zarathustra che trattano più direttamente dell’eterno ritorno e della trasformazione, della metamorfosi che è richiesta per assumere questo pensiero, il pensiero più pesante e più difficile da sopportare. Si tratta in particolare di due capitoli raccolti nella terza parte e che si intitolano rispettivamente «La visione e l’enigma» e «Il convalescente».
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8. LA COMUNICAZIONE DELL’ETERNO RITORNO
Contro il tempo In uno dei frammenti più noti dell’ultimo periodo dunque, la volontà di potenza porta con sé un necessario riferimento alla temporalità. Chiamata in causa è la concezione dell’eterno ritorno, la temporalità circolare; che ha certo a che fare con moduli classici e pagani, che però si può leggere in riferimento a quel processo di soggettivazione – paradossale e contraddittorio – che la volontà di potenza è. Da una parte principio o figura in cui si raccoglie la totalità dell’ente, dall’altra negazione di ogni principio (originario o ultimo), la volontà di potenza è quel processo di falsificazione attraverso cui si produce, da un fondo irrappresentabile, un mondo di forme, il mondo dell’essere che trova proprio in ciò cui vuole dare forma e consistenza la propria negazione. L’imprimersi dell’essere al divenire (la volontà di potenza stessa) non può che sospendere il tempo (e con esso le cause e gli scopi che ne scandiscono la processualità); pensarsi cioè come temporalità eternamente ritornante in cui l’imposizione di forme vuole il necessario dissolversi di esse. È quanto viene messo in luce da Heidegger quando sottolinea come Nietzsche faccia esplodere il dissidio che sussiste tra la volontà di potenza e l’ordine temporale. Quest’ultimo, concepito tradizionalmente, è scandito e fondato dal «così fu», cioè dal passare del tempo; o meglio, dal suo passato, dal suo essere passato. Insomma, dalla immodifi-
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cabilità, dalla permanenza che all’interno del trascorrere viene a ritagliarsi e a contrapporglisi. Che è ciò che pone la volontà in conflitto con se stessa, conflitto da cui sorge e di cui si alimenta lo «spirito di vendetta». «La vendetta più profonda consiste per Nietzsche in quella riflessione che pone come assoluti ideali sovratemporali, in confronto con i quali il temporale non può non abbassare se stesso fino a considerarsi propriamente come il non-essente», scrive Heidegger 1 nel tentativo di tradurre filosoficamente un passo dello Zarathustra che si trova nel capitolo intitolato «Della redenzione»: Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo «così fu» 2.
Per contro, la redenzione dallo spirito di vendetta è così intesa da Nietzsche: E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità! Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni «così fu» in un «così volli che fosse!» – solo questo può essere per me redenzione! 3
E davvero questo è il più grosso inciampo per la volontà: Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. La volontà non riesce a volere a ritroso; non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, – questa è per la volontà la sua mestizia più solitaria 4.
A questo punto, senza più seguire Heidegger, si fa più evidente ancora la necessità teorica che lega insieme il carattere dissolutivo della
1 2 3 4
M. Heidegger, «Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?», cit., p. 76. Così parlò Zarathustra, cit., p. 171. Ivi, p. 170. Ivi, pp. 170-171.
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volontà di potenza e la sospensione dell’ordine del tempo: la necessità di assumere la stabilità (elemento fondamentale dell’ente nel suo essere e nel suo divenire) come al tempo stesso qualcosa di illusorio e di infondato. Il che, trasferito all’ordine temporale, significa l’insormontabilità e l’insopprimibilità del «così fu» (del permanere), la sua necessità, e insieme la sua insostenibilità, la sua infondatezza. Qui, dopo tutto, Nietzsche non fa altro che imbattersi nella contraddizione in cui ci si ritrova ogni volta che si riflette sul tempo: che è impensabile, nel suo trascorrere, se non da una posizione sottratta, esterna al trascorrere stesso (qualcosa può muoversi, o essere percepito in movimento, solo in relazione a qualcos’altro che è immobile). Ma questa volta la radicalità con la quale Nietzsche affronta questo luogo filosofico si rivela insuperata. Egli infatti si ritrova di fronte non soltanto al proprio oggetto teorico ma anche, e contemporaneamente, al significato della “teoria”, o meglio del (suo) teorizzare stesso; e non tanto della sua adeguatezza (in fondo sempre correggibile e migliorabile), quanto e più ancora della sua legittimità. Come se quel campo teorico (la mancanza di fondamento: in quanto volontà di potenza e eterno ritorno), che necessariamente si apre nel discorso (inevitabilmente veritiero) non potesse contenere, o essere all’altezza di ciò che lo suscita. E si ponesse così in un inevitabile conflitto con se stesso. E tuttavia Nietzsche si imbatte in questa necessità teorica: una necessaria concatenazione di posizioni gli si presenta all’interno del suo pensiero, del suo discorso. Ma da quale dimensione pretenderà allora di parlare una parola che si trova a combattere contro l’illusorietà di ogni saldezza? Non è forse proprio contro la sua stessa pretesa di “valere” – cioè, anche, di essere sottratto al tempo, alla caducità – che il discorso/pensiero di Nietzsche dovrà dirigersi? Cioè contro l’inevitabile effetto di verità – e quindi di inganno – che si produce nel momento in cui viene affermato? Un effetto di verità che, a questo punto, non riguarda soltanto l’ambito, comunque solo apparentemente astratto, di una posizione filosofica ma anche, e forse più da vicino ancora, la posizione di chi è chiamato a pronunciarla.
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L’eterno ritorno e il tempo del soggetto Con la volontà di potenza la scomparsa e negazione del soggetto è pensata a partire dal suo necessario prodursi. Cioè, come figura di una soggettività necessaria che implica la propria scomparsa, il proprio dissolversi, che contiene il proprio venire meno. La quale, di fronte al proprio nulla, non può che fingersi qualcosa, attribuirsi una consistenza e una stabilità. Per questo una temporalità circolare, ateleologica, è la condizione ontologica – magari concepita da Nietzsche prima in forma cosmologica – della volontà di potenza. All’opposto di una rasserenante e liberatoria circolarità delle vicende del cosmo, il tempo della volontà di potenza rivela subito e per prima cosa la sua portata tragica. Il primo annuncio dell’eterno ritorno, con cui si chiude la Gaia scienza, investe l’uomo, la figura della sua soggettività. L’inquietante tonalità che lo sottende è il primo tentativo di mostrare i limiti entro i quali l’eterno ritorno deve essere pensato: limiti ancora troppo umani. Nella distanza che separa l’orrore e il raccapriccio da quella gioia che ha del sublime, nel provocare a reggere il pensiero di una temporalità che parla la lingua del dissolvimento sta tutto il richiamo e l’investimento per il soggetto. Per questo l’eterno ritorno è il pensiero più pesante: non riguarda l’uomo dall’esterno, ma quella soggettività che esso è chiamato ad abitare. Ma allora, che cosa significa che l’uomo deve eternamente ritornare? Anzitutto, e impropriamente, che un qualcosa come l’uomo non c’è, non c’è mai stato e non potrà esserci mai. Un po’ più propriamente, che il suo esserci – e qui la tentazione di lasciare a questo termine le sue valenze heideggeriane è forte – non è dell’ordine del sussistere stabile: non un punto fisso, il centro, per esempio, a cui la realtà è vincolata, come anche potrebbe venire in mente per il caso della soggettività trascendentale di Kant 5.
5 Anche Kant infatti si muove in direzione di quello che potremmo definire uno svuotamento, una desostanzializzazione della soggettività; quanto meno perché priva il soggetto dei suoi caratteri sostanziali, del suo porsi come res (cogitans) per trasfor-
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Nel caso di Nietzsche, l’orrore e lo sgomento sono quelli di un soggetto che non è più in grado di fingersi fuori del gioco di finzioni che produce (e da cui è dunque a sua volta prodotto) perché il suo stesso esserne prodotto gli sta ormai di fronte come un effetto della medesima finzione. L’orrore per il ritornare eterno è l’orrore per il suo (nostro) non sussistere in alcun momento, per il suo non avere e non essere fondamento. È lo sgomento e il raccapriccio che nasce dalla perdita di un fondo che sempre si era creduto sussistere; sgomento e raccapriccio che solo il definitivo tramonto della fede porta con sé: non però di una fede – positiva, e tra le tante possibili – ma della possibilità della fede in generale, cioè della fede nella fede. E l’uomo folle qui parla chiaro 6. La temporalità dell’eterno ritorno è una temporalità di fronte alla quale il pensiero deve escludere il soggetto (e questo potrebbe spiegare perché Nietzsche stesso parli di tempo cosmologico; e un importante interprete come Löwith sottolinei in ciò un esito in certo qual modo defini-
marlo in una molteplicità (unitaria) di pure funzioni. Ma per quanto svuotato di realtà e trasposto sul piano del trascendentale il soggetto viene a occupare pure in Kant un luogo stabile, anzi addirittura centrale, nonostante Kant stesso fosse forse consapevole, nel formulare per esempio la nozione di cosa in sé (o nel non poterla eludere), che la fondazione della conoscenza posta nei termini dell’io puro non fosse altro che la fondazione di una finzione: il mondo dell’apparire, dei fenomeni. Ma all’interno del discorso filosofico di Kant il centro di questa finzione, il suo fondamento, cioè il soggetto trascendentale, non era – ancorché soggetto di una «finzione» e perciò non-reale – affatto fittizio: rimaneva sempre qualcosa di stabile, di irriducibile. Ed ecco alcune parole di Nietzsche a questo proposito, Frammenti postumi 1884-1885, cit., 35[35], p. 203: «Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l’“io” sia ciò che pensa; al contrario considero l’io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di “materia”, “cosa”, “sostanza”, “individuo”, “scopo”, “numero”; quindi solo una finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di “conoscibilità”. Il credere alla grammatica, al soggetto e oggetto grammaticale, ai verbi, ha soggiogato finora la metafisica; io insegno ad abiurare questa fede. È il pensiero che pone l’“io”; ma si è finora creduto, come crede il “popolo”, che nell’“io penso” ci fosse qualcosa di immediatamente certo e che questo “io” fosse la causa data del pensiero; secondo un’analogia con questa abbiamo “inteso” tutti gli altri rapporti causali. Per quanto consueta e indispensabile questa finzione possa essere, niente dimostra che la sua natura non sia fittizia. Qualcosa può essere condizione di vita e tuttavia falso.» Cfr. anche 38[3], p. 279 e Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 86-88. 6 Cfr. sopra i capitoli 3 e 4.
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tivo della sua riflessione) 7, di cui il soggetto non è propriamente capace. L’eterno ritorno è una figura immobile e solo come tale può contenere il divenire. Ma l’eterno ritorno – e qui Nietzsche ci obbliga a un salto vero e proprio – è anche il ritornare stesso che ritorna, e quindi inarrestabile. Ora, per quanto riguarda la soggettività, questa non può essere pensata, non può pensarsi se non come sottratta al tempo. Il soggetto può bensì pensarsi come un divenire, ma si tratta sempre di un divenire all’interno – o all’esterno – di una identità che permane. Il soggetto può, in altri termini, concepirsi come mutabile, caduco, molteplice ecc. solo se si mantiene nella propria identità (in fondo “logica”) con se stesso, cioè al di fuori del tempo. Il soggetto è tempo, ma solo nella forma della sua (necessariamente) radicale negazione. Anzi, in tal senso è fondazione del tempo (in quanto ciò che trascorre) poiché, come è facile vedere, del tempo in quanto movimento si può avere nozione solo a partire da ciò che dal movimento è sottratto. Se il soggetto è tempo, ciò è dovuto al fatto che si colloca al di fuori del tempo stesso, e questo può venire considerato propriamente il luogo della fondazione. Solo attraverso una metamorfosi radicale, come quella che inaugura il primo libro dello Zarathustra, l’uomo potrebbe trovare un accordo con la temporalità: nella figura del fanciullo, forse più “patetica” che profetica. Ma senz’altro a un prezzo altissimo, quello dell’oblio di sé: Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì 8.
Ma all’interno del suo tenore paradossale solo il sottrarsi e ritrarsi del soggetto dal flusso del divenire (indicibile, caos, nulla, Dioniso ecc.) può fondare il tempo, può concedere la percezione del tempo fingen-
7 Cfr. K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno (1935, 19562), tr. it. a cura di S. Venuti, Laterza, Roma-Bari 1982. 8 Così parlò Zarathustra, cit., p. 25.
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dosi e appunto fungendo da unico elemento di stabilità: nel dire “io”, o addirittura già nel “dire”, in quella prima figura del pensiero che Nietzsche va a individuare nella forma apollinea in cui – anzi, nella cui permanenza – l’uomo trova la prima salvezza dal nulla del caos. L’uomo fonda così la temporalità, e i primi dèi, per quanto immortali, sono nel tempo: nascono, con il volto di uomini, parlano, litigano… Perciò il tempo, come vi si allude nel passo intitolato «Il peso più grande», è il luogo in cui il paradosso che si offre al soggetto, il suo declino come necessaria permanenza, riceve da Nietzsche la sua prima configurazione: lo sgomento di fronte all’insostenibilità del nulla che abita l’uomo (nulla di dicibile, Dioniso), della finzione e illusione in cui questi deve credere se non vuole morire nel momento in cui si accorge di stare sognando. Il soggetto deve scomparire per esserci, e deve esserci solo per dover scomparire. Che lo sgomento sia una delle (due) reazioni che l’uomo può provare di fronte alle parole del demone confermerebbe allora che il soggetto che Nietzsche vede è portatore di questa radicale duplicità. Non si tratta di due possibili soggetti, ma di due possibilità sempre aperte al soggetto, che non potrà mai risolversi per una soltanto. Questo è confermato dal fatto che il punto su cui l’uomo viene provocato dal demone è di una ambiguità irresolubile. Chi accettasse il messaggio come cosa divina, non si troverebbe di fronte al facile compito di assumere solo il meglio, ma dovrebbe accogliere anche ciò che è raccapricciante, meschino, basso. Ma come potrebbe esserci il basso e il meschino, se l’uomo si trasforma in qualcosa di diverso da sé, eliminando appunto ciò che per Nietzsche è il meschino, cioè l’uomo, in favore del superuomo? Allora se l’uomo torna in eterno, come è del resto detto da Nietzsche, non lo si può superare ma vi si farà costantemente ritorno. Il superamento dell’uomo, insomma il superuomo, è il ritorno dell’uomo (e all’uomo) stesso nella consapevolezza del nulla da cui è abitato e dalla lotta contro questo nulla come necessaria e costante illusione. Quindi, queste due risposte sono entrambe insopprimibili e nella loro contraddittorietà esprimono, prima che una teoria, il luogo per un’etica: dove non ci si può risolvere per alcun punto di consistenza, di
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sussistenza. Teniamo allora di fronte questa allegoria, che non vuole rappresentare due diversi tipi di uomo – potremmo pensare infatti che l’orrore e il rifiuto dell’eterno ritorno appartenga all’uomo mentre l’accoglimento gioioso potrebbe appartenere al superuomo – ma la tensione tra due opposte tonalità emotive, quella oscillazione tra due polarità in cui costantemente si trova invischiato il soggetto.
La visione e l’enigma Giova ora allontanarsi, ma non troppo, da qui per affrontare uno dei luoghi dell’opera di Nietzsche dove la dottrina dell’eterno ritorno riceve la sua formulazione più ampia e articolata. Il che non significa anche che si tratti della più chiara. È il secondo capitolo della terza parte dello Zarathustra, intitolato «La visione e l’enigma». Zarathustra si trova su una nave e ai marinai – che non vogliono «con mano codarda seguir tentoni un filo»; che sono «in grado di indovinare» e cui «è in odio il dedurre» – Zarathustra racconta ciò che egli, «il più solitario tra gli uomini», vide. Il racconto di Zarathustra si apre su uno scenario di squallore e desolazione. Da qui cerchiamo di affrontare più da vicino il testo di Nietzsche, anche se non sarà certo possibile soffermarsi su tutti gli elementi che fanno da contorno al cuore della visione. Anzi, e da qui bisognerebbe incominciare, delle due visioni di Zarathustra. Comunque, alcuni elementi riprendono molto da vicino quanto si apprende da «Il peso più grande» della Gaia scienza. Anzitutto la solitudine, in cui anche il messaggio del demone aveva potuto raggiungerci, e che fa parte della scena in cui Zarathustra si rappresenta mentre percorre un sentiero in salita, verso l’alto, verso la leggerezza. Ma è una solitudine ambigua: egli è accompagnato dallo spirito di gravità, «il mio demonio e nemico capitale», cui Nietzsche dà le sembianze di un nano; anzi «metà nano; metà talpa; storpio; storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello». E anche il contrasto tra gravità e leggerezza, che qui fa da sfondo alla comunicazione dell’eterno ritorno, ricorda il conflitto
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emotivo di quel primo annuncio della Gaia scienza. Leggerezza e gravità sono però questa volta chiaramente legate insieme nella persona di Zarathustra, che verosimilmente conduce in tutto questo capitolo una sorta di dialogo con se stesso. Ancora una volta, con la complicità della presenza del nano, parlare del tempo, una riflessione sul tempo, mostra di mancare – necessariamente? – il proprio tema. Anche se il contrasto tra il nano e Zarathustra non riguarda la dottrina, e il primo non confuta direttamente la “descrizione” dell’eterno ritorno; sembra anzi confermarla. Ciò nonostante si trova in contrasto con Zarathustra 9. Come se il costituire a tema qualcosa importasse già da sé l’impossibilità di incontrarlo come fenomeno.
9 Ecco, per intero, la descrizione di Zarathustra, ivi, pp. 191-192: «“Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io –: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!”. – Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. “Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’uno contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’. Ma, chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?”.– “Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”. “Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato – e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta!…»
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E ciò che più incalza Nietzsche non è una dottrina della temporalità ma il modo in cui egli, soggetto che ne parla, potrebbe non perdere la visione, la vista del tempo. Quanto accade nel seguito può aiutarci. Le parole che fanno incollerire Zarathustra sono le ultime che il nano pronuncia. E in questo modo, senza bisogno di commenti, Zarathustra conclude il suo discorso rivolto al nano: E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno? 10
Improvvisamente i pensieri di Zarathustra, che gli fanno paura, vengono interrotti dall’ululato di un cane. A questo punto si presenta un’altra scena, dalla quale scompaiono tutti gli elementi di quella precedente, nano compreso: D’un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna. Ma qui giaceva un uomo! E – proprio qui! – il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, – adesso mi vide accorrere – e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo? E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca 11.
Alla scomparsa del nano e della porta carraia fa riscontro l’immagine del pastore con il serpente nella bocca. Un’altra scena che però, stando al titolo, farebbe parte della medesima visione, del medesimo enigma. Da qui gli sdoppiamenti si susseguono abbastanza vorticosamente. Rimangono soltanto, ma nell’ombra e fuori scena, la singolarità dell’e-
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Ivi, p. 192. Ivi, p. 193.
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nigma e di chi lo scrive. Da qui, si può pensare che si tratti di due rappresentazioni del medesimo contenuto, o di due significati, o di due modi di rivelarsi dell’eterno ritorno. Ci troviamo in presenza degli sdoppiamenti di Zarathustra, prima in colloquio con il suo doppio (il nano, spirito di gravità) e ora sopraffatto dall’orrore di un altro suo doppio (come Zarathustra riuscirà a rivelarsi solo in un secondo momento), il pastore aggredito dal serpente nero. Bisogna abbandonare il centro per seguire le sfumature in cui si gioca la differenza delle scene della visione. La prima scena vede Zarathustra sdoppiato in un modo che non è lo stesso della seconda, e la figura in cui si sdoppia ci indica il suo posto nell’insieme della rappresentazione. Se Zarathustra, nella prima scena, ha la possibilità di dialogare col nano, è perché si trova ancora in una alleanza, o complicità con lui. I due, ancora, si intendono e giocano le loro parti sul piano della teoria, di un vedere in fondo comune a entrambi. Lo stesso Zarathustra, descrivendo e spiegando al nano il significato dei due sentieri e della porta carraia, ne rimane al di fuori, perciò forse ancora attratto dallo spirito di gravità. Ma, scomparso quest’ultimo, Zarathustra si ritrova preso dentro la circolarità del tempo, senza più poterla dire, con tutto ciò che di terribile questo comporta. L’abbandono della esteriorità teorica trascina il soggetto fuori dalla zona che gli consente di sussistere, di dirsi attraverso il dire ciò che vede, il nominare le cose, verso l’impossibilità della propria identità. E, ancora per un momento, Zarathustra tenta di sottrarsi, di mantenersi all’esterno, di respingere il dissolvimento implicato per lui dall’eterno ritorno, provandosi inutilmente a strappare il serpente dalla bocca del pastore: Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. […] – Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente –: e balzò in piedi. –
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Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! 12
La seconda scena è certo un approfondimento rispetto alla prima, ma anche un salto. Prefigura il passaggio da, se si vuole mantenere la terminologia, un risvolto teorico che il vedere comporta a un risvolto “etico”: dove però non si intende semplicemente il piano della prassi o della riprova empirica dei fatti, ma quella zona in cui si pone in atto lo sganciamento da ogni saldezza teorica. O, più ancora, la riduzione del momento teorico: un suo abbassamento a punto di vista relativo, che porti con sé la sollecitazione a spostare l’attenzione verso ciò che ne viene inevitabilmente scartato. Insomma verso quanto ogni visione, per sua essenza, oscura e perde. E questo importa che i due piani, per quanto possano sembrare avvicinabili, si trovino entro una inconciliabilità radicale.
Togliersi dalla scena Qui la messa a punto di contenuti dottrinali o di istanze critiche contro altre versioni della temporalità, come una sua concezione lineare, è veramente secondaria rispetto alla delicatezza che comporta la sua comunicazione. Lo può confermare il fatto che, ben più che nello Zarathustra, negli appunti privati di Nietzsche considerazioni di tipo anche scientifico sulla questione della temporalità sono più numerosi e chiari. È sufficiente richiamare il sospetto, ripetutamente dichiarato da Nietzsche, nei confronti dei concetti di causa e scopo per acquisire una cognizione teorica dell’eterno ritorno più convincente di quanto non sia dato nello Zarathustra 13. Nietzsche però è avvertito che se l’eterno ri-
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Ivi, p. 194. Ne indico qui alcuni e ne riporto dei passi, in ordine cronologico. Dai quali, anche, non manca di emergere la critica al concetto di soggetto, di io, come astrazione e fonte di una interpretazione causalistica e/o finalistica (lineare) del tempo: – Frammenti postumi 1881-1882, tr. it. di M. Montinari, vol. V, t. 2, 11[64], p. 302: «… Non è possibile che la varietà delle qualità sia, anche nel nostro mondo, una con13
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torno è una dottrina che distrugge la possibilità di un versione veridica della totalità dell’ente, perché non consente la permanenza di alcun eleseguenza della nascita assoluta di qualità arbitrarie? Solo che, nel nostro angolo di mondo, essa non si ripete più? Oppure ha assunto una regola, che noi chiamiamo causa ed effetto, senza che essa lo sia (un arbitrio diventato regola, per esempio l’ossigeno e l’idrogeno chimicamente)??? Questa “regola” non potrebbe appunto essere altro che un più lungo capriccio?…»; 11[117], p. 319: «Si proceda all’indietro. Se il mondo avesse uno scopo, dovrebbe essere stato raggiunto: se vi fosse per esso uno stato finale (non intenzionale), anche questo dovrebbe essere stato raggiunto. Se in generale il mondo fosse capace di persistere e irrigidirsi, e se nel suo scorrere vi fosse soltanto un attimo di “essere” in senso stretto, non potrebbe più darsi un divenire, dunque non si potrebbe neppure pensare, osservare un divenire…»; 11[118], pp. 319-320: «Per ciò che riguarda tutta la nostra esperienza, dobbiamo continuare a essere scettici, e dire per esempio: non possiamo, per nessuna “legge della natura”, asserire una validità eterna; di nessuna qualità chimica, possiamo affermare la sua eterna permanenza; […] il permanente esiste solo in grazia dei nostri rozzi organi […] in generale siamo noi ad aggiungere linee e superficie, sulla base dell’intelletto, che è l’errore: l’ipotesi dell’uguale e del permanere, perché possiamo vedere soltanto ciò che permane, e abbiamo ricordi solo davanti a ciò che è simile (uguale). Ma, in sé, la cosa è diversa: non dobbiamo trasferire il nostro scetticismo nell’essenza.»; 11[235], pp. 358-359; 11[258], pp. 365-366: «Guardiamoci dall’attribuire a questo corso circolare una qualsiasi aspirazione o uno scopo […]. – Guardiamoci dal pensare come divenuta la legge di questo circolo, secondo la falsa analogia dei movimenti circolari dentro l’anello. […] Il corso circolare non è nulla di divenuto, esso è la legge originaria, allo stesso modo che la quantità di energia è legge originaria, senza eccezione e prevaricazione…»; – Frammenti postumi 1884-1885, cit., 36[15], pp. 233-234; 36[28], p. 240: «… Il concetto di “causa” è solo un modo di esprimersi, non di più; un modo di designare.»; – Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14[79], pp. 48-49: «… Per poter calcolare, abbiamo bisogno di unità, ma non per questo è da accettare che tali unità esistano. Abbiamo preso a prestito il concetto dell’unità dal nostro concetto dell’“io”, il nostro più antico articolo di fede. Se non ci ritenessimo delle unità, non avremmo mai formato il concetto di “cosa”. Ora, piuttosto tardi, siamo abbondantemente convinti che il fatto del nostro concepire il concetto dell’“io” non garantisce niente di una reale unità…»; 14[188], pp. 163-164: «… Il mondo sussiste; esso non è niente che divenga, niente che perisca. O piuttosto: diviene, perisce, ma non ha mai cominciato a divenire e non ha mai cessato di perire […]. Niente mi può impedire, calcolando da questo momento all’indietro, di dire: “non giungerò così mai a una fine”; così posso anche calcolare, dallo stesso momento, in avanti, e continuare all’infinito. Solo se volessi far l’errore – che mi guarderò bene dal fare – di equiparare questo giusto concetto di un regressus in infinitum a un non pensabile concetto di un progressus infinito fino a ora; solo se io ponessi la direzione (in avanti o all’indietro) come logicamente indifferente, mi troverei tra le mani la testa, questo momento, come coda…».
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mento di stabilità e quindi elimina la possibilità della verità, se dunque l’eterno ritorno è questo, certo non potrà pretendere di venire enunciato e creduto come una qualsiasi altra verità. Ecco perché esso comporta un appello diretto alla soggettività di chi lo pronuncia, la necessità di un diverso atteggiamento nei confronti del pronunciare la “verità”. Un diverso atteggiamento, nel caso pragmatico (ma ovviamente, in fondo, etico) di Nietzsche, davanti alla necessità di pronunciarsi, di dire ciò che era riuscito a vedere sapendo di, proprio per questo, mancarlo. «Non si ama più abbastanza la propria conoscenza, appena la si comunica» 14 ripete Nietzsche dopo l’esperienza di Così parlò Zarathustra; ma è tutt’altro che snobismo ciò che glielo fa dire. È invece il nichilismo radicale, che proprio perché radicale non può essere nemmeno comunicato, che coinvolge il soggetto nel suo per altro necessario rapporto con la verità. E nonostante l’ingenuità che vi si può vedere, il lavoro sul linguaggio della filosofia di cui lo Zarathustra è traccia e insieme vittima testimonia il primo grande squarcio di una esigenza, che da allora perdura, di guardare in direzione di quello che, nella sua necessaria inapparenza e inconsistenza e evanescenza teorica, è il luogo filosofico, proprio perché, in quanto linguaggio, non è “teorizzabile”, al punto che anche nominarlo crea ormai imbarazzo. Per tornare a limiti più ristretti dell’argomento, l’eterno ritorno, dissolvendo ogni senso (causalistico o finalistico) attraverso l’insensata ciclicità del tempo dissolve anche ogni pretesa veritativa. In un modo però che non consenta a chi comunica questa dottrina (Nietzsche-Zarathustra) di rimanerne all’esterno, di mantenere quella distanza – la distanza a cui il nano si pone dalla circolarità del tempo – che concede un nucleo, seppur minimo, di stabilità, di fondazione. Nietzsche mostra così la volontà di verità che si insidia in ogni interpretazione (si ricordi che «la volontà di potenza interpreta») 15 e il forse inevitabile scivolamento di ogni gesto interpretativo, anche del più cauto o del più critico nei
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Al di là del bene e del male, cit., 160, p. 80. Cfr. la nota 9 del capitolo 5.
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confronti del processo di fondazione che ha luogo nell’interpretare, verso una prospettiva di stabilità e quindi di verità. Ma ciò che forse in primo luogo Nietzsche avverte è come questo scivolamento sia in qualche modo connaturato alla difficoltà, o forse addirittura alla impossibilità, di abbandonare quel luogo della soggettività in cui necessariamente ci collochiamo, o in cui veniamo collocati, pronunciando una parola (solo filosofica?). E possiamo allora pensare che proprio l’avvertimento di questo rischio porti Nietzsche, oltre a ricercare una formula linguistica, un linguaggio che non sia contaminato da ipoteche filosofiche, e che sarebbe poi quel linguaggio allegorico, anche a sdoppiarsi nel personaggio di Zarathustra. Il suo rimanere in silenzio facendo parlare un altro, evoca un gesto filosofico, o antifilosofico, con il quale il filosofo si toglie di scena, nell’estremo tentativo di non pronunciare una verità o di non pronunciarsi in essa.
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9. INVISIBILE, INDICIBILE
L’enigma della visione La disposizione dei personaggi nella visione delle scene varia, in un gioco di distanziamento e di avvicinamento, dalla prima alla seconda. Il risvolto etico, assente nella prima, mostra che l’eterno ritorno non riguarda soltanto le cose, tutte le cose come pure si offrono al nostro sguardo, ma anche noi stessi. Quello sguardo che non ha più, nell’eterno ritorno, la possibilità di rimanersene al di fuori, a contemplare uno spettacolo. Il movimento circolare del tempo, in cui tutto ritorna eternamente e che per ciò stesso preclude a ogni cosa un senso, un significato, uno scopo, una dimensione di permanenza e di stabilità, coinvolge al proprio interno lo stesso Zarathustra, colui il quale, più che annunciare una dottrina, ne esibisce la impossibilità, o il paradosso. Paradosso di una dottrina che non può essere insegnata perché non può essere comunicata, perché non possiamo tenercene a distanza, perché non siamo noi a comprenderla ma essa a comprendere noi. Perché essa, per sé, non può ammettere ciò che comunica: ogni visione (ogni teoria) implica necessariamente un porre a distanza. Non ammette la visione di sé, non consente esteriorità, non consente “discorso”. È l’indicibile allusione al gioco del soggetto che si pone di fronte un oggetto, che lo rappresenta, e che, nel momento in cui se lo rappresenta, non ha la possibilità di rappresentarsi nell’atto di rappresentarlo. Così Nietzsche non può che procedere tentando una messa in scena che, come ogni messa in scena, è pratica di sdoppiamento. A partire
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Fabio Polidori
dal titolo, «La visione e l’enigma»: dove le visioni o le scene sono (almeno) due e però non possono pensarsi che come un unico enigma. Lo sdoppiamento sembra quasi la trama nascosta di questa rappresentazione, quasi non fosse appunto una rappresentazione ma la semplice esibizione del rappresentare. A partire dalla costruzione di un personaggio che parli e che gli consenta di restare in silenzio, egli stesso a rappresentare e testimoniare l’indicibilità della propria dottrina. Se allora lo sdoppiamento è la trama nascosta, il protagonista della visione sdoppiata è proprio Nietzsche, il suo vedere che non deve farsi parola per non smentirsi nella verità. Di fronte al nichilismo che è implicato dall’abissale gioco di finzioni, egli non può che muovere verso il silenzio che si fa in quella distanza che ci separa, nel vedere, da ciò che è visto; distanza enigmatica, e perciò silenziosa: in quanto il puro vedere non può essere distinto, staccato da ciò che è visto. Il vedere e l’oggetto della visione si danno insieme, e ci costituiscono a soggetti. Come se il soggetto si desse solo in quanto il suo sguardo, costituendo il proprio oggetto, si “alienasse” in esso. E come se fosse lo sguardo che l’oggetto richiama e insieme rimanda a costituire il soggetto 1.
1 Questo ordine di problemi non è affatto estraneo a Nietzsche. Talvolta, ma solo in modo superficiale, traspare in qualcuno degli scritti pubblicati in vita, come nel caso di Al di là del bene e del male, cit., in particolare i nn. 16, 17 e 19, e del Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 72-73 e pp. 86-88. Con più insistenza invece gli si presenta nelle annotazioni private, da cui riporto alcuni significativi brani: – Frammenti postumi 1881-1882, cit., 11[19], pp. 285-286: «Certezza fondamentale. “Io ho rappresentazioni”, dunque vi è un essere: cogito, ergo EST. Non è più sicuro che io sia questo essere che ha la rappresentazione, che il rappresentare sia un’attività dell’io: come non è sicuro tutto ciò che io rappresento. L’unico essere che conosciamo è l’essere che rappresenta. Se lo descriviamo esattamente, bisogna che i predicati dell’essere in generale si trovino in esso. […] Al rappresentare appartiene il mutamento, non il movimento: sì il perire e il nascere; e nel rappresentare stesso manca ogni elemento permanente. Al contrario, esso pone due elementi permanenti, crede al permanere 1) di un io, 2) di un contenuto; questa fede nell’elemento permanente, nella sostanza, cioè nel rimanere uguale di lui stesso con se stesso, si oppone al processo della rappresentazione medesima. […] Ora, il rappresentare afferma esattamente il contrario dell’essere! Ma con ciò non è detto che sia vero! […] Cioè: il pensare sarebbe impossibile, se non misconoscesse radicalmente l’essenza dell’esse; deve affermare la sostanza e ciò che è uguale, perché è impossibile conoscere ciò che è pieno fluire, deve inventare e attribuire qualità dell’essere, per esistere esso stesso. Non c’è biso-
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Necessità di una illusione
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Nietzsche si trova di fronte al compito di trasmettere, di comunicare una dottrina; non una qualsiasi, ma la dottrina secondo la quale tutto ciò che è, l’ente nella sua totalità, è in un continuo e insensato gioco di dissolvimento; l’essere, che si imprime al divenire come suprema forma della volontà di potenza, è nel contempo la forma suprema della falsificazione, dell’illusione ingannevole con la quale il vivente, cioè la volontà di potenza, si dà delle rappresentazioni sensate di ciò che è, di ciò che costituisce l’oggetto dei suoi sensi, della sua volontà ecc. Ma non solo ciò di cui possiamo dire che è, e che in qualche modo teniamo a una certa distanza da noi, è preso in questo insensato gioco di sfondamento e dissolvimento. Se si vuole prendere sul serio l’eterno ritorno è necessario che nemmeno chi lo afferma abbia la possibilità di rimanerne al di fuori. Verrebbe altrimenti a crearsi una volta più lo scarto che permette a un soggetto di sussistere astrattamente sottraendosi a ciò che rappresenta, oppure alla verità che enuncia: io, per poter affermare che tutto ritorna eternamente, per poter comunicare il senso della totalità dell’ente, anche se (o forse soprattutto se) questo senso è l’insensatezza, devo sottrarmi a quel tutto che costituisce l’oggetto della verità che voglio enun-
gno che vi sia oggetto e soggetto, perché sia possibile il rappresentare, bensì invece bisogna che il rappresentare creda ad ambedue. Insomma: ciò che il pensare concepisce e deve concepire come reale può essere l’opposto dell’essere!»; – Frammenti postumi 1885-1887, cit., 2[193], p. 148: «Il nostro malvezzo di prendere come essenza, e infine come causa, un segno mnemonico, una formula di abbreviazione, come quando per esempio si dice del lampo che “esso illumina”. O addirittura la paroletta “io”. Il porre, nel vedere, una specie di prospettiva di nuovo come causa del vedere stesso: è stato questo l’artificio che ha fatto inventare il “soggetto”, l’“io”!»; – Frammenti postumi 1887-1888, cit., 10[57], p. 134: «… Errato dogmatismo riguardo all’“ego”: lo stesso assunto atomisticamente, in falsa contrapposizione con il “non-io”; parimenti staccato dal divenire; come un essere. La falsa sostanzializzazione dell’io: quest’ultima (nella fede dell’immortalità individuale) trasformata, particolarmente sotto la pressione della disciplina religioso-morale, in articolo di fede. Dopo questo artificioso distacco e spiegazione in sé e per sé dell’“ego”, ci si trovò di fronte a una contrapposizione di valori che sembrò incontestabile: l’ego individuale e l’immenso non-io…» Cfr. inoltre Frammenti postumi 1879-1881, tr. it. di M. Montinari, vol. V, t. 1, 6[70], pp. 439-440; Frammenti postumi 1881-1882, cit., 11[7], pp. 280-281; 11[39], pp. 293-294; Frammenti postumi 1884-1885, cit., 35[35], p. 203.
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Fabio Polidori
ciare, devo attestare la verità e perciò rappresentarmi (e ipso facto collocarmi) al di fuori di ciò che enuncio, così come per dire o anche solo per percepire che qualcosa, oppure che tutto si muove devo rimanere fermo rispetto al qualcosa o al tutto che è in movimento. Non occorre molto per ravvisare qui una questione logica che perdura da moltissimo tempo. Ma non è questo, per quanto importante, il punto. Che si segnala invece nel processo di soggettivazione che si produce a partire da qui, a partire cioè dall’enunciazione, dall’asserzione. E sembra che Nietzsche, dopo aver distrutto la fede nella logica, e più ancora nella grammatica e nelle loro pretese, non possa esibire altro che lo sgomento tragico nel vuoto da esse lasciato, che il soggetto, costituendosi in esse, continua ad abitare quale sua indicibile provenienza e destinazione. Lo stesso accade per la visione, nel vedere: nel momento in cui qualcosa viene a costituire l’oggetto della mia visione, nel momento in cui rappresento qualcosa, necessariamente rimango escluso da ciò che costituisce l’oggetto della mia rappresentazione. L’eterno ritorno non è solo una «dottrina», un sapere sull’ente nella sua totalità; giacché implica l’appartenenza di chi assume questa dottrina al movimento circolare, precludendogli la possibilità di occupare un luogo stabile, esterno al circolo, è nel contempo la pensabilità stessa dell’ente che, come tale, non può che rivelarsi impensabile. Perciò la visione di Zarathustra non deve essere confusa con una semplice rappresentazione o una allegoria, ma è l’unità di un gesto che non può darsi se non come sdoppiamento: e solo più tardi, in un altro tempo e in un altro luogo, Zarathustra potrà riconoscersi sotto le sembianze del pastore con il serpente nero nella bocca. La visione stessa si fa qui enigma: l’enigma di un vedere che non è mai un oggetto possibile (visibile) a se stesso ma è sempre e soltanto un sapere (differito) che “si” vede. L’enigma non ha soluzione perché non è riferito al significato di ciò che è rappresentato, ma al paradosso di un vedere che ci rimanda a ciò che è altro, in (e da) cui è implicata e strutturata la nostra soggettività e in cui si colloca la possibilità, il fondamento di ogni vedere, di ogni rappresentazione.
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Nietzsche, nel momento in cui vuole sancire attraverso l’eterno ritorno che ogni verità è illusoria (e con essa il soggetto stesso è illusorio) sa che questa sanzione porta necessariamente con sé la ricomparsa del soggetto per il fatto stesso di essere pronunciata e affermata, e la smentita dell’eterno ritorno stesso: Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io –: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo! 2
Può darsi verità (filosofica e non) solo se il soggetto che la crea e che in essa si crea ne rimane all’esterno. E la verità dell’eterno ritorno, che vuole affermare proprio la scomparsa dell’idea di una soggettività stabile, non potrà essere affermata, e ancor meno comunicata, se non vuole, attraverso la sua stessa affermazione o comunicazione, andare incontro alla propria negazione. L’enigma è la possibilità dell’eterno ritorno, che deve rimanere impronunciato, irrappresentato, non visto. L’enigma è la visione stessa in quanto fenomeno che necessariamente produce il soggetto come effetto di verità, di cui per un attimo possiamo quasi vedere l’ombra, a patto di non svelare l’enigma.
Il convalescente Un ultimo passo deve portarci ora al quartultimo capitolo del libro terzo di Così parlò Zarathustra, intitolato «Il convalescente». La sua struttura appare più semplice e in parte fa da seguito a «La visione e l’enigma». Zarathustra, dopo aver fatto ritorno alla sua caverna e in compagnia dei suoi animali, aquila e serpente, attraversa un momento di follia. Saltato su «dal suo giaciglio come un folle», si mette a gridare «con voce terribile e comportandosi come se nel giaciglio fosse qualcun altro, che non voleva alzarsi». Le sue parole invocano il suo pensiero abissale:
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Così parlò Zarathustra, cit., p. 191.
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Fabio Polidori
È Zarathustra che ti chiama, il senzadio! Io, Zarathustra, l’avvocato della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo – io chiamo te, il più abissale dei miei pensieri! Salute a me! Tu vieni – io ti odo! Il mio baratro parla, la mia estrema profondità io l’ho rovesciata alla luce! 3
E dopo aver pronunciato queste ed altre parole, crollò al suolo come un morto e così rimase a lungo, come un morto. Ma quando tornò in sé, era sbiancato e tremava e rimase sul giaciglio e per lungo tempo non volle né mangiare né bere. Tutto ciò gli durò sette giorni… 4
Solo dopo che si fu ripreso, i suoi animali gli rivolsero la parola. Da questo punto in poi, il resto del capitolo si svolge come una specie di dialogo tra Zarathustra e i suoi animali, il cui tono di fondo è dato dal rimprovero che Zarathustra muove a essi per il modo in cui parlano dell’eterno ritorno. Le loro parole sono di conforto e di gioia, esprimono un messaggio di leggerezza: O Zarathustra, dissero, già da sette giorni tu giaci così, con gli occhi grevi: non vuoi finalmente rimetterti in piedi? Esci dalla tua caverna: come un giardino, il mondo ti attende. Il vento giuoca con densi aromi, che vogliono raggiungerti; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro. Tutte le cose hanno nostalgia di te, tanto più che rimanesti solo per sette giorni, – esci fuori dalla tua caverna! Tutte le cose vogliono farti da medico! 5
E ancora, poco dopo: «O Zarathustra, ribatterono le bestie, le cose stesse tutte danzano per coloro che pensano come noi: esse vengono e si porgono la mano e ridono e fuggono – e tornano indietro. Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere.
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Ivi, pp. 263-264. Ivi, p. 264. Ivi, pp. 264-265.
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Necessità di una illusione
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Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “qui” ruota la sfera “là”. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità» 6.
Non c’è bisogno di soffermarsi a lungo sul significato di queste parole. Si tratta, come appare con evidenza, della felicità e della leggerezza del pensiero dell’eterno ritorno. Gli animali stessi infatti sono simboli dell’eterno ritorno: il serpente, l’animale più saggio, e l’aquila, quello che vola più in alto. Il modo stesso in cui compaiono per la prima volta agli occhi di Zarathustra è una promessa di serenità: Ecco! Un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo. «Sono i miei animali!», disse Zarathustra e gioì di cuore. «L’animale più orgoglioso sotto il sole e l’animale più intelligente sotto il sole – erano in volo per esplorare il terreno…» 7
Ancora una raffigurazione del circolo, duplicata nei giri dell’aquila e dall’inanellarsi del serpente al suo collo. Se all’inizio essi, in silenzio, indicano la via verso il pensiero dell’eterno ritorno sospesi nell’aria, privi di spirito di gravità, poi dalla loro bocca Nietzsche fa scaturire parole che dovrebbero dare conforto a Zarathustra, liberatosi dallo spirito di gravità. Sentiamo la replica di Zarathustra: O voi, maliziosi burloni e organetti cantastorie! rispose Zarathustra tornando a sorridere, come sapete bene ciò che ha dovuto adempirsi in sette giorni:– – e come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per strozzarmi! Ma io ne ho morso il capo e l’ho sputato lontano da me. E voi, – voi ne avete già ricavato una canzone da organetto? Ma ora io giaccio qui, stanco per quel mordere e sputare via, reso malato dalla mia stessa redenzione.
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Ivi, pp. 265-266. Ivi, p. 19.
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Fabio Polidori
E voi avete fatto da spettatori a tutto ciò? Oh, miei animali, siete anche voi crudeli? Avete voluto fare da spettatori alla mia grande sofferenza, così come fanno gli uomini? L’uomo infatti è il più crudele degli animali 8.
Il rimprovero è molto simile a quello che era stato diretto al nano. Nelle loro parole, benché prive stavolta di sprezzo, si confermano quelle del nano. E con esse, non tanto il contenuto della dottrina, ma il modo in cui e soprattutto il luogo da cui provengono. Essi dimenticano la sofferenza di Zarathustra, non accennano al morso al serpente nero che egli è stato costretto a dare, tralasciano tutto ciò che di pesante, di greve, di tragico il pensiero dell’eterno ritorno comporta. La canzone da organetto rimuove il suo stesso motivo. Il nichilismo risentito del nano cambia solo di segno, ma rimane, ad accomunarli, la distanza da Zarathustra. L’eterno ritorno diviene nelle loro parole uno spettacolo, uno spettacolo di bellezza e di gioia, ma perciò sempre un qualcosa di offerto alla contemplazione, alla visione di uno sguardo che ne rimane al di fuori. Non vanno trascurati i corsivi: «E voi avete fatto da spettatori a tutto ciò?»
L’inevitabile soggetto Anche in questo caso, Nietzsche volge lo sguardo via dal suo enigma, rifiuta una parola che sarebbe verità, che lo vincolerebbe come “soggetto” del proprio pensiero “antisoggettivo”. Inesprimibile – se non al prezzo del suo completo tradimento – anche attraverso la moltiplicazione dei personaggi chiamati a parlarne e le reticenze di Zarathustra. Come se il superamento della soggettività fosse inevitabilmente votato allo scacco; come se la questione filosofica che intorno a essa si suscita fosse inestricabilmente già compresa in un paradosso inaggirabile, in quanto ogni tentativo di spiegazione o di descrizione, ogni parola, lo riproduce. Come se il linguaggio filosofico (ma non solo, forse) fosse il
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Ivi, p. 266.
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luogo del soggetto, là dove il soggetto non può non abitare ma anche là da dove non può andarsene. Queste riflessioni premono verso una serie di problemi che hanno a che fare con il nesso tra la filosofia e il suo linguaggio. Dicendo questo, voglio soltanto segnalare quell’atteggiamento di cautela, da parte di Nietzsche, nei confronti della parola filosofica, percepibile nella molteplicità degli stili e, perché no, nella stessa volontà di verità delle sue sentenze che si irrobustisce proprio nei toni evangelici dello Zarathustra. Una cautela che suppone un Nietzsche consapevole della intima contraddittorietà del prendere la parola per smontare gli edifici della volontà (o necessità) di verità. Certo nelle opere nietzscheane una riflessione organica e sistematica sul linguaggio non compare, almeno nei termini in cui ciò si verificherà in questo secolo da parte di quei pensatori che, Heidegger in testa, verranno approfondendo quei legami che intercorrono tra la questione del superamento della metafisica e il linguaggio per affrontarla. Per quanto riguarda Nietzsche, se vogliamo fare eccezione per il suo scritto giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale, tale ordine di problemi non viene affrontato direttamente. Eppure, oltre che per i vari spunti che possono ritrovarsi nelle sue opere, una questione di questo tipo sembra inquietare, e non tanto saltuariamente, la sua riflessione. Quella che può sembrare solo una scelta o elaborazione stilistica – da leggersi esclusivamente come indice del problema, e certo non come sua soluzione – attestata dal poema filosofico di Così parlò Zarathustra e anche dalla scrittura aforistica, volutamente asistematica, indica i margini di opacità e di silenzio da e verso cui, insomma entro i quali si ritaglia, fuori del tempo, l’illusoria circostanza del soggetto e la necessaria pretesa alla verità. A queste considerazioni generali, si può aggiungere che, se è vero che una riflessione intorno al linguaggio nelle sue valenze ontologiche non è rintracciabile nell’opera di Nietzsche, ciò è dovuto forse al miraggio che il suo martello sarebbe bastato a liquidare le fonti, storiche e morali, delle mistificazioni cui il pensiero ha avuto bisogno di appog-
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giarsi. Ma resta l’irriducibile residuo di verità/soggettività che Nietzsche si trova di fronte nel momento in cui ne teorizza la dissoluzione. Nell’impossibilità di abbandonare il luogo della soggettività si annuncia più che un nesso occasionale con l’ambito del linguaggio. Si può, e qui solo per analogia, assimilare la extratemporalità della parola alla extratemporalità del soggetto che la pronuncia, che pronunciandola volge lo sguardo dal divenire imprimendogli il carattere dell’essere. Tra il soggetto e la parola, il dire, il linguaggio, si mostra un vincolo necessario, forse una coessenzialità. Come se la possibilità e insieme necessità di un soggetto che si produce quale elemento e nucleo stabile al di fuori dell’incessante divenire sia debitrice di quella distanza che si apre tra la parola e ciò che essa pretende di afferrare, trasponendo ciò che appartiene al caos, all’indistinto su un piano di ideale consistenza e permanenza. In una pagina sino a ora trascurata del capitolo intitolato «Il convalescente» il senso di questo discorso si mostra con una chiarezza che potrebbe rendere superfluo ogni ulteriore commento: – O animali miei, rispose Zarathustra, continuate a ciarlare così e lasciate che io vi ascolti! È per me un tale ristoro che voi chiacchieriate: là dove si chiacchiera, il mondo già mi si stende davanti come un giardino. Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità? Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo. Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare. Per me – come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! Ma questo noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo! Non sono stati donati alle cose e nomi e suoni, perché l’uomo trovi ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose. Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni! Con suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori. – 9
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Ivi, p. 265.
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Infine Nietzsche è colui il quale afferma la mancanza di verità. Ed è anche colui il quale afferma la mancanza di soggetto. Non c’è nessuna verità, il soggetto non esiste. Da un certo momento in poi, lo sforzo filosofico di Nietzsche si concentra nel tentativo (necessariamente fallimentare) di lottare con l’insostenibilità di ciò che sostiene. Non solo non c’è nessuna verità, non c’è nessun soggetto, ma questo non lo si può nemmeno pensare. A dire che il soggetto è un necessario e ineliminabile effetto di verità che si produce nel linguaggio. Tutto ciò si vede con chiarezza quando Nietzsche tenta di pensare l’eterno ritorno, cioè di pensare il tempo. Nietzsche vorrebbe intendere l’eterno ritorno dell’uguale anche come una dottrina; gli si presenta però il problema di comunicarla. Ma perché dovrebbe essere un problema? E perché ricercare forme di comunicazione così diverse da quelle consuete? Evidentemente il problema non è di dare forma a un contenuto. Piuttosto, di non tradire ciò che si vuole comunicare. Il tradimento, come si è visto, sembra però inevitabile. Per Nietzsche ne va della sua conoscenza, in qualche modo di se stesso, della sua soggettività, o meglio della inconciliabilità di questa con l’eterno ritorno. Ma allora: che cosa significa eterno ritorno? Che cosa significa comunicare? In quale rapporto stanno tra loro Nietzsche, l’eterno ritorno e il comunicare? Con l’eterno ritorno viene pensato il tempo. E ogni comunicazione si fonda su una rappresentazione. Il rappresentare comporta sempre un porre davanti a sé ciò che è offerto allo sguardo (all’intuizione). Quindi, anche un porsi (un porre se stessi) di fronte al rappresentato. Quest’ultimo deve installarsi nella presenza. Per questo motivo, è necessario postulare che il soggetto della rappresentazione sia esso stesso in quella medesima presenza, nel perdurare e distendersi del presente, nel presente in quanto sottratto allo svolgersi del tempo. Rappresentare è sottrarre al tempo. Il tempo, pensato a partire dall’eterno ritorno, non può essere rappresentato. Non ammette “estasi”, non ammette “soggetto”, non ammette comunicazione. Se tutto – l’ente nella sua totalità – deve eternamente
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ritornare, non si può concepire alcunché (nemmeno un soggetto) al di fuori di questo tutto. Nietzsche sa che il suo pensiero non può essere rappresentato. E perciò, anche se così sembrerebbe, non si comporta come chi voglia coprire una verità, di per sé chiara e trasparente; ma come chi si impegna nell’impossibile compito di comunicare l’irrappresentabile. Nietzsche non può comunicare (rappresentare) l’eterno ritorno perché, in quanto tempo, questo non consente esteriorità. Egli non può farsi soggetto del e di fronte all’eterno ritorno perché l’eterno ritorno non ammette soggettività. Sapere fino a che punto ne sia consapevole non è importante tanto quanto osservare le sue mosse, che comunque ce lo rivelano. La scomparsa di Nietzsche stesso, della sua voce, dai luoghi nei quali l’eterno ritorno si annuncia sembra una sorta di acrobazia con cui intanto Nietzsche potrebbe aver voluto togliersi da una scena in cui il tutto, la totalità che l’eterno ritorno esige per sé non deve frantumarsi, in cui il divenire non deve sospendersi nella presenza, non deve o può farsi verità. Se l’eterno ritorno non ammette esteriorità, non ammette rappresentazione e soggetto, non può ammettere verità. Non si può affermare l’eterno ritorno come verità. Ma poiché Nietzsche vuole comunicarlo, e in fondo non può farlo che come verità, questo porta necessariamente con sé una frantumazione. Zarathustra, come preludio alla sua dottrina, sente parlarsi senza voce della necessità di una desoggettivazione: «Tu lo sai, Zarathustra, ma non lo dici!» […] «Sì, lo so, ma non voglio dirlo!» […] «Ciò è al di sopra delle mie forze!». Ecco che di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importa di te, Zarathustra! Di’ la tua parola e infrangi te stesso!». – 10
Ciò che Zarathustra vede e racconta, esige che egli vi sprofondi dentro: è una visione “abissale” perché il vedere il tempo, così come
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Ivi, pp. 178-179.
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non ammette l’esteriorità della parola, non ammette neppure l’esteriorità della visione: Non è la vista già di per sé un – vedere abissi? 11
L’eterno ritorno comporta che il suo stesso esser-visto, come il suo esser-detto, rimanga impossibile: impossibilità di una esteriorità, di una distanza rispetto all’eterno ritorno. Man mano che la distanza teorica (della visione, del vedere: vedere è tenere a distanza per lo sguardo) deve ridursi, per affermare ciò che è visto e che deve comprenderla, la possibilità di comunicarla si allontana. L’eterno ritorno, come pensiero del tempo, non può venire espresso. Ciò significa che non è un pensiero, ma piuttosto un pensare. Come tale non può sospendersi per offrirsi alla visione, non può sospendersi per offrirsi alla parola. Come se fosse il vedere stesso della visione, il parlare stesso del linguaggio. L’eterno ritorno è tempo e, più e prima ancora che pensiero della temporalità, è pensare come tempo. Ora, del tempo non si può dire che cosa esso sia, in quanto esso semplicemente è. Del tempo Nietzsche vorrebbe parlare, vorrebbe almeno darne una visione, una immagine. Ma una visione (che non è l’invisibile vedere) è negazione del tempo; e un parlare (che non è l’indicibile dire) è negazione del tempo. L’indicibilità del tempo e l’intemporalità del linguaggio si richiamano a vicenda; come se si fondassero nel modo della reciproca negazione. Tempo e linguaggio sono ciò a cui il soggetto è sempre sottratto e sempre consegnato, ciò in cui, secondo questo movimento di sottrazione e consegna, il soggetto si produce come presenza, come fuoriuscita dal tempo. La consistenza del soggetto, che Nietzsche ha dichiarato illusoria ma che, proprio come tale, è necessaria, è sempre un richiamo alla presenza. Questa presenza è fatta di sottrazioni dal tempo: le parole e la verità che in esse deve essere creduta, sono i luoghi del soggetto dove questi non può, però, che mancarsi.
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Ivi, p. 191.
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APPENDICE IL SIMBOLO, IL GIOCO
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NICHILISMO DEL SIMBOLO
In uno dei capitoli più famosi, più importanti, di Così parlò Zarathustra, a un certo punto si legge: O animali miei, rispose Zarathustra, continuate a ciarlare così e lasciate che io vi ascolti! È per me un tale ristoro che voi chiacchieriate: là dove si chiacchiera, il mondo già mi si stende davanti come un giardino. Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità? Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo. Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare. Per me – come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! Ma questo noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo! Non sono stati donati alle cose e nomi e suoni, perché l’uomo trovi ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose. Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni! Con suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori 1.
Questo brano non è, tra tutti quelli di Nietzsche, uno dei più citati. Si trova nel capitolo intitolato «Il convalescente», che come è noto contiene elementi essenziali per capire la dottrina dell’eterno ritorno
1
Così parlò Zarathustra, cit., p. 265.
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dell’uguale. Molto probabilmente, il fatto che Zarathustra tenti di spiegare ai suoi animali cosa è e come deve essere inteso l’eterno ritorno – e poi i necessari rimandi a quanto era accaduto in «La visione e l’enigma» (il serpente nero, il morso del pastore ecc.) – ha spesso attenuato l’attenzione nei confronti di queste righe, nei confronti delle parole con le quali Zarathustra riprende a parlare dopo essersi risvegliato. È pienamente legittimo, oltre che opportuno, che si dia rilievo alle decisive parole con le quali Zarathustra rimprovera i suoi animali perché prendono l’eterno ritorno troppo alla leggera («E voi, – voi ne avete già ricavato una canzone da organetto?»); o quelle con cui sottolinea che non si tratta di una teoria che può essere contemplata dall’esterno: l’eterno ritorno va vissuto nei suoi aspetti più raccapriccianti, soffocanti, come il serpente nella gola. O ancora, le parole con cui si celebra quasi una investitura: «Giacché le tue bestie, Zarathustra, sanno bene chi tu sei e chi devi diventare: ecco, tu sei il maestro dell’eterno ritorno –, questo ormai è il tuo destino!» E tuttavia, pur essendo molto vicini all’eterno ritorno, cercheremo di lasciarne in secondo piano le difficoltà della decifrazione, le suggestioni dei significati, forse anche la simbologia. Cercheremo, invece, di vedere cosa accade nei dintorni, cosa accade nelle righe da cui abbiamo incominciato. Dove si parla per simboli e per metafore, dove si parla, anche, di simboli, di parole; delle parole, di che cosa significa o di che cosa è parlare, dove si dice cosa sono le parole. Come se si trattasse di una specie di dichiarazione sul linguaggio, molto compatta, forse appena un embrione di teoria, e per di più interpolata in un discorso che parla soprattutto di altro. Siamo insomma di fronte ad alcune brevi considerazioni di Nietzsche sulle parole, sul loro statuto simbolico. Considerazioni che possono risultare oltretutto non molto sofisticate, se comparate con il modo e i termini nei quali la questione del linguaggio verrà affrontata nel Novecento. Una cosa va però sottolineata: queste poche frasi pronunciate da Zarathustra sul “linguaggio” precedono immediatamente le cose essenziali che di lì a poco dovranno essere dette, dovranno essere comunicate. Il che potrebbe manifestare, in Nietzsche, l’esigenza di una premessa; chissà, forse anche per metterci in guardia o sul-
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l’avviso prima di continuare a parlare o far parlare i suoi personaggi di cose essenziali sull’eterno ritorno. Cerchiamo allora di capire cosa potrebbe intendere Nietzsche (e anche: cosa potremmo intendere noi attraverso Nietzsche) in queste poche righe. Forse non sarà possibile chiarire tutto, e forse non è nemmeno necessario contestualizzare in dettaglio ogni singola parola oppure ogni singola frase. Possiamo limitarci ad alcuni passaggi, che mi sembrano sufficientemente chiari, almeno per quanto riguarda la questione che affrontano. E il primo passaggio da tenere in considerazione dice: «Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?» Che qui Nietzsche – in effetti sarebbe Zarathustra, ma per comodità ci riferiamo direttamente all’autore, anche se il fatto che non sia direttamente Nietzsche a parlare potrebbe avere il suo peso – si riferisca a una questione che potremmo identificare come una questione intorno al linguaggio mi sembra inequivocabile. Questo non significa che siamo in presenza di una concezione precisa e articolata del linguaggio; si tratta solo di un accenno, ed è opportuno considerarlo non molto di più che una traccia da seguire. Questa traccia però ci indica subito una direzione: quella della leggerezza, della piacevolezza: le parole e i suoni, i suoni delle parole rendono possibile, producono quasi, una dimensione di dolcezza (lieblich: di amore, di amorevolezza). Qui Nietzsche non intende alcune parole: per esempio quelle dei suoi animali o quelle che gli vanno più a genio, ma si riferisce indistintamente a parole e suoni; a qualsiasi parola e suono: «dolce» (lieblich) si riferisce non alla qualità specifica delle parole qui effettivamente pronunciate, ma a quello che potremmo definire il loro “statuto ontologico”. Il fatto cioè, semplicemente, che ci siano, che ci siano parole e suoni in generale, prima ancora di quello che vogliono dire. E proprio questo passaggio (fino a un attimo prima Zarathustra si era riferito alle parole dei suoi animali) dal particolare al generale, alle parole e suoni considerati nel loro sussistere, ci mette sull’avviso che il discorso si è spostato sul piano del linguaggio, come fosse una breve digressione tematica. Lo conferma la frase immediatamente seguente: il suo tenore è quello della
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proposizione essenziale, della proposizione che asserisce un significato essenziale, che pone cioè una definizione riguardo all’essenza; una proposizione che risponde insomma a una delle domande filosofiche tradizionali, alla domanda che chiede secondo l’essenza: «che cosa è…?». In appena tre righe ci troviamo dunque di fronte a una quantità di elementi sufficienti a delineare un primo profilo di come Nietzsche possa intendere, in questo caso, il linguaggio: parole e suoni ci sono, esistono, sussistono. Oltretutto, sussistono in un modo ben preciso, non indistintamente e secondo una esistenza “neutra” e indifferente, bensì: «dolce è che vi siano parole e suoni». Qui il riferimento alla dolcezza non deve trarci in inganno; non è a un piano “estetico”, in qualche misura estrinseco rispetto al loro senso ontologico, o addirittura accessorio, che veniamo rimandati dal termine «dolce», come se parole e suoni potessero sussistere e assumere di quando in quando la “qualità” dell’essere dolce. Nietzsche qui intende tutt’altro: e cioè che la dolcezza è la modalità fondamentale del darsi del linguaggio, del sussistere delle parole. Di «parole e suoni» non si può affermare che ci sono, prima e come dotati di una sussistenza autonoma, ma essi sono in quanto un sussistere che è intrinsecamente «dolce». Dolce rispetto a che cosa? Forse, per saperlo, non possiamo rimanere esclusivamente all’interno di queste poche righe; le quali rimandano, con la loro “dolcezza” e per contrapposizione, allo stato d’animo, allo stato “emotivo” di Zarathustra. E da cosa può essere contrassegnato questo stato d’animo, lo stato d’animo del convalescente Zarathustra, se non alla situazione dalla quale è appena uscito, dalla quale sta uscendo, dopo essere crollato «come un morto» per l’esperienza dell’eterno ritorno? Ciò che si contrappone – ma questo contrapporsi è anche un esserci implicato – alle parole, al sussistere delle parole, è, potremmo pensare, ciò che è dell’ordine dello spaventoso, ciò che suscita orrore; la morte, o quasi; la dimensione del tragico; potremmo pensare, infine, al nulla. «Dolce è»: si potrebbe continuare soggiungendo «che vi sia qualcosa piuttosto che il nulla». Ma «qualcosa», qui, significa: parole, parole e suoni. Già a questo punto, tuttavia, si potrebbe obiettare che forse ci siamo spinti troppo in là; che sì, d’accordo, qui Nietzsche sta parlando del
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linguaggio, o meglio sta dicendo alcune cose che hanno a che vedere con una tematica, con una interrogazione, quella sul linguaggio, che noi siamo sì in grado di individuare, ma soltanto a posteriori, e che sicuramente non era familiare a Nietzsche quando scriveva, né era così inquietante o così articolata come accadrà alcuni decenni più tardi. E tuttavia che si tratti di una affermazione di carattere ontologico lo possiamo vedere confermato dalla frase che immediatamente segue, quella che, come avevamo anticipato è una frase essenziale: se l’esistenza, il sussistere delle parole è dolce in quanto in relazione (pur nel contrasto e nella contrapposizione) con il tragico, con il nulla, con il nichilismo ecc., la loro essenza, ossia quello che sono, lo conferma: parole e suoni sono «arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità». È una frase che Nietzsche fa pronunciare a Zarathustra in forma interrogativa, una domanda retorica che ha certo lo scopo di aumentare l’efficacia di ciò che asserisce: il sussistere di parole e suoni è ciò che si contrappone al nulla, alla dimensione tragica del nichilismo. Questo contrapporsi però è anche, e forse più essenzialmente ancora, un essere in relazione con; parole e suoni sono, infatti, «arcobaleni», «parvenze di ponti», figure cioè nelle quali si esprime un essere in rapporto, un mettere in collegamento. E anche se Zarathustra è criptico e allusivo, e si limita a dire: «Tra ciò che è separato dall’eternità», ci fa comunque sapere che, qualunque sia la cosa di cui si tratta, ha a che vedere, una volta di più, con una dimensione ontologica fondamentale: quella indicata da quell’essere «separato dall’eternità», con cui è chiamato in causa il tempo, e nel suo significato ontologico fondamentale: quello della presenza che perdura, quello insomma della necessità. Non è possibile qui chiamare in causa il tempo, e tanto meno sviluppare la questione alla luce di una analisi della temporalità. Per ora dunque sappiamo soltanto che qui Nietzsche continua a riferirsi a una dimensione essenziale, a una dimensione che – è la dimensione di parole e suoni, è la dimensione del linguaggio – si presenta a noi come una separazione, una scissione, un abisso dirà tra un po’, dischiuso dall’eternità, da sempre. Ma che cosa si ritrova a essere separato dall’eternità? In effetti, si potrebbe già abbozzare una prima risposta, e proprio sulla scorta delle
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due frasi che seguono; dalle quali si ricava l’impressione che Nietzsche possa qui avere in mente una sorta di teoria, o per lo meno di immagine, di nozione della comunicazione; del comunicare come ciò che è sempre esposto al fraintendimento giacché, dice Zarathustra, «ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo». Come se insomma qui Nietzsche volesse limitare la questione al carattere – sempre esposto a un certo rischio di relativismo e appunto di fraintendimento – della denotazione, alla eventualità che se un’anima intende una cosa un’altra anima non necessariamente ne avrà la medesima nozione, la medesima rappresentazione. Da qui in avanti, potremmo allora ritenere che ci troviamo semplicemente di fronte alla considerazione un po’ rassegnata di uno Zarathustra che si rammarica del fatto che è difficile farsi capire, è difficile spiegare anche ai propri animali, a chi gli è più vicino e affine, quanto gli è accaduto, e che insomma quando si parla ci si fraintende sempre. Ma sarebbero allora semplicemente le anime a essere ciò che è separato dall’eternità? Ciò tra cui si danno, con suoni e parole, «arcobaleni e parvenze di ponti»? E, più ancora, le anime intese semplicemente come sinonimo di “individui”? In effetti non credo che qui la comparsa del termine «anima» sia casuale, o motivato da esigenze di tipo allegorico-poetico, o ancora indichi una dimensione spirituale o spiritualizzata di ciò che il termine “individuo” di solito è sufficiente a denotare; credo invece che anima sia da intendersi piuttosto come una dimensione psicologica fondamentale, come ciò che è sì in rapporto con altre anime, con altri; ma che, anzitutto ed essenzialmente, è in quanto sempre in rapporto con il mondo. Prima ancora, più essenzialmente ancora del fatto che a ogni anima appartenga un mondo diverso, c’è il fatto che a ogni anima appartiene un mondo, che ogni anima è tale in quanto relazione al (a un) mondo. Solo come conseguenza, qui Nietzsche fa riferimento alla peculiarità, alla diversità, alla specificità dei «mondi». È infatti l’essere in (relazione con) un mondo il presupposto in base a cui deriva il fatto che un mondo si dà come apertura e anche come chiusura. Mondo, insomma, è l’aprirsi che al tempo stesso implica anche una sorta di chiusura. E l’anima sarebbe ciò che può intendersi come aperto a un mondo ma an-
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che come aperto a un mondo, a uno solo degli infiniti mondi possibili. È per questo, dunque, che prima ancora di contenere una asserzione circa la difficoltà o il carattere relativo della comunicazione, questa frase, anzi, queste due frasi di Nietzsche, indicano un rapporto al mondo che riguarda ciascuna anima, ciascuno di noi. Se saltiamo al paragrafo successivo, sentiamo che Zarathustra ci conferma tutto ciò in modo inequivocabile: «Per me – come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me?» E non è questo, anzitutto, l’indice non tanto e non solo di un rapporto con altri, ma con il mondo in quanto dimensione della trascendenza? Trascendenza delle cose – del mondo, in rapporto a cui siamo – rispetto all’io, rispetto all’anima, la distinzione che, per fare un esempio, Descartes introduce in termini di res cogitans e di res extensa? Ma cosa c’entra, nel contesto, questo riferimento all’anima e al mondo? Niente; a meno che non si tenga in considerazione che il rapporto tra anima e mondo va pensato in termini di linguaggio, di legame simbolico. Più ancora che il rischio del fraintendimento nella comunicazione tra gli uomini, tra «anime», insomma tra soggetti psicologici, è qui in questione anzitutto il rapporto tra, diciamo pure, l’anima, le anime, i “soggetti” e il “mondo”, il mondo inteso nel suo significato più ampio, come ciò con cui l’anima è (non può non essere) in rapporto: a ogni anima appartiene un mondo, ogni anima è tale solo se “possiede” un mondo, è solo in quanto si trova in un certo rapporto con il mondo. Ancora non sappiamo però in che modo Nietzsche intenda il “mondo”, quale sia la sua nozione di mondo, soprattutto in relazione all’anima. Se cioè il mondo sia concepito semplicemente come una realtà, una res, una res extensa (cioè qualcosa che sussiste di per sé e si contrappone, nella sua trascendenza, nella sua esteriorità, al “soggetto”) oppure se le cose stiano in maniera diversa. Per rispondere a questa domanda (cosa intende Nietzsche per “mondo”?), possiamo riferirci a un testo del Nachlass non distante, cronologicamente, dal periodo dello Zarathustra. Il frammento risale al 1885 e incomincia con una domanda essenziale: «E sapete anche cos’è per me “il mondo”?», cui segue una incalzante descrizione che termina così: «– Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e
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nient’altro!» 2 Possiamo quindi affermare che senz’altro Nietzsche non ha una concezione del mondo come qualcosa di separato, in quanto oggetto, e di contrapposto a un soggetto; anzi, il mondo, in quanto totalità di tutto ciò che è, in quanto quella totalità che Nietzsche chiama volontà di potenza e di cui consiste essenzialmente ogni ente («E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!»), non può essere considerato come qualcosa di esterno, di esteriore, di trascendente. E questo è senz’altro confermato dalle affermazioni di Zarathustra: «Non esiste un fuori!» E tuttavia sappiamo anche, però, che ci è impossibile pensare il mondo, o semplicemente pensare e basta, in questi termini. «Ma questo», il fatto cioè che non esiste un fuori, «noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo!» Dove il dimenticare è strettamente connesso non con la volontà, e nemmeno con una facoltà della mente; qui Nietzsche non si riferisce a qualcosa come la memoria, o l’oblio, il venire meno della memoria intesa come dimensione psicologica, ma si riferisce essenzialmente al linguaggio: «in ogni suono che emettiamo», noi dimentichiamo che non esiste un fuori, non esiste qualcosa di esterno che si contrappone a noi – al soggetto, all’anima – su un piano oggettuale; «in ogni suono che emettiamo» noi dimentichiamo che non c’è, non esiste trascendenza. Si potrebbe quindi concludere che, accanto a una concezione assolutamente “monistica”, diciamo pure priva di trascendenza, del mondo in quanto volontà di potenza – una volontà di potenza che preclude ogni possibilità di dualismo, che rende addirittura impossibile il sussistere di qualcosa di semplicemente esteriore («Non esiste un fuori!») – a fianco, o anche all’interno, di questa univocità, di questa omogeneità si introduce tuttavia una distinzione, una separazione. Con il linguaggio, cioè, si istituisce una trascendenza, un “fuori” che altrimenti non esisterebbe 3.
2
Frammenti postumi 1884-1885, cit., pp. 292-293. Anche se non è il caso di fare una ricognizione completa del modo in cui Nietzsche intende il linguaggio, è utile riportare un brano, che faccia da esempio, dal Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 72-73: «– Stabiliamo finalmente al contrario in che diverso 3
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E allora, potremmo supporre, Nietzsche sta qui pensando che ogni manifestarsi, ogni apparire, non può che darsi entro una configurazione dualistica; e anche ciò che si produce o si introduce nella nostra esperienza in termini di scissione, di lacerazione, ha senz’altro a che fare con il linguaggio: anzi, il linguaggio stesso sarebbe il prodursi della separazione nell’essenziale. Ma non solo: con altrettanta precisione Nietzsche afferma che proprio il linguaggio, i suoni e le parole, è ciò che, nella lacerazione e nella scissione, tiene unito, (ri-)unifica («arcobaleni e parvenze di ponti») quanto è distinto, quanto è, come dice lui, «separato
modo noi (dico noi per cortesia…) consideriamo il problema dell’errore e dell’apparenza. Una volta si prendeva la trasformazione, il cangiamento, il divenire in generale come una prova dell’apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a fissare unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti nell’errore, necessitati all’errore: per quanto si sia intimamente certi, sulla base di una rigorosa verifica in noi stessi, che qui sta l’errore. È lo stesso di quel che accade nei movimenti delle grandi costellazioni: nel caso di queste l’errore ha il costante patrocinio del nostro occhio, nel nostro caso invece ha quello del nostro linguaggio. Il linguaggio, quanto alla sua origine, appartiene all’epoca della più rudimentale forma di psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione. Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto “cosa”… L’essere viene ovunque pensato, interpolato come intima causa delle cose; dal concepimento dell’“io” consegue, come derivato da esso, il concetto di “essere”… Al principio sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente, che la volontà sia una facoltà… Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola… Assai più tardi, in un mondo reso chiaro in mille forme, la sicurezza, la soggettiva certezza nel maneggiare le categorie della ragione giunse sorprendentemente alla coscienza dei filosofi: essi conclusero che queste non potevano avere un’origine empirica – ma che anzi l’intera esperienza era in contraddizione con esse. Dove sta dunque la loro origine? – E in India come in Grecia si è commesso lo stesso errore: “Dobbiamo già avere dimorato una volta in un mondo superiore (– invece di dire: in un mondo molto inferiore: ciò che sarebbe stata la verità), dobbiamo essere stati divini, giacché abbiamo la ragione!”… In realtà, nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l’errore dell’essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che noi pronunciamo! – Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione del loro concetto dell’essere: tra gli altri Democrito, quando escogitò il suo atomo… La “ragione” nel linguaggio: ah, quale vecchia donnaccola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…».
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dall’eternità», ossia in maniera essenziale. Ma attenzione: non si tratta assolutamente di una ricomposizione quale potrebbe darsi all’interno o al termine di un percorso (e meno che mai la conciliazione di un processo dialettico), oppure la riacquisizione di una dimensione originaria. Si tratta, al contrario, di una menzogna, di un mentire. E di un mentire che non implica alcuna verità. Non c’è nessuna verità originaria, nessuno stato banalmente “prelinguistico” o “extralinguistico” da immaginare al di fuori del linguaggio. Si tratta insomma di una parvenza di cui non è data la possibilità di alcun dissolvimento, che non rimanda a nessuna dimensione “reale”, o “autentica”; allo stesso modo della «Storia di un errore» che Nietzsche racconta in «Come il “mondo vero” finì per diventare favola», il dissolversi del mondo vero è il dissolversi del mondo apparente, e viceversa. Ma allora quale è lo statuto del linguaggio secondo Nietzsche, o almeno secondo ciò che da Nietzsche abbiamo qui ricavato? Per lo meno – e questa è una prima risposta – uno statuto duplice: è ciò che tiene unito, che ci permette di comunicare (o di fraintenderci) tra di noi, in quanto «anime», ma soprattutto è quanto ci permette di raggiungere ciò da cui siamo separati: le cose, gli oggetti, ciò che sta fuori di noi. Ma questo tenere unito, questa unità, questa corrispondenza, è fittizia: è una unità che è dell’ordine della parvenza, dell’apparenza; è, anche, un dimenticare, l’esito di un oblio, oppure, come dice la fine del testo che stiamo leggendo, «una follia bella». E con ciò abbiamo raggiunto, finalmente, una caratterizzazione precisa e sufficientemente completa della struttura del linguaggio quale si configura in Nietzsche. Una struttura che, abbiamo visto, ospita la contraddizione, e il cui tenore aporetico conferma – se ce ne fosse bisogno – le più importanti e anche famose asserzioni di Nietzsche intorno alla natura prospettica, prospettivistica (quindi essenzialmente «apparente» e ingannevole) della verità, e della verità soprattutto in relazione alla vita, alla volontà di potenza. Ma allora, e una volta di più, come si colloca questa struttura, struttura dell’apparenza, in relazione al “mondo”, in relazione cioè a quella totalità che, nel frammento del 1885, abbiamo appreso essere volontà di potenza? In altri termini: quando Nietzsche usa le parole «apparenza», «parvenza» e
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derivati in relazione alla volontà di potenza, non reintroduce forse, sebbene involontariamente, la ben nota distinzione platonica? O non ripropone, implicitamente, una idea di linguaggio essenzialmente distinta da ciò che il linguaggio nomina, dalle cose, dagli enti? Non rischia insomma di implicare una dimensione non linguistica a fondamento e garanzia – o anche semplicemente come referenza – della verità? Se così fosse, non si comprenderebbe in che cosa una simile accezione del linguaggio e soprattutto della verità si distinguerebbe dalla corrispondenza o adeguazione tra intelletto e cosa, se non per una più “positiva” valutazione di ciò che, in quanto apparenza, un tempo era screditato. In altre parole: se così fosse, ciò significherebbe comunque la possibilità di implicare un luogo o uno stato o una dimensione che eccede il linguaggio; significherebbe gettare un ulteriore arcobaleno, una ulteriore parvenza di ponte per cogliere qualcosa il cui coglimento non potrebbe non essere apparente. Possiamo a questo punto andare al capoverso che non abbiamo ancora preso in considerazione, alle tre righe che avevamo in precedenza saltato: «Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare.» Anzitutto qui è necessario modificare un po’ la traduzione; il testo originale dice «Zwischen dem Ähnlichsten gerade lügt der Schein am schönsten; denn die kleinste Kluft ist am schwersten zu überbrücken.» Se traduciamo «Zwischen dem Ähnlichsten» con «tra le cose più simili tra loro», l’espressione «tra le cose» ci trae in inganno. Alla lettera, «Zwischen dem Ähnlichsten» significa «tra il più simile» «tra il massimamente somigliante», tra quanto vi è di più di più prossimo, vicino, corrispondente»; insomma: all’interno di ciò che è massimamente unito con se stesso, proprio lì mente l’apparenza, la parvenza, nel modo più bello, nel modo migliore, al suo massimo. È il legame essenziale del linguaggio, il legame con il nulla, cui il linguaggio costantemente si contrappone. Ma allora dobbiamo pensare che non solo il linguaggio è un unire fittizio, non solo è il linguaggio stesso a produrre la disunione di ciò che poi in maniera fittizia torna unito, ma anche, e in termini paradossali, che non è propriamente concepibile qualcosa che possa sot-
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trarsi a questa chiamiamola irruzione della parvenza. Una parvenza che irrompe non – come dice la traduzione italiana – «tra le cose più simili tra loro» ma all’interno di ciò che non può che essere l’assolutamente somigliante, l’assolutamente unito. Ciò che è privo di distinzione: l’indistinto, l’indeterminato; cui si contrappongono, nel loro sussistere che è «dolce» (ma a cui non si contrappone, come abbiamo visto, un sussistere che non lo sia), parole e suoni. E se a questo punto vogliamo ricorrere una volta di più alla terminologia filosofica ufficiale o canonica, Nietzsche non sta riferendosi qui all’essere, di per sé concesso esclusivamente dalle parole e suoni (e quindi necessariamente molteplice, differenziato), ma propriamente il nulla. In quale luogo fa dunque irruzione la parvenza? Nel luogo del nulla: è una irruzione in seno al nulla che si produce come parvenza, «come la più bella delle menzogne». E proprio facendo irruzione in seno al nulla il linguaggio produce, necessariamente, l’impossibilità di pensare il nulla stesso: «infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare», nel senso che il più difficile è pensare ciò da cui ogni pensare proviene, quella irruzione in seno al nulla che è il pensiero, che a questo punto si ritrova nella impossibilità di pensare la propria provenienza. È difficile pensare l’essenza e la provenienza nichilistica del linguaggio, il suo fronteggiare il nulla assumendolo, anziché essere considerato ciò che indica le cose e basta. Il simbolo è anzitutto la sconfitta, continua e temporanea, del nulla. Non dimentichiamo che, in queste pagine, Zarathustra sta oltretutto tentando di comunicare il suo pensiero più abissale, che si chiama eterno ritorno dell’uguale, e di cui, al di là di qualche indicazione, assai poco si può conoscere. Comunque, come avevo anticipato, non è la comprensione dell’eterno ritorno che qui dobbiamo tentare di raggiungere, quanto la messa a punto, almeno parziale, del modo in cui Nietzsche intende, o può, o deve intendere il linguaggio, la dimensione del simbolo. E il meno che a questo punto si possa dire è che sarebbe restare troppo distanti dal suo pensiero ritenere che il simbolo sia da lui inteso semplicemente come una trasfigurazione della forma da dare a un determinato contenuto. Non solo – ci invita a pensare Nietzsche – le parole mentono, sono parvenza e menzogna, ma non abbiamo altro a
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disposizione; e tutte le volte che ci appelliamo alle cose non facciamo altro che gettare una parvenza di ponte [non esistono fatti, ma solo interpretazioni ecc.]; ma non basta, perché a rigore questo non lo possiamo nemmeno dire, perché anche questo è una parvenza di ponte, un arcobaleno. Insomma è in questione il linguaggio, è in questione il simbolo, ma è altresì in questione la pensabilità stessa di ciò che è pensato. Non solo è in questione, cioè, una dottrina della verità, non solo è sotto processo una nozione di verità come adeguazione ecc. (sappiamo bene che Nietzsche considera la verità in quanto adeguazione uno strumento di sopravvivenza per l’uomo, un errore necessario), ma è in questione il linguaggio a partire dalla impensabilità del nulla da cui il linguaggio stesso proviene e cui non può che fare costantemente ritorno. Come dire che il linguaggio stesso, la dimensione del simbolo e del simbolico, è la dimensione stessa del nichilismo. Il simbolo è allora questo costante rapporto con il nulla, questa effrazione del nulla; anzi, il linguaggio stesso (pur tenendo ben presente che non è possibile sovrapporre esattamente la nozione di linguaggio alla nozione di simbolo) è questo rapporto con il nulla. Certo, con la possibilità che le cose non ci siano; ma con la possibilità, anche, che le cose ci siano. Senza “nulla”, e senza effrazione del nulla, non c’è simbolo, non c’è linguaggio, non c’è arte ecc. Ma soprattutto non c’è un andare da qualche parte: posto che, ovunque si vada, non si possa che tornare “eternamente” dove si è.
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IL GIOCO DI NIETZSCHE
Così a naso, e in prima battuta, si potrebbe pensare che Nietzsche sia uno di quegli autori che introducono il gioco in filosofia. Andando però a scorrere i suoi testi, postumi e non, per controllare quanti e di quale portata siano i luoghi in cui parla di gioco, magari per servirsene in svariati modi o a vario titolo, si rimane alquanto sorpresi nel vedere che non sono poi così tanti. Non solo: per lo più il loro contesto è quello della classicità, come la figura del dio Dioniso (simbolo della lacerazione e dell’ebbrezza), oppure l’immagine del fanciullo derivata da Eraclito. E questo vale non soltanto per i testi dei primi anni, quelli intorno alla Nascita della tragedia, ma anche per i luoghi, ancora più scarsi, di Umano, troppo umano, di Così parlò Zarathustra, o degli anni successivi. Eppure resta in qualche modo la sensazione che, se qualcosa come una dimensione di gioco, una dimensione ludica, appartiene oggi alla filosofia, questo lo si debba, se non soprattutto, senz’altro anche a Nietzsche. Del resto, a non volersi accontentare di una impressione, ci si può subito tranquillizzare facendo il nome di Eugen Fink, che in chiave di “gioco” legge l’intera cosmologia nietzscheana (se non proprio l’intero suo pensiero) e – negli stessi anni e sempre con Nietzsche tra gli interlocutori – costruirà una sorta di cosmologia esistenziale allo scopo di svincolare e sgravare il pensiero da fardelli concettuali e metafisici 1. 1 I due libri di Eugen Fink cui si fa riferimento sono, rispettivamente, La filosofia di Nietzsche (1960), tr. it. di P. Rocco Traverso, Marsilio, Venezia 1979 e Il gioco come simbolo del mondo (1960), tr. it. di N. Antuono, Hopeful Monster, Firenze 1991.
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Fabio Polidori
Ma per quanto ampia e ospitale possa essere una prospettiva cosmologica, sicuramente non è ancora sufficiente a rendere conto del fatto che il gioco sia entrato in filosofia. Perché – ed è già un primo punto – non è sufficiente parlare di gioco, mettere il gioco a tema di riflessione, di considerazione, di analisi ecc. per dire che “c’è” gioco. Si sa, anzi, che a volte il gioco viene fatto scomparire proprio a forza di parlarne. E questa è sicuramente una considerazione che possiamo fare anche grazie a Nietzsche, e proprio in quanto, pur senza parlare molto di gioco – e parlandone, per quel che ne dice, in maniera da lasciare insoddisfatti – ci ha tuttavia, almeno in parte, insegnato a giocare. Lo ha fatto di proposito? Era nei suoi progetti? Lo ha fatto consapevolmente? Forse, in certa misura; e di sicuro più in maniera obliqua, indiretta, che per via di esortazioni, di consigli, di argomentazioni o di dottrina. Perché a volere mettere in sintesi le modulazioni dei testi di Nietzsche che direttamente parlano di gioco, il meno che si possa dire (nel senso, anche, del denominatore che li accomuna) è che ne risulta una immagine, o una idea, sempre alquanto “alta”. La caratteristica più frequente della nozione di gioco è, in Nietzsche, un certo legame con l’arte; se non addirittura quella di essere artistico in proprio, quando si tratta del gioco delle forme che attraversa (ma anche regola) la tematica dei primi testi sulla tragedia (e per il tramite di un gioco di forme, alla fine, passa anche l’ebbrezza dionisiaca). Ed è una tematica che si declina poi attraverso il gioco del fanciullo: l’innocenza, l’impulso a giocare che risorge sempre di nuovo, e che prelude anche, in questa versione, a uno dei momenti riconosciuti come più importanti di Così parlò Zarathustra, una insomma delle componenti della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. Ma il gioco compare, nei testi del periodo di mezzo, anche come sinonimo o figura della leggerezza, dell’alleggerimento: non esattamente e soltanto l’innocenza un po’ sublime del fanciullo ma, per evocare un’altra immagine, anche il «berretto del monello»: l’eroe insieme al giullare, che diventando leggero non solo gioca ma ride, e poi danza… È, in questo caso, il Nietzsche che pensa allo spirito libero, con cui si chiude – o quasi – la Gaia scienza; è il Nietzsche che pensa «l’ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante
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pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino» 2. È il Nietzsche che – prima di tornare sulla scena del gioco del fanciullo per allargarla, per distenderla ed estenderla dall’arte al mondo e all’intero cosmo, allo scopo di collocare all’interno di quel cosmo un uomo liberatosi dal peso dei valori – avverte il carattere e il senso di per sé liberatorio del gioco. Magari sotto spoglie differenti: «ogni arte tracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi» 3. Sotto le spoglie cioè di ciò che serve a danzare sopra le cose, prima che altri pensieri, prima che il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale e della volontà di potenza, portino Nietzsche a formulare un altro tipo di danza: stavolta piuttosto con le cose (con tutte le cose, con il “mondo”, si potrebbe forse dire), e senza facilmente distinguere – e forse rassegnandosi a non distinguere affatto – chi gioca dal gioco, senza voler più isolare chi sposta i pezzi dai pezzi stessi. Perché la libertà dello spirito può risultare ingannevole e forse addirittura pericolosa, oppure presentare un rovescio di meschinità, se non è accompagnata, se non è affiancata da uno sguardo che non pretenda di stare sopra le cose, da uno sguardo che riesca a evitare le prospettive del bene e del male, da uno sguardo che non sia quello dell’ultimo uomo, «quegli che tutto rimpicciolisce», anche la terra, su cui potere poi saltellare sprezzante. Questo sguardo non può allora essere quello della teoria, non può essere lo sguardo che tiene (il soggetto) a distanza (dall’oggetto), ma deve in qualche modo provenire (anche) dal mondo stesso, dalle cose stesse: sarà quindi anche lo sguardo delle cose nella loro volontà di potenza che non ammette morale, valore o valori assoluti ecc. Così come la differenza o distinzione tra soggetto e oggetto tenderebbe allora a scomparire, potrebbe venire meno anche quella, per certi aspetti forse meno irriducibile, tra uomo e cosmo in quello che – ricorre ancora il nome di Fink – può essere considerato l’universale gioco cosmico.
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La gaia scienza, cit., p. 263. Ivi, p. 116.
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Fabio Polidori
A ogni modo, e fin qui, niente di nuovo, se non appunto l’occorrere un po’ più scarso del termine “gioco” rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare. Ma possiamo servirci di questa sensazione anche per introdurci un po’ più nel vivo della questione. Perché non è sufficiente osservare, come è per altro opportuno, che in Nietzsche “gioco” è spesso sinonimo di danza, di riso, di liberazione e simili. E non è sufficiente perché in Nietzsche, oltre al gioco come simbolo o equivalente di altri simboli – e sempre e comunque come qualcosa, lo si diceva all’inizio, di “alto” – è pure abbondante e copioso il gioco che non si vede subito o che addirittura non si vede bene, che si percepisce senza riuscire a individuare, o che non si percepisce affatto; il gioco che lo stesso Nietzsche non sa (o forse sa, ma noi non lo sappiamo) di giocare in quel dato punto, in quel preciso passo; o in quel certo momento, senza contare poi tutti i momenti futuri, tutte le occasioni in cui qualcuno è stato giocato da Nietzsche, senza che lui lo volesse o lo avesse previsto, a distanza di anni, di decenni, e anche di epoche. Per questo, allora, alla prima immagine sintetica che ci possiamo fare del gioco di Nietzsche – quella alta e simbolica per intenderci – deve affiancarsene un’altra, forse non a caso (quasi) del tutto assente dalla dimensione esplicita dei suoi testi: quella del gioco in cui si è (anche) giocati, quella del gioco in cui si può vincere o perdere, quella di un gioco più “basso” (ma non necessariamente), un gioco in cui si dovrebbe mettere in conto anche l’essere giocati. Il gioco delle scommesse che possono valere una vita, un’opera, il loro senso o il loro non senso, la follia: «Sono stato capito? – Dioniso contro il Crocifisso…» 4. Quel gioco insomma sempre almeno in parte ingovernabile, per cui uno pensa di fare un certo gioco ma poi alla fine gli risulta di averne fatto un altro, o crede di avere vinto e invece è lui a essere stato giocato. Anche questo è il gioco di Nietzsche: e soprattutto nel senso che ancora non sappiamo, né mai sapremo, se ci sia da parte sua (e in quale misura) un preciso e consapevole ruolo attivo; quanto Nietzsche sia stato giocato o
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Ecce homo, cit., p. 385.
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quanto continui a prendersi gioco. Possiamo anche per un po’ disinteressarcene completamente, ma resta che alla fine questa domanda, dentro il cui gioco siamo stati tirati, non la possiamo eludere del tutto. Ed è quella sorta di gioco che, una volta per tutte, ci ha fatto vedere Derrida in anni non recentissimi 5, andando a stilettare lì dove, appagati da un’opera buona, ci si incominciava a rilassare nei suoi confronti, lì dove il «sonnambulismo ermeneutico» non veniva nemmeno sfiorato da un testo “di Nietzsche” oramai tanto insignificante quanto famoso e che, completo di virgolette, fa: «“ho dimenticato il mio ombrello”». Ma questo – si potrebbe subito protestare – lo conosciamo, questo è il gioco dell’ermeneutica, è il gioco delle interpretazioni, Nietzsche stesso lo sapeva, ne ha parlato, ce lo ha insegnato, ecco i testi… Sì, d’accordo; ma si tratta solo di questo? Siamo semplicemente di fronte a una lacuna – addirittura metodologica o magari fondamentale, e perciò assai grave, ma pur sempre una lacuna, qualcosa cui si può porre rimedio – oppure c’è dell’altro? Non potrebbe forse, da qui, venire fuori la questione non solo dell’interpretare un testo – di quella cioè che è l’interpretazione “filosofica”, che va alla ricerca di un senso (o di più di uno) ma comunque sempre di qualcosa di sensato – ma a livelli ancora più immediati e complicati la questione di cosa fosse, cosa rappresentasse per lui, Nietzsche, scrivere? O, per noi, leggerlo? Meglio evitare, qui e ora, di percorrere queste strade, essenziali ma troppo tortuose e lunghe. Un accenno però possiamo concedercelo: non è stato forse giocato, Nietzsche, da quel gioco di scrittura (appunti, frammenti, piani di opere ecc.) che più o meno deliberatamente lui stesso ha messo in piedi? Cosa può significare una frase, per certi aspetti del tutto accettabile ma a pensarci bene anche tremenda come quella pronunciata da Heidegger e che suona: «La filosofia vera e propria [di Nietzsche] rimane dietro le quinte, come “lascito”» 6. Certo, ci si trova tutt’altro che mancanza di rispetto o mancanza di delicatezza, anzi si capisce subito che si
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J. Derrida, Sproni, cit. M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 26.
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sta parlando di una filosofia vera e propria, ed è niente meno che Heidegger a scriverlo… Ma sicuramente dire che i libri di uno sono ben lontani dal valere quanto gli appunti che gli sono serviti per costruirli significa, se non proprio giocargli uno scherzo, quanto meno far vedere che se lo è giocato da solo, che si è fatto ingannare da se stesso, dalla propria opera, dalla sua stessa volontà o voglia di farsi capire. Il che, anche se assumiamo che può valere per tutti e quindi in certa misura e teoricamente anche per Heidegger, riduce forse le dimensioni dello smacco ma non quelle del problema. Nietzsche insomma, attraverso la scrittura della sua opera, si sarebbe – almeno in parte – giocato un bel tiro da solo, esponendosi all’altissimo rischio della insignificanza, o a quello macabro del nazismo o, dal punto di vista dei più indulgenti, della letteratura… Un momento: e se l’avesse fatto apposta? Se le varie oscillazioni, interruzioni, frammentazioni, disarmonie e stonature dei suoi testi fossero state costruite nella piena consapevolezza di depistare, di deridere, di prendere in giro, di giocare insomma con i lettori presenti e futuri? La questione non cambierebbe: l’essere giocati si sposterebbe di campo, passando dall’altra parte, ma non scomparirebbe il coefficiente ludico dell’insieme. A conferma, una volta di più, che non sempre si può decidere di giocare, o sapere quale gioco si sta facendo. Ed è qui, a questo punto che necessariamente si introduce la questione degli interpreti, di coloro i quali in certa misura hanno giocato con Nietzsche, sono stati (più o meno consapevolmente) coinvolti nel suo (più o meno deliberato) gioco. O di quelli che, semplicemente, hanno avuto a che fare con lui in maniera anche inevitabilmente ludica. Se si eccettua il caso di Fink (con i limiti cui abbiamo accennato), nessuno tra coloro che hanno segnato il non breve percorso della sua ricezione ha puntato molto su una sottolineatura particolare del gioco. Certo a parziale smentita possono subito venire in mente alcune pagine, per altro decisive, di Gilles Deleuze, che nel suo Nietzsche e la filosofia offre, attraverso il «lancio di dadi», una chiave di lettura che rivaluta il caso, che anzi afferma il caso, che ne fa una affermazione, e una affermazione necessaria. Il cattivo giocatore, dice Deleuze, è colui il quale cerca di servirsi di un numero sempre più alto di tiri per sconfiggere la casua-
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lità, per imbrigliarla in una regola, in definitiva per negarla, anziché affermare tutta la casualità in una volta sola. E questa versione del gioco – ma attenzione: solo di quel particolare gioco – può allora intrecciarsi con tutti, o quasi, gli altri temi nietzscheani di fondo, dall’eterno ritorno al nichilismo, dalla volontà di potenza al gioco delle forze attive e reattive, alla selezione e affermazione ecc. E anche se, nella lettura deleuziana, la figura del gioco non mantiene costantemente una posizione di primo piano, resta sicuramente un elemento indispensabile per capirne il funzionamento: sia perché costituisce un intreccio di motivi, sia perché, in scala minore, rispecchia il gesto complessivo di Deleuze nei confronti di Nietzsche, un gesto che vuole affermare ciò che in Nietzsche c’è di affermativo, quasi una potenza seconda che non ricorre a elementi estrinseci ma rivendica il proprio senso ricavandolo da sé. A grandi linee, il gioco di Deleuze/Nietzsche ripropone e ripete questo modulo della affermazione intrinseca, di una affermazione che ricava il proprio senso dall’interno. Ma in questa costellazione di rimandi, di incroci e di correlazioni la dimensione effettivamente ludica tende – come si era detto anche a proposito degli stessi testi di Nietzsche – ad affievolirsi, quasi a scomparire in favore di una nozione di gioco che, riassorbita su un piano simbolico, diventa un tassello del quadro, piuttosto che un elemento che ne produce la dinamica. La compattezza che Deleuze riesce a dare all’opera nietzscheana implica insomma il gioco, ma al proprio interno; lo implica cioè come elemento rilevante, ma pur sempre alle dipendenze simboliche, per così dire, di altre nozioni, quali «amor fati», «eterno ritorno dell’uguale» ecc. e comunque sempre in quanto “funzionale” (per esempio contro la negazione dialettica). Ma, si sa, c’è chi è riuscito a leggere e interpretare Nietzsche in maniera ben più compatta di Deleuze; e a farlo, sembrerebbe, quasi senza nessun margine di gioco, nemmeno nel senso di quello del bullone allentato. È il caso di Heidegger, la cui lettura non lascia davvero nessuno scampo, nessuna via di fuga a Nietzsche. A meno che non la si voglia pensare a tutti i costi in termini ludici; al che, date le dimensioni e lo spazio che si prende, nient’altro viene in mente se non il giocare del gatto col topo. Al punto che Heidegger sembra non trascurare nulla, neanche
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l’occasione per ricondurre quel poco (se paragonato al resto) di testo dedicato da Nietzsche al gioco 7 all’interno delle coordinate della sua interpretazione. Che Heidegger sia poco incline a giocare (se non appunto come gatto, e non solo con Nietzsche) lo si sapeva; e anche il modo in cui, nello spazio di una o due pagine riesca a ricondurre il «pensiero» di Nietzsche sul gioco al «compimento della metafisica» risulta alla fine esemplare. D’altra parte niente di ludico prevedevano i presupposti del suo confronto con Nietzsche, così come niente di particolarmente giocoso sembrerebbe esserci riservato nell’epoca della tecnica e della metafisica compiuta. Nonostante la diversità di queste due grandi letture – una diversità che si dà più negli effetti che nelle rispettive strutture, dato che sia da Heidegger che da Deleuze escono immagini di Nietzsche piuttosto compatte, solide – per un aspetto sicuramente vanno considerate come sintomi, indicatori del fatto che quanto maggiore è la voglia di venire a capo di “Nietzsche”, tanto minore risulta lo spazio che ci si può concedere per seguirlo nei suoi giochi, se non addirittura per giocare con lui. E se questo è scontato fin dai presupposti per quanto riguarda Heidegger, lo è già di meno per Deleuze, che forse con Nietzsche avrebbe voluto giocare un po’ di più, e che dieci anni dopo la pubblicazione di Nietzsche e la filosofia – e probabilmente meno assillato dal mettere le cose a posto – ci riuscirà senz’altro meglio e quasi senza accorgersene 8. Così come, si potrebbe pensare, si verifica nel caso dello stesso Nietzsche: nel momento in cui si ritrova tra le mani la nozione di gioco, una nozione che sembra fatta apposta per rendere lo scorrere, il farsi e disfarsi dei suoi pensieri, in quello stesso momento qualcosa sembra incepparsi; e quella parola, invece di amplificare le dinamiche e i movimenti, sembra bloccarsi, incastrarsi in un luogo preciso da cui, quasi immobile, incomincia a svolgere una pura funzione di simbolo. E que-
7 A sottolineare il carattere quasi estemporaneo, si tratta di un commento che prende spunto da una poesia; cfr. ivi, p. 846 sgg. 8 Cfr. G. Deleuze, «Pensiero nomade» (1972), tr. it. di F. Polidori, aut aut, 276, 1996, pp. 13-21.
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sto discorso potrebbe essere ulteriormente confermato dalla serietà, dalla antiludicità (nel senso del parlare “di”, “sopra” il gioco, anziché direttamente giocare) che si ritrova non solo, come già si è accennato, in Fink, ma anche in altre “grandi” letture, come quella di Löwith (incentrata sull’eterno ritorno ma assai avara di attenzione al gioco); oppure in un caso come quello di Colli, sicuramente molto vicino al Nietzsche che amava Eraclito e il gioco tragico degli antichi, ma tutto sbilanciato a bloccare a sua volta il gioco nella dimensione della “profondità”, a dare l’idea che se in filosofia si può parlare di gioco la condizione è che lo si faccia in nome di una prospettiva “profonda”, cioè “alta”, insomma “seria”. A partire da Nietzsche allora, ma forse in generale, sembra che quanto più si vuole afferrare il gioco tanto più ne si è respinti, ci si ritrova a rimbalzare lontano, a sbagliare quasi inevitabilmente la mira. E provare invece a mettersi da subito a una certa distanza? Predisporre lo spazio necessario al gioco evitando un eccessivo incalzare, rinunciando a catturarlo (o a servirsene) a tutti costi per spremerne chissà quale segreto? E così mettersi, magari, anche un po’ a giocare? In questo senso sembra si siano mossi autori che non hanno lasciato grandi interpretazioni di Nietzsche, ma che hanno fatto – chi come di striscio, chi in maniera più articolata – intravedere le possibilità ludiche dell’opera nietzscheana. È il caso, mi pare, di Blanchot, che non si mette alla ricerca di qualche senso in Nietzsche ma è piuttosto interessato a far vedere che cosa, e come, in Nietzsche e nel suo testo, (si) produca (come) senso. La parola guida, a seguire Blanchot, è “fuori”; il “fuori”, che forse non per caso non compare nei passi in cui questi riprende la questione del gioco (che soprattutto è inteso in riferimento alla differenza e alla scrittura), ma che intona tutto uno spazio di lettura, attraverso il funzionamento dell’aforisma o, come dice Blanchot, della «parola frammentaria»: quando essa si enuncia, tutto è già stato annunciato, compresa l’eterna ripetizione dell’unico, la più vasta delle affermazioni. Il suo ruolo è più strano. È come se, ogni volta che l’estremo si dice, essa chiamasse il pensiero al di fuori (non al di là) segnalandogli con la sua spaccatura che il pensiero è già uscito da se stesso, che è al di fuori di sé, in rapporto – senza rapporto
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– con un fuori da cui è escluso nella misura in cui crede di poterlo includere, e ogni volta, necessariamente, ne fa davvero l’inclusione in cui si rinchiude 9.
Più che il pensiero di Nietzsche, o qualcuno dei suoi pensieri, a Blanchot sta qui a cuore il funzionamento, il modo in cui si produce un certo effetto attraverso una scrittura che, quasi per definizione, viene sottratta a qualsiasi possibilità di significato univoco. Non si tratta – come invece sembra anche per lo stesso Nietzsche – di un gioco di forme dietro il quale sappiamo esserci la presenza di Dioniso. Ma è piuttosto questa stessa presenza portata in superficie, ricondotta al vuoto e al limite del frammentato; «La frammentazione è il dio stesso» 10, che sottrae costantemente il centro, che impedisce il formarsi di cristalli di senso, che costringe ogni volta a un gioco – perché no? – di interpretazione il cui esito non è mai scontato, predeterminato, e forse non è mai quello della volta precedente. E se Blanchot – senza volerlo mettere in teoria e forse nemmeno del tutto in pratica – ci suggerisce di tenere una sorta di distanza per fare gioco con Nietzsche, una ventina di anni prima Bataille era stato forse ancora più rigoroso nell’evitare tentazioni definitive, e nel lasciare Nietzsche a una certa distanza. Nello scrivere un testo su di lui: non tanto con lui come oggetto o argomento, ma al di sopra, oltre; eppure a partire da lì, e senza mai allontanarsi troppo dai dintorni. E tanto sono frequenti i riferimenti al gioco, e a quel particolare aspetto dai vari e mobili significati che Bataille rende con la parola chance, quanto rari sono poi i rimandi e gli scrupoli filologici all’opera che sta alla fonte di un’altra opera, di un testo il cui autore sembra giocarsi la vita: Soltanto la mia vita, con le sue risorse risibili, poteva tendere a continuare in me la ricerca di quel Graal che è chance. E questo sembra corrispondere più esattamente della potenza alle intenzioni di Nietzsche. Solo il «gioco» aveva la
9 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), tr. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, pp. 216-217. 10 Ivi, pp. 14-15.
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virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile, senza pregiudicarne i risultati, dando solo al futuro, al suo libero verificarsi, il potere che di solito si dà al partito preso, il quale è soltanto una forma del passato. Il mio libro, è, sotto un certo aspetto, di giorno in giorno, il racconto di colpi di dadi gettati, debbo dirlo, con forze scarsissime11.
E anche nel caso di Bataille «giocare è prima di tutto non prendere sul serio», non lasciarsi avvicinare troppo dalla promessa di senso che le parole, le frasi di un’opera ci mostrano. Perché se è vero che «la comunicazione, per quanto debole, esige un mettere in gioco», questa messa in gioco andrebbe rappresentata – se fosse possibile farlo – più come un movimento di andata e ritorno rispetto al senso che non un univoco, anche se “nobile”, mettere in gioco se stessi. Insomma non solo un mettersi in gioco ma anche una irruzione e una effrazione all’interno di ciò che si vuole afferrare, di quello stesso senso da cui ci facciamo sì “trasformare” ma che, a nostra volta, dobbiamo di continuo ritrovare sempre modificato. Ed è quest’ultimo passo che, forse, a Nietzsche non riesce del tutto. Torniamo alla fine a lui, al filosofo che si interpreta, che non può sottrarsi a un gioco con la propria identità, quella che gli rimbalza dalle sue stesse frasi, dai suoi stessi libri. Forse proprio qui, nel rapporto con quel sé in forma di scrittura che è stato Nietzsche, l’autore Nietzsche non è riuscito a giocare fino in fondo, e alla fine è stato forse giocato. Non tanto dalla volontà o dalla determinazione di mantenere per sé una riconoscibilità o rispettabilità di “soggetto”. Anzi, il disfacimento finale della propria identità («Dioniso», «il crocefisso», «io sono tutti i nomi della storia» ecc.) si trova annunciato con parecchi anni di anticipo: con l’affidare il proprio pensiero alle parole di Zarathustra, di un altro; con l’insistenza a dissolvere la “propria” identità («Che importa di te, Zarathustra! Di’ la
11 G. Bataille, Su Nietzsche (1945), tr. it. di A. Zanzotto, Cappelli, Bologna 1980, p. 35. Per il significato di «chance» riporto qui le parole di Andrea Zanzotto, traduttore del testo, nota 3 p. 45: «Bataille usa il termine “chance” in un’accezione propria […] comprendente i significati comuni di “fortuna”, “possibilità di riuscita”, “possibilità di vincita in un gioco”, “buona sorte”, ecc., ma anche quello del tutto particolare che esprime la situazione metafisico-esistenziale analizzata in quest’opera».
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tua parola e infrangi te stesso!»)12. Ma è stato giocato là dove non se lo aspettava, proprio là dove pensava che sarebbe stato sufficiente dissolvere alcune superstizioni (l’io, dio, il mondo) smascherandole una volta per tutte. È stato giocato, si potrebbe dire, proprio dalla voglia di quell’«una volta per tutte», dalla voglia e dal bisogno – forse inevitabile, forse per lui e per tutti inevitabile – di, alla fine, concludere. Come se, insomma, fosse stato giocato dalla verità stessa di ciò che andava scoprendo, senza avvedersi però che con quella verità rientravano ogni volta in scena tutte le superstizioni appena (e dunque solo apparentemente) sconfitte. E forse è proprio questo l’unico gioco che Nietzsche non ha saputo giocare in tutte le occasioni, e che forse in quel momento non si è nemmeno accorto di giocare: il gioco con la verità, che richiede sempre nuove cautele, e astuzie, per non ritrovarsela addosso. E non si tratta qui di quelle verità che alla fine possono essere smascherate, che lui stesso dimostra essere al fondo niente altro che credenze, superstizioni; ma si tratta di quell’inevitabile farsi o diventare verità anche della critica più corrosiva e dissacrante. Ma allora? Pura e semplice ingenuità di Nietzsche? Forse sì, si potrebbe seccamente rispondere. E così facendo riconoscere che nemmeno lui è riuscito a evitare di essere preso nei “giochi” che voleva denunciare. Forse sì: ma senza perdere di vista il fatto che il gioco di prendersi gioco della verità lo dobbiamo pur sempre a lui. E poi, non è detto che chi inventa un gioco debba sempre vincere.
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Così parlò Zarathustra, cit., p. 179.
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Syrakousai
Collana diretta da: Dario Giugliano, Manlio Iofrida, Silvano Petrosino
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S. Petrosino (a cura di), Il potere delle parole. Sulla compagnia tra filosofia e letteratura H. Cixous, Tre passi sulla scala della scrittura L. Berta, Derrida e Artaud. Decostruzione e teatro della crudeltà G. Garelli, Letture Kantiane. L’apparente e il contingente M. Iofrida (a cura di), Après coup – l’inevitabile ritardo. L’eredità di Derrida e la filosofia a venire M. Tasinato, Al di là dell’imitazione. 26 telefonate sulla mímesis A. Stavru, Socrate: mito ed etica della conoscenza
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