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Italian Pages 440 Year 1989
Giuseppe Amoroso
Narrativa italiana 1984-1988
Civiltà Letteraria del Novecento Mursia
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https://archive.org/details/narrativaitalian0000amor
CIVILTÀ LETTERARIA DEL NOVECENTO Profili - Saggi - Testi
Direttore: GIOVANNI GETTO Condirettori: G. BARBERI SquaROTTI, E. SANGUINETI
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Giuseppe Amoroso
NARRATIVA ITALIANA 1984-1988
Mursia
Scritte in rispondenza agli stimoli di lettura delle opere narrative, tornano, rivedute, pagine comparse dall’84 all’88 su quotidiani e riviste (« Avvenire», « Gazzetta del Sud», « Giornale di Sicilia », «Il Tempo », « Critica letteraria », « Humanitas », « Prometeo », « Rassegna di cultura e vita scolastica »). Altre sono inedite. G:0A3
alla memoria
di Gaetano
© Copyright 1989 U. Mursia editore S.p.A. Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy 3348/AC - U. Mursia editore - Via Tadino, 29 - Milano
Mariani
I. 1984:
CONTRO
L’« OSSIFICAZIONE
DEL
MONDO »
Una confessione d'amore, di colpa, una preghiera, una spietata analisi del rapporto difficile, a volte drammatico, di una donna con il proprio padre e con il figlio: Mi fa orrore questa natura umana che si è manifestata cosi anche in me: di una figlia che nell’oppressione della miseria fini con il desiderare, senza dirselo né saperlo, che suo padre ormai paralizzato morisse: l'uomo che per lungo tempo, nell'infanzia e nell'adolescenza, non aveva mai amato; e dopo, ritrovato quel padre nel figlio, l’unico figlio, è stata a sua volta odiata da lui, precipitato in una crisi adolescenziale di solitudine e di rifiuto. Questi due uomini — mio padre, mio figlio — hanno segnato e segnano tutt'oggi la mia vita in modo tale che le tre vite si stringono come in una: il vincolo del sangue — il nostro sangue forte meridionale — è di una violenza assoluta.
Da qui Rodolfo Doni, in Legame profondo, traccia la storia di tre vite strette in una sola (e in controluce quella di Antonio, il marito, ha rapide movenze, apparizioni baluginanti) e in corsa
« verso
la fine ». La struttura
narrativa
è sem-
pre disponibile a serrarsi intorno a una rivelazione, alla individuazione di un sentimento, all’autoascolto da parte del personaggio centrale. Un gomitolo di assilli libera il filo conduttore: la ridda di errori, di sconfitte personali che si riflettono in un quadro politico e sociale investigato, con cura documentaria
e realismo
lucido,
nei segnali
di disordine,
di ro-
vina. I fatti pubblici si fondono con quelli privati costituendo un organismo compatto, cementato da materiali eterogenei analizzati con esemplare naturalezza. Mentre la confessione si svolge, da ogni parte laceranti giungono al rovello della voce in arsi, come a un bersaglio da colpire in continuazione, i colpi inferti dalle vicende. Tutto converge verso l’io, « nero, gigantesco », che supera persino il « muro » della morte e domina la famiglia. Ma il fuoco dell'angoscia non si consuma interamente nel percorso della memoria, negli strappi violenti del flash-back; ha pure il suo tormentoso ragionare, lunghe pause speculative, inserti teologici che possono stentare a incanalarsi nella narrazione. La pagi-
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na allora si ingolfa in ragionamenti sulla libertà, la Grazia, la fede, il costume morale. Tocca anche altri campi di interesse: come quello del « dominio del male » che ha investito a un certo momento un determinato periodo storico dell’Europa sull’orlo della guerra. Contraltare è il calmo splendore, il « silenzio » della vita chiusa nel segreto della coscienza, il porto riparato, mentre infuria la minaccia della società e premono
i giorni con
le attese,
le sconfitte, il buio, il rivelato
bagaglio di troppe incertezze. 3 L'azione principale — ma tanti frantumi girano intorno, in una costellazione impazzita — si situa negli anni Settanta: è uno stampiglio, un marchio che sigla tutte le contraddizioni del periodo: la contestazione giovanile, lo scontro di generazioni, il furore oscuro di tempi tormentati. Il giro ampio di esplorazione fa risalire accanto ad avvenimenti di indubitabile portata, ormai adagiati nella comune cronaca, un tentacolare reticolo di fenomeni secondari, di immagini sommer-
se. È il grande lavoro
di osservazione,
salvato
dal pericolo
dell’analisi illustrativa che, a forza di ammassare
cose
(Doni
è da sempre « scrittore di cose »: ha detto bene Pomilio), ne ottiene,
alla
resa
finale,
la neutralizzazione:
un
movimen-
to riesce a trovare un sentiero d'uscita, di sgancio ove placarle. Sta alle spalle monotonia d’archivio, bruciato com'è il personaggio dalle sue paure, dagli amori possessivi, dalle idee fortemente
seguite, in fondo, da una mancanza
di cedimenti.
Ma una piega, il tremore di un affetto, anche delle proprie certezze, un risvolto dell'animo più inclinato all'ombra sopravvengono e indicano i lati più oscuri e temibili della vita, la possibilità di leggere oltre le apparenze, il segreto di una ereditarietà del sangue, la funesta ripetizione dei caratteri. Alla luce di un esilio, la madre scova nell’ira del figlio il prolungarsi di un'altra e ormai lontana durezza, quella del proprio padre (« Io avrei rinunciato anche al suo amore, accettato perfino che mi odiasse, purché si salvasse da quel carattere atavico che lo minava »), il rinnovarsi del mistero di
due personalità che pericolosamente
si somigliano.
La donna, « rocciosa », è chiamata cosi a un coinvolgente
confronto con l’esterno e con se stessa, a un esame di coscienza che si addentra nei meandri di un insospettato odio familiare, scopre l’« insurrezione » contro gli ostacoli: scendendo nell’abisso si schiarisce e si fortifica e trova altre risorse. Crescono i dialoghi, un modo svelto e aguzzo di scavare nel fondo, di mettere a nudo gli stati d'animo; ma pure in queste parti molto serrate Doni non sfugge alla responsabilità (e alla consapevolezza
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di un'operazione
scomoda)
del-
l'inserzione nel racconto di una fascia teologica destinata a scontrarsi con disagevoli assorbimenti narrativi. Sono però le violente e improvvise cesure a imprimere un moto liberatorio alle scene fortemente statiche e comprese del fervore pedagogico del parlato, della tempra severa della fede religiosa. Poco spazio ha il paesaggio (la natura filtra in contate vitree specole: le nuvole di un mattino di novembre, un giorno « buissimo », la notte silenziosa, la luce « bassa» del primo sole, le foschie d'inverno) nel guscio del-
l'intransigenza, della lotta ingaggiata dalla donna per salvare 1 propri principi, nei sussulti della sua « congestionata narrazione », un poco
arresa
alla nostalgia,
chinata
a catturare
dal passato le parole di quel « povero fantasma claudicante » che è stato il padre, e poi di nuovo trascinata dai fatti, dalle figure (notevole quella del professor Cartia, ideologo della rivoluzione,
esaltato
dal suo
« gioco perverso »), dall’in-
calzare di un mondo in tumulto. E Doni approda con questo lucido e turbinoso libro a ben incardinate visioni della realtà contemporanea: da Servo inutile è ormai avviato il registro di una scrittura che non culla né blandisce le cose, non sommerge uomini e oggetti nella sola incisione delle memorie, ma cerca con vigore e smarrimento di stabilire un implacabile legame con le tentazioni, i dubbi, le aggressioni di una vita mai pacificata. Promette di Mario
la narrazione
Tobino,
La
ladra,
di fatti eccezionali
il romanzo
che
inquietante
ha un’apertura
(« C'è da domandarsi se ogni essere umano, piombato in particolari circostanze, non può essere dominato dalla magia, credere a superiori influssi come in antico si imploravano gli dèi »), ma subito muove da un umile angolo di campagna per orientare le vicende secondo una struttura molto regolare, di netto stampo tradizionale: in rilievo è infatti, fin dalle prime battute, la figura della protagonista, Assunta, una contadina di brutto aspetto, con l’« occhio storto », colta in una elementare vita, nella monotonia di un duro lavoro dall’alba
al tramonto. Un’esistenza opaca che scorre senza sussulti nelle ordinarie
scadenze,
in fasi che seguono
ritmi segnati —
il
matrimonio, i figli —, assecondate dal passare del tempo immutabile, granelli di quel clima generale che intanto subisce le sue trasformazioni
quasi invisibili, ma profonde, rivoluzio-
narie: « Gocciolavano gli anni, uno dopo l’altro. L'Italia fervorosamente si trasformava in nazione industriale, le campagne si diradavano, i contadini sceglievano un mestiere più redditizio, si introducevano negli stipatissimi loculi delle grandi città ».
La cronaca del neutro vivere di Assunta, resoconto di aria verghiana, costituito, però, da sensazioni che non hanno peso,
misurato da una scrittura trasparente e portata a essere registrazione imperturbabile, procede inglobando via via un numero sempre maggiore di scoperte, fa crescere progressivamente un orizzonte di dati che la donna, passata al servizio della signora della villa, va rinvenendo e infoltendo disordinatamente, con ingordigia: sono le notizie del mondo, scovate nei giorni, e sono pure i piccoli segreti sconcertanti e abbaglianti
di una
dimora
lussuosa,
di usi sconosciuti,
un
in-
ventario di oggetti sfogliato dall’ingenuità curiosa. Con estrema sollecitudine al moto di apertura del campo degli interessi si raccorda, disvelandosi, una specie di viaggio inebriante e poi smaliziato, reticente e in seguito più aggressivo, pudico, abbandonato, stupito. Le quote più distese e pericolose dell’illustrazione pur si raccolgono quasi in nuclei, smussandosi, e rapiscono all’espanso protendersi quel tanto di prezioso e miniaturizzato, per rientrare nel cerchio primitivo e a suo modo inviolabile dei pensieri di Assunta. Una duplice corsa di indicazioni si intreccia nel racconto: il raffinato e complicato dominio di una scrittura che si esprime nelle forme più smaglianti e accattivanti, esca di desideri, polo di mille attrazioni e, all'opposto, i modi semplici, naturali, le spontanee e non calcolate mosse, il carnale esplodere dei sentimenti genuini, ma sulla china di essere minacciati, travolti, alterati. Da una parte, allora, la padrona, una
« ricca natura
che non
aveva
trovato
davvero
la via di pla-
carsi, di stendersi in leggi comuni », avviata a ideologie socialiste da uno zio, severa figura di intellettuale; dall’altra, ac-
canto ad Assunta, il marito Giobetto, « gioioso » e infantile; la cuoca Virginia, energica e ridente e poi scarsi volti passeggeri, scaturiti dalla « viva sorgente che sgorga dal popolo ». Due universi distanti che Tobino accosta e allontana in uno sguardo armonioso e onnicomprensivo, gettato sui particolari, scendendo
nel vivo dei cuori, senza mai eccedere, mar-
care, intensificare: solo seguendo i ritmi biologici di esistenze che si svolgono da sé, ciascuna secondo le proprie determinate abitudini, che non possono essere interrotte, previa la rottura di un ordine: e l'ordine gioioso di un’esplosione vitale, senza esaltazioni studiate e grandi riflessi psicologici, sì interrompe, per Assunta, quando essa diviene depositaria di un dolce e struggente segreto, quando la dichiarazione della padrona di averla ricordata nel testamento diviene lentamente un assillo, la rivelazione inaspettata di un briciolo di orgoglio, risveglio di una personalità inabissata, garanzia di essere qualcuno, una creatura con i propri diritti; sospetto poi e timore di perdere questa nebulosa ma benefica nuova condi-
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zione spirituale. Molesti interrogativi, caduti a disturbare una tranquilla routine di ombra, creano nella donna una tendenza fantastica, ebollizioni emozionali, il sorgere di una « rappresentazione » ove si configura il progetto audace: consultare un mago, affidargli la soluzione dei dubbi, la richiesta di tranquillità. E tutto precipita con cadenza puntuale, grave e ostile, tra crudezza di referti e qualche pennellata più intima: il furto ordito dal mago, il coinvolgimento di Assunta, l’isolamento di quest’ultima, prigioniera di una rete di sospetti e a sua volta bloccata in un fragile esilio. La crescita culturale dell’umile, l’accumularsi di esperien-
ze, l'ampliarsi delle conoscenze coincidono di conseguenza con la caduta nel dolore, nel male, nell’errore, per l'incapacità congenita di poter custodire un « tesoro » troppo gravoso per le
esili forze. Ma è condizione
di scacco
che presto si muta in
una serenità liberata del suo peso, del rimorso. Assunta appare fermata in una assente felicità, fissità serena e fuori
della tempesta. Eccola ridere con le sorelle in uno « strimpello di risate » e vagare spensierata e leggera dietro ai ricordi.
lontane
Contenute
da « muraglie », le donne
sembrano
ormai
agli occhi di un visitatore che le guarda stupefatto.
E subentra nuovamente la lontananza dalle cose, l’esclusione che non affronta i problemi, non percepisce istanze provocatorie, ma che annullando ogni forma partecipativa si lega ancora alle leggi eterne della natura. Lo stile scolora in sapienti giochi di echi sommessi, nella degustazione di un piccolo infrangibile mondo arreso, trattato: con compostezza, ritrosia, e sul quale anche la parola scivola restando tuttavia fedele a un arduo principio di oggettività.
Velocità spasmodica nel cogliere i più disparati stimoli della realtà d’oggi, attenzione prestata con un pizzico di desolata ironia alle contraddizioni individuali, gran festa di cronaca che non dimentica mai gli appuntamenti con i dettagli, l'occasione incalzante, l'ombra confusa, concorrono ad appron-
tare gli strumenti espressivi con cui Gian Luigi Piccioli, in Tempo grande, realizza i fondali, le linee maestre o complementari e le figure di un mondo in fermento, mobile, pugnace, e rifluente verso latitudini ben definite, almeno nel primo scatto, nel rilevamento iniziale, ma successivamente invaso
da una straordinaria violenza di sollecitazioni atte a confonderlo,
a contenderlo
dall’esterno
con
forze distruttive, e pur
feconde, se dopo la distruzione del tempo presente, della certezza e della stabilità, una resurrezione lo coglie e lo innalza a nuovo rischio, ad altra ventura.
Da fuori — impossibile è restare nella mischia come disarmate vittime — si originano i percorsi ironici, partecipi,
beffardamente interessati, delle tre figure che regolano, assorbendone e rilanciandone le pulsioni, il vorticoso universo
del libro, un racconto di frammenti e di spazi larghissimi combusti nella fusione di un attimo, giri di orizzonti che possono essere richiamati dall'imperiosa violenza di una telecamera e ridotti a quel quotidiano perimetro che la giornata usuale snocciola, affastella, dimentica,
anche presa
da un
di-
verso sgocciolare del tempo, dal senso di ridestati, domestici miti. Immobilizzato nella « ripetitività mortuaria » che sembra avvolgere tutto, il passeggero intreccio della vita è immagine presto scrostata, vernice delebile, lunga nebulosa che si poggia sulle apparenze, rendendo difficili i vari approcci con il reale, la vicinanza positiva alle cose. In uno studio televisivo — ambientazione focale del romanzo — le notizie che giungono in diretta da ogni parte del globo polverizzano la solenne e rassicurante continuità della storia: il loro sorgere, esplodere, smarrirsi crea un'atmosfera allucinata, fittizia, sibillina, il sipario di simultanee visioni che permette fughe, disubbidienze alla coscienza, qualche alibi,
forse l'autentica sottrazione a quella particella dei sentimenti che in fondo rimane padrona, assoluta dominatrice. Ed è pertanto da questo interiore angolo riparato che i personaggi (Marco,
stanno role;
il presentatore
che lavora
nel « fuoco
accadendo »; Gigi, lo scrittore Marianna,
l’inquieta
fotoreporter,
dei fatti che
che gioca con presa
dalla
le pa-
solitudi-
ne, da una saturazione di « vuoto ») traggono la possibilità di una regola, di sopravvivenza al di là della disarmonia, sopportando la episodicità dell'incontro con i giorni, la rissa delle imprevedibili
pulsioni di fuori, le conversazioni
fluviali
ingigantite dall’improvvisazione, dalla voglia di essere in sintonia con l’ibrido divenire. Il ritmo del racconto ora procede linearmente, ora inverte la rotta, si arresta, devia, senza una vera ragione rotola su
se stesso, concentricamente si avvolge e si comprime fino allo scoppio, al silenzio: nel suo alternante e obsoleto andare vela e disvela un'umanità complicata, ambigua, talora disattenta o presa da sotterranee paure, da angosce, da abissali,
ingorde tentazioni pronte ad affondare i destini (« Il cosmo era un vuoto percorso da miliardi di nulla. Non solo tutti i mondi
possibili erano
su questa terra, ma
tendevano
ad esse-
re noiosamente uno solo e come non bastasse, era bene che fosse cosi. Il futuro era senza avvenire. Molte cose finivano senza
che altre cominciassero »).
Come educata alla meraviglia, al gusto di vaste conoscenze, a una surriscaldata
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smania
di giostrare sopra la semplice
curva del reale, la scrittura si diluisce, attinge sovrasensi, si copre di nuovo colore, converte in fusioni roventi la dimen-
sione normale dei dati vicini e controllabili: piena di eterogenei scatti, trascina una rappresentazione a più facce, combattuta dal tumultuare dei suoni, dalla spirale degli impulsi. Quando poi il fascio delle voci, dei lampi, dei piani eccentrici allenta un po’ la tensione, filtra tra fessure improvvise una piccola collezione di vedute di Roma, con la luce che dall’infinito va all’infinito, e pure sfilano l’« estate tenera e trasparente », la gente che sciama per strade e negozi in un viavai « sfaccendato e discreto », gli alberi che sembrano mettere foglie in una notte sola, scene rapide nelle quali Piccioli ferma qualche istante di vita più vicina all'esperienza quotidiana. Si fa avanti un intermittente registro raffigurativo su cui la penna traccia segni più leggeri, che appena si possono scorgere nel contesto delle chiazze, dei suoni irregolari e conche imbastiscono
vulsi, ma
il disegno
più resistente, la « ra-
gnatela », l'equilibrio di fatti reali non travolti dal « romanzo », non lavorati dalla finzione, il rapporto tra segreta cura del soggetto e l’accidentalità della cronaca ardente e incomprensibile
in alcune
al magma
di immagini che il video rovescia impietoso.
L'umanità
ne
sue pressioni;
esce
come
infine, la difesa di fronte
ferita, disfatta,
confusa
spesso
nei suoi valori distintivi; rientra panicamente nei labirinti di un « universo vegetale e astorico » e si perde in « zone ignote dell’esistenza ». È un naufragio totale nei territori fantastici del possibile, ove tutto si deforma: dal caos pure si può tornare, con un brandello di verità, con la sconfitta che riscatta
(come per Gigi e Marianna, indifesi, quasi, nella « serata buia e fredda » in cui è caduto anche il « grido » della città), se la sofferenza, se l’incontro con il dolore hanno
compiuto
il loro
corso, si sono insinuati nel gioco e nello spettacolo. La casa sul lago della luna di Francesca Duranti mostra già dalle prime pagine un solido impianto narrativo: si concede quel tanto che suona sufficiente all’ambientazione milanese
(altrettanto
esatti nella loro aria sfumata,
nel clima
di
allucinazione saranno gli sfondi del paesaggio d’Austria nella seconda
parte
del racconto),
alla « nitida
freschezza » di un
insolito mattino d’aprile e poi, nota su nota, con pazienza e crescente tensione, costruisce la figura di Fabrizio, germanista oppresso da un duro quanto oscuro lavoro, uomo in crisi, erede di una famiglia che gli ha lasciato un « pulviscolo di dottrina », ferito ora da una « lama di fastidio » sempre più affilata, sempre più spinta a lacerare, manovrata com'è dagli assalti
degli
altri,
dall’« orda
vittoriosa » dei
mediocri,
dei
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corrotti, di tutta un'umanità anonima e opprimente che si accampa come in un « incubo infantile » e infonde una « disperata sofferenza ». L’umiliazione, il senso di ingiustizia subita e di impotenza, un malore indistinto tessono l’orizzontale disporsi di quella storia lucida e stravolta che la Duranti avvolge intorno al suo piccolo, sconfitto, reticente eroe, ai personaggi veri o fantastici, alle scansioni di fatti slacciati sovente dal loro ordine
logico, all’affacciarsi delle figure memorabili che rinviano a intermittenze l’immagine antica del protagonista contrassegnata dalla solitudine: una teoria di fantasmi invade il presente gremendolo di brulicanti angosce. Si apre la forbice che divide Fabrizio, febbrilmente preso dalla spasmodica volontà di scovare uno sconosciuto scrittore viennese di primo Novecento, « specialista in sottigliezze amorose », dagli altri che occupano la sua vita: la forte Fulvia, donna positiva, che anche nei momenti più difficili vuole mantenere la giusta temperatura delle cose, impedendo la loro « attitudine a essere espresse in parole » e l’amico d’infanzia Mario, prima testimone umile della superiorità economica di Fabrizio e, al tempo della vicenda, piccolo editore innamorato di Fulvia. Sempre sul filo di sensazioni di smarrimento si inizia l’avventura
che, come
scrive
Bassani
nel risvolto
di copertina,
fa « ripercorrere in altro tempo e sotto nuove luci i medesimi, cari, noti, infallibili
sentieri
romanzeschi
scoperti
da Henry
James ». Vertigine, mancanza di margine di sicurezza, salto nel vuoto annebbiano il difficile contatto con il mondo da parte di Fabrizio (« Nel momento in cui la muraglia di estraneità che lo separava dagli altri sembrava essersi chiusa attorno a lui da ogni lato ecco che mostrava una crepa. Di li poteva insinuarsi per passare dall’altra parte: nel mondo fortunato di coloro che avevano saputo riversare in un solido recipiente la fluida trasparenza della loro umanità »), raddoppiano le delusioni e le paure, ma al contempo si solidificano in una pasta di coraggio, di incrollabile fiducia: nel seguire il meccanismo che è già scattato, con il «rituale superstizioso », con segnali sempre più opachi, invisibili, intriganti, di una meta rinviata, di un ritrovamento scompaginato da leggi
arcane.
In fondo, ala luminosa di un itinerario buio e incenerito,
sta il libro di Oberhofer, quasi a mettere alla prova le oscillazioni, tra inettitudine e recuperato slancio, di chi disperatamente l’insegue e il « costante sentimento di irregolarità », i dubbi, le indecisioni dello stesso che soffre di « essere l’uni-
co sulla terra a non godere dicare con voce
di alcun diritto da poter riven-
autorevole ». La ricerca del testo, di quel ro-
manzo notturno, « sospeso tra mito e realtà », diviene un più
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articolato movimento narrativo in cui compaiono strane apparizioni, ansiosi vagabondaggi per una Vienna monumentale O prigioniera dei suoi grigi interni, splendide vedute della campagna nordica, distesa nel suo « pittoresco disordine ». L'insperato ritrovamento sigla un tempo convulso di azione, una frenesia esaltante, mentre la sintonia del mondo del protagonista con quello di Oberhofer si realizza nel « compiaciuto frugare in angoli sempre più oscuri» e non interrompe quel flusso sotterraneo di ricordi fatto riemergere mediante catture subitanee, analogie, richiami che si reggono su fulminei accostamenti. Il passato di Fabrizio intanto si inanella in microapparizioni, in episodi staccati dalla tensione attuale che non allenta la presa, e si inoltra in un universo progressivamente ritagliato dalla concretezza,
pesanti, ormai
ben
schiodato
definite
dalla costellazione
e collocate
in balia dell’eccitazione
al giusto posto:
delle cose
l’uomo
fantastica, ricostruisce
è
la bio-
grafia del suo scrittore con fedeltà e riempie con l’invenzione la lacuna degli ultimi anni, crea con l'immaginazione la presenza di una donna, appassionata compagna di Oberhofer, ne profila le « misteriose, inquietanti profondità psicologiche » e si innamora inevitabilmente di questa finzione, identificandosi con un morto per poter incarnare una storia sentimentale con un’ombra. Ma l'ombra ha la sua rivincita: creata dal nulla, soffiata di vita cartacea, inesistente, la Maria dell’ingan-
no incomincia a palpitare, senza tuttavia vestirsi di un’autonoma esistenza: Fabrizio non aveva nulla in contrario a che altri aggiungessero particolari alla figura di Maria: era ben lontano dall’essere geloso, purché ogni apporto ribadisse le caratteristiche che lui le aveva attribuito. Solo se fosse accaduto che attraverso interventi estranei Maria avesse cambiato volto, solo allora l'avrebbe perduta. Essa gli riempiva la vita perché era cosi come era — con quegli occhi, quel carattere, quel passo — e perché lui l’aveva ideata a quel modo. Il loro era un perfetto circolo chiuso in cui Fabrizio era creatore
e adoratore, Maria era creatura
e dea. L’ac-
correre di altri fedeli all'altare non lo disturbava e quasi lo lusingava, purché adorassero la sua idea senza corrompere la sua creatura.
La « creatura » un po’ tiene testa al suo creatore: nel « magico cerchio » cade Fabrizio, perduto dietro ai suoi fantasmi, al suo
funesto
destino,
ai lacci di situazioni
assurde
che lo
chiudono in una rete dalla quale non potrà districarsi. Ecco la casa dove è vissuta Maria, l'incantesimo di luoghi immersi in atmosfere strane, la geometria di oggetti e comportamenti rimasti immobili in funerea fissità e vigilati da Petra, custo-
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de silenziosa e implacabile, tessitrice disarmata di trame invisibili, difesa dal « viso monacale », dalla « luce placida del suo sguardo », eppure tenace nell’escludere l’uomo stanco, arreso, dal mondo di fuori vivo, vibrante, colorato, « cosi fresco e nuovo », percorso da rumori, esplosioni sane di sentimenti, anche errori, pugnace, costantemente in allarme: un mondo di vitalità nel quale ritorna Fulvia, dopo il vano tentativo di strappare Fabrizio dalla sua clausura, e ritorna tutto
ciò che non vuole sigillarsi in uno sterile gioco di specchi, nella glacialità di morte forme. Ridotti a due « tentacoli protesi nel presente », Fabrizio e Petra restano duellanti, a faccia a faccia in una tragica schermaglia, per sempre
Metafora
murati
del fatale andare
in un’aria sospesa, marmorizzata.
di ognuno
verso
la « cerimonia
della [...] estinzione », il racconto abolisce, proprio nell’atto di esaltarne la potenza, la facoltà salvifica del sogno, l’aiuto che
può venire dalla fantasia troppo folgorata dalle illusioni: inesorabile scatta la trappola, scende il buio con tutti i suoi incredibili terrori. Non v’è stacco d’intensità tra la lettura del presente e quella del ricordo: la superficie delle cose è tranquilla, scorrevole, ricopre interminabilmente le deformità, i turbamenti,
le ombre,
ma
lascia
trasparire
un
alcunché
attonito, una piega. Compiere un gesto può essere come rar fuori dal tempo azioni già archiviate ».
di
« ti-
Finalmente al « sicuro » nelle stanze del résidence, ove abita da solo, Augusto Valera, scrittore di libri gialli, ritorna
dalla passeggiata in un quartiere romano attraversato da via Veneto: un improvviso malessere, una vertigine, la sensazione di trovarsi « sull'orlo del precipizio » esauriscono la sua ricerca, iniziata in una sera calma ma tagliata da gelido vento, di uno sconosciuto sosia emerso da notizie rimbalzate dalle conversazioni
con
amici.
Ordinato,
tranquillo,
dotato
della
« pazienza apparentemente sonnolenta ma tenace d’una talpa », inconsciamente portato alla difesa (da qui il suo smarrirsi in un « mediocre oceano », nei tanti pseudonimi sotto i quali cela la propria identità), a un anonimato chiuso alla confidenza, Valera, uomo « senza spigoli e risalti », esce da quel ritratto definito con cui Antonio Altomonte, in Il fratello orientale, lo imprigiona per poi presto scioglierlo in una complessa e affascinante diramazione di avventure. Il profilo psicologico è ricco di ogni connotato, proprio
perché deve ora smontarsi, cedere i sicuri dati anagrafici, per farsi motore di un intreccio misterioso e intrigante: sorge indifferibile (e i molti interrogativi che l'uomo si pone ne favoriscono l’impeto) l'invito al labirinto, al « salto » che dal
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« castello » protettivo delle abitudini spinge il protagonista negli insidiosi cammini della « sfida », dell'incontro desiderato e temuto. La materia narrativa ha nodi di lucentezza sini-
stra, quelli che dipanandosi formano
la direttrice di una tra-
ma che punta verso un disegno enigmatico: da una « superficie calamitata », da un « sortilegio » stilla il veleno che inquina comportamenti e pensieri e infiamma i gesti di ventate d’ansia, di significati che sembrano muoversi dietro « impronte »:
la «richiesta di soccorso » lanciata all'amico Boltin, i « responsi » scoraggianti inviati dalle vetrine, il «filo fantasti-
co » che lega alla posta del gioco e al vuoto, il « fantasma » che turba le giornate, il « piano », il « sospetto » di servire a uno scopo oscuro, il « senso di allarme ». Il clima allucinato nel quale prende consistenza la ricerca dello sconosciuto si sintonizza sull’« irrealtà della Roma notturna », vista nelle strade deserte che giocano a « ritirarsi », ad « aprirsi ai grandi respiri delle piazze », tra lampi di luci e immobili ombre, percorsa da « abitatori segreti »; città che svela un sotterraneo
e straordinario
pulsare, quella
sommersa vita che già in Sua Eccellenza Altomonte ha fissato in desolati e minacciosi fermenti. L'ambiente insidioso (variazioni di paesaggio portano anche sfondi di montagna in « luce smorta », con il sole « disegnatore umoristico, mezzo imbronciato », o giornate luminose che moltiplicano tuttavia il mistero o, ancora, l’alba che irrora « le vene della città ») asseconda l’attrazione e il rischio dei fatti, si fonde con lo scompaginamento della norma, con quella infrazione di cadenze che concentra nel più insignificante dato un'enorme energia di suggestioni e valori, un passo più celere, il balenio di uno sconfinamento senza limiti. La realtà visibile è il puntello narrativo di architetture ardite, ora slanciate, nel sostenere e comprendere il peso delle cose con la chiarezza della parola che sa definire ma pure
annunciare, prefigurare senza eccessi; ora come strappate dalle fondazioni e tutte organizzate in reticoli di allusioni, emblemi, segnali eccentrici (lo spazio dei sogni rivelatori, le crisi della malattia del personaggio), parabole che sembrano aver accentuato l’inclinazione « fino a spezzarsi in un angolo, a precipitare in una retta », richiami
di confronto
con
le
orme di un’altra esistenza, quella obliqua dell'ombra, della caduta, che si agita e preme sul vitalismo spensierato. Cosi la parola si eccita e freme, ha gittate più lunghe, intese e complicità con il senso onnicomprensivo nell'atto in cui esso si distrae dalle regole e si ricostruisce, nuovamente dominatore, in zone scostate e incombenti; ed è sempre pronta, agile, questa parola che tutto riporta alla misura flessibile del racconto, agendo nelle tonalità giuste per stabilire una « con-
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tinuità » con il presente, legare i primi piani e le interferenze. E di più: ad articolare nel racconto le folate oniriche ridistribuendole in quella spinta gravitazionale che dispone il livello della realtà nel suo moto accessibile, in un « ordine », in una direzione sia pure « scura, misteriosa », è il distacco
letterario, la sapienza del mondo, il possesso di una teoria che conosce i legami tra oggetti, la loro difficile « sintassi », la giustezza dei rapporti, delle dipendenze e conseguenze. L'autore dota il personaggio di un dominio sugli avvenimenti che gli consente di uscire allo scoperto, di agire in anticipo, di organizzare le pedine per una partita ardua ma di cui sono previsti i tempi, le modalità, le combinazioni. I « pezzi del mosaico » schiudono una « possibilità romanzesca » di uscita dal grigiore, disserrano gli incantamenti della finzione, mentre tutte le certezze, gli appoggi offerti dalla neutra consuetudine si dileguano, fuggono di fronte alla nuova « astrazione ». L'uomo scientemente si cala nel ruolo di inseguitore e di preda, prepara le trappole a cui va incontro con l’amore del brivido,
la parte. vere »:
sfrutta le esigenze
Un’operazione
che
delle « convenzioni », recita bene
gli permette
di « guardarsi
vi-
Non sarebbe stato diverso dal mandare avanti una controfigura. Somigliava in effetti a un guardare e giudicarsi da dietro le quinte. Gli riusciva bene. E d'improvviso seppe che da sempre non aveva fatto altro che guardarsi vivere. In fondo quel che gli accadeva
ora, quel suo
dividersi,
non
era
che
la traduzione
mo-
mentanea del suo essere anfibio. Qui si domandò se per essere un personaggio, per acquistare l’automatismo disinvolto dei protagonisti, gli sarebbe convenuto consistere tutt’intero in una sola persona, ridurre a unità quella sua doppiezza. E questo perché il gioco aveva un suo prezzo. Insomma, egli avrebbe dovuto abbandonare la cautela per il rischio, l'indifferenza per l’azzardo.
Dall'inettitudine e « indifferenza », dalla vita « da talpa » all'importanza avvertita di un riscoperto valore, all’« azzardo »: questa promozione, presente all’intelligenza, anzi predisposta
da
essa,
si risolve
nell'avventura,
nel
groviglio
di
fatti che si moltiplicano, si diramano secondo inesplicabili polarizzazioni, in ragnatele di indizi che tendono a un fine. Altomonte dà corpo, materia, vibranti scene, occultamenti e rilanci di prove, soffio umano, alla « fascinazione del vuoto »:
ormai sono in campo a dominare la varietà degli avvenimenti (in controluce ai quali passa la figura del sosia, adombrata in cospirazioni internazionali: la sua morte, per opera di Valera, si sfalda nei contorni di una ritornante « sensazione d'’irrealtà ») Valera e Mohammed, il funzionario arabo d’amba-
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sciata, che somiglia a « un fuoco, in un folto di alberi, buio », anche lui solitario, « abitudinario dell'ombra », « facile ad an-
dare alla deriva ». Ma Valera è minato dalla malattia dalla quale finisce per sentirsi protetto, cade in un « fermo crepuscolo », risale dall’« abisso », acuisce la propria sensibilità: muovendosi in un clima di esaltazione febbrile, in una disponibilità mai provata
a nuove
emozioni,
entra
la fantasia
con
nel cerchio
dei per-
sonaggi da lui creati nei romanzi, immagina di parlare con il suo doppio. Non viene però meno il controllo di sé, l’incessante verifica degli atti su uno
schermo,
su un tavolo
di stu-
dio, l’« attitudine alle ingegnerie sotterranee ». Si mette inoltre in circolo un motivo speculare di indubbia efficacia: la storia del padre, che per la vaga similarità di un episodio può dare il sospetto che si coroni ora un’« attesa sotterranea, di vecchia data ». La scrittura è portata al punto massimo di trasparenza, di fusione tra il livello della forza tensiva che alimenta un racconto di suspense e quello, interagente e svincolato, delle visioni, delle ipotesi, anche delle memorie, controcanto lirico e denso da cui discende una più compatta e sigillata conoscen-
za dell’attualità. Tutta questa fascia di sequenze, portate da ritmi ben orchestrati e di volti studiati fin negli aloni, non si discosta mai dalla mappa sulla quale Altomonte opera assestamenti opportuni e vigile dominio, grazie soprattutto all’appropriata aderenza del linguaggio che, pure nei momenti più arroventati della creazione fantastica, sa cogliere cantucci riposti delle psicologie nel cristallo nel quale si riflettono e si espandono. E sono tanti i volti che abitano la malata costellazione di Valera: da Angela, l'amica con la quale egli disputa un « gioco aggrovigliato, pieno di sfumature », alla figlia di lei, Enrica, presa dal bisogno di « atmosfere morbide »; da Nadine, con il suo « strano
sguardo
di statua », a Boltin, ostinato nel
voler ricostruire dalle « macerie » una distrutta unità familiare; dal direttore della biblioteca, « pachiderma sgonfiato » (e torna lo stilema dell’irrealtà a sottolineare l'atmosfera della biblioteca), alla vecchia coppia « cerimoniosa e sinistra », all'infermiera dall'aspetto di indiana, al mezzo prete Plinio, circonfuso di dolcezza, personaggio che appare e dispare secondo emblematiche scansioni. Un regno di sudditi-padroni che parla a una mente che deforma, giudica, distrugge, rimette in sesto e tutto accorda all'aria stregata che « risulta armata di strani quanto indefinibili propositi ». L'angolo di città, l’occasionale gioco degli equivoci, il conforto del recinto privato, l’aculeo della malattia sono come attraversati da striature metafisiche; la « cavità minerale della stanza » si dilata; an-
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che la lotta che Valera ingaggia con se stesso, con i propri modi di espressione e con il sosia, è presa da un giro più alto e immobile, inizio e fine di un viaggio vertiginoso in un mondo scomposto: una «scena ad apertura di sipario ». î Il libro, che conduce a classica compostezza il lungo dibattito del romanzo contemporaneo intorno ai suoi stessi mezzi di resa e che risolve in docilità di figure viventi le proposte di possibili e sempre rinviate mete, si impone come organismo omogeneo nei congegni e soffiato di umanissima voce: una pagina alta della nostra più coraggiosa e ispirata recente narrativa. La scrittura come oggettivazione liberatoria dell'angoscia, del dubbio; distacco tenace dal premere di un passato ancor troppo vicino, popolato dal suo tumultuoso e assurdo teatro di volti:
« immersa
nel buio, fasciata dalla nebbia
e dal ven-
to », la protagonista di Malù di Claudio Marabini sente l’esigenza di far luce dentro di sé, di « recuperare fili », di completare il quadro della propria vita, di comprendere i misteriosi
incroci
dell’esistere,
lo strano
destino
degli umani,
« biglie che rimbalzano da una sponda all'altra casualmente i percorsi, urtandosi e finendo fuori Specchiandosi in una forma di aspettazione — si risolve in una lunga lettera inviata dalla donna —, Malù guarda dal consuntivo
disegnando gioco ». il romanzo a un’amica
dei suoi trent'anni
(« Adesso
rifletto sui trent'anni e parte di quell’avvenire è dietro le spalle. Sto nella vita come su questo balcone... »), dallo scendere nei giorni in una sorta di bilico tra due « correnti », tra gli anni trascorsi e quelli futuri, le ragioni delle sue azioni e dei suoi sentimenti, e richiama,
dalla lontananza
irrime-
diabile nella quale spariscono, gli uomini che ha amato. Sorgono di conseguenza, in una interrelazione che le fa drammatiche, le storie di Mario, l'artista morto prematuramente; dell’adolescente Bebo, « strumento fatale di una sorta di riscatto »; e di Carlo, l’uomo « murato nella forza quadrata
del suo fisico », strana natura forte e indipendente che ispira a Malù
un amore
possessivo,
esaltante
e lacerante.
Incalzati dall’affanno, dalla pietà, dall’autopunizione la donna;
snidati
da una
curiosità
che fruga nel tempo
delcon
esitazione o con disperata violenza; cullati da un accenno di nostalgia, da un velo che riduce gli effetti più turbati e ostili; oppure manomessi, adoperati in chiave polemica, enfatizzati per il solo pretesto di rinnovare la pena, i fatti non hanno il tempo di distendersi, occupare spazio, materia, che già declinano, si perdono sotto la spinta di altre occasioni, di nuovi
casi. Ma la struttura dell’ottica soggettiva li riduce tutti alla
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stessa temperatura, al ritmo costante della vita che « non si esaurisce mai e ricomincia all’infinito ». L’inesorabile dinamica della caducità e della perdizione e il fatale imperio della morte che regola il cammino terreno ed esce allo scoperto quando più sembra lontana e battuta, sono sempre presenti nell'universo della parola narrativa e memorante, arrestata di fronte ai colpi della fatalità, all’inevitabile errore e alla sconfitta. E anche al sacro dei grandi gesti, degli eventi superiori e determinanti e a quello delle cose minime, del mormorio quotidiano, del semplice ascolto della realtà che passa, su tutto, grigia, opaca, celata, eppure, con la sua franante rovina, maestosa e inattingibile, alata negli incanti, dischiusa in « segmenti, in traguardi »: chi la sente, la ama e la teme, e ne è come travolto. E travolta è Malù, esuberante e ritrosa,
vivace e « murata nel silenzio », disponibile a molte inebriantl esperienze,
cui si abbandona
come
a una
fatalità, e anche
facile a sentire le voci dell'adolescenza, a perdersi tra i richiami di un mondo ormai defunto. Oscilla la pagina tra la trafittura di sentimenti individuati con fermezza e ingorghi, profonde perplessità dell'animo, buio
dell’intelligenza,
disfatta
della
mente;
tra
il miracolo
di eventi che si rivelano offrendosi in tutta la loro scomposta essenza (e il dettato trascorre verso ospitali zone di una discorsività
naturale,
docile
ed esaustiva,
con
in più un
lieve
tremito di canto) e momenti segreti, che non si possono delineare, concretizzare in parole, ma solo si espandono nelle vaghe avvisaglie di sogni allucinati, di desideri galoppanti. Radunare ogni sollecitazione del diario in un armonico svolgimento che organizza particolari, riordinare quell’assoluto che è la nota detta da un fervore che la gonfia e la sconvolge,
e chiedere all’autoritratto anche una vocazione al colloquio, all'apertura, alla sintonia con il più sconosciuto bozzolo, alveo, guscio degli altri, è quanto Marabini ottiene da questo profilo
di donna,
irridente
e tragico, solitario
e lontano
dalla consolazione dei « miracoli ». Rapido in certe prese di coscienza del male, nella cattura di un dissidio, il monologo di Malù affronta anche i più aspri cammini che portano fino alla soglia dei sentimenti non compiutamente rivelati, acquattati come sono in una posizione di ascolto, per poi irrompere duramente nei giorni. È un’operazione faticosa, nella quale la donna si inoltra, tesa ad appuntamenti dolorosi di dannazione, a una fuga da se stessa: ricerca di un'immagine sdoppiata, bersaglio verso cui muovere per coprire il vuoto, la paura e la sfida dell'abisso. L'espansione totale delle opportunità di autointerrogazione, l’obiettivo puntato sempre sull’intimo vietano qualche volta —
nonostante la registrazione di un'età, di uno spazio esistenziale
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‘storicizzato, discusso — una più distesa fascia di mondo, comprimono il personaggio nel suo rovello al quale si agganciano le figure di fuori (la madre, il cartomante, padre Segneri),
secondo le direttrici di una forza centripeta ben visibile nel lessico soggettivamente incastonato di problemismi, nella sintassi e nel moto accentratore della frase, veicoli di riporto dell’osservazione
al fuoco
che l’ha prodotta:
infine, nella
disposizione a privilegiare i connotati interiori, i risvolti psiì‘cologici, le cui pieghe modellano, malleabile creta, pure il paesaggio (ecco, ad esempio, il lago sentito « dentro », nell’anima).
Il perno della narrazione diviene cosi quel passare dall’autoanalisi spietata (« ho sempre avuto fortissimo il senso del teatro, il bisogno della platea e del consenso; e la platea «ero io stessa... ») al confronto
con
i segni esterni, le manife-
stazioni oggettive, quel ridurre un cumulo di sensazioni, spesso sorde, disordinate, travolte nel transito affannoso, a brandello palpitante, a meditazione coerente, a frazione di un
lampo della coscienza. La cronaca si assottiglia e si consegna al suo farsi spasimo, ricordo ed esilio (« e la vita fattasi sogno tristissimo, la città intorno mi diventava deserto, un
freddo e anonimo
quartiere popolato solo di estranei, di ne-
mici, nemica a me, che pure l’avevo eletta a mio unico mondo »): va da sé che la stessa intensità della parola, sfruttata
al massimo per trovare il motivo di ogni cosa, si dichiari un po’ vinta, quasi incapace di poter decifrare la somma delle emozioni, il peso dei turbamenti e delle idee. Qualcosa « scivola via» e non viene trattenuto dalla confessione, non ha
risposte nello specchio mistificatore, nel calcolo ratura che espone, per assolverla, una storia.
della lette-
Ormai « liscio come una pietra di torrente, arido al pari di un deserto di sabbia », un uomo, immobilizzato sul letto
di un ospedale di vertebre
ove
è ricoverato
che ha prodotto
per una
« frantumazione »
lesioni irreversibili,
si abbando-
na alle « assolate » memorie e ad amare riflessioni sul presente e poi a un vuoto che non sa dare neppure tormento. È Olindo, protagonista del nuovo romanzo « veneziano » di Nantas Salvalaggio, Calle del tempo: pittore « giramondo », è d'improvviso sbalzato dalla pienezza di una vita d'artista, dinamicamente intesa come corsa avventura possesso, in una nuova realtà drammatica
soltanto
e umiliata, che è possibile superare
se si trova la forza nel passato, se si strappa
verità da immagini che a mano
a mano
una
riaffiorano, si ricom-
pongono dense di suoni, occasioni, piccole storie collocate nel loro effimero spazio, più popolato di particolari, di cose,
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di volti, di atmosfere, che di movimento narrativo, articolazione sciolta e coinvolgente di eventi, legami e azioni consonanti nel contesto. È la grande festa del provvisorio incendiato dal sussulto di una immagine, da un'eco, segmentazione assidua in cui tuttavia si infiltra la parentesi animata degli ambienti (sfilano paesaggi parigini, romani, o di un mondo provinciale « crinei secoli »), si costituisce
stallizzato
qualche
ritmo
decanta-
to, scandito e rifinito ma pur sempre in precario equilibrio tra lo sguardo dello scrittore, incline a tradurre uno stato appagante, consolatorio per il personaggio, e la ressa dei ricordi che dissipa, annulla presto il corso privilegiato dei pensieri esistenziali,
segue
il tumulto,
il sormontare
di un’altra
onda
di fatti raccolti intorno alle loro vibrazioni e ancora franti dal ripristino del piano attuale. La rappresentazione diretta dell’uomo « archeologo di se stesso » (il tenace assedio posto al passato è una costante dell’opera di Salvalaggio) è, cosi, pretesto per l’indispensabile viaggio nel « tunnel », nelle « catacombe », nelle « ore sciupate » del vissuto; pretesto per avventure oniriche che lo scrittore intende etichettare, commentare sul nascere, definire nelle motivazioni, nei riflessi psicologici, nella facilità an-
che delle apparizioni e congiunzioni giuste. La regolata materia si distribuisce nei tracciati della vita alternativa. Sbocciano figurine di donne, come l’imprevedibile Viviane, dotata di « dolcezza prevaricante » e di « tagliente lingua cartesiana », una
« manciata
d’acqua »,
e come
Sara,
moglie
dell’amico
Ross, « ricca della fantasiosa disponibilità dell’intelligenza », pronta ad accettare « ogni capriccio della sorte con un ottimismo di ferro »: mentre dalle immacolate lontananze dei ricordi, dalle memorie di certi risvegli e di intatte giornate di sole alzato sulla laguna torna il sorriso della madre morta, che continua a esistere « al di là dalle tenebre ». Mosaico di cronachette del sogno e della nostalgia, incollate sul disagio, sullo strazio e sull’assoluzione del giornaliero, polveroso e tremendo, il racconto vive del linguaggio quotidiano che ospita plastiche corposità, inserti di parlato, ma
pure
lievi intenzioni
di canto,
una
grazia
di lirismo
fa-
cile, generato da applicazioni della mente, una difesa del personaggio dai pericoli della discesa nell’enfasi. Un altro scudo viene dalla pittura di sfondi di una Venezia che esplode nella bellezza del Canal Grande, « pur cosî ovvia e logora per eccesso di celebrazione », nella « solennità cupa, medievale » dell’Arsenale, nei marmi di « argento vecchio » di Palazzo Labia e poi un po’ dovunque, dallo « spettacolo » del tramonto in Bacino San Marco ai brividi delle acque, e in campi e calli e campielli. Ma tutti gli incontri, la natura, le donne spesso
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amate per capriccio e perse lungo la via, gli amici, le illusioni che si sbriciolano, l’estasi che può donare la pittura a cui Olindo si affida con rinnovata intensità, non possono restare a lungo nell’involucro del sogno liberatorio (e di una realtà piegata alla visione) e si ritirano vinti, tra molte parole smarrite, dall’'inaspettata sorpresa della vita, da una positività che riaccende il fuoco: resta però nell'uomo un « vago senso di allarme ». Il corso narrativo di Diamante di Enzo Siciliano è sottoposto a un duplice procedimento di osservazione: v'è la ripresa in prima persona dell’io, un giovane che da Roma giunge in Calabria per un incarico di bibliotecario presso una facoltosa famiglia; e vi sono le lettere che il giovane invia a due amici
romani,
Matteo
e Angelica,
alle cui « ossessioni » si è
pure voluto sottrarre. La maglia epistolare (a Sciascia sembra di cogliervi l’« eco di certe lettere sulla Calabria di ufficiali napoleonici, negli anni di re Gioacchino ») fa inoltre da cerniera tra le riflessioni, l'indagine sul mondo meridionale — impenetrabile, sorprendente nelle sue conservate, vecchie abitudini, nelle dannazioni e in lembi di passato che si sollevano, a volte sinistri,
a contendere
con il presente — e i lon-
tani bagliori, le non del tutto placate seduzioni di una realtà metropolitana dal personaggio via via sentita in dissolvenza. L'angolo di terra calabra, riflesso dai monti al mare in una fascia che va da Nicastro a Falerna e a Diamante, individuato dallo scrittore talvolta con puntualità di cronaca, talaltra in
violente lame di luce, è costantemente al centro di una spirale di immagini, emozioni, scoperte, paure, che l'io prima patisce in un trepido stupore e poi, a poco a poco, avvicina sempre più pericolosamente alla sua partecipazione, al coinvolgimento distruttivo. Sono gli « allarmi di qui » a guidare la resa, il cedimento a una silenziosa insurrezione delle apparenze, del paesaggio, dell’aria, di una teoria di figure che si svelano a spezzoni dall’intrigo (alla base della storia locale si intravedono i fili di una contesa familiare per la spartizione di una cospicua eredità) e sembrano recitare una parte, ora, senza avvedersene, prese da un invisibile gioco del copione, ora invece attentissime, tenaci, invischiate in macchinazioni spietate, le-
ste a svelare, come don Tommaso, « prete di campagna », i lati più sconcertanti della psiche, debolezze profonde, miserie umane:
« desolata
immagine
della
follia », egli è spettatore
e ladro della vita degli altri. Dapprima il vuoto della scena caratterizza una trama disposta — come in La principessa e l’antiquario, laboratorio
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fervido crescere
dei meccanismi su
se stessa,
narrativi di Siciliano — « dall’abitudine
favorita
in modo
da
romanzesca »
del protagonista, da quel suo «modo » attraverso il quale egli può essere « cieco oppure occhiuto » e dalle contrapposizioni all’altro
« talento
romanzesco », don Diego, il vecchio
padrone di casa, dal « volto screziato », ironico per quel senso della morale come « scudo di carta », per il sottile equilibrio tra disincanto, noia, lacerato interesse. Il primo segnale del vuoto viene dunque dalla natura, dal « tempo chiaro, immobile », dal «grembo d’un gran silenzio » in cui si agita insinuante l'attesa di non si sa chi o che cosa. Il secondo avviso parte dalla consapevolezza che solo le parole possono tracciare
una
realtà
imprendibile,
astratta,
nebulosa,
attra-
versata soltanto dall’enigmatico andirivieni di qualche figura (si pensi alla serva Caterina,
« sibilla creaturale »).
Ed ecco la meditazione sulle parole intese come « aria », « legacci difficilissimi da individuare e recidere », o come « vetro », abili nell’offuscare « tutto ciò che non aiuta a vedere meglio », divenire una sorta di idea critica sulla narrazione, una intelaiatura metodologica e, al contempo, una docile materia calata nel vivo, efficiente, vibrata, adatta all'uso, a
smuovere ostacoli o a crearli, scoprire segreti (lo spazio tra sentimenti e parole si trasforma pure in trabocchetto, in naufragio, nell’ascolto inutile della morte della verità), dare forza, sostanza all’indistinto, all’inespresso: una potenza incredibile nelle mani dell’osservatore, del testimone, il quale
appronta gli strumenti di un dominio sulle tenebre, sull’affabulazione dell’antagonista, un po’ sulle insidie del paesaggio, dei suoi profumi acuti, intense tonalità e illanguidite forme, voci pietrificate: e nello sfondo la « stoffa aggrinzita » del mare. Dominio nel sapersi guardare dentro, neutralizzando la nostalgia di ciò che forse brulica lontano, degli interessi « effimeri » di un tempo vicino nel calendario ma remoto se può dissolversi senza « tenerezza ». E il paesaggio di Calabria, forse per quel grido di rovina che esprime, per la « ragnatela di macerie pronta a crollare » dei borghi arroccati sui monti, e per le « idee di cartilagine » degli abitanti, le falle lasciate dall’emigrazione, la disperata solitudine delle donne, riesce a prestarsi
all’esercizio
intellettuale
timento » (« c'è un divertimento punto, mi divertivo a occupare
del giovane,
al « diver-
che nasce dalla noia:
—
ap-
cosî il vuoto ») ovattato, com-
misurato al silenzio d’intorno, alla facoltà di isolarsi e di co-
noscere,
lui straniero,
storie
di ambienti
nuovi,
esaltanti
e
funeste, rigate da lampi di sensualità, violenze dell'anima e dei corpi, dal buio e dal fulgore di esterni talmente in feroce convergenza con gli stati d'animo da fare un'unica rovinosa e lugubre apparizione. È l’arcaico oscuro spessore di fatti
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strappati da una tela verista che può imprigionare l'impronta della carne, l’invadenza delle leggi del possesso e del denaro, del loro « spietato richiamo » a essere sfidate: che può spiare nelle solitudini inaccessibili dei cuori, carpire il destino « accettato e sollecitato con passione stregata ». Una schiavità subdola di gesti sempre più aperti, di parole sempre più esplicite, di fatti rubati al loro bozzolo: e circonda anche il nuovo arrivato rivelandogli i segreti dell'incompiutezza umana, gli spasimi, la sordida gioia della difettività, del negativo, il nulla nell’atto di solidificarsi e ubbidire all’eterno, sovrano
scherzo
della vita sbucata
dall’ado-
lescenza come da un « poema cavalleresco ». Un’ironia che appena assolve quello sprazzo di dannazione, di romanticamente elegiaco, demoniacamente
gotico, che tenta di sopravvi-
vere in una galleria di perdenti, di oppressi dai loro misteri come da « macigni ». Il narrato, pur cosi denso
di piani, di tensioni
e di allu-
sioni, di condanna e pietà, ha una sua chiarezza lineare:
ten-
de a stazioni riassuntive, a ricapitolazioni, ordini strutturati,
precise rispondenze tra natura e passioni, seguendo il « raggio del meraviglioso » e snidando creature fatali, tenebrose, come Lucia, oppure ricorrendo al congegno della « romanzesca
salvezza », al simbolo
devastatore
fiamma e a quello del nome cenda:
Diamante,
« segno
purificatore
della
del paese ove ha termine
e
la vi-
del destino », nome
sivi, caduti a specchiare se stessi, l'aspetto della morte, l’inesplicabile senso della vita.
e luce conclu-
sereno
e losco
L'architettura narrativa è quella del giallo: in fondo all’aggrovigliarsi dei fatti in Il segreto di Alias di Giuseppe Bonura,
tra diramazioni
che si offrono e si negano,
linearità
apparenti e presto disarticolate dalla violenza fagocitante nuove
prospettive,
domina
l’attesa, la promessa
di uno
di
scio-
glimento che deve scattare, al giusto posto, con il suo valore di certezza disseminata prima in indizi e successivamente raccolta dalla superiore progettazione degli avvenimenti, dal sospetto e anche dalla disciplina di un calcolo ammonitore, infiltrato in trasparenza di metafora o in limpido e drammatico spettacolo di uno stato umano compreso e offerto alla ineluttabilità della sua fralezza, della sua inequivocabile, rena miseria, alla « pazzia lucida », alla distruzione.
ter-
Nelle cadenze di un thrilling, il segreto di Alias, un killer dalla vita « errabonda e solitaria », ingaggiato da una grande e mai nominata organizzazione, mostruosa e spietata, per sopprimere gli agenti della concorrenza, si presta alla ricer-
ca di notizie e di risvolti che lo scrittore ordina a una strut-
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tura espositiva particolarmente agile e distribuita in geometriche scansioni, in tempi narrativi che si tagliano o si sovrappongono, si elidono o si affondano per riemergere in un moto che procede dal velocissimo scorrimento del fatto attuale, dalla matrice da cui deriva il dispositivo dell’intreccio: è il pretesto, la propulsione del racconto con cui un vecchio cerca di differire la propria uccisione narrando a un giovane sicario, entrato improvvisamente nella sua « strana casa », le avventure
le amnesie,
di Alias,
sembrare
il suo
un
« sopravvissuto a una dolorosa vecchiaia ». Si snoda pertanto una vicenda gonfia di colpi di scena, costellata di agguati, cadaveri, situazioni agghiaccianti, lungo un filo che è intenzionalmente spezzato dall’autore in vari punti per infrangere quel senso di compattezza, estranea e artificiale, che può assumere la realtà se ricondotta a immagini e interpretazioni confezionate, unificanti; se si vuole cercarla nell’alveo
di una
regolarità inattaccabile,
esistente
forse solo
nelle finzioni. Qui si intende invece mostrare lo sterminato aspetto della violenza, l’inesauribile varietà dell’insidia, lo spettro dell’inganno, quei mille volti del male nei quali la società contemporanea si riflette e obliquamente pure si ripara. Il male, dunque, quale ineliminabile condizione del vivere, esibita recita quotidiana, ripetitiva voce che vola di scena in scena,
sembra
tacere, concedersi
solleva più forte, intensa: simboli,
dalle parabole,
breve
tregua, ma
perennemente
dalla meditazione
poi si ri-
in fuga, anche
dai
della scrittura che
intende spiegarla, crocifiggerla in un segnale. Portatore di questo oscuro destino è Alias, bollato fin dall'inizio dalla maledizione del parricidio, disponibile all’azione istantanea, al gesto che aggredisce e schiaffeggia la vita, senza reticenze
e pentimenti:
disperato uomo
silenzioso, sor-
preso in monologhi « travestiti da dialoghi », sempre fedele ai comandi dell’organizzazione. Ma sulla sua regolare consuetudine con il delitto scende inavvertito qualche disagio, cala un’ombra di indecisione, bisbiglia il gioco del destino: quasi l'arresto della routine che risospinge l’uomo, senza motivo alcuno, in un insospettabile viaggio a ritroso. Alias ha momenti di perplessità, di attesa, quando si sente oppresso dallo spazio cronologico,
di cui non è minimamente
« padrone »,
che lo separa dal compimento del tragico mandato di morte. La decifrazione di un’appena accennata paura, la sottolineatura di una crepa nella corazza dell’uomo fanno da leva a tutto un sotterraneo disporsi di notazioni psicologiche, poco appariscenti ma decisive, nette, nella trama romanzesca che riprende il suo iter a strappi, frammenti, spezzoni: i piccoli blocchi degli episodi di Alias, « disperato travet dell'omicidio », persecutore e perseguitato, hanno autonomo respiro;
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si possono leggere come brevi racconti autosufficienti ma nel contempo risultano orchestrati in una rete di rinvii, di sintonie, nell’apparato di tratti con opportunità riuniti per la definizione del profilo di Alias e per la convocazione di un gruppo di personaggi — gli avversari da abbattere, il cupo mondo che ruota attorno — sempre nuovi e circondati da paesaggi essenziali, tagliati da rasoiate, scheggiati da durissimi scalpelli. Bonura serra le porte a ogni rimbalzo di luce, a ogni slontanante visione. La galleria dei personaggi è ininterrottamente agitata dal flusso del narrato chiuso però dalla cornice — gli inserti dialogati del vecchio e del suo micidiale visitatore — che funge da commento stimolante e ordinato delle occasioni avventurose, contrapposto al disordine morale di Alias, al suo buio. Questo conversare ai bordi del vero romanzo di Alias, questa zona tanto visitata dall’'incombere della morte eppure cosi sospesa,
tessuta
di frasi essenziali,
gesti definitivi,
echi
risalenti da quel passato che il vecchio ripete ma che non ha, invece,
l’eroe
negativo;
questo
andare
verso
la fine con
di-
sincantata e superiore freddezza ribadiscono la potenza fantastica della parola che riesce a cancellare e a dare altra vita al reale (anche in alcune opere precedenti, come nell’Adescatore, Bonura ha fatto transitare le ombre dell’esistere in pagine che proprio alla parola chiedono la massima circonferenza, protezione),
distanziare
il tumulto,
ingigantire
fese, riempire le assenze:
la letteratura come
la morte
del discorso
allarga l'ambito
luse meditazioni ra,
le di-
esorcismo
civile e morale,
del-
le de-
su un'epoca, a un'esemplarità glaciale, seve-
a una condanna
biblica.
Il film dei ricordi notturni è cosi fragile da rompersi spesso, come « succedeva nei cinema di quartiere »: è motivo di angoscia ma anche il solo contatto con il movimento esterno che il vecchio scrittore Chiarone, protagonista del romanzo di Stefano Terra, Un viaggio, una vita, allaccia nell’ovattato riparo del palazzo, al centro di Roma, ove vive stretto da un
rituale
di abitudini,
a
difesa
di uno
spazio
personale,
isola nel « quadrilatero romano », parentesi sospesa sull’assedio della « cavalleria degli invasori », i cui annunci di pericolo corrono sotterranei nell’ordinata declinazione di giorni avari di sorprese. Una minaccia per Chiarone, che respinge gli assalti dell'esterno, differisce anche la lettura della corrispondenza e si raccoglie attorno alle due fonti di animazione della casa, la cagnetta Xeni e, da poco, Giorgia, la giovane che lo ha avvicinato con il sotterfugio di una tesi di laurea, in un giorno infuocato d’estate, « con la sabbia libica nel-
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l’aria », ed è ancora presente nell’« addolcito settembre » a continuare velleità di teatro, ospite soave di quel regno di solitudine, ma già ambiguamente ferita dalla malinconia del tem-
po «sprecato», attiva nel gruppo costretti a reiterare,
« senza
di amici
meccanicamente
palcoscenico », la recita del ses-
santottismo e, all'opposto, avviata lungo una piccola strada di « commozione ». Alla sponda un po’ privilegiata e polverosamente monotona
e intristita delle custodite ore di Chiarone
arriva furtivo, leg-
gero è incantatore, il richiamo del viaggio:! è la scossa che non distrugge le fondamenta della routine; è avvio, invece, a un piccolo giro d’orizzonte iniziato su un trenino locale che
si muove
lento,
dalla
stazione
Ostiense,
tra depositi
di
locomotive in disarmo, sfiora agglomerati, lungomari deserti, le fattorie della Maremma, e giunge alla prima tappa del pellegrinaggio ansioso, forse ingenuo. È l’arrivo nel « chiaro immobile » della sera, il ritrovarsi nella casa di campagna, in un paesaggio familiare gremito di memorie, di volti: gli stessi di un tempo, ma depositati in un’atmosfera velata, tra avvenimenti impigriti dalla distanza, casi che sembrano — complici le pause della scrittura — non essere mai accaduti, parole felpate, intermittenti
nel ritrovamento
e nel ricorso.
Sciogliere quel nodo di vita lontana è l’occasione di uscire dal « fondo del labirinto », scoprire il segreto di troppi atteggiamenti di indifferenza, di cautele e ritrosie, fragili tentativi per confondere la diserzione. E la ricerca del personaggio non si esercita soltanto sulla fascinazione del passato, ha, piuttosto, inclinazioni complesse, trafitture e urti e sobbalzi
del presente, invade il pensiero con la tornante visione di Giorgia, comanda di abbassare il « ponte levatoio », di accogliere pure l’insidia delle emozioni correnti; è benefica chiarezza o complicazione, assillo, ripiegamento doloroso di « mediocre comandante sconfitto », questua di immagini consolatorie, prima di riprendere il viaggio, di ripetere il destino di « sopravvissuto
ai banchi
di nebbia,
illusioni,
inutili
fu-
rori ». Incalza, senza troppa meraviglia, una nuova fuga — a Torino, alle sorgenti del Po: altro itinerario su antichi passi — che non può sgusciare da quell’« Ottocento dei sentimenti » sempre
all’erta, calamitante,
tentacolare,
centellinato con
enorme piacere e timore nel « rosario » dell’ieri e visitato dal « fastidioso fantasma » di Roberta, la moglie separata, dimenticata in un sepolcro di anni. E si perpetua l'esilio: dal passato non più proponibile, sordamente trattenuto sul fondo da particolari negativi, ora suscitatore impietoso di un infinito campo di ombre. Ed esilio da Giorgia la quale, dopo aver sperato di mutare la propria esistenza avvicinan-
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dosi al « rifugio » dell'immenso palazzo silenzioso e dopo aver trovato in sé insospettate e tenere comunioni con l'ombra del vecchio scrittore perduto nel suo andare, fugge via per capirsi meglio, per attingere un equilibrio. Si sommano le chiusure e saldano definitivamente la cortina di esclusione dell’uomo: tornerà egli al maestoso, vuoto palazzo, tra libri e dorate cornici cangianti nelle luci delle stagioni; chiederà all’umile Richetta, la donna di casa a ore, di fermarsi stabilmente e rialzerà quel ponte abbassato verso gli altri per bisogno di colloquio. Terra affronta, qui con qualche nota meno tagliente ma con
inalterata
disposizione
lirica, la tematica
che gli è con-
sona: l'esplorazione di aggrovigliate psicologie (si pensi ad Albergo Minerva) percorse da una guida invisibile e perseverante, che sembra
smarrirsi
ma
che a mano
a mano
si libera
dai lacci portando in superficie soluzioni definitive. Una guida che ha varie maschere, imprevedibili mosse misurate in allarmata sintonia con il paesaggio-dedalo e con la topografia attenta, sotto la quale insorge, trafiggendo, la metafora dell'inganno. Con la raccolta di racconti Questa primavera Carlo Castellaneta scandisce in tre stagioni — un passato autobiografico riaffiorato alla memoria, un presente sventagliato nelle sue
molte sfaccettature, un futuro prefigurato con ironia — i casi comuni
della vita, suscitando
di volta in volta la favola,
la
cronaca, l’idillio e l'avventura, l'appunto passeggero e la nota morale, il puro gioco narrativo e l'intento saggistico. L’incontro dello scrittore con la realtà passa nel registro di parole attentamente
studiate,
contate
e anche
pudiche,
quasi timo-
rose del pericolo dello slittamento sentimentale, della nostalgia e della nebulosità del sogno. Ma la posizione critica assunta dinanzi alla materia bruciante (un arco di tempo ben delimitato si infila nei ricordi e si contrae nel rugoso presente) convoca direttamente il commento, la lettura che affonda nella verità e che a distanza sa capire il senso dei giorni, mantenerne, pur nella discussione episodicamente alleggerita di sorriso, il segreto e l'ingenuità, ma senza indulgenze, coinvolgimenti di comodo, modulazioni letterarie di maniera. Castellaneta è fermo a una stazione matura del suo viag-
gio e in questo luogo ideale attende l’arrivo inevitabile dei frammenti delle stagioni trascorse che ora colloca, aggrega, ordina e, temendo che possano riversarsi sulla pagina secondo gli impeti dissociativi ed esaltanti delle mitologie, degli idoleggiamenti, circoscrive in ambiti ben strutturati, in paragrafi dalla funzione esemplare, ciascuno costruito in area auto-
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noma,
tuttavia disposto
a interagire
in un’architettura
omo-
genea, in una storia robusta e trafitta da voci minime. L’autore classifica, distingue, qua e là integra e cosi anche deforma, riempie i vuoti, crea figure e fatti per effigiare spesso una transitoria immagine di smarrimento. Le cose rappresentate assumono veridicità, un appoggio concreto non soltanto
nella superficie
verniciatura
adattata
coerentemente
alle richieste
disegnata
storiche,
di chiazze
e nella
incancella-
bili, ma nell’idea che esse hanno dentro, come riflesso, rovescio di una dinamica tutta commista al dislocarsi, combinarsi, muoversi della vita.
Il telaio è pertanto quello della concretezza, e percorre la strada che dagli anni Quaranta ha accompagnato lo scrittore fino a quest'oggi cosi aspro e oscuro, sulla soglia di un domani che sboccia da presupposti già talmente alienanti, contraddittori, da porsi in condizione periclitante, in una forma di allarmato rispecchiamento. Una vertigine, un vuoto, le lance dell'incomprensione minacciano la raggiunta e appagante e salda comunione con le manifestazioni dell’esistere: so-
no le prime fasi di un'avventura non più dominabile. Ed è la meraviglia a porsi al principio come insostituibile fonte di quel tuffo nell’infanzia e nell'adolescenza che è in definitiva un’altra specie di guardia, di difesa nei confronti del presente, il primo
lembo
della
cornice
da staccare
idealmente
da
quella quota di avvenire che una visione dell’oggi un po’ eccitata, corretta di posto ma consequenziale, mette in atto. Sicché si produce sempre uno stacco tra minuta compitazione di atteggiamenti e le immagini di un « mondo irraggiungibile », lo scarto che sa riportare ancora viva e intensa la cronaca del dopoguerra, sgranandola per angolare spicchi di vicende, con un’intenzione resocontistica agile nel mettere in luce una nativa appropriazione del quotidiano e nell’impastarvi pure la memoria di una stagione povera e fervida, transitata nella raffigurazione stilistica del neorealismo. Fermata in tal guisa, con diligenza e fantasia, questa faccia dei tempi, personale e collettiva, non si presta alla dolce rievocazione ma squadra in pose più consapevoli e razionali lo sguardo gettato al presente, inarcandosi verso una scrittura secca
e rapida, qua e là un po’ arresa
episodi:
e l’indugio, ancorché
dominato
ad accarezzare
alcuni
dalla verificadi Ca-
stellaneta, solleva dal buio storie passeggere di amori, emozioni a lungo patite ed estenuate dell’« età delle scoperte », le chimere, i desideri sublimati
in rinunce, i profumi
e i ve-
leni di un’età lontana. Volontà di chiarezza e uno stimolo di risentimento civile governano la seconda sezione del libro, ove si affollano molti personaggi scelti per indici esemplari: dagli utopisti agli in-
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genui, facili prede dell'inganno; dagli uomini oscuri, rassegnati al grigiore, agli eroi della normalità spenta; da quelli che incarnano spavaldamente il costume del nostro tempo ai « fantasmi sopravvissuti a se stessi ». Muta però il grado di ripresa: non più l'io orienta il racconto, ma una panoramica fitta di personaggi tutti protesi ad avvicinarsi a quel lembo di speranza che corre furtiva e irraggiungibile nella catena opaca dei giorni. Funebre aspetto della sconfitta (che non può essere cancellata nelle fantasie di un domani), l’'uma-
nità di Castellaneta non riesce a mascherare neppure dietro la festività di commedia, dietro le quinte dell’intrigo accattivante e della situazione divertita, lo stato perenne di sbanda-
mento
e di precarietà.
Pagina secca, prosciugata, dalla tempra metallica, questa di La finta notte di Dante Troisi, è sempre più intenta a stringersi intorno alla frase definitiva, alla parola sostenuta dalla concretezza, al termine-chiave
a cui ridurre pure le pos-
sibili propagazioni, gli echi, il recupero delle fonti di ogni gesto smarrito di emozione. Parola concreta anche per il molto di simbolo
che si porta fieramente
dal momento
che tutto deve trovarsi nell’atto della sua pro-
dentro, non
alienabile,
nuncia, della formulazione mentale. Il coagulo delle astuzie, dei mali, delle contraddizioni della storia si riversa in un
punto magico della vita dell'uomo: magico e quindi giunto quasi a tradimento. Il ricordo gioca una carta importante in La finta notte, senza manovrare gli ampi campi che la memoria solitamente sfrutta, senza chiamare la musica degli abbandoni sentimentali, la falsità dei recuperi, la calligrafica descrizione di ciò che è perduto. Se la parola non vuole espandersi, se non insegue gli allacciamenti di sempre nuove dilatazioni, le evocazioni e le trame ricondotte a esemplarità, ma si circoscrive e si risente al di là di ogni esibizione, si lucida e non ammira il proprio ritrovato splendore e già quasi si ferma e incrudelisce su se stessa, ebbene, tutta la lastra della scrittura assu-
me un liturgico fermento e convoglia in un sacrale recinto verbale una realtà frammentata da cui non scattano messaggi distesi nell’oratoria, ma continue segnalazioni di schegge, di nuclei. L'autopunizione della parola che teme il pericolo e l'ingombro di suoni, di colloqui saputi, di un viaggio già compiuto, di un dialogo già detto, non è limitazione: da più lontano, rimosso
da un territorio di fatti già vissuto dall’io, e mai dalla coscienza, prende l’avvio un racconto che è
sprofondato nel verticale sondaggio di una crisi, si determina l'impulso della stessa struttura narrativa.
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. Da una sospensione nascono tutti i capitoli, tempo di un universo spazzato in un buio che è quello del passato di orrore, della guerra e quello della finzione, della notte che vede romanzescamente contrapposti il protagonista Cosimo e la moglie Nora, duellanti nella contesa che consuma il loro rapporto amoroso e muta l’affetto in odio, l’intesa in crudele gioco al massacro. La vita della coppia appare esasperata (come ha ben visto G. Bàrberi Squarotti)? nelle « reciproche insofferenze,
nei rancori
senza
pace ». Come
da un
incubo,
in
cui momenti di scontri bellici tra russi e cinesi sul fiume Ussuri-Wusuli e lampi di guerra nel deserto libico rimbalzano confusamente
ma
nella lucida vacuità delle ossessioni, Co-
simo rientra nello spazio quotidiano a misurarsi con le im| pressioni, le trappole, gli ostacoli della vita che si dilata o si annulla, riesplode o minaccia con l'intensità del delirio, con la medesima violenza di quelle visioni in cui l’uomo, prima braccato e vittima, finisce per ripiegare. La circolarità dell'orrore della vita non consente scampo, incalza con tanti assalti, ridistende fatti collettivi e individua-
li nella dannazione dell’assedio che cinge indifferentemente Cosimo, soldato di una volta, ferito su un campo di battaglia e uomo come tanti, oggi chiuso in un’anonima casa di una città del sud, in una giornata festiva di pioggia. Un gigantesco sfondo fa simili i paesaggi, che pur contengono esatti riferimenti, e trascina insieme le più diverse figure: l’ormai perduto bosco delle betulle irto di agguati e la stanza divisa con Nora, i ruderi della terra natale di Vallea, sconvolta dal terremoto, e la distesa delle dune si popolano di fantasmi, intrecciano una rete di volti sempre più stretta, soffocante, incombente: il prete dell’infanzia, vecchio e infreddolito, che rimprovera all'uomo le persecuzioni inflitte alla moglie e alle ombre degli uomini della sua vita (i « predecessori » che entrano in un veloce e crudele balletto), vive accanto al prete giovane che vuole
sbloccare
Cosimo
da certi complessi,
invi-
tandolo a rimuovere le paure delle sue tornanti immagini, a rifiutare il riparo dell’ipocrisia. Nella naturalezza della continuità del tempo, i due personaggi mandano avanti una schermaglia fredda, entrano e si adagiano
nel « vuoto
del rinvio », si calano
in una
parte che
conoscono benissimo e che, per bisogno di altra verità e anche per estenuazione letteraria, reinventano senza però alterare una prigionia di gesti, di comportamenti, di battute. Ritornano i rumori della città, della vita spenta e insieme salgono onde antiche, il canto del muezzin, le voci della miseria
e dell'ignoranza dell'angolo remoto della provincia natale, con i « paesani incantati », speranze e innocenze definitivamente sepolte.
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La liberazione è negata: neppure la letteratura può impostare e risolvere i problemi di Cosimo che incolonna fogli su fogli di un romanzo non scritto, nel quale anche Nora non può entrare se non come « fraudolenta manipolazione ». Estranei al senso vero della vita, presi l’un contro l’altra da troppo odio, i due si offrono a un estremo giudizio nelle parole del vecchio prete che vede Nora incapace di scorgere quel grano d’eternità che è nel concreto e Cosimo sconfitto dall’ignavia. E cosi spariscono in una folla mostruosa che mescola indifferentemente gli uomini « gonfi di rosari e di bandiere, di lumini e di medaglie ». È la condanna della storia che tutto pareggia: anche l’« emigrante di Vallea che non ha fatto fortuna », quel Cosimo
« successore » di se stesso, che con Nora
è capace di vivere solo nel « dormiveglia ». Raccontare per parabole, serrare una figura in istanti esemplari dell’esistenza e li, nel segmento volubile e nel tratto definito, nel modesto piano delle esperienze rivelatrici, spremere il succo della sapienza, contemplare la crescita di un microcosmo
interiore,
il suo confronto
gli urti, i guasti e le stimolanti ture
della realtà circostante,
con l’esterno, con
risorse, le splendide
della piccola
cronaca
avven-
destinata
a farsi frazione di storia e del chiacchiericcio condannato a spegnersi, ma dopo aver tentato di scavalcare l’effimero: ecco ciò che Ferdinando Camon, con Storia di Sirio, si prefigge raccontando del giovane Sirio, figlio di un grande industriale. Personaggio di questo nostro tempo, ma colto nella sua condizione di privilegio, egli è già dall'avvio del racconto isolato in grandeggiante rilievo, nella roccaforte di un possesso delle cose (la città di sera, vista dal grattacielo della famiglia di Sirio, è un fremere
di luci che decretano
il trionfo
di un
impero economico) nel quale sembra risiedere l’intero significato del vivere. Le ferree e meccaniche leggi della produzione impongono un sistema di rapporti, di destini, una scacchiera per i sogni, i desideri, un obbligo di direzione pure per la felicità, i sentimenti, le scelte: si disegna la mappa di una civiltà stritolata dagli ingranaggi di una mostruosa macchina (o di un incubo, di un’oscura vertigine della mente?) che si aziona da sola, che distrugge e ricostruisce se stessa in un paesaggio desolato, abitato da due schiere contrapposte: da un lato i potenti, gli uomini
che hanno
volontà, che imprimono
il moto,
essendo le cause e i principi di tutto (Sirio, appunto, e il padre e anche l’amico Cino che un giorno sarà direttore generale), dall’altro i robot, i « cervelli tagliati », la massa neutra, priva di potere, votata con il sacrificio di sé alla realizza-
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zione di una società sempre più efficiente, vicina alla ta « felicità ». ._ Un mondo industriale frutto del sogno borghese dilatate, mostruose movenze dalle parole-testamento dre di Sirio, da un monologo-precetto che ha il pregio
perfetprende del padi crea-
re volti, situazioni secondo processi narrativi, fluide possibili-
tà di aggregazione di casi, di eventi. Siamo indubbiamente su un altro versante, rispetto alle strade battute da Ottieri e da Volponi, rispetto alle grandi scene corali rilevate d’angoscia di Donnarumma all’assalto e al mutamento di atteggiamento psicologico dell’operaio di Memoriale nei riguardi della macchina; però vi sono, nella Storia di Sirio, una straziata denuncia e un'ombra
di kafkiana insidia, di smarrimento,
che
si bloccano implacabili in un'immagine più martellata, pure ingentilita di poesia, breve, fugacissima, però innalzata a difesa dell’uomo dalla violenza che è in ogni morte di libertà. Esemplarmente il racconto di Sirio imbocca un altro tunnel: quello della fuga da casa, della vita di gruppo, della protesta, della rivoluzione « strisciante ». Ed è un cammino di dubbi, un ritorno alla fonte della conoscenza, una « purifica-
zione » dalla quale traspare l'inutile partenza per inconsistenti crociate, il vano di ogni « brivido necessario a scuotere la monotonia ». Si apre un blocco di pagine corroso dalla meditazione e dalla polemica, dal risentimento e dalla pietà dello scrittore: il personaggio va un po’ in ombra, il suo ruolo declina — per un voluto gioco di strutture, per un compasso più largo di storicizzazione — e si cancellano i tratti del suo rapporto privilegiato con gli altri. All’impulso saggistico Camon concede spessore, imponente e coraggiosa e rischiosa invasione della pagina che tuttavia, pur cosi occupata, dominata, impedita
nelle varie
articolazioni,
non
ne
esce
sconfitta,
prende anzi fervore, palpito, le decisioni del ragionamento, gli ingorghi (preziosi, umorali, concreti) della passione, quei piccoli splendori che hanno i viaggi nelle questioni quotidiane, nel teatro dell’esistenza.
Gli appuntamenti delle esperienze passano per le solite stazioni, non consentono deroghe, non possono sottrarsi alla ripetizione delle azioni che da sempre recitano se stesse: è il tempo del primo amore, questo luogo comune usurato, svuotato di mistero, eppure risorgente dalla distruzione, dai suoi cocci senza immagine, a formare invece una parola, una figura, un volto, un gesto « da scrivere sul calendario, al posto del nome del santo ». Camon non esita a dare al racconto svolte intimistiche,
a mutare
la tribuna,
ove
si dibattono
le
ideologie, in una cava sospensione dell’animo trepidante, nel di solidarietà e di minimo ritaglio del diario ingenuo, pieno quel pizzico di malinconia che l'estasi imprigiona. La scrittura
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cessa di incidere, di stracciare la realtà, e si fa raccolta, mormorante, china sul personaggio, sul suo estraniarsi dal mondo, sale di tono per seguire l’euforia dell'amore e poi si incolonna nella calma catena delle convenzioni e della fine. Sparisce Carla, forse anche il ricordo; qualche compagno precipita nel delirio della droga, la stessa città cambia, si ridesta dalla vertigine, torna alla norma: tutto come prima, in una
lentezza quasi primordiale, fuori del tempo ma pressata da stimoli indefinibili. Il momento dell’autocoscienza, pagato attraverso il riconoscimento degli errori, la riformulazione di progetti, idee, l’analisi fredda e spietata dei problemi più assillanti, sviluppa infine il bisogno di rigenerazione e schiude l’ultimo atto che è quello della rivoluzione interiore. Il libro, introdotto e custodito da un rigore razionale, si sfoglia via via di oggetti, di volti, di situazioni per toccare la ragione essenziale del vivere, quell’autoconoscenza che Camon ritiene di poter attin-
gere in un’avventura parabolica resa particolarmente attiva dalla cura filologica, applicata sugli istituti del suo divenire: anche la parola, ristrutturata, cancellata, ritrovata tivo calore, diviene determinante in questo arduo
in un nacammino
verso la pienezza spirituale.
Le strade, i palazzi, il Duomo, la Loggia e la gente che sbuca da ogni dove, la folla anonima e varia che libera incessantemente qualche figura più rilevata: Capodistria, città « altera e chiusa », dall'aria antica, medievale, accoglie l’io nar-
ratore di Il male viene dal Nord di Fulvio Tomizza. Si tratta di un adolescente giunto dalla campagna negli ultimi anni della guerra e quindi seguito in un periodo tormentato da contrasti politici, sociali, etnici: periodo di un paese di frontiera avviato a grandi mutamenti. Il lungo tempo di un’educazione culturale e spirituale introduce al tema del racconto che passa nella biografia di Pier Paolo
Vergerio
il Giovane,
vescovo
di Capodistria
nella
se-
conda metà del Cinquecento e poi seguace della Riforma, processato, esiliato e sopravvissuto
anche
al Concilio
di Trento,
per consegnarsi infine a una morte oscura, « aggredito da quella avarizia mentale e di sentimento, nella quale soleva ravvisare il movente di ogni mala azione ». Il personaggio esce da un clima storico su cui lo scrittore proietta fasci di riflessi, giocando con il documento
e con l’interpretazione,
con la « voce, che ci giunge viva fin oltre il documento », con la testimonianza rigorosamente vagliata e con un diffuso intreccio di illuminazioni, esegesi, ampi legami con la contemporaneità,
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con il vivere allarmato
e incantato,
febbrile
e
fervido, solitario e vibrante di proposte, di colloquio, nel le si esalta l’io autobiografico del romanzo, a distanza di po «ricondotto » a studiare il personaggio di Vergerio, perto la prima volta nel linguaggio « prefabbricato » di pagina di giornale:
quatemscouna
3 Dovevano trascorrere più di vent'anni prima che io ritrovassi il mio interesse per il Vergerio. Ossia le scelte, le esperienze e i nuovi incontri avvenuti in un esilio insidioso, sviluppo naturale di quanto avevo in precedenza subito e intrapreso, mi avrebbero via via ricondotto tanto vicino a lui, da sentirmi quasi in obbligo di riprendere e portare a termine la conoscenza, malgrado che in luogo di attirarmi, assai spesso egli allontanasse anche me — e non per motivi strettamente politici — fino al ripudio.
Il narratore Tomizza dal suo « stato di esule anomalo » getta un ponte verso un « caso » storico per tentare un raffronto orientandolo sulla curiosità e sul timore di una vicinanza (e riduzione garbata, immalinconita, ironica e sapiente) che quattrocento anni di civiltà non sono riusciti a neutralizzare. E mentre si susseguono i quadri della vita di Vergerio, Tomizza non trascura di far scaturire dalla monolitica intelaiatura dei dati, da una tela di riferimenti organizzati con scrupoloso rispetto della ricognizione d'ambiente, il filo
di una vicenda umana gonfia di tutti gli umori di una realtà scrutata nel vivo del suo pulsare, in quegli spettacoli che possono illuminarsi solo se a leggere la notizia è il filologo, lo storico,
il succo
il sagace
studioso
della stagione
d’archivio,
l’umanista
tardorinascimentale,
ma
che
spreme
soprattutto
lo scrittore che trova i suoi fantasmi, stanandoli dal buio, da
inaccessibili recessi, dal bagaglio proprio delle sue fantastiche visioni. Cosi nella Vienna, dove Vergerio giunge come legato della Santa Sede, città « percorsa dalla frizzante aria dei colli e delle foreste che la attorniano », deserta « nei lunghi pomeriggi », Tomizza disegna un gruppo di volti in relazione fra loro, legge la situazione locale alla luce della posizione del papato, rileva la separazione di universi lontanissimi, come quello latino e quello germanico, isolando la complessa natura del suo eroe, guardato allo specchio di quel fermento eretico chiamato genericamente luteranesimo, di quel fronte protestante, rivoluzionario, che può essere oggi — come viene precisato — il fronte comunista nei paesi occidentali. Una « carica di passioni che muovono dal basso » dilaga per l'Europa: la pagina di Tomizza sopporta la pesante responsabilità di percorrere trame decisive della storia cinquecentesca fatta crescere nel libro dallo stratificarsi della cronaca, da un concorso di spinte, dalla dispersione o dall’organico prospetto
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delle forze. Mattone su mattone si plasma un contesto di civiltà che dai visi comprimari risale ai grandi protagonisti senza accusare cali di rendimento da parte della narrazione, non già frenata e opacizzata, bensi brulicante di spessore vitale, mobile nelle striature di costume, nei ragguagli pubblici e nelle fulminee irruzioni del privato. Si delinea il carattere di Vergerio, « arrendevole e segretamente spregiudicato », volitivo e ottimista. L'uomo accetta la « fitta rete di scambi di favori che sostiene la struttura politica e sociale del suo secolo » e si inoltra nel « cuore d’Europa al fianco dei protagonisti del tempo », scoprendo le grandi corti o il « gorgo della vita provinciale », le « bianche
cittadine
chiuse nelle loro mura », se-
« rigenerazione », da diplo-
guendo la ricerca sincera di una matico,
da predicatore
e raccogliendosi
clandestino,
talora,
uomo con il proprio ingombro di sconfitte, nella malinconia di un «richiamo alla patria lontana ». Dai personaggi storici (nitidi e vivificati da sorprendente calore, tra gli altri, i ritratti di Pietro Aretino, « al quale tutto è concesso e tutto finisce in scialo », precorritore di « tutti i recensori di opere mai lette », e di Margherita di Navarra,
vista pure in certi istanti di « ansie private », di Vittoria Colonna, « votatasi
dopo la morte
del marito
all’amor
divino »,
e del Bembo e di alcuni pontefici) sale un forte invito a guardare nel centro di un’epoca che fa sgusciare da ogni parte le sue opposte verità, distribuendo il materiale di una storia non finita, con gli sconvolgenti intrighi sommersi che possono « interessare i romanzieri, molto meno gli storici ». E continua allora, fino a queste nostre più recenti ferite, un discorso carico d'ombre, disperato, utopico, sigillato nella scrittura vetrosa (torna la ferma mano di La finzione di Maria), serra-
tissima per l’assenza di sbavature, per quella quota di verità che firma la frase, e irrobustita da un’opportuna selezione dei testi del tempo che Tomizza legge in un'articolata manovra narrativa. Un « fatto misterioso » successo ma
metà
dell’Ottocento,
la storia
a Pietroburgo nella pri-
di un
Generale
e del suo
cane attendente, affiora quasi a voler disarticolare tempo e spazio nella curiosa ricerca di misteriose cattedrali di legno, risalenti al periodo
italiano, Guerra,
delle invasioni
personaggio-guida manda
turche,
di La pioggia
avanti nella Russia
cantata, percorsa musicalmente
che uno
tiepida
di oggi, ma
dal crescere
scrittore
di Tonino
remota e in-
dei suoi infiniti
sfondi, dallo sfaldarsi dei colori, anche dalla fisicità più invadente e ossessiva, in una distesa incredibile di forme naufragate e risorte.
36
A Leningrado, mentre i palazzi di notte sembrano
« colare
dentro la Neva coperta da uno specchio pieno di lune », e a
Mosca la luna « sale [...] assieme
ai violinisti di Chagall », la
ricerca spinge il viaggiatore a inoltrarsi in un universo straordinariamente tappezzato di volti, paesaggi, costumi; e cosî egli naviga sul Mar Nero, in un’estate già estenuata, disfatta nella lentezza di giorni troppo riflessi in avvertimenti e incatenati a un invisibile disegno che impone diramazioni, passi obbligati, gli appuntamenti di un gioco di destini e di fatti spaziato al di là dell’esperienza sensibile, in un incontro contaminato
con
la favola,
senza
che
ci sia
in modo
chiaro
sguardo
dell’io,
« niente di concordato », ma pur sempre secondo richiami prestabiliti. E poi, in ogni immagine d'una Georgia stampata nel mito, in ogni svolta di storie corali, però rigate da fermenti oscuri
e voci
indivisibili,
v'è l’assalto
dello
il calore della sua visionarietà. Il reale, precisato fino ai bordi del sorriso, allo scatto dell’arguzia che interamente lo possiede e sommuove, si chiazza di miraggi e si fonde con le illusive promesse, al cadere della tiepida pioggia « distensiva » del Caucaso, diffondendosi in paesaggi nati dietro il velo d’acqua, evanescenze nelle quali affiora la favola del Generale e del suo cane parlante. Sull'effetto di un miracolo si intona un musicale ascolto della natura e delle immagini del viaggio: Era uno sgocciolio sempre più intenso, di gocce d’acqua tiepida; evidentemente le foglie cariche di sole e gli stessi rivestimenti prose intiepidito l’acqua piovana. Allora decido di restrane:
Resto ad occhi chiusi un po’ di tempo nell'attesa che si maturasse l’incanto del miraggio. Li riapro quando le gocce larghe e rade sprofondano nei vestiti e raggiungono subito la carne. L'aria verde e nebulosa che mi avvolgeva piano piano scancella i contorni di quel rifugio e si riempie di un tremolio elettrico che crea proprio davanti agli occhi un velo di tinte irreali. 4 D’incanto le ombre vaganti si condensano per formare solide architetture lungo la Neva, accanto al Palazzo d'Inverno sotto cui scioperavano ammucchiati sul fiume gelato i cani di Pietroburgo [...].
Illuministica intelligenza, impegno di penetrare amare verità, parodie sofferte dei casi del mondo, imprigionati in secchi, raggelati dialoghi e nelle apparizioni di personaggi simbolici — dal ragazzo che compare in maniera « magica », om-
bra contro il sole, e dalla principessa Ciavaze, solitaria nel suo palazzo cadente, al vecchio Ciabua, sovrano di un bosco
di gelsi morti, alla bambina che assume la « magia » di un oracolo, ad Agagianian che parla con i « relitti del passato » e
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«che ha una sua storia di affetti da raccontare, legata alle mura, alle memorie della casa —, aprono il pellegrinaggio degli oggetti e degli eventi che si animano in leggerezza, senza grandi slittamenti di costruzione, presi da una quiete un po ‘abbandonata e ormai divenuti parte di una leggenda filtrata in atmosfera rara, dalle cui trasparenze fioriscono linee nuove di racconto, brevi vicende presto smarrite, avventure dolenti ma dette in un soffio, in stati di dolce sfinitezza. Alla
luce d’acquario che smorza i movimenti e uniforma le tinte si subordinano anche i lunghi silenzi (e il viaggiatore si sente ridotto a quei silenzi), le frasi appena sussurrate, la dislo‘cazione attenta di segnali che lo scrittore assiepa e, numerandoli, dispone all’immobilità, a una panoramica stranita e lucente, allo stupore di chi scopre il mondo osservando con ‘serenità e ingenuità le oscillazioni tra la propria presenza che si gonfia talvolta di emozione lirica e il concreto scorrere dell’esterno che non sembra più assalire, asserragliato «com'è nella meraviglia e nell’assorta distanza dei simboli. Ora rispettando la verità storica, ora consegnandosi alla libertà fantastica, Ettore Masina articola in Il ferro e il miele un racconto corrusco
di forti luci, ambientato
in parte in una
Venezia del secondo Cinquecento, fastosa e orribilmente devastata dalla peste, minacciosa e tentatrice per chi vi si immerge con gli entusiasmi dell’inesperienza, come accade al giovane protagonista della vicenda, giunto dai monti della Valcamonica dopo un avventuroso viaggio, per portare un carico di legna e di utensili di ferro. Se il filo rosso è teso dalla storia della passione amorosa dell’uomo per la bella e volubile Fransisca, colta nel febbrile desiderio di vita e nel presagio di morte, nell’affidarsi ai giorni come in una « bolla di sapone » che la isola dal mondo, è all’affresco scintillante e funereo di una società raffinata e violenta, spensierata e
disperata, che Masina si rivolge per una rappresentazione ormai divenuta corale, rigata da bagliori sinistri, rapide sospensioni e ricorrenti tracce di corruzione. Un'’infernale caligine copre la laguna e fa ombre le presenze umane, trasforma le voci in « grido di avvertimento » e in dolcissimo canto, in inno. Lo spettacolo della rovina, rin-
novato senza tregua da scene raccapriccianti e come illimpidito nel rincorrersi di echi di serenità, ha impennate di eloquenza, sortite epiche, conosce il delirio, l’estasi, anche la pietà e quel distacco che nasce quale ultima sfida al male e alla morte. La linearità del racconto, protesa ad allargare il cerchio dell'avventura e a sospingere l’osservazione verso “zone più sorprendenti, si costituisce e si rifonda sulle proprie
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macerie, interruzioni, riprese; non si impossessa mai del tutto: della meraviglia, del particolare inedito e curioso e straordi-
nario, ma sfrutta ogni valore espressivo dei fatti, spinge la credibilità fino alla soglia dell’inganno, dell’astrazione fantastica. Un che di manzoniano detta bonomia nel trattare le cose
del mondo,
disposizione
alla sentenza,
dei volti
gusto
minimi (però tratteggiati in prospettive non caduche), accettazione religiosa del dolore, impegno morale, e difende il narrato dallo stravolgimento delle immagini, dalla macchina gotica, tentando
incatenature
regolari,
incontri
docili con
le
occasioni esemplari di tempi aspri e tempestosi. Quanto più l’autore riesce a proteggere la visione dalle insidie del fosco, dell'anomalo, tanto più l’eroe si ritaglia uno spazio interiore, rivede i luoghi dell'infanzia « troppo a lungo protratta » (dalla quale risalgono fantasmi e figure concrete, come Obizio, con i timori e i traumi della povertà), sente di essere « vittima di un’orribile congiura », scopre, atterrito, il peso del peccato,
la peste dell'animo ancora più deleteria di quella del corpo. Ma il dramma soggettivo è dallo scrittore inserito nel dibattito a più voci sulla fede, sui modi di realizzare gli insegnamenti cristiani, di aprire nella quotidianità uno « spiraglio di cielo », l'esigenza di amore: il quadro si estende alla folla
degli umili,
in bilico
tra abulia
e rissosità,
intenta
ad
avvertire con « lugubre avidità » le conclusioni del potente padre Utilperzio, che sa sfruttare i sensi di colpa e l’ignoranza delle masse, o all’altra folla che si stringe intorno al medico Sartirana e a Battista Fiore, al deforme pittore delle Madonne
e a Cesare nità
Fanelli,
stravolta
« obliquo
in folle corsa
e feroce verso
nell’ironia ». Un'uma-
l’errore, l’abisso,
si veste
di ne te za
sogni, inganna il buio con la fantasia e in qualche occasiotrova anche nella realtà, « sempre più grande e importan» dei sogni, fondamentali risposte, la legge puntuale e sentrasgressioni dell’esistere. Vi sono poi i personaggi del ritorno, quelli che il giovane incontra nel viaggio definitivo alla riconquista della valle natale:
Teresio
da Rovereto,
« quasi divorato
da una febbre in-
teriore »; padre Valerio, protagonista della « grande caccia » alle streghe; Romualdo Zane, che ha «occhi più accesi » quando esce dalla sala degli interrogatori in cui ha ascoltato le agghiaccianti confessioni di Valerio: personaggi che si piegano a quella problematica cattolica che Masina affronta con serietà e turbamento, pensando all’alto tema nella misura del saggio e insieme chiamando a raccolta le risorse della narrazione. La pittura d'ambiente, la documentazione approfondita lasciano
filtrare una
cauta
vena
di elegia, e l’uomo,
entrato
forse in quel « tempo della vita in cui si preferisce vivere di ricordi piuttosto che di realtà », riporta alla mente, mediante
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il processo della scrittura, la « folla logora » della sua straordinaria avventura, i nomi che sembrano implorare di essere riconosciuti. Un « pietoso dovere » che serve non a illustrare un determinato periodo dell’esistenza ma a individuare meglio la « ragione temporale che è la nostra vera patria », insinuando il dubbio e scegliendo forme mai pienamente esaudite: « Ho finito. Finito che cosa? Provo a dire: il racconto .di un anno di vita. Ma, poi, perché proprio quell’anno? ». Allontanare la paura del tempo che passa, moltiplicando ‘ogni occasione di esorcismo, è l'imperativo categorico di Clara, quarantenne protagonista di Il divertimento di Ottiero Ottieri: donna trafitta dai primi sintomi del declino fisico e pertanto attratta, in un disperato tentativo di protrarre gli anni verdi, da uomini giovani che osserva, cataloga in una rassegna sbiadita, svuotata
e rifornita di continuo,
senza luci
interiori, in una successione monotona che può avere dolente significazione solo negli istanti in cui si lega all’inquieto cercare, a delusivi guizzi di vitalità. Troppi e troppo effimeri, i volti passano in questa impaginazione di repertorio, l’uno dietro l’altro, sempre guardati dalla parte dell’osservatrice, classificati secondo i suoi desideri, le fuggevoli voglie, mentalmente « usati » e poi cancellati. Sono pattuglie accanto a pattuglie di storie non compiute, rapidamente tracciate, abbozzi, ombre che occupano la scena ora con un dettaglio, una parola, un gesto, ora con la loro stessa impalpabile lontananza,
distrazione, non
risolvendosi
in sciolti procedimenti
narrativi, anzi bloccandosi spesso in compiaciute pagine dimostrative. Domina su tutto l'organismo del libro la tensione a rompere sempre, seccamente, la tenuta unitaria: Clara, dopo le vane corse di festa in festa, le affannose visite alle mostre d’arte, le conversazioni banali e noiose con le amiche, le fre-
quentazioni di una mondanità asettica e ripetitiva, ritorna puntualmente a casa a scandire nevroticamente le ore, a consumare gli stessi comportamenti, a compiere i soliti riti. Spentesi anche le ore del vuoto (che Ottieri registra con neutra meticolosità, in un racconto-referto senza sussulti, notarile e grigio), Clara si precipita a discutere con l’ex marito «che, a sua volta, la vede « chiusa in una gabbia aperta ». Sono
questi incontri a segnare quel poco di soprassalto insito nella cronaca spicciola di un’esistenza fattasi meccanismo. Da un lato, la saggezza ironica dell’uomo, avvocato di successo, sportivo, il quale continua ad amare la moglie coinvolgendola in una schermaglia talora aspra di parole, di pungente volontà di chiarezza;
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dall’altro, la donna con i suoi smarrimen-
ti, i problemi sessuali, il vezzo di scrivere filastrocche, poesie frammentarie ed eccentriche, un diario romanzato: essere
debole e velleitario, che assale e fagocita le persone incontrate, gode della solitudine e si diverte « a divertirsi con se stessa », sul limite
di una
felicità mai attinta. Un
litario e allucinato » le riempie l’animo menti
di annullamento,
nel fascino
« tedio so-
e si allarga in mo-
della sconfitta,
nella vo-
luttà amara di «essere raggirata ». Ma la scrittura, convulsa nella segmentazione, negli spazi brevi e serrati e pietrificati fino a giustapposizioni scheletriche, non ha la forza di creare sufficienti snodi psicologici, convincenti sviluppi dei fatti, occupata
sioso, dere
a enumerare un
verbale
com'è
a descrivere
in modo
strozzato, an-
senza respiro e raggio rivelatore, a sten-
di azioni
interrotte,
monche,
a esplorare
il
« drammatico inferno » di una vita che non si rivela nel colmo dell’angoscia, poiché Ottieri appare preso in maniera abnorme
dai particolari di fuori, talvolta ininfluenti, ai quali
intende concedere non si sa bene quale spessore esplicativo. Artificiosa è inoltre la parte finale, gravata dalla presenza di due figure costruite in schede diametralmente opposte: ecco
il « vivo morto » Giuliano,
intellettuale
depresso,
« coc-
ciuto e intelligente nel suo male », nell’abulia che egli difende a ogni costo, accettando solo la casualità dell’esistere, la disperazione astratta e senza ferite, il fascino del silenzio (« Io
la notte sento il fruscio del silenzio e dispero senza essere un disperato. Non sono depresso, sono compresso fino al collo nella coscienza della mancanza di senso »), ed ecco Pietro, decoratore, uomo semplice (« Nel personaggio del buon artigiano Pietro — ha scritto G. Bàrberi Squarotti — il romanzo, poi, sfiora certe figure populiste di moda negli anni Quaranta e Cinquanta), inserito per incarnare la vita pulsante e lontana dai risvolti complicati, sanguigna e consegnata all'evidenza. Ma per mezzo degli amici di Pietro, « gruppetto appollaiato su due sedioline verdi e su un tavolinetto bianco, basso », Ottieri inietta nel racconto pure una materia saggistica, filosofica, teologica, pseudoscientifica, di difficile saldatura con il resto della storia. Avulso dalle ragioni primarie del quadro, questo mondo in confuso moto pendolare tra il picaresco e il simbolico, ha il limite più vistoso nel linguaggio dei parlanti: schematico, portatore di intenzioni non realizzate, didascalico senza ispirata forza comunicativa. Tra i due universi ugualmente segnati dalla debolezza e dall’offesa (la « grande depressione » di Giuliano e l’umiltà dello stato sociale di Pietro) è Clara, sempre in fuga, incapace di risoluzioni, condannata a una follia che si incapsula nella routine. E la pagina di Ottieri, cosi aspramente fitta di provocazioni nelle prove della prima stagione, da Donnarumma
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di sedie, cade ora nella trappola
all'assalto all’Impagliatore stanchezza
della
che
rinvia
le decisioni,
nello
sfaldamento
della parola che non sa vivere al di là del lentissimo sguardo, dell’analisi ingolfata.
Capitoli secchi, incisivi, taglienti come la punta di diamante, lavorati quanto basta a dare subito il fatto e il significato sotteso, una scena organizzata fino alle decorazioni e tutto ciò che si agita, invisibile, dietro le quinte: Ladro di ferragosto di Raffaele Crovi si muove cosi, agilmente, tra la documentazione
attenta,
quasi
allarmata,
e lo strascico,
il ri-
flesso che si allontana dal reale e non si sa con certezza quale via debba imboccare, quale altro motivo voglia intrecciare intorno a quello centrale di una Milano di ferragosto « ibernata nel silenzio », ove il narratore, segregatosi in casa per godere quattro giorni « muti», si accinge a interpretare l’« incerto ruolo di Robinson ». Ma nell’appartamento-arca, stipato di biancheria e di cibi, unico luogo pulsante nell’ambiente
deserto, nell’immenso
condominio
vuoto, egli è anche
come Noè, in uno spazio « alla deriva ». Cinquantenne indeciso e contraddittorio, scrittore interamente preso dalle « liturgie misteriche di innocenza e follia » che sono le parole dei suoi libri, egli si confronta con uno strano, imprevedibile antagonista, Adamo, un ladro ospitato forse per calcolo, per «imparare a rubare », e con il quale inizia un viaggio all’« inferno ». Illusionista e tentatore, spinto da inesauribile fervore fan-
tastico, Adamo introduce il tranquillo compagno in un mondo di imprevisti,
di inattese
rivelazioni,
nell’intrico
di fatti che
a poco a poco cedono insospettabili nozioni, confessioni ritardate, gli incubi del passato e poi figure allusive, timori sopiti e tornanti, sollievo per un’ansia che si dissolve, nuovi timori
e dubbi. Dall’interno del palazzo che, spogliato degli abitanti, rivela i suoi segreti, l'uomo proiettato da avventura in avventura nella città arsa in una metafisica astrazione, « lepre indifesa, braccata allo scoperto », scende nelle strade e in quel-
le zone mentali di orrore che possono accerchiare la normale giornata, il paesaggio consueto. Ed esce dalla fascia protettiva, scopre l'agguato, ora « archeologo dell’inciviltà umana» sma ti, di forza
o «iconoclasta », irridente, demoniaca presenza, fantasuscitatore di lusinghe, desto nella caccia di avvenimennovità da scoprire e smantellare, ridurre in cenere. Una violenta, provocatrice, distruttiva, scatta nei confronti
del protagonista che invece passa il tempo a registrare notizie e subisce un nuovo incontro, quello con Eva, espressione della libertà infinita, di una fantastica facoltà di inventare la
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vita: e con Eva intreccia un dialogo frizzante, ricco di battute, di arguzia, che deve illuminare il fondo di verità celata, il freddo della solitudine incombente sull'uomo, attore di uno
« psicodramma senza battute ». Intorno è il paesaggio degradato, squallido, un po’ fune-
reo nell’abbandono,
nel glaciale senso
di estraneità,
« ricetta-
colo » e « labirinto », attraversato velocemente da personaggi spettrali, una corte dei miracoli striata da moderni cartelloni pubblicitari, svenata dalla metropolitana, cosparsa di rifiuti (« Seguendo Adamo sto scoprendo che i luoghi pubblici della città sono le pattumiere della vita quotidiana »). Svelta, disossata, calibrata a raccogliere l'essenziale (tutto
esposto nel suo farsi allusivo), la pagina cede alla rassegna degli oggetti che viene esaltata dal suo stesso peso, inasprita di idee, prolungamenti: Crovi gioca con le parole, colleziona sentenze, motti di intelligenza e sottigliezze, battute icastiche;
guida il sorriso verso la fonte della verità, il terreno della meditazione, il preludio al saggio e non esita di fronte al concettismo:
lo allenta, disloca nella scacchiera
dell’astuzia, del-
le strategie, inserisce nei pigmenti delle scene fino a farlo divenire un allucinato elemento determinante. V’è un’aria surreale che si crea dal ragionamento, non tanto dalla disposizione abnorme dell'immagine: nel gioco le pedine sono regolari, il loro funzionamento esterno è accettabile, solo che le mosse rispondono a un sotterraneo disegno strategico, a
una posta che non è possibile indovinare. Un libro, dunque, ispirato da un rapporto lirico con la realtà, ma ordinato a mettere fuori campo ogni cedimento lirico ai sentimenti espansi, ogni ricamo:
sollecito alla soluzione
degli eventi, al com-
binarsi di intrecci, ma tutto avvitato intorno a poche figure stilizzate e a quel fuoco d’apologo che scalda anche le più fredde convenzioni, i rituali della ballata, le ambiguità volute e manifeste della favola. Nascono dal divertimento dello scrittore ma si innervano, seppure in modi diversi e non sempre conciliabili di stile e di ispirazione tematica e morale, nelle più fonde ragioni dell’esistere,
i ventinove racconti di Uno e altri amori di Carlo
Coccioli, che al sorriso di una sedimentata saggezza fa seguire la riflessione svelta, occasionale e talora non fusa, concentrata però in quel giusto approfondimento delle cose, non contraffatto né sublimato, da cui sgorga una pagina narrativa aderente, al di là dell’inevitabile discontinuità tonale, concen-
trica nel coagulare
messaggi
essenziali, nell’esprimere
quasi
a sorpresa cifre definitorie. Tuttavia, intorno al gesto marmorizzato, esibito esemplarmente, all’azione posta in rilievo, al
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gioco della ragione, vibra tutta un’aria mossa, dapprima dietro le quinte, poi intrecciata di complice turbamento, d'un risvolto di assurdo che Coccioli vuole trattenere in un contesto
sovente
cauto,
decifrabile,
teso
a rinsaldare
la realtà.
Altre volte la situazione si piega a sensi più stregati, sfugge per la tangente estranea alle linee normali del racconto, impegna la razionalità, l'abilità di costruzione. I luoghi migliori sono là dove si fonde con il suo stesso enigma il calore dell’esistenza capita, assolta in ogni crudezza, rapida nel rifluire in stupefatta lucidità, nell’invadere circostanze semplici, non toccate in apparenza dalla complicazione letteraria, trasferite però in fasci di ritmi che si espandono e toccano incidentalmente, o con più manifesto e prolungato indugio, altre fonti di emozioni, sintonie con l’incombere del mistero, supporti culturali, ricerche ostinate, il meraviglioso di alcune scoperte. Tutto cade sotto la lente di chi vuole spiegarsi lo spettacolo del mondo in cui non esistono segreti che possano durare a lungo, oscurità che non siano alla fine svelate, labirinti dell'animo che non abbiano la loro uscita. Una sostanza del reale, pertanto, volta a
far salire in superficie radici e impasti, brucianti visioni, anche fuori dei fenomeni spirituali o delle vicende maggiormente abbarbicate alla terra, occupando il paesaggio, proiettandovi forme tormentate, angosce pari a lunghe ombre deformanti: dalla « specie di sabbia » che aggredisce le montagne e diviene « vociferazione universale », al « velo nero, tremolante » che « aureola le cose »; dal sole che agita la città « fino alle sue oscure radici », al silenzio deciso, trascorrente
«come un fiume arido ». I personaggi, ciascuno assorto nell’ombra della solitudine, sfuggono al duro confronto con l'ostilità dell'esterno attraverso un'intensa disposizione al sogno, all’esuberanza fantastica che conduce l’uomo « verso l'interno di sé », in quel guscio fervido e riparato ove è facile attingere sicurezza e, nei momenti
di allucinazione,
riconquistare
anche
la fetta
del
mondo meno comprensibile. In parallelo urge la revisione dei ricordi: processo trainante spesso lungo zone di vuoto, nell’assenza quasi assoluta di sentimenti. Coccioli crea simboli, emblemi
di un’idea
perennemente
inseguita, di una sfida al caso. E fa ciò muo-
vendo
l’intero ambiente,
ossessiva, giocando
pugnace,
di un'illusione
su elementi esotici, su let-
terarie suggestioni di viaggi, sulla stranezza di molti intrighi, sulle linee di una natura stravolta fino al parossismo e soprattutto sul tagliente meccanismo del ragionamento, mentre lo spessore del tempo fisico appare destrutturato. Vari i motivi enucleati nei racconti ma tutti concorrenti a sistemare un elaborato primo piano dell'angoscia, dello
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smarrimento
e del delirio:
la « geometrica disperazione » del
vuoto di Dio, la problematica apocalittica, la stravagante, stranita cura della misteriosa vita vegetale, l'impalpabile presenza di figure come tornate dal regno dei morti, l’insondabile effetto prodotto da un suono anomalo, l’alienante stato dell'uomo posto di fronte al suo doppio, la facoltà di smaterializzare una
ancora,
visione, e altri spunti
spaziati
dalla « lo-
gica del sogno » alla pietà costante per il dolore e la morte. Coccioli fa emergere questo vasto campionario di tesi e di avventuroso sblocco narrativo, di saggio e di nervatura romanzesca,
da una
scrittura
controllata,
generalmente
salda
nelle sue componenti di base, nonostante l’effetto di calamita prodotto dall’irregolarità e bizzarria di tanti casi, e imperiosa nel tendere alla dura rivelazione conclusiva l’epilogo dei racconti fabbricato dalla sommersa logica delle cose impazzite, che irride
i sussulti,
le invenzioni,
chiamate senza nome, livellando risorse dell’imprevisto.
i fortuiti
accadimenti,
le
d’un colpo tutte le infinite
Presa in un « delirio indecifrabile », Giulia, la protagonista di L'uomo del parco di Francesca Sanvitale, vive in un
mondo magico: «I colori, i volumi e gli spazi della città erano cosi pieni d'importanza che avrebbe desiderato ricomporli per gli occhi e per la memoria in un teatro fatato ». La donna vuole « raddoppiare » la realtà di fuori per meglio impossessarsene, seguendo un autentico rito di appropriazione. Ma è presa dall’insidia della smemoratezza, stordita dall’aria stralunata che confonde strade e cammini, coprendo tutto con una nebbia nella quale fluttuano il palazzo vuoto nella sua fuga di stanze, il paesaggio fermato nel gelo e la figura di un uomo che si muove dietro il vetro appannato di una casa di fronte a quella in cui lei abita. In un'alternanza di sensazioni che la allontanano da se stessa,
Giulia, ora vecchia
che sparisce nel niente: sua
ambigua
assenza,
ora bambina,
ma
è un
anche
è come
un « fiato »
l’uomo, prigioniero nella
« fiato attraverso
la natura
estra-
nea e senza moto ». Misteriosa ombra che risponde dai vetri, sembra a un certo punto identificarsi con lo sconosciuto uomo che Giulia incontra in un parco vicino (« Per colpa di lei egli restava sempre l’uomo del parco, non aveva presente o passato, non una casa o una famiglia. Persino il suo nome era superfluo. E se fosse un fantasma? si disse una volta. No, un fantasma no. Restava l'ipotesi che fosse lo sconosciuto del palazzo di fronte »). x RT Giulia, dal fondo della malattia, dalla solitudine, dai ricordi, tende all’amore-incantamento, a una conoscenza iIne-
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briante e segreta alla quale però si sottrae con un « sobbalzo
d’allarme ». Dall'esterno, da una natura sospesa e irreale, stilizzata, e inoltre morbida e avvolgente, da una bellezza immobile e senza storia, impassibile nel suo esistere, partono 1
messaggi e si fondono con il flusso di sensazioni che la donna talvolta riesce a esprimere, talaltra torbidamente patisce. La storia prende spazio nel labirinto della città, « tetro e bianco », ove i personaggi, « due nere pedine impazzite », non possono trovarsi. Ma nella città, palcoscenico di rappresentazioni mostruose, uscita dalla glacialità dell'inverno e sfaldata nel caldo dell’estate, i passanti sembrano « anime liberate dal corpo, portate da un’euforia astratta e senza conclusione ». E Giulia, in una natura che disserra un « tragico significato », sente la spasmodica
attesa
del miracolo,
entra
sequenza enfatica dell’estasi, vede luoghi nuovi come te »
che
solo
unendosi
possono
dare
un
senso,
nella
« quin-
trascorre
un’esistenza-sogno al di là del tempo inesorabilmente volto a distruggersi. Passano intanto gli anni e i due continuano a vedersi, « tagliati fuori da qualsiasi fatto », catturati in un meccanismo ripetitivo, in ore scomposte dall’irrealtà: l’amore-ossessione di Giulia, lo sgretolarsi di ancoraggi concreti, i volti circostanti trascinati in vortice si adeguano ai modelli della finzione, per poi presto sparire nel « complicato flusso composito » che è il battito del mondo, solo in parte decifrabile. Allo sfumato intreccio delle atmosfere seguono — a mano a mano che la narrazione procede nei concentrici giri — contorni più netti, si va precisando un microcosmo familiare diviso, emergono le sagome dei due figli di Giulia e quella di Pietro, il marito, « guardiano » dell’« incomprensibile disperazione » di lei. Intanto, da un paesaggio smaterializzato ed esotico, tramato di memorie e di incorporee latitudini psicologiche, fermo nella sua chiusa bellezza nativa, provengono sensazioni pienamente pronunciate o allontanate nel vago. Trionfa l'inquietudine di Giulia, il suo patire « qualche cosa di smodato, una spinta eccessiva, una specie di insania », il suo ritorno all’infanzia, a una vita limacciosa e onirica, con
vagabondaggi per la terra di Grecia, sulle orme dei miti, e romantici pellegrinaggi tra le rovine, che riportano oscure meditazioni sulle origini del mondo (« Oggetti, luoghi, tendenze, fatti: Giulia era al centro di un insieme di forze che si spiegavano una con l’altra, si producevano a vicenda in un colossale sistema che diventava tutto chiaro nella sua perfezione »). Avviandosi all’epilogo, il racconto ancor più rallenta nell’indecisione tra echi spenti e reiterati della visionaria vita interiore di Giulia e l'’enumerazione cronachistica dei fatti, la
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rappresentazione minuziosa e vicina alla nota informativa greve. Si scivola verso qualche pagina preziosa e miniaturizzata, come nei passi del « teatrino agreste », nel quale si rifugia Giulia: luogo frequentato da figure goticheggianti, come l’eccentrico padrone delle bambole « impiccate e torturate », gli uomini « scolari della morte » di fronte al piacere, la vecchia del «regno delle maghe e delle streghe ». Il mondo si appiattisce in uno « scenario di cartapesta » (cadono su una Roma illividita i fatti duri della contemporaneità, gli eccidi, le violenze: il calendario della Sanvitale li scruta e forse si appaga della loro drammatica risonanza, dissolto il recinto dell'io che non conosce più favole), mentre Giulia è ancora un « fascio di sortilegio », incapace di uscire dalla confusione, dilaniata dal buio di dentro e da quello circostante (« Anche fuori era scoppiato un inquietante
malanno... »), dal pro-
prio stato di disagio e dalla follia devastante degli altri, da una situazione nemica, specchiata come da sempre nella natura indifferente, nel tempo che « filtra e va via » e vanifica anche i ricordi, rendendo vana ogni cosa, uguale nella sua irraggiun-
gibile dissolvenza. Una pianificazione polverosa della vita (« In una cassapanca era stipato l’universo confuso dell’amore e del tempo. Pensava a Pietro: angoscia e dolore sono nelle vene
degli uomini,
il loro mistero, il loro destino.
Decifrarli,
come è possibile? »), nella quale niente che sia eccezionale è in grado di resistere a lungo, neanche il « tumulto » che prima o poi diviene « stabilità », « sicurezza ». La memoria
si espande,
vibra
e sfavilla dietro
tensioni
comunicative, si dilata fino ad adattarsi a movimenti di racconto totale, a crescere all’interno di articolate e talvolta fre-
netiche ricerche di spazi noti da riassaporare nella dolcezza di cristallini ritorni. E l'invasione dei ricordi continua, conquista altri nomi, linee di paesaggio rese flessibili dal riascolto: colori e gridi che la scrittura riprende senza sforzo di eccesso ma classificando quasi con ordine puntuale, sia pure un
poco
ozioso.
Le
emozioni
sepolte
si svelano,
fatte
rare
senza che perdano mistero e assillo. È il teatro narrativo di All'ombra di mio padre, viaggio a ritroso che Alberto Vigevani compie per ritrovare vecchie cose e uomini rivisti in un « felpato ralenti », la commedia dei quartieri di una Milano dell'infanzia che conserva un « suono fiabesco e insieme familiare ». V'è, certo, compassata intonazione musicale in questa romanzesca salvezza — le vicende si accordano vicendevolmente uscendo da favolose lontananze e assumono declinazioni prosciugate e severe e serene, dopo che si è perduto
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l'amaro
di una
« misura
temporale », distanza
che
« sa d’ar-
cheologia », e si è conquistato duramente il senso della storia — sempre più aliena dal rischio di qualche eloquenza, di calligrafico restauro o amore per il cesello. LO Lg Un gioco di chiaroscuri e di trasparenze, con ironia e con passione rubato al gusto più ampio e pausato del ritratto della città e alla cura definitoria dell’illustrazione dal vivo, domina
su una
vena
lirica, accesa
da nativi
stupori, e la fa
amabile mediante una più cauta partecipazione, una rilettura del trascorso piccolo mondo che spegne i clamori, i particolari arcuati verso prospettive anomale, donate dall’alternanza di presenza-assenza. Vigevani non ribalta le visioni più definite e sa bene calarsi in quel se stesso di prima, personaggio « minuscolo » se confrontato con la « grandiosità » di alcune scene nelle quali il ricordo ora lo arresta. Immagini « festose »: a richiamarle,
sembrano
volare come
«iridate
bolle di
sapone », schegge di un mondo lievitante, alleggerito, in cui tuttavia si inchiodano segni concreti, scoppiano palpiti di un’epoca individuata con esattezza nel contesto armonico della rievocazione (le figurine Liebig si pongono accanto alle illustrazioni di Beltrame sulla « Domenica ») e soprattutto in quella veste che la distanza gonfia di mito. Ma pure filtrando tutto nell’ironica sapienza di una partita intelligentemente condotta con i propri fantasmi, Vigevani non vieta l'ingresso della visione al piano inclinato di una leggera deformazione che sorge dalla forza egemone esercitata sul racconto dagli implacabili percorsi dell'io nel suo doppio ruolo di oggetto di racconto e di narratore maturo, consapevole di una prigionia, della
dolcezza
favorita
dal
rito
del
ricordo
e dal
suo
arcano. Con ambiguità si spazia tra quel simulacro fanciullo, però immerso corposamente nel suo regno fantastico, tutto preso da un reale che si trasformerà in fiaba, e l’estensore del
diario di oggi, il quale corregge, garantisce il proprio ruolo di osservatore, integra e si diverte nella « nostalgia alquanto ingiustificata » del guardare l’infanzia: oscillare tra due sponde di vita, due registri di contemplazione e spremere un dolceamaro sapore di errori illusivi e di verità troppo nude e vuote. E non v'è ossessione di ricordi nella luce del passato rivissuto, mentre i personaggi sono dentro quella luce docile e al tempo stesso teneramente sacra e sonora, e con illimpidimenti che rispondono alle intime ragioni di Vigevani che usa anche lo schermo
sura che consente come
di una forma letteraria, di una mi-
alle immagini
più irregolari di rimanere
sottofondo diffuso, tonalità increspata e vagamente
stre-
gonesca, immobile nello « smaltato risalto » e forata per un attimo dall’apparizione di volti e gesti subito riassorbiti.
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. In trasparenza si muovono il personaggio del padre, dalle: cui parole sprizza l’esca che colpisce la fantasia del giovane, e crepuscolari profili di donne che sfiorano gli oggetti e sì perdono nel colore cenere di ambienti sfibrati, di un angolo « armonioso e compiuto che forse non vale la pena di rimpiangere, ma che — sottolinea l’autore — a me piace raccontarmi, nel girare per le vie senza una meta obbligata, riconoscendo case e scorci ». L'apparente levità di sipari, che la mano
dell’artista burattinaio
solleva, non nasconde
un sof-
focato annuncio di morte manifesto nelle pagine finali, dove: una lugubre recita affastella in un « tetro spettacolo » il catalogo di tante angosce, di tormenti. Dall’innocente intreccio toponomastico che puntella l’arioso sfondo domestico dell'avvio del libro, la memoria sollecitata giunge al pietrificato incubo della morte in vetrina (« La lugubre esposizione dei poveri resti, ingialliti o anneriti dal tempo e allineati in un barocco apparato di mortificazione, emanava, sotto il vacillante riverbero della candela davanti all'altare, un lucore che
la rendeva animata, incutendomi un senso cupo di spavento... ») e al rigido regno delle cose, « idoli » che « accompagnano in silenzio la nostra esistenza ».
Più che da affollate vedute di paesaggi esotici, da inventari di notizie curiose, di costumi sconosciuti e affascinanti o dal-
la disposizione a catalogo del nastro del racconto, Notturno indiano di Antonio Tabucchi è animato da contrassegni allusivi, dall’affiorare e dall’affondare di un tema che nelle sue molte:
cadenze a spirale diviene incessante rinvio di allarmi: distacco e attesa di una voce, di indefinibili timori. Dopo la durata
del colore
locale,
dopo
il carosello
del folklore,
infida
risale dall’ignoto che è intorno alle cose una risposta ostinatamente contraria, si apre un abisso difficilmente colmabile. La ricerca di un amico disperso in India è la pista che, improvvisata di volta in volta, permette al personaggio narratore di immergersi in un fondo di figure, apparizioni, a poco a poco messe in sesto da una tecnica di appropriazione che va scoprendo circostanze preziose o poste in rilievo prezioso, mentre
la memoria,
« formidabile
falsaria », innalza
aspetti
segreti, inediti, contaminando reali giorni del passato del protagonista con il vasto orizzonte del suo immaginario. Crescono cosi i profili condannati a momentanee quanto taglienti comparse: la giovane Vimala che sa purificare con cura una storia d'amore di « brutture » e « miserie »; il medico del sordido ospedale, protetto da un’aria « assente da preoccupazioni »; l’inquieta, enigmatica fuggiasca signora, incontrata
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dall'uomo in un grande albergo e il « saccente e presuntuoso » membro di una società teosofica; e poi il mostruoso indovino e il vecchio pazzo dell'incubo; il postino di Filadelfia perduto nelle sue chimere e Christine, giovane fotografa. Cresce, intanto, pure il ritratto di Xavier, l’amico protetto
da indizi generici, un bersaglio che finisce per comprendere tutto lo scenario;
e si confondono
le certezze in un inesauri-
bile aprirsi di panorami, ambienti, interni di alberghi, strade formicolanti, quartieri disfatti nella degradazione e nell'orrore, tappe di « percorsi incongrui » che pur sprigionano una loro occulta logica. A frammenti si leva il volo di fatti ormai sepolti negli anni, che il narratore non porta a compimento, lasciandoli cadere sul confine di « contorni insospetta-
bili, nitidi » del viaggio, perta di sé, nebre. Rapida,
e galleggiare mollemente tra oggetti e comparse tra le « tracce » di un gioco la cui posta è la scoil bisogno di non arrendersi al negativo, alle tepriva di fronzoli, irta di avvenimenti determinan-
ti, la scrittura non subisce, nella verbalizzazione dell’inchiesta, i ritardi e le perplessità dell’ansiosa rincorsa dietro i mi-
raggi che costellano la vita: colma di bridivi, consapevole del rischio che circonda ogni viaggio dell’uomo, questa scrittura, tanto adatta al racconto,
si raccoglie, senza
disturbanti
divagazioni sentimentali e saggistiche pause, intorno al richiamo, anche pedagogico, finemente ironico nelle interne tramature, di chiarezza, di bilancio. Ma il viaggio rimanda ad altre stazioni; la meta è un abile e lacerante parlare dell’affanno, vederlo
riflesso in volti miracolosamente
fermati
pri-
ma che ricominci l’abisso. In un
paese
imprecisato,
il « dittatore
latino » Macno,
« giovane e scuro, agile », vive circondato da una folla variopinta di ospiti-sudditi, in un palazzo immerso in un parco stravagante.
Macno
è un uomo
magnetico,
carismatico,
inva-
so dall’ansia di « scoprire i meccanismi, impadronirsi delle chiavi » della vita; compie ogni atto, più o meno importante, con la stessa tensione, lo stesso impegno, il bruciante ardore di far presto,
senza
« tempi
morti », « lentezze
forzate », af-
fascinato da una visione utopistica delle cose. La sua corte, « mischia » di gesti, parole, inviti, blandizie, una sorta di « parcheggio per cortigiani frivoli », ma anche cerchio rigidissimo, vigilato, apparentemente impenetrabile, è violata dal-
l’arrivo di due giornalisti televisivi, Liza e Ted, attratti dal progetto entusiasmante di un'intervista esclusiva al dittatore. È questa la prima situazione narrativa di Macno di Andrea De Carlo: contiene tutti gli elementi di una pagina che
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intende principalmente badare ai fatti, regolati in intatta ve-
locità e destrezza,
secondo
gettiti generosi
e tensioni
forti,
non ignorando tuttavia il compito
di raccogliere, richiamate
distanze, atmosfere
vaghe, attonite vibrazioni
da inafferrabili
non si sa bene di quali fonti annunci. Un che di felpato, mente, gira con i gesti più circonda l'impronta di una campo
di osservazione,
di emissione, di quali stravaganti animato ma non espresso visibilnaturali e raccontati pianamente, fisicità tutta protesa a saturare il
diffondendovi
forza attrattiva, distur-
bo calamitante. La secchezza del dettato, l’essenzialità quasi rudimentale: della sintassi, il lessico usuale e mai rialzato (accarezza molto:
le cognizioni di obliquità, flessibilità, rallentamento, sospensione, ansia, precipizio e si incanala in frequenti costrutti polisindetici) portano una intensità progressiva di immagini, ma ne scalfiscono leggermente le superfici e insinuano, l’una dietro l’altra, le smagliature. De Carlo non si propone di approfondire subito i fatti: la loro successione incalzante, con quei rapidi scossoni che li abbattono prima che possano consistere, va
invece
confermando
una
situazione
di dinamica
del
reale a cui l’uso del tempo presente oppone qualche resistenza di monotonia, di affaticato transito (e si pensi al parlato: aperto e concluso dal devitalizzato stilema « dice »), in ultima analisi una pienezza stracolma di ristagni Indubbiamente lo scrittore, arrestando per breve tempo le sequenze e sistemandole come in attesa, sull’orlo di altre nuo-
ve, disposte ad assorbirle, cerca un anticipo di inquadratura, una lieve pausa dalla quale proviene certa sensazione di complicità, di sottile intrigo, di indefinibili sfinimenti. E pure di crescita,
di avvicinamento
a determinati
problemi
resi sem-
pre più attuali e ammiccanti. Il panorama delle tematiche affrontate si allarga considerevolmente (dalle televisioni private alla corruzione politica, dal degrado morale ai sotterranei umori di riscatto, dalla sopraffazione dell’uomo operata dal progresso tecnico all’eterna paura del vuoto), mentre la figura di Liza si slaccia dal concreto, « lontanissima da tutto il resto, in un’oasi di sensazioni pure e infantili », e in segui-
to « persa nello spazio, priva di equilibrio », in attesa di tracce, orme da seguire per prolungare una risposta alla propria identità che sembra, a tratti, volersi cancellare e trasformare in estenuate auscultazioni. La storia d’amore della ragazza con Macno va scoprendosi di sorpresa in sorpresa e si intreccia con una ragnatela di situazioni concentriche: la vita attiva e annoiata del palazzo, le cerimonie, zioni e il lavorio
i discorsi ufficiali, la facciata delle convensubdolo delle ipocrisie, il fervore accecante
delle rivalità e, ancora, lo spaccato sociale, la città piena di
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fermenti, con la « vitalità da vecchio luna park» e i « milioni di vittime della vita che al massimo esprimono piccole ‘opinioni marginali », gli uomini
che non
hanno
idea di cosa
succede e vivono « manipolati da altri». Le vicende indi viduali e quelle di tutti si serrano in un copione ben studiato anche se, in qualche occasione, prevedibile: Ted e la ballerina milanese che corrono « sincronizzati sullo stesso ritmo »;
la mediocre di nuovo;
scrittrice Gloria che non
Palmario,
indeciso
sa inventare alcunché
se scrivere una
storia o sempli-
cemente viverla; Dunnell, botanico « svagato », protetto dalle sue frasi sciatte e generiche; Ottavio Larici, rigido nella « successione di mosse rituali » e tanti altri vanno adattandosi al loro « piccolo stereotipo », entrano pigramente in una parte che non ha scampo. E anche Macno, fervido nel suo passato di uomo di spettacolo, straordinario per le capacità di comprendere gli umori della folla, di stupire seguendo inflessibilmente la corsa al potere, infine, « fragile » di fronte alla « desolazione », è una
vittima del proprio personaggio, del compito fatale su cui « convergono le aspettative e le tensioni di tutti ». Il racconto si trasforma cosi nella trascrizione molto coerente (e l’adozione di un'ottica staccata di ripresa ne sottolinea quasi l’intangibilità) di uno « stereotipo collettivo », di una condanna implacabile dell’uomo che proprio la scrittura, regolare, cronachistica, volutamente
disadorna,
con
un velo d’ironia
e in
‘ogni frangente incollata alla conquista di gesti e casi minimi, tra referti e rispecchiamenti a volte un po’ grotteschi, filtri e mezze luci, trattiene a lungo e di colpo propaga in un rincorrersi di echi: è l’« infinito simultaneo » dei giorni stregati da un ingannevole destino di libertà e di espansione. Estrema
vicinanza
alle cose
e, al contempo,
irrimediabile,
vertigi-
noso prendere le distanze: l’oscillare non solo della scrittura, ma di tutto l'universo che essa reca con sé in quel suo staccarsi da se stessa con maliziosa coscienza, non ha tuttavia ca-
ratteri clamorosi.
:
Il paesaggio opprimente, di corpi e materia, può inaspettatamente farsi metafisico; prima denso e poi raro, come l’aria che i personaggi respirano, subiscono, attraversano. Tut-
to è subordinato a un controllo radente e pure esposto a pe- | ricoli senza nome, tutto è incerto, nebuloso. La stessa intervista a Macno, promessa e data per sicura, è inesorabilmente
rinviata, acquistando il dubbio di una meta irraggiungibile: un altro aspetto dell’inafferrabilità della vita che si nasconde e si pietrifica nelle sue celebrazioni. Macno è un segno di tale inafferrabilità, imprevedibilità, anarchia: un segno come altri, travolto, condannato a rientrare nella ripetizione della propria forma. D2
Il «trucco del raccontare bene »(« far scoprire le cose un pezzo per volta » e mai in successione ordinata) è il progetto narrativo che Giuseppe D’Agata rovescia a piene mani in America oh kei: favola, balletto, recita, pamphlet e puzzle, tra le frantumazioni aspre dell’appunto, della prosa morale e qualche pausa riassuntiva della pagina dettata da illuministica invenzione e mai del tutto scorporata dalla doppia natura di saggio e di parabola. Il fuoco e il fumo dell’officina e gli strumenti di lavoro esibiti dall’artefice insieme con le più libere favole, sofisticando un po’ gli effetti scenici e gli stessi elementi
interni,
costitutivi
del
racconto,
producono
e gui-
dano, con una irregolarità sorvegliata dalla logica, una cascata di materiali grezzi, un diluvio di schegge. Ed è allora proprio il ritmo dell’elaborazione romanzesca, portato in stampi oppositivi (geometrico-convulso, celere-pausato, esilefluviale, silenzioso-oratorio), a costituire il telaio flessibile del copione di Riccardo, io monologante e intrigante, « ragno velenoso », uno « scarto, un rifiuto, uno zero », sempre « nutrito d’odio »:
essere
deforme,
dal « collo di rettile », tesse tra-
me
« criminose ». Preso dalla noia, dal tedio, egli spia da venti teleschermi a circuito chiuso ciò che avviene nella reggia del padre Edoardo, papa-sovrano imperante nell’immenso palazzo fatiscente,
invaso da valanghe di immondizie, come è ormai costume (« le abitazioni non sono che dei contenitori ») e « religione » dello sterminato Paese d'America, dominatore del mondo, in
quel fantastico futuro della civiltà post-atomica che ha abolito la scrittura e limitato la comunicazione orale a duecento parole ritenute necessarie e all’ossessivo uso delle esclamazioni, « sale della lingua ». Da un lato impera assoluto il silenzio degli uomini, di una società che ha l’obbligo di smaltire montagne di spazzatura per non interrompere l’inesorabile ciclo trinitario di produzione
consumo
rifiuto;
dall'altro,
ecco
il libro, la shakespea-
riana tragedia di Riccardo III, sulla quale modella il comportamento l’eroe negativo, lo scherzo della natura privo di segreti da svelare, mostruoso personaggio, « molla compressa al massimo », che
striscia,
zampetta,
barcolla,
brancola,
ar-
ranca, si appiattisce in mezzo a una folla di « cuori duri »: militari e cardinali dai nomi mitici o evangelici, la corte dell’assurdo
regno, il cerchio
dei familiari, tra cui la madre
che
Riccardo uccide, e un gruppo di europei. A incatenare le forme paradossali e grottesche delle avventure,
le molte
maschere
che
celano
tante
immedicabili
realtà del nostro tempo, è l’ironia che si abbatte sul potere, sulle leggi politiche ed economiche, sulle « regole primordiali » dell’esistenza. Il guazzabuglio dei fatti chimerici, della
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farsa, risulta inciso da una filigrana resistente che non si disperde nello straordinario delle vicende. Ed è amara mequesta
ditazione,
insidiata da afasia, dovi-
si, eloquente, non
ziosa di tutto il lessico possibile della delusione dell'autore: capitolo fondamentale di quella fisicità oscura che il racconto tratta come allegoria e metafora. Una prosa rissosa, ora ambiguamente inceppata e stagnan-
te, ora rapida, telegrafica, tutta tagli, interlineature, invocazioni ed ellissi, lesta a stimolare la sorpresa, attraverso l’ever-
sione della tenuta sintattica o mediante la semplice giustapposizione di termini nevralgici, declina incalzanti battute, cocci di commento,
metalliche
informazioni
didascaliche.
La
mossa scenica, in un paesaggio smozzicato, assimilato alla travolgente icasticità di sguardo del luciferino protagonista, c'è sempre, inaccessibile, impervia, tra gli strappi dell’enfasi dello sberleffo, ma
e gli sfregi dell’ironia,
con
alla radice
un
distillato accanirsi su tempi, distribuzioni di parti, schermaglie, microstorie che ruzzolano nella tela narrativa volutamente sconnessa eppure diretta dalla strategia superiore del che si riflette nei suoi
racconto
argomenti,
nella
« partitura
per esclamazioni e parole ». Intonati da alcune pagine di preludio, i nove racconti di All’insaputa della notte di Rosetta Loy rappresentano il tentativo di « eludere » la « mobilità » del tempo prima della « grande notte » e rinviano, l’uno all’altro, sempre la stessa disperata immagine dell’estate del 1939, ferma nel cristallo di sentimenti soffocati, voci smorzate, comportamenti appena rivelatori, disegni incompiuti, malinconie che finiscono per appartenere più alle cose, alla misteriosa dispersione dell'esterno da cui possono venire le risposte, al variare delle scene,
che agli uomini
minacciati
dall’'incombere
della guer-
ra. Una piccola folla di volti chiamati all'ultimo atto non può più provare felicità, quella stranita emozione di una parola
ormai
« circoscritta,
senza
memoria », mentre
il do-
lore si espande come un « inchiostro sui prati » e pure l’amore si dissolve come l’« inchiostro diluito dalla pioggia su un foglio dimenticato all’aperto ». Le cose narrate,
tano
i fogli staccati
sulla soglia del buio:
atmosfere
i moti
da un
album
dell'animo
sereno
si perdono
aeree, in echi flebili, privi della tensione
esi-
in
di essere
raccolti, scollati dalla intensità della voce che parla. La realtà appare vagamente turbata non tanto dal futuro, che pur si avverte insidioso con l'agguato della morte, quanto dalla perdita di alcune immagini che la scrittrice sottrae per meglio osservarle,
54
per
porle
davanti
a uno
specchio,
scandirle
con
altro ritmo, con una nuova disposizione che allinea fatti insignificanti, subalterni, particolari periferici e momenti gravi, decisivi, azioni sconvolgenti o calcolate, e ancora sguardi, fruscii,
sottintesi,
lunghissime
pause,
musicali
affanni.
La vita scorre in lenti giri, forse fiuta il trabocchetto del domani,
e si riversa
con qualche
brivido
in rivoli di silenzi,
tentazioni, in zone (dell'ambiente o dei pensieri?) appartate, nelle quali improvvisa emerge la giornata tumultuosa, splendida anche nelle vesti più usuali. La lancetta sensibile del racconto tocca i punti di un paesaggio umano omogeneo, svela abitudini
protette,
l’esistenza morbida,
le case
dei ric-
chi, «ove tutto avviene in tono smorzato », e passa su prigioni dorate, ma scorrendo lascia una smagliatura, un graffio, un tocco d’opacità: le isole privilegiate hanno un tarlo, una ferita nei cammini degli abitatori, vinti finalmente dal rumore dell’esistente, dalle passioni, in fragili vicende, per l’attenzione rivolta dalla Loy a voci di transito, a onde di sospetti che fluttuano e non trovano una riva su cui fermarsi e divenire eventi tangibili. E intanto anche la natura stenta a pulsare, a ritrovare le
sue linee più dure e, quasi partecipe di un’aria di diserzione, si attarda, si nasconde dietro colori immobili, attoniti. I personaggi trascorrono ai margini della cronaca, a sua volta sfo-
cata, impalpabile, coperta di polvere preziosa, mentre scatta l'intervento diretto sulle creature e ne prefigura talora il destino drammatico: è uno stilema che lista, sinistro, l’attutito scivolare di indifese esistenze. In un clima di attesa, di in-
terrogativi stremati nella spirale della tragedia d'Europa, passano giovani figure femminili colte in guizzi di luce dal gioco crudele di brevi gioie e avvisi della fine. La scrittrice, consapevole della rapina della storia, sospende gli intervalli fra gesti che dividono il prima e il dopo di una vita e, nella pagina cauta, con venature liriche ed epigrafica disciplina di risonanze tematiche e innamoramenti di emozioni umbratili, stempera i fatti fino a renderli un fiato nel paesaggio. Armonista,
Calavà cerca
« un mestiere
che la gente non
« accordi, musicali
capiva », Tito
si capisce, nelle pagine dei
libri» e soprattutto insegue, « scosso da pensieri oscuri », un ideale di vita « squisitamente armonica », modulata nella vastità delle intese, nella circolazione sintonica delle parti,
nella rispondenza di momenti dissimili. Una ricerca di concordanze nei libri e nella vita sta perciò alla base del mondo del personaggio principale di L’armonista, storia con la quale Giorgio De Simone
dall’ansia
traccia il destino di un uomo
di « congiungere,
che, preso
legare, unire per stringere nelle
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mani
il senso
se non
di tutto,
di quasi tutto », si divincola
dalle pastoie della terra ignorando le più consolidate costumanze, le comuni garanzie di comodo. E patisce l’ostilità di chi, come la moglie Laura, combatte invece per « guadagnare qualche centimetro di spazio » o di chi, come il cugino Naso, « esperto nell’amministrare patrimoni », si mostra abile nel
gettare sul tavolo la carta vincente. Lontani, perfettamente inseriti nella realtà e disponibili alle più moderne, sofisticate sollecitazioni
della
tecnologia,
sono,
dal canto
loro, i colle-
ghi dell’Agostiniana, l'università milanese nella quale l'uomo insegna, ma da confinato nel minuscolo Istituto di Armonie, «due stanze chiuse in fondo al corridoio del Diavolino », roccaforte ed esilio, eremo ricco di preziosi manoscritti, di
libri rari. L’armonista
è estraneo
alle cose
contingenti,
usuali,
al-
l'avventura giornaliera piombata nei suoi immediati allettamenti, a tutto ciò che è regola pratica, « strategia del calcolo ». La linea del racconto si bilancia allora tra due emisferi in contrasto ed equamente vivificati da sorprese: quello astratto, intellettuale dell'armonia purissima, sponda inaccessibile e ridotta a impalpabile costellazione di verbali effetti, sensazioni
auscultate,
gioie stranite, nella scoperta
riosi, sottintesi rapporti:
di miste-
un vivere su eventi avvenuti, oscil-
lando tra estasi e allucinazioni;
e quello sovrano, sordo e sen-
za intesa, delle cose che si adattano agli obiettivi da perseguire, diretti sempre verso un bersaglio. Il raggio della vicenda tocca gli stadi di un'avventura interiore confrontata con gli urti dell'ambiente e riflessa nelle immagini della natura: ed è fenditura del guscio che ripara l’inviolato incantamento di Tito. Scorre uniforme il paesaggio innevato
di una
Londra
immensa,
alienante
e inoffensiva,
in
cui Tito è costretto a recarsi per incontrare l’anziano padre che, dopo aver fatto fortuna, respira l’« aria dei vecchi sapienti di oggi », e per farsi riconoscere l’eredità dalla quale ovviamente finisce per essere escluso. E intanto risalgono senza rimarginare le ferite certi sfondi siciliani e trasferiscono al presente i giorni dell’infanzia nella grande casa di Palermo,
fredda,
coincidente
con
la fine
delle
favole.
Ancora
in nuovi interstizi si infiltrano le scene degli interni severi ‘ della biblioteca universitaria ove il protagonista, da giovane, ha imparato a conoscere il peso, le sfumature, le cifre delle parole a cui ora, da armonista, indica la « rotta », inseguendo nuove logiche, inedite connessioni, sorprendenti eufonie. Il filo rosso del racconto è l’incontro con il padre: ha
quanto occorre di vivacità narrativa ed evoca da statici spunti saggistici un sotterraneo fervore, un sussulto, il guizzo di un gesto. L’armonista, in un vortice di dissertazioni astrat-
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te, si sente come «un ascensore bloccato a metà, pronto a salire, ma intanto fermo », mentre lo spettacolo delle cose
può restringersi in uno scenario alluso, non osservato nella sua misteriosa, brulicante trama. Uscire dalla « piccola platea accademica colta e dogmatica » e andare verso gli infiniti, caldi fiati dei giorni è la tensione del libro: le fredde seppure alte conquiste della scienza, i simboli delle aspirazioni umane, le esigenze della ragione e della fede, le innumerevoli verità che confondono e la sola verità profondamente voluta, le battaglie per la libertà di pensiero sono problemi che si sovrappongono, si incrociano, saturano talora la pagina nella cui filigrana si ricama inoltre il disegno di antiche civiltà mediterranee e di leggendari culti. De Simone si sforza di trovare strutture docili, sviluppi romanzeschi.
Ma
quell’ombra
di incontro
d’amore,
tra Tito
e la giornalista Olimpia, si scartoccia a fatica dall’involucro greve, razionale, e l’opportunistica riunione di parenti a Londra appare smarrita nella galleria di ritratti predisposti a sostenere una tesi: di qua esplode il comportamento economico degli altri, « cellule di avidità », di là si manifesta la solitudine del protagonista, « professore del sogno ». La narrazione sommessamente pedina la ricchezza dello spirito e protegge il linguaggio dei sentimenti disinteressati dalle sopraffazioni della società utilitaristica. A loro volta, le parole, « strumenti che si accordano soltanto con il suono dell’attenzione altrui », rischiano di trasformarsi in una nuova fa-
scia di isolamento: non sempre affrancano dalla sofferenza e dall’esclusione e devono trovare riflessi per comunicare, per innestarsi nel conflitto più ampio che il romanzo suscita: l'adeguamento difficile del piano delle idee a quello della storia. Tito è costretto infine a prendere atto che anche la stirpe per sopravvivere — è questa la dura lezione imparata dal padre — deve incanalarsi nell’« impetuoso fiume del denaro ». Cosi egli continua la sua esistenza di emarginato dagli affetti familiari
e, non
avendo
potuto armonizzare
il mondo,
armonizza se stesso regredendo all'infanzia (« Suo padre aveva toccato prima un tasto dopo l’altro, e lui s’era ritrovato uguale a dieci anni, uguale a uno che non conta niente ») e restando sempre un « grande vulnerabile ».
Impedire che il mistero sparisca nelle cose dalle quali naturalmente sorge, entrare nei suoi dispositivi e ridurlo alla nostra vita, « afferrarlo » nelle occasioni di un duplice viaggio, « del mistero in noi, di noi nel mistero », centrato nel fervore delle cose sensibili: le pagine di La donna delle meraviglie di Alberto Bevilacqua respirano quest’ansia, quella
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ricerca dell'ignoto che è eterno nell'uomo: lettura del buio che invia segnali insistenti, gli interrogativi di un assurdo riproposto nelle immagini del passato in crescita con le abitudini, risonante
e silenzioso, benefico
soccorritore
e pavido
fuggiasco. i y Una notte, nella casa del protagonista, scrittore, viaggiatore, uomo di cinema, più volte «in sella all’Ippogrifo » del suo
conterraneo
Ariosto,
entra
presenza
una
femminile,
un’« intrusa ». Il volto non è distinguibile, il corpo appare come una « sagoma oscura », ma il sorriso parla, « amoroso e tiranno », all'uomo
« inventore
ambulante
di storie », sveglia-
tosi con la sensazione di « qualcosa di straordinario ». Ha inizio un giallo che di giorno in giorno cresce fitto di colpi di scena, dentro un’aria magica, dagli « umili contorni », nei meandri di una fantasia che più si fa glaciale più si accende, ritagliando gli oggetti e i volti da un teatro rutilante, battuto da luci e voci violente,
ferito
da un’oscurità
che
si ripete,
composto e ricomposto, sussurrante da ogni quinta. Il paesaggio è rissoso, ma sa anche implorare, ha i suoi abitanti sconfitti, la tetraggine che solo l’indulgenza e il sorriso dell’autore qua e là trasformano, levigano, adattano talora come in una storia di appendice, laterale e quasi in procinto di uscita, e ripresa, ricantata in brucianti
accordi,
riadattata
al
fremere dell’invenzione (« Le storie mi vengono per analogia. Mi basta un pretesto e subito la fantasia se ne impadronisce »). È la cornice, allora, la innocua vicenda intrecciata dalle illuminazioni dei fatti, a distanziare quelle « avventure di un lazzaretto » che sono le forme stravolte, le parole cariche di insidie, le corporeità orrorose dei primi piani. Dalla cornice sembrano scaturire i personaggi portatori di « intrusione »: la sconosciuta, appunto, e anche l’io narrante, altro « intruso » intento a esplorare il « rovescio desolante della gioventù », ad alleggerire il peso dei propri anni, per un bisogno di mistero. Ma l'approdo resta la realtà quotidiana visitata da tutte le tentazioni e distrazioni possibili, dagli incontri perduti, dagli appuntamenti mancati: la realtà ripetuta dall’eterna trappola a cui è impossibile sfuggire. Di scatto in scatto l'uomo rimane coinvolto nei lacci di un cammino che progressivamente lo stringe. La caccia alla sconosciuta passa da- ‘ gli indizi labili a piste più definite e subito cancellate, rinnovate in tracce vivaci che corrono parallele alla risonanza aperta puntualmente dalla memoria con le sue fughe verso il mondo tentatore delle nebbiose terre del Po. È l'orizzonte padano al quale Bevilacqua torna ritualmente tuffandovi il suo personaggio (il velo che copre la presenza autobiografica — « Nelle ville lungo il fiume dove sono nato, a cui i crepuscoli
sui greti, ricchi di miraggi, davano
58
la trasparenza
di palazzi
di cristallo... » — si straccia lasciando lo scrittore sotto i lampi dei riflettori), tra nostalgia sottile e una punta di trionfante esultanza per le incontaminate leggende fiorite nei giorni, per quella piccola urna dei sentimenti nella quale i personaggi a fiotti, sanguigni e avventurosi, fieri e sognatori, deboli sovente ma in un'aria di epopea, penetrano e si fanno sacri al ricordo:
dal Maronti,
inesauribile
inventore
di storie,
a Ferrante Merli, fotografo di sogni; da Alfio Argentieri, cacciatore di storioni, a Oberta, prigioniera di un inappagato desiderio del canto, ai genitori del protagonista, alle tante figure sprizzate da un paesaggio che appare frammento di eternità. E lo sguardo si solleva infatti anche dalla terra padana trasferendosi in altre memorie e sogni e deliri: ad evocare paesi dove « eventi che possono apparire soprannaturali rientrano nelle leggi della natura ». Invischiato in un’« inesplicabile tela di ragno », il protagonista cerca nella sconosciuta sempre più vicina e remota un proprio inconfessato miraggio, l’immagine di « ciò che si ha e non si vuol ammettere, e si perde per il gusto autodistruttivo di perderlo »: e moltiplica affannosamente gli incontri con persone nuove, diverse, o ritenta, in un pellegrinaggio liberatorio, il regno del suo tempo trascorso, eroico e picaresco, malinconico, popolato di fantasmi che è arduo « arginare ». Apparizioni che vogliono rivelare l'ignoto delluomo
o deriderne
la storia,
mentre
le azioni
frenano,
si
eclissano, si rifugiano dietro i simboli. Passare anche attraverso questo inferno, di morte e di resurrezione, oppure immergersi in una Roma pietrificata nei suoi stupori, però vibrante volosi,
di sussulti, stralunata (« Scoprimmo monumenti fatorri altissime e basiliche stravolte »), è un destino,
un invito. L'io percorre
i gironi del viaggio uscendone
« ca-
rico di solitudine e di ira », e dà giudizi, medita, incolonna vi-
sioni, opera astrazioni concettuali e le risospinge nel delirio, diviene « spettatore solitario » della vita di cui osserva l'« ingegno strampalato », i giochi tristi, fatti per una « dose di delusione », le conquiste rinviate, le burle, le maschere.
Men-
tre si mischiano ironia e rimpianto, forza e disperazione, egli parla con il popolo e del popolo della sua giovinezza, entra nell’allegoria (la sostiene alla temperatura della narrazione), ne esce per ripercorrere altre avventure umane e culturali, fondendo letteratura e vita, nella trasparenza sublimante della patria padana, tra cori, cortei leggendari, sciamare di voci, richiami assurdi di provocazione, grottesche simulazioni della verità, infiniti drammi raccolti in lapidaria secchezza, in soffio di parabola, in mormorio teso a svanire. Nei giorni veri, dentro una storia affollata di febbre e di clamore e nel cantuccio
D9
sfuggito, in quell'idea di ancestrale dimora tornante dalle ossessioni. Si alternano frattanto le donne del « pensiero » e del « desiderio », invadendo
altri mirabili fatti che l’io, conscio
pure
del linguaggio dell'ironia, sa di raccontare in libertà. Cosi si tuffa in una miniera di racconti, spunti, allegorie del reale, eccitazioni del fantastico, per liberarsi anche degli ultimi miti
e riconquistare colari
il presente in tutto il suo vigore, nei parti
che possono
risultare
eccessivi,
nei dettagli
dalle
cui
circolazioni nasce il meraviglioso. Solo un invisibile confine, appena un segno scende tra lo straordinario e il quotidiano: pure la « donna delle meraviglie » è li, tra le cose che non sono mutate, a rinnovare e ricantare se stessa, quella se stessa che non si è mai nascosta. Sempre vicina, accanto, celata
dalla normalità,
dalla regola e svestita
della vita, delle favole
come
delle ore
di illusioni.
pesanti, oscure,
Il sale è nel
sapere accettare quello che l’esistenza può offrire, nel comprendere gli inganni dell'apparenza (« dipingete su uno squallido muro lo sfondo di una città meravigliosa e quel muro non sarà più squallido, non sarà più nemmeno un muro »). Il libro anche nei momenti di stanca svolge una funzione di guida morale: legge gli spazi degli anni che si considerano vuoti, riempie di forme, di significati, sentimenti sul punto di perdersi, evita la dispersione dell'amore. Ma non esorcizza la morte, il senso stupefatto di disfacimento, polveroso, in-
calcolabile, che corrode senza scampo anche le parole quando, baldanzose, vogliono risuscitare il passato. E trova, visionario e crudele, le perplessità, la dissoluzione della vita che, «a volte, sembra combattere i suoi momenti felici ». È il «retroterra
di una
vicenda
minima », personale,
il
campo che il ricordo amplifica fino a farvi comparire una processione impetuosa, invadente di figure e un gran raggio di fatti: dal fuoco della memoria prende spunto quella recita del passato, crudele e implacabile ma anche pausata, faticosa, che Walter
Castagna,
intellettuale
politicamente
im-
pegnato, latinista e scrittore, giunto a un'età di bilanci, accende e spegne secondando l’antico « livido diaframma del suo umore » e la « fascinazione del negativo » in cui da lungo tempo egli riversa la nevrosi. Nuovo atto dell’Autobiografia di un baro, il nuovo romanzo di Luca Canali, Spezzare l’assedio, appare coperto da luce obliqua, da più protratto e drammatico colloquio con i sentimenti osservati nella loro avventura di esaltazione
e caduta, nell’intrico di una realtà spesso
crudelmente fatta di parole, di un fragile cristallo di voci e di parvenze fuggitive. Sulle orme di anni perduti, il « ten-
60
tativo visionario » dell’uomo si alimenta di estremi e disperati sforzi di liberazione nell’inseguimento di un gesto trasgressivo che rompa la dolorosa stabilità della sconfitta e dell'alienazione, spezzi l'assedio della solitudine, annulli il senso
costante di pericolo, l’incrinatura che dappertutto annuncia un presagio di fine. Prigioniero del proprio copione di inconsistenti vittorie e subitanei
curezza
inganni, Walter
sanciti
una continua
si muove
dal pendolo
delle
al di là dei limiti di si-
abitudini:
al « vertice
tensione », egli si affida al racconto
di
che assom-
ma e disperde episodi, li centrifuga rompendo la tenuta delle cronologie, l’ordine degli avvenimenti, la logica delle sequenze; e turba la preparazione, gli antefatti, oppure esaspera indugi popolando di pieghe anche le superfici più rettilinee e omogeneamente solide. Coesistono lo schema qua e là riduttivo del taccuino, la rapidità siglante del giudizio secco, l'’asprezza senza limiti della confessione spietata, il razionale e raffinato intrattenersi con le emozioni e la sottolineatura severa, quasi scientifica dei fenomeni.
pianto in trasparenze incontra
con
il gusto,
crepuscolari lirico,
Tra le righe, il rim-
di cose
mai raggiunte
si
dissacratorio
e celebrativo,
di
stanare logorate avventure, di convocare con puntiglio tutte le ombre, le suggestioni dell’ieri, per la caccia all’allarmato stato attuale. E l’esaltante corteggiamento del negativo non sposta il terreno di battaglia, non frappone ostacoli al bisogno sincero di discutere, di provocare, di mettere a nudo l’esistenza,
la malattia,
i tentacoli
del vario
giorno.
Dal viaggio tra fantasmi Walter torna « allucinato superstite » — la veloce pellicola brucia fotogrammi di donne: ricordiamo
Olga, stretta in un
« disorientato
solipsismo »; Va-
leria, dal sorriso « condannato a un eterno aspetto d’impurità »; Flora, conquistata dal « mito del prestigio », e altre ancora rilevate in particolari decisivi: il « volto pallido, vagamente monastico » di Giuditta; il viso pari a « sembiante d’amore » di Sara — e si immerge in una contemporaneità marmorizzata: puri nomi, schegge confitte su fondali stilizzati, si fissano i personaggi veri, autorevoli figure della cultura e del costume. Ma la loro comparsa, certo, inchioda le pa-
gine volanti di tanti referti psicanalitici, di tante laboriose autoanalisi del personaggio (e i fogli d’album che lo sguardo indagatore e deformante dell’uomo presto abbandona per difendersi dall’insidia di un memoriale tetro nella sua uniformità punitiva) al tessuto di uno spaccato sociale che Canali vuole avvolgere intorno al suo eroe autobiografico, molto giocando su commistioni di reale e immaginario. Ma spesso il registro dell’attualità, soprattutto se prolungato dalla forma del catalogo, non riesce a sopportare i caratteri del privato, il
61
piombo di quello scontro con se stesso dal soggetto vissuto in dilemmi,
nei circuiti di una
« estenuata
sensibilità ».
L'uccisione di Walter, per opera di un killer, pone fine alla diretta voce di una depressione, ma la storia ripassa
se stessa con un secondo
movimento
del libro, costruito
da
illuminazioni angolate, da un fascio di documenti che chiariscono, integrano i piani essenziali della vita dell'uomo mediante la sua recuperata testimonianza. Pertanto, quello che nella prima parte era narrativamente lineare, dichiarato, sia pure in modi scattanti, ora si espande in cerchi, in anelli concentrici che fanno ruotare il « malessere » dei ricordi, in illu-
strazioni lente e votate episodicamente al rifugio decorativo. La scrittura dimentica le taglienti frustate e si concede approcci circostanziati, soste, ove le direttrici dell’introspezione tendono a forzare l'impasto romanzesco, a superare le resistenze di un ricorso, tra smarrito
e lucidamente
curio-
so, al passato. Subentrano in parallelo spruzzi di sorriso, concitazioni verbali, nonostante la compostezza del dettato: e stentano ad accordarsi con la « luttuosa tristezza del male », con riflessioni morbide, con uno stremato piacere della pensosità. Allora, solo la via di un pudico ritiramento in se stesso
è, in fondo, la più genuina e sollecita lezione di raccolta pietà verso gli amari casi: ora un po’ distratta dall’invadenza di un erotismo lugubre, capriccioso e totalitario, ora come
arrocca-
ta sui fasti di una mondana e disincantata pittura del mondo, questa piccola vena dà un'illusione di scampo. « Di solito, quasi tutte le notti, da quando se ne era andato, aveva sognato suo padre: lo vedeva sempre da solo, sperduto in qualche parte buia e lontana del mondo »: di qui la ricerca del padre da parte di Francesca, rimasta con la madre Laura nella « casa vuota ». È lo spunto che serve a Giorgio Montefoschi, in La terza donna, per descrivere un copioso giro di intrecci, tutti delineati
e immersi
in ondate
di
emozioni che li amplificano accostandoli ad altri fatti, ad altri echi, mentre le due donne entrano in una vita che non può durare e prelude a un’attesa riempita di parole reclamanti figure. Ma cosi come nascono, queste figure si perdono in un mormorio ininterrotto, in un misto di suoni e colori smorzati, nel quale vengono assorbiti gli strascichi.
Il fitto campionario dei gesti, delle azioni anche infinitesimali, del pausato convergere di domande, il concerto delle voci più o meno
intense, curiose, annoiate,
disperate,
l’inter-
secarsi dei livelli narrativi tra distese impalcature e rapide contrazioni, le varie cifre stilistiche dell’opera, compreso il paesaggio che, pur apparendo in tanti aspetti segmentati, con-
62
tiene un carattere di continuità soffocante, sono tuffati in un'atmosfera in apparenza calma, allentata, poco corrotta da sfibramenti, ma sotto il visibile rigata da brividi, allarmi, sospetti. Un ondulare delle scene nel nulla, illusivo per il troppo di inezie, sensazioni trascorrenti: dentro si annida e si
ingigantisce una protratta tensione, un’« aria vibrante e sconosciuta », che obbliga «a inseguire qualcosa fuori di sé ». Ed è la comunicazione di un’esistenza di uomini, di cose, più profonda di quella circostanziata, minutamente redatta, enumerata. Poco basta per avere mutamenti di rotta, tuttavia non appariscenti; poi di là, oltre i fatti che ora possono rivelarsi e avere un principio di applicazione, la realtà riprende a scivolare con le medesime mosse, con ininterrotto passo. Ma all'insaputa di chi guarda e vive, l’esterno prende una « diversa intensità »; un leggero senso di « vertigine » occupa anche la casa e la natura colpita da « stordimento » si pone in agguato, silenziosamente e misteriosamente. Un impercettibile «smarrimento » sgorga pure da tutti gli altri sfondi, da altre latitudini che non siano la Roma, spesso immobile nella sonnolenta
domenica,
Il pedinamento ta resta
l’obiettivo,
in cui vivono
le due
donne.
delle tracce del professor Federico Trotil ritmo
del
racconto:
l’uomo
si svela,
istantanea dopo istantanea, in un ritratto che lo scrittore non intende aprioristicamente lavorare, pur leggendolo con precisione in negativo, nel timore del buio e della solitudine, spezzando in questo modo quel residuo di confezione regolare del racconto che l'andatura ben sistemata, l’appello rivolto a tutti gli elementi, primari e subalterni, fanno sospettare. Si parte dunque dalla ricerca dell’uomo, soprattutto dalla volontà di Francesca, giovane donna che può fermarsi da « qualsiasi parte, non
avendo
desideri né idee », di coinvolgere
su-
bito un gruppo di personaggi tra i quali spiccano padre Sher e il suo « ieratico assistente ». Si libera contemporaneamente il minuscolo universo pettegolo e scanzonato dei congressi a cui Federico partecipa come membro di un’organizzazione scientifica;
e si utilizza la lettura di fotografie:
« uccello
mi-
gratore », vagabondo al quale le circostanze hanno sempre impedito il ritorno, trascinato da un’inquietudine esistenziale, il personaggio è specchiato come in un alone, in una perplessità che investe i compagni di viaggio, il « nucleo storico » seguito da Montefoschi con notevole disponibilità a illu149 VBES
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9
INDICE
DEI NOMI
Abba Giuseppe, 284. Albertazzi Ferdinando, 277-279. Alighieri Dante, 69. Altarocca Claudio, 284. SER Antonio, 14-18, 192-
Boccaccio Giovanni, 69, 421. Bompiani Ginevra, 392-394, A” Giuseppe, 161-163, 313-
Alvaro Corrado, 304. Angioni Giulio, 369-371. Arbasino Alberto, 101. TERE Giovanni, 175-177,
Borges Jorge Luis, 168, 200. Borgese Giulia, 422 300-
Augias Corrado, 127-129, 206. Bacchelli Riccardo, 283. Bacci Marco, 163-164, 360-363.
Bagatti Fabrizio, 297. Balestrini Nanni, 207-208. Balzac Honoré de, 265. Barbèra Lucio, 422. Bàrberi Squarotti Giorgio, 31, 41, 81, 421. Sag Amidei Gaspare, 138140. Barina Antonella, 284. Basile Giovanbattista, 285. Bassani Giorgio, 12. Beccaria Cesare, 257. Bellezza Dario, 169-171. Bellonci Maria, 107-109. Benni Stefano, 208-210. Bernari Carlo (pseudonimo di Carlo Bernard), 302-305. Berto Giuseppe, 173. Bettiza Enzo, 131-133. Bevilacqua Alberto, 57-60, 166168, 394-397. Bigiaretti Libero, 66-69. Bilenchi Romano, 265. Biondi Mario, 121-123, 173-175, 346-348. Bo Carlo, 285, 422.
Sa
Giuseppe, 24-26, 206, 217-
Brancati Vitaliano, Bufalino Gesualdo, 154, 278, 321-324, Burdin Francesco, Busi Aldo, 99-101, 288, 421.
423. 74-77, 152342, 421. 204-206. 200-202, 286-
Calcagno Giorgio, 243, 284. Calderòn de la Barca Pedro, 421. Calvino Italo, 183-186, 200, 284. Camon Ferdinando, 32-34, 81. Campailla Sergio, 334-338. Canali Luca, 60-62, 140-141. Ci Manlio, 117-119, 234Cantafora Arduino, 348-350. Capriolo Paola, 288-291. Carné Marcel, 421. Casanova Giacomo, 133. Cassieri Giuseppe, 189-191. Cassola Carlo, 141. ER rg ti Carlo, 28-30, 249Casti Giambattista, 133. Cavazzoni Ermanno, 275-277. Cechov Anton Pavloviò, 129. Cerami Vincenzo, 341-343. Chiara Piero, 141-143, 212-214, 338-341. Cisco Giulio, 366-369. Citati Piero, 421, 422. Citeroni Tano, 246-248. Coccioli Carlo, 43-45.
429
Collura Matteo, 206, 350-353. Compagnone Luigi, 116-117. Conrad Joseph (pseudonimo di Jozef Konrad Korzeniowski), 421. Consolo Vincenzo, 86-88, 254257, 376-380. Conte Giuseppe, 279-282. Cordelli Franco, 154-155. Corn Maria, 133, 195-197, 226, da Cosi Marina, 81. Croce Benedetto, 304. Crovi Raffaele, 42-43, 136. Curtò Diego, 79-80.
D’Agata Giuseppe, 53-54, 221-222. D'Anna Guido, 197-199, SETA Stefano, 101-103, 195, 2A 224-225, Debenedetti Antonio, 422. Le pe Andrea, 50-52, 81, 1798 De Gaudio Mario, 79. Del Buono Oreste, 422. Delforno Carlo Cristiano, 291-293, Del Giudice Daniele, 103-105, 136, 404-407. De Michelis Cesare, 363. Desiato Luca, 157-158. Di"i Giorgio, 55-57, 318Dickens Charles, 422. Doni Rodolfo, 5-7.
Dostoevskij 129, 422.
Fédor
Michailoviè,
Duranti
Francesca, 11-14, 212, 387-390. Dusi Giovanni, 145-147. Duvivier Julien, 421.
Eco Umberto, Erodoto, 95.
383-387, 422.
Falqui Enrico, 133. Finzi Gilberto, 421. Flaubert Gustave, 265. Fontana Pia, 363-364. Fortunato Mario, 331-334. Freni Melo, 233-234. Fruttero Carlo, 338.
430
210-
Gadda Carlo Emilio, 187, 285, 329. Garboli Cesare, 324. Gianfranceschi Fausto, 284. Giarda Franco, 408-409. Gioacchino Murat, re di Napoli, 221 Giovanardi Stefano, 81, 135, 422. Gogol’ Nikolaj Vasil’eviè, 117. Gramigna Giuliano, 136, 151, 177, 206, 207, 208, 284, 352, 422. Guerra Tonino, 36-38
Guglielmi Angelo, 285, 421. Jacomuzzi Stefano, Jahier Piero, 187 James Henry, 12. Joyce James, 383.
413-416.
Lagorio Gina, 214-215. Lasca (Grazzini Anton Francesco, detto il), 133. Laurenzi Renzo, 407-408. Lecco Alberto, 129-131. Leopardi Giacomo, 421. Lisi Nicola, 262.
Loy
Rosetta,
54-55,
266-268.
Lucentini Franco, 338 Lussu Emilio, 187. Maistre Joseph de, 421. Malaparte Curzio (pseudonimo
di Curzio Suckert), 133, 304. Malerba Luigi, 164-166, 285, 390392. Mallarmé Stéphane, 95. Manacorda Giuliano, 136. Mancinelli Laura, 149-150. Mannuzzu Salvatore, 397-400. focali Alessandro, 137, 138,
Marabini
Claudio,
145, 295-297. Maraini Dacia,
18-20,
143-
123-125. Mariotti Giovanni, 77-79. Masina Ettore, 38-40. Matteotti Giacomo, 249, 251. Maupassant Guy de, 265. Mauri Paolo, 206. Mazzantini Carlo, 182-183. NO di Celso Anna Maria,
Melzi Luigi, 137. Meneghello Luigi, 402-404, Milani Mino, 248-249, 284. Minore Renato, 206. Mondo Lorenzo, 284, 305-308, 421, 422, 423. Monet Claude, 378. Montale Eugenio, 404. Montanelli Indro, 416-418. RO Giorgio, 62-64, 259Monti Piero, 353-355. Morante Elsa, 170. Moravia Alberto (pseudonimo di Alberto Pincherle), 95-97, 141, 171, 411-413, 423. Morazzoni Marta, 187-189, 343346, 422. Moro Aldo, 130. Musil Robert, 187.
Piccinelli Franco, 114-115, 245-246, 400-402. Piccioli Gian Luigi, 9-11. Piccolo Lucio, 87, 234, 255. Pirandello Luigi, 69, 421. Pisani Liaty, 240- 241. Pivano Fernanda, 409-411. Pomilio Mario, 6. E ONSSO du Terrail Pierre-Alexis, Pontremoli Carlo, 240. Porta Antonio, 422. Porzio Domenico, 360, 422.
Pozza Neri, 293-295. Prisco Michele, 71-73, 233. Proust Marcel, 95, 133.
Quasimodo
Salvatore, 70.
Ramondino Fabrizia, 358-360. Sol Elisabetta, 125-126, 308-
Nascimbeni Giulio, 224, 284, 339, 421. Nievo Stanislao, 89-91, 215-217. Nigro Raffaele, 219-221.
Rea Domenico, 84-86. DIO Stern Mario, 112-114, 186-
Occhipinti Giovanni, 194-195. Ongaro Alberto, 155-157, 206, 316318, 421. Orengo Nico, 160-161, 206, 373376, 422.
Lalla, 282-284. Massimo, 199-200. Rossi Nerino, 105-107. Rosso Renzo, 364-366. Rotelli Marco, 404. SEC Giampaolo, 222-224, 326-
Ortese Anna Maria, 169, 271-273.
Ottieri ZIE
Ottiero,
33, 40-42,
268-
Palandri Enrico, 158-160. Palazzeschi Aldo (pseudonimo
di Aldo
Giurlani), 297-300. Geno, 136, 284, 293, 331, 333, 421, 422, 423. Pandolfo Rina, 355-358. Paratore Ettore, 231-232, 284. Parazzoli Ferruccio, 93-95, 241243. Pardini Vincenzo, 230-231. Pasolini Pier Do 190 Pautasso Sergio,1 Pazzi Roberto, 97. 909, 150-152, Wi7/79225:/-259: Pederiali Giuseppe, 64-66, 310333 Petrignani Sandra, 228-230. Pampaloni
Romano
Romano
Sala Alberico,
88-89. Salvalaggio Nantas, 20-22, 126127, 181-182. Samonà Carmelo, 333. Sanvitale Francesca, 45-47. Satta Salvatore, 369. Saviane Giorgio, 243-245. Savinio Alberto (pseudonimo di Andrea De Chirico), 377. Sciascia Leonardo, 22, 69-71, 1371138) 25122547257; 326; 3/15 319) 418-420, 421, 423. Serri Mirella, 421. Sgorlon Carlo, 81, 82-84, 168169, 238-239, 380-382, 422. Siciliano Enzo, 22-24, 421. Sad Mario, 109-111, 236-238, 422.
431
Spagnoletti Giacinto, 206. Spinazzola
Vittorio,
136.
Spinella Mario, 225-228. Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle), 129, 421. Strati Saverio, 191-192.
Sue Eugène, 422. Svevo Italo (pseudonimo tore
Schmitz),
di Et-
133.
Tabucchi Antonio, 49-50, 92-93, 136, 177-179, 262-264, 284, 285. Terra Stefano (pseudonimo di Giulio Tavernari), 26-28. Tilgher Adriano, 304. Tobino Mario, 7-9, 329-331. Tomasi di Lampedusa Giuseppe, 284, 423
432
Tomizza Fulvio, 34-36, 147-148. Tondelli Pier Vittorio, 119-121. Toscani Claudio, 81. Troisi Dante, 30-32, 202-204.
Ulivi
Ferruccio,
170-173.
Vaccari Luigi, 284. Vassalli Sebastiano, 273-275, 285. Verri Alessandro, 257. Verri Pietro, 137, 257. Vigevani Alberto, 47-49, 264-266. Vitarelli Eugenio, 371-373. Vittorini Elio, 133-135, 255, 377. Voghera Giorgio, 421. Volpi Marisa, 324-326. Volponi Paolo, 33.
INDICE
LE
1984:
Contro
GENERALE
l’« ossificazione
SIP1985:
« Messinscena
III.
Nel visibile transito .
1986:
del mondo »
di un'illusione » .
DV-Re1987;
Tra sortilegio e grigiore .
V.
« Pezzi per una parodia di mosaico »
1988:
Indice
delle opere
Indice
dei
nomi
esaminate .
STAMPATO PER CONTO DI U. MURSIA EDITORE S.P.A. DA
«L.V.G.»
AZZATE (VARESE)
Giuseppe Amoroso
NARRATIVA
ITALIANA 1984-1988
Narrativa italiana di cinque anni: percorso minimo ma anche labirin-
to dove, dal resoconto alla finzione, si accendono e rapide sfumano vicende regolari, anomale, divertite e mormorano recite, accerchiano angosce. Una cronaca fitta di titoli, spesso inchiodata al nervoso o puntiforme presente, cresce e si sgrana nel ventaglio di ambiziose strutture, ardue ricerche, affanni, perdite. Sono voci alle quali talora
sembra negarsi un posto che le identifichi nell’amalgama di un quadro; annunci di un progetto, di una memoria che dilegua. Da Giuseppe Amoroso non vengono cercati caratteri organici di classificazione: prosegue quel suo discorso critico su segnali della nostra più recente biblioteca di narrativa, approdato a un primo assetto, nell’83, con un volume di questa collana. Da li egli riprende il viaggio, nuova carovana di occasioni — non una storia —, poiché i connotati dei testi non consentono ancora di visualizzare un percorso ben definito, ma appaiono solo come taglienti proposte, fiati, urti ed echi di quel trionfo di scrittura mobile, sibillina, solare che tra lusinghe del passato e gran gioco liberatorio inventa provocazioni. maschere, parodie, rissosi materiali verbali e tematici e intanto accoglie riti, registri grigi, invincibili nostalgie di favola. Sempre neti'universo di solitudini e impulsi, mentre dorati formalismi rifluiscono da sponde di esilio e rinascenti colloqui affabili, intrighi, avventure ritentano la voce antica e riaffermano la celebrazione dell’intelligenza. In filigrana, coinvolto nel cavo della pagina molto pensata, sale qualche richiamo di ordine, conteso e ricondotto in laboratorio, senza che riesca ad attraversare subito la realtà o il sogno. Aumenta velocità la spirale di un affollato teatro sonoro di opere che creano, moltiplicano o dissolvono gli enigmi consegnandoli al dominio di un lucido arresto nell’atto in cui ne svelano il fascino. Il ritorno sapiente al racconto disteso e i rimbalzi di sofisticati congegni suggeriscono — procedura unica di sgancio dagli siereotipi — lo scaltrito innesto di mai tramontati modelli di metaromanzo nel paesaggio mobile dell’intreccio e dell’azzardo. Scommessa, fervore di oîfficina, prima che sfili ancora l’inganno. GIUSEPPE AMOROSO, nato a Brescia nel 1935, è ordinario di Letteratura italiana nell'Università di Messina. Ha pubblicato: Il «realismo magico» di Bontempelli (Messina, 1959); Itinerari stilistici di Tecchi (Firenze, 1970); Sull’elaborazione di romanzi contemporanei (Milano, 1970); Giovanni Prati. Voci borghesi e tensione romantica (Napoli, 1973); Tecchi (Firenze, 1976); Brancati (Firenze, 1978); Prisco (Firenze, 1980); Narrativa italiana 1975-1983 con vecchie e nuove varianti (in questa stessa collana, 1983); Lucio Piccolo. Figura d’enigma (Milano, 1988). Ha curato inoltre una raccolta di Lettere di patrioti italiani del Risorgimento (Bologna, 1960 e 1971), un’edizione di Mio figlio! di S. Farina (Messina-Firenze, 1966) e una degli Scritti inediti e rari di Prati (Bologna, 1977). Autore di profili per |contemporanei e Novecento di Marzorati, ha collaborato alla Letteratura italiana contemporanea di Lucarini con un rilevante numero
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Lire 35.000
di monografie.
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