222 76 1MB
Italian Pages 226 Year 2005
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University Press Saggi. Storia
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Emanuela Costantini
Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran Antiliberalismo nazionalista alla periferia d’Europa
Morlacchi Editore
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In copertina: particolare di «Arborele lui Ieseu», in Mânastirea Sucevi a.
Volume realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università degli Studi di Perugia, nell’ambito del COFIN 2003.
Isbn: 88-89422-66-1
copyright © 2005 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata. [email protected] | www.morlacchilibri.com Progetto grafico del volume: Raffaele Marciano. Finito di stampare nel mese di giugno 2005 da Digital Print – Service, Segrate (MI).
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Indice
Prefazione di Armando Pitassio
i
Introduzione
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capitolo primo. Politica e società nella Grande Romania 1. La nascita della Grande Romania 2. Nuovi equilibri socio-economici 3. Il panorama politico-istituzionale 3.1 Il quadro istituzionale 3.2 I partiti 3.3 Il movimento studentesco capitolo secondo. Ideologia e movimenti vecchi e nuovi nella Grande Romania 1. Gli eredi della tradizione positivista: liberali e contadinisti 1.1 Il liberalismo romeno: tra politica e cultura 1.2 Il contadinismo: una modernizzazione nel rispetto delle radici agrarie 2. L’antiliberalismo nazionalista 2.1 Dagli autoctonisti agli ortodossisti 2.2 L’antisemitismo capitolo terzo. Intellettuali antiliberali nella Romania degli anni Venti: Nae Ionescu e la “giovane generazione” 1. Nae Ionescu: formazione e pensiero 1.1 Gli anni di formazione 1.2 La premessa: l’antirazionalismo. 1.3 La comunità cristiana e la comunità nazionale 1.4 Il significato di essere romeno 1.5 Il rapporto con le altre confessioni 1.6 Ionescu e l’ebraismo 1.7 Le caratteristiche della comunità nazionale
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2. 3.
4.
Il “mito” di Nae Ionescu Nae Ionescu e la politica 3.1 La fase contadinista 3.2 Un intellettuale nel consiglio del re La giovane generazione 4.1 Mircea Eliade: ambiente familiare e prima formazione 4.2 Emil Cioran: ambiente familiare e prima formazione
76 78 85 92 98 101 113
capitolo quarto. Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica 1. Un passaggio chiave: la crisi degli anni Trenta 2. La Guardia di Ferro: il successo di un movimento ortodossista 3. La conversione guardista di Ionescu 3.1 Ionescu e la Guardia di Ferro: continuità o rottura? 3.2 L’antisemitismo “metafisico” di Ionescu: il caso “De doua mii de ani” 4. Il fascino della Guardia di Ferro sulla giovane generazione 4.1 Il percorso di Eliade 4.2 Il percorso di Cioran 5. La seconda metà degli anni Trenta: da sostenitori a militanti 5.1 Nae Ionescu: eminenza grigia della Legione 5.2 Eliade: fiancheggiatore o membro attivo? 5.3 Cioran e Codreanu: la speranza di una “trasfigurazione della Romania”
117 117 120 123 127 132
Conclusioni
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Indice dei nomi
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Bibliografia
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135 139 151 154 154 162 174
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Prefazione di Armando Pitassio
I fantasmi di Heidegger e di Gentile, di Céline e di Hamsun, di Stefan George e di Ezra Pound, di Marinetti e di Majakovsky continuano a turbare quegli intellettuali occidentali che, seppure con tanti distinguo quanti sono, si professano fiduciosi nei valori della libertà e della democrazia, concretamente espressi nelle istituzioni parlamentari, nei diritti civili e politici del cittadino, nel libero esercizio delle attività economiche. Le ragioni del turbamento stanno nella difficoltà di accettare che una schiera di illustri rappresentanti della cultura occidentale abbiano potuto simpatizzare per, schierarsi a fianco di, confondersi con movimenti che quei valori negavano: turba il fatto che lo abbiano fatto in nome della difesa della collettività intesa come comunità razziale o etnico-culturale o di classe e al tempo stesso nell’esaltazione di un homo novus, emancipato dalle catene delle leggi “comuni”. Di questa schiera hanno fatto parte a buon titolo due intellettuali dell’Europa sud-orientale ben noti nel panorama culturale europeo e mondiale, Mircea Eliade ed Emil Cioran, le cui simpatie e impegno a favore del movimento eversivo e antisemita della Guardia di Ferro di Codreanu hanno attratto in tempi recenti l’attenzione della storiografia sia internazionale che romena. Nel periodo che precede gli anni Novanta la storiografia si è occupata quasi esclusivamente del movimento di Codreanu (ad esempio S. Fischer-Gala i [1972] e A. Heinen [1986] in Occidente, P. Guiraud [1958] e M. Fatu-I. Ispalatelu [1971] in Romania), talvolta anche della resistenza alla modernizzazione nel periodo prebellico (Z. Ornea [1980]), ma a parte un ampio e documentato lavoro del romeno D. Micu [1975] su di una parte della cultura di destra espressa dalla rivista Gîndirea, nel complesso appare trascurato il retroterra culturale dei movimenti eversivi di destra e antisemiti romeni. Polemiche sporadiche sull’antisemitismo di Eliade e Cioran e sul loro coinvolgimento nella Guardia di Ferro non mutano il quadro
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
di un sostanziale silenzio sulle vicende politiche che interessarono in gioventù questi due alti personaggi della cultura europea. La limitata documentazione in possesso degli storici occidentali e l’imbarazzo della cultura romena impegnata/obbligata nell’esaltazione delle “glorie” nazionali (e quindi a tacere su quelle scomode, ma pur sempre “glorie”) spiegano questa lacuna. Il panorama storiografico cambia radicalmente negli anni Novanta quando il rinnovato interesse per la storia del movimento della Guardia di Ferro si accompagna ad una maggiore attenzione alla cultura misticheggiante e nazionalistica che lo precede, lo accompagna e lo rende unico in Europa per i suoi aspetti di esaltazione del cristianesimo ortodosso (si vedano i lavori dello spagnolo F. Veiga [1995] o quelli di I. Livizeanu [1995] o di L. Volovici [1991]): fondamentali appaiono a questo punto i saggi A. Laignel Lavastine sul rapporto tra gli ambienti accademici degli studi filosofici e il nazionalismo [1998] e quindi sui legami di Cioran ed Eliade con i movimenti eversivi di destra e sulla contrapposizione a loro di un altro futuro illustre emigrato, Eugen Ionescu [2002]. Tutta questa attività della storiografia occidentale si accompagna ad una ricca attività editoriale romena che ha messo a disposizione degli studiosi molte delle pubblicazioni del periodo interbellico, anche se non sempre in modo filologicamente accurato. La notorietà delle figure coinvolte nelle vicende di quegli anni ha spinto quindi gli intellettuali e i politici romeni ad un acceso dibattito sul ruolo effettivo da esse svolto. Emanuela Costantini è partita dall’acquisizione di questo dibattito storiografico per poi cercare di inquadrare il fenomeno del nazionalismo e dell’antisemitismo in Romania nel contesto di una resistenza ai processi di modernizzazione importati dall’Occidente: questi processi di modernizzazione intesi come liberalizzazione del mercato, sviluppo di un apparato industriale, introduzione del sistema democratico-parlamentare avevano fin dall’Ottocento provocato delle reazioni in larga parte della cultura romena, che avevano già allora dato luogo ai primi fenomeni di antisemitismo. Merito della Costantini è quello di aver collegato queste resistenze alla “modernizzazione” e l’antisemitismo prebellico all’antiliberalismo e all’antisemitismo della Grande Roma-
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Prefazione
nia, in un panorama culturale europeo profondamente in crisi rispetto ai valori che lo avevano fin lì contrassegnato. L’attenta analisi delle riviste culturali e politiche e di alcuni quotidiani, come delle opere dei maggiori protagonisti intellettuali del tempo (nella loro versione originale raffrontata con quelle non sempre fedeli delle loro riedizioni degli ultimi anni) le ha permesso di cogliere l’aspetto profondamente “europeo” e “occidentale” della cultura della destra romena interbellica nel suo collegamento appunto con analoghi fenomeni della cultura filosofica e politica in senso lato dell’Europa occidentale. Al tempo stesso le ha permesso di vederne le specificità nei suoi rapporti con la cultura nazionale passata, nel suo disperato proporsi il problema dell’identità della nazione romena. Centrale appare la figura del filosofo Nae Ionescu al cui insegnamento ha fatto riferimento gran parte dell’intellettualità romena formatasi tra le due guerre, inclusa quella che di destra non può essere definita. La ricostruzione del pensiero, dell’opera e del ruolo di Nae Ionescu (violentemente contestato come cattivo maestro anche dopo la morte dal suo omonimo, ma niente affatto parente, Eugen Ionescu) è stata particolarmente impegnativa per la Costantini, visto che lo stesso Ionescu ha lasciato ben pochi testi scritti e che quindi questi hanno dovuto essere integrati dalle testimonianze e dalle memorie sia dei suoi allievi, tra i quali appunto Eliade e Cioran, che dei suoi contestatori. Essenziali sono risultati ai fini della ricerca della Costantini a questo proposito (e non solo) i soggiorni di studio a Friburgo, dove esiste un Istituto romeno che raccoglie una ricca biblioteca del movimento legionario, così come a Iaşi e a Bucarest (sia per le collezioni di riviste della Biblioteca Nazionale, che per i fondi del Ministero degli Interni dell’Archivio di Stato). Ma lo studio della figura di Nae Ionescu ha permesso alla Costantini di fornire un quadro ampio dell’intellettualità romena interbellica in contatto con lui, dal filosofo Constantin Noica al teologo e pubblicista Nichifor Crainic, per non parlare, ovviamente, di Mircea Eliade ed Emil Cioran. Costantini rintraccia così nelle premesse filosofiche le scelte di comportamento politico di una larga schiera di intellettuali romeni, mettendo in risalto come queste si esprimano compiutamente soprattutto a partire dagli anni Trenta nel pieno della crisi del liberalismo eu-
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
ropeo. Proprio queste scelte politiche radicali contrarie alle istituzioni liberali e democratiche e fondamentalmente antisemite sono fonte di lacerazioni anche drammatiche sul piano personale tra gli allievi di Nae Ionescu: è questo il caso di uno studente ebreo, Mihail Sebastian, le cui vicende la Costantini ricostruisce con particolare cura. Benché Cioran ed Eliade siano stati largamente debitori nella propria formazione a Nae Ionescu, questo non significa che essi non abbiano seguito dei loro propri itinerari culturali: la Costantini è attenta nel cogliere queste distinzioni così come i diversi modi di rapportarsi dei tre intellettuali al movimento di Codreanu, al nazionalismo, all’antisemitismo. Appare quindi di particolare interesse lo studio delle vicende di Cioran ed Eliade una volta usciti dai confini del loro paese nel periodo della guerra e del dopoguerra, il loro distinguersi o meno negli anni del loro “esilio” europeo dalla loro “militanza” nel movimento di Codreanu. Particolarmente importante appare la lettura che la Costantini fa del saggio di Eliade a favore di Salazar e del suo diario. Proprio nel cercare di evitare più che facili condanne o complesse assoluzioni di questi alti esponenti della cultura romena, Costantini ha cercato soprattutto di cogliere il percorso attraverso il quale menti così brillanti abbiano accettato di sostenere un movimento dalle posizioni ideologicamente tanto rozze e abbiano non solo chiuso gli occhi, ma anche giustificato i suoi crimini. E implicitamente ha ricostruito anche l’incapacità del pensiero liberale e democratico di rispondere alla sfida che gli veniva posta da questi intellettuali e dal movimento di Codreanu. Il fatto è che, per dirla con Cioran in una delle sue ultime interviste (1994): Il dramma del liberalismo e della democrazia è che nei momenti gravi vanno a farsi benedire! La carriera del dittatore Hitler è stata il risultato della debolezza democratica e nient’altro.
C’è molto di vero in queste parole, anche se suonano però per certi versi autoassolutorie per il ruolo che comunque lo stesso Cioran e gli altri ebbero a suo tempo nel decretare la fine di quella democrazia malata. Oltretutto non si trattò poi di un’eutanasia.
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Introduzione
Questo lavoro nasce da un interesse nei confronti del nazionalismo, inteso tanto come movimento di idee quanto come fenomeno politico. Si tratta indubbiamente di uno dei temi più studiati dalla storiografia, che tuttavia spesso ha privilegiato l’aspetto ideologico o quello politico. Nostro interesse è invece proprio quello di vedere le interconnessioni tra l’elaborazione del pensiero e l’azione politica, vedere cioè in che modo e in che misura gli intellettuali abbiano influito sui movimenti politici o sul loro successo e viceversa. Il contesto storico prescelto per analizzare questo fenomeno è quello della Romania interbellica, un contesto che si presta per le caratteristiche che il nazionalismo assunse in quel periodo e in quella particolare area geografica. Tra le due guerre mondiali il nazionalismo diventò infatti un fenomeno di massa1 e venne invocato come base ideologica da una serie di esperienze autoritarie sviluppatesi guarda caso (eccetto la Spagna e il Portogallo) proprio nell’area europea centrale e orientale2. Quello che sorprende maggiormente è però che movimenti politici e regimi autoritari di ispirazione nazionalista si siano realizzati proprio dopo la prima guerra mondiale, nel momento in cui la maggior parte delle aspirazioni indipendentistiche dei movimenti risorgimentali sviluppatisi nel secolo precedente erano state soddisfat1
Come afferma Marek Waldenberg in Le questioni nazionali nell’Europa centroorientale “mentre fino alla prima guerra mondiale le dottrine nazionalistiche comparivano nel pensiero politico solo di alcune nazioni, e (…) erano pochi i movimenti politici che a esse si rifacevano, la situazione cambiò radicalmente nel periodo fra le due guerre mondiali. Il nazionalismo (…) divenne un fenomeno di massa. Non a caso, accanto a correnti che si denominavano solo ‘nazionali’ fecero la loro comparsa altre che si servivano ormai del termine ‘nazionalistico’”. Cfr. M. WALDENBERG, Le questioni nazionali nell’Europa centro-orientale, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 232. 2 Cfr. H. WOLLER, L’Europa e la sfida dei fascismi, Bologna, 2001, il Mulino; Nazismo, fascismo, comunismo, a c. di M. Flores, Bruno Mondadori, Milano; M. AMBRI, I falsi fascismi, Jouvence, Roma 1980.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
te. Dalle ceneri dell’impero austro-ungarico, dell’impero zarista e dell’impero ottomano erano sorti Cecoslovacchia, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania, Jugoslavia, nonché l’Ungheria e, se vogliamo, l’Austria. Sebbene l’obiettivo della realizzazione di uno stato nazionale fosse stato raggiunto, restavano evidentemente aperte numerose questioni irrisolte, anche perché il principio di autodeterminazione proclamato da Wilson aveva trovato un’applicazione assai incompleta. Avanzavano rivendicazioni irredentiste la Germania (verso la Cecoslovacchia per la questione dei Sudeti), l’Albania (verso la Jugoslavia per il Kosovo), la Bulgaria (verso la Macedonia), l’Ungheria (verso la Jugoslavia per la Vojvodina), la Romania (per la Transilvania e la Slovacchia) e la Russia (verso la Polonia). Nel clima di generale crisi delle democrazie liberali, che tra l’altro in questi paesi non avevano una lunga e radicata tradizione, non è quindi sorprendente che ad approfittarne fossero movimenti estremisti di ispirazione nazionalista piuttosto che i partiti comunisti anche perché, se si fa eccezione per la Cecoslovacchia (che peraltro rimase immune dall’esperienza autoritaria), mancava in queste realtà un tessuto industriale che rappresentasse il background per i partiti di sinistra. Così in Lituania nel 1919 si costituì il governo nazionalista di Smetona (durato fino al 1922, ma lo stesso Smetona sarebbe tornato al potere con un colpo di stato nel 1926), nel 1920 si formò il governo autoritario di destra dell’ammiraglio Horthy in Ungheria, nel 1926 si costituì il governo autoritario di Pilsudski in Polonia, in Albania nel 1928 il presidente Ahmed Zogu si proclamò re e instaurò un regime autoritario, nel 1929 re Alessandro I di Jugoslavia abrogò la Costituzione, nel 1932 Dolfuss cercò di imporre in Austria un regime autoritario, nel 1934 il re di Bulgaria Boris III sospese la Costituzione e impose un governo dittatoriale, nello stesso anno Päts diede vita a una dittatura in Estonia e Ulmanis con un colpo di stato prese il potere in Lettonia, nel 1936 il generale Metaxas impose un regime corporativo dittatoriale in Grecia e infine nel 1938 re Carol II di Romania instaurò una dittatura monarchica.
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Introduzione
La Romania fu il paese in cui il regime autoritario venne istaurato più tardi, eppure fu anche uno dei paesi in cui la dimensione ideologica risultò più strutturata e coinvolse intellettuali di notevole spessore. Azzardando un confronto con l’Italia fascista potremmo evidenziare come il regime di Mussolini sia durato più di venti anni, quello della Guardia di Ferro appena uno3. Eppure in Romania la classe intellettuale sostenne il movimento di Codreanu con una compattezza che neanche in Italia si registrò. Le voci del dissenso furono pochissime e spesso limitate agli esponenti della minoranza ebraica. Si impegnarono a favore della Guardia di Ferro personalità di primo piano nella cultura romena come Nichifor Crainic, il più noto dei teologi romeni della prima metà del Novecento, Nae Ionescu, uno dei filosofi più seguiti in ambiente universitario e un’intera generazione di giovani intellettuali tra i quali Mircea Eliade, il futuro grande storico delle religioni, nonché il promettente filosofo Constantin Noica ed Emil Cioran. La contestazione alla democrazia che in altre realtà europee si era tutto sommato divisa tra destra e sinistra, in Romania fu di fatto esclusivamente una contestazione su base nazionalista. Per una volta intellighentsia e masse si schierarono in modo unanime a sostegno del medesimo movimento. Ma perché allora parlare di antiliberalismo nazionalista e non semplicemente di nazionalismo? E perché usare la formula “periferia d’Europa” invece che Europa centro-orientale? La scelta dell’espressione antiliberalismo nazionalista piuttosto che nazionalismo dipende da due considerazioni, una delle quali porta a considerare poco adatto il termine nazionalismo, l’altra invece giustifica la scelta di antiliberalismo come definizione alternativa. Di nazionalismo esistono diverse definizioni e interpretazioni. La storiografia tradizionale è solita però distinguere un nazionalismo et3 La Guardia di Ferro arrivò al potere nel 1940, dopo il rovesciamento di Carol II da parte del generale Antonescu, e vi rimase fino al gennaio 1941, quando lo stesso Antonescu ordinò il massacro dei suoi membri temendone la concorrenza al potere. D’altra parte va ricordato che nel 1940 la Guardia di Ferro aveva già subito una trasformazione piuttosto significativa, avendo perso nel 1938 il suo leader Codreanu ed essendo passata sotto la guida del gruppo più radicale ed estremista guidato da Horia Sima.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
nico-soggettivo di tradizione herderiana da uno civico-oggettivo di tradizione renaniana. Il primo considera le nazioni comunità organiche di soggetti legati da vincoli di sangue, che nel corso della storia hanno maturato una cultura e tradizioni comuni. L’appartenenza alla nazione prescinde in questo caso dalla volontà dell’individuo ed è data per nascita. Il secondo ritiene invece che ciascun cittadino sia libero di scegliere a quale nazione appartenere e sia titolare dei diritti riconosciutigli dallo stato in cui decide di vivere indipendentemente dalla sua origine etnica. Si è soliti ricondurre al nazionalismo etnico i movimenti sviluppatisi nell’Europa centro-orientale, laddove si ritiene che si possa parlare di nazionalismo civico per quello di tradizione francese e anglosassone. A prescindere dall’accezione negativa che ha assunto il nazionalismo etnico, anche volendo semplicemente utilizzare queste definizioni per sottolineare le differenze obiettive tra i fenomeni nazionalisti delle due parti del continente, restano ancora dei punti dubbi. Se è vero che il 1848 è stato la premessa di tutti i movimenti nazionali dell’Europa centro-orientale, allora non si può negare che tutte le rivendicazioni avanzate nel corso della “primavera dei popoli” fossero condotte in nome degli ideali della rivoluzione francese e della rivendicazione di pari diritti per tutti i cittadini, in questo caso per tutti i cittadini appartenenti a nazionalità diverse da quelle dominanti negli imperi centrali. I giovani rivoluzionari romeni studiavano in Francia e assistevano alle conferenze di Mickievicz, condividendone le idee. Lajos Kossuth in Ungheria era un liberaldemocratico radicale e il suo programma chiedeva l’abolizione dei privilegi e del regime feudale, il riconoscimento della libertà di stampa, la parità dei diritti per tutti i cittadini, richieste perfettamente in linea con i programmi liberali occidentali. Furono i liberali sloveni a proporre il programma Zaedinjena Slovenija [Slovenia unita] nel 1848 e gli esempi potrebbero continuare. Tutte le rivendicazioni nazionali del XIX secolo erano partite come semplice richiesta di autonomia dai poteri centrali e solo in un secondo momento si evolsero in aspirazione all’indipendenza. L’evoluzione illiberale dei movimenti nazionalisti dell’Europa orientale, incluso quello romeno, si registrò in una fase successiva e spesso dopo che l’aspirazione alla costituzione di uno stato nazionale
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Introduzione
era già stata raggiunta. Fu a questo punto che si avvertì l’esigenza di consolidare i confini degli stati tenendo sotto controllo le possibili spinte centrifughe e fu a questo punto che ci si cominciò a richiamare alla solidarietà nazionale-etnica contro gli elementi allogeni interni o contro quegli stati al cui interno ancora si trovavano popolazioni appartenenti etnicamente alla propria nazionalità. In Romania un nazionalismo facente appello all’identità etnica e alla tradizione romena in senso “esclusivo” e contro il modello liberale occidentale cominciò a prendere piede dopo la costituzione del principato di Romania (1861). Anche se l’egemonia liberale non fu messa in discussione, con il raggiungimento dell’obiettivo della piena autonomia del paese venne meno il collante che aveva tenuto insieme le diverse anime del movimento risorgimentale: la lotta contro un nemico comune per la liberazione della nazione. Già negli anni Quaranta la rivista Dacia Literarǎ [La Dacia letteraria]4 aveva insistito sulla necessità di valorizzare le radici culturali specifiche romene. Questa stessa critica venne ripresa nella seconda metà del secolo, quando cominciarono a svilupparsi circoli culturali che partivano dalle Università e trovavano poi sempre più riscontro nell’opinione pubblica, come Junimea [La Gioventù], associazione di giovani studenti nata a Iaşi intorno alla metà degli anni Sessanta, che annoverava tra i suoi membri il rettore dell’Università Titu Maiorescu, il sociologo e politologo Petre Carp, il poeta e sindaco di Iaşi Vasile Pogor e lo scrittore Iacob Negruzzi. Alcuni degli esponenti di Junimea collaborano alla rivista Convorbiri Literare [Conversazioni letterarie] e nel corso degli anni Settanta diedero vita nel Partito Conservatore a una corrente impegnata nella difesa dei diritti della popolazione romena in Transilvania e nella riforma agraria. Questo movimento si schierò contro la superficiale recezione di modelli provenienti dall’Occidente, che applicati in Romania sarebbero diventati, secondo la definizione di Maiorescu, “forme senza contenuti”. All’idea di una rivoluzione modernizzatrice veniva contrapposta quella della naturale evoluzione del paese nel segno della tradizione, dei valori culturali e 4
K. HITCHINS, România 1866-1947, Humanitas, Bucureşti, 1998, p. 67.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
morali della società agraria romena. Alla fine del secolo la lezione di Junimea fu fatta propria da un gruppo di intellettuali che si raccoglieva intorno alla rivista Sămănatorul [Il seminatore]. Rispetto a Junimea, esso si batteva in modo più attivo per la salvaguardia della società contadina tradizionale, non limitandosi alla critica del modello di sviluppo capitalista industriale, ma proponendone anche uno alternativo. Non si delineava ancora uno scontro tra Oriente e Occidente, ma se ne cominciavano ad anticipare i temi nella contrapposizione tra cultura e civiltà definita da Constantin R dulescu-Motru. L’esponente di punta del movimento, Nicolae Iorga (1871-1940), ripropose l’idea di uno sviluppo organico naturale della società romena per mezzo delle proprie risorse ed escludendo il ricorso ai modelli stranieri. Iorga non auspicava un ritorno al passato, ma uno sviluppo nel solco della tradizione, che non stravolgesse la natura del paese, perché l’allontanamento dalle tradizioni rappresentava per lui un pericolo per la nazione. Secondo Iorga infatti le nazioni si sviluppavano secondo un modello organico: esse si evolvevano naturalmente sulla base di un patrimonio di valori che rappresentavano lo “spirito nazionale” e ne guidavano l’evoluzione. Il modello romeno era quello del villaggio, nel quale operavano le forze dello sviluppo sociale nella forma più pura, in contrasto con l’artificialità del mondo cittadino. Iorga fu per i pensatori di fine Ottocento e inizio Novecento un punto di riferimento costante. La sua figura di grande storico e di politico di grande prestigio ne fecero un caposcuola del pensiero nazionalista conservatore. Da Iorga partì non a caso la polemica contro coloro che si rifacevano all’esperienza del 1848, accusati di essere dei “sognatori ingenui” e dei “romantici”. Ancora più dura la polemica nei confronti della Costituzione liberale del 1866, definita una calamità. Anche se questo orientamento conservatore prese sempre più piede in Romania l’egemonia liberale rimase indiscussa fino al periodo tra le due guerre, fino addirittura si potrebbe dire agli anni Trenta. I leader del partito liberale negli anni Venti erano ancora gli eredi dei padri della patria, ovvero di quei personaggi che avevano condotto le rivendicazioni nazionali nel secolo precedente facendo nascere lo stato romeno indipendente. Tra l’altro a ben guardare il contrasto tra intellet-
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Introduzione
tuali liberali e conservatori era meno radicale di quanto si potesse pensare. Prima di tutto l’élite intellettuale e quella politica provenivano dalla stessa base sociale. Di estrazione aristocratica erano gli animatori della insurrezione del 1848 e di estrazione aristocratica erano i loro principali oppositori: quei boiari i cui interessi erano minacciati dal programma di riforme politiche e soprattutto economiche (riforma agraria, industrializzazione, apertura dei commerci) dei nuovi governi. Usare soltanto il termine nazionalismo avrebbe quindi potuto essere fuorviante, sia perché in questo lavoro ci si riferisce soltanto al suo versante antiliberale, sia perché per la maggior parte degli intellettuali formatisi nel periodo interbellico il nazionalismo fu un punto di arrivo più che un punto di partenza. Alla base del loro pensiero c’era la critica dell’impostazione positivista e razionalista dominante fino alla prima guerra mondiale, che era già in atto prevalentemente nell’area mitteleuropea. La cesura fu costituita proprio dalla Grande Guerra: la dimostrazione che il cammino verso il progresso e il miglioramento delle condizioni di vita non era inarrestabile né irreversibile, che il modello politico liberaldemocratico non era in grado di assicurare la pace e che il sistema economico del libero mercato non era in grado di assicurare il benessere (e in questo senso la disillusione fu ancora più forte dopo il 1929). Anche in Romania un gruppo sempre più nutrito di intellettuali intraprese un critica serrata all’universalismo positivista e rivendicò la specificità di ogni cultura, la valorizzazione della tradizione locale, la necessità di riscoprire le proprie radici e di intraprendere un percorso di crescita della nazione romena nel solco della tradizione. È indubbio che questi intellettuali fossero legati alla tradizione di Junimea e Sămănatorul, ma né Crainic né Ionescu e neanche un poeta raffinato come Lucian Blaga possono essere considerati a pieno titolo esponenti di questo movimento o allievi di Nicolae Iorga. Si tratta invece di teologi, filosofi e letterati che condividevano la tendenza antirazionalista che si stava sviluppando in Europa e criticavano l’universalismo positivista; intellettuali antiliberali prima che nazionalisti: antiliberalismo è un termine più ampio di nazionalismo, non definisce in positivo una tendenza, ma raccoglie tutto ciò che è contro il liberalismo e il pensiero liberale. La chiave per
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capire il tipo di nazionalismo che si sviluppò negli anni Venti e negli anni Trenta in Romania è proprio questa avversione al liberalismo-liberismo anglosassone e in generale al pensiero ottimista che dal razionalismo si era evoluto nel positivismo. Gli intellettuali che ne furono interpreti erano antirazionalisti in ambito filosofico, antiliberisti in ambito economico e antiliberali e antidemocratici in ambito politico, e di conseguenza nazionalisti. La dimensione cosmopolita della cultura romena non era una novità. Già dal XIX secolo l’élite culturale e politica romena si era formata in Europa, prevalentemente in Francia e in Germania. Continuò a essere così anche dopo la prima guerra mondiale. Molti studenti universitari fruivano di borse di studio per effettuare soggiorni all’estero ed erano così in contatto con altri intellettuali europei. Ionescu conobbe in Germania la prima forma di reazione al positivismo: lo spiritualismo di Hartman e Lötze, il ricorso in ambito filosofico a strumenti alternativi alla ragione, quali la coscienza. In Cioran si ritrovano elementi della filosofia dell’azione, della coscienza intesa come volontà e pratica del mondo, in particolare nell’accezione soreliana di attività creativa in ambito politico. Eliade è tributario dello slancio vitale di Bergson quando insiste sulla necessità che gli intellettuali romeni assolvano al loro compito di demiurghi dei valori spirituali della nazione. Se poi pensiamo alla filosofia della storia è indubbio che i nazionalisti romeni del periodo interbellico siano stati influenzati dallo storicismo di Dilthey, che rompeva con l’idea di una storia in continuo progresso e soprattutto di una storia interpretata universalisticamente alla luce di un unico criterio oggettivo, quello della ragione. L’idea di Dilthey della necessità di assumere come parametro interpretativo di ogni comunità i suoi valori storicamente determinati è alla base della concezione di Ionescu secondo il quale la nazione sarebbe una comunità organica plasmata su valori spirituali propri. Si tratta di un modello che risente della lezione di Herder, ma anche di quella di Durkheim secondo il quale “ciò che esiste, ciò che solo è dato all’osservazione sono le società particolari che nascono, si sviluppano e muoiono in-
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Introduzione
dipendentemente l’una dall’altra”5. Ma il punto di incontro tra la condivisione della tendenza antiliberale europea e la tradizione conservatrice romena era rappresentato dall’idea di un “tramonto dell’Occidente” urbano e industriale a cui contrapporre la propria tradizione rurale e agricola. Così Oswald Spengler diventò in Romania uno degli intellettuali più letti e ammirati: secondo la sua interpretazione la storia era dominata dal succedersi di civiltà diverse; quella occidentale era a suo avviso giunta al suo stadio finale, quello stadio che Spengler definiva “civilizzazione” e precedeva la morte di una civiltà. Così mentre in Europa si affermava il particolarismo storicistico in antropologia e la teoria della relatività di Einstein, mentre Freud analizzava le dinamiche della mente umana parlando di impulsi e subconscio e minando l’idea classica dell’essere razionale, anche gli intellettuali romeni sottoponevano a dura critica l’Occidente liberale. Certamente il legame con il contesto europeo è soltanto uno degli elementi da considerare, perché poi le caratteristiche specifiche del nazionalismo romeno sono legate anche alla realtà interna, al movimento risorgimentale del secolo precedente, alla situazione sociale, economica e politica del paese, nonché alla congiuntura internazionale del dopoguerra. Il nostro scopo è allora cercare di capire perché e come in Romania la reazione al liberalismo e alla democrazia si sia trasformata in un vero e proprio impegno politico. Per fare questo è necessario analizzare che tipo di nazionalismo fosse e quanto influisse sulle sue caratteristiche tanto la tradizione locale quanto il contesto europeo. La contestualizzazione del fenomeno nazionalista serve anche a chiarirne le caratteristiche, fornisce gli strumenti per comprendere quali fattori abbiano contribuito a determinare l’elaborazione intellettuale dei pensatori romeni. Nel periodo interbellico operarono in Romania due generazioni di intellettuali, quella nata nell’ultimo ventennio del XIX secolo e quella dei giovani che non avevano partecipato alla prima guerra mondiale e
5
E. DURKHEIM, Règles de la méthode sociologique, 1895, p. 20.
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avevano raggiunto la maturità intellettuale quando era già stata realizzata la Grande Romania. I primi erano legati alla tradizione del pensiero conservatore che aveva cominciato a svilupparsi nella seconda metà dell’Ottocento, pur rimanendo una tendenza minoritaria rispetto a quella liberale. Si trattava di personaggi di formazione umanistica, che spesso avevano studiato in Germania e raggiunsero la maturità intellettuale durante la prima guerra mondiale. Essi avevano vissuto sia l’esperienza irredentista che la guerra e avevano assistito alla nascita della Grande Romania. Allievi di questi intellettuali erano un gruppo di giovani e promettenti studiosi nati nel primo decennio del secolo, che tra le due guerre mondiali cominciarono a sviluppare i propri interessi scientifici e a elaborare una propria linea originale. Al contrario dei loro maestri questi giovani non avevano partecipato alla grande guerra né avevano preso parte alle rivendicazioni nazionali nei confronti di altri stati. Erano cresciuti in un paese che aveva conseguito tutte le sue aspirazioni territoriali ed era ora alla ricerca della propria identità. Ecco quindi un altro degli elementi di cui tener conto nell’analisi del nazionalismo romeno del periodo interbellico: il fatto che non si possa parlare di una generazione omogenea, piuttosto sono identificabili due gruppi di pensatori, il primo ancora legato alla tradizione ottocentesca e il secondo invece proiettato verso un’altra idea di Romania e un altro tipo di nazionalismo. Il mio compito sarà quindi anche cercare di analizzare l’evoluzione del pensiero nazionalista romeno dalla generazione che potremmo definire “di passaggio” alla giovane generazione, cercare di individuare elementi di continuità e discontinuità. Ho scelto Nae Ionescu come rappresentante della prima generazione perché si tratta di una figura centrale dalla quale chiunque voglia studiare il nazionalismo romeno del periodo interbellico non può prescindere, non tanto per la sua elaborazione filosofica, quanto per la sua capacità di raccogliere intorno a sé un’intera generazione di intellettuali. Allievi di Ionescu furono infatti grandi personaggi, alcuni dei quali ottennero notorietà a livello internazionale, come nel caso di Mircea
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Introduzione
Eliade ed Emil Cioran. L’analisi dei loro anni giovanili può contribuire a chiarire come la loro generazione si avvicinò all’impegno politico schierandosi compattamente a favore del movimento legionario. Quanto pesò sulle loro scelte il “fascino diabolico” di Ionescu? E quale influenza ebbero invece gli orientamenti del dibattito culturale europeo e la tradizione culturale romena? Ovviamente non esistono risposte univoche: su ognuno dei pensatori romeni di questo periodo questi fattori influirono in modo diverso. L’analisi del percorso di tre personalità tutto sommato piuttosto diverse tra loro come quella di Nae Ionescu, di Mircea Eliade ed Emil Cioran può però essere utile per far emergere gli elementi che contribuirono all’adozione di posizioni così radicali. Le ricerche sono state condotte prevalentemente in Romania, presso la Biblioteca dell’Accademia di Romania, la Biblioteca Centrale Universitaria di Bucarest e presso la Biblioteca Mihai Eminescu di Iaşi. È stata consultata la stampa periodica degli anni Venti e Trenta: particolare attenzione è stata ovviamente dedicata a Cuvântul, quotidiano diretto da Nae Ionescu, del quale sono stati presi in esame tutti i numeri dalla sua fondazione nel 1924 alla definitiva soppressione dell’aprile 1938 e a Vremea, la rivista settimanale di orientamento nazionalista sulla quale scrissero sia Mircea Eliade che Emil Cioran. Una parte delle ricerche è stata condotta presso l’Archivio del Ministero degli Interni di Bucarest, soprattutto sui fondi della Direzione Generale della Polizia (tra il 1926 e il 1940) e quelli della Casa Regale (tra 1928 e 1938). Una parte della bibliografia è stata reperita inoltre presso il Rumänisches Institut di Friburgo, dove sono confluite molte opere di esponenti del movimento legionario fuoriusciti dalla Romania dopo l’avvento del comunismo. In Italia sono state consultate la Biblioteca di Linguistica dell’Università La Sapienza, che dispone di una sezione specificamente dedicata alle lingue dell’Europa orientale, la Biblioteca Alessandrina di Roma, che ospita il fondo Isopescu, e soprattutto la Biblioteca dell’Accademia di Romania di Roma. Ho inoltre consultato la serie Affari Politici dell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri di Roma relativamente ai rapporti Italia-Romania tra il 1931 e il 1940.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
Proprio il tipo di fonti a disposizione non ha reso sempre agevole la ricostruzione del pensiero degli intellettuali studiati: raramente infatti essi hanno espresso le loro idee in modo organico. Più spesso è stato necessario confrontare passaggi frammentari di articoli più o meno isolati, cercando di spiegare l’evoluzione della posizione dell’autore nel tempo. Questo lavoro è stato ancora più difficile per Nae Ionescu, non avendo egli lasciato alcuna opera completa per la pubblicazione. Nell’utilizzare la storiografia sull’argomento ho dovuto tenere conto del fatto che il tema si è spesso prestato all’adozione di atteggiamenti assolutori o al contrario accusatori nei confronti di questi personaggi, soprattutto in Romania, fatto comprensibile alla luce della situazione generale della storiografia locale, fortemente condizionata dalla storia politica del paese. Dopo cinquanta anni di omologazione a una linea ufficiale piuttosto rigida, è difficile trovare analisi equilibrate, soprattutto su un tema così delicato e legato alla politica come il legionarismo. Semplificando molto, se in Europa si parla di una storiografia revisionista e di una storiografia di sinistra, questi termini non possono essere trasferiti alla situazione romena. In Romania abbiamo invece storici filo-legionari e storici anti-legionari, che partono spesso da prospettive legate a doppio filo con la politica. Non solo, a volte succede che storici dell’una e dell’altra tendenza abbiano adottato atteggiamenti analoghi su determinate questioni, pur partendo da punti di vista opposti. Da entrambe le parti si è cercato di fare di Eliade (ma anche di Cioran) degli intellettuali organici, da una parte per dar lustro alla levatura intellettuale della Guardia di Ferro, dall’altra per criticare personaggi compromessi con un movimento filo-fascista. Il discorso vale per gli istituti di ricerca e per le case editrici. Una delle poche linee intermedie possibili è diventata allora quella delle pubblicazioni Humanitas di Bucarest, che a partire dal 1990 hanno cominciato a far uscire le opere di questi autori in edizioni piuttosto scarne e praticamente senza introduzione. La storiografia europea invece si è occupata, come è comprensibile, soltanto di Eliade e Cioran e ha affrontato la questione dei loro anni giovanili dopo la scoperta del loro coinvolgimento con il movimento di Codreanu, cioè a partire approssimativamente dagli anni Ses-
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Introduzione
santa. Gli interventi dedicati a questo argomento hanno avuto come scopo primario quello di precisare il loro grado di coinvolgimento nella Guardia di Ferro. Un’opera di un certo valore da questo punto di vista è quella di Mac Linscott Ricketts dal titolo Mircea Eliade: the Romanian Roots (1907-1945), scritto nel 1988, quindi in un periodo di chiusura degli archivi romeni. Tenendo conto delle difficoltà che Ricketts dovette affrontare in Romania per reperire le fonti e della minuziosità del suo lavoro, questa resta a tutt’oggi una delle opere più complete sugli anni giovanili di Eliade. Non esistono invece studi di questo genere su Cioran e soprattutto su Ionescu. L’unico lavoro che si è occupato in modo sistematico di questo periodo e che si è incentrato proprio su Cioran ed Eliade è stato quello di Alexandra Lavastine, che in Cioran, Eliade, Ionesco. L’oubli du fascisme6 ha riservato la sua attenzione al sostegno di Eliade e Cioran alla Guardia di Ferro e all’opera di “riscrittura del proprio passato” che essi fecero successivamente. Questo testo ha il merito di affrontare l’argomento in modo organico e completo, ma ancora una volta il punto di partenza è quello di dimostrare la “cattiva fede” dei protagonisti. Dato per accertato il sostegno di Nae Ionescu, Eliade e Cioran a fianco della Guardia di Ferro e senza perderci sul “grado di coinvolgimento”, vorrei invece cercare di capire come ciò sia avvenuto, quali motivazioni spinsero intellettuali di prestigio e giovani brillanti ma poco interessati alla politica a schierarsi a fianco di Codreanu. Come mai Eliade, al tempo già fine conoscitore di culture orientali e di religioni diventò un fanatico sostenitore di un movimento radicalmente antisemita? E cosa spinse un pensatore che per tutta la sua vita adottò un atteggiamento scettico come Cioran a sperare in una “trasfigurazione della Romania”? Tra gli elementi che condizionarono le scelte di molti giovani intellettuali della generazione di Eliade e Cioran vorremmo poi mettere in evidenza il ruolo che ebbe Nae Ionescu, un aspetto di cui non sempre 6
Lo Ionesco citato nel titolo è Eugen, famoso drammaturgo, coetaneo di Eliade e Cioran e come loro uscito dalla Romania durante la guerra; cfr. A. Laignel Lavastine, Cioran, Eliade, Ionesco. L’oubli du fascisme, Presse Universitaire Francaise, Parigi, 2002.
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si è tenuto adeguatamente conto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di dare un quadro del panorama politico-intelletttuale di un paese che come tanti altri visse nel periodo interbellico un momento di “fanatismo intellettuale”. Questo lavoro è nato dalla rielaborazione di una tesi di dottorato in “Storia politica dell’età contemporanea (secc. XIX e XX)” per l’Università di Bologna. Per la sua realizzazione è stato essenziale l’aiuto delle istituzioni partecipanti al dottorato e in particolare il sostegno economico e scientifico dell’Università degli Studi di Bologna e dell’Università degli Studi di Perugia, che mi ha consentito di usufruire di una borsa di studio Erasmus/Socrates per i miei soggiorni di studio in Romania. Vorrei anche ringraziare i docenti dell’Università Alexandru Ioan Cuza e in particolare il professor Alexandru Florin Platon per l’assistenza che mi ha offerto durante i miei studi a Iaşi e Mihai Pelin, al quale mi sono spesso rivolta nel corso delle mie ricerche a Bucarest. Devo un ringraziamento anche al professor Lauro Grassi dell’Università degli Studi di Milano, al professor Francesco Guida dell’Università Roma Tre e al professor Roberto Scagno dell’Università degli Studi di Padova: i loro consigli sono stati preziosi per l’elaborazione del manoscritto. Ma soprattutto devo ringraziare il professor Armando Pitassio dell’Università di Perugia, per l’aiuto che mi ha offerto durante tutto il corso dei miei studi, per gli stimoli che mi ha fornito e per la pazienza con la quale ha seguito il mio lavoro. La responsabilità di quanto scritto è ovviamente solo mia.
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capitolo primo
Politica e società nella Grande Romania
1. La nascita della Grande Romania La Romania entrò nella I guerra mondiale1 in ritardo e dopo non pochi tentennamenti. Pesò almeno inizialmente l’accordo bilaterale firmato 1
Per un panorama storico del periodo interbellico si vedano K. HITCHINS, România 1866-1947, Humanitas, Bucureşti, 1998 (una delle ricostruzioni più obiettive della storia romena fino alla seconda guerra mondiale, edizione romena di K. HITCHINS, Rumania 1866-1947, Oxford University Press, 1994); S. ALEXANDRESCU, Paradoxul român, Univers, Bucureşti, 1998 (Alexandrescu fa parte degli intellettuali che si sono allontanati dalla Romania durante il comunismo, lavora dal 1969 in Olanda ma continua a occuparsi di storia rumena; offre una lettura del periodo interbellico come un “paradosso” riferendosi alla difficoltosa evoluzione verso la democrazia, durante la quale la Romania è posta di fronte a periodiche crisi che rischiano di farla precipitare di nuovo nel premoderno); B. JELAVICH, History of the Balkans, Cambridge University Press, Cambridge & London, 1983 (un classico della storia dell’Europa orientale, ricostruisce in due volumi le trasformazioni politiche registrate nei Balcani tra XVIII e XX secolo, fornendo un’analisi dettagliata degli eventi in Albania, Bulgaria, Grecia, Romania, Jugoslavia); F. VEIGA, Istoria Gărzii de Fier 1919-1941, Mistica Ultrana ionalismului, Humanitas, Bucureşti, 1995 (edizione romena di F. VEIGA, La mística del ultranacionalismo. El Movimiento legionario rumano, 1919-1941, Eds. de la Universidad Autónoma de Barcelona, Barcelona, 1989; Veiga è certamente con Weber uno dei maggiori storici della Guardia di Ferro; la parte introduttiva del suo testo propone un’attenta analisi del contesto storico della Romania prima e durante la nascita Guardia di Ferro); I. LIVEZEANU, Cultură şi naionalism în România Mare 1918-1930, Humanitas, Bucureşti, 1995 (attenta analisi del panorama scolastico e culturale della Romania nel periodo interbellico, edizione romena dell’originale I. LIVEZEANU, Cultural Politics in Greater Romania, Cornell University Press, 1995); A. HEINEN, Legiunea “Arhangelul Mihail”. O contribu ie la problema fascismului interna ional, Humanitas, Bucureşti, 1999 (uno dei testi fondamentali per avere una panoramica del nazionalismo rumeno interbellico, il testo originale è in tedesco: cfr. A. HEINEN, Die Legion “Erzengel Michael” in Rumänien – Soziale Bewegung und politische Organisation, Oldenbourg Verlag, München, 1986);
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con l’Austria-Ungheria il 30 ottobre 1883 in funzione antirussa e preparato un anno prima da Bismarck e dal leader storico dei liberali, Ion Br tianu. Il trattato venne rinnovato appena nel 1913: sulla base di questo accordo il re Carol, che ne era stato promotore, chiese l’entrata in guerra a fianco di Austria e Germania. Il Parlamento respinse però la proposta il 3 agosto 1914: questa decisione fu condizionata dalle spaccature interne al Partito Conservatore sull’appoggio del quale contava il re, poiché, mentre il gruppo filotedesco di Alexandru Marghiloman e Titu Maiorescu era propenso al mantenimento di buoni rapporti con Austria e Germania, la fazione legata a Nicolae Filipescu e Take Ionescu era favorevole a uno schieramento a fianco dell’Intesa in funzione antiaustriaca. I liberali si dimostrarono più compatti e optarono inizialmente per la neutralità, poi per l’alleanza con l’Intesa. L’assenza di preparazione del paese e la mancanza di un orientamento condiviso spinse tutti i partiti a sostenere inizialmente la neutralità. L’esercito non disponeva di armamenti adeguati e la buona preparazione tattica non era sufficiente a garantire il successo contro l’esercito russo a Est e quello austriaco a Nord e a Ovest. Neanche la morte di Carol I (il 10 ottobre 1914) riuscì a sbloccare la situazione: il nuovo re Ferdinando, nipote di Carol, e lo stesso leader dei liberali e capo del governo Ionel Br tianu preferirono adottare un tattica attendista per capire quale direzione stesse prendendo la guerra prima di decidere se e con chi schierarsi. L’offerta dell’Intesa di assegnare alla Romania in caso di vittoria Transilvania e Banato in cambio di una partecipazione al conflitto indusse tuttavia il re e i liberali a intervenire. Il 15 agosto 1916 la Romania sottoscrisse con le potenze dell’Intesa un accordo che le assicurava in caso di vittoria non solo il Banato e la Transilvania, ma anche il riconoscimento del diritto di autodeterminaZ. ORNEA, Anii Treizeci. Estrema dreaptă românească, ed. Funda iei culturale române, Bucureşti, 1995 (riedizione di un lavoro uscito all’inizio degli anni Ottanta, è un’opera organica e completa sull’estrema destra rumena, che soffre tuttavia del condizionamento del contesto in cui è stata scritta: una lettura “ortodossa” rispetto alla storiografia marxista persiste in questa seconda edizione, nella quale pure si nota uno sforzo di maggiore obiettività; l’autore è in ogni caso uno specialista del periodo, autore anche di Tradi ionalism şi modernitate în deceniul al treilea, uscito per le edizioni Eminescu a Iaşi nel 1980).
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Politica e società nella Grande Romania
zione per i romeni della Bucovina. L’esercito romeno si mosse immediatamente verso la Transilvania, ma alla fine del mese furono le truppe imperiali a entrare a Sud dalla Bulgaria e in dicembre raggiunsero Bucarest costringendo re e governo a rifugiarsi in Moldavia. La situazione interna era grave, le masse contadine organizzarono scioperi e manifestazioni a Iaşi, capitale provvisoria del regno. Il governo tentò di rimediare con la promessa di una riforma agraria che introduceva il diritto di esproprio delle terre di interesse pubblico e una riforma elettorale che sanciva il suffragio universale maschile. La situazione militare continuava però a essere drammatica. Alla fine del 1917 la Romania fu costretta all’armistizio. Nel marzo 1918 Br tianu lasciò la guida del governo a Marghiloman, che firmò la Pace di Bucarest, ratificata il 7 maggio 1918. Le condizioni della pace erano umilianti e nel momento in cui gli eserciti degli imperi centrali entrarono in crisi e furono sconfitti su tutti i fronti, i romeni decisero di riprendere l’attività bellica. Dopo l’uscita di scena della Russia e approfittando delle gravi difficoltà di Austria e Germania, le truppe romene riuscirono ad avanzare verso la Transilvania e a occupare la Bessarabia. Il re rientrò a Bucarest nel dicembre 1918. La Romania uscì quindi stranamente vincitrice dalla I guerra mondiale. Entrata in guerra piuttosto in ritardo, costretta a subire l’occupazione di buona parte del suo territorio per ben due anni e a firmare una pace umiliante con i nemici, le furono sufficienti due mesi di successi alla fine del 1918 per presentarsi da vincitrice alla Conferenza di Pace2. Nonostante le resistenze dei suoi stessi alleati, che non intendevano assecondare tutte le richieste del governo di Bucarest, i politici e i diplomatici romeni riuscirono a ottenere più di quanto prevedibile. A Parigi (11-13 luglio 1919) furono fissate le frontiere con Jugoslavia e Ungheria: la Romania ottenne la Transilvania, il Banato3 e i distretti 2
Dice Peter Sugar in proposito: “the rapid reversal of fortunes and the unification of Transilvania with Austria’s Bucovina and Russia’s Bessarabia struck many as a miracle”, Eastern European Nationalism in the 20th Century, ed. by P. F. Sugar, The American University Press, Washington, 1995, p. 285. 3 La Romania ottenne i due terzi del territorio promesso dal trattato di alleanza del 17 agosto 1916. Restava fuori la parte abitata prevalentemente da Serbi.
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di Crişana e Maramureş. Queste attribuzioni furono poi ufficialmente sancite dal Trattato di Trianon del 4 giugno 1920, che assegnava altresì alla Romania la Bessarabia. Il 10 settembre del 1919 il Trattato di Saint Germain en Laye riconobbe la sovranità di Bucarest sulla Bucovina. Il territorio del vecchio Regno di Romania (il cosiddetto Regat) raddoppiò, passando da 137000 kmq a 295049 kmq; la popolazione subì un aumento più che proporzionale, passando dai circa sette milioni e mezzo di abitanti prima della guerra agli oltre sedici milioni del 1919. Come ha scritto Sorin Alexandrescu in Paradoxul Român la Romania “perse la guerra ma vinse la pace”4. L’unificazione di tutti i territori abitati da popolazione di lingua romena, sogno dell’élite politica e intellettuale del paese, era finalmente soddisfatta. La cosiddetta Grande Romania nacque senza soluzioni di continuità istituzionali rispetto al vecchio Regat, ma l’acquisizione di aree precedentemente appartenenti a realtà statuali diverse impose necessariamente un adattamento delle istituzioni.
2. Nuovi equilibri socio-economici Un aumento di popolazione e territorio consistente come quello che la Romania registrò dopo la prima guerra mondiale determinò tanto una significativa variazione degli equilibri economici e politici del paese, quanto una profonda mutazione del panorama etnico-linguistico e religioso. Sul fronte economico il potenziale produttivo del paese aumentò enormemente. Il settore più importante restava quello agricolo: le superfici coltivabili raddoppiarono e la Romania diventò nel periodo interbellico una grande esportatrice di cereali, tanto da essere considerata il “granaio d’Europa”. Il paese si arricchì di infrastrutture assai più avanzate, sviluppatesi nell’Impero Austro-Ungarico e concentrate soprattutto in Transilvania. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, i diversi go4
S. ALEXANDRESCU, op. cit., p. 65.
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Politica e società nella Grande Romania
verni si impegnarono in un grande sforzo per migliorare la rete dei trasporti, ferroviari e su strada, tenuto conto del ruolo vitale delle vie di comunicazione per la circolazione delle merci in funzione della formazione di un mercato nazionale e della crescita delle esportazioni. Anche il settore industriale subì una forte crescita: aumentarono sia il numero delle imprese che la produzione5. L’attività privilegiata fu quella estrattiva, che sfruttava le risorse naturali del paese e in particolare i giacimenti petroliferi. Per sostenere la crescita dell’industria locale nel primo decennio successivo alla nascita della Grande Romania i governi egemonizzati dal Partito Liberale di Ionel e Vintil Br tianu sostennero misure protezioniste6, cercando in ogni caso di non compromettere i rapporti con gli investitori occidentali che avrebbero dovuto garantire l’attuazione in Romania del modello capitalista occidentale. Per quanto riguarda il settore primario i nuovi governi ottemperarono alla promessa di una riforma agraria fatta nel 1917, durante la guerra, per sedare le rivolte contadine. Dopo vari tentativi rimasti inattuati a causa dell’instabilità politica, che non consentiva ai governi i tempi necessari per la promulgazione delle leggi, il 17 luglio 1921 il governo Averescu riuscì finalmente a promuovere una riforma che prevedeva l’esproprio delle proprietà di dimensioni superiori a 500 ha e la loro distribuzione ponderata in modo tale che la dimensione minima del terreno di ciascun proprietario fosse di 5 ha. Lo scopo della riforma era la razionalizzazione della distribuzione anche per evitare che parte delle grandi proprietà rimanesse incolta. Questo progetto non teneva però sufficientemente conto dell’eterogeneità delle regioni del paese: se in Moldavia e Valacchia, zone di grandi latifondi boiari, il progetto poteva avere un senso, in Transilvania frammentare le grandi proprietà significava mettere in crisi il modello produttivo della grande azienda capitalistica votata all’efficienza produttiva e all’esportazione.
5
K. HITCHINS, op. cit., pp. 356-361. I governi liberali proposero la politica del prin noi înşine (con le nostre forze), un misto di protezionismo doganale e sostegno alle industrie locali. 6
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In generale, trascinata anche dal boom dei primi anni Venti, l’economia romena sembrò procedere con un certo slancio. I paesi occidentali consideravano la Romania il paese dell’Est con le maggiori potenzialità dopo la Cecoslovacchia, ma questa crescita, pur significativa, non riuscì a cancellare alcune debolezze strutturali del sistema produttivo. Nelle vaste pianure dominava l’agricoltura estensiva con tecniche arretrate che non riuscivano a garantire un’alta produttività7. L’esportazione di cereali consentiva l’accumulazione di capitali nelle mani dei grandi proprietari, ma mancava nel paese una mentalità imprenditoriale che spingesse i vecchi boiari a diversificare gli investimenti spostando parte del loro reddito verso attività industriali. Le misure protezioniste dei governi riuscirono sì a favorire la nascita di industrie, ma non in tutti i settori e per i beni tecnologici e i manufatti di qualità il paese restò dipendente dall’estero. Per quanto riguarda poi il settore estrattivo, quello in cui l’attività industriale si sviluppò più celermente, esso era sostenuto dall’afflusso di capitali stranieri8. Queste difficoltà erano d’altronde indice della staticità della società romena. Le nuove acquisizioni territoriali non determinarono infatti una trasformazione significativa del tessuto socio-economico del paese: l’80% della popolazione viveva nelle campagne e la percentuale nel periodo interbellico9 aumentò addirittura leggermente, sintomo del 7
La produttività romena tra 1931 e 1935 era pari al 69% di quella media europea se calcolata rispetto alla superficie, addirittura il 48% della media del continente se calcolata rispetto alla popolazione impiegata in agricoltura. Cfr. W. PIPER, Grundprobleme des wirtschaftlichen Wachstums in einigen südosteuropäischen Ländern der Zwischenkriegszeit, Berlin, 1961, p. 18, cit. in A. HEINEN, op. cit., p. 34. 8 M. NAGY TALAVERA, The Green Shirts and the Others, The Center fo Romanian Studies, Iaşi-Oxford-Portland, 2001, p. 34. 9 Hitchins citando Georgescu nota come la popolazione urbana passi dal 22,2% nel 1920 al 18,2% nel 1939. Cfr. S. MANUIL – D.C. GEORGESCU, Popula ia României, Bucureşti, 1937, p. 9, cit. in K. HITCHINS, op. cit., p. 334. D’altra parte Heinen sottolinea come la distribuzione dei redditi si sposti nel ventennio successivo alla I guerra mondiale a favore di industria e terziario, che passano rispettivamente dal 24,2% e il 15,6% del 1920 al 28,4% e 18,4% del 1938, segno di un qualche dinamismo, se non altro sul fronte della produttività. Cfr. W. T. BEREND – G. RANKI, Economic Development in East-Central Europe in the 19th and 20th Centuries, New York-Londra, 1974, p. 309, cit. in A. HEINEN, op. cit., p. 33.
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persistente carattere prevalentemente rurale del paese. Il tasso di analfabetismo superava il 30% quasi ovunque e in alcune regioni, come la Bessarabia ad esempio, toccava addirittura il 60%10. Ma il problema sociale principale era rappresentato dalla nuova composizione etnica della popolazione romena. La Romania post-bellica diventò improvvisamente da paese irredentista paese occupante territori etnicamente compositi: con le nuove regioni furono infatti incorporate anche consistenti minoranze etniche: ungheresi (7,9%) e tedeschi (4,1%) in Transilvania, ebrei (4%), già presenti in Moldavia, in Bessarabia, ucraini (3,3%) in Bucovina e ancora russi (2,3%) in Bucovina, bulgari (2%) in Dobrugia, senza contare la comunità rom11. La distribuzione delle minoranze non era omogenea: nella maggioranza dei casi erano concentrate nelle città, mentre la popolazione romena restava prevalentemente agricola. I romeni, che rappresentavano il 71,9% della popolazione del paese, erano solo il 58,6% della popolazione urbana. Questo squilibrio risultava ancora più evidente nelle province neoacquisite: in Transilvania, Bucovina e Bessarabia appena un terzo degli abitanti delle città era composto da romeni. La distinzione etnica si sovrapponeva spesso a quella delle attività professionali: i tedeschi di Transilvania erano ad esempio principalmente artigiani o commercianti, gli ungheresi grandi proprietari terrieri. Erano soprattutto gli ebrei a distinguersi come il gruppo dei finanzieri, dei commercianti, ma anche dei liberi professionisti, medici, farmacisti, intellettuali. Questa differenziazione di carattere socio-economico coincideva spesso con quella culturale linguistico-religiosa, di più immediata percezione, e accentuava il senso di estraneità delle minoranze rispetto alla popolazione romena, rendendone più difficoltosa l’integrazione. La Costituzione di stampo liberaldemocratico approvata nel 1923 applicava in ambito etnico una disciplina legislativa impostata sulla parità dei diritti di tutti i cittadini, senza distinzione di lingua, razza e 10
A. HEINEN, op. cit., p. 37. La fonte è l’Anuarul Statistic al României 1937 şi 1938 citato in I. LIVEZEANU, op cit., p. 19. 11
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religione nella migliore tradizione garantista liberale12. Questa scelta di equiparazione tra tutti i cittadini dello stato romeno si rifletteva anche nell’affermazione della libertà di coscienza per tutte le confessioni religiose, anche se si precisava che gli eredi del monarca dovessero essere di religione ortodossa13 e che solo la chiesa ortodossa e quella unita erano considerate “chiese romene”. La chiesa ortodossa romena inoltre rimaneva riconosciuta come “dominante”14. Questo status privilegiato fu peraltro ridimensionato nel 1928 con l’approvazione di una legge che disciplinava lo status di tutte le confessioni religiose. Tuttavia in un paese come la Romania con un terzo della popolazione composto da minoranze, il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini poteva essere interpretato in modo ambivalente. Da una parte questa scelta poteva dimostrare la volontà della classe politica di evitare conflitti etnici interni scaturiti dalla discriminazione di alcuni gruppi. D’altra parte equiparare in tutto e per tutto gli esponenti delle minoranze ai romeni senza concedere loro autonomia, soprattutto sul fronte dell’istruzione, significava applicare una politica di omogeneizzazione culturale, scelta comprensibile in un paese da poco costituito e desideroso di consolidare le nuove acquisizioni. Il timore che le consistenti minoranze etniche e la presenza economica straniera mettessero in pericolo la stabilità dello stato spinse l’Assemblea Costituente a inserire nella Costituzione del 1923 la precisazione che “il territorio della Romania è inalienabile” (art. 2), “il territorio della Romania non può essere colonizzato con popolazioni di stirpe straniera” e più specificamente che “solo i romeni o naturaliz-
12 All’art. 7 essa prevedeva: “la differenza di fede religiosa e di confessione, di origine etnica e di lingua, non costituisce in Romania un impedimento alla fruizione dei diritti civili e politici e al loro esercizio”. E all’art. 8 si ribadiva “non si ammette nello stato nessuna differenza di nascita o di classe sociale. Tutti i romeni, senza differenza di origine etnica, lingua e religione sono uguali davanti alla legge e tenuti a contribuire senza differenziazione ai doveri e agli obblighi pubblici”. La menzione “senza distinzione di origine etnica, lingua e religione” si ritrovava poi in tutti gli articoli sui diritti individuali (artt. 28 e 29). 13 Art. 77. 14 Art. 22.
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zati romeni possono acquistare a ogni titolo e detenere immobili rurali in Romania” (art. 18). La presenza di minoranze etniche così consistenti minacciava indubbiamente gli equilibri sociali del paese: il problema delle minoranze era avvertito soprattutto nelle città, dove maggiori erano le possibilità di incontro/scontro tra le diverse componenti etniche. La parificazione dei diritti garantiva infatti a tutti i cittadini la possibilità di accedere alle cariche pubbliche e all’amministrazione. Questo spinse però i romeni a identificare nei membri delle altre etnie dei concorrenti. L’identificabilità etnica diventò un elemento caratterizzante i potenziali antagonisti sociali, ma in misura diversa per le diverse minoranze: né le minoranze magiare della Transilvania né quelle sassoni subirono attacchi paragonabili a quelli che invece colpirono gli ebrei. Questo è riconducibile alla presenza di un antisemitismo insito sin dal secolo precedente nella cultura romena, anche liberale, ma anche al fatto che il gruppo ebraico era più facilmente “riconoscibile” perché meno integrato degli altri, concentrato in ambiente urbano e dedito prevalentemente ad alcune occupazioni. Per rafforzare il senso di unità tra le province neoacquisite e il territorio del vecchio Regat era necessario intervenire sulla coesione interna. Questo obiettivo era perseguibile solo nel lungo periodo, perché per raggiungerlo occorreva intervenire sul tessuto sociale. Non a caso i governi liberali che si successero al potere nel corso degli anni Venti si resero immediatamente conto del ruolo chiave del settore dell’istruzione. L’omogeneizzazione culturale delle diverse regioni del paese era la chiave per consolidare il senso di appartenenza allo stato nazionale e il senso di lealtà nei suoi confronti. Parafrasando D’Azeglio, fatta la Romania occorreva fare i romeni. D’altronde gli storici che come Ernest Gellner considerano la nazione un prodotto della modernità ritengono che un passaggio chiave per la nascita dell’idea di nazione sia rappresentato dal momento in cui l’istruzione obbligatoria pubblica favorisce la diffusione del senso di appartenenza alla medesima comunità. Le riforme approvate nel 1924, 1925 e 1928 seguirono quindi una duplice linea di intervento: da una parte cercarono di migliorare quantitativamente e qualitativamente le strutture esistenti al fine di rendere
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l’obbligo scolastico operativo, dall’altra di omogeneizzare i sistemi scolastici di tutte le province. Il ciclo di riforme approvate dai governi liberali e dal Ministro Constantin Angelescu in particolare furono definiti una “offensiva culturale” ed ebbero come conseguenza la statalizzazione dell’istruzione. Per omogeneizzare i sistemi educativi e per migliorare le strutture era infatti necessario assicurare allo stato il completo controllo del settore, ma ciò comportava la scomparsa delle scuole non statali, e in particolare di quelle confessionali unita15 e ortodossa, di grande tradizione ad esempio in Transilvania, dove erano state fondamentali per tenere viva la cultura romena nell’impero asburgico: proprio dalla scuola unita era nato il primo movimento culturale che aveva risvegliato la coscienza nazionale romena, la scuola transilvana16. 15
Il termine proprio è “cattolico di rito ortodosso”. “Uniate” è invece specificamente riferito alla Chiesa ucraina, anche se l’uso viene talora esteso a tutte le chiese che mantengono il rito ortodosso pur riconoscendo l’autorità di Roma. Di seguito verrà invece utilizzato il termine “unita/uniti” in riferimento alla Chiesa transilvana di Blaj, che ha riconosciuto l’unione con la Chiesa di Roma, essendo un vocabolo ormai entrato nell’uso e accettato dalla letteratura storica, allo scopo di rendere meno pesante la lettura. 16 La Scuola transilvana è una corrente culturale attiva a partire dalla prima metà del XVIII secolo in Transilvania. In una prima fase l’intento di questi intellettuali è la codificazione di una lingua romena, alla quale si propongono di attribuire dignità letteraria. Si dedicano quindi a traduzioni di classici, organizzazione di biblioteche, teatri amatoriali e scuole. Lo scopo è quello di costruire o ricostruire una tradizione letteraria nella propria lingua. L’iniziatore della scuola transilvana è considerato il vescovo Inocen iu Micu Clain, mentre tra i principali esponenti della corrente vanno ricordati Gheorghe Şincai, Petru Maior, Ion Budai Deleanu e Samuil Micu. La scuola transilvana nasce in Transilvania, una regione collocata all’interno dell’impero asburgico e non in Moldavia e Valacchia, sottoposte al controllo dell’Impero ottomano. La codificazione della lingua è considerata nella Transilvania asburgica una necessità per rivendicare la propria identità e mantenere o cercare di ottenere privilegi dal potere centrale. È difficile capire quanto consapevolmente fosse perseguito dagli esponenti della scuola transilvana l’obiettivo di “risvegliare la coscienza nazionale” e quanto non si ponesse piuttosto il più limitato obiettivo di rivendicare alla propria cerchia una serie di diritti in nome della popolazione romena della Transilvania. Il confine tra i due aspetti è in realtà molto labile alla fine del XVIII secolo. È comunque difficile pensare che fosse già chiara l’idea di promuovere un movimento di rivendicazione di autonomia politica, anche all’interno dell’Impero Asburgico. In effetti l’impegno
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L’offensiva culturale dei governi postbellici ottenne una serie di risultati. Prima di tutto il tasso di alfabetizzazione aumentò ovunque nel paese. La percentuale complessiva raggiunse nel 1930 il 57% della popolazione, ma incrementi consistenti si ebbero in particolare nei territori che in precedenza avevano una quota più bassa di popolazione alfabetizzata, come la Bessarabia17. La seconda inevitabile conseguenza di questo aumento del livello di scolarizzazione fu un incremento significativo del numero degli studenti. Lo sviluppo dell’alfabetizzazione e dell’insegnamento medio portò a una crescita degli iscritti anche alle università: dagli 8632 dell’anno accademico 1913-1914 a 22379 del 1924-192518. L’università di Bucarest passò da 3500 iscritti nel 1913/1914 a 20000 nel 1923. Le università assunsero un ruolo particolarmente importante nel panorama culturale del paese: esse furono i centri di formazione di una classe di intellettuali che intendeva confrontarsi alla pari con la cultura di tutto il continente. La stragrande maggioranza degli studenti aspiravano a un posto nell’amministrazione statale o comunque nelle strutture dipendenti dallo Stato. Questo spiega la concentrazione delle iscrizioni in facoltà come diritto, lettere e teologia e il timore della concorrenza. Dopo la guerra alle università del vecchio Regat Iaşi e Bucarest si aggiunsero quelle di Cluj (Transilvania) e Cernau i (Bucovina). Aumentò il numero delle facoltà e conseguentemente quello dei docenti. politico della scuola transilvana non va al di là di una memoria indirizzata all’imperatore da Inocen iu Micu e di un testo, il Supplex Libellus Valachorum (1791), al quale collaborano sia Inocen iu che Samuil Micu, che chiedono la concessione anche ai romeni dello status di nazione riconosciuta nella Dieta di Transilvania, al pari di sassoni, szekeli e magiari, vale a dire che fosse dato anche ai Rumanian-speaking di avere una propria nobiltà. Il fatto che i principali destinatari delle richieste degli esponenti della scuola transilvana siano gli Asburgo è abbastanza indicativo della limitatezza delle aspirazioni politiche di questi intellettuali. Se non si può ancora parlare di un tentativo di mobilitazione politica dei romeni a sostegno dei diritti del proprio popolo si avvertono i prodromi di una offensiva culturale. Nella dedica Către Romîni [Ai romeni] della Scurta cunoştiin ă a istorii Romînilor Samuil Micu invita coloro che parlano romeno a prendere spunto dalla sua opera per approfondire lo studio della cultura e la storia del proprio popolo. 17 I. LIVEZEANU, op. cit., p. 48. 18 Ivi, p. 278.
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Anche Chişin u in Bessarabia ebbe una facoltà di teologia e una di agronomia, mentre Timişoara fu dotata di un politecnico.
3. Il panorama politico-istituzionale 3.1 Il quadro istituzionale L’obiettivo del rafforzamento della coesione interna del nuovo stato è la chiave di lettura per comprendere il sistema adottato per incorporare i nuovi territori nel quadro istituzionale del paese. Il governo di Bucarest si trovò a scegliere tra un sistema decentrato, che soddisfacesse le spinte autonomiste interne alle neo-acquisite province, e un sistema tendente a mantenere il controllo del governo centrale sull’intero paese: era il modello consolidato nel Regat. La cultura politica del tempo lo riteneva più adatto a favorire l’omogeneizzazione interna: le forze politiche romene, anche quelle uscite dalle regioni recentemente entrate nel regno, temevano infatti l’emergere di tendenze centrifughe. La scelta dello stato centralizzato comportò inevitabilmente un’armonizzazione legislativa, nonché l’istituzione di organi di raccordo tra il centro e la periferia dove, dato il modello adottato, si ebbe un’assoluta subordinazione della seconda al primo: i rappresentanti del governo potevano addirittura sciogliere i consigli comunali e dei jude (distretti)19. I governi post-bellici continuarono comunque a mantenere come punto di riferimento il modello liberaldemocratico. La nuova Costituzione, promulgata il 26 marzo 1923, proseguiva come si è visto sulla linea liberale definita dalla Costituzione del 1866, rafforzando inequivocabilmente la concessione della cittadinanza ai membri della minoranza ebraica e sancendo il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini senza differenze di origine, lingua e religione. Il suffragio universale maschile promesso durante l’occupazione nel 1917 fu riconfermato dalla legge elettorale del 1926, che si ispirava alla Legge 19
K. HITCHINS, op. cit., p. 379.
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Acerbo. Essa concedeva alla lista che avesse ottenuto il 40% dei voti il 70% dei seggi e imponeva una soglia di sbarramento del 2%. La popolazione era tuttavia priva di una cultura democratica e il suo disinteresse per la politica rese poco efficace l’introduzione del suffragio universale maschile. Sebbene sulla carta la Romania si configurasse come uno stato di diritto che offriva ampie garanzie a tutti i cittadini, non mancavano problemi di applicazione pratica del dettato costituzionale, un dettato costituzionale peraltro non privo di ambiguità. Era ad esempio riconosciuta a Governo e Parlamento la facoltà di sospendere i diritti garantiti agli individui, mentre il re restava comunque l’ago della bilancia. Ai sensi dell’art. 88 della Costituzione egli nominava il governo, interpretava le leggi, concludeva trattati di alleanza e dichiarava guerra. Poteva anche sciogliere gli organi legislativi (art. 90). Il Parlamento continuava a essere al servizio dell’esecutivo: tra il 1919 e il 1940 il 71% dei progetti di legge presentati alla Camera dei Deputati furono proposti dal governo, solo il 29% dal Parlamento20. Di conseguenza “il sistema politico romeno del periodo interbellico è stato una democrazia parlamentare nella forma, ma ha funzionato in un modo che riflette le condizioni sociali ed economiche esistenti nel paese e la sua evoluzione politica dal secolo precedente”21. I governi continuavano a succedersi sulla base di calcoli interni alle rappresentanze politiche e non della volontà popolare. Le elezioni rappresentavano soltanto la sanzione formale di una scelta già effettuata dal sovrano, non di rado viziata da brogli e casi di corruzione. Le difficoltà della democrazia romena nel periodo interbellico non vanno comunque decontestualizzate. Nel 1918 la Romania era uno Stato che aveva alle spalle appena sessanta anni di storia unitaria, più o meno la stessa dell’Italia e della Germania. Il suo sforzo verso l’adozione di un modello politico costituzionale fu significativo e le difficoltà non superiori a quelle degli altri paesi dell’area. Nel complesso si potrebbe addirittura dire che le incerte e instabili istituzioni demo20 M. DOGAN, Analiza statistică a democra iei parlamentare din România, Bucureşti, 1946, pp. 65-68, cit. in K. HITCHINS, op. cit., p. 376. 21 K. HITCHINS, op. cit., p. 375.
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cratiche romene dimostrarono una maggiore tenuta rispetto a gran parte dei paesi europei, tant’è vero che il sistema liberaldemocratico fu mantenuto fino al 1938 e quindi più a lungo dell’Italia e della Germania, nonché della Spagna e di tutti gli Stati dell’Europa orientale, a eccezione della Cecoslovacchia22. 3.2 I partiti Per quanto riguarda i partiti politici la guerra modificò significativamente gli equilibri interni. L’unione con nuovi territori comportò innanzitutto la comparsa di nuovi protagonisti sulla scena politica: in Bessarabia e Bucovina la cultura politica della popolazione romena era piuttosto limitata e ristretta a fasce elitarie, per cui non c’erano organizzazioni particolarmente significative, non era questo il caso della Transilvania, dove erano presenti partiti destinati a giocare un ruolo importante nel paese, come il Partito Nazionale di Iuliu Maniu. A livello nazionale dei due partiti storici, il Partito Liberale e il Partito Conservatore, resistette soltanto il primo. Il Partito Conservatore scomparve per i sospetti di collaborazione con gli imperi centrali durante la guerra, ma anche perché il suffragio universale e la riforma agraria ridimensionarono il peso del suo elettorato naturale di riferimento: quello dei grandi proprietari terrieri. Il Partito Liberale non riuscì ad approfittare fino in fondo della crisi del suo principale antagonista. Esso si dimostrò infatti una formazione tutt’altro che monolitica: al suo interno si confrontavano varie correnti, da quella dei giovani liberali di Gheorghe T t rescu a quella dei difensori della liberaldemocrazia di Gheorghe Br tianu. Il nuovo contesto storico determinò inoltre una trasformazione della base del partito, che si spostò sempre di più verso l’oligarchia finanziaria e i grandi imprenditori a scapito dei piccoli proprietari, commercianti e artigiani. La famiglia Br tianu e il gruppo di banchieri che control22
Come noto, il fascismo arrivò al potere in Italia dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, mentre Hitler fu nominato cancelliere in Germania il 30 gennaio 1933. La costituzione degli altri regimi dittatoriali europei è già stata ricordata in precedenza (cfr. p. 3).
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lavano la Banca Nazionale dominavano il partito e, per un lungo periodo di tempo, anche il paese. Per il ruolo politico ed economico accumulato nelle sue mani Ionel Br tianu fu addirittura definito da Iorga “il re senza corona”. Tenendo sotto controllo i capitali finanziari, questa dirigenza politica liberale gestiva anche le attività imprenditoriali del paese. Le misure protezioniste adottate dai governi liberali negli anni Venti possono infatti essere lette anche come il desiderio di difendere e sostenere le attività di diretto interesse del gruppo Br tianu. Nonostante questa caratterizzazione come organizzazione politica di riferimento della borghesia finanziaria e imprenditoriale, il Partito Liberale amava presentarsi come un “partito nazionale”23, ritenendo il proprio programma economico e istituzionale come il mezzo migliore per far progredire tutto il paese. Se il grande sconfitto dall’introduzione del suffragio universale fu il Partito Conservatore, quello che beneficiò di più di questa misura fu il Partito Contadino: nato nel 1918 sotto la leadership di Ion Mihalache, annoverava tra i suoi esponenti il sociologo ed economista Virgil Madgearu, l’antropologo Dimitrie Gusti e il romanziere Cesar Petrescu, ma anche un vecchio critico della gestione politica sia liberale che conservatrice del paese, il poporanista24 Constantin Stere. Nel programma del 1921 si ritrovano molti degli elementi del poporanismo di Stere. Il partito si dichiarava in contrasto con tutti gli altri partiti, senza alcuna aspirazione però a diventare partito unico: la lotta di classe non era infatti intesa in senso rivoluzionario, ma riformatore. L’obiettivo era la “piena integrazione (del contadino) nella vita politica”25 per mezzo di una decentralizzazione amministrativa. Il programma del partito rivendicava ai contadini il controllo dei mezzi di produzione, allo scopo di migliorarne le condizioni di vita. Nel 1926 il Partito 23
K. HITCHINS, op. cit., p. 385. Il poporanism (da popor, popolo) è una corrente politica che si sviluppò in Romania alla fine del XIX secolo. Esso sosteneva la necessità di difendere il preponderante carattere agrario del paese e di impostare un programma economico modernizzatore delle strutture produttive. Al centro del suo programma stava il miglioramento delle condizioni dei contadini, traendo esso ispirazione dal populismo russo. 25 K. HITCHINS, op. cit., p. 388. 24
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Contadino si fuse con il Partito Nazionale di Transilvania e nacque il Partito Nazional-Contadino. In questo modo la base elettorale si ampliò ai medi proprietari della Transilvania; ne conseguì anche una moderazione del programma. Maniu, leader del Partito Nazionale, diventò l’uomo di vertice della nuova formazione politica. La fusione accentuò però il carattere ibrido del partito, che accolse al suo interno tendenze conservatrici come quella dei transfughi Take Ionescu, Alexandru Vaida-Voievod e Gorge Mironescu26, ma anche orientamenti di sinistra come quella di Nicolae Lupu, favorevole a misure di sostegno alla manodopera urbana e a una riforma agraria ancora più radicale. Proprio per questo è difficile attribuire una collocazione politica al Partito Nazionale Contadino: Sorin Alexandrescu lo pone addirittura nel centro-sinistra dello schieramento politico27, mentre la maggior parte degli studiosi lo considera comunque una formazione conservatrice. A favore dell’interpretazione di Alexandrescu è il fatto che l’elettorato di riferimento del partito erano le masse contadine e non i grandi proprietari, che rappresentavano un tempo la base di riferimento dei conservatori. L’ampia maggioranza del partito infatti era schierata decisamente e senza esitazioni per la difesa della democrazia parlamentare e solamente in seguito il gruppo attorno a Vaida Voievod si dichiarò favorevole a una svolta autoritaria28. L’accettazione delle istituzioni liberaldemocratiche non consente quindi di collocare il Partito Contadino alla destra dei liberali. Il programma economico del partito era significativamente diverso da quello dei liberali e mirava sì a una modernizzazione del paese, ma partendo dal settore agricolo. Anche qui è difficile però fare un discorso univoco per l’intero partito, data la coesistenza, all’interno di esso, di diverse posizioni sulle modalità di realizzare questo obiettivo. Si potrebbe sostenere che il discrimine decisivo tra il Partito Contadino e quello Liberale fosse il diverso atteggiamento verso il modello capitalista occidentale. Madgearu, ad esempio, nel 1912 identificava la 26
Una parte del vecchio Partito Conservatore, quella guidata proprio da Mironescu, confluì appunto nel Partito Contadino. 27 S. ALEXANDRESCU, op. cit., p. 89. 28 K. HITCHINS, op. cit., pp. 379-380.
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causa del declino dell’economia agraria romena nel processo di occidentalizzazione29 e pur non rifiutando in assoluto l’industrializzazione non le attribuiva un ruolo preponderante nell’economia romena. Accanto ai due partiti principali si collocavano formazioni politiche minori. A destra vanno segnalati due partiti che riuscirono ad attrarre personalità di prestigio e per un certo periodo ottennero addirittura ruoli istituzionali. La prima era quella del Partito del Popolo, nato nel 1918 e guidato dal generale Alexandru Averescu. Il partito, che accoglieva molti degli esponenti del vecchio Partito Conservatore, si era fatto promotore dell’attuazione delle promesse belliche di una riforma agraria che suddividesse le grandi proprietà tra i piccoli contadini, nonché dell’introduzione del suffragio universale, nonostante Averescu considerasse il sistema democratico inadatto alla Romania. In ogni caso, costruito intorno alla personalità di Averescu, il Partito del Popolo era destinato a dissolversi man mano che il prestigio e la fama del suo leader diminuirono. Esso riscosse notevole successo all’inizio degli anni Venti, ma successivamente perse molti consensi e buona parte del suo elettorato passò al Partito Contadino. Accanto al Partito del Popolo va ricordato il Partito NazionalDemocratico, che si costituì nel 1910 sotto la leadership di A. C. Cuza e Nicolae Iorga, che ne rimase leader dopo l’abbandono di Cuza nel 1920. Era un partito sostenuto soprattutto da intellettuali legati alla tradizione s m n torista di fine Ottocento e intendeva valorizzare il ruolo delle forze morali e spirituali del paese invece di quelle materiali: nel biennio 1925-1926 questo partito tentò la via dell’unione con il Partito Nazionale di Maniu, ma la rivalità tra quest’ultimo e Iorga per la leadership del nuovo organismo rese difficile la convivenza e infine Maniu optò per la fusione con il Partito Contadino. È particolarmente interessante che i termini “contadino” e “agrario” ricorrano con tanta frequenza nelle diverse formazioni politiche (anche schierate su posizioni contrapposte). È questo culto della campagna, della ruralità, oltre che la forte presenza contadina, che poi uni-
29
Ivi, p. 319.
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sce in un temibile abbraccio ideale reazionari, conservatori e democratici. L’altro termine che compare spesso è “nazionale”, presente anche nella denominazione del Partito Liberale, a testimonianza del fatto che il nazionalismo ancora negli anni Venti era un patrimonio trasversale agli schieramenti politici, anche se i diversi partiti lo intendevano in modo assai differente. La situazione politica del paese restò comunque estremamente fluida. Le fusioni e le scissioni tra i partiti erano all’ordine del giorno. Nel marzo 1920 A. C. Cuza lasciò il Partito Nazionalista Democratico di Nicolae Iorga e diede vita al Partito Nazionalista Democratico Cristiano, mentre una parte del Partito Nazionale Romeno di Goga si fuse con il Partito del Popolo di Averescu. Nel 1923 il partito di Cuza diventò Lega per la Difesa Nazional-Cristiana. Nel 1926 il Partito Contadino si unì con il Partito Nazionale Romeno di Transilvania e nacque il Partito Nazional-Contadino, ma nell’aprile del 1930 la fazione guidata da Stere si ritirò da esso e diede vita al Partito Contadino Democratico. Nel 1931 il gruppo di Goga uscì dal Partito del Popolo e formò il Partito Nazionale Agrario. L’anno dopo anche Argentoianu uscì dal Partito del Popolo e formò l’Unione Agraria. Anche la diaspora dal Partito Nazional-Contadino continuò: nel 1932 uscì il gruppo di Iunian, che formò il Partito Radicale Contadino, il quale a sua volta nel 1933 si fuse con il Partito di Stere. All’instabilità politica si aggiunsero difficoltà nel funzionamento delle istituzioni democratiche, anche se fino alla metà degli anni Trenta la loro esistenza non fu mai messa seriamente in pericolo, grazie alla concorde difesa che ne fecero i due maggiori partiti, quello Liberale e quello Contadino. La democrazia romena riuscì anzi a funzionare piuttosto bene almeno fino al 1930, attraversando prima una fase di “ricostruzione istituzionale” guidata dal Partito Liberale (fino al 1928), per poi passare a un tentativo di alternanza al potere da parte del Partito Contadino30. 30 Alexandrescu parla di una democrazia in tre tappe, quella della ricostruzione liberale (1918-1928), quella del rinnovamento e gestione della crisi da parte dei contadinisti (1928-1933) e quella del neoliberalismo (1933-1937), seguita da tre fasi dit-
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La dimostrazione del basso livello della tensione politica negli anni Venti è data dal peso limitato che ebbero in questo periodo le organizzazioni politiche estremiste, delle quali era comunque significativa la presenza. L’unica formazione di sinistra degna di nota, quantomeno per il suo ruolo storico, era il Partito Social-Democratico, diviso però al suo interno tra un’ala moderata fedele alla tradizione della II Internazionale e una radicale che si ispirava all’esperienza bolscevica e che al Congresso di Bucarest del maggio 1921 dette vita al Partito Comunista: questo contava però poche migliaia di membri, principalmente provenienti dalle minoranze etniche, ed era costretto ad agire nella clandestinità. Il comunismo romeno si ispirava alle teorie marxiste bolsceviche classiche, secondo il quale la democrazia borghese doveva essere abbattuta in nome della dittatura del proletariato, da attuare per mezzo della rivoluzione del partito unico. Il partito si appoggiava alle riviste Stînga [La sinistra] e Frontul Eventimentului [Il fronte dell’avvenimento] e aveva legami diretti con il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Tuttavia la sinistra estrema romena nel primo dopoguerra ottenne un certo riscontro solo in Bessarabia, il che non sorprende trattandosi di una regione appartenente in precedenza alla Russia e quindi partecipe della rivoluzione bolscevica31. Sul lato opposto dello schieramento invece erano collocate diverse organizzazioni, che si caratterizzavano per il loro anticomunismo e per la loro contrapposizione alla democrazia parlamentare in nome della difesa dei valori nazionali. L’unica ad avere una filiazione diretta dal fascismo italiano era il Movimento nazionale italo-romeno culturale ed economico32, nato nel 1923 per iniziativa della giornalista Elena Bacaloglu. Grande ammiratrice del modello italiano e convinta della possibilità che esso potesse prendere piede in Romania, la Bacaloglu si attivò personalmente presso Mussolini affinché si facesse promotore di un movimento fascista anche in Romania. Il Duce, pur non accettatoriali, quella monarchica (1938-1940), quella fascista (1940-1941) e quella militare (1941-1944). Cfr. S. ALEXANDRESCU, op. cit., p. 75. 31 Ivi, p. 294. 32 Il movimento aveva un nome italiano, quasi a rafforzare il suo legame col movimento fascita.
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tando di sottoscrivere pienamente questa iniziativa, concesse a un gruppo di delegati romeni di compiere una missione in Italia per dar vita a una formazione parallela ai Fasci di Combattimento. Il Movimento non trovò comunque molto sostegno in patria: solo presso l’Università di Cluj riuscì a raccogliere un centinaio di sostenitori. Esso proponeva un programma corporativista caratterizzato da un antiindustrialismo di stampo populista e da un antisemitismo moderato. Il suo nazionalismo si ricollegava al modello di Maurras33. Elena Bacaloglu entrò in contrasto con Mussolini e fu allontanata dall’Italia e il suo tentativo di trasformare il Movimento in Partito Nazionale Fascista fallì nel 1925 in seguito all’intervento della polizia. Un seguito appena più vasto riuscì a raccogliere Fascia Na ională Română [Fascio Nazionale Romeno], che superava i 1500 membri inglobando esponenti del Movimento e di due altre organizzazioni politiche di destra: il gruppo di Opinie Publică [Opinione Pubblica] e quello di Salvatorii Patriei [Salvatori della Patria]. Il programma politico del Fascio era la costruzione della dittatura, l’espulsione di tutti gli stranieri dal paese e la difesa del culto del lavoro. I centri dove il movimento era più attivo erano Bucarest, Timişoara, Arad, Cluj, Focşani, Iaşi e Cîmpulung Moldovenesc. I movimenti di estrema destra si presentavano dunque più frammentati rispetto all’estrema sinistra. La presenza di gruppi nazionalisti è però significativa perché testimonia la persistenza di una tendenza comparsa nel paese già nel secolo precedente. Certamente le associazioni nazionaliste più attive e con maggior seguito, pur non essendo a tutti gli effetti organizzazioni politiche, erano quelle studentesche, in particolare quelle universitarie. La presenza della cultura nazionalista nelle università ebbe un ruolo chiave nell’evoluzione della cultura romena, anche perché era negli atenei che si formavano le élite politiche e culturali. Qui una giovane generazione di intellettuali entrò in contatto con il nazionalismo, un nazionalismo diverso da quello del passato, più radicale e pronto a iniziative attive al di là della speculazione. Questo spiega tra l’altro la 33
M. NAGY-TALAVERA, op. cit., p. 364.
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posizione di Iorga, che abbandonò la sua iniziale simpatia per i giovani nazionalisti e ne criticò la radicalizzazione34. 3.3 Il movimento studentesco Gli atenei diventarono nel periodo interbellico dei “laboratori di idee”, dove lo scambio di opinioni e il confronto tra posizioni diverse consentiva lo sviluppo di teorie e la crescita delle personalità di prestigio. Nelle città universitarie circolavano diverse tendenze filosofiche e giovani provenienti da diversi ambienti sociali e diverse parti del paese entravano in contatto con gli intellettuali più importanti. Certamente il crocevia per eccellenza era Bucarest, la capitale, centro della cultura accademica ma anche della vita mondana del paese. A Bucarest passavano le anteprime cinematografiche e teatrali, si trovavano i salotti più chic e circolava l’aristocrazia che aveva come modello quella europea occidentale. L’università di Bucarest accoglieva due terzi della popolazione universitaria. Il numero di iscritti passò da 4380 nell’anno accademico 1915-1916 a 22902 nel 1929-1930. A Bucarest lavoravano gli intellettuali più conosciuti e avevano sede la maggior parte dei giornali e delle case editrici, oltre alle fondazioni culturali. Anche le università periferiche diventarono centri culturali molto attivi e non solo per quanto riguarda i docenti, ma anche a livello studentesco. I giovani romeni erano interessati alla cultura, non recepivano passivamente le lezioni, cercavano di farle proprie e di metterle in pratica. Erano interessati al cambiamento in corso nel paese e a fare in modo che esso procedesse nella direzione a loro parere più giusta, avevano davanti a loro l’esempio delle generazioni che erano riuscite a costruire lo stato nazionale e a fargli raggiungere i confini storici e desideravano essere alla loro altezza. Nel periodo interbellico fiorirono le associazioni giovanili, di diversi orientamenti. Le borse di studio per l’estero erano ambite da moltissimi studenti, che a costo di sacrifici economici volevano conoscere direttamente la cultura oc34
Ivi, p. 322.
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cidentale. I professori esprimevano le proprie idee nelle lezioni universitarie o in conferenze tenute presso istituti di cultura o fondazioni (come a Bucarest la fondazione Carol I), a testimonianza della pluralità dei canali a disposizione degli intellettuali. Senza dubbio però il veicolo principale per la circolazione delle idee fu la stampa. Tra le due guerre mondiali in Romania si assistette a una vera e propria fioritura di riviste specialistiche, di filosofia, teologia, pensiero politico, ma anche di quotidiani con un orientamento politico più o meno preciso nei quali gli uomini di cultura avevano la possibilità di esprimere le proprie idee. Le riviste o i quotidiani nacquero nella maggior parte dei casi proprio nelle università, volute e dirette dalle figure più interessanti della cultura romena, che imprimevano loro la propria linea. È il caso di Nichifor Crainic direttore della rivista Gîndirea [Il pensiero], o di Nae Ionescu al vertice di Cuvântul [La parola]. I giornali diventarono spesso vere e proprie fucine di giovani e interessanti intellettuali: per Cuvântul passarono le più promettenti figure della cultura romena interbellica. In molti casi erano gli stessi direttori che chiamavano i loro giovani allievi a fare esperienza nella redazione, a scrivere articoli partendo dalle materie che aveva approfondito durante gli studi universitari oppure resoconti relativi ai viaggi all’estero compiuti per perfezionare gli studi. A volte erano invece i giovani intellettuali che davano vita a riviste, non necessariamente imprimendo già loro un orientamento predefinito. Furono questi gli esperimenti più interessanti della Romania interbellica, come è il caso del gruppo Criterion o quello di Floarea de Foc [Il fiore di fuoco] laboratori che accolsero giovani con interessi diversi, dai critici letterari ai filosofi, che ebbero così l’occasione di partecipare al dibattito culturale e politico pubblico e di farsi conoscere. I giovani studenti romeni furono appunto i protagonisti del nuovo fervore culturale. Proprio nel periodo interbellico si sviluppò in Romania, a partire delle università, una generazione di intellettuali di grande valore, basti ricordare nomi noti anche in Occidente come Mircea Eliade, Emil Cioran ed Eugen Ionescu o grandi figure per la cultura romena come Constantin Noica e Mihail Sebastian. Si trattava di giovani colti e anche attivi dal punto di vista politico, sebbene ciò non
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necessariamente implicasse un impegno attivo a favore di un partito politico. Il problema maggiormente avvertito dagli studenti era quello della presenza ebraica nella società romena. Nelle università nel periodo tra le due guerre mondiali l’antisemitismo si diffuse nella sua forma più radicale. Il successo del nazionalismo nel milieu studentesco si spiega in parte sulla base del fascino personale di alcuni leader nazionalisti che erano anche professori universitari come A. C. Cuza o N. P ulescu, in parte su quella dell’attrazione che potevano provare i giovani per le ideologie radicali come quella nazionalista. Tuttavia, come ha suggerito in un attento studio Irina Livizeanu, le ragioni sono anche più complesse. Il successo di questi movimenti era legato alla sensazione di disagio che molti degli studenti romeni vivevano. L’aumento del numero degli iscritti, quindi la facilitazione dell’accesso all’istruzione superiore per i giovani provenienti dalle classi meno agiate non si accompagnò infatti a un adeguamento delle strutture in grado di accogliere e sostenere questi studenti spesso provenienti dalle campagne. Una volta iniziato il percorso di studio molti giovani si ritrovavano ad affrontare grosse difficoltà, soprattutto economiche. Cominciarono così a imputare la loro condizione alla presenza nelle università di studenti stranieri che si trovavano in condizioni migliori, riuscendo con più facilità a concludere gli studi e a trovare occupazione. Il nazionalismo trovò quindi terreno fertile soprattutto presso le università perché gli studenti romeni si sentivano sottorappresentati e sfavoriti e questo facilitò l’avvicinamento a una corrente che legittimasse la loro volontà di difesa dai “non romeni” anche a livello teorico. Secondo lo studio condotto da Irina Livezeanu i romeni non erano realmente sottorappresentati nelle università: costituivano addirittura il 79,9% della popolazione universitaria a fronte del 71,9% della popolazione del paese. Le uniche due facoltà in cui la composizione etnica studentesca era sfavorevole ai romeni rispetto alla popolazione erano la facoltà di medicina (in cui romeni erano il 67,9% degli studenti) e quella di farmacia (40%). Nonostante questo l’autopercezione dei romeni era quella di essere una componente sfavorita. Un dato che può in parte spiegare
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questa situazione era il numero consistente di ebrei iscritti, sicuramente superiore proporzionalmente alla loro presenza demografica. La percentuale di studenti ebrei, fatta ovviamente eccezione per la facoltà di teologia, variava dall’11,2% di lettere al 51% di farmacia35. Questo rendeva la componente ebraica visibile e identificabile e riaccendeva un problema storico della Romania come stato nazionale, il problema ebraico. È abbastanza spiegabile che la componente ebraica, prevalentemente urbanizzata, residente tra l’altro in larga percentuale proprio nelle città sede delle quattro università romene (Iaşi, Bucarest, Cluj e Cernau i), composta in misura superiore alla media da liberi professionisti, intellettuali e banchieri, fosse proporzionalmente più rappresentata nelle università rispetto a quella romena di estrazione prevalentemente rurale36. È altrettanto evidente che gli studenti romeni, molto spesso provenienti dalle province, nel momento in cui maturarono malcontento per le difficili condizioni di vita nelle città universitarie e decisero di protestare, identificassero con una certa facilità gli ebrei come responsabili del loro disagio: li ritenevano infatti colpevoli di sottrarre spazio ai “veri” cittadini romeni e accentuavano la loro diversità, prima di tutto religiosa. La responsabilità di ciò fu imputata alla classe liberale e in generale alle istituzioni democratiche garantiste. Prima del 1923 agli ebrei era infatti precluso l’accesso alle facoltà che consentissero l’accesso a incarichi pubblici. Questo spiega anche perché una delle facoltà nelle quali la tensione antisemita era più attiva fosse quella di giurisprudenza, dove gli studenti romeni si trovavano improvvisamente esposti alla “concorrenza” ebraica. I movimenti studenteschi, denunciando il pericolo di una occupazione da parte degli ebrei dei posti chiave del potere a danno della popolazione romena, proposero in particolare l’imposizione di un numerus clausus nelle istituzioni pubbliche, dall’amministrazione alle università. La battaglia per il numerus clausus fu una delle questioni al 35
I. LIVEZEANU, op. cit., p. 282. A Cernau i gli ebrei erano circa 40.000 su circa 110.000 abitanti; a Cluj quasi 20.000 su circa 110.000; a Bucarest quasi 70.000 su 600.000 e a Iaşi quasi 40000 su 100.000. Cfr. I. LIVEZEANU, op. cit., pp. 65, 158 e 227. 36
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centro dell’interesse dell’opinione pubblica degli anni Venti e favorì la nascita di associazioni studentesche che si batterono per questo scopo. All’inizio degli anni Venti uno dei centri della protesta studentesca fu Iaşi, dove si fece notare il giovane leader del movimento, lo studente di diritto Corneliu Zelea Codreanu. Tra i gruppi che ottennero maggiore risonanza vanno ricordate l’Alleanza Antiisraelita Universitaria e la Lega Antisemita Universale, costituita tra gli altri da A. C. Cuza e Nicolae Iorga, in seguito fondatori del Partito Nazionalista Democratico, che si colloca nello spettro politico romeno all’estrema destra. Una delle associazioni studentesche più attive fu poi l’Unione Nazionale Cristiana fondata nel 1922 da A. C. Cuza e N. P ulescu. Essa si proponeva l’esclusione degli ebrei dall’accesso agli incarichi pubblici, così come dai ruoli preminenti nell’industria, nel commercio e in tutte le attività produttive. Il programma della Lega prevedeva inoltre l’espulsione degli ebrei giunti in Romania dopo la guerra e l’applicazione del numerus clausus nelle università. Il 4 marzo 1923 l’Unione si trasformò in Lega per la Difesa Nazionale della Romania (Liga Apărarii Nazionale României – LANC), nel cui direttivo entrò il giovane leader del movimento studentesco dell’Università di Iaşi, Corneliu Zelea Codreanu37. Il nazionalismo si rivelò quindi prima di tutto una tendenza culturale e l’elemento che accomunò gruppi filofascisti, organizzazioni filodittatoriali e associazioni studentesche fu l’antisemitismo, un aspetto caratteristico della cultura romena nel XIX secolo e che sarebbe poi diventato fondamentale negli anni Trenta. Non si deve credere però che questi gruppi nazionalisti estremisti rappresentassero una componente politica forte nel paese. La loro presenza è significativa perché testimonia una tendenza, ma la loro incidenza effettiva sul panorama politico fu quasi nulla, almeno fino alla comparsa del Movimento Legionario.
37
I. LIVEZEANU, op. cit., p. 313.
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capitolo secondo
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La questione nazionale rimase al centro del dibattito culturale anche dopo la nascita della Grande Romania, sebbene il nuovo contesto politico imponesse agli intellettuali una ridefinizione delle questioni su cui dibattere. Lo Stato romeno infatti ormai esisteva, aveva raggiunto i confini considerati storici per il paese e includeva la stragrande maggioranza di coloro che culturalmente si potevano dire romeni, per cui la questione della definizione dell’identità nazionale non era più attuale. Restava invece aperta una duplice problematica: da una parte era necessario difendere le conquiste acquisite, impedire che minacce esterne e interne potessero metterle in pericolo; dall’altra occorreva fare in modo che il nuovo Stato trovasse la sua collocazione nel panorama politico e culturale mondiale e definirne l’identità, capire cioè “che cosa la Romania doveva diventare”. Questo è un aspetto che riguardava tutti gli intellettuali romeni, qualunque fosse il loro orientamento: essi si ponevano il problema del consolidamento dello stato nazionale e della difesa dalle minacce interne ed esterne. Liberalismo, contadinismo e antiliberalismo nazionalista non erano in questo senso che risposte alla medesima domanda.
1. Gli eredi della tradizione positivista: liberali e contadinisti Liberali e contadinisti condividevano un’impostazione positivista: erano convinti che la modernizzazione del paese avrebbe assicurato il progresso e un maggiore benessere alla società. Esistevano tra loro delle differenze, infatti all’interno del partito contadino erano presenti anche reduci dal gruppo di Sămănătorul e dal Partito Conservatore,
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pur rimanendo questa una componente minoritaria, le cui posizioni furono regolarmente sconfitte nella scelta della linea ufficiale del partito. Sia i liberali che i contadinisti, proprio per la loro comune matrice positivista, furono oggetto della critica di quella parte di intellettuali che poi simpatizzò con la Guardia di Ferro. 1.1 Il liberalismo romeno: tra politica e cultura La corrente liberale vantava una tradizione lunga e prestigiosa in Romania. L’élite che aveva guidato il movimento risorgimentale e portato alla nascita dello stato nazionale aveva combattuto in nome del riconoscimento dei diritti individuali ai romeni tanto nell’ambito dell’impero asburgico, quanto di quello ottomano. Questa élite emerse per la prima volta nel 1848: si trattava di un gruppo di giovani intellettuali di prevalente formazione francese, molti dei quali assistettero direttamente allo scoppio dei moti di febbraio a Parigi e decisero di portare il fermento rivoluzionario anche in patria1. Il loro programma prevedeva l’abolizione dei privilegi, la parificazione della posizione giuridica di tutti i cittadini e soprattutto l’unione dei due principati danubiani sotto un unico principe, preferibilmente straniero. La lotta per 1 La prima sommossa scoppiò a Iaşi, ma presto la rivolta dilagò anche in Valacchia. In Moldavia la rivolta ebbe breve durata, mentre in Valacchia tra giugno e settembre si riuscì a organizzare un governo provvisorio, che promise la diffusione di diritti politici e civili e rivendicò autonomia tanto dalla Sublime Porta quanto dal protettorato russo. Il passaggio dalla rivendicazione di una identità culturale romena a un movimento risorgimentale non lasciò peraltro isolata la Transilvania. Anche in questa regione, le cui sorti erano legate a quelle ungheresi, si assistette a una attiva partecipazione alle insurrezioni antiasburgiche del 1848. La componente romena assolse un ruolo importante ma, analogamente a quanto accaduto più di venti anni prima in Moldavia con i greci, l’iniziale alleanza con gli ungheresi finì per sfaldarsi. Nel momento in cui diventò chiaro che il successo degli alleati comportava sì l’affermazione dei diritti e delle libertà fondamentali, ma soltanto per i membri della loro comunità, i romeni rinunciarono al sostegno e addirittura diventarono ostili al movimento insurrezionale riavvicinandosi all’impero e sperando che la loro ostilità ai rivoltosi venisse in qualche modo ricompensata dai sovrani. Nel 1849 un esercito congiunto russo e ottomano intervenne nei principati danubiani reprimendo ogni insurrezione, mentre in Transilvania furono le forze imperiali asburgiche a riportare l’ordine.
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la difesa dei diritti individuali si scontrò però con la volontà dei boiari locali di difendere i loro tradizionali privilegi. D’altra parte i promotori dell’insurrezione non riuscirono a trovare un’intesa neanche con la base contadina, sospettosa di fronte agli aristocratici, e questo portò al fallimento dell’esperienza rivoluzionaria. Questa sommossa fu comunque estremamente importante, perché rappresentò la prima occasione di impegno politico attivo per il gruppo che le diede vita. Grazie a essa la generazione del 1848 poté rivendicare la paternità del percorso verso la liberazione del popolo romeno dalla sudditanza straniera e la costruzione dello stato nazionale, nonostante anche per la Romania, come per la maggior parte dei paesi europei, la svolta verso l’indipendenza fosse legata a eventi internazionali più che all’efficacia dell’azione interna. Furono questi stessi leader che assunsero la guida del paese quando fu riconosciuta la piena autonomia ai Principati di Moldavia e Valacchia (1859) e guidarono lo stato quando si costituì come Principato (1861) e poi come regno pienamente indipendente (1878)2. Almeno nella fase di costruzione dello stato nazionale e nei primi cinquanta anni di vita del paese non si registrò alcuna dicotomia tra liberalismo e nazionalismo, al contrario il Partito Liberale difese ancora di più di quello conservatore le rivendicazioni nazionali. I liberali si fecero promotori di un triplice programma di rinnovamento politico, economico e sociale per la Romania. Il loro punto di riferimento era la tradizione anglosassone e francese: erano favorevoli all’introduzione di istituzioni liberaldemocratiche 2
Il Partito Liberale di Ion Br tianu, ottenuto un primo successo con la nomina di Alexandru Ioan Cuza a principe nel 1861, monopolizzò il potere per anni e con Mihail Kog lniceanu, Primo Ministro dal 1863, adottò varie iniziative per dare attuazione al programma del ’48: dalla riforma agraria all’introduzione di un sistema educativo obbligatorio nazionale, dal codice civile alla centralizzazione amministrativa e soprattutto la Costituzione del 1866, ispirata a quella belga del 1830. Che questo gruppo fosse ormai padrone della politica fu dimostrato in modo esemplare nello stesso 1866 dalla crisi dinastica che i liberali aprirono per sostituire Cuza al vertice del Regno. Cuza, ritenuto soltanto un reggente in attesa di insediare sul trono un principe straniero, fu costretto a rassegnare le dimissioni e sostituito con Karl (Carol) di Hohenzollern-Sigmaringen.
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e alla difesa dei diritti individuali. Secondo loro solo proseguendo sulla via del recepimento della struttura giuridica dello stato di diritto la Romania avrebbe potuto dialogare alla pari con gli stati occidentali. Ecco perché i liberali, anche dopo la guerra mondiale, si riallacciarono alla tradizione del 1848 e della Costituzione del 1866, visti come due momenti chiave in cui la Romania aveva dato segno di voler intraprendere la via della modernizzazione delle proprie istituzioni verso la liberaldemocrazia, momenti storici da valorizzare e riprendere e come tali premesse all’elaborazione della Costituzione del 1923. I liberali sostennero altresì che il sistema economico romeno dovesse adeguarsi agli standard di sviluppo occidentali, per cui considerarono essenziale la modernizzazione delle attività produttive in senso capitalista: il paese doveva quindi rinunciare alla sua economia agraria e procedere in modo deciso sulla via dell’industrializzazione. In questo modo anche la società romena avrebbe subito una trasformazione: l’ambiente rurale avrebbe lasciato sempre più spazio a una società moderna, dinamica e non chiusa nelle sue tradizioni arcaiche. Questo avrebbe favorito lo sviluppo di una mentalità imprenditoriale fino ad allora assente nel paese, che avrebbe stimolato ulteriormente la crescita economica. Secondo la linea di pensiero liberale, esisteva quindi un legame inscindibile tra la modernizzazione in ambito economico e quella in ambito politico-sociale. La Romania vincitrice della I guerra mondiale e finalmente rientrata nei suoi confini storici doveva diventare uno stato moderno, in grado di concorrere con quelli più avanzati dell’Europa occidentale. Questo programma di rinnovamento politico, economico e sociale era condiviso tanto dagli esponenti politici quanto dagli intellettuali liberali, anche se non è detto che ci fosse coincidenza perfetta. C’erano ad esempio intellettuali che sostenevano una riforma politica in senso liberale del paese, ma non una sua trasformazione economica in senso industriale; alcuni pensavano a trasformazioni graduali, altri a terapie shock, alcuni ritenevano che l’evoluzione dovesse avvenire con un processo naturale, altri consideravano decisivo l’intervento della politica.
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I due esponenti di maggiore spicco della cultura liberale romena nel periodo interbellico furono Eugen Lovinescu e Ştefan Zeletin. Il critico letterario Eugen Lovinescu (1881-1943) individuava le origini della Romania moderna nella prima metà del XIX secolo, quando il paese era entrato in contatto con la cultura occidentale. Secondo la sua idea di “sincronismo” i paesi arretrati cercavano di adeguarsi al modello di sviluppo delle potenze avanzate. Inizialmente questo si traduceva in una imitazione sterile e passiva, ma successivamente si assisteva a un processo graduale di integrazione. L’opera più importante di Lovinescu fu Istoria civiliza iei [La storia della civilizzazione], nella quale l’autore analizzava anche la situazione contemporanea della Romania sostenendo che l’ostilità degli ambienti conservatori nei confronti dei soggetti portatori di capitale, industriale o commerciale, era legata alla reazione delle forze conservatrici della Romania contro la modernizzazione. Il nazionalismo sarebbe stato espressione di questa tendenza: esso faceva appello alla tradizione storicista per criticare il tentativo di introdurre in Romania elementi di modernizzazione estranei alla sua tradizione. Lovinescu rimproverava al nazionalismo di guardare solo al passato e di credere che solo da esso e dalla tradizione potesse nascere un modello di sviluppo valido per il paese. Al contrario secondo lui una nazione doveva cercare di adattarsi e adattare il suo profilo economico e politico a ogni epoca storica, a ogni contesto internazionale, lasciando da parte i sentimentalismi. Quando Lovinescu parlava di nazionalismo faceva riferimento alle correnti culturali che si erano mosse contro la modernizzazione del paese e in primo luogo alla tradizione conservatrice del secolo precedente, da Junimea al Sǎmǎnǎtorism. Questo giudizio è un primo segnale che il cammino comune del liberalismo e del nazionalismo stesse entrando in crisi. L’economista Ştefan Zeletin (1882-1934) insistette molto sull’aspetto economico della modernizzazione e sulla necessità di adottare in Romania un modello di sviluppo capitalistico. Secondo Zeletin la Romania aveva intrapreso già nel XIX secolo un processo rivoluzionario inevitabile, contro il quale si erano schierate le forze reazionarie della società, includendo in esse non soltanto gli esponenti del pensiero conservatore, ma anche i socialisti, in quanto contrari alla borghe-
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sia, soggetto fautore per eccellenza di un rinnovamento e di una crescita moderna del paese3. Se Zeletin, essendo un economista, adottò una prospettiva relativa al sistema produttivo del paese più che a quello politico, il filosofo della cultura e sociologo Mihai Ralea (1896-1964) spostò il discorso sul piano culturale, criticando le tendenze estremiste di destra e di sinistra e sostenendo i valori e i principi diffusi dalla rivoluzione francese. Essi avrebbero consentito in Romania il risveglio della coscienza nazionale e dovevano essere valorizzati perché solo in essi poteva essere coltivata la cultura romena. Negli anni Venti questa corrente liberale mantenne un peso molto forte sull’opinione pubblica, complice anche il fascino che il beau monde europeo continuava a esercitare sulla società romena. Il costante punto di riferimento della vita cittadina, soprattutto a Bucarest, rimase infatti la cultura francese. La Francia era infatti considerata il paese rappresentativo della cultura occidentale e allo stesso tempo della cultura latina, per cui era sentita particolarmente vicina dagli intellettuali romeni che continuavano, come già nel secolo precedente, a importarne mode e tendenze. I teatri proponevano sempre più spesso spettacoli di autori francesi, sempre più intellettuali scelsero Parigi per la loro formazione e si diffuse la moda di parlare in francese nei salotti della capitale. Come Bucarest era la “piccola Parigi”, la Romania poteva diventare la “Francia dell’Est”, primo paese della parte orientale del continente a trovare posto accanto alle potenze occidentali. Anche i maggiori organi della stampa romena sostennero la cultura e la politica liberale, da Universul [L’universo] a Via a românească [La vita romena]: non mancarono comunque voci, che pur nella difesa del liberalismo e della democrazia denunciarono i limiti del sistema applicato in Romania. È il caso del periodico Facla, il cui direttore Ion Vinea ricondusse le critiche alla democrazia avanzate da una parte della cultura romena al cattivo funzionamento delle istituzioni del paese, che non sarebbero state altro che un “simulacro” della vere isti3
Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 24.
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tuzioni democratiche funzionanti in paesi di più lunga tradizione liberale come il Regno Unito o la Francia. La stessa posizione aveva Sandu Tudor, direttore di Florea de Foc e Credin a [La fede], che riconobbe la decadenza morale in cui era caduto il sistema politico romeno non imputandola però al sistema democratico come tale, ma al contesto specifico interno della Romania4. Queste voci testimoniavano il disagio per il cattivo funzionamento di un modello ancora non radicato nel paese e verso il quale si rivolgevano critiche ben più aspre soprattutto negli ambienti dell’alta cultura. Qui il liberalismo dimostrò di avere sempre meno appeal tra accademici e studenti. La debolezza di questa interpretazione della realtà romena e delle sue prospettive stava certo nella sua fiducia nella possibilità di trasferire nella realtà locale, in tempi brevi e con buoni risultati, un modello di sviluppo nato in un contesto diverso. Il modello capitalista dell’economia di mercato, ad esempio, necessitava di capitali e di un gruppo di imprenditori disposti a investire in attività produttive alternative a quelle tradizionali; ma in Romania gli unici che accumulavano capitali grazie alle rese agricole e al boom delle esportazioni erano i grandi latifondisti, del tutto privi però di mentalità imprenditoriale persino nel settore agricolo e quindi men che meno in campo industriale e nei servizi. 1.2 Il contadinismo: una modernizzazione nel rispetto delle radici agrarie La corrente contadinista aveva un diretto referente politico nel Partito Contadino e condivideva con il Partito Liberale la convinzione della necessità di una modernizzazione del paese, ma riteneva che ciò potesse avvenire per mezzo del potenziamento delle strutture agricole. Condivideva altresì col Partito Liberale la convinzione della necessità del rispetto delle istituzioni liberaldemocratiche. Il contadinismo riuscì a proporre un progetto politico che costituì l’alternativa politica ed 4
Ivi, pp. 65-70.
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economica più credibile a quella liberale almeno fino all’inizio degli anni Trenta. Analogamente al liberalismo anche il contadinismo si muoveva su un piano principalmente economico. A livello istituzionale infatti il sistema liberaldemocratico non era messo in discussione. I sociologi e gli economisti che facevano parte della corrente contadinista erano però convinti dell’inadeguatezza del modello capitalista per la Romania e intendevano proporre una via alternativa di sviluppo. Siamo di fronte a una corrente che aveva pochi referenti nel panorama occidentale (si potrebbe parlare della tradizione agraria tedesca), ma ben inserita nella cultura e nella prassi politica dei paesi dell’Est, a partire dal partito Narodnaia Volia in Russia per finire con Stambolijski in Bulgaria e l’Internazionale Verde di Praga5. Questa corrente condivideva con il sǎmǎnǎtorism e il poporanism del secolo precedente la convinzione che la tradizione agraria romena dovesse essere valorizzata e non stravolta introducendo un sistema inadatto al paese come quello capitalista, tuttavia non si può individuare una perfetta continuità tra il pensiero dell’Ottocento e quello del Novecento, perché il contadinismo non metteva in discussione il sistema istituzionale liberale, mentre la critica di Sǎmǎnǎtorul al liberalismo era generale e non riguardava soltanto l’aspetto economico. L’idea di “stato agrario” proposta dai contadinisti non era comunque omogenea tra i diversi esponenti del movimento, anche laddove fossero eredi del vecchio populismo russo: Constantin Stere, legato alla tradizione poporanista, sosteneva che per stabilire un nuovo modello di sviluppo agrario si dovesse partire dalla piccola proprietà contadina. I contadini dovevano detenere il controllo dei mezzi di produzione e potevano organizzarsi in cooperative. La posizione poporanista di Stere si affiancava nel Partito Contadino a un’altra corrente con altrettanto seguito, quella del sociologo Virgil Madgearu. Influenzato dall’economista socialista rivoluzionario russo Čajanov, Madgearu, così come Stere, non rifiutava in assoluto l’industrializzazione, ma le 5 Non a caso Constantin Stere, uno degli esponenti di punta del contadinismo romeno, nacque in Bessarabia quando questa faceva ancora parte dell’Impero russo (1865) e aderì in gioventù a Narodnaia Volia.
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assegnava un ruolo marginale nell’economia romena. Madgearu sosteneva la tesi della superiorità della piccola proprietà contadina sull’industria capitalista perché essa era sopravvissuta nel tempo rafforzandosi. Secondo Madgearu la divisione dei terreni in piccole proprietà contadine avrebbe mantenuto in vita l’agricoltura pur nello sviluppo di un’economia industriale capitalista. Stere e Madgearu sono due esempi di diversificazione dell’eredità populista russa nelle nuove condizioni socio-economiche del XX secolo e ne dimostrano vitalità e limiti.
2. L’antiliberalismo nazionalista 2.1 Dagli autoctonisti agli ortodossisti Proprio mentre Lovinescu e Zeletin proseguivano sulla linea liberale che era stata alla base della formazione dello stato romeno e altri, come Stere e Madgearu, proponevano l’alternativa contadinista, un gruppo di intellettuali mise in dubbio che questi potessero essere modelli di sviluppo validi anche per la Romania. La loro speranza, condivisa del resto dai liberali, era quella di costruire una Romania forte, sia politicamente che economicamente. Le difficoltà che i governi sia liberali che contadinisti incontrarono nell’attuazione del loro programma, nonché il malcontento che progressivamente si diffuse nella società, li convinsero della scarsa efficacia del modello liberaldemocratico. Nonostante le sue potenzialità infatti la Romania rimase dopo la guerra una piccola potenza con un peso politico assai limitato e una economia che stentava a decollare. Queste difficoltà venivano attribuite all’incapacità degli uomini politici al potere, ma anche alla loro cultura, che li aveva spinti a cercare di “trapiantare” artificialmente nel paese un sistema estraneo, nato in un contesto del tutto diverso e dunque incompatibile con la cultura del paese. Ma in nome di che cosa questi intellettuali si contrapponevano alla tradizione liberale quarantottista e postquarantottista?
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In primo luogo rimanevano presenti nella cultura romena alcuni elementi già propri della corrente autoctonista del secolo precedente: l’obiettivo della critica restava il liberalismo e in effetti anche negli anni Venti e negli anni Trenta del Novecento l’esperienza del 1848 continuava a essere denunciata da alcuni come esempio negativo, perché aveva segnato l’inizio della penetrazione della cultura politica ed economica occidentale nel paese, frenando così “il cammino naturale [della Romania] dall’appartenenza spirituale specifica della comunità spirituale orientale”6. Il 1848, una tappa fondamentale per la storia della Romania, era quindi visto come il momento in cui per la prima volta l’integrità culturale del paese era stata messa in pericolo. Il teologo Nichifor Crainic (1889-1972), ad esempio, attaccava duramente la tradizione quarantottista in nome del suo carattere “rivoluzionario e laico”, fautore di un’idea della romenità che “è nazionalista ma non è più ortodossa”7. La critica mossa al liberalismo del periodo rispetto a quella del secolo precedente si basava però su una riflessione più profonda e di carattere filosofico. Essa adottò una prospettiva storicista, nella quale la storia era vista come un processo naturale che porta alla costituzione di comunità con caratteristiche diverse: la democrazia nata nell’ambito della cultura razionalista e individualista occidentale, che a torto pretendeva di essere universale, era considerata inadatta alla realtà romena. Questa impostazione di filosofia della storia consolidava meglio le intuizioni di Titu Maiorescu, il massimo esponente di Junimea, che aveva parlato di “forme senza contenuto” e criticato a suo tempo l’inserimento in Romania un modello non adatto alla realtà sociale romena. La maggior parte degli intellettuali romeni riconducibili al filone autoctonista del periodo interbellico adottarono come obiettivo critico tutta la filosofia occidentale moderna, da Cartesio a Kant, colpevole di ridurre la realtà alla ragione; ma contestarono anche Hegel, perché in fondo, a loro avviso, l’hegelismo non era altro che la massima espressione del razionalismo applicato alla storia, la pretesa di ricondurre a 6 7
Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 35. Cit. in Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 28.
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un sistema intelligibile il cosmo. La loro polemica si concentrò però soprattutto contro il positivismo, considerato l’ultima espressione di questa tendenza razionalista, con la sua aspirazione a risolvere tutti i problemi dell’uomo, un’aspirazione miseramente fallita durante la prima guerra mondiale. Il razionalismo e le sue filiazioni erano considerati dei tentativi di “astrazione” dalla realtà, che coltivavano la falsa speranza di comprendere e risolvere tutti i problemi, di dare la risposta giusta a qualsiasi domanda, una risposta razionale e quindi universale. Era questo a essere contestato: l’assenza di un riferimento alla realtà concreta, alla storia come processo in cui si sedimentava una cultura, alle specificità di ciascuna cultura. Secondo questi pensatori non esisteva una risposta universale, perché la ragione non poteva comprendere e spiegare tutto; i modelli sviluppati intorno a un’idea razionale non erano adattabili a ogni realtà, quindi lo stesso sistema politico liberal democratico frutto del trionfo della ragione, del contrattualismo e della rivoluzione francese, poteva essere adatto al contesto storico che lo aveva generato, ma non a un altro. In questa polemica antioccidentale gli intellettuali romeni si ricollegavano, talora in modo esplicito, alla reazione antipositivista che si era sviluppata già all’inizio del Novecento nell’area mitteleuropea e in Francia. Crainic, ad esempio, si rifaceva a Spengler nel definire l’Occidente una civiltà al tramonto e Lucian Blaga (1895-1961), grande ammiratore della filosofia tedesca e soprattutto di Friedrich Nietszche, rivendicò l’origine dacia dei romeni in contrapposizione a quella latina, dimostrando piena sintonia con il recupero delle radici autoctone che in Germania era già stato avviato durante il Romanticismo. Molto più dei loro colleghi del secolo precedente quindi, gli intellettuali antiliberali degli anni Venti furono influenzati dal dibattito culturale europeo e ne ripresero le tematiche. L’effetto fu che la reazione contro l’Occidente non si risolse più semplicemente nel recupero della tradizione rurale del paese: essa si basava sulla convinzione della sterilità di un sistema ormai giunto al suo stadio finale. Pur essendo concordi sull’oggetto della critica, gli intellettuali romeni assunsero posizioni eterogenee per quanto riguarda le possibili alternative: alcuni proposero il recupero dei valori autentici della na-
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zione, altri ritennero che il processo storico avrebbe fatto emergere nuove forze le quali avrebbero preso il posto di quelle democratiche ormai incancrenite. Questa lettura vitalista della storia fu proposta inizialmente in chiave culturale, ma dalla contrapposizione tra le culture alla contrapposizione tra le nazioni il passo era breve, e fu compiuto negli anni Trenta. L’elemento che comunque accomunò gli intellettuali antiliberali fu il rifiuto di una società fondata sulla valorizzazione di quelli che essi consideravano gli aspetti materiali della vita e considerata sulla base di parametri meramente quantitativi. Chi riteneva necessario tornare ai principi fondanti dell’identità nazionale romena non si appellava semplicemente alla tradizione contadina: faceva invece esplicito riferimento alla cristianità ortodossa. Non a caso una parte dei pensatori nazionalisti del periodo interbellico fu definita “ortodossista”: spesso erano veri e propri teologi che facevano riferimento a riviste che si occupavano della dottrina o di filosofia della religione, come Predania o Gîndirea [Il pensiero]. La religione e la fede rappresentavano l’alternativa da contrapporre alla divinizzazione della ragione. Ma allo stesso tempo il raccoglimento della nazione romena intorno alla comunità di fede ortodossa consentiva di consolidare il nuovo stato nazionale: la fede ortodossa diventava “fonte di unità spirituale”8. Come dice con efficacia Stephen Fischer Gala i: “the centrality of Orthodox Christianity was not strictly dependent upon religious faith, but became an axiom for the new nationalists”9. La scelta dell’ortodossia come fondamento e amalgama della comunità nazionale romena andava al di là della convinzione personale di questi intellettuali, era una scelta consapevole e ragionata. L’indagine della spiritualità romena nel suo profondo, la sua valorizzazione aveva lo scopo di mantenere la specificità della nazione romena tramite lo studio delle tradizioni, del folclore, della mistica. Uno dei primi intellettuali a dare una sfumatura più “spiritualista” all’interpretazione autoctonista della storia romena fu Contantin R dulescu-Motru, che in Cultura română şi politicianismul [La cultu8 9
Eastern…, cit., p. 286. Ivi, p. 288.
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ra romena e la politica] criticò aspramente i liberali in nome della loro volontà di imporre al paese un modello del tutto estraneo al profilo spirituale del popolo romeno10. Se R dulescu-Motru non può essere considerato un vero e proprio nazionalista, era però esponente di una forma di autoctonismo dal quale è scaturito il pensiero nazionalista del periodo interbellico. Il già citato Nichifor Crainic invece è considerato il caposcuola della tendenza ortodossista. Il costante oggetto della sua speculazione fu il ritorno ai valori autentici della spiritualità romena, entrati in decadenza a seguito della penetrazione nel paese della cultura occidentale. Questi valori erano per Crainic quelli della spiritualità ortodossa, che erano rintracciabili in tutte le espressioni più autentiche della cultura popolare romena e rappresentano la fonte della spiritualità delle masse contadine e le “forze animatrici” del “cammino della storia”. Depositaria di questi valori era la Chiesa, per la quale Crainic rivendicava un ruolo di primo piano dal punto di vista spirituale. Anche chi non era ortodossista e si rifaceva a Spengler, proponendo una lettura della storia come processo messianico in senso religioso (come nel caso di Mircea Eliade) o laico (come nel caso di Emil Cioran), riteneva pronti i tempi per la comparsa di una cultura alternativa a quella liberaldemocratica occidentale. Fino agli anni Trenta comunque la reazione al liberalismo si svolse in Romania prevalentemente sul piano culturale. Gli intellettuali che ne erano interpreti assunsero una posizione genericamente contraria al partito dei Br tianu, ma senza schierarsi compattamente a favore di una forza politica. Il rapporto con il mondo politico non fu assente, ma fu assai diversificato per forma e livello di coinvolgimento, come si vedrà meglio in seguito. Tuttavia non ci si limitò, come nell’Ottocento, a una generica critica contro la democrazia in nome, al massimo, della conservazione del modello legittimista. Si cominciò invece a cercare un sistema politico in grado di rimediare alle debolezze del paese e allo stesso tempo conforme alla tradizione. Probabilmente ebbe un grande peso il fatto che già negli anni Venti fossero presenti 10
Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 24.
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in Europa modelli di governi autoritari. Così gli intellettuali autoctonisti criticavano la democrazia e proponevano anche un modello alternativo: fino agli anni Trenta al rafforzamento della monarchia di sapore ancora legittimista si affiancò la proposta dello stato corporativo. Uno dei massimi teorici del corporativismo fu Mihail Manoilescu, autore di Secolul corporativismului [Il secolo del corporativismo] e finanziatore della rivista Lumea nouă [Il mondo nuovo]. Partendo dall’accusa al suffragio universale come mezzo ipocrita della classe politica per illudere i contadini di una partecipazione al potere, egli sosteneva che i contadini avrebbero invece avuto davvero possibilità di intervento e di decisione con l’autoorganizzazione e la nomina di loro rappresentanti al pari delle altre categorie professionali. I partiti avevano la pretesa di proporre ideologie e sistemi universalizzanti, validi per l’intera società, non tenendo conto del fatto che ogni categoria, ogni gruppo sociale aveva le proprie esigenze ed era il miglior difensore potenziale dei propri interessi: l’organizzazione per categorie produttive li avrebbe dovuti sostituire. Uno dei primi interpreti della reazione antiliberale a impegnarsi anche sul piano politico per un’alternativa alla democrazia, rifacendosi in parte anche alle tesi di Maiorescu, fu il filosofo Nae Ionescu, considerato insieme a Crainic uno dei caposcuola dell’ortodossismo. La sua figura è importante soprattutto per il prestigio che egli ebbe presso l’opinione pubblica e in ambiente accademico, tanto che il suo passaggio al sostegno attivo della Guardia di Ferro diventò emblematico di una classe intellettuale ormai pronta all’impegno politico attivo. 2.2 L’antisemitismo Al di là degli elementi originali del nazionalismo interbellico, esso fece proprio un aspetto che aveva mantenuto un peso assai rilevante nella cultura romena sin dal secolo precedente: quello dell’antisemitismo. L’antisemitismo fu un fenomeno diffuso nella Romania sin dalla sua nascita come stato nazionale e una tendenza che si manifestò soprattutto presso la crème dell’intellighentsia romena, anche quella più aperta e democratica. La diffusione dell’antisemitismo nella Romania
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dell’Ottocento fu un fenomeno piuttosto variegato, che può essere ricollegato all’ossessiva ricerca di un’identità pura da intromissioni esterne. Come chiarisce bene Francesco Veiga, uno dei massimi storici della Guardia di Ferro: “l’antisemitismo permette un largo ventaglio di posizioni: la condanna per ragioni di ordine biologico di [A.C.] Cuza, o il fanatismo con radici cristiane di altre ben note figure, che si appropriano di tutti i miti vetusti dei crimini rituali degli ebrei, come nel caso del professor P ulescu; Mihai Eminescu, poeta nazionale dei romeni diluiva l’antisemitismo in una profonda xenofobia indirizzata contro tutti i vecchi dominatori del paese, combinato con il visceralismo di un romantico”11. Identità pura da intromissioni esterne si diceva: tale avrebbe dovuto essere l’identità romena. La classe dirigente del paese e l’intellighentsia avvertivano l’esigenza di rafforzare il senso di solidarietà interno del paese, ma questo poteva avvenire solo per mezzo di una politica culturale volta a sviluppare autocoscienza del popolo e non si trattava di un obiettivo facile da conseguire in tempi brevi, soprattutto in un paese di contadini in maggioranza analfabeti. Molto più rapida e tutto sommato efficace nel breve periodo appariva quindi l’individuazione di un nemico contro il quale continuare la difesa della comunità nazionale. Il gruppo più facilmente identificabile nel paese era quello ebraico. Benché le posizioni antisemite non siano state accolte direttamente nel movimento liberale, sorprende che mancassero risposte convincenti e solide e questo può essere spiegato, come si è accennato in precedenza, da un lato dalla paura dei gruppi dirigenti dell’aggressione dall’esterno di un paese la cui costruzione nazionale non era affatto terminata, dall’altro dalla diffidenza di gruppi dirigenti di perdere i loro privilegi con l’accettazione di un liberalismo integrale. Ma chi erano gli ebrei nella Romania di fine Ottocento? E perché diventarono oggetto della critica di uno schieramento così vasto ed eterogeneo? La minoranza ebraica rappresentava prima della Grande Guerra circa il 3,3% della popolazione totale. Si trattava di un gruppo che viveva prevalentemente nelle città e si occupava di commercio e 11
F. VEIGA, op. cit., pp. 55-56.
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attività finanziaria. In un paese privo di una borghesia sviluppata, gli ebrei rappresentavano la classe media. Privi di potere politico, erano oggetto di un crescente antagonismo professionale, che aveva quindi una base prima di tutto sociale e solo in un secondo momento trovò presso gli intellettuali spiegazioni religiose. Un altro aspetto che consente di spiegare l’antisemitismo ed è legato al nazionalismo romeno, è il fatto che il paese a fine Ottocento fosse uno Stato nato da poco e ancora non consolidato. L’esigenza di dare maggiore compattezza interna al paese si legava al timore di attacchi esterni, soprattutto dalla Russia che non aveva mai perso occasione per esercitare la sua egemonia sui due vecchi principati. La classe dirigente del giovane Stato aveva bisogno di temi che richiamassero la maggior parte della popolazione alla solidarietà a sostegno del paese e l’antisemitismo poteva essere un tema più coinvolgente nell’immediata sua quotidianità. L’antisemitismo non era nella neonata Romania soltanto una moda presso gli intellettuali, ma un atteggiamento diffuso negli ambienti politici, non soltanto conservatori. Lo ricorda ancora Veiga “Una grande parte dei quadri dei vecchi partiti, conservatore e liberale – a cominciare proprio dalla famiglia Br tianu – praticavano un antisemitismo di circostanza e all’occorrenza erano pronti a organizzare pogrom; con tutto ciò i loro interessi erano integrati in un complesso edificio economico con una moltitudine di fattori legati da relazioni reciproche e che si confondevano gli uni con gli altri. Dall’ottenimento della piena indipendenza i governi che si sono succeduti in Romania crearono una rete di leggi antisemite, cercando di allontanare gli ebrei dai meccanismi dello Stato e di impedire loro di governare il paese”12. Questo è il motivo per cui la Costituzione liberale del 1866, punto di riferimento degli intellettuali filo-occidentalisti, conteneva un articolo, l’art. 7, che negava la cittadinanza degli ebrei ammettendo l’emancipazione solo individuale di alcuni membri di questo gruppo. Solo nel 1878, quando le potenze europee subordinarono la concessione della piena indipendenza del Regno di Romania alla parificazione dei diritti degli ebrei a quelli degli altri cittadini, l’anomalia venne corretta. 12
Ivi, p. 56.
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Un antisemitismo moderato fu quello di Constantin Stere (18651936), leader del poporanism, che considerava commercio e usura attività non produttive, perché non generavano profitto dalla creazione di beni, ma dallo scambio e da investimenti finanziari, quindi da operazioni artificiali su di essi. Si tratta di una concezione fortemente arretrata dell’economia, caratteristica tra l’altro di un certo populismo russo e fatta propria in seguito dallo stesso bolscevismo. In ogni caso la critica alle attività commerciali e finanziarie, essendo queste attività in mano quasi esclusivamente a ebrei, portava Stere a concludere che essi rappresentassero un gruppo parassitario all’interno della società romena. Il pericoloso aumento dei membri di questa comunità avrebbe quindi rappresentato il pericolo che il paese finisca sottomesso agli stranieri. La religione ebraica era inoltre considerata una religione arcaica e incapace di adeguarsi alla società moderna, rigida nel mantenimento dei suoi valori e dei suoi dogmi e radicalmente diversa da quella cristiana. Ma proprio questa arretratezza supposta della religione ebraica permetteva a Stere di non assumere atteggiamenti persecutori nei confronti degli ebrei, infatti essa avrebbe a suo parere rappresentato il germe dell’autodistruzione per il popolo ebraico, la cui assimilazione sarebbe stata imposta dai tempi. Antisemitismo storico era invece quello di Nicolae Iorga e del poeta Mihai Eminescu. Secondo Iorga l’assimilazione del popolo ebraico non si poteva escludere a priori e lo scontro poteva essere evitato nel caso in cui essi avessero rinunciato alla propria cultura e avessero adottato quella romena. Anche Eminescu vedeva il principale fattore di pericolo nel fatto che gli ebrei fossero “stranieri di fede non cristiana”, ma non escludeva a priori l’assimilazione nel caso di rinuncia a questa fede. Verso la fine del secolo il nazionalismo romeno accentuò sempre di più questa coloritura antisemita, che si diffuse nelle forme più aggressive e violente. Già nel XIX, soprattutto verso la fine del secolo, erano presenti posizioni più intransigenti, che rifiutavano qualunque possibilità di assimilazione, basti pensare a Vasile Alecsandri (18211890), Nicolae C. P ulescu (1869-1931) e Alexandru C. Cuza (1857 e 1947).
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P ulescu, professore di fisiologia all’Università di Bucarest, denunciava il pericolo che gli ebrei di Romania intendessero lanciare una decisiva offensiva volta a soggiogare la popolazione ai loro interessi. Egli riteneva che la concorrenza economica ebraica minacciasse i cristiani e che gli ebrei aspirassero per mezzo delle sette segrete a conquistare la Romania e farne la “nuova Palestina”, impossessandosi del potere politico dopo aver egemonizzato quello economico. L’ebraismo mirerebbe a distruggere l’ordine naturale voluto da Dio, che era rappresentato dal Cristianesimo. Qui compare per la prima volta una sfumatura religiosa nel pensiero nazionalista13. Il contrasto con gli ebrei avveniva infatti sul terreno della religione, un aspetto poco presente invece negli altri intellettuali romeni, che privilegiavano invece la polemica sociale ed economica. Ne è un esempio A. C. Cuza, che dopo la prima guerra mondiale modificò le sue idee proprio in senso ortodossista, ma che alla fine del 1800 poneva ancora il problema in termini socio-economici. Egli rifiutava qualunque possibilità di assimilare la minoranza ebraica, considerata un gruppo parassitario e degenerato14, il problema principale della società romena. Cuza sosteneva sulla scia di Malthus che mentre la crescita delle risorse di una società avviene secondo una progressione aritmetica, quella della popolazione avviene in modo geometrico, per cui si verifica una lotta costante per le risorse che può avvenire all’interno di uno stesso popolo o tra popolazioni diverse. Questo caso è molto pericoloso, perché si trasforma in uno scontro per la vita o la morte. Gli ebrei dovevano in effetti essere considerati un popolo diverso da quello romeno, non assimilabile a causa della loro fede. La tradizione antisemita, come si vede ben radicata nella cultura romena, si sposò dopo la guerra con i conflitti sociali. I primi ad avvertire il disagio e a imputarne la responsabilità agli ebrei furono come si è visto gli studenti. Quando la crisi si estese a tutta la società, ovvero dopo il 1929, una parte sempre più ampia della popolazione diventò sensibile al richiamo dei movimenti estremisti di destra. 13 A. PITASSIO, Ortodossia e identità romena nel nazionalismo interbellico, in L’intreccio perverso, a c. di A. Pitassio, Morlacchi Editore, Perugia, 2001, p. 80. 14 F. VEIGA, op. cit., p. 73.
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L’antisemitismo diventò l’anello di congiunzione tra intellettuali e politica da una parte e tra politica e masse dall’altra. Questo può essere una delle chiavi di lettura del successo del movimento legionario.
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capitolo terzo
Intellettuali antiliberali nella Romania degli anni Venti: Nae Ionescu e la “giovane generazione”
1. Nae Ionescu: formazione e pensiero 1.1. Gli anni di formazione Nel gruppo dei cosiddetti intellettuali ortodossisti Nae Ionescu1 si distinse in modo particolare. Nato a Br ila il 16 giugno del 1890, studiò al liceo locale e sviluppò una vocazione per la filosofia seguendo le lezioni del professor Br tescu. Gli anni del liceo furono anni di formazione. Br ila era un porto sul Danubio collocato a Sud-Est del paese, non lontano dal Mar Nero e dal confine con la Bulgaria. Era anche una città multietnica: delle 7200 famiglie che vi abitavano, solo 2500 erano romene. In questo ambiente nacquero diverse associazioni giovanili, con orientamenti assai differenti tra loro. Essendo una città industriale, ebbero un certo successo i movimenti socialisti. Dora Mezdrea, autrice di una accurata ricostruzione della biografia di Ionescu, ha illustrato dettagliatamente il contesto culturale della sua formazione, tra fine Ottocento e inizio Novecento, mettendo in luce come le correnti filosofiche di maggior presa fossero ancora quelle legate al positivismo, dal darwinismo sociale al materialismo evoluzionista2. La 1
Per la biografia di Ionescu si veda l’ormai classico Nae Ionescu. Aşa cum l-am cunoscut di Mircea Vulc nescu e la biografia di Dora Mezdrea Nae IonescuBiografia, della quale sono usciti fino a questo momento due volumi. Il primo è un testo quasi agiografico scritto da un allievo e grande ammiratore di Ionescu, il secondo un dettagliato lavoro di ricostruzione della vita del filosofo attraverso documenti e testimonianze. 2 D. MEZDREA, Nae Ionescu – Biografia, Universale Dalsi, Bucureşti, 2001, vol. I, p. 140.
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presenza di circoli studenteschi filosocialisti con queste basi filosofiche favorì però la nascita di associazioni con orientamenti contrapposti. Tra queste spicca Avântul [Lo slancio], fondata da Vasile Panaitescu – futuro cognato di Ionescu – e di due suoi colleghi. L’associazione si dichiarava una comunità di “missionari” dello spirito romeno e, pur non essendo etichettabile come un gruppo esclusivamente antisemita, rappresenta un esempio del nazionalismo intransigente che si stava sviluppando nel paese3. Al liceo Ionescu si mise in luce per la brillantezza dei suoi risultati scolastici, ma negli ultimi anni la sua partecipazione attiva all’associazione Avântul e la scarsa disciplina gli crearono qualche problema: fu addirittura sospeso e rischiò di dover ripetere l’anno. L’intervento della madre presso il Ministero riuscì a evitargli la bocciatura. Proprio in questi anni egli partecipò a conferenze tenute a Br ila da Cuza e Iorga4. Nel 1909 si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia di Bucarest, dove conobbe il principe Carol (futuro Carol II), suo collega di studi5. Ebbe come professori Nicolae Iorga, Vasile Pârvan, Negulescu e Constantin R dulescu-Motru6, che nel 1910 lo menzionò al Decano per il suo lavoro sulle Localizărilor cerebrale (Localizzazioni cerebrali) e lo chiamò immediatamente a collaborare con lui nella redazione di Nouǎ revistǎ românǎ [Nuova rivista romena], per la quale scrisse una serie di articoli sotto pseudonimo. Intanto approfondì gli studi di matematica, logica e filosofia. Nel 1912 si laureò magna cum laude con una tesi su Spinosa – Etica. Discu iune asupra metodei [Il metodo geometrico nell’Etica di Spinosa]. Ottenne una borsa di studio per la Germania dalla Fondazione Carol I grazie a una menzione di R dulescu-Motru. Dal 1913 compì gli studi di dottorato a Göttingen, dove conobbe Husserl. Interessandosi alla logica, frequentò anche diversi matematici e approfondì lo studio dei
3
Ivi, p. 144. Ivi, p. 174. 5 M. VULC NESCU, Nae Ionescu aşa cum l-am cunoscut, Humanitas, Bucureşti, 1992, p. 23. 6 I. C PREANU, Nae Ionescu şi adevărul creştin, Tipo Moldova, Iaşi, 2001, p. 9. 4
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
classici della filosofia tedesca7. Nel febbraio 1914 si trasferì a Monaco, dove frequentò le lezioni di Oswald Külpe, teorico del realismo e critico del razionalismo kantiano. Seguì anche le lezioni di Clemens Baeumker, esperto di filosofia antica e medievale. Dopo un anno in Romania, dove espletò il servizio militare e sposò Elena Fotino, tornò in Germania. Quando nell’agosto del 1916 la Romania abbandonò la neutralità ed entrò nella I guerra mondiale, fu internato in un lager, dove entrò in contatto con teologi cattolici dell’università di Lovanio, che riconobbero e apprezzarono la sua competenza in ambito teologico e metafisico. Terminò comunque gli studi di dottorato e si laureò con una tesi su Die Logik als Versuch einer neuen Begründung der Mathematik. In questa riflessione generale sul ruolo della logica Ionescu delegittimava la sua funzione di fondamento della realtà, una tesi cara al razionalismo e che in Hegel aveva trovato la sua massima affermazione. Tornato in patria diventò direttore degli studi al liceo del Monastero di Deal. Nel 1919 fu nominato assistente per il seminario di psicologia. Nello stesso anno diventò anche segretario di redazione di Studii Filozofice [Studi filosofici], rivista fondata e diretta da R dulescuMotru, e cominciò a collaborare con Ideea Europeanǎ [L’idea europea] e successivamente anche con Est-Vest [Est-Ovest] e con Gîndirea, la rivista di Nichifor Crainic. Dal 1920 fu assistente di R dulescuMotru e successivamente gli fu assegnata la cattedra di Logica e Metafisica, che mantenne per 19 anni.
7 Nel corso di un breve soggiorno in Germania nell’estate del 1942, Eliade incontrò Carl Schmidt, che gli espresse il suo desiderio di conoscere la filosofia di Ionescu. Eliade ricordò in questa occasione l’influenza che aveva avuto su Ionescu Die romantische Politik dello stesso Schmidt. Cfr. M. ELIADE, Diario Portugués, Editorial Kairòs, Barcellona, 2000, p. 43.
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1.2 La premessa: l’antirazionalismo Tanto il pensiero filosofico di Ionescu quanto quello politico sono intessuti su una contrapposizione tra due modelli, quello razionalistacartesiano e quello antirazionalista-ortodossista. Durante i suoi studi in Germania, Ionescu ebbe modo non solo di approfondire la conoscenza della filosofia tedesca, ma anche di assorbirne le tendenze. La critica al razionalismo e al positivismo che stava prendendo piede nella cultura mitteleuropea diventò parte del suo bagaglio culturale coniugandosi con un forte desiderio di recupero della tradizione e delle radici autoctone di ogni cultura. Una precisazione è però doverosa: quando Ionescu parlava di razionalismo e antirazionalismo, di positivismo o ortodossismo non faceva riferimento soltanto a correnti filosofiche o religiose. Li interpretava invece come tendenze più profonde, che investono la struttura spirituale delle comunità in cui sono diffuse. Quella proposta da Ionescu era insomma una visione del mondo che coinvolgeva diversi ambiti, dalla filosofia alla politica, con molti punti in comune con lo slavofilismo. La reazione all’occidentalizzazione della Russia iniziata con Pietro il Grande fu però soprattutto sul piano culturale: gli slavofili russi parteciparono talora al dibattito politico, senza però arrivare a un impegno paragonabile a quello di Ionescu o di altri suoi contemporanei come Crainic o Goga. Punto di partenza della riflessione di Ionescu è la critica al modello cartesiano. Il metodo induttivo proposto da Cartesio era per Ionescu la radice del filone razionalista della filosofia europea che si era sviluppato con l’illuminismo e il positivismo. Quello che Ionescu criticava del modello cartesiano era la “divinizzazione” della ragione. Il mondo occidentale, soprattutto anglosassone, aveva interiorizzato questo principio, che aveva oltrepassato l’ambito delle scienze esatte investendo ogni settore, dalla religione alla politica. Questa laicizzazione della cultura trovava le sue radici nel Rinascimento, che aveva inaugurato la separazione tra scienza e dimensione spirituale, rompendo così l’unità della realtà in cui vive l’uomo. Al razionalismo occidentale Ionescu contrapponeva il trăirism (da trăire, esperienza). Riallacciandosi all’esistenzialismo tedesco, egli proponeva una conoscenza della
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
realtà sulla base non di teorie astratte, ma di una logica esistenziale che derivava dalla cultura, intesa come deposito di esperienze interiori, individuali e collettive. Il trăirism di Ionescu si avvicinava però più alla psicologia di Klages8 che all’esistenzialismo di Heidegger e riprendeva in particolare la sua contrapposizione tra anima e spirito (vd. Lo spirito come antagonista dell’anima, 1929). L’esperienza era infatti intesa da Ionescu, come dal filosofo e psicologo tedesco, come flusso di immagini derivanti dalla vita vissuta e percepiti dall’anima in modo immediato prima della razionalizzazione operata dallo spirito. Nel suo attacco alla tradizione razionalista cartesiana Ionescu ricorreva anche ad argomenti ricavati dallo storicismo di Meinecke: rifacendosi proprio a Meinecke Ionescu definiva la storia come una successione di manifestazioni irripetibili dell’Assoluto in un processo temporale continuo. La realtà organica veniva così preferita alle costruzioni intellettuali tipiche del razionalismo e spesso prive di rapporti con la realtà. Con tutto ciò Ionescu non disconosceva in toto il ruolo della ragione. La logica di tipo scientifico-matematico, alla quale d’altra parte Ionescu dedicò corsi universitari e tesi di dottorato definendola “musa dell’intelletto”9, conservava il proprio valore, ma solo in determinati ambiti, ovvero in quelli delle scienze esatte10. Non valeva invece in ambito religioso. Secondo Ionescu infatti la metafisica si proponeva di indagare il rapporto tra uomo e Dio per mezzo della ragione, ma questo non era sufficiente per ottenere una comprensione profonda dello spirituale. L’esistenza di Dio, ad esempio, non poteva essere provata in via logica: il rapporto tra l’individuo e la divinità non era un’esperienza trasmissibile o riproducibile, quindi non era razionale. La ragione umana era per Ionescu troppo limitata per garantire la conoscenza dell’assoluto11, per cui occorreva ricorrere ad altri mezzi. Il 8 Curiosamente Klages fu come Ionescu autore di un’opera sulla grafologia, opera che, pubblicata nel 1910, forse ispirò quella di Ionescu, scritta sotto lo pseudonimo Nemo, che è del 1936. 9 I. C PREANU, op. cit., p. 56. 10 N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 546, 30 agosto 1926. 11 N. IONESCU, Prelegeri a filosofia religiei, Biblioteca Apostrof, Cluj, 1994, pp. 44-54.
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rapporto tra l’uomo e Dio si costruiva tramite un atto che Ionescu definiva “transeunte-infinito”12, transeunte perché si realizzava uscendo dalla realtà finita dell’uomo, infinito perché mirava a raggiungere la dimensione infinita di Dio e stabilire un contatto con l’assoluto. Esso non procedeva direttamente dall’uomo a Dio, ma si realizzava tra Dio e il mondo, “legato al singolo da intima solidarietà nel peccato e nella sofferenza per cui si parla collettivamente di: Noi”. Si trattava quindi di una esperienza non-individuale, ma condivisa con la comunità dei credenti. Nella teorizzazione del rapporto comunitario con la divinità Ionescu pagava un suo debito a una parte del pensiero teologico russo e cioè a quello che si contrapponeva alla scelta dell’ascesi individuale come via per l’avvicinamento a Dio: questo era perseguibile, come aveva scritto a suo tempo Čadaev, attraverso il superamento della propria individualità e la fusione con Dio nella comunità cristiana13. La differenza tra Ionescu e Čadaev può essere rintracciata nel fatto che per Ionescu il rapporto con la comunità cristiana avviene sulla base della condivisione dei medesimi valori spirituali, laddove per Čadaev è fondamentale la comune osservanza delle norme tradizionali e delle convenzioni sociali. La diversa concezione del rapporto comunitario con il divino riposava sulla diversa concezione della religione. La religione non era per Ionescu un insieme di dogmi e principi, era piuttosto l’esperienza interiore del modo in cui questi valori vengono vissuti dagli uomini, dal momento che ogni fede rispecchiava i valori propri della comunità in cui si diffondeva. Per Ionescu il rapporto tra uomo e Dio non consisteva tanto nell’osservanza dei precetti religiosi quanto piuttosto nel fare propri i valori ortodossi. Questo rapporto scendeva più a fondo della ragione, ne oltrepassava i limiti e coglieva verità più profonde, specifiche della religione, come il dogma, principio vero in sé, al di là di ogni evidenza e spiegazione razionale. “Dove non c’è antinomia 12
Ivi, pp. 67-79. P. J. ČADAEV, Sočinenija i pis’ma, a c. di M. Geršenzon, t. I, Mosca, 1913, pp. 76-77, cit. in A. WALICKI, una utopia conservatrice, Einaudi, Torino, 1973, p. 92). 13
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cessa il dogma, perché non ha nulla a che fare con l’affermazione razionale, come le proposizioni scientifiche. (…) Ma dove non c’è dogma cessa la religione. Cadiamo invece nell’ambito della ragione”14. Il sacrificio della ragione coincideva con il riconoscimento che l’unico strumento di conoscenza valido in ambito religioso era l’amore cristiano, che non è semplicemente la “buona convivenza umana”, perché questa riguarda solo l’aspetto superficiale, l’apparenza. Era piuttosto una forma di conoscenza mediata dalla presenza divina15. La ragione era per Ionescu come per il suo contemporaneo Crainic la massima espressione della personalità individuale, per questo la sua esaltazione era la base dell’individualismo e del processo di laicizzazione in corso dal Rinascimento: l’uomo riteneva di poterla utilizzare in ogni ambito e di potersene servire per risolvere qualunque problema16. Il sacrificio della ragione a vantaggio dell’amore per Dio, che diventava per lui, come nella lezione di Origene, amore per la comunità cristiana, rappresentava quindi il sacrificio dell’io individuale a vantaggio della comunità organica di tutti i cristiani. La ragione offriva una forma di conoscenza superficiale, valida per il mondo esterno, ma che non riguardava gli aspetti profondi della realtà e soprattutto non consentiva di arrivare a Dio. L’esperienza tedesca ha evidentemente influenzato Ionescu: era infatti la lezione di Wilhelm Dilthey a essere ripresa in questa distinzione tra un mondo esterno conoscibile e indagabile attraverso la ragione e una dimensione interiore, tipica delle scienze umane, percepibile dall’interno (la cosiddetta Erlebnis)17. 14 N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 552, 6 settembre 1926. Si veda anche N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 576, 4 ottobre 1926. 15 N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 570, 20 settembre 1926. 16 Secondo Crainic “Cogito ergo sum è un dogma falso sul quale si basa l’individualismo moderno. Cogito ergo sum è la trasformazione filosofica del peccato del primo uomo che, invece di vivere la vita, ha approfittato per svelare il mistero della conoscenza individuale sostituendo in questo modo il divino… Cartesio è il padre filosofico dell’individualismo e la sua dottrina è la fonte degli errori moderni che hanno cambiato il mondo in inferno”. Cfr. N. CRAINIC, Gîndirea, an. XI, n. 2, 1931. Cit. in Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 74. 17 J. W. BURROW, The Crisis of Reason, Yale University Press, New HavenLondon, 2000, p. 88.
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La vera conoscenza si otteneva invece secondo Ionescu per mezzo di un atto di amore verso la divinità, perché solo in unione con Dio sarebbe possibile giungere alla comprensione del mondo. Si potrebbe dire che la conoscenza fosse per Ionescu un prodotto della fede e non viceversa: non era con la ragione che si poteva arrivare a Dio e svelare i dogmi. 1.3 La comunità cristiana e la comunità nazionale Secondo Ionescu ci sarebbe dunque un legame indissolubile tra i valori spirituali di ciascuna fede e la comunità in cui essi si diffondono, tra religione e nazione. Così come la teologia ortodossa si fondava sull’idea della comunità dei credenti come comunità di amore e così come il singolo doveva rinunciare alla sua individualità di essere razionale per sottomettersi al dogma divino, la nazione era secondo Ionescu un tutto organico le cui parti non erano separabili. Ogni fedele si relazionava direttamente con Dio ed era questo stesso slancio verso l’assoluto che lo rendeva partecipe di una comunità di cui condivideva la spiritualità. Ogni fede rifletteva i valori propri della nazione e si poteva definire come la sistematizzazione delle sue caratteristiche spirituali in un credo religioso: esisteva quindi un rapporto complesso tra religione e nazione, caratterizzato da una influenza reciproca per cui ciascuno dei due elementi aveva contribuito a definire l’altro. “Le nazioni sono realtà storiche. Esse nascono nello spazio e nel tempo (…). L’attitudine di un popolo di fronte a Dio, il modo in cui vive non solo il suo legame con Dio, ma proprio la divinità in sé, fa parte integrante della struttura intima della nazione”18, concezione peraltro non del tutto originale se si pensa che Kireevski a metà del XIX secolo aveva sostenuto che la fede religiosa era determinante per la cultura e la civilizzazione di ogni popolo19 e che Maurras aveva identificato nel cattolicesimo uno degli aspetti essenziali della nazione francese. 18
N. IONESCU, A fi‘bun român, “Cuvântul”, an. VI, n. 1982 novembre 1930. I. V. KIREEVSKI, Polnoe sobranie sočinenij, a c. di M. Geršenzon, t. I, Mosca, 1911, in A. WALICKI, op. cit., p. 113. 19
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Secondo Ionescu ciascuna comunità nazionale viveva in modo diverso il rapporto con Dio e la fede, per questo all’interno del Cristianesimo esistevano confessioni diverse. Cattolicesimo e Ortodossia, ad esempio, condividevano gran parte del patrimonio teologico, ma questo non significava che esse coincidessero20: una cosa era la verità rivelata, assoluta e immutabile per tutti, un’altra il modo in cui essa veniva vissuta e tradotta in ogni religione21. Il passaggio dall’assoluto al transeunte implicava che una comunità di uomini si appropriasse dei dogmi della fede, traducendoli in forme simboliche accessibili ai membri della collettività. Tale trasposizione avveniva in forme diverse in base alle caratteristiche di ogni comunità cristiano-nazionale. Il concetto di comunità cristiana e quello di comunità nazionale tendevano in Ionescu a confondersi, quasi a sovrapporsi. Questo ha autorizzato uno dei tanti intellettuali romeni affascinati dalla personalità di Ionescu a dire di lui che “ha cercato di essere allo stesso tempo un servitore di Dio e un servitore della storia, più esattamente del vero divenire storico, in Assoluto, del suo popolo, un servitore della nazione”22. Perché naturalmente quanto Ionescu sosteneva in generale valeva anche per la nazione romena. Il cristianesimo, diceva Ionescu, era stato assorbito nella realtà quotidiana del popolo romeno risultando uno dei fattori fondamentali nella creazione della sua struttura spirituale. L’universo specifico romeno era impregnato dei valori dell’ortodossia sin dalle sue origini, tanto che non era più così facile distinguere la comunità cristiana da quella nazionale. La spiritualità ortodossa aveva fatto parte della nazione romena sin dall’inizio, aveva contribuito a plasmare la sua identità, ne era stata la linfa vitale. “La religiosità del popolo romeno è sicuramente un fatto, ma inconscio. L’ortodossia fa parte integrante della nostra stessa struttura spirituale, non però come elemento cosciente, ma come componente organica e meccanicizzata. Siamo ortodossi nello stesso modo in cui siamo romeni, nello stesso grado. È la N. IONESCU, Intre ziaristică şi filosofie, Tîmpul, Iaşi, 1996, p. 213. N. IONESCU, Indreptar ortodox, Fra ia ortodox , Wiesbaden, 1957, p. 88. 22 Nae Ionescu în conştiin a contemporanilor sǎi, a c. di Gabriel St nescu, ed. Criterion, Bucureşti, 1998, p. 50. 20
21
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nostra tradizione, il nostro modo di comportarci, di comprendere e valorizzare l’esistenza. (…) Se si chiedesse a un teologo ortodosso in che cosa in particolare consista l’eccellenza della nostra ortodossia probabilmente risponderebbe nella presenza di una intimità con Dio. È così. Non esiste vera religione nella quale l’elemento di immensa santità della divinità sia più sentito che nell’ortodossia. Tuttavia non abbiamo via via perduto e continuiamo a mantenere, il contatto spirituale, intimo e felice con la divinità”23. I romeni dimostravano questo rapporto di intimità con Dio anche nei piccoli gesti, come nel fatto di farsi il segno della croce prima di iniziare a fare qualcosa. Questo non per chiamare in aiuto Dio, ma “per porre la loro azione sotto l’egida di quel mondo dal quale tutto procede”24. La comunità cristiana, comunità di fedeli uniti dall’amore per Dio, era una realtà irrinunciabile, la cui esistenza non dipendeva da un atto di volontà, ma dalla condivisione del medesimo legame con la divinità. A differenza dell’unione tra due persone, diceva Ionescu, “l’appartenenza alla comunità d’amore cristiano non è condizionata da elementi occidentali, come la stessa esistenza delle due persone che si amano. La comunità cristiana è permanente nel tempo, la nazione dura all’infinito. Di sicuro dura fino alla fine dei tempi, come si dice. La scomparsa di una nazione è possibile, ma si tratta di un fatto accidentale. Teoricamente essa continua a vivere fino alla fine dei tempi, tanto quanto durerà la storia. È un’esistenza permanente alla quale ti puoi dedicare, sulla quale ti puoi sostenere, nella quale ti puoi equilibrare, di fronte alla quale puoi stare per sempre in questo stato di estasi”25. È evidente che quando Ionescu parlava di comunità cristiana aveva in mente più la comunità dei credenti ortodossi che non la Chiesa come istituzione. D’altra parte i rapporti di Ionescu con la gerarchia ortodossa non furono mai idilliaci. Ionescu criticò in particolare l’atteggiamento della chiesa nei confronti dello stato e i legami con il Partito
23
N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 468, 31 maggio 1926. N. IONESCU, Iconar, an. I, n. 8, 1936. 25 N. IONESCU, Ce e…, cit., p. 327. 24
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Liberale, nelle file del quale erano tra l’altro stati eletti diversi preti26: il suo giudizio aspramente critico riguardava in generale ogni forma di commistione tra religione e politica, o meglio tra religione e partiti politici27. La polemica più aspra si consumò tra Ionescu e il Patriarca Miron Cristea che, come si vedrà meglio in seguito, nel 1927 entrò a far parte della reggenza reale. Ionescu lo criticò aspramente sottolineando l’incompatibilità del suo incarico con la qualità di guida spirituale del popolo romeno28. Ionescu scrisse in questa occasione anche una lettera aperta al patriarca, in cui si difendeva dalle accuse di aver tradito la causa della chiesa e ribadiva la necessità dell’indipendenza della chiesa dallo stato29. Le critiche rivolte a Cristea, così come i dissensi con le gerarchie ecclesiastiche nascevano proprio dal ruolo che Ionescu attribuiva alla Chiesa come istituzione, un ruolo di estrema importanza rispetto alla comunità dei credenti, e cioè quello di depositaria del credo ortodosso, che doveva difendere e preservare30. Dal momento che la comunità ortodossa era definita come un corpo unico, dove le individualità si annullavano nell’amore divino, era necessario che qualcuno si assumesse il ruolo di interprete e portavoce della volontà comunitaria. La Chiesa era quindi emanazione dei fedeli, o meglio della loro spiritualità. Si trattava di un modello molto lontano da quello gerarchico di ispirazione cattolica.
26
N. IONESCU, Politicianii împotriva Bisericii, “Cuvântul”, an. III, n. 762, 19 maggio 1927; N. IONESCU, Politica în Biserica, “Cuvântul”, an. IV, n. 1121, 7 giugno 1928; N. IONESCU, Un preot nevrednic, “Cuvântul”, an. IV, n. 1321, 25 dicembre 1928; N. IONESCU, Primatul spiritualului, “Cuvântul”, an. V, n. 1361, 4 febbraio 1929. 27 N. IONESCU, Imistiuni politice în Biserica, “Cuvântul”, an. V, n. 1654, 27 novembre 1929. 28 N. IONESCU, Patriarhul şi regen a, “Cuvântul”, an. III, n. 850, 30 agosto 1927; N. IONESCU, Patriarhul român şi canoanele, “Cuvântul”, an. III, n. 852, 1 settembre 1927. 29 N. IONESCU, Scrisoare deschisă Înalt Prea Sfîn iei Sale, Domnului Domn Dr. Miron Cristea, Patriarh al României, “Cuvântul”, an. III, n. 950, 8 dicembre 1927. 30 N. IONESCU, Biserica, îndreptarul nostru, “Cuvântul”, an. III, n. 947, 5 dicembre 1927.
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Coerentemente con la sua visione della diversità del modo di essere delle comunità religiose e quindi del loro organizzarsi “nazionale”, Ionescu riconduceva questo rapporto tra comunità e istituzione al modo in cui il Cristianesimo si era diffuso in Romania, in un momento in cui la vita pubblica era priva di una struttura amministrativo-gerarchica già delineata. “Il Cristianesimo non si è instaurato da noi per mezzo dell’attività precisa di una gerarchia ecclesiastica costituita, ma per mezzo del lavoro di preghiera anonimo e individuale di alcuni missionari distaccati materialmente dalla loro base canonica, o che in ogni caso non la rappresentavano in modo esplicito, cosciente ed efficace. Questo spiega perché la nostra ortodossia contadinista non sia tanto una religione con una Chiesa garante della fede, quanto piuttosto una sorta di cosmologia, in cui gli elementi del dogma strettamente ortodosso si ipostatizzano nella realtà concreta, perché, in altri termini, il cristianesimo è sceso da noi nella realtà quotidiana, contribuendo alla creazione di un universo specifico romeno, oggettivato così dalle caratteristiche del nostro folclore”31. C’era evidentemente una contraddizione interna al pensiero di Ionescu, che da una parte riconosceva il ruolo della chiesa come garante e custode della fede e dall’altra sosteneva come l’ortodossia si connotasse fondamentalmente come patrimonio di principi e valori da vivere nella quotidianità. L’esistenza delle nazioni era dunque per Ionescu una necessità storica e il loro legame con la fede si potrebbe considerare implicito e inscindibile: ciascun membro di una comunità nazionale ne era parte in virtù della condivisione dei medesimi valori spirituali; ciascun romeno era quindi romeno in quanto faceva propri e viveva nella propria esperienza personale i principi della fede ortodossa. Il modello di nazione elaborato da Ionescu era molto lontano da quello soggettivo di tradizione renaniana e anglosassone – se non si poteva scegliere di essere romeno, francese, inglese, è evidente che la nazione non potesse essere “il plebiscito di ogni giorno” – e si riallacciava piuttosto a quello oggettivo herderiano di collettività organica e comunità culturale alla quale si apparteneva per nascita: il romeno dunque non era ro31
N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an III, n. 606, 8 novembre 1926.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
meno in quanto “cittadino” di uno Stato chiamato Romania, ma non lo era neppure soltanto in quanto discendente di una stirpe. Era romeno in quanto condivideva i valori spirituali del suo popolo, cioè quelli della spiritualità ortodossa. Ecco perché per Ionescu non si poteva “scegliere” di essere romeno, o lo si era (per nascita) o non lo si era: ogni romeno era ortodosso nello stesso modo in cui “l’animale cavallo è quadrupede”, lo era e non poteva non esserlo. “Essere romeno significa uno stato naturale, una formula di equilibrio dell’esistenza dal quale scaturiscono, per la stesso svolgimento della vita, certe forme… Essere romeno significa avere una certa composizione, dalla quale derivano con necessità assoluta certe attitudini e gesti. La nostra volontà non ha nessuna possibilità di intervenire in questo fatto perché noi non ci possiamo separare in modo normale da noi stessi che cessando di essere noi stessi”32. La condivisione dei principi e dei dogmi religiosi era per Ionescu parte integrante dell’identità di ciascun membro di una nazione, qualcosa di innato al quale non si poteva rinunciare, anche volendolo. 1.4 Il significato di essere romeno Questa convinzione fu ben espressa da Ionescu nella polemica che lo vide coinvolto alla fine del 1930 con un cattolico unita sul significato dell’essere un “buon romeno”. Ionescu escludeva che chi era di religione diversa da quella ortodossa potesse essere un “buon romeno”: per quanto buon cittadino dello Stato romeno, non avrebbe mai potuto dirsi fino in fondo “romeno”33. La prima definizione faceva riferimento secondo lui al rapporto tra cittadini e Stato. Essa richiedeva semplicemente richiesto il rispetto delle leggi, il pagamento delle tasse, l’osservanza delle regole di convivenza: secondo Ionescu essa rinviava principalmente a un comportamento e quindi a un atto di volontà. Essere romeni era a suo avviso qualcosa di diverso, qualcosa di meno in quanto non richiedeva alcun comportamento “attivo”, ma allo stesso tempo qualcosa di più, perché romeno non poteva essere chiunque: 32 33
N. IONESCU, A fi ‘bun român, “Cuvântul”, an. VI, n. 1987, 1 novembre 1930. N. IONESCU, Indreptar…, cit., p. 79.
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“…essere romeni, turchi o inglesi significa stare in un rapporto di appartenenza e partecipazione, in un dato momento, con una realtà collettiva, la NAZIONE, la quale supera il tuo io, ma che costituisce la ragione stessa, ragione sufficiente della tua vita come romeno, turco o inglese”34. Siamo dunque di fronte, come si è accennato, a una concezione antitetica a quella volontaristica di Renan, ma che si distanzia anche per certi aspetti da quella nazista del “sangue e suolo”. Romeno era per Ionescu chi condivideva i valori fondanti della comunità nazionale e quindi, in primo luogo quelli ortodossi. Essendo l’Ortodossia una caratteristica naturale e non il frutto di una libera scelta, non vi si poteva rinunciare con un atto di volontà. Anche chi si convertiva restava dunque nell’intimo un ortodosso. È chiaro come per Ionescu non avesse alcun senso parlare di assimilazione o conversione: ogni religione raccoglieva un patrimonio di valori che rappresentavano l’eredità spirituale di una nazione e non potevano essere trasferiti da una comunità nazionale a un’altra. Questa interazione tra i valori spirituali della religione (ortodossa) e il milieu in cui venivano interiorizzati è un passaggio fondamentale per capire il rapporto tra comunità religiosa e nazionale, tra dimensione teologica e politica del pensiero di Ionescu. L’esistenza di questo legame inscindibile tra dato religioso e comunità nazionale era determinata per Ionescu dalla struttura tipica delle Chiese ortodosse, che seguivano il modello dell’unità teologica nella diversità ecclesiale e che si erano sviluppate, a causa di fattori storici e geografici, mantenendo ciascuna la propria individualità culturale all’interno di una comunità etnico-linguistica35. Non a caso Ionescu negava che si potesse parlare di Europa come categoria culturale: non poteva esistere una cultura europea perché ciascuna realtà particolare era diversa. Sebbene nate dal medesimo ceppo cristiano, Cattolicesimo, Protestantesimo e Ortodossia non condividevano gli stessi valori e nelle comunità in cui si radicavano tendevano a plasmare una spiritualità diversa. La differenza tra l’attitudine individualista e razionalista anglosassone e quella 34 35
Ibidem. E. MORINI, Gli Ortodossi, il Mulino, Bologna, 2003, p. 40.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
organicista e spiritualista dell’Europa orientale era evidente36. Ionescu riteneva assurda la pretesa di imporre un modello culturale come universale: essendo ciascuna cultura nata e radicata in una realtà specifica, qualsiasi esperimento di applicazione di essa al di fuori del contesto in cui era nata era destinato a fallire. Secondo lui ciò che era accaduto in Romania dimostrava la giustezza di questa sua tesi: la cultura romena, nata nel tempo con caratteristiche particolari come cultura di una comunità (una cultura rurale, sviluppatasi nel mondo dei villaggi) con un profondo radicamento nella spiritualità ortodossa, nel momento in cui erano comparse le tendenze liberalizzanti e laicizzanti era entrata in crisi ed era così iniziata la corruzione del profilo spiritualeculturale nazionale. “L’inaderenza strutturale di un popolo o di una cultura a una formula di vita religiosa finisce prima o poi per separare quel popolo o quella cultura dalla rispettiva religione”37. Qui emergeva tuttavia un altro nodo problematico: perché l’ortodossia sarebbe stata incarnazione dei valori specifici della romenità38 e non dell’essere bulgari, serbi o russi? E se lo era di tutti, cosa distingueva questi popoli tra loro? Alla prima domanda Ionescu rispose con un articolo del 1930 su Cuvântul, sostenendo che la questione era malposta: il fatto che altri popoli fossero ortodossi non negava in sé l’esistenza del legame tra romenità e Ortodossia. La seconda domanda però restava senza risposta. Questo è già piuttosto significativo: se Ionescu non si pronunciava sulla questione era probabilmente perché non lo riteneva un problema di primaria importanza. Egli intendeva la tradizione ortodossa dei romeni soprattutto in contrapposizione con chi ne minacciava l’integrità, ovvero le confessioni e le culture che tendevano a introdurre all’interno della comunità romena elementi estranei, soprattutto se legati alla tradizione razionalista occidentale. 36
N. IONESCU, Înspre realită ile noastre, “Cuvântul”, an. VII, n. 2148, 16 aprile
1931. 37
N. IONESCU, Ce e Predania, “Predania”, 1 marzo 1937. Romenità viene qui utilizzato per tradurre il termine românism, l’insieme dei caratteri spirituali e delle tradizioni che caratterizzano e identificano la comunità romena. Utilizzare romenismo sarebbe fuorviante, perché il termine ha una connotazione linguistica o farebbe più pensare a una corrente di pensiero. 38
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Riflettendo sul rapporto tra Europa e ortodossia, Ionescu criticava la parte del popolo romeno che aveva assunto da qualche decennio un atteggiamento europeizzante, mettendo in pericolo i valori autentici della nazione romena, tanto sul piano spirituale quanto su quello politico39. Da questo punto di vista Ionescu era tributario della tradizione poporanista e di quella del sămănătorism. Mentre Maiorescu parlava però in sostanza di una identità intesa in senso storico e come modello sociale, riferendosi alla tradizione e allo stile di vita delle comunità dei villaggi contadini, Ionescu faceva esplicito riferimento all’identità spirituale. In questo senso era più vicino a Iorga, che valorizzava maggiormente il dato culturale e parlava di uno “spirito nazionale”. Maiorescu chiedeva il recupero della cultura autentica della Romania per mezzo della riscoperta della propria storia e della propria cultura, ma non chiamava in causa la matrice religiosa come elemento connotante l’identità romena. La sua era soprattutto una polemica contro la tradizione latinizzante della scuola di Ardeal e quella liberalizzante dell’Ottocento, perché entrambe si erano sviluppate come recupero di un modello esterno, nato in una realtà estranea e sradicato dalla Romania, tanto da diventare artificiale se applicato in un contesto così diverso, una forma senza contenuto. La preoccupazione di Ionescu era dettata invece dalla convinzione che la penetrazione di correnti filosofiche e politiche, ma soprattutto religiose, dall’esterno corrompesse il patrimonio di valori della comunità romena ortodossa. Ionescu quindi riprendeva la polemica di Maiorescu con la tradizione della scuola di Ardeal, ma soprattutto in chiave di difesa dell’Ortodossia: quello che contestava era l’idea della filiazione diretta della nazione romena dalla latinità. La cultura latina era infatti per lui la base della struttura spirituale occidentale, laddove la struttura spirituale romena non era occidentale. La cultura romena secondo Ionescu era nata in Oriente ed era radicata in Oriente, aveva risentito dell’influenza bizantina piuttosto che di quella latina e soprattutto era profondamente radicata nell’Ortodossia. Ciò determinava la sua connotazione contemplativa piuttosto che N. IONESCU, Ortodoxia de foileton şi radicalismul literar, “Cuvântul”, an. III, n. 479, 13 giugno 1926. 39
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
materiale, elemento essenziale di differenziazione rispetto all’Europa occidentale40. Il rapporto tra il pensiero di Ionescu e quello di Maiorescu è uno dei migliori esempi dell’evoluzione che subisce la corrente tradizionalista-autoctonista dal XIX al XX secolo. Gli argomenti a cui si ricorreva sono sostanzialmente gli stessi, ma venivano arricchiti da una forte connotazione religiosa. Va comunque chiarito che Ionescu, al contrario di Crainic, non era un fervente credente: paradossalmente nel corso dell’esperienza dell’internamento in Germania si avvicinò addirittura di più al cattolicesimo che all’ortodossia. L’elemento cristiano entrò nella sua visione come aspetto spirituale-culturale, parte di un modello filosofico. Come ha detto Eliade “nessuno ha contribuito di più di lui, tra il 1920 e il 1940, a promuovere l’inquietudine religiosa, a dare autenticità alle esperienze extra-razionali e a popolarizzare le dottrine e la terminologia teologica tra i laici. Anche Nae Ionescu fece sforzi incessanti per arrivare a credere come un contadino cristiano. (…) Buona parte del suo pensiero sistematico non tiene conto di Dio ed è costruito senza l’aiuto o la presenza di Dio”41. Secondo Eliade insomma Ionescu avrebbe perso la fede in gioventù e l’avrebbe recuperata dopo l’esperienza in Germania, più come elemento funzionale alla costruzione della sua Weltanschauung che per intima scelta personale. 1.5 Il rapporto con le altre confessioni La prevalenza dell’aspetto spirituale su quello mondano differenziava secondo Ionescu l’ortodossia tanto dal cattolicesimo quanto dal protestantesimo. Per quanto riguarda il cattolicesimo il primo elemento da considerare era il diverso rapporto che si definiva con Dio. Per l’ortodossia l’amore per il prossimo era una conseguenza dell’amore per Dio, essendo Egli il tramite di ogni forma di amore. Dall’amore per Dio derivava la conoscenza e non viceversa, quindi la conoscenza non era per Ionescu un atto di volontà, ma uno di amore. Ionescu era 40 N. IONESCU, România ară a Răsăritului, “Cuvântul”, an. VI, n. 1753, 9 marzo 1930. 41 M. ELIADE, Diario…, cit., p. 176.
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tributario della lezione di Origene che concepiva l’amore per Dio come base della morale cristiana. A differenza del cattolicesimo, che riteneva fondamentale per raggiungere la salvezza e per far parte della comunità dei credenti il comportamento nei confronti degli altri e quindi privilegiava le azioni, essere ortodossi significava prima di tutto manifestare il proprio amore verso Dio, sentirsi in comunione con lui e condividere i valori derivati da questa scelta. Il Cattolicesimo era in definitiva una “religione sociale”, laddove l’ortodossia era una “religione personale” che valorizzava maggiormente la spiritualità dell’individuo. Allo stesso tempo però l’individuo non era una monade chiusa, ma l’espressione nel singolo dei valori dell’intera comunità: non esisteva secondo Ionescu l’io ma esisteva il noi. Il rapporto tra Dio e l’individuo era rapporto con l’intera comunità in quanto ciascuno era importante, ciascuno rappresentava la collettività. Si potrebbe quindi dire che “un ortodosso autentico proclama la prevalenza dell’essere sul fare”42. La concezione dell’ortodossia di Ionescu era quella di una religione “contemplativa e radicalmente teocentrica, una trascendenza asociale di ispirazione origeniana strettamente orientale, che vedeva il mondo e la storia nel peccato della caduta di Dio e dell’esteriorità di fronte a Dio e cercava la salvezza solo nella contemplazione dell’assoluto; questa ortodossia non poteva che essere opposta e non conciliabile con l’attivismo religioso occidentale di stampo agostiniano, che vedeva il mondo come esistenza distinta di Dio e cercava la salvezza e Dio nel mondo”43. La teologia ortodossa doveva essere difesa secondo Ionescu dalla penetrazione di idee a essa estranee, soprattutto provenienti dall’Occidente in quanto esse avrebbero potuto compromettere il patrimonio di valori della collettività. In un primo momento Ionescu comunque non considerava la religione cattolica di rito greco-ortodosso un pericolo, in quanto essendo essa nata ed essendosi sviluppata all’interno della medesima comunità nazionale, sarebbe stata semplicemente un “accidente storico”, destinato a riassorbirsi nella linea unitaria della 42 43
E. MORINI, op. cit., p. 10. N. IONESCU, Ce e…, cit., p. 10.
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spiritualità ortodossa. Ionescu era convinto che il processo di riavvicinamento tra essa e la confessione ortodossa sarebbe stato inevitabile, dal momento che entrambe operavano sulla medesima comunità nazionale, condividevano i medesimi valori e le medesime forme liturgiche e si distinguevano soltanto per una questione formale come il riconoscimento della gerarchia ecclesiastica di Roma44. E tuttavia Ionescu cominciò a ravvisare in essa un possibile pericoloso veicolo di valori estranei all’ortodossia e vicini invece al cattolicesimo quando al vertice della chiesa ortodossa romena giunse Miron Cristea, esponente secondo Ionescu di uno spirito laicizzante estraneo alla tradizione e al patrimonio spirituale ortodosso. La sua attitudine cesaro-papista fu come si è visto aspramente criticata da Ionescu. Quella però che Ionescu appariva come la religione più distante da quella ortodossa e la più pericolosa per il suo patrimonio di valori spirituali, era il protestantesimo. Egli lo considerava quanto di più lontano dalla tradizione ortodossa, perché lo vedeva come la trasposizione sul piano religioso dell’individualismo e del razionalismo che erano state la premessa del cartesianesimo. Ancora più del protestantesimo nel suo articolarsi nelle diverse chiese, Ionescu riteneva pericolosa l’attività delle sette, sia sul piano della dottrina che su quello dell’organizzazione. Esse potevano insinuarsi nella struttura spirituale della comunità introducendo elementi estranei e minandone le basi. Le sette, valorizzando la scelta individuale su quella unitaria della comunità ortodossa, potevano far così prevalere la ragione sulla fede. Esse, “organizzate come unità di lotta” il cui scopo è distruggere la concorrenza della Chiesa e quindi minare la struttura spirituale del popolo”45, proponevano una religione naturale di stampo razionalista. Più delle chiese esse avrebbero avuto un’attitudine offensiva. Ionescu le definiva “l’espressione religiosa della filosofia illuminista giunta alla formulazione definitiva nel XVIII sec.”
44 N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 570, 20 settembre 1926 e N. IONESCU, În jurul cazului de la Hamba, “Cuvântul”, an. III, n. 547, 1 settembre 1926. 45 N. IONESCU, Fascism şi francmasonerie, “Cuvântul”, n. 610, an. III, 13 novembre 1926.
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e in quanto tale potevano essere messe in rapporto con “democrazia, positivismo e protestantesimo”46. Per erigere una difesa efficace contro le sette protestanti, filoprotestanti o massoniche sarebbe stato necessario per Ionescu che la Chiesa ortodossa rinunciasse al formalismo e si dedicasse invece alla costruzione di una “ricca vita intellettuale”, la sola che poteva ridare linfa vitale alla cultura religiosa del paese47. A poco sarebbe invece servito spingere lo stato ad adottare misure a sostegno della chiesa. Durante il dibattito sulla legge sulle confessioni religiose, approvata dal Parlamento nel 1928. Nel biennio 1927-1928 Ionescu pubblicò su Cuvântul diversi articoli proprio relativi alla legge48. Nel corso del dibattito egli ribadì la sua ferma convinzione della necessità di un’autonomia completa della Chiesa dallo Stato, ma insistette altresì sulla necessità di restaurare l’ortodossia nei suoi diritti naturali di religione nazionale49. Ionescu tuttavia non si dichiarò aspramente contrario alla legge, né alla sottoscrizione di un concordato con la chiesa cattolica per disciplinare lo status dei greco-cattolici. Egli sostenne invece che la chiesa ortodossa, così come coloro che ne sostenevano le rivendicazioni durante il dibattito, non dovessero preoccuparsi della potenziale pericolosità delle leggi dello stato, né della concorrenza delle altre confessioni. La superiorità dell’ortodossia era secondo Ionescu implicita nelle storia della nazione romena e nel suo ruolo nella costruzione della stessa, per cui non poteva essere certo messa in discussione da strumenti puramente formali come leggi e regolamenti50. 46
Ibidem. N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, n. 636, an. III, 13 dicembre 1926. Sullo stesso tema anche N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, n. 534, an. III, 16 agosto 1926 e N. IONESCU, Pro… juventute mea, “Cuvântul”, an. III, n. 537, 20 agosto 1926. 48 N. IONESCU, Legiferarea în materia religioasă, “Cuvântul”, an. III, n. 912, 31 ottobre 1927; N. IONESCU, Biserica şi bugetul, “Cuvântul”, an. III, n. 961, 19 dicembre 1927; N. IONESCU, Inter duos litigantes…, “Cuvântul”, an. IV, n. 1031, 29 febbraio 1928; N. IONESCU, Încheierea discu ii la legea cultelor, “Cuvântul”, an. IV, n. 1058, 2 aprile 1928. 49 N. IONESCU, În jurul concordatului, “Cuvântul”, an. III, n. 752, 6 maggio 1927. 50 Ibidem. 47
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Il fatto che un ortodossista come Ionescu non vedesse come un pericolo la legge sulle confessioni religiose potrebbe sorprendere, ma è da ricondurre alla concezione che egli aveva dell’ortodossia. Essendo l’ortodossia per Ionescu più un patrimonio di valori che una confessione strutturata e tantomeno una chiesa, egli non riteneva che una legge potesse metterla in discussione, né riteneva che essa dovesse essere trattata come “un’industria” da difendere con misure protezioniste51. Ionescu giudicava dunque assurde le proteste condotte sulla base del fatto che la chiesa ortodossa dovesse essere riconosciuta come “dominante”, così come era stato stabilito fin dalla prima costituzione: usare questo aggettivo aveva senso solo per ratificare la situazione esistente, il ruolo dell’ortodossia nella storia romena, ma certo non aveva senso connotare come ortodosso lo stato romeno “al di là del fatto che ciò sia un bene o un male”52. Nella difesa che Ionescu faceva della tradizione ortodossa53 la critica alle gerarchie ecclesiastiche si affiancava poi a una serie di riflessioni sullo stato di crisi del monachesimo e sulla riforma dell’insegnamento religioso54. Proprio perché richiedeva alla Chiesa un impegno intellettuale in grado di esaltare i valori dell’ortodossia del popolo romeno, egli seguì con molta attenzione il dibattito e poi la costituzione della nuova Facoltà di Teologia di Chişin u: nelle speranze di Ionescu questa avrebbe dovuto essere “un centro di attività non solo teoretico-scientifica, 51 52
Ibidem. N. IONESCU, Biserica dominantă, “Cuvântul”, an. V, n. 1484, 10 giugno
1929. 53
N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 480, 14 giugno 1926. N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 486, 20 giugno 1926; N. IONESCU, a maturandum christianae unitatis bonum, “Cuvântul”, an. III, n. 490, 26 giugno 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 493, 29 giugno 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 498, 5 luglio 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 510, 5 luglio 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 523, 2 agosto 1926; SKYTHES, Teodor Studitul, Părintele Dionisiu şi ajutorele sale, “Cuvântul”, an. III, n. 527, 8 agosto 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 529, 11 agosto 1926; N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 534, 16 agosto 1926; N. IONESCU, Pro… juventute mea, “Cuvântul”, an. III, n. 537, 20 agosto 1926. 54
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ma anche pratica. E in particolare un istituto che non parte solo dal problema teoretico di Dio, ma da quello pratico e concreto della Chiesa”, con il compito di svolgere un monitoraggio costante della situazione della Chiesa ortodossa rispetto alle altre confessioni55. 1.6 Ionescu e l’ebraismo Anche se negli anni Venti si occupò principalmente del rapporto tra l’ortodossia e le confessioni cristiane, Ionescu ebbe sempre presente la questione ebraica e il suo peso nella cultura del paese. Il suo primo articolo sulla questione ebraica fu pubblicato su Idea europeană nel 1919. Inserendosi nel dibattito tra due giornali, Mântuirea [La salvezza] e Socialismul [Il socialismo] sul rapporto tra ebraismo e socialismo, Ionescu definì inconciliabili le loro Weltanschauung. Il socialismo era infatti, a suo dire, infatti caratterizzato dalla volontà di rompere i legami organici dell’individuo con il suo gruppo di appartenenza nazionale. Il suo obiettivo era quello di ricomporre l’unità originaria della società, cancellando le identità particolari nate dalla divisione in classi e in nazioni: un obiettivo inconciliabile con l’idea di appartenenza a una comunità nazionale e con la volontà di costruzione della propria identità all’interno di essa, tipico di ogni gruppo nazionale. Proprio l’idea di un’identità individuale radicata nel gruppo nazionale risultava a Ionescu particolarmente forti nel gruppo nazionale ebraico, dal momento che era questo senso di appartenenza a mantenere i legami tra i membri di una comunità dispersa nel mondo da secoli: in nessun altro gruppo nazionale la cultura e i valori del proprio popolo contribuivano in modo così forte alla definizione dell’identità dell’individuo, soprattutto perché servivano a distinguerlo dai membri della comunità in mezzo alla quale egli viveva: “a questa specificità gli ebrei rinunciano molto più difficilmente degli altri popoli, che già vi 55 N. IONESCU, O nouă facultate de teologie, “Cuvântul”, an. III, n. 529, 11 agosto 1926. Sullo stesso argomento N. IONESCU, Interesul bisericesc na ional, “Cuvântul”, an. III, n. 574, 2 ottobre 1926, N. IONESCU, Pentru încheierea discu iei, “Cuvântul”, an. III, n. 591, 22 ottobre 1926 e N. IONESCU, Consummatum est, “Cuvântul”, an. III, n. 605, 7 novembre 1926.
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rinunciano difficilmente”. Difficile quindi, se non impossibile, l’adesione a una ideologia così “spersonalizzante” come quella socialista. Se nelle fila del socialismo si registrava una forte partecipazione ebraica, la causa andava ricercata nella condivisione da parte degli ebrei della lotta socialista contro i privilegi. Gli ebrei avrebbero infatti sempre aspirato a condividere i vantaggi riservati alle élite delle comunità in mezzo alle quali erano vissuti, senza riuscire a conseguirli. L’eliminazione di questi diritti esclusivi avrebbe potuto aiutare il loro gruppo all’assimilazione: l’adesione al socialismo sarebbe stata quindi per Ionescu frutto di una scelta opportunista in questa prospettiva56. In questo primo articolo di Ionescu sulla questione ebraica emergono alcuni elementi indicativi della sua posizione sull’argomento. Prima di tutto Ionescu ribadiva l’impossibilità di rinunciare alla propria identità e lo strettissimo legame di questa identità con quella religiosa. Tale aspetto era secondo Ionescu particolarmente evidente presso gli ebrei, essendo essi privi di uno stato e avendo inoltre mantenuto nel tempo la propria identità grazie alla religione. La critica al socialismo si inserisce quindi nella sua opposizione a qualsiasi ideologia egualitaria, che egli riteneva destinata al fallimento proprio in nome dell’irrinunciabilità alle identità nazionali. Nella sua battaglia contro la modernizzazione di tipo occidentale, liberale e liberista. Ionescu addirittura vedeva una minaccia di snaturamento non solo della romenità, ma dello stesso ebraismo, ormai, a suo giudizio, in crisi in Europa a partire dalla Rivoluzione Francese. Sotto l’insegna dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini infatti si aspirava alla parificazione degli status individuali. La parificazione implicava però necessariamente una perdita delle differenti identità individuali, provocando un indebolimento dell’ebraismo come confessione. E questa crisi si era acuita nel secolo successivo con il trionfo del positivismo e della separazione tra Stato e Chiesa. Come si può notare negli anni Venti la critica nei confronti delle correnti politiche democratiche – nelle quali Ionescu accomunava liberalismo e comunismo – è centrale nella riflessione di Ionescu, tanto N. IONESCU, Evreii şi socialismul, “Ideea European ”, n. 13, 14 settembre 1919. L’articolo è firmato con lo pseudonimo Mihai Tonca. 56
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da spingerlo ad adottare toni indulgenti anche nei confronti degli ebrei, in seguito vittime privilegiate dei suoi attacchi. L’antisemitismo di alcuni esponenti del clero ortodosso è da lui infatti criticato e accompagnato a inviti a non lasciarsi coinvolgere dalle polemiche del mondo politico57. Anche in questa occasione comunque la questione ebraica non è al centro dell’attenzione di Ionescu, viene utilizzata solo come argomento per la critica al liberalismo o alla commistione tra religione e politica. Questo è indubbiamente indice della scarsa rilevanza che in quel momento Ionescu attribuiva al problema. Tuttavia da questi pochi articoli dedicati alla questione ebraica si può ricavare un atteggiamento di rispetto nei confronti degli ebrei: “difficilmente si può credere che un popolo che vive nelle sue forme specifiche da qualche migliaio di anni secondo gli insegnamenti del Vecchio Testamento, dalle cui fila è uscito Cristo-Dio incarnato, non sia che un popolo di posseduti, la cui unica ragione di esistere è il desiderio di dire ‘no’”. D’altra parte nel riconoscere l’influenza dell’ebraismo sulla cultura europea, individuava in esso un aspetto peculiare che non si ritrovava nelle altre confessioni religiose: la piena coincidenza tra nazione e religione, che rendeva necessaria la ricerca di un equilibrio stabile tra i due estremi della confessionalizzazione e la nazionalizzazione. L’equilibrio non era però facile da trovare e questo condannava il popolo ebraico a “tormentarsi” in eterno58. Quanto Ionescu scriveva a proposito dell’ebraismo, della sua passata importanza e della sua necessità di autotormento anticipa tutte le tematiche che sarebbero state poi sviluppate e argomentate in modo più approfondito nell’opera che è considerata emblematica dell’antisemitismo di Ionescu e cioè la prefazione a De doua mii de ani, opera di un suo allievo di origine ebraica, Mihail Sebastian, grande amico di Eliade.
57 58
N. IONESCU, Peter Olasz, “Cuvântul”, an. III, n. 613, 17 novembre 1926. N. IONESCU, Alte perspective, “Cuvântul”, an. III, n. 514, 24 luglio 1926.
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1.7 Le caratteristiche della comunità nazionale Dato che secondo Ionescu la comunità nazionale era l’insieme di coloro che condividevano i valori cristiano ortodossi, essenziale per la sua sopravvivenza era la difesa della sua integrità spirituale. Il termine comunità era utilizzato da Ionescu nell’accezione di Tönnies in contrapposizione a quello di “società” e indicava appunto una collettività che viveva come un tutto unico in cui ciascun individuo agiva nell’interesse del tutto. In questa concezione organicistica le nazioni erano soggetti vitali in cui ogni membro svolgeva una funzione essenziale alla sopravvivenza senza prendere il sopravvento sugli altri. Tra tutti i componenti della comunità secondo Ionescu si intrecciano dei “piccoli rapporti”59 di integrazione e collaborazione per il fine comune del bene della nazione. La realtà nazionale autentica era per lui rispecchiata dallo stile di vita del mondo contadino. Per Ionescu i villaggi rappresentavano nei valori e nell’esperienza il modello di convivenza, tipicamente orientale, della comunità integrata. a esso si contrapporrebbe quello individualistico delle città, tipico dell’Occidente, in cui ogni cittadino rappresenta una monade chiusa a se stante, costantemente alla ricerca del profitto personale, come esemplificato dalla mentalità liberale e capitalista. Lo Stato moderno di stampo liberaldemocratico avrebbe sostituito alle micro-relazioni tra membri della collettività delle macro-relazioni con lo Stato. In questo attacco all’idea di nazione e al modello si stato, Ionescu appare vicino alla concezione della comunità nazionale degli slavofili russi in polemica con la tradizione democratico-liberale: anche questi ultimi del resto erano partecipi della tradizione rousseauiana del modello organico di nazione, dove l’interesse della comunità nazionale prevale su quello degli individui. Per Ionescu la democrazia era un regime freddo, privo di legami con le radici spirituali del popolo: i liberali romeni si appellavano, è vero, alla “tradizione” del 1848, ma questo era a suo avviso una contraddizione in termini, perché una tradizione si protrae nel tempo, è 59
SKYTHES, Păreri de rău… indiscrete, “Cuvântul”, an. III, n. 611, 14 novembre 1926.
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frutto di una lenta sedimentazione nei secoli e non può partire da una data fissa. La democrazia era la negazione della tradizione e dell’eredità in genere, essa rappresentava secondo Ionescu l’atomizzazione, l’aritmetizzazione della società e come tale l’annullamento del passato60, “il governo del numero” avrebbe detto Maurras61. E d’altra parte, diceva Ionescu, non poteva appellarsi alla tradizione un regime privo di una direzione politica specifica, ma nel quale si confrontavano diverse ideologie: la tradizione liberale era diversa da quella dei contadinisti, dei socialisti o dei nazionalisti. Senza contare poi che la democrazia presupponeva il confronto tra i partiti, ma i partiti erano per loro natura monadi chiuse ed esclusive, che tendevano ad affermare il proprio modello politico prevalendo sugli altri e inevitabilmente facendoli soccombere e questo risultava dunque un altro grande inganno62. Il modello liberaldemocratico era riuscito diceva Ionescu a condizionare e a plasmare le istituzioni, lo Stato romeno, ma non la nazione. Quest’ultima era considerata da Ionescu una realtà organica, laddove quello era una “realtà giuridica”63 artificiale ed estranea all’essenza nazionale: “esso [lo stato democratico] non è cresciuto sulla nostra vecchia vita romena, ma si è piuttosto sovrapposto a questa vita, comprimendola. Il risultato è stato che ovunque lo stato è entrato in conflitto nelle nostre questioni pubbliche con le istituzioni di fatto e ha fatto di tutto per dissolverle”64. Il moderno Stato democratico avrebbe determinato una rottura con la struttura tradizionale romena che integrava comunità nazionale e cristiana: secondo Ionescu lo Stato, la nazione e la Chiesa costituivano una unità organica indissolubile, mentre la mentalità moderna aveva applicato a queste realtà il meN. IONESCU, Tradi ionalism şi democra ie, “Cuvântul”, an. III, n. 532, 14 agosto 1926. 61 C. MAURRAS, Dictionnaire politique et critique, À la cité des livres, 1931, t. I, p. 335. 62 N. IONESCU, Introducere în istoria logicei, ed. Eminescu, Bucureşti, 1987, p. 181. 63 N. IONESCU, Între statul de drept şi institu iile de fapt, “Cuvântul”, an. VI, n. 1866, 3 luglio 1930. 64 Ibidem. 60
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
todo scientifico, considerandoli aspetti separati a sé stanti65. Il risultato della penetrazione di questo modello occidentale in Romania era stato dunque l’allontanamento del paese dalla spiritualità orientale ortodossa, la laicizzazione e soprattutto la rottura della solidarietà interiore della comunità nazionale romena che proprio su valori ortodossi si fonda. L’attacco che Ionescu portava al sistema democratico introdotto in Romania era un attacco a tutto campo e di fatto, a parte alcune considerazioni specifiche che riguardavano il funzionamento delle istituzioni democratiche romene, si presentava come un attacco al modello europeo occidentale in quanto tale. Esso poneva gli individui tutti sullo stesso piano. Nell’idea di comunità organica di Ionescu invece ogni individuo era indissolubilmente legato alla comunità come una cellula al corpo. E come ogni cellula è diversa dall’altra e svolge una funzione specifica rispetto alle altre, i membri della collettività non potevano essere messi tutti sullo stesso piano: per Ionescu era nell’ordine naturale delle cose che qualcuno tra di loro avesse le capacità e le virtù atte a renderlo capace di governare, di guidare la comunità così come il cervello guida il corpo. Ma queste capacità erano qualcosa di naturale, che non si poteva acquisire e che solo taluni avevano. Il criterio della scelta aritmetica dei leader politici proprio del sistema democratico, derivato dal presupposto dell’esistenza di individui isolati e indipendenti, ciascuno in grado di esercitare la propria scelta, non aveva senso; gli individui non potevano essere considerati eguali, le loro volontà non avevano il medesimo peso. Il voto era dunque un meccanismo artificiale che parificava i ruoli de-costruendo l’armonico funzionamento dell’organismo sociale. L’impostazione del modello della democrazia rappresentativa aveva dunque secondo Ionescu comportato un attacco alla comunità nazionale ortodossa romena, che poteva esistere solo in quanto tutto organico, laddove il sistema democratico tendeva a rompere la sua solidarietà interna concedendo a ciascuno come singolo il diritto di scelta dei rappresentanti della comunità. Il calcolo aritmetico delle preferen65
N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 612, 15 novembre 1926.
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ze e il criterio di scelta maggioritario spezzavano l’unità nazionale, producendo un organo decisionale frammentario come il Parlamento, incapace per sua natura di prendere decisioni in nome della nazione e di svolgere un programma coerente. L’applicazione alla Romania di questo modello politico, implicitamente difettoso e per di più particolarmente inadatto alla struttura della collettività organica del paese, aveva fatto sì che il sistema parlamentare romeno si fosse rivelato puramente formale, con un re al quale era stato attribuito il potere di scegliere il governo, proprio per superare le difficoltà di funzionamento del Parlamento: le stesse elezioni quindi venivano ridotte a semplice ratifica delle scelte del sovrano. Il mantenimento di così larghi poteri nelle mani del sovrano era segno non solo dei limiti del regime della democrazia rappresentativa romena, ma aveva un parziale corrispettivo nell’esaltazione che negli stessi regimi parlamentari europei occidentali avevano figure puramente simboliche come, ad esempio, quella del Presidente del Parlamento. Il regime parlamentare non funzionava perché la volontà della nazione non poteva essere il frutto di un calcolo aritmetico, ma doveva essere espressione di un’unica voce interprete della spiritualità collettiva: e questa voce poteva essere solo quella di personalità superiori spiritualmente, in grado di riassumere in sé tutti i valori della comunità nazionale e di guidarla per fare in modo che la sua identità non venisse corrotta da nodelli estranei. In questa collettività organica guidata da chi di dovere ognuno sarebbe stato al suo posto e gli “specialisti” avrebbero svolto il loro ruolo che la democrazia aveva loro tolto sostituendoli con gli “uomini politici”, sconvolgendo l’ordine gerarchico naturale della comunità nazionale. Questa concezione autoritaria e antidemocratica dello stato, legata a una forte convinzione nazionalista, portava Ionescu a maturare una personale elaborazione dell’idea di “conservatorismo”. Egli definiva conservatore chi non era disposto a rinunciare alle proprie convinzioni. Più che una dottrina, il conservatorismo era quindi per Ionescu un atteggiamento che qualunque corrente politica poteva assumere, anche quella democratica, se aveva fiducia nella validità perfetta delle sue formule a tal punto da non voler a nessun prezzo rinunciarvi. Persino
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un democratico quindi poteva diventare reazionario nel momento in cui si proponeva di difendere a ogni costo il proprio modello politico. Coloro che venivano invece considerati conservatori, diceva Ionescu, erano quelli che lottavano per “conservare le energie” della nazione. “Il conservatorismo è filomonarchico, nazionalista e mantiene il contatto con il passato. Tuttavia queste non sono, come a torto si crede, elementi costitutivi della dottrina conservatrice, ma piuttosto conseguenze inevitabili del principio della conservazione delle energie di una società”66. Conservare i valori della nazione era un definirsi in positivo e proprio per questo Ionescu, pur dichiarandosi esplicitamente “nazionalista”, rifiutava di essere definito un “antisemita”, ritenendo infatti che questa fosse una “definizione per negazione, sarebbe come dire che non esisto che in funzione del mio nemico. Situazione umiliante e dal punto di vista tattico, pericolosa: essere semplicemente un antisemita significa stare in una posizione inferiore, vivere sulla difensiva”67. Questi espedienti logici gli permisero nel 1926 di aderire alla richiesta del consiglio studentesco di Iaşi di introdurre il numero chiuso per gli ebrei nelle università senza sentirsi antisemita. Egli riteneva la richiesta dell’inserimento del numero chiuso una proposta di matrice nazionalista – tesa cioè al mantenimento della proporzioni esistenti per la maggioranza etnica romena – ma non antisemita, perché riconosceva l’esistenza di una minoranza ebraica e tendeva a garantirle l’accesso, sia pure entro dei limiti, alle istituzioni culturali. Resta da vedere se gli ebrei non la avvertissero come una misura antisemita o se considerandola come nazionalista, non percepissero una coincidenza tra nazionalismo romeno e antisemitismo.
66 67
SKYTHES, Savoia!, “Cuvântul”, an. III, n. 605, 7 novembre 1926. N. IONESCU, Reac iune şi altceva, “Cuvântul”, an. III, n. 536, 19 agosto 1926.
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2. Il “mito” di Nae Ionescu Di Ionescu è stato detto che non sia stato un pensatore particolarmente originale68 e che molte delle sue teorie non fossero altro che una rielaborazione di tematiche già proposte da altri. Così a livello filosofico l’organicismo di Ionescu vanterebbe una filiazione diretta da quello di Iorga e Maiorescu, l’idea di comunità nazionale da contrapporre a quello di società liberaldemocratica deriverebbe da Tönnies, mentre la concezione politica si ricollegherebbe alla tradizione di De Maistre, Burke e De Bonald69. Che Ionescu abbia subito l’influenza del sămănatorism romeno e del pensiero legittimista europeo non sorprende, d’altra parte non è un elemento sufficiente per giudicare tutta la sua opera non originale. e in effetti qualcosa di originale c’è ed è precisamente nell’accentuazione dell’elemento mistico, che non si ritrova nella tradizione di Sămănătorul né negli stessi termini in quella demaistriana. Gli assolutisti di fine Ottocento attribuivano infatti alla divinità il ruolo di fonte legittimante del potere del re, ma senza improntare dei valori spirituali tutta la convivenza nella comunità nazionale. Si può forse dire che non si ritrova in Ionescu la profondità del poeta Lucian Blaga, né la competenza teologica di Crainic. Nae Ionescu era prima di tutto un filosofo, come formazione e come impostazione: i suoi studi in ambito logico e metafisico ebbero un ruolo di primo piano sull’elaborazione di un sistema di pensiero più ampio che si estendeva fino alla politica, sebbene Ionescu fosse un filosofo nel senso socratico del termine: per lui la filosofia era ricerca continua e incessante ed era impossibile giungere a una conclusione, a un punto fermo. Come dice C linescu, Ionescu “non ha personalmente e in linea di principio nessuna filosofia”70. La filosofia non era per Ionescu elaborazione coerente, ma ricerca continua, un metodo più che un sistema, 68
G. VOICU, op. cit., p. 46. Ivi, p. 82. 70 M. C LINESCU, Istoria literaturii române de la origini şi pîna la prezent, Aristarc, Oneşti, 1998, p. 653. 69
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per questo non ha neanche senso parlare di “storia della filosofia”71. Egli partiva da un problema, una questione aperta, e cercava di scioglierla per mezzo di un metodo problematico paradossalmente non dissimile da quello del dubbio metodico di Cartesio. In fondo la chiave della riflessione di Ionescu è la problematizzazione, quel metodo deduttivo che Cartesio era stato tra i primi a teorizzare. La differenza è nel fatto che Ionescu scelse come criterio per risolvere i nodi problematici l’esperienza, la realtà piuttosto che la deduzione puramente logica. Egli invitava a trovare delle risposte nella propria esperienza il che rendeva impossibile costruire un sistema astratto valido in assoluto e per sempre: la rimessa in discussione doveva essere continua. Per questo secondo lui non aveva senso scrivere dei testi che presentassero il proprio pensiero. Esso infatti non poteva mai essere fissato in modo definitivo e compiuto e in effetti Ionescu non elaborò mai un’opera per la pubblicazione. Il suo pensiero si può ricostruire solo sulla base dei testi litografati dei suoi corsi universitari e della sua pubblicistica, opere per loro natura frammentarie: la scrittura di testi o la sistematizzazione in un quadro coerente era estranea al modo in cui procedeva il suo pensiero. Questo metodo speculativo si rifletteva specularmene nel metodo di insegnamento. Ionescu procedeva nelle sue lezioni universitarie con un metodo maieutico, cercando di stimolare i suoi allievi con domande e sollecitazioni, evitando di impostare le sue lezioni come esposizione di un problema, piuttosto trattandole come discussione aperta e costruttiva. In esse non venivano fornite risposte a delle questioni, ma sollevati problemi lasciando che fossero gli allievi a risolverli, ciascuno secondo le proprie convinzioni. Forse proprio per questo fu soprattutto Ionescu e non altri suoi grandi contemporanei a diventare il punto di riferimento di un nutrito gruppo di giovani brillanti e con idee 71
Come riporta Vulc nescu “la storia della filosofia soprattutto rappresenta l’oggetto degli attacchi continui di Ionescu. Egli le contesta qualunque diritto all’esistenza mostrando – idea sua di sempre – che ogni uomo è solo con il suo pensiero, che la filosofia è un’attività strettamente personale e che i filosofi ne prendono in prestito solo il vocabolario, nella maggior parte dei casi interpretandolo”. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 25.
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anche molto diverse tra di loro. Questa è appunto la particolarità di Ionescu: non si può parlare di una sua “scuola”, perché è difficile trovare un indirizzo comune nel pensiero dei suoi allievi. E come parlare di una scuola quando uno degli allievi più legati al maestro era un intellettuale ebreo di convinzioni democratiche come Mihail Sebastian? Ionescu non fu un caposcuola, né volle esserlo. Nelle sue lezioni egli apparentemente non cercava di “convincere” gli studenti, ma di guidarli, di invitarli a porsi domande e a giungere a delle conclusioni. In questo modo più che un maestro Ionescu diventò per i suoi allievi un “risvegliatore di coscienze”72. Suo scopo dichiarato nell’insegnamento era “portare alla superficie”73 le convinzioni di ciascuno, la personalità degli studenti, non fare di essi dei seguaci pedissequi. Il suo obiettivo era far sì che ciascuno camminasse “con le proprie gambe”74.
3. Nae Ionescu e la politica L’orientamento politico di Ionescu fu fortemente condizionato dalla sua concezione di nazione. Egli cercò infatti costantemente nel panorama politico il soggetto capace di sovvertire le istituzioni democratiche e costruire un modello di stato adatto all’esaltazione della comunità nazionale organica romena. A questa concezione Ionescu restò sostanzialmente fedele, anche se solo a partire dalla seconda metà degli anni Venti egli prese parte attivamente al dibattito politico. In precedenza egli, personalità già nota a livello accademico e stimato per la sua competenza in ambito filosofico, si limitò ad affrontare episodicamente temi molto generali, come quello del sindacalismo, al quale dedicò una conferenza nel 1923.
72
S. TUDOR, “Credin a”, n. 359, 10 febbraio 1935. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 145. 74 Ivi, p. 147. 73
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
È a partire dalla collaborazione con il quotidiano Cuvântul nel 192675 che si può datare un suo impegno diretto in politica. Cuvântul nacque nel 1924 ed era inizialmente diretto da C. Gongopol. Tra i collaboratori annoverava Pamfil Şeicaru, Cesar Petrescu, Titu Devechi, Wladimir Ionescu e i più noti Nichifor Crainic e Lucian Blaga. Crainic si occupava prevalentemente di questioni teologiche o legate comunque alla Chiesa ortodossa e teneva una rubrica settimanale denominata “Duminica”, nella quale si esprimeva in poche righe su un tema di attualità legato ad aspetti religiosi. Blaga scriveva invece recensioni e in generale articoli sull’attualità letteraria76. La struttura del giornale restò pressoché immutata nel corso del tempo: dalle quattro alle sei pagine (con edizioni speciali più ricche a Natale, Pasqua o in altre occasioni particolari), una prima pagina con editoriale, commenti sulla politica e un articolo di cultura (letteratura, arte, cinema o teatro), quindi ampio spazio dedicato alla cronaca politica, interna ed estera, all’economia e a notizie dell’ultima ora. Nel primo numero Cuvântul si presentava come “giornale politico indipendente scritto da intellettuali”; indipendente nel senso che non si poneva come portavoce di un partito o di una corrente politica, ma come voce critica della realtà politica stessa77. Secondo quanto affer75 Lo nota anche Mircea Vulc nescu quando racconta che nel 1927, trovandosi all’estero e leggendo un’intervista al suo vecchio professore, capisce “che Nae Ionescu inizia a preoccuparsi di politica”. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 51. 76 Eliade parla così del giornale ricordando la sua prima visita alla sede: “nella sala in cui sono stato introdotto si trovavano Pamfil Şeicaru, Nae Ionescu e qualche altro giornalista, tra i quali ho riconosciuto Cesar Petrescu. (…) La presenza del mio professore di logica e metafisica [Ionescu] nella redazione di Cuvântul mi assicurava che questo tipo di gazzetta non era incompatibile con un’attività scientifica rigorosa. D’altronde per me, come per tutta la mia generazione, Cuvântul non era una gazzetta come le altre. Lo consideravamo piuttosto una rivista perché gli articoli erano firmati (e c’erano sette articoli solo nella prima pagina) e perché oltre a Cesar Petrescu, Nichifor Crainic, Pamfil Şeicaru, Nae Ionescu, collaboravano Lucian Blaga, Perpessicius, G. Breazul, O. W. Gisek e tanti altri scrittori, critici e saggisti dei circoli di Gîndirea e Ideea Europeanǎ”. Cfr. M. ELIADE, Memorii, Humanitas, Bucureşti, 1991, vol. I, p. 127. 77 Ce este Cuvântul, “Cuvântul”, an. I, n. 1, 6 novembre 1924.
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mava il primo editoriale, ai collaboratori era lasciata piena libertà di scelta78 ed era garantito comunque il diritto di replica a ogni interlocutore. Questa impostazione si ritrova anche negli articoli firmati da Ionescu. Da fine pensatore quale era, Ionescu non riduceva il confronto con i suoi interlocutori a mera polemica, ma ricorreva anche in ambito giornalistico al metodo dialettico utilizzato durante i suoi corsi universitari79. Da un confronto tra gli articoli e i resoconti stenografati dei corsi, alcuni dei quali sono stati pubblicati negli anni Novanta, emerge infatti una tecnica analoga di concatenazione logica e consequenziale dei concetti. Le polemiche giornalistiche con la stampa liberale riproducono per iscritto quel metodo maieutico al quale fanno riferimento diverse testimonianze di suoi allievi, da Vulc nescu a Eliade, e che rendeva le sue argomentazioni particolarmente convincenti. Ovviamente questo non significa che Ionescu proponesse sempre idee difendibili, ma indubbiamente il suo modo di presentarle era talmente coinvolgente, che non stupisce il fatto che molti giovani se ne siano lasciati affascinare. Ionescu cominciò a collaborare con il giornale nel maggio 1926, subentrando a Crainic nella rubrica “Duminica” [La domenica] quando questi fu chiamato a ricoprire il ruolo di Segretario Generale al Ministero delle Arti e dei Culti nel Ministero Averescu: fu proprio la sua competenza in ambito teologico a determinare la scelta della redazione. Il primo articolo firmato da Ionescu è del 2 maggio 192680: argomento il dialogo tra le Chiese cristiane proposto dalla Conferenza di Stoccolma. Per tutto il mese di maggio, Ionescu proseguì soltanto
78 L’articolo aggiunge infatti “senza che nello stesso tempo, essi (gli intellettuali) interrompano i loro legami con il partito al quale appartengono”. 79 Nel corso di una delle prime polemiche che lo oppongono alla stampa democratica, Ionescu non a caso rimprovera ai suoi avversari di portare avanti attacchi gratuiti, senza però rispondere direttamente alle sue affermazioni, cfr. SKYTHES, Discu ii care nu pot să sfârşească, “Cuvântul”, an. III, n. 540, 25 agosto 1926. 80 N. IONESCU, Duminica, “Cuvântul”, an. III, n. 446, 2 maggio 1926.
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con la sua rubrica; all’inizio di giugno comparve anche una sua recensione a un saggio sulla chiesa ortodossa81. Come giustamente ha rilevato Vulc nescu, Ionescu non vedeva l’attività giornalistica come semplice registrazione passiva di eventi, ma considerava il giornalista una presenza attiva nella vita pubblica e i suoi articoli uno strumento di intervento che gli consentiva di esprimere la propria opinione, di pronunciarsi sulle più diverse questioni. In effetti, anche se nel primo anno di collaborazione Ionescu privilegiò le questioni teologiche e quelle che riguardavano la chiesa ortodossa, già dai primi mesi egli ampliò i suoi interventi a tematiche genericamente culturali per passare presto al commento politico. Tra l’altro in questa prima fase Ionescu utilizzò per alcuni articoli lo pseudonimo Skythes e più raramente Kallikles82, ma significativamente il loro uso fu prevalentemente riservato ad articoli più o meno genericamente politici o di polemica giornalistica, specie con gli esponenti della stampa democratica83: particolarmente accesa quella con un giornalista del quotidiano di orientamento liberale Adevărul [La verità], che accusava Cuvântul di fascismo84. Proprio la difesa della linea editoriale del giornale indusse Ionescu a una maggiore attenzione alla politica85, che nell’attività giornalistica aveva un canale privilegiato di espressione. Il fatto di avere completa libertà nell’uso delle colonne di Cuvântul dovette stimolarlo non poco, tant’è vero che alla fine del 1926 il numero dei suoi articoli politici
81 N. IONESCU, Piatra din capul unghiului, “Cuvântul”, an. III, n. 472, 5 giugno 1926. Il saggio recensito era quello di Gala Galation Scrisori teologice. Piatra din capul unghiului. 82 Lo ricorda Eliade in M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 127. 83 SKYTHES, Teodor Studitus, Părintele Dionisie şi ajutoarele sale, “Cuvântul”, an. III, n. 527, 8 agosto 1926; SKYTHES, Et in Arcadia ego…, “Cuvântul”, an. III, n. 530, 12 agosto 1926. 84 SKYTHES, Ceta ean şi om, “Cuvântul”, an. III, n. 537, 20 agosto 1926; SKYTHES, Discu ii nu pot să sfârşească…, “Cuvântul”, an. III, n. 540, 25 agosto 1926. 85 SKYTHES, Democra ia evoluează, “Cuvântul”, an. III, n. 533, 15 agosto 1926; SKYTHES, ărănism şi democra ie, “Cuvântul”, an. III, n. 541, 26 agosto 1926.
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aumentò significativamente86. Ionescu cedeva al “contingente”, ma con la coscienza che il ruolo dell’intellettuale fosse ben altro, in politica entrava con uno pseudonimo. La sua personalità emerse però in modo ancor più prepotente proprio in questi articoli che tanto esulavano dai suoi interessi “scientifici” e l’incisività dei suoi interventi spinse la redazione ad attribuirgli un ruolo sempre più rilevante, soprattutto dopo che nell’autunno 1927 Pamfil Şeicaru e un altro gruppo di collaboratori lasciarono il giornale per fondare Curentul [La corrente]. Ionescu a questo punto diventò il principale responsabile della posizione politica del giornale87. Alla morte di Titus Enacovici nel 1928, Ionescu assunse la carica di direttore e resse le sorti del giornale anche nei momenti di maggiore difficoltà finanziaria. A questo punto le remore di Ionescu verso la quotidianità della politica erano ormai largamente tramontate. Egli iniziò a occuparsi prevalentemente di politica e la sua diventò una delle voci più ascoltate in questo ambito. Il suo obiettivo fu costantemente quello della costruzione di un sistema politico antiliberale, coerentemente con la sua impostazione filosofica. Ma quali furono i soggetti politici nei quali Ionescu confidò per la realizzazione del suo modello politico? In generale Ionescu sostenne sempre il soggetto politico che riteneva la più credibile alternativa ai 86 SKYTHES, Marea, “Cuvântul”, an. III, n. 550, 4 settembre 1926; SKYTHES, Lichidarea, “Cuvântul”, an. III, n. 580, 9 ottobre 1926; SKYTHES, Apropierea ungano-jugoslavă, “Cuvântul”, an. III, n. 592, 23 ottobre 1926; SKYTHES, Savoia!, “Cuvântul”, an. III, n. 605, 7 novembre 1926; SKYTHES, Un Locarno balcanic, “Cuvântul”, an. III, n. 609, 7 novembre 1926; KALLIKLES, Alegeri din Grecia, “Cuvântul”, an. III, n. 619, 23 novembre 1926; KALLIKLES, Rela iile nostre cu Polonia, “Cuvântul”, an. III, n. 620, 25 novembre 1926; KALLIKLES, Economii, “Cuvântul”, an. III, n. 622, 27 novembre 1926; SKYTHES, Arta fascistă, “Cuvântul”, an. III, n. 626, 2 novembre 1926; KALLIKLES, Exilul lui Beneşra ia evoluează, “Cuvântul”, an. III, n. 533, 3 dicembre 1926 ; N. IONESCU, Conservatorismul, “Cuvântul”, an. III, n. 629, 5 dicembre 1926; N. IONESCU, Problemele cadrelor, “Cuvântul”, an. III, n. 637, 15 dicembre 1926; SKYTHES, La răscrucii…, “Cuvântul”, an. III, n. 640, 18 dicembre 1926; N. IONESCU, Între rege şi ara, “Cuvântul”, an. III, n. 641, 19 dicembre 1926. 87 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 150.
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liberali e la sua scelta dovette di volta in volta tener conto dell’evoluzione della situazione interna (ed internazionale), nonché talvolta delle sue vicende personali. Possiamo quindi individuare tre fasi dell’impegno politico di Ionescu: quella del sostegno al Partito Nazional-Contadino, riconducibile al triennio 1926-1929, quella della collaborazione con il re Carol II (1930-1933) e quella guardista, la più lunga, che gli fece assumere l’appellativo di “eminenza grigia” del movimento di Codreanu. Obiettivo critico di Ionescu fu sempre dichiaratamente lo stato liberaldemocratico e il suo sistema elettorale, come si è accennato considerato da lui colpevole di rompere l’unità nazionale. Di conseguenza Ionescu si opponeva fermamente al Partito Liberale romeno in quanto rappresentante in Romania di questo modello politico. Il partito dei Br tianu era accusato di incapacità di gestire la politica interna e internazionale del paese88, come dimostravano i frequenti casi di corruzione che si verificavano nel paese89. Ma l’incompetenza liberale era anche considerata responsabile della posizione subalterna della Romania a livello internazionale. I governi postbellici erano accusati di non aver saputo sfruttare le potenzialità del paese, un paese “pari all’Italia per estensione e tante volte più ricco”90. Ionescu riteneva che dopo la guerra la Romania si fosse chiusa in se stessa, restando tagliata fuori dagli equilibri internazionali e perdendo l’occasione di diventare una potenza in Europa. La causa sarebbe stata l’incapacità dei governi liberali di approfittare della situazione instabile che si era determinata nel panorama internazionale. La situazione instabile a cui Ionescu faceva riferimento riguardava il Sud-Est europeo: i liberali infatti volevano proseguire sulla linea 88
N. IONESCU, Rezerve, “Cuvântul”, an. IV, n. 707, 12 marzo 1927, ma anche N. IONESCU, Razmerita, “Cuvântul”, an. V, n. 1146, 1 luglio 1928; N. IONESCU, Apelul la regen a, “Cuvântul”, an V, n. 1149, 5 luglio 1928; N. IONESCU, Tron şi ara, “Cuvântul”, an V, n. 1168, 22 luglio 1928 e N. IONESCU, Pe Aventin, “Cuvântul”, an. V, n. 1172, 28 luglio 1928. 89 Ad esempio Ionescu commenta ironicamente l’acquisto di auto di lusso da parte del Ministero dell’Economia in N. IONESCU, Economii, “Cuvântul”, an. III, n. 622, 27 novembre 1926. 90 SKYTHES, Marea, “Cuvântul”, an. III, n. 558, 4 settembre 1926.
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dell’alleanza con la Francia e prospettavano la creazione di una sorta di “Locarno balcanica” per consolidare i legami stabiliti durante la prima guerra mondiale e lo status quo nella regione91. Ionescu giudicava questi tentativi poco lungimiranti perché secondo lui gli equilibri nei Balcani si erano già rotti e soprattutto perché la scelta di allearsi con la Francia non avrebbe portato vantaggi alla Romania. Prospettive migliori avrebbe a suo avviso garantito il sostegno all’Italia, che non aveva mai nascosto le sue ambizioni di egemonia nei Balcani e che proprio a questo scopo aveva cercato prima di isolare la Serbia, poi di allearsi con la Bulgaria. L’appoggio romeno sarebbe potuto essere prezioso per Mussolini, a patto che i governi romeni non lo avessero affrontato con complessi di inferiorità, ma “da pari a pari”, ponendosi sullo stesso piano92. Evidentemente la preferenza dell’Italia rispetto alla Francia non si basava esclusivamente su valutazioni strategiche: teneva anche conto del suo rifiuto della democrazia e della vicinanza del suo modello politico a quello mussoliniano. Il Fascismo, diceva Ionescu “è molto più di un regime politico: è un regime nuovo nel senso più pieno della parola, una nuova struttura della vita pubblica, prima fortunata formulazione di questa nuova struttura esistente di fatto in tutta Europa (…) è una rivoluzione naturale compiuta, esso non anticipa in alcun modo il futuro, esprime semplicemente il rapporto di forze e funzioni dell’organismo sociale esistente nel presente. È la codificazione di uno stato di fatto”93. Il modello di stato di Ionescu aveva infatti diversi punti in comune con lo stato corporativo fascista, ma con una maggior valorizzazione della figura del re, considerato incarnazione dei valori autentici della comunità.
91
SKYTHES, Un Locarno…, cit. N. IONESCU, Apropierea ungaro-jugoslavă, “Cuvântul”, an. III, n. 592, 22 ottobre 1926. 93 SKYTHES, Arta fascistă, “Cuvântul”, an. III, n. 626, 2 dicembre 1926. 92
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3.1 La fase contadinista Quando Ionescu cominciò a intervenire apertamente sulle questioni politiche dalle colonne di Cuvântul il suo sostegno fu indirizzato al Partito Contadino94. Fu una scelta “naturale” per diversi aspetti e in primo luogo per la formazione culturale di Ionescu, che si era sviluppata sul solco della tradizione conservatrice romena e del pensiero di Maiorescu. L’esaltazione della tradizione contadina come base e alveo nel quale si erano formati i valori della comunità nazionale avvicinavano infatti Ionescu alla ideologia contadinista. Essa, secondo Ionescu, aveva il merito di riconoscere come base autentica della nazione romena la comunità dei villaggi, dove lo spirito comunitario non era stato corrotto dall’individualismo e dalla modernizzazione della città. Ionescu sperava che il Partito Contadino diventasse un partito di massa, rappresentativo della collettività nazionale e dei suoi valori spirituali, che riducesse il parlamento a una funzione puramente simbolica e si facesse carico dei reali interessi della nazione95. Esso si doveva radicare nella comunità locale con le sue rappresentanze, così da diventare parte della vita collettiva nella sua quotidianità. Questa concezione del partito, inconciliabile in tutto e per tutto con quella liberale, era peraltro rigidamente gerarchica: il leader doveva essere secondo Ionescu il portavoce unico della collettività, l’espressione unitaria della sua ideologia e dei suoi valori96. A lui dovevano essere sottoposti tutti gli altri esponenti politici, dai deputati ai membri del governo. Paradossalmente l’idea di partito di Ionescu era assai vicina a quella che una ventina di anni dopo sarebbe stata realizzata dal partito comunista.
94
Sembra che in questo periodo Ionescu sia anche legato personalmente a esponenti contadinisti, da Grigore Iunian a Nicu Penescu, nella maggior parte dei casi esponenti della linea di Argentoianu. 95 “Venuto al potere per mezzo di un mito, in cui la collettività si pensa a un certo punto rispecchiata in tutte le sue aspirazioni, il partito di massa domina per mezzo dell’influenza che questo mito esercita sulle masse”. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 58. 96 Ibidem.
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In realtà questa idea di partito di Ionescu era assai lontana da quella condivisa dalla maggior parte degli esponenti del Partito Contadino e di ciò Ionescu era pienamente consapevole. Egli sperava che nelle lotte interne per la leadership del partito prevalesse la fazione di Argentoianu e di coloro che, per lo più reduci dal vecchio partito conservatore, rifiutavano come lui le istituzioni democratiche. Ionescu dovette però presto rendersi conto delle scarse possibilità che questo gruppo aveva di prevalere e per questo più volte manifestò la sua delusione nei confronti del partito che, a suo dire, aveva ceduto alla seduzione della liberaldemocrazia97 e tradito i suoi ideali originari. Così facendo però il partito secondo Ionescu era rimasto coinvolto nella crisi dei regimi liberali, che per lui rappresentavano una fase98 del processo storico ormai superata99, come dimostravano in Europa la nascita e il successo di movimenti antidemocratici come la corrente filomonarchica di Maurras, il fascismo, ma anche l’idea del mito di Sorel o la teoria della minoranza cosciente di Lenin: “il cambiamento della struttura morale ed economica dell’Europa è un fatto generale oggi: esso non può essere negato neanche dagli osservatori più superficiali”100. La crisi dei partiti democratici, destinati a “morire di morte naturale”101, non era per lui una crisi di uomini, ma del “regime spirituale”102, che avrebbe travolto tutti coloro che avevano scelto di sostenerlo, inclusi i contadinisti.
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“Distinguiamo quindi il contadinismo di partito, che abbiamo visto cos’è, dal contadinismo personale, che è contadino, essenzialmente conservatore e nazionale”, cfr. Ibidem. 98 È interessante notare come Ionescu condividesse una concezione dialettica della storia, risentendo quindi della lezione della destra hegeliana. Egli riteneva infatti che il processo storico si realizzasse “per tappe” e che si passasse da una tappa all’altra “quando i fatti contraddicono o superano gli elementi essenziali della fase rispettiva”. Cfr. SKYTHES, Democra ia evoluează, “Cuvântul”, an. III, n. 533, 15 agosto 1926. 99 Ivi e N. IONESCU, Na iunea în conflict cu Statul, “Cuvântul”, an. IV, n. 1173, 29 luglio 1928. 100 N. IONESCU, Despre ‘feudalismul francez’ şi alte articole de import ale nostre, “Cuvântul”, an. III, n. 536, 19 agosto 1926. 101 SKYTHES, Lichidarea, “Cuvântul”, an. III, n. 580, 9 ottobre 1926. 102 Ibidem.
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Imputando le difficoltà del Partito Nazional-Contadino nella ricerca di una mediazione tra le sue diverse anime come una crisi del partito conseguente all’accettazione delle istituzioni democratiche, Ionescu faceva risalire questa supposta crisi non tanto alle lotte interne per la leadership quanto piuttosto alla mancanza di una idea forte alla base del programma politico, che poi secondo Ionescu avrebbe dovuto essere il modello di comunità nazionale da lui propugnato. L’unica soluzione possibile per far diventare il Partito Contadino la forza politica guida della Romania sarebbe stato per Ionescu il ritorno al modello organizzativo del 1918-1919, quando il partito era “una federazione di organizzazioni locali, organizzata secondo la mentalità contadinista, ovvero conservatrice, cristiana, concreta, che mai ha conosciuto lo spirito maggioritario, (…) che non si interessava di politica ma di fattorie, le quali impongono ineluttabilmente la formula organica dello Stato nazionale, agli antipodi della categoria della formula contrattuale che sviluppata dalla democrazia”. Questa incompatibilità naturale del modello contadinista con la democrazia dimostrava secondo Ionescu l’incoerenza della politica seguita dal partito dalla metà degli anni Venti103. Nel 1926 il Partito Contadino si era unito al Partito Nazionale al fine di ampliare la propria base elettorale e di rafforzare il proprio peso politico, ma Ionescu aveva aspramente criticato questa scelta, data l’assenza di una base programmatica e ideologica comune tra i due partiti. Di fronte a questa presunta crisi del Partito Nazional-Contadino, Ionescu nel 1926-1927 ritenne che l’unica alternativa possibile fosse la costituzione di un polo formato da tutti i partiti di orientamento conservatore e antiliberale. Ionescu era infatti convinto che esso potesse accelerare l’inevitabile tramonto dello stato democratico a favore dell’instaurazione dello stato corporativo104. Per questo il ruolo del Partito Nazional-Contadino poteva per Ionescu essere ancora prezio-
103
SKYTHES, ărănism şi democra ie, “Cuvântul”, an. III, n. 541, 26 agosto
1926. 104
Ibidem.
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so105, anche se esso avrebbe dovuto “abbandonare la falsa ideologia democratica che per sfortuna sua e del paese ha adottato nel 1921”106. Tutte le forze conservatrici dovevano dare il loro apporto nella lotta al liberalismo107. Ionescu incitava infatti anche Iorga a far emergere le sue convinzioni antidemocratiche. Un ruolo fondamentale in questa ipotetica coalizione avrebbe poi dovuto essere ricoperto dal re, sia per la statura della figura di Ferdinando I sia per il significato stesso di questa figura per la nazione romena. Il principio conservatore era il “correlato logico e naturale del regime monarchico e della continuità organica e integra nella rappresentanza dello Stato, che è la regalità”108. Monarchia e democrazia erano regimi inconciliabili, se non a prezzo di uno svuotamento della carica monarchica, e conseguentemente Ionescu era convinto che la monarchia, se era vera monarchia, non potesse che essere “nazionale”109. La democrazia era il regime dei tecnocrati, dei burocrati, degli “specialisti” che non erano in grado di assicurare stabilità, prima di tutto per il loro essere soggetti alla scelta elettorale, poi perché essi comunque non governavano assumendo come punto di riferimento l’interesse nazionale, ma il loro proprio o quello della parte di elettorato che rappresentano. D’altra parte Ionescu non era l’unico a invocare una soluzione del genere, che comunque, va sottolineato, era un progetto che mirava sì al sovvertimento della democrazia, ma agendo dall’interno delle sue 105
N. IONESCU, Neo-Conservatismul, “Cuvântul”, an. III, n. 629, 5 dicembre
1926.
106 N. IONESCU, Criza Na ional- ărănismului, “Cuvântul”, an. IV, n. 731, 9 aprile 1927. 107 N. IONESCU, Problema cadrelor, “Cuvântul”, an. III, n. 637, 15 dicembre 1926. 108 N. IONESCU, Neo-Conservatismul…, cit. 109 Il giornale democratico Aurora afferma infatti, in uno dei suoi articoli in risposta a Ionescu, che la democrazia si può definire, conformemente alla definizione di Alain, “il potere continuo ed efficace di rovesciare i re e i tecnici immediatamente, se non governano secondo l’interesse della maggioranza”. Tuttavia, dice Ionescu, “quali re e perché rovesciare i re? Il regime democratico infatti ha neutralizzato il re, il quale ‘regna ma non governa’ e si è assunto tutte le prerogative di governo”, cfr. SKYTHES, ărănism şi…, cit.
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istituzioni. Condividevano il programma di Ionescu anche autorevoli esponenti del parlamento, come il suo vecchio maestro Constantin R dulescu-Motru, divenuto dopo la guerra senatore del partito di Averescu, il quale invocava una nuova forma di stato in Romania e chiamava a raccolta le forze antiliberali per realizzarla110. Questi temi sarebbero stati ripresi e sviluppati da Ionescu qualche anno più tardi, quando egli diventò uno dei più ascoltati consiglieri di Carol II. Già all’inizio del 1927 le speranze di Ionescu che si formasse un polo conservatore si affievolirono. Egli denunciò la mancanza di prospettiva politica dei partiti romeni, che preferivano attaccare e accusare l’avversario piuttosto che lavorare in modo costruttivo per un progetto di governo alternativo111. Alla fine dello stesso anno comunque, i segnali di cambiamento nel panorama politico romeno diedero nuove speranze a Ionescu. La morte di re Ferdinando nel 1927 fu seguita pochi mesi dopo da quella di Ionel Br tianu. La Romania perse così il re che l’aveva guidata al raggiungimento dell’unione e il leader storico del partito di più lunga tradizione. Dopo di allora la situazione non poté più essere la stessa: un clima di incertezza e instabilità investì la leadership del paese. Si aprì prima di tutto la questione dinastica. In linea di successione il trono sarebbe spettato a Carol, nipote del re defunto. Questi tuttavia aveva rinunciato alle sue prerogative regali nel 1925, quando aveva lasciato il paese dopo essersi rifiutato di rompere la relazione con l’amante ebrea Elena Lupescu. Il trono passò al principe Mihai, che aveva però solo sette anni. Si costituì quindi una reggenza, formata dal fratello di Carol Nicolae, dal Patriarca Miron Cristea e dal Presidente della Corte di Cassazione Gheorghe Buzdugan. Al vertice dei liberali Vintil Br tianu successe a Ionel, ma la scomparsa di una personalità come quella del vecchio leader che aveva guidato il paese durante la guerra mondiale e si era investito poi del merito della pace lasciò un vuoto difficile da colmare. Non essendo più presente una 110
N. IONESCU, Neo-Conservatismul, “Cuvântul”, an. III, n. 629, 5 dicembre
1926. 111
N. IONESCU, Unde e siguran a personală?, “Cuvântul”, an. IV, n. 656, 10 gennaio 1927.
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personalità così carismatica, le diverse anime del partito finirono per scatenare un lotta per assicurarsi la leadership, favorendo ovviamente gli avversari del partito stesso: nel 1928 il Partito Nazional-Contadino, nato nel 1926 dalla fusione tra il Partito Contadino e il Partito Nazionale, superò le divisioni interne e conquistò il potere. Il suo leader Maniu diventò Presidente del Consiglio. A quel punto Ionescu, che aveva in precedenza condannato la fusione tra Partito Contadino e Partito Nazionale del 1926, si rese conto che si trattava del momento propizio perché questo gruppo politico si affermasse a danno dei liberali. Egli arrivò addirittura a rivalutare il Partito Nazional Contadino riconoscendogli il merito di aver esteso il significato di nazione alle masse contadine, superando la concezione individualistica e puramente “aritmetica” dei liberali e proponendo quella di comunità organica che si basava su comuni valori spirituali112. Vulc nescu individua in questo momento l’inizio dell’impegno attivo di Ionescu113 in politica, ma si tratta di un’interpretazione quantomeno discutibile perché, sebbene in precedenza Ionescu non si fosse schierato apertamente e non avesse risparmiato critiche al Partito Contadino, non aveva certo nascosto le sue simpatie politiche. Al contrario, proprio queste critiche erano la dimostrazione del suo interesse nei confronti del partito di Maniu, che incitava ad agire da demiurgo della nazione. Ad ogni modo, dopo la vittoria elettorale del Partito NazionalContadino del 1928 la formazione del Governo Maniu fu considerata una vittoria di Ionescu114, che tuttavia rifiutò l’incarico propostogli di 112
N. IONESCU, Na iunea, “Cuvântul”, an. IV, n. 1178, 31 luglio 1928. Da sottolineare comunque che Ionescu, sostenitore del partito di Maniu, non diventa comunque mai membro dello stesso, al contrario di quanto sostiene erroneamente Sugar in Eastern…, cit., ed. by P. F. Sugar, p. 288. 113 M. VULC NESCU, Nae Ionescu… cit., p. 54. 114 Eliade ricorda il clima di euforia che si diffonde nella redazione di Cuvântul al momento della formazione del governo Maniu. “Tutto a un tratto, in novembre, le cose sono precipitate. Iuliu Maniu è stato chiamato a formare il governo. Era, in un certo senso, la ‘rivoluzione’ che chiedeva e preparava Ionescu per mezzo di Cuvântul. L’intera redazione viveva l’euforia della vittoria.”. Cfr. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 169.
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Ministro delle Arti e dei Culti nel gabinetto contadinista. Egli auspicò comunque che la formazione del governo Maniu riuscisse a risolvere le questioni lasciate insolute dai governi precedenti115. A dieci anni dalla formazione della Grande Romania, il 1 dicembre 1928, Ionescu giudicò positivamente la situazione politica: “se ancora non abbiamo pace, abbiamo almeno un po’ di tranquillità”116. L’entusiasmo iniziale per l’esperienza contadinista al governo si stemperò però poco a poco. Ionescu condivideva in generale le iniziative del governo, al quale però rivolgeva l’invito ad avere più coraggio, soprattutto alla luce della situazione difficile in cui, a suo dire, si trovava il paese dopo la lunga esperienza di governo dei liberali117. Non mancò a questo punto neanche una sollecitazione giustizialista in Ionescu, quando nell’estate del 1929 nel ricordare al governo Maniu l’impegno a “reintegrare la nazione nei suoi diritti confiscati da una serie di governi usurpatori”, gli chiese soprattutto di “punire gli autori di questi disastri”, poiché finora esso aveva fatto invece troppo poco118. Un anno più tardi le critiche contro il governo si inasprirono119. Quale era la radice dell’insoddisfazione di Ionescu? Probabilmente la stessa che già nel 1926 lo aveva spinto a criticare il Partito Nazional-Contadino: il fatto che la maggior parte degli esponenti del partito non condividessero un programma politico teso a sovvertire la liberaldemocrazia. Gli incitamenti continui di Ionescu a “avere più coraggio” dimostrano la sua speranza – delusa – che una volta giunto al potere il partito procedesse alla trasformazione dello stato e alla creazione di un 115 N. IONESCU, Moştenirea, “Cuvântul”, an. IV, n. 1273, 6 novembre 1928; N. IONESCU, Vremea intransigen ei, “Cuvântul”, an. IV, n. 1277, 10 novembre 1928; N. IONESCU, Noua selec iune, “Cuvântul”, an. IV, n. 1282, 15 novembre 1928; N. IONESCU, Difficultă ile legalismului, “Cuvântul”, an. IV, n. 1285, 18 novembre 1928. 116 N. IONESCU, Stat şi Na ie, “Cuvântul”, an. IV, n. 1299, 2 dicembre 1928. 117 N. IONESCU, Un avertisment, “Cuvântul”, an. V, n. 1514, 10 luglio 1929; N. IONESCU, Unde sunt cugetătorii?, “Cuvântul”, an. V, n. 1523, 19 luglio 1929. 118 N. IONESCU, O greşală care se va răzbuna, “Cuvântul”, an. V, n. 1662, 27 agosto 1929. 119 N. IONESCU, Între rămânem şi plecam, “Cuvântul”, an. VI, n. 1777, 2 aprile 1930; N. IONESCU, Redemp iunea, “Cuvântul”, an. VI, n. 1787, 12 aprile 1930.
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regime analogo a quello corporativo fascista. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto, Ionescu ritirò il suo sostegno al partito di Maniu e cercò un altro punto di riferimento in politica. 3.2 Un intellettuale nel consiglio del re Nel 1930 Ionescu scrisse che “avere sostenuto una volta da qualcuno non costituiva un obbligo a sostenerlo per sempre. L’attitudine nei suoi confronti è condizionata dalla misura in cui egli risponde agli obiettivi che si è posto, perché gli obiettivi sono ciò che conta e non gli uomini”: era infatti ormai chiaro che l’auspicio di Ionescu in un nuovo corso della politica romena guidato dal Partito Nazional-Contadino era fallito definitivamente: “invece di un nuovo corso abbiamo avuto un governo che ha vissuto alla giornata, impaurito da ogni curva del percorso, minacciando a ogni passo di soccombere a una nuova difficoltà”120. Il principale responsabile del supposto fallimento contadinista era, secondo Ionescu, il leader del partito (e dal 1928 al 1930 capo del governo) Maniu. Egli aveva fallito nel tentativo di risanare l’economia romena e aveva dimostrato di essere solo un opportunista, pronto a tutto pur di accentrare su di sé il potere. La prova più evidente sarebbe stato il suo atteggiamento sul ritorno del principe Carol in patria: Ionescu riteneva infatti che Maniu nel 1928 si fosse schierato a favore del ritorno dell’erede solo allo scopo di conquistare consensi contro i liberali, tant’è vero che nell’ottobre 1929, alla morte di uno dei tre reggenti (Buzdugan), era riuscito a farlo sostituire da un uomo a lui vicino, Constantin S r eanu e a scavalcare la candidatura della regina. L’obiettivo reale di Maniu secondo Ionescu sarebbe stato quello di sostituire alla dittatura personale di Ionel Br tianu la propria. Per fare questo però il leader del Partito Nazional-Contadino aveva bisogno di tenere lontano il più possibile il principe Carol, per cui man mano che conquistava più potere, egli cominciava a ritardare e a ostacolare il suo ritorno in patria, nel timore che questo comportasse la riacquisi120
Ibidem.
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zione anche delle prerogative di governo. Carol sarebbe stato cioè un concorrente per Maniu, che secondo Ionescu aspirava a diventare un “re senza corona”121. Queste critiche appaiono però dettate dal rifiuto del Primo Ministro di realizzare il progetto politico voluto da Ionescu: in passato infatti quest’ultimo aveva incitato Maniu ad assumere una leadership forte, ma la sua opinione era radicalmente cambiata in seguito. Le dure critiche rivolte a Maniu a partire dal 1929 sono la dimostrazione che la posizione politica di Ionescu stava cambiando. Tramontata ogni speranza nel Partito Nazional-Contadino, egli concentrò la sua attenzione su un nuovo soggetto politico, anche in questo caso in modo del tutto coerente con la sua idea di nazione: il re. Deluso dai partiti, insomma, Ionescu riteneva che solo un personaggio esterno al parlamento e rappresentante di tutta la comunità potesse salvare il paese. I partiti infatti, in quanto rappresentanti di “parte”, avrebbero inevitabilmente frammentato la nazione. Secondo Ionescu essi erano inadatti a svolgere il compito di realizzare l’interesse comune perché, anche se il loro programma politico era valido, essi erano nati all’interno e in funzione delle istituzioni democratiche e non le avrebbero mai sovvertite. Il re al contrario era tale per volontà divina e rappresentava tutta la nazione, senza essere condizionato da logiche elettorali o interessi personali. Neanche la sua statura morale poteva essere messa in dubbio secondo Ionescu, perché egli era incarnazione dei valori spirituali della nazione romena. Come afferma Vulc nescu “il monarchismo di Nae Ionescu aveva una base ontologica”122, che individuava nel re il soggetto deputato a svolgere la funzione di portavoce e guida della comunità nazionale. Il monarca non era solo una persona fisica. “Il suo destino personale si realizza fino ai più piccoli particolari in quello del popolo”, egli viveva una permanente “sintonia spirituale con il suo popolo”, era la sintesi più alta e prestigiosa dei valori della nazione. Tutto ciò che gli era relativo non poteva essere interpretato con il metro di giudizio comune, occorreva riconoscere “l’essenza totalmen121 122
M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 64. Ivi, p. 62.
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te differente della persona del re”, superiore a tutto e quindi anche alla lotta politica123. Niente di più lontano dalla tradizione monarchicocostituzionale: la concezione di Ionescu coincideva invece con quella di Maurras, che definiva l’istituzione monarchica come “la sintesi della nazione”124. È vero, come dicono gli Inglesi – affermava Ionescu – che “the King can do no wrong”, ma “non perché non ha il potere di farlo, quanto piuttosto perché è il re”125 e il re per una nazione era come una “infiorescenza mirabile alla creazione della quale concorrono tutti i poteri vivi di una nazione (…). Al di là dell’individuo la nazione, al di la del padre, il re”. Ionescu rispolverava il principio divino di legittimazione dinastica: “la regalità non può che essere di diritto divino, altrimenti il re non sarebbe che un incolore Presidente della Repubblica”. Re e popolo dovevano invece essere una cosa sola, il re doveva “misurare le pulsazioni della nazione e stimolarle”126. A questa valorizzazione “teorica” della figura del re si dovrebbe peraltro aggiungere la stima personale di Ionescu verso Carol II, che conosceva dai tempi degli studi universitari. Così, dopo il crollo delle speranze nei confronti del Partito Nazional-Contadino, negli ultimi anni Venti, Ionescu alimentò attraverso Cuvântul la campagna per il ritorno del principe Carol in patria e ne subì le conseguenze: quando, nel gennaio 1930, il giornale pubblicò le dichiarazioni che il Presidente del Consiglio aveva fatto quattro anni prima per la sospensione di ogni diritto ereditario per Carol, il governo Maniu confiscò infatti alcuni numeri di Cuvântul. Il 6 giugno 1930 Carol fece ritorno in Romania e Cuvântul diede grande spazio all’evento. Ionescu fu premiato per il suo sostegno: la notte stessa dell’arrivo del re fu infatti invitato a Palazzo Cotroceni insieme a poche altre personalità di spicco del paese. I diritti regali di Carol furono pienamente restaurati e il filosofo diventò una presenza costante a Palazzo, quasi il mentore spirituale del re. Dopo aver rifiu123
N. IONESCU, Intre rege şi ara, “Cuvântul”, an. III, n. 641, 19 dicembre
1926. 124
C. MAURRAS, op. cit., p. 10. SKYTHES, Savoia!, “Cuvântul”, an. III, n. 605, 7 novembre 1926. 126 Ibidem. 125
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tato l’incarico di Ministro delle Arti e dei Culti, egli rifiutò anche l’incarico di capo della Siguran a, la polizia segreta127. Non è chiaro se Ionescu non abbia accettato perché non era interessato a incarichi di prestigio e all’attività politica attiva oppure se abbia preferito non assumere incarichi circoscritti per restare libero da responsabilità precise. Il suo interesse era ancora prevalentemente speculativo. In agosto entrò a far parte della Camera regia, nella quale era presente anche Elena Lupescu, con la quale ancora intratteneva buoni rapporti. La speranza di Ionescu era quella di costruire un movimento plebiscitario intorno alla figura del re che fosse in grado di instaurare un regime alternativo alla democrazia. La scelta del re, nel 1931, di nominare un governo di coalizione guidato dal leader del Partito Nazional-Democratico Nicolae Iorga, fu da lui interpretata come una mossa in questo senso perché, approfittando della crisi dei partiti politici (“I partiti, constatiamo, non esistono più”128), si ponessero le basi per un cambiamento. Proprio il fatto che si trattava di una iniziativa del sovrano al di fuori degli equilibri parlamentari era per Ionescu un segnale importante per il possibile recupero del prestigio e della forza della sua figura129. Vulc nescu sostiene addirittura che la nomina di un governo tecnico sia stata principalmente opera di Ionescu130, che avrebbe sfruttato la sua influenza per condizionare Carol II. Ionescu auspicava un cambiamento in forma radicale rivoluzionaria131, “l’instaurazione di un nuovo regime legale corrispondente a un nuovo ordine (…). Quello di cui c’è biso127
L’episodio è riportato da Vulc nescu, che narra come Ionescu avesse riferito la proposta ricevuta a alcuni allievi dopo una lezione in cui si era occupato di angeli. Vulc nescu attribuisce queste parole a Ionescu: “chi ha a che fare con gli angeli è molto pericoloso che sia alla Siguran a”. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 67. 128 N. IONESCU, Spre un acord al partidelor, “Cuvântul”, an. VII, n. 2062, 17 gennaio 1931. 129 N. IONESCU, D. Maniu şi parlamentarism, “Cuvântul”, an. VII, n. 2155, 8 maggio 1931. 130 M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 61. 131 N. IONESCU, Profe ii şi altele, “Cuvântul”, an. VII, n. 2255, 1 agosto 1931; N. IONESCU, Prietenii regimului de partid, “Cuvântul”, an. VII, n. 2256, 2 agosto 1931.
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gno oggi è un capo illuminato, che capisca la realtà e instauri il regime politico adatto”132. Si comprende quindi come per lui il ritorno a un governo parlamentare, come auspicato tanto dal Partito Nazional-Contadino quanto da quello liberale, sarebbe stato soltanto un atto di autolesionismo133 e in quanto tale avrebbe aggravato la crisi in cui si dibatteva il paese dall’inizio degli anni Trenta. Quando il governo Iorga diede le dimissioni, la reazione di Ionescu fu molto negativa e la critica ai liberali, considerati i principali responsabili, fu feroce134. D’altra pare Ionescu riteneva ormai maturi i tempi per un rovesciamento del regime democratico e l’instaurazione di uno Stato di tipo corporativo. Attese quindi un segnale di svolta che ponesse fine alla democrazia analogamente a quanto contemporaneamente accadeva in vari paesi europei. Il nazismo si stava affermando in Europa. In un primo momento Ionescu riservò a Hitler un atteggiamento scettico. Nel 1932 Ionescu giudicava Hitler “un enigma (…), un potente agitatore austriaco (…) privo di grande personalità e (…) di visione politica”. Secondo il direttore di Cuvântul il suo successo era legato soprattutto all’insoddisfazione dell’opinione pubblica tedesca. Ionescu riteneva infatti che alla base delle vicende tedesche ci fossero fondamentalmente interessi economici: “antiseminitsmo, anticomunismo, kaiserismo, fascismo, nazionalismo sono accidenti inessenziali”135. Nell’anno successivo però, ovvero dopo l’arrivo al potere di Hitler, la posizione di Ionescu cambiò: era ormai chiaro infatti che il nazismo era qualcosa di più che un estroso ma minoritario movimento politico. Così nel maggio 1933 Ionescu affermò che i giudizi aspramente critici riservati a Hitler erano frutto di una scarsa comprensione del momento storico. Senza ancora giustificare Hitler, che accusava tra l’altro di una politica antisemita grossolana, Ionescu definiva quella nazista una 132
N. IONESCU, Vine revolu ia, “Cuvântul”, an. VII, n. 2280, 26 agosto 1931. N. IONESCU, Rămânierea în fa ă partidelor, “Cuvântul”, an. VIII, n. 2530, 15 maggio 1932. 134 N. IONESCU, Revenirea la partide, “Cuvântul”, an. VIII, n. 2563, 12 giugno 1932. 135 N. IONESCU, Lovitura de la Berlin, “Cuvântul”, an. IX, n. 2604, 23 luglio 1932. 133
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
“rivoluzione” e le rivoluzioni erano per Ionescu una “necessità storica”. I roghi dei libri e i pogrom antiebraici della Germania erano assimilabili per Ionescu alla ghigliottina durante la rivoluzione francese e alle violenze dell’ottobre bolscevico136. Ionescu riteneva inspiegabile l’atteggiamento della stampa romena su Hitler: “ebrei, a quanto so, non siamo, né rappresentanti degli interessi ebraici”137. La rivoluzione tedesca incideva sull’equilibrio dei poteri in Europa, in quanto proiettava la Germania come protagonista della scena politica del continente. Essa secondo Ionescu avrebbe rappresentato l’Europa di fronte alla Russia bolscevica e agli Stati Uniti. Ionescu distingueva comunque l’esperienza tedesca da quella italiana: quella fascista non era per lui una rivoluzione, dal momento che non era riuscita a incidere sulla struttura sociale in profondità138. L’esempio della Germania diventò allora un modello da seguire per la Romania: Ionescu sperava infatti che anche nel suo paese una personalità forte sovvertisse le istituzioni e confidò in un impegno del re in questo senso. Tuttavia Carol II disattendeva le speranze di Ionescu, rifiutandosi di mettere in discussione la Costituzione. Carol avrebbe realizzato il progetto di Ionescu molto più tardi, nel 1938, ma a quel punto la sua strada e quella di Ionescu si erano ormai divise. La posizione del re, contrario a sovvertimenti dell’ordine e quella di Ionescu si allontanarono sempre più: era chiaro che il prestigio politico di Ionescu era ormai in declino139. Ionescu si trovò ancora una volta privo del suo punto di riferimento e in un primo momento tornò al suo vecchio progetto della costituzione di uno stato organico contadino140. Il 20 luglio 1932 infatti il Partito Nazional-Contadino aveva vinto le elezioni e Ionescu sperò ancora che si aprisse un nuovo corso della
136
N. IONESCU, Perspectiva istorică, “Cuvântul”, an. X, n. 2894, 18 maggio
1933. 137
N. IONESCU, Ce avem noi cu revolu ia germanică?, “Cuvântul”, an. X, n. 3021, 23 settembre 1933. 138 N. IONESCU, Prietenie italo-germanică a fost denun ată, “Cuvântul”, an. X, n. 3016, 17 settembre 1933. 139 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 232. 140 N. IONESCU, După alegeri, “Cuvântul”, an. VIII, n. 2601, 20 luglio 1932.
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politica del partito. Così non fu141 e tra il 1932 e il 1933 Ionescu diventò sempre di più una figura di secondo piano nella politica, ormai privo dell’appoggio del re, sordo ai suoi richiami per la costituzione di un governo forte142.
4. La giovane generazione Quando si consumò la rottura con Carol II Ionescu era una personalità piuttosto in vista della cultura romena. La sua fama come filosofo e opinionista era praticamente al culmine, sebbene il suo peso politico fosse stato ridimensionato. Il suo successo e il suo prestigio continuarono a essere prevalentemente legati all’attività accademica. Nel corso degli anni Venti si era formato infatti intorno a lui un gruppo di intellettuali giovani e attivi, interessati a diversi ambiti culturali, ciascuno dei quali fece proprio un aspetto del pensiero del maestro. Molti gli rimasero legati anche in seguito e Ionescu stesso ne chiamò alcuni a collaborare con lui a Cuvântul: sul quotidiano da lui diretto scrissero infatti Eliade e Vulc nescu, ma anche Cioran e Sebastian. Questo dimostra come negli anni Venti egli fosse soprattutto interessato all’aspetto speculativo del suo lavoro: la passione politica non aveva ancora preso il sopravvento, il che gli consentiva di anteporre le capacità dei suoi allievi alle loro posizioni politiche o alla loro fede religiosa. In realtà ciò è probabilmente legato anche al fatto che il nazionalismo restava, ancora negli anni Venti, soprattutto un orientamento filosofico o al massimo una ideologia in grado di animare i movimenti studenteschi, come il socialismo, ma era ancora privo di referenti politici con un certo seguito. Il gruppo di allievi che si era formato intorno a Ionescu costituì il nucleo forte di una generazione di intellettuali destinati in seguito a una prestigiosa carriera, il gruppo della cosiddetta “giovane generazione” che annovera tra i suoi esponenti più noti Mircea Eliade ed 141 N. IONESCU, Na ional ărănisti şi noi, “Cuvântul”, an. VIII, n. 2632, 18 agosto 1932. 142 N. IONESCU, Demarca uni, “Cuvântul”, an. IX, n. 2817, 26 febbraio 1933.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
Emil Cioran. Nati nel primo decennio del secolo, questi giovani dopo la metà degli anni Venti erano entrati nella vita universitaria. Provenivano da regioni diverse, alcuni anche dalle regioni acquisite dalla Romania dopo la prima guerra mondiale (Cioran, ad esempio, era nato vicino a Sibiu, in Transilvania). Nella maggior parte dei casi essi non erano di origini aristocratiche, arrivavano a Bucarest dalla provincia e restavano affascinati dalle lezioni dei loro professori. I più brillanti cominciavano presto a collaborare con riviste e quotidiani o a lavorare come assistenti universitari. A coinvolgerli erano gli intellettuali di spicco della cultura romena del tempo, ma la loro formazione risentiva anche del dibattito europeo. Molti di essi infatti si recavano all’estero per approfondire i loro studi e incontravano personaggi come Gentile o Klages. Questo loro contatto diretto con i protagonisti del dibattito filosofico europeo li spinse a prendere sempre di più coscienza della dimensione periferica del proprio paese e della sua cultura. Liberi dall’impegno della lotta per l’indipendenza o la conquista dei territori abitati dai romeni143, i giovani aspiravano in primo luogo a far sì che la cultura romena si affermasse nel mondo. Come ricordava Eliade nel 1965 “le differenze tra la generazione giovane e quelle che l’avevano preceduta si dovevano soprattutto al fatto che i nostri predecessori avevano realizzato la loro missione storica: l’integrazione del popolo”144. Ma a differenza dei nostri predecessori, che nacquero e vissero nell’ideale della reintegrazione del popolo, noi non avevamo un ideale a portata di mano. Eravamo liberi, disponibili a ogni tipo di ‘esperienza’. (…) Eravamo la prima generazione romena non condizionata nell’immediato da un obiettivo storico da realizzare”145. Obiettivo della generazione di Eliade doveva quindi essere un altro: la nascita (o il recupero) di una cultura romena di statura mondiale. Sul modo in cui la Romania dovesse imporsi come potenza culturale e sull’orientamento che la sua cultura dovesse assumere non c’era 143
M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 148. Cit. in S. GHINEA-VRANCEA, Mircea Eliade şi Emil Cioran în tinere e, Elisavaros, Bucureşti, 1998, p. 110. 145 M. ELIADE, Cuvântul în exil, n. 40-41, settembre-ottobre 1965, cit. in M. ELIADE, Profetism Românesc, Roza Vînturilor, Bucureşti, 1990, vol. I, pp. 10-11. 144
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però un orientamento unanime. Così tra gli intellettuali che facevano parte della giovane generazione coesistevano posizioni diverse, come dimostra la nascita alla fine degli anni Venti di un’associazione culturale come Criterion. A Criterion collaboravano critici letterari, teatrali e cinematografici, pittori e drammaturghi, scrittori e filosofi di diversa formazione e diverso orientamento politico. L’esistenza di un’associazione di questo tipo era consentita dal clima culturale ancora piuttosto disteso della fine degli anni Venti. Tuttavia già in questo periodo era individuabile all’interno della giovane generazione una corrente – peraltro maggioritaria – formata da un gruppo di allievi di Nae Ionescu, che avevano fatto propri alcuni degli insegnamenti fondamentali del maestro: il riconoscimento della superiorità della dimensione spirituale, la valorizzazione dei principi religiosi ortodossi, la riscoperta della tradizione rurale. Gli esponenti di questa corrente erano convinti che l’ideologia ufficiale romena, modellata sui valori occidentali, fosse ormai in crisi, così come in crisi erano la filosofia positivista e gli stati liberaldemocratici e il libero mercato. L’esperienza tragica della guerra aveva lasciato nell’immaginario infantile dei giovani intellettuali romeni immagini terribili, “esperienze che ci hanno condotto alla ragione, all’arte, al misticismo. Siamo i primi che differenziano questi piani della realtà e capiscono che ognuno ha una vita e leggi proprie. La vita, colpendoci dolorosamente e precocemente, ci ha avvicinato alle altre realtà sconosciute”146. La guerra aveva dimostrato il fallimento del mito del progresso infinito, la fede nel ruolo decisivo della scienza e dell’industria che avrebbero dovuto instaurare la pace universale e la giustizia sociale, il primato del razionalismo e dell’agnosticismo: “L’irrazionalismo che rese possibile e nutrì la guerra si faceva adesso sentire anche nella vita spirituale e culturale occidentale: la riabilitazione dell’esperienza religiosa, il numero impressionante di conversioni, l’interesse per la pseudo-spiritualità e la gnosi orientale (teosofia, neo-buddismo, Tagore, ecc.), il successo del supra-realismo, la moda della psicanalisi, ecc. La crisi in cui entrò il mondo occidentale 146
M. ELIADE, Linii de…, cit., p. 21.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
mi dimostrava che l’ideologia della generazione della guerra non era più valida. Noi, la ‘generazione giovane’, dovevamo trovare il nostro obiettivo”. Queste parole di Eliade dimostrano che una parte degli esponenti della giovane generazione era convinta che il mito del progresso infinito e inarrestabile fosse fallito e che fosse quindi necessario proporre una visione del mondo alternativa. Questi giovani intellettuali criticavano l’esaltazione positivista della critica della ragion sufficiente147 seguendo evidentemente la lezione di Ionescu e arrivando a identificare la vera cultura con la dimensione religiosa e mistica o con quella artistica, escludendo dunque la ricerca scientifica, l’economia o la politica148. Tutto sommato anche questi intellettuali, così come i liberali da loro aspramente criticati, avevano in realtà come punto di riferimento modelli esterni, anche se contrapposti a quelli dei loro avversari. Così, invece di Darwin o Smith, essi leggevano Spengler e Nietszche e preferivano l’Italia e la Germania alla Francia come mete dei loro soggiorni di studio, ma il loro obiettivo era pur sempre lo stesso dei liberali: quello di costruire una Romania forte. 4.1 Mircea Eliade: ambiente familiare e prima formazione Mircea Eliade149 fu considerato dai suoi coetanei il leader della giovane generazione. Nacque a Bucarest il 9 marzo 1907 da una famiglia della media borghesia. Il padre, un capitano, aveva deciso di cambiare il cognome da Ieremia in Eliade in onore di Heliade R dulescu, uno dei protagonisti della rivoluzione del 1848. 147
Ivi, p. 22. La vera cultura “non è che la valorizzazione delle esperienze spirituali e la loro organizzazione indipendente dagli altri valori (economici, politici, ecc.)”. Cfr. M. ELIADE, Cultura, 4 ottobre 1927, in M. ELIADE, Profetism…, cit., vol. I, p. 39. 149 Per la biografia di Eliade si fa riferimento a M. HANDOCA, Via a lui Mircea Eliade, Dacia, Cluj-Napoca, 2000; a I. P. CULIANU, Mircea Eliade, Nemira, Bucureşti, 1995 (prima edizione Cittadella Editrice, Assisi, 1978) e per la ricostruzione di alcune vicende sono anche M. ELIADE, Memorii…, cit. e M. SEBASTIAN, Jurnal (1935-1944), Humanitas, Bucureşti, 1996. 148
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Dopo alcuni anni trascorsi a Râmnicu S rat, dove il padre era stato trasferito con l’esercito, e a Cernavod in Bucovina, dove frequentò i primi anni di scuola, Eliade tornò a Bucarest, dove terminò la scuola primaria e frequentò il liceo Spiru Haret. Manifestò un precoce interesse per le scienze naturali e già a quattordici anni scrisse il suo primo articolo Duşmanul viermelui de mătase [Il nemico del baco da seta] nel Ziarul Ştiin elor şi al Călătoriilor [Il giornale delle scienze e dei viaggi]. Nello stesso anno pubblicò il suo primo racconto fantastico Cum am găsit piatra filosofală [Come ho trovato la pietra filosofale], che vinse il primo premio a un concorso letterario. L’anno dopo cominciò i suoi primi due romanzi Memoriile unui soldat de plumb [Memorie di un soldato di piombo] e Romanul adolescentului miop [Romanzo di un adolescente miope]. Nacque proprio in questo periodo la sua passione per l’orientalistica e la storia delle religioni. Imparò dunque l’italiano e l’inglese per poter leggere Papini e Frazer e apprese anche i rudimenti del persiano e dell’ebraico. Nel 1925 alcuni dei suoi articoli sulla storia delle religioni furono pubblicati su riviste di rilievo come Orizontul [L’orizzonte], Foaia Tinerimii [Il foglio della gioventù], Universul Literar [Universul letterario], Lumea [Il mondo] e Adevărul Literar [Adevărul letterario]150. L’esperienza giornalistica fu importante anche per la sua carriera di scrittore, tanto più che, come ricorda Handoca, tre dei modelli di Eliade (Eminescu, Haşdeu e Iorga) erano stati anche giornalisti. Lo stesso Eliade confermò che l’esperienza giornalistica rappresentò per lui un arricchimento, pur sottolineando le differenze rispetto alla narrativa, tanto a livello di stile quanto di tematiche151: il giornalismo avrebbe infatti una funzione di lotta, di monitoraggio della società e svolgerebbe quindi un ruolo preciso nella vita di una nazione. La letteratura sarebbe invece frutto di una creazione spirituale, creazione
150
Ivi, p. 102. “Credo che uno scrittore non abbia che da guadagnare dal mestiere di giornalista”. Cfr. Anchetă asupra găzetarii. Ce răspunde d-l Mircea Eliade, “Lotus”, an. I, n. 4-5, 1935. 151
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
che ha sue regole, la sua autonomia e il suo destino”152. Il fatto che Eliade sottolineasse questa differenza è indicativo della separazione che in questo periodo egli mantenne tra l’impegno politico – prerogativa del giornalista – e l’arte, tanto è vero che Eliade non si considerava un vero e proprio giornalista. Egli sostenne di non avere la sensibilità tipica del giornalista, né la capacità di distinguere quello che si potesse o non si potesse pubblicare e affermò di scrivere i suoi articoli senza pensare alla ‘politica del giornale’ o al suo interesse153. In ottobre Eliade si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia a Bucarest. All’università Eliade rimase affascinato soprattutto da R dulescuMotru154 e Nae Ionescu155. Ionescu fu una figura centrale nel percorso intellettuale di Eliade, che lo definì uno dei suoi massimi maestri156. Nelle sue memorie Eliade ha ricordato il suo primo incontro con il maestro: “È entrato un uomo bruno, pallido, con le tempie scoperte, con le sopracciglia nere, folte, arcuate in modo diabolico e con occhi grandi di un blu scuro, temprato, non abituato a brillare; quando lanciava occhiate improvvise al soffitto, sembrava che avrebbe fulminato l’anfiteatro. Era magro, abbastanza alto, vestito sobriamente, ma con una negligente eleganza e aveva le mani più belle ed espressive che io abbia mai visto, con dita lunghe, sottili, nervose. Quando parlava, le mani gli modellavano il pensiero, sottolineavano le sfumature, antici152
M. STRAJE, O oră cu Mircea Eliade, “Veac Nou”, an. I, n. 1, 27 Febbraio 1938, cit. in M. HANDOCA, Pro Mircea Eliade, Dacia, Cluj-Napoca, 2000, p. 86. 153 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 130. 154 “Mi ricordo delle prime lezioni di R dulescu-Motru. Aveva allora solo sessanta anni ma sembrava molto più vecchio. La voce era spenta, quasi non vedeva più, procedeva a stento, appoggiandosi a un bastone e non riconosceva le figure, non ricordava i nomi. Qualche anno più tardi, in seguito a un’operazione, ringiovanì completamente. Quando, nel 1932 al ritorno dall’India, mi recai a trovarlo, mi sembrò dieci anni più giovane”, M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 109. 155 Nelle Memorii, Eliade ricorda: “alcuni tra i miei amici – Haig Acterian, Petre Viforeanu, Vojen – (…) mi raccontavano dei corsi di Nicolae Iorga e Vasile Pârvan ed erano entusiasti dalle lezioni di un giovane professore di logica e metafisica, Nae Ionescu, il cui nome ascoltavo allora per la prima volta”, M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 102. 156 I. VASILIU-SCRABA, În labirintul răsfrîngerilor, Star Tipp, Slobazia, 2000, p. 3.
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pavano le difficoltà, i segni di domanda (…) Nae Ionescu non parlava come un professore, non teneva una lezione, né una conferenza. Iniziava una conversazione e si rivolgeva a noi direttamente (…) proponendoci una interpretazione e aspettando poi i nostri commenti. Avevi l’impressione che tutta la lezione fosse parte di un dialogo, che ognuno di noi fosse invitato a prendere parte alla discussione, a dichiarare il suo parere alla fine dell’ora. Sentivi come quello che diceva Ionescu non si trovasse in nessun libro. Era qualcosa di nuovo, appena pensato e organizzato lì, di fronte a te, sulla cattedra. Era un pensiero personale, e se ti interessava questo modo di pensare, sapevi che non lo potevi incontrare in un altro posto, che dovevi venire a prenderlo alla fonte. L’uomo sulla cattedra ti si indirizzava direttamente, ti apriva problemi e ti insegnava a risolverli”157. Eliade diventò l’entusiasta discepolo di Ionescu e iniziò a collaborare occasionalmente con Cuvântul già nel novembre 1926, prima con qualche articolo, poi come redattore. Egli era allora già noto, visto che un suo articolo era stato lodato addirittura da Nicolae Iorga158, verso il quale comunque Eliade non dovette avere timori reverenziali, tanto che nel gennaio 1929 pubblicò una critica assai severa del suo primo volume dell’Essai de synthèse dell’Histoire universelle. In seguito Eliade giudicò questa critica “esagerata e piena di terribilismi giovanili”159. Accanto ai suoi maestri romeni, Eliade continuò a coltivare il suo interesse per la cultura italiana: nel biennio 1926-27160 dedicò infatti una serie di articoli a Giovanni Papini, che nella primavera del 1927 ebbe modo di conoscere personalmente partecipando a una gita di tre settimane in Italia organizzata dal suo vecchio liceo161. Questo viaggio 157
M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 112. Ivi, p. 104. 159 Ivi, pp. 124-125. 160 Eliade ricorda di aver inviato i suoi articoli a Papini e di aver con grande sorpresa ricevuto una lettera di risposta da Papini stesso, che lo invitava a fargli visita in caso di viaggio in Italia, impegno poi onorato nella primavera del 1927. Cfr. M. ELIADE, Amintiri, Destin, Madrid, 1966, cit. in Mircea Eliade e l’Italia, a c. di R. Scagno e M. Mincu, Jaca Book, Milano, 1986, p. 113. 161 “In quella primavera il liceo Spiru Haret organizzò una gita di 3 settimane in Italia, alla quale potevano partecipare anche gli ex allievi. Costava 20.000 lei, una 158
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
in Italia fu per il giovane Eliade occasione per altri importanti incontri con il professor Claudiu Isopescu, lettore di romeno alla Sapienza, Alfredo Panzini, Ernesto Bonaiuti e Vittorio Macchioro. Eliade seguì anche una lezione di Giovanni Gentile. L’ammirazione di Eliade per la cultura italiana si rafforzò: le “note di viaggio” pubblicate su Cuvântul testimoniano il suo entusiasmo. Eliade si fermò di nuovo in Italia di ritorno da un breve soggiorno a Ginevra, dove era andato con una borsa di studio della Società delle Nazioni. Eliade ne approfittò per coltivare l’altra sua passione: l’orientalistica162. Il suo secondo soggiorno in Italia gli fece maturare la decisione di dedicare la tesi di laurea al Rinascimento italiano. Questo lo portò di nuovo a Roma nel maggio del 1928. Anche in questo caso Eliade coltivò, parallelamente alle sue ricerche per la tesi di laurea, gli studi sulle filosofie e sulle religioni orientali: entrò infatti in contatto con gli orientalisti Puini, Formichi e Tucci163. Come si conciliano l’interesse per il Rinascimento e quello per il misticismo e le religioni orientali? Io direi che questo si spiega con l’attenzione che Eliade dedica soprattutto agli aspetti esoterici e mistici del Rinascimento. Lo stesso Eliade ricostruì nelle sue memorie il suo itinerario culturale, partendo dal fatto che i suoi studi sul Rinascimento si svilupparono in un contesto particolare in Romania, caratterizzato dalla “rivalorizzazione della filosofia medievale, che trionfava in Francia a opera di Gilsan e Maritain; Nae Ionescu ne discuteva nei suoi corsi”164. E di questa riscoperta si trovano echi anche nella tesi di
somma considerevole nel 1927, ma mia madre non esitò a darmela. (…) Per me, l’Italia rappresentava qualcosa di più che per un qualsiasi giovane di 20 anni. Era anche l’occasione di incontrare alcuni degli scrittori con i quali intrattenevo una corrispondenza: Papini, Buonaiuti, Macchioro, A. Panzini e altri. (…) Senza ombra di dubbio, questo primo viaggio in Italia mi è rimasto nella memoria come il più perfetto e più lussuoso della mia giovinezza.”, cit. in Mircea Eliade e l’Italia…, cit., p. 133. 162 M. ELIADE, Cuvântul în exil…, cit., p. 9. 163 R. SCAGNO, L’ermeneutica creativa di Mircea Eliade e la cultura italiana, in Mircea Eliade e l’Italia…, cit., p. 156. 164 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 140.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
laurea di Eliade, dedicata alla filosofia del Rinascimento165 incentrata su Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Da quanto della tesi ci è rimasto emerge in effetti una lettura del Rinascimento piuttosto originale per i suoi tempi: l’interpretazione classica della cultura rinascimentale come momento di equilibrio, razionalità e affermazione della centralità dell’uomo era messa in discussione: “in fondo trovavo abbastanza misticismo e occultismo a volontà in Pico della Mirandola, abbastanza mistica neoplatonica in Marsilio Ficino e una fantasia senza limiti in Campanella”166. Eliade coglieva infatti l’esistenza nel pensiero rinascimentale di un filone umanista accanto a uno religioso, all’origine successivamente di due diverse concezioni del mondo167. Del primo sarebbe stato massimo esponente Galileo, del secondo Pico della Mirandola, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. La principale carenza della prima tendenza era, secondo Eliade, la sua incapacità di “comprendere l’infinità della natura e la finitezza della scienza”168: scienza che sarebbe poi stata esaltata dalla cultura illuminista, che proprio in questa corrente della cultura rinascimentale avrebbe avuto le sue radici. Eliade riproponeva, anticipandola al Rinascimento, la critica che Ionescu aveva rivolto al razionalismo cartesiano, rivalutando quegli intellettuali che avevano contrapposto alla ragione altri strumenti di conoscenza. Se però Ionescu indicava inequivocabilmente tale strumento alternativo di conoscenza nella fede, Eliade non era altrettanto chiaro: nei suoi articoli e nella sua tesi faceva riferimento a una non meglio precisata “dimensione spirituale” che comprendeva occultismo, mistica e religione insieme. Eliade si limitava a dare una definizione indiretta di misticismo nel Jurnal italian [Diario italiano] quando nel corso di una conversazione con Papini ne parlò come di “una ricca vita interiore e un’organizzazione di questa vita fuori dalle facol165 L’originale si trova nell’archivio della Università di Bucarest, ma del manoscritto sono rimasti solo i primi tre capitoli. 166 Ivi, p. 106. 167 M. ELIADE, Paşoptism şi umanism, “Floarea de foc”, an II, n. 5, 25 febbreaio 1933, cit. in Mircea Eliade e l’Italia…, cit., p. 273. 168 M. ELIADE, Contributi alla filosofia del Rinascimento, in Mircea Eliade e l’Italia …, cit., p. 147.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
tà razionali”, definizione alla quale peraltro Papini obiettò: “non è sufficiente. Kant ha avuto una complessa e intensa vita interiore, eppure non è mai stato un mistico”169. Se ne deduce che l’unica cosa chiara nell’idea eliadiana di misticismo fosse la sua contrapposizione alla ragione. Eliade sosteneva quindi l’esistenza di un dualismo ragione-mistica, che poi equivaleva per lui a quella tra filosofia come indagine per mezzo della ragione e religione come indagine per mezzo della spiritualità, indirizzando il suo interesse nella seconda direzione. La scoperta di una cultura alternativa a quella di impostazione razionalista che metteva in discussione il primato della ragione poteva per Eliade essere la chiave per lo sviluppo di una cultura romena autentica. Ma nella crescita di questa cultura dovevano svolgere un ruolo essenziale gli intellettuali. A questo punto Eliade non era più soltanto uno degli allievi di Ionescu. Già alla fine del 1927 egli era infatti considerato il leader della giovane generazione, anche da coloro che, come Şerban Cioculescu su Via a Literară [La vita letteraria]170, criticavano alcune delle sue affermazioni. Toni ovviamente entusiasti si trovano nelle dichiarazioni di coloro che della giovane generazione face169
M. ELIADE, Diario italiano, cit. in Mircea Eliade e…, cit., p. 37. Cioculescu è protagonista di un confronto dai toni piuttosto pacati con Eliade su alcuni punti di Itinerariu Spiritual tra il maggio e il novembre del 1928. Cioculescu giudica in particolare una pericolosa inclinazione estetica l’invito rivolto da Eliade alla propria generazione verso uno sperimentalismo continuo, incessante. Lo spiritualismo tanto esaltato da Eliade potrebbe inoltre portare a un rifiuto totale della ragione, il cui valore in ambito scientifico non può essere negato. D’altronde, dice ancora Cioculescu, spiritualismo non significa necessariamente ortodossia: la religione ortodossa è anzi sempre più vissuta come bigotto ossequio alle tradizioni, al di là del suo reale valore spirituale. A tutte queste obiezioni Eliade risponde puntualmente, sostenendo di non aver voluto negare in toto un ruolo alla ragione, ma di aver sostenuto che anche in ambito scientifico l’intuizione interviene necessariamente: nessuna delle maggiori scoperte scientifiche sarebbe stata possibile senza intuizione. L’ortodossia inoltre sarebbe uno dei punti di approdo naturali della rivalutazione dello spirituale da parte dei giovani intellettuali, essa è l’essenza stessa della spiritualità. Cfr. S. CIOCULESCU, Un ‘itinerariu spiritual’, “Via a literar ”, an. III, n. 86, 26 maggio 1928; M. ELIADE, Sensul ‘itinerariului spiritual’, “Via a literar ”, an. III, n. 87, 9 giugno 1928; S. CIOCULESCU, Între ortodoxie şi spiritualitate, “Via a literar ”, an. III, n. 94, 17 novembre 1928. Cit. in M. ELIADE, Profetism Românesc…, cit., vol. I, pp. 6375. 170
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
vano parte, come Alexandru Elian, che chiamava Eliade “la nostra guida spirituale, il portavoce illuminato della nostra fede e il lottatore senza paura contro i discepoli aridi e sterili di Voltaire”171. E da leader Eliade parlava dalle colonne di Cuvântul. Nella rubrica Scrisori către un provincial [Lettere a un provinciale] immaginava di scrivere lettere a un giovane di provincia, un corrispondente ipotetico, ma costruito sulla base delle lettere che riceveva in redazione. In questa serie di articoli Eliade parlava alla sua generazione, impartiva lezioni ed esortava i suoi a darsi da fare con tutti se stessi, a “creare” 172, vivendo ogni istante come se fosse l’ultimo173. Eliade incitava tutti gli uomini di cultura a vivere intensamente per non rischiare di “svegliarci un giorno ‘immobilizzati’ così come lo sono i nostri genitori, i nostri antenati, i nostri avi e allora sarà troppo tardi per poter credere liberamente, allora non potremmo che fare quello che sono stati destinati a fare i nostri predecessori: lottare, sacrificarci, tacere”174. Ma più che genericamente agli uomini di cultura Eliade voleva rivolgersi ai giovani, perché in loro riponeva la speranza di un cambiamento radicale che facesse uscire il paese dalla sua condizione di inferiorità rispetto alle grandi culture storiche. Eliade considerava la gioventù come valore in sé per il suo attivismo incessante e la sua vitalità175. Della giovane generazione Eliade scrisse addirittura il manifesto in un ciclo di articoli pubblicati nell’autunno del 1927 su Cuvântul con il titolo Itinerariu spiritual [Itinerario spirituale]. Il primo articolo, Linii de orientare [Linee di orientamento], del 6 settembre 1927, si apriva infatti con questa frase: “inizio con queste pagine la pubblicazione di qualche nota, osservazione e monologo sulla nostra genera-
171
A. ELIAN, Iaraşi ‘noua genera ie’, “Vl starul”, an. IV, n. 7-8, maggio-giugno 1928, cit. in M. ELIADE, Profetism Românesc…, cit., vol. I, p. 76. 172 Ibidem. 173 M. ELIADE, Anno domini, “Cuvântul”, an.V, Gennaio 1928. 174 M. ELIADE, Profetism…, cit., p. 15. 175 Cfr. M. ELIADE, Sensul nebuniei, “Cuvântul”, an. IV, n. 1027, 25 febbraio 1928; M. ELIADE, Mitul genera iei tinere, “Vremea”, an. VIII, n. 399, 4 Agosto 1935.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
zione”176. Fu così dunque che diventò leader spirituale di una generazione la cui parola d’ordine era la lotta al razionalismo sterile177. Da tempo Eliade aveva identificato nell’Occidente la terra di elezione del razionalismo e nelle culture orientali quelle in cui la dimensione mistica si era affermata su quella razionale. Aveva quindi sostenuto la contrapposizione tra un Oriente caratterizzato da ricca vita interiore, misticismo, speculazione metafisica, comunicazione con la natura, presenza del religioso anche nella vita politica e sociale, laddove quella occidentale si contraddistingueva per la valorizzazione dell’individualità, il culto della nazione, lo sviluppo della coscienza sociale, lo sviluppo di uno spirito scientifico razionalista. Come Ionescu anche Eliade riteneva comunque possibile un contatto tra queste due concezioni della vita: “Il legame organico di queste due mentalità, asiatica ed europea ha cercato di realizzarsi nel Cristianesimo”. Riprendendo la tradizionale contrapposizione tra il cristianesimo giovanneo e quello paolino, secondo Eliade infatti alle origini la religione cristiana era stata soprattutto una religione mistica, nella quale i valori spirituali di ispirazione orientale prevalevano: era stato questo a generare il contrasto con l’impero romano e le persecuzioni. Una mistica di questo tipo, che professava la superiorità dello spirituale su tutti gli aspetti della vita, compresa la politica, poteva minare le basi stesse di esistenza dell’impero. In una fase successiva però questa religione si era evoluta raggiungendo un maggiore equilibrio e questo le aveva consentito di integrarsi pienamente nello spirito europeo178. Come è stato giustamente affermato, nei suoi interessi per la mistica e la religione si trovava “operante la lezione del Rinascimento. L’intenzionalità eliadiana di ampliare l’orizzonte culturale esigeva, in primo luogo, l’abbandono di criteri positivistico-evoluzionistici e, in 176
M. ELIADE, Linii de orientare, 6 settembre 1927, in M. ELIADE, Profetism…, cit., vol. I, p. 21. 177 Alla filosofia tedesca Eliade arriva più tardi, negli anni Quaranta, quando si dedica allo studio di Schmidt, Scheler, Spengler, Otto, Dilthey e Heidegger. Cfr. M. ELIADE, Diario…, cit., p. 106, p. 169. 178 M. ELIADE, Orient şi Occident, “Cuvântul”, an. III, n. 525, 1 dicembre 1926.
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secondo luogo, non poteva considerare l’altro se non nella sua integrità di ‘universo mentale’, di mondo con la propria intrinseca valenza assiologia e con le proprie specifiche intenzionalità culturali”179. Lo stesso Papini era stato assunto come modello “negatore di quelle correnti filosofiche e di quell’atmosfera culturale che Eliade vedeva dominante nella Romania degli anni Venti (il positivismo, lo scientismo agnostico, le varie tendenze razionalistiche ed empiristiche) e come contenitore in positivo delle esperienze della vita concreta, creatrice delle istanze creative”180. Questo suo interesse, che avrebbe dato il suo più alto frutto con la monumentale storia delle religioni pubblicata tra il 1978 e il 1985, la sua opera più celebre, lo portò già alla fine del 1929 a intraprendere un viaggio in India. Eliade rimase in Estremo Oriente fino al novembre 1931 grazie a una borsa di studio che ottenne con l’aiuto di Ionescu. In India Eliade studiò il sanscrito e approfondì la conoscenza della filosofia indiana. Frequentò l’università di Calcutta finché questa non venne chiusa per disordini181, ma soprattutto approfittò del suo soggiorno per visitare i luoghi della spiritualità orientale, come i monasteri himalayani. Questa esperienza fu per Eliade essenziale, tanto che al suo ritorno in Romania pubblicò il romanzo Maitrey, che narra la storia dell’amore tra l’indiana Maitrey e lo straniero Adam, nel quale comparivano diversi riferimenti autobiografici alla sua esperienza in Medio Oriente. Una parte degli studi che Eliade compì durante questo soggiorno confluirono inoltre nella tesi di dottorato sullo yoga, dedicata a Ionescu e con la quale superò l’esame magna cum laude nel 1933. Da questo momento Eliade diventò assistente di Ionescu all’università di Bucarest. La concezione eliadiana della religione e del suo ruolo nella cultura doveva evidentemente moltissimo a Ionescu e alla sua concezione dell’identità nazionale. Eliade era convinto come il suo maestro che la base dell’identità culturale romena fosse il Cristianesimo, che riuniva in sé la profonda indagine interiore tipica dell’Oriente 179
R. SCAGNO, L’ermeneutica creativa di Mircea Eliade e la cultura italiana, in Mircea Eliade e l’Italia…, cit., p. 162. 180 Ivi, p. 167. 181 I. P. CULIANU, op. cit., p. 15.
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e i due elementi dell’individualismo e della nazione che si erano affermati invece in Occidente182. Tuttavia per Eliade l’ortodossia più che un patrimonio di valori che rappresentavano elementi costitutivi della identità romena, era una componente della cultura romena e l’ortodossia gli appariva preziosa per i romeni perché faceva parte della loro storia e della loro tradizione183. È lui stesso a rendersi conto della differenza dal maestro ricordando come, dopo aver letto Itinerariu Spiritual [Itinerario spirituale] Ionescu ne abbia criticato alcuni punti: “tu dici che nasci cattolico o protestante e diventi ortodosso. Io credo al contrario che puoi diventare cattolico o protestante, ma che, se sei romeno, nasci ortodosso (…). L’ortodossia è un modo naturale di essere nel mondo”184. Non c’era niente della concezione deterministica di Ionescu in Eliade e per quanto sia forte il suo interesse per il misticismo e le religioni, queste tematiche erano viste soprattutto dall’esterno, con interesse intellettuale. Per questo Eliade non si poteva definire un ortodossista e rifiutava l’identificazione tra identità romena e ortodossa. Eliade riteneva la religione fondamentale per il profilo culturale della comunità romena, ma solo in quanto elemento storico che aveva contribuito alla sua crescita e all’acquisizione di certi valori. Non accettava invece la teoria della necessità e irrinunciabilità dell’identità ortodossa, così come non accettava la tesi della necessità e irrinunciabilità di qualsiasi altra identità religiosa. In sintesi: Eliade era uno storico delle religioni, Ionescu un teologo. Nel Diario Portugués Eliade si definiva addirittura un pagano, pur affermando la sua volontà di convertirsi185. A differenza dunque che in Nae Ionescu o Crainic, in Eliade, come in altri esponenti della giovane generazione, non si ritrovava l’idea di una identità culturale romena data, plasmata sin dalle origini sui valori ortodossi. Comune era la convinzione che l’identità romena fosse qualcosa ancora da costruire e la ricerca costante di una base sulla quale costruirla, considerando la propria come una vera e propria misM. ELIADE, Orient şi Occident, “Cuvântul”, an. III, n. 525, 1 dicembre 1926. M. ELIADE, Profetism…, cit., p. 12. 184 Ibidem. 185 M. ELIADE, Diario…, cit., p. 178. 182
183
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sione. Mentre Ionescu e i suoi contemporanei, da Crainic a Blaga, ritenevano che occorresse recuperare dal passato i valori autentici della cultura romena liberandola dalle contaminazioni ricevute dall’esterno, Eliade e i suoi giovani colleghi pensavano che la Romania fosse ancora priva di una identità culturale vera e propria. Scriveva ad esempio Eliade: “Qual è il nisus formativus della cultura romena? Abbiamo una cultura etnica? No, perché non abbiamo saputo sviluppare gli elementi spirituali, per quanto pochi, che ci ha donato la religione cristiano-ortodossa. Abbiamo avuto una cultura che risulti dall’atmosfera spirituale dell’ambiente ecclesiastico? No, perché la cultura romena non è stata fecondata se non da un sospetto germe francese importato in un momento di crisi e trasformato dallo spirito occidentale. Non abbiamo avuto neanche una cultura unificata dalla didattica, dalla scuola. Il nostro umanesimo è stato ridicolo quando ha cercato di introdursi tra le masse. Il classicismo delle scuole fino alla fine del secolo scorso portava ancora i segni degli educatori bizantini. La cultura romena non ha avuto finora un punto d’appoggio e dunque un’unità. Per questo è tanto difficile parlare di una cultura romena propriamente detta. Non abbiamo che una dubbia civilizzazione, che esalta la periferia, vizia la politica e tormenta l’élite. Crediamo che l’unità delle coscienze, la creazione di un ambiente culturale con le stesse preoccupazioni e gli stessi valori non potrà essere realizzata che dalla generazione attuale”186. Nella concezione della cultura di Eliade non c’era spazio in questo periodo per la politica. Non si può parlare però di apoliticità, perché quello di Eliade non è disinteresse, è piuttosto rifiuto consapevole di interessarsi a questa sfera, e questa è di per sé una posizione politica. I valori di riferimento per la propria generazione “non scaturiranno né dall’economia politica né dalla tecnica né dal parlamentarismo”. Eliade narra della propria ingenuità nel riportare, nei suoi resoconti dall’Italia, le opinioni espresse sul fascismo da Papini e Buonaiuti in via confidenziale nel corso di interviste, senza tener conto delle conseguenze per i due intellettuali e insiste sul fatto che, ancora nel 1928 186
M. ELIADE, Cultura, 4 ottobre 1927, in M. ELIADE, Profetism…, cit., vol. I,
p. 41.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
“ignoravo quasi completamente la situazione politica interna e internazionale”187. Trattandosi di una testimonianza autobiografica, è ovviamente da valutare con cautela, soprattutto alla luce delle discussioni sulla presunta volontà di Eliade di trasmettere una certa immagine del suo rapporto con la politica negli anni giovanili. Tuttavia è indubbio che in nessuno degli scritti degli anni Venti e dell’inizio degli anni Trenta Eliade si discosti dai suoi interessi speculativi per occuparsi di politica. 4.2 Emil Cioran: ambiente familiare e prima formazione. Più giovane di Eliade e suo precoce ammiratore, nonché esponente lui stesso della giovane generazione fu Emil Cioran. Cioran nacque l’8 aprile 1911 a R şinari188 a pochi kilometri da Sibiu. R şinari era uno dei più antichi villaggi della Transilvania, allora dell’Ungheria asburgica. Il padre Emilian Cioran era un pope ortodosso e la madre Elvira Com niciu era la figlia di un notaio di Vene ia de Sus che aveva acquisito il titolo di barone. Nel 1921 Cioran si trasferì a Sibiu, dove frequentò il Liceo Gheorghe Laz r. Tre anni più tardi lo raggiunse la sua famiglia. Già durante il liceo conobbe Eliade attraverso Cuvântul, del quale divenne appassionato lettore. La sua formazione maturò in un ambiente culturalmente misto: a Sibiu, una delle sette città sassoni della Transilvania, convivevano tre nazionalità. Il giovane Cioran frequentava la Biblioteca tedesca, dove leggeva i classici della letteratura e della filosofia, da Nietzsche a Soloviev, da Schopenauer a Şestov189. Anche lui come Eliade rimase dunque affascinato dal versante irrazionalista della filosofia europea, in particolare tedesca. Nonostante fosse già a quel tempo del tutto estraneo a tensioni religiose (in seguito infatti dichiarò 187 R. SCAGNO, L’ermeneutica creativa di Mircea Eliade e la cultura italiana, in Mircea Eliade e l’Italia…, cit., p. 162. 188 Per la biografia di Cioran si fa riferimento a R. RESCHIKA, Introducere în opera lui Cioran, Saeculum, Bucureşti, 1998 e F. IONI A, Via a şi opera lui Emil Cioran, R.A.I., Bucureşti, 1999. 189 A. LAIGNEL-LAVASTINE, Cioran, Eliade, Ionesco. L’oubli du fascisme, Presse Universitaire Francaise, Parigi, 2002, p. 43.
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“quando a tavola si diceva la preghiera, mi alzavo e uscivo immediatamente”), Cioran aggiunse alle letture filosofiche un interesse particolare per alcuni teologi e mistici russi190. Dopo l’iscrizione alla facoltà di filosofia a Bucarest nel 1928, continuò a interessarsi prevalentemente ai classici tedeschi, da Kant a Fichte a Hegel, a Nietszche e Simmel, e, in generale, anche a tutti gli esponenti dell’antirazionalismo europeo a lui contemporanei. Nonostante le divergenze in materia religiosa, Cioran era quindi in perfetta sintonia con Nae Ionescu, del quale era allievo. Ma l’autore che maggiormente influenzò il giovane Cioran fu indubbiamente Oswald Spengler, al quale dedicò un articolo già durante i suoi studi. Spengler era allora assai noto in Romania e Cioran poteva leggerne le opere direttamente in tedesco. Cioran come altri suoi giovani colleghi, tra i quali Constantin Noica, usufruì di una borsa di studio per Ginevra e Parigi191: si rafforzò così il suo interesse per la filosofia tedesca e francese. Dopo aver pensato a una tesi su Kant, Cioran optò per l’intuizionismo di Bergson e si laureò brillantemente il 23 giugno 1932. Si iscrisse quindi a un dottorato nella speranza di ottenere una borsa per la Francia e la Germania. Tra il 1931 e il 1933 cominciò a scrivere per Gândirea, Floarea de Foc, Azi [Oggi], Cuvântul, Discobolul [il discobolo], Vremea, Calendarul [Il calendario]. In questi anni partecipò attivamente alla vita culturale della capitale. Conobbe personalmente Eliade nel 1932, quando questi era già riconosciuto leader della giovane generazione. Cioran stava terminando gli studi di filosofia e si sentiva parte della giovane generazione, una generazione che, diceva Cioran, disprezzava “i ‘vecchi’ e ‘rammolliti’, cioè tutti quelli che avevano superato i trenta anni”192. La sua critica nei confronti degli esponenti più affermati della cultura romena dimostrava come già quando aveva poco più di venti anni, Cioran giudicasse negativamente il suo paese e avvertisse 190 F. SCHANZ-PANDELESCU, Convorbiri cu Cioran, Humanitas, Bucureşti, 1993, p. 8. 191 La notizia è riportata in E. CIORAN, Sfîrşitul care incepe, Pentagon Dionysos, Craiova, 1991. 192 E. CIORAN, Excerci ii de admira ie, Humanitas, Bucureşti, 1993, p. 115.
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Nae Ionescu e la “giovane generazione”
la necessità di un rinnovamento. Non a caso la sua riflessione fu condotta sin dall’inizio nel solco del dibattito antirazionalista europeo, come dimostra la sua prima opera Pe culmile disperării [Al culmine della disperazione], pubblicata nell’aprile del 1933. Ad una prima lettura quest’opera appare perfettamente coerente, sia a livello stilistico che di contenuti, con la produzione post-bellica di Cioran, che è poi quella più nota. L’autore esprime lo stesso scetticismo, la stessa visione pessimista della vita che compare nel più noto La tentation d’exister, che uscì più di venti anni dopo. Anche il linguaggio è simile, il pensiero è espresso in modo frammentario e lo sviluppo sintattico è spesso interrotto da esclamazioni e punti di domanda. Eppure non si tratta di pensieri accostati senza concatenazione: una tesi di fondo è presente nell’opera e riguarda l’incapacità della ragione di comprendere la pienezza della vita. Il tentativo di razionalizzare la realtà in schemi interpretativi validi universalmente secondo Cioran dava come frutto una “cultura anchilosata in forme e quadri”193 e impediva all’interiorità individuale di esprimersi completamente. Anche Cioran quindi combatteva la cultura razionalista omogeneizzante e spersonalizzante, sebbene in questa sua prima opera non lo facesse in nome della difesa dell’identità nazionale, ma di quella individuale. Un aspetto inoltre rende quest’opera diversa da quelle del periodo francese successive alla seconda guerra mondiale: la connotazione vitalista che invece successivamente viene persa, indice di un abbandono al pessimismo che non è ancora completo. Recuperare e rafforzare le potenzialità individuali secondo Cioran era ancora possibile esaltando il lirismo, definito come uno “stato al di là delle forme e dei sistemi, una fluidità, uno scorrere interiore”194. Questa dimensione lirica rappresentava per Cioran l’esaltazione del non razionale per eccellenza, dello spirito vitale che tuttavia egli ancora interpretava in senso individuale. 193
E. CIORAN, Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano (ed. romena di E. CIORAN, Pe culmine disperării, Editura Fundatia pentru Literatura si Arta, Bucureşti), p. 18. 194 Ibidem.
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
Non sarebbe passato molto tempo perché questa concezione di Cioran si ampliasse a una dimensione nazionale, complice il suo viaggio a Berlino dell’autunno del 1933. Cioran partì con una borsa di studio della fondazione Humboldt e restò nella capitale tedesca fino al 1935. Fu qui che si consumò la sua “conversione politica”, l’infatuazione per un regime politico autoritario capace di irreggimentare la popolazione e fare di un popolo una “nazione” protagonista della storia. In questo giocò un ruolo l’incontro Ludwig Klages, uno dei maggiori esponenti della filosofia vitalista tedesca, che lo affascinò e confermò nel suo atteggiamento negativo nei confronti delle scienze della natura195. Klages era professore a Berlino e la sua fama aumentò fortemente nella Germania nazista. Cioran ne paragonò la figura a quella di Nae Ionescu e a quella di Martin Heidegger, parlandone a Eliade come di un intellettuale “esaltato fino alla demonia”196. L’avvento del nazismo cominciava dunque a segnare una svolta nella giovane generazione di intellettuali romeni: l’impegno culturale sembrò loro non essere più sufficiente e quello politico cominciò a esercitare il suo fascino.
195 Sull’attacco alle scienze naturali di Klages, cfr. G. LUKÀCS, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959, pp. 532-539. 196 A. LAIGNEL-LAVASTINE, op. cit., p. 139.
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capitolo quarto
Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
1. Un passaggio chiave: la crisi degli anni Trenta Si è visto come negli anni Venti gli intellettuali romeni abbiano mantenuto un atteggiamento diversificato rispetto alla politica. I pensatori della generazione di Ionescu o Crainic si interessarono del dibattito pubblico e talora si impegnarono attivamente in politica: Crainic ad esempio fu per un certo periodo Segretario del Ministero dei Culti e Ionescu come si è visto fece parte della camera ristretta di Carol II. Altri intellettuali, come Iorga, Cuza e Goga, furono addirittura leader di partito. Molti comunque non si impegnarono attivamente in una forza politica, limitandosi a cercare l’antagonista potenzialmente più efficace contro lo strapotere liberale, trovandolo di volta in volta nel Partito Nazional-Contadino, nel re o in altre formazioni politiche minori. Gli intellettuali più giovani mantennero invece negli anni Venti un atteggiamento di distaccata superiorità rispetto al mondo politico. Essi operavano una separazione netta tra sfera politica e culturale, ritenendo che solo quest’ultima fosse degna del loro impegno e che invece la politica fosse il regno della corruzione, troppo scaduta nella quotidianità per poter dare alla Romania quel futuro da “grande cultura” che essi auspicavano. Di conseguenza essi si limitavano a intervenire nel dibattito pubblico su questioni specifiche, senza andare al di là di qualche partecipazione ai dibattiti pubblici. Le cose cominciarono a cambiare negli anni Trenta, quando si assistette al progressivo convergere degli intellettuali romeni conservatori verso movimenti nazionalisti. Ciò avvenne con motivazioni e percorsi diversi, ma che trovavano un punto di contatto nel contesto politico interno e internazionale in cui si verificarono.
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La crisi della fine degli anni Venti aveva trovato una soluzione, almeno a livello interno, con la formazione del governo Maniu nel 1928 e il ritorno in patria di Carol II, che aveva assunto la corona nel giugno del 1930. Anche il Partito Nazional-Contadino trovò però difficoltà nella sua esperienza di governo: le correnti interne si scontrarono, si verificarono continue “diaspore” e non si riuscì a promuovere una politica efficace con una direzione precisa, a dimostrazione che le diverse “anime” del partito quando era all’opposizione avevano avuto come collante principalmente la contrapposizione nei confronti dei liberali più che un comune indirizzo politico. Ai conflitti interni e agli scontri sui programmi seguirono continue spaccature e crisi di governo. Le attese di quella parte dell’opinione pubblica che aveva sperato di vedere realizzato un modello politico ed economico alternativo a quello liberale vennero gradualmente deluse. Deludeva l’incapacità di risolvere i problemi economici, deludevano i continui scontri interni alla coalizione di governo e al Partito Nazional-Contadino stesso e deludeva la classe politica in generale. I casi di corruzione si moltiplicavano e si dimostravano essere un male diffuso presso tutti i partiti. Questo creò un clima di sfiducia nei confronti dei leader del paese e un diffuso malcontento presso le masse: a essere deluso fu soprattutto quel gruppo di intellettuali che aveva sperato di vedere realizzato con il governo Maniu un nuovo modo di fare politica: ne era simbolo, come già ricordato, l’atteggiamento assunto da Nae Ionescu. Il cambio della guardia al vertice del paese avvenne inoltre in un contesto internazionale che di lì a poco era destinato a mutare drammaticamente con la crisi del 1929: una economia strutturalmente debole come quella romena risentì in modo particolare delle difficoltà conseguenti. La Romania fu in effetti molto penalizzata dalla caduta dei prezzi agricoli, che le impedivano l’afflusso di capitali necessari al suo sviluppo industriale. Inoltre, tra i paesi del Sud-Est europeo, fu l’unico a essere soggetto a crisi di sovrapproduzione industriale1. Alla crisi economica si affiancò quella dei regimi liberaldemocratici. Nel corso degli anni Trenta ormai quasi tutta l’Europa era do1
W. T. BEREND-G. RÀNKI, Lo sviluppo economico nell’Europa centro-orientale nel XIX e XX secolo, il Mulino, Bologna, 1978, pp. 289-298.
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
minata da regimi autoritari. La crisi del sistema economico capitalista e quella delle istituzioni democratiche era sotto gli occhi di tutti. Questo fece venir meno anche le attese che avevano accompagnato la nascita del nuovo stato romeno, che proprio a quei modelli si ispirava. La delusione colpì tanto le masse quanto gli intellettuali. Il risultato fu che i piccoli partiti di destra, che in precedenza avevano raccolto poche migliaia di voti, si ritrovarono ad avere un grande seguito presso la popolazione: per la prima volta il nazionalismo non era più un fenomeno circoscritto a élite intellettuali e politiche. Il malcontento investì tutte le istituzioni e il sistema dei partiti tradizionali. Il fervore nazionalista che si registrò in Europa e con il quale molti giovani entrarono in contatto diretto nel corso dei loro periodi di formazione all’estero, unito alla delusione per l’esperienza di governo contadinista, spinse a cercare per la Romania un omologo del Partito Fascista italiano o del Partito Nazional-Socialista tedesco, un soggetto politico forte in grado di abbattere il sistema parlamentare. Così dal corporativismo e dal legittimismo si passò al modello del governo forte a guida verticistica, capeggiato da un capo carismatico o dal partito unico. Da questo punto di vista non c’era grande differenza tra i nazionalisti e gli intellettuali filocomunisti: l’obiettivo della critica era sempre la democrazia e il modello proposto in alternativa era sempre quello autoritario o addirittura totalitario, di destra o di sinistra. Il nazionalismo romeno del periodo interbellico aveva però una connotazione eminentemente mistico-religiosa, che lo rendeva specifico rispetto ai movimenti autoritari di estrema destra della maggior parte dei paesi europei. Il partito unico o il capo carismatico, secondo questo modello, dovevano adempiere a un compito o meglio a una missione, quella di guidare il paese verso la riconquista del suo profilo spirituale, che si identificava con una versione dell’ortodossismo. Il capo carismatico doveva quindi essere l’incarnazione dei valori della cultura romena, dell’eroismo e della religiosità. Egli doveva essere in grado di guidare la rigenerazione del suo popolo, corrotto dal laicismo occidentale. Il partito unico rappresentava una soluzione soprattutto perché rimediava al problema essenziale del malfunzionamento dello
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Stato democratico, condannato all’immobilismo dalla frammentazione dell’organo legislativo in diverse rappresentanze partitiche.
2. La Guardia di Ferro: il successo di un movimento ortodossista Già negli anni Venti, come si è ampiamente visto, una parte della cultura romena aveva manifestato la sua diffidenza, quando non ostilità, verso la democrazia parlamentare e il sistema dei partiti, ma è negli anni Trenta, con l’esplodere della crisi economica e con l’avvento e il consolidamento dei regimi reazionari nell’Europa occidentale, che questi intellettuali sono confermati nelle loro concezioni e la radicalizzano. La crisi economica e sociale che investe la Romania provoca lo sviluppo e la nascita di movimenti antidemocratici con un seguito di massa nei quali la cultura irrazionalista romena si trova in larga parte realizzata. Alla fine degli anni Venti erano presenti in Romania diversi movimenti con queste caratteristiche: movimenti che agivano ai limiti della legalità e si proponevano un rovesciamento delle istituzioni liberaldemocratiche, anche ispirandosi a un’ideologia misticheggiante che si richiamava alla tradizione ortodossa. Alcuni di essi erano guidati da personalità note della cultura accademica, come la già citata Lega per la Difesa Nazional-Cristiana di A. C. Cuza. Tuttavia a emergere e a ottenere un successo superiore alle altre fu l’organizzazione guidata da Corneliu Zelea Codreanu, che, come si è ricordato in precedenza, aveva appreso i metodi di lotta proprio nelle fila dell’associazione di Cuza. Codreanu era stato il fondatore dell’Associazione degli Studenti Cristiani che si era battuta per il numerus clausus nelle università. Era così entrato nel movimento di Cuza, dove si era segnalato come uno dei più giovani e attivi leader. Sin dall’inizio egli aveva però coltivato l’ambizione di far compiere ai movimenti studenteschi un salto di qualità, di creare cioè un soggetto politico vero e proprio. Proprio sulla base di questa sua volontà si era consumata la spaccatura con Cuza, che invece interpretava la Lega come un’organizzazione trasversale al
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mondo politico2. Codreanu lasciò quindi l’associazione e fondò il 24 giugno 1927 la Legione dell’Arcangelo Michele. Si trattava di un’organizzazione a base mistica, costituita da un nucleo di membri uniti fideisticamente intorno alla figura di un capo carismatico. Essa si proponeva di rigenerare la società sulla base dei valori della fede cristiana, operando così per la creazione di un “uomo nuovo”. Il nemico per eccellenza era rappresentato da chiunque fosse ostile ai valori sui quali l’uomo nuovo doveva essere costruito, ovvero da tutti i non cristiani e in primo luogo dagli ebrei e dai bolscevichi. L’antisemitismo di Codreanu era un antisemitismo a base religiosa, quindi lontano da quello economico-sociale del secolo precedente. La mistica proposta da Codreanu era manichea: il bene era rappresentato dal modello del villaggio contadino e dai suoi valori spirituali ortodossi, il male si identificava invece con l’ebreo. Nella prospettiva legionaria l’ebreo poteva mettere in pericolo l’integrità spirituale dei romeni perché apparteneva al popolo responsabile della morte di Cristo e perché tentava dall’interno di corrompere la società infiltrandosi nei posti chiave del potere economico e potenzialmente anche in quello politico. L’altro nemico per eccellenza era la cultura occidentale. La società occidentale era definita come una società dominata dal razionalismo e dal materialismo, la cui espressione più estrema era considerato il bolscevismo. a essa veniva contrapposta una cultura romena caratterizzata da una profonda spiritualità. Molti intellettuali romeni subirono il fascino del movimento di Codreanu, trasformatosi nel 1930 in un’associazione paramilitare3. Tentare di spiegare questa fascinazione non è facile, ma è necessario iniziare da una serie di considerazioni. Il primo aspetto del movimento 2
K. HITCHINS, op.cit., p. 398. Sebastian descrive il fanatismo diffuso negli ambienti universitari nel suo romanzo De doua mii de ani, affermando come gli studenti romeni sembrino presi da “gioia di vivere per mezzo delle forze della massa, come un albero per mezzo delle forze latenti della foresta, il sentimento di appartenere, di partecipare, di chiudere, con la tua vita, un cerchio di vita più grande, che passa anche attraverso te, più lontano con i poteri diffusi, oscuri, biologici della specie”. Cfr. M. SEBASTIAN, De doua mii de ani, Editura Nationala Ciornei, Bucureşti, 1936, p. 102. 3
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legionario che attrasse gli intellettuali fu la sua contrapposizione ai partiti tradizionali, in un momento in cui l’opinione pubblica contestava i “politicanti” corrotti ed era delusa dall’instabilità del sistema e dalla sua incapacità di far ottenere alla Romania un ruolo di spicco nel panorama internazionale. La Guardia attaccava i partiti e le loro “promesse elettorali”4, identificando nella democrazia un ostacolo al progresso del paese. Codreanu contestava la democrazia in nome della sua incapacità di agire con autorità e per il fatto di essere un sistema asservito agli interessi economici dell’alta finanza ebraica. Egli proponeva in alternativa uno stato nuovo etnico-nazionale fondato sul primato della cultura nazionale, della famiglia e delle corporazioni professionali5. Essendo un movimento extra-politico e anti-politico, la Legione era il punto di riferimento ideale per chi da tempo non riteneva più il sistema politico in grado di funzionare e cercava un soggetto in grado di rompere con i difetti e le macchinazioni della politica tradizionale. La scelta di sostenere la Guardia di Ferro piuttosto che altri movimenti si spiega alla luce del fatto che non si trattava soltanto di un movimento di contestazione nei confronti di un sistema corrotto e incapace di guidare il paese, essa proponeva anche un’alternativa alla liberaldemocrazia nata dal trionfo del razionalismo in politica: proponeva il ritorno alla spiritualità religiosa in tutti gli aspetti della vita dei cittadini. In questo caso però il ruolo della religione non era più limitato alla legittimazione del potere del re, come accadeva nell’ancien régime, si teorizzava piuttosto una fusione tra comunità politica e religiosa. Più di tutte le altre organizzazioni estremiste, la Guardia di Ferro accentuava l’importanza della dimensione religiosa rispetto a quella sociale ed economica: Codreanu ricordava come episodio chiave per la costituzione della Legione l’apparizione dell’Arcangelo Michele. I rituali religiosi erano parte della quotidianità del gruppo legionario, i
4
C. Z. CODREANU, Manual, art. 42, cit. in M. NAGY –TALAVERA, op. cit., p. 393. 5 C. Z. CODREANU, Discurs la mesaj rostit în decembrie 1931, “C rtcica şefului de cuib”, 1937, p. 95, cit. in Z. ORNEA, Anii…, cit., p. 56.
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legionari avevano il loro punto di ritrovo (la Casa Verde), ma anche la loro Chiesa, spesso vicina alla Casa Verde stessa. Codreanu non arrivò mai all’elaborazione coerente e compiuta del sistema politico ideale, ma è indubbio che anche questi accenni provvisori avessero tutte le caratteristiche per attrarre personalità come quella di Crainic o di Ionescu, che concepivano la comunità nazionale come comunità cristiano-ortodossa. La Legione diventava infatti per gli ortodossisti il mezzo che poteva dare attuazione nella realtà a idee precedentemente elaborate solo a livello teorico.
3. La conversione guardista di Ionescu Nel corso del 1933 i rapporti tra Ionescu e il re entrarono in crisi6, secondo alcuni a causa dell’ostilità del direttore di Cuvântul verso Elena Lupescu7. Questo episodio segnò un punto di svolta nelle vicende personali di Ionescu e in parte anche nelle sue posizioni politiche. Come si è visto Ionescu aveva sempre considerato la figura del re fondamentale nello Stato nazionale organico che auspicava si costituisse in Romania. Per lui il re non era soltanto il rappresentante della nazione, egli “era la nazione”: in lui si concentravano tutte le virtù e tutti i valori della comunità nazionale. Questa convinzione si accompagnava però alla stima personale reciproca che esisteva tra il sovrano e il professore universitario. Nel momento in cui questa venne meno, Ionescu non modificò la sua idea di nazione e mantenne ferma l’idea del sovvertimento del sistema democratico dei partiti e della creazione di un sistema autoritario a guida verticistica, con una personalità forte a capo della nazione. Tuttavia fu costretto a rendersi conto che non sarebbe stato il re a realizzare questo suo progetto. Ionescu ripose le speranze di una “rinascita” della Romania nel movimento di Codreanu. Due sono allora le questioni da affrontare: perché sia avvenuta 6
“Il dicembre 1933 è stato per l’intero nostro gruppo un mese di tensione. Nae Ionescu non nascondeva più l’ostilità di fronte alla politica regale”. Cfr. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 306. 7 C. MUTTI, Penele Arhangelului, Anastasia, Bucureşti, 1997, p. 43.
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questa svolta autoritaria e perché Ionescu abbia scelto proprio questo movimento. Per rispondere a queste domande occorre partire dal momento in cui Ionescu cominciò a sostenere Codreanu. L’avvicinamento alla Guardia di Ferro si può datare al 1933, in un momento in cui la situazione internazionale stava cambiando: questo è stato definito “l’ultimo degli anni equilibrati di Ionescu”8. La radicalizzazione della politica europea come già detto ebbe ripercussioni anche in Romania: essa portò infatti all’estremizzazione della contrapposizione tra le forze politiche che difendevano le istituzioni liberaldemocratiche e quelle che invece le ritenevano ormai qualcosa di superato e puntavano a un loro rovesciamento. In un primo momento Ionescu resistette al richiamo dei movimenti estremisti, soprattutto perché non credeva che gruppi come quello di Cuza o quello di Codreanu avessero la forza sufficiente per attuare la rivoluzione da lui auspicata per il paese9 e continuò a confidare nel modello organico dello Stato contadino. Successivamente però la sua fiducia nel partito di Maniu venne meno, quando si rese conto che i contadinisti non erano disposti a rinunciare alle istituzioni liberaldemocratiche10. Ionescu a questo punto, dalla sua posizione di antiliberale abbandonò definitivamente il Partito Nazional-Contadino e optò per un movimento di estrema destra come quello di Codreanu11. Ionescu conobbe Codreanu nell’autunno del 1933 e dimostrò subito di apprezzarne la personalità decisa e l’antiliberalismo. Come ricorda Eliade nelle sue memorie Ionescu rimase subito impressionato dal Z. ORNEA, Tradi ionalism şi modernitate in deceniul al treilea, Eminescu, Iaşi, 1980. 9 N. IONESCU, Despre o eventuală revenire a D.lui Maniu, “Cuvântul”, an. IX, n. 289, 13 maggio 1933. 10 N. IONESCU, D. Giunian şi Parlamentarismul, “Cuvântul”, an. IX, n. 3022, 24 settembre 1933. 11 La fine della fase “equilibrata” della vita di Ionescu viene registrata qualche tempo dopo anche da Mihail Sebastian: “La lezione di oggi di Nae è stata penosa. Avanzi del corso dello scorso anno, avanzi di articoli, avanzi di chiacchiere e in più qualche battuta grossolana che cercava di provocare la simpatia di una sala per lo più distratta. Come è possibile?”, 30 marzo 1936, M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 48. 8
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fatto che, a differenza degli altri uomini politici, Codreanu non si limitasse a parlare, ma agisse12. Ionescu sembrava finalmente aver trovato il personaggio adatto a scardinare il sistema democratico. Il primo momento in cui Ionescu manifestò apertamente la sua vicinanza alla Guardia di Ferro fu quando il Primo Ministro Duca il 10 dicembre 1933 ordinò lo scioglimento del movimento stesso. Misure restrittive nei confronti della Guardia erano per la verità già in atto da alcuni mesi ed erano legate alla volontà dei liberali di evitare che anche in Romania si consumasse l’ascesa di movimenti estremisti analogamente a quanto già accaduto altrove in Europa: la Francia del resto, preoccupata per lo scivolamento verso destra di gran parte dell’Europa orientale, premeva sull’alleata Romania per queste misure. Questa sudditanza alle pressioni francesi provocò la reazione della parte dell’opinione pubblica tradizionalmente antiliberale e contraria all’intromissione delle potenze occidentali nella politica interna romena13. Per costoro e per Ionescu in particolare si trattava dell’ennesima dimostrazione che i liberali rappresentavano lo strumento degli stati occidentali per tenere sotto controllo il paese ed erano disposti a sacrificare gli interessi della patria pur di compiacere i loro “alleati stranieri”. Così quando il governo Duca, durante la campagna elettorale, decise di sciogliere il movimento considerandolo anticostituzionale, Ionescu prese posizione a favore di Codreanu, affermando che non c’erano ragioni valide che giustificassero l’iniziativa di Duca non essendo secondo lui la Guardia di Ferro un’associazione clandestina, né terrorista e sostenendo che essa non avrebbe mai fatto uso di armi se non provocata. L’unica imputazione che si poteva muovere alla Legione era secondo Ionescu quella di voler realizzare un cambiamento radicale dello Stato, ma questo era lo scopo di tutti i movimenti nazionali14. Ionescu, conferma Eliade nelle sue Memorie, considerava lo scio12
M. ELIADE, Memorii…, cit., p. 306. F. VEIGA, op. cit., p. 194. 14 N. IONESCU, Rolului blestemate, “Cuvântul”, an. IX, n. 3103, 14 dicembre 1933; N. IONESCU, Confusiuni care trebuie să despară, “Cuvântul”, an. IX, n. 3110, 21 dicembre 1933. 13
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glimento della Guardia di Ferro “un atto non solo illegale, ma anche inutile. Perché, diceva, o si tratta di un movimento artificiale, senza radici nella vita pubblica romena, e allora il divieto è inutile perché tutto scomparirà da solo, o al contrario, il movimento è autentico, potente e in crescita e allora non potrà essere annichilito per decisione ministeriale”15. Quasi tre settimane dopo l’ordine di scioglimento della Guardia di Ferro, Duca pagò la sua decisione con la vita, assassinato dal legionario Niki Constantinescu il 29 dicembre 1933. Cuvântul era ormai diventato il portavoce delle posizioni legionarie e Ionescu considerato dalle autorità romene il “consigliere di Codreanu”16. L’assassinio di Duca provocò una stretta repressiva contro tutti i fiancheggiatori della Guardia di Ferro. All’inizio del 1934 un decreto regale di censura interdisse Cuvântul e il 2 gennaio Ionescu fu arrestato con l’accusa di essere il responsabile morale dell’assassinio Duca, avendo promosso da tempo una campagna violentemente anti-liberale nel suo giornale. Internato a Cotroceni17, fu liberato il 5 marzo, arrestato di nuovo18 e liberato il 15 marzo. A questo punto la scelta di Ionescu di sostenere Codreanu era consumata. Rimane da chiarire per quanto possibile cosa spinse Ionescu verso la Guardia di Ferro e quali caratteristiche di questo movimento lo attrassero. Indubbiamente l’avvicinamento ai legionari è legato alla rottura dei rapporti con il re. Venuta meno la fiducia in Carol II, Codreanu rappresentò l’alternativa ideale per Ionescu, in quanto leader di un mo15
M. ELIADE, Memorii… cit., vol. I, p. 306. La definizione è in un documento contenuto nel dossier 103/1933 del Fondo Direcţia Generală a Poliţiei del Ministero degli Interni. Si tratta di un elenco del quale manca la prima pagina. Si potrebbe comunque trattare dell’elenco a cui fa riferimento il documento del 22 marzo 1935 della Siguranţă all’Ispettorato Generale della Gendarmeria, nel quale si invita l’ispettorato a fare ricerche sulle persone inserite nell’elenco. Il nome di Ionescu figura al numero 70 della lista ed è così definito “Professore universitario Nae Ionescu, non inquadrato nella Legione, consigliere di Corneliu Codreanu”. 17 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 307. 18 Telespresso n.466/123, Legazione di S.M. il Re d’Italia a Bucarest, 12 marzo 1934. 16
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vimento la cui ideologia era imperniata proprio su quei valori che Ionescu considerava costitutivi dell’identità romena, quelli ortodossi. La stessa rivendicazione fantasiosa di Codreanu di aver ricevuto un’investitura divina con l’Arcangelo Michele, veniva strumentalmente accettata da Ionescu in chiave di difesa dei valori ortodossi. Ma soprattutto Ionescu apprezzava la diversità del suo movimento dai partiti tradizionali: esso aspirava infatti a rovesciare il sistema politico liberale con ogni mezzo, anche extraparlamentare. Al contrario delle altre associazioni filocristiane e antisemite, la Legione non si limitava alla critica alle istituzioni, ma intendeva agire per sovvertirle, sia tramite un’azione interna alle stesse – come dimostrò la nascita del partito Totul pentru ără – sia con interventi esterni e Ionescu vide in esso uno strumento finalmente efficace per raggiungere il suo obiettivo. La scelta di Ionescu di sostenere la Guardia non rappresentò quindi un cambiamento di impostazione politica, essa fu da una parte legata alla rottura con Carol II, dall’altra alla convergenza del movimento con le idee di Ionescu. Certamente questo momento rappresentò una svolta. Al di là delle motivazioni che lo spinsero verso la Legione, Ionescu dovette essere consapevole che sostenere Codreanu significava scegliere di combattere le istituzioni anche con mezzi extralegali, compreso l’assassinio politico. Anche se Ionescu non era mai stato democratico, in precedenza aveva fatto riferimento a soggetti politici che agivano all’interno delle istituzioni e le rispettavano. Prima di passare a sostenere Codreanu egli sperava in un cambiamento del sistema politico dall’interno. Scegliendo di appoggiare la Guardia di Ferro egli si pose consapevolmente al di fuori del sistema. Resta da vedere se prevalevano gli elementi di continuità o di discontinuità rispetto alla sua esperienza precedente. 3.1 Ionescu e la Guardia di Ferro: continuità o rottura? La questione della continuità/discontinuità del pensiero di Ionescu non è di poco conto. La prima tesi ha infatti come corollario che tutto il pensiero di Ionescu, anche quello precedente la “conversione legiona-
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ria” avesse una connotazione totalitaria e cioè che l’evoluzione verso un nazionalismo estremista fosse implicita nei presupposti della teoria organica di nazione di Ionescu. Altri definiscono invece “accidentale” lo spostamento di Ionescu verso la Guardia di Ferro e quindi verso il nazionalismo radicale. È peraltro uno dei temi più controversi e dibattuti dalla storiografia. Coloro che sostengono che l’avvicinamento di Ionescu alla Guardia di Ferro e quindi la radicalizzazione del suo pensiero politico siano frutto soprattutto di circostanze fortuite, sono pronti a spiegare il fatto con episodi della vita privata. Qualcuno, a suo tempo, neppure riuscì a spiegarselo. È il caso del diario di Sebastian19, che racconta l’adesione di Ionescu alla Guardia con toni che dimostrano tutta la sua sorpresa: “Mi chiedo se Nae non stia perdendo completamente il controllo di sé. Eccesso di megalomania, orgoglio esasperato dalle sconfitte, o semplicemente una fase di misticismo acuto? Prima in una simile situazione l’avrei trovato pittoresco, ora lo trovo preoccupante”20. Se poi prendiamo in considerazione altri testimoni diretti degli eventi, è da rilevare come Cioran abbia ad esempio parlato di una forma di “vendetta” nei confronti di Carol II21. L’opinione di Cioran è stata sostenuta anche da storici che si sono occupati dei fatti recentemente: secondo Acterian il metropolita Titu Smedrea avrebbe chiesto a Ionescu se non lo preoccupasse la reazione dell’opinione pubblica al fatto che, dopo essersi tanto battuto per il ritorno di Carol in patria, egli avesse improvvisamente cambiato idea. Ionescu avrebbe risposto che “l’opinione pubblica non ha memoria. Io l’ho riportato qui e io lo allontanerò. Da solo non ci posso riuscire. Con i Legionari lo posso fare”22. Concorde con la versione di Cioran e Acterian è anche Vulc nescu che ha parlato della rottura con Carol come della molla che spinse Ionescu verso l’estrema destra, sostenendo però che decisi19 Mentre Cioran imputava il cambiamento alla rottura con Carol II, Sebastian avanzò una lettura più legata alla vita privata del professore, ovvero alla fine della sua relazione con Maruca Cantacuzino. 20 M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 105. 21 M. PETREU, Un trecut deocheat sau “Schimbarea la fa a a României, Biblioteca Apostrof, Cluj, 1999, p. 109. 22 A. ACTERIAN, Neliniştile lui Nastratin, Alfa, Iaşi, 2000, pp. 215-224.
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va sarebbe stata la decisione del re di richiamare Titulescu a capo del governo. Secondo il biografo di Ionescu, nel movimento di Codreanu sarebbe sembrato a Ionescu di ritrovare “il germe del fantomatico ritorno alla comunità di destino”23. A sostegno di questa interpretazione Vulc nescu ricorda che anche gli intellettuali che gli successero nella direzione di Cuvântul dopo la sua morte accreditarono la tesi di una sua “conversione” al guardismo24 quindi di un momento di rottura rispetto al passato. Come si può notare l’interpretazione della scelta legionaria di Ionescu come scelta estemporanea è principalmente sostenuta dai suoi allievi, testimoni diretti degli eventi è vero, ma anche propensi a proporre un’interpretazione “assolutoria” del maestro. Il problema di come sia maturato l’impegno diretto di Ionescu nella Guardia di Ferro, al di là del desiderio di Vulc nescu e altri di salvare un’immagine positiva del maestro, esiste. Al contrario di quanto sostengono i discepoli di Ionescu, una parte della storiografia considera il suo avvicinamento alla Guardia di Ferro come un’evoluzione naturale, le cui basi starebbero nella sua elaborazione intellettuale. Si dice cioè che un modello di nazione come quello concepito da Ionescu implicasse inevitabilmente uno scivolamento verso l’estremismo, secondo qualcuno addirittura verso il totalitarismo. Voicu ad esempio ritiene che il pensiero politico di Ionescu abbia subito una progressiva razionalizzazione e che, man mano che il professore procedeva nella rielaborazione delle proprie idee, la sua concezione si sia radicalizzata e abbia quindi assunto tutte le caratteristiche di una ideologia totalitaria. In sostanza l’avvicinamento a Codreanu sarebbe frutto di un processo naturale che parte dalla filosofia di Ionescu e arriva alle sue posizioni politiche25. Non ci sono dubbi sulla naturale discendenza della posizione antidemocratica di Ionescu dalla sua filosofia antirazionalista e antiindividualista, più controverso è il fatto che si possa parlare del rapporto con la Guardia di Ferro come di qualcosa di inevitabile e implicito nel suo 23
M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 62. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 77. 25 G. VOICU, op. cit., p. 43. 24
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pensiero. In fondo la rottura con Carol II ebbe un peso nella scelta di Ionescu, se non altro perché determinò il momento in cui si sviluppò il rapporto con il legionarismo. Etichettare Ionescu come un pensatore filototalitario durante tutto il suo percorso intellettuale può apparire in effetti esagerato. Se una continuità può essere rintracciata nel suo pensiero è nella concezione di nazione e di conseguenza nell’opposizione alla democrazia, ma c’è una differenza tra la posizione corporativista contadinista degli anni Venti, quella legittimista dell’inizio degli anni Trenta e il sostegno alla Guardia di Ferro che si sviluppa a partire dalla metà degli anni Trenta26. La continuità nella concezione politica di Ionescu non preclude quindi il suo appoggio a diversi esponenti del panorama politico. Indubbiamente però il suo modello politico ha molte delle caratteristiche di quello totalitario: c’è una comunità organica e naturale della quale il leader incarna i valori e la spiritualità profonda. La differenza rispetto al nazismo e al fascismo, ma anche al bolscevismo, che impedisce a Nae Ionescu di paragonare Codreanu a Hitler, Stalin o Mussolini, sta nel fatto che secondo Ionescu in Romania la comunità spirituale esiste e va liberata dalle sovrastrutture e dalle contaminazioni provenienti dall’Occidente, senza la necessità di creare nessun “uomo nuovo”. La Guardia di Ferro auspicava la creazione e l’affermazione in Romania di un “uomo nuovo”, il cui profilo spirituale fosse plasmato sui valori dell’ortodossia. Anche secondo Ionescu i romeni avrebbero dovuto fare propri nella vita collettiva e personale gli insegnamenti ortodossi, ma questo processo non rappresentava per lui la creazione di un uomo nuovo. Esso era invece semplicemente il recupero di aspetti già propri della collettività romena che la penetrazione dello stile di vita occidentale, l’industrializzazione, la laicizzazione e l’urbanizzazione avevano rischiato di cancellare. Certo è difficile procedere per ipotesi e probabilmente è impossibile risolvere il nodo problematico circa il percorso che avrebbe seguito Ionescu se la rottura con Carol non si fosse consumata. Quello che si 26 Anche Vulc nescu riconosce che “l’orientamento fondamentale del suo spirito era fissato – forse con l’eccezione del suo pensiero politico”. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 28.
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
evince dai suoi testi è che la concezione politica resta la stessa. L’ammirazione per fascismo e nazismo, è vero, aumenta, ma resta anche la chiara coscienza che si tratta di due regimi che si sono sviluppati in realtà diverse e che funzionano perché sono adatti a quelle realtà. Nessuno dei due secondo Ionescu era applicabile al contesto romeno, prima di tutto perché la mistica di cui erano informati prescindeva dai valori della religione. E in effetti la scelta del sostegno a Codreanu è legata soprattutto al peso che nella sua provvisoria ideologia assume il dato religioso. Riconoscendo al movimento di Codreanu la volontà di operare un rovesciamento dello Stato, Ionescu ne faceva infatti il fattore di cambiamento da tempo atteso nella vita politica romena. La comparsa di una simile organizzazione era per lui il segnale che una rinascita spirituale fosse in corso in Romania. La svolta sarebbe stata la grande guerra e il definitivo crollo della mentalità positivista27. Si sarebbe trattato di una rinascita che aveva riguardato ogni aspetto dell’uomo, “fin nella sua interiorità più profonda. C’è di più: dove la forma di vita religiosa non era in conformità con il genio del popolo, questa rinascita si è fissata in forme sterili. (…) Da noi invece, per una felice coincidenza, il movimento religioso, mantenendosi nei quadri dell’ortodossia, rispondeva anche al genio della nazione e dello spirito del tempo (…) Questo movimento non partiva da qualche parte dall’alto, dalla gerarchia costituita della vita religiosa, secondo un piano prestabilito, ma era solo il seguito naturale di una spiritualità più viva e ricca”: essa si era fatta “sentire nel mondo della Chiesa ai livelli più bassi, dai ‘popi ignoranti’ e dai fedeli semplici o nel mondo degli intellettuali nelle cui ricerche teologiche era piuttosto un punto di arrivo che una specialità”28. La tanto attesa restaurazione dei valori spirituali autentici poteva finalmente avere un realizzatore. Codreanu sarebbe stato il difensore della nazione come comunità di destino da sempre
27 28
N. IONESCU, Pentru o teologie cu nespecialişti, “Predania”, 15 febbraio 1937. Ibidem.
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teorizzata da Ionescu, l’uomo destinato a salvare il paese dalla rovina, la sua guida naturale così come il Principe di Machiavelli per l’Italia29. 3.2 L’antisemitismo “metafisico” di Ionescu: il caso “De doua mii de ani” La radicalizzazione della posizione politica di Ionescu e il legame di essa con la sua personale filosofia della storia trovò la sua manifestazione più evidente nella posizione assunta sull’ebraismo. Il testo nel quale Ionescu espresse in modo compiuto le sue idee in proposito fu la prefazione a De două mii de ani, romanzo del suo allievo Mihail Sebastian. Ionescu incoraggiò Sebastian a scrivere questo libro, promettendogli una prefazione. Il romanzo, terminato nel 1934, ripercorreva la vicenda di un giovane studente universitario ebreo nel contesto di crescente ostilità antiebraica del tempo. Il protagonista altri non era che l’alter ego di Sebastian, tant’è vero che portava il suo vero nome, Ioseph Hechter. Nel testo introduttivo Ionescu affrontava il tema della sofferenza della razza ebraica, che definiva “necessaria”30. Dalla sua prospettiva ovunque gli ebrei vivessero erano destinati a trovarsi in una condizione di disagio e la convivenza con le comunità nazionali che li ospitavano sarebbe stata problematica. La Spagna di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona si sarebbe illusa di risolvere il problema cacciando gli ebrei dal proprio territorio, ma questa non poteva essere considerata una soluzione, perché il problema si sarebbe rispresentato nei medesimi termini in qualunque luogo essi si fossero recati. Secondo Ionescu la questione ebraica era insolubile e il conflitto con gli altri popoli era permanente perché le cause della sofferenza degli ebrei erano radicate nel popolo ebraico stesso. “Gli ebrei si tormentano perché… sono ebrei. Nello stesso modo in cui le stelle brillano, il cavallo 29 Il riferimento a Machiavelli sarebbe presente in un manoscritto di Ionescu da lui elaborato per una conferenza tenuta nel periodo della reclusione a Miercurea Ciuc, della quale parla però soltanto Vulc nescu. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 98. 30 N. IONESCU, “Prefa ”, in M. SEBASTIAN, De doua…, cit., p. 7.
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ha quattro zampe e la somma degli angoli interni di un triangolo è 180°, l’ebreo soffre”31. Come in passato Ionescu identificava la causa della sofferenza necessaria degli ebrei nella loro stessa identità, nelle caratteristiche del loro gruppo nazionale. La convinzione di Ionescu che l’identità dei singoli si definisse in base a quella del gruppo di appartenenza e fosse necessaria e irrinunciabile diventava la giustificazione dell’ineluttabilità del destino ebraico. Secondo quanto scritto in questa introduzione-pamphlet per gli ebrei non era possibile come per le altre nazioni vivere il proprio spirito nazionale liberamente. Ciò avrebbe infatti richiesto la conciliazione di due elementi: quello religioso della propria fede e quello nazionale dell’attaccamento al suolo natale. Vivendo però in diaspora essi erano costretti a costituire una comunità separata sul suolo di altre nazioni. Nell’oscillazione permanente tra confessionalizzazione e nazionalizzazione, tra prevalenza cioè dell’elemento religioso e dell’elemento politico, essi non riuscivano a trovare un equilibrio stabile. La sofferenza del popolo ebraico era quindi per Ionescu necessaria e permanente ed era dovuta all’incapacità di conciliare l’aspetto religioso con quello politico. Gli ebrei costituivano indubbiamente una nazione, in quanto comunità di uomini uniti da un’unica fede religiosa e che condividevano la stessa storia, ma non potevano raggiungere l’obiettivo naturale di ogni nazione, quella di darsi una patria, in quanto permanentemente in diaspora. Il Sionismo, secondo Ionescu, non era una soluzione: ogni volta che il popolo ebraico aveva avuto la possibilità di disporre di uno Stato aveva finito per distruggerlo e ritrovarsi inevitabilmente disperso in esilio. Interrogandosi sulla ragione per cui si consumasse questo destino ineluttabile Ionescu giunse alla conclusione di come esso fosse legato al carattere irrimediabilmente “corrotto” del popolo giudaico, corrotto perché prescelto come popolo eletto da Dio, ma incapace di riconoscere il Messia e quindi di sostituire alla vecchia legge quella nuova. Proprio per questo il popolo ebraico sarebbe stato eternamente odiato da tutti i popoli con i quali avesse convissuto. 31
Ibidem.
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Questa prefazione, come non è difficile immaginare, fu interpretata come una giustificazione teologica dell’antisemitismo. Alle accuse di antisemitismo Ionescu rispose dal suo giornale. Pur senza intervenire nel merito della polemica, Ionescu dimostrò di voler difendere la sua posizione senza preoccuparsi eccessivamente di questa etichetta, come testimonia una sua risposta alla lettera al giornale di un certo A.L. Zissu. Secondo quest’ultimo l’antisemitismo era un atteggiamento colpevole in quanto carico di aggressività; al contrario del filosemitismo, difensivo e passivo. Non essendo i due termini omogenei non si poteva loro riconoscere pari dignità e di conseguenza Zissu condannava le convinzioni antisemite di Ionescu. Ionescu sosteneva invece che se si ammetteva il diritto a un atteggiamento filosemita, si doveva riconoscere anche il diritto a un atteggiamento antisemita. Egli al contrario del lettore affermava che non necessariamente il filosemitismo è un atteggiamento passivo e a dimostrazione di questo non trovava di meglio che far riferimento all’atteggiamento di parte della stampa internazionale nei confronti della Germania32. Il tono di Ionescu oscillava costantemente tra polemica e teologia. In un articolo di appena qualche giorno dopo egli ritornò infatti a imputare la condizione ebraica di minorità in politica allo “spirito ebraico” al quale riconosceva la carica trascendentale, ma solo nell’ambito dello spirito puro. Ionescu riteneva invece che gli ebrei fossero del tutto privi di inclinazione trascendentale negli altri ambiti, a partire da quello politico. La dimostrazione sarebbe nel fatto che essi avrebbero fatto prevalere nella vita quotidiana lo spirito freddo della razionalità e questo li farebbe eccellere nelle scienze esatte, ma non in ambito artistico33. La posizione di Ionescu sull’ebraismo appare in questo articolo assai diversa da quella espressa negli anni Venti. I toni sono assai più polemici, anche se Ionescu continua a privilegiare una lettura del destino ebraico basata sulla filosofia della storia e non si limita a scagliare accuse generiche. È già significativo che Ionescu scelga l’ebraismo N. IONESCU, Intre ‘agresivitate’ antisemită şi ‘positivitate’ filosemită, “Cuvântul”, an. X, n. 3084, 26 novembre 1933. 33 N. IONESCU, Trascendentalism şi politică, “Cuvântul”, an. X, n. 3088, 29 novembre 1933. 32
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come oggetto centrale della sua riflessione, non trattandolo marginalmente e in funzione di altri problemi come aveva fatto in passato. Il giudizio espresso, poi, è una inesorabile condanna, non c’è nessuna indulgenza, nessun particolare rispetto per quel popolo.
4. Il fascino della Guardia di Ferro sulla giovane generazione Sulla scia della conversione del maestro Ionescu, anche molti giovani subirono nel corso degli anni Trenta il fascino della Guardia di Ferro. Anche in questo caso è difficile dare una spiegazione monocausale di questo processo. L’adesione del maestro spirituale della giovane generazione alla Legione è uno degli elementi da tenere in considerazione, anche se è semplicistico dire che l’avvicinamento di Ionescu a Codreanu abbia determinato automaticamente l’affiliazione alla Legione di tutti i suoi studenti. Il passaggio non è né automatico, né immediato. Il coinvolgimento di Ionescu nella Guardia di Ferro e le sue vicende personali, dalla sospensione di Cuvântul all’internamento, colpirono in modo assai forte i suoi discepoli. Chi come Eliade o Cioran collaborava con il giornale di Ionescu, restò fortemente impressionato dalla vicenda e la reazione naturale fu ovviamente quella del sostegno a Ionescu e della critica alle istituzioni, che una volta di più davano prova di scarsa considerazione per le personalità del mondo della cultura. Questo fece maturare in loro un’attenzione critica verso il mondo politico e ben presto li spinse verso il coinvolgimento diretto. La posizione assunta da Ionescu svolse quindi un ruolo significativo nella scelta dell’organizzazione politica a cui riferirsi. Ci sono però altri aspetti di cui tenere conto. Per i giovani il legame con la Legione assunse una forma diversa rispetto a quanto accadeva per i maestri e rappresentò il primo momento di impegno politico. La radicalizzazione della situazione interna e internazionale, del resto, produceva un contesto nel quale era sempre più difficile non prendere una posizione, non lasciarsi coinvolgere dalla spirale del fanatismo o trascinare da ideologie forti. Era un processo in corso in tutta Europa, furono poche le personalità come
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quelle di Croce o di Thomas Mann capaci di resistere al fascino delle ideologie forti, di estrema sinistra o di estrema destra: il liberalismo era troppo “grigio”, troppo mediocre, viveva di quotidianità e non di ideali da realizzare. Per di più le istituzioni liberaldemocratiche non sembravano dare prova di buon funzionamento, erano corrotte dai giochi di potere e dagli accordi elettorali. Questo valeva tanto più per i giovani romeni: alcuni di loro subirono il fascino del marxismo, ma furono pochi e generalmente esponenti delle minoranze etniche. La maggior parte invece si spostò verso destra, verso la Guardia di Ferro. In fondo questa era la generazione che aveva partecipato ai movimenti studenteschi, che si era formata alla scuola dell’ortodossista Ionescu, che aveva studiato in Germania e aveva respirato il clima antirazionalista e antipositivista che proprio nella Mitteleuropa si era diffuso e affermato. Era la generazione che leggeva Spengler e si rendeva conto che la Romania faceva parte delle “piccole culture”. Sua massima aspirazione era la trasformazione radicale del proprio paese in una Romania “grande”. Per questo c’era bisogno di un cambiamento che partisse dalla base, dalla dimensione spirituale, dalla creazione di un uomo nuovo. C’era bisogno di uomini disposti al sacrificio, come i legionari Mo a e Marin, che morirono in Spagna nel 1937 al servizio proprio di questo ideale. Gli intellettuali più giovani, che disprezzavano la politica mediocre e conoscevano Codreanu dai tempi dei loro studi universitari, furono attratti in primo luogo dall’attacco della Legione ai partiti tradizionali. I giovani intellettuali romeni non si erano mai sentiti integrati nel sistema politico esistente, un sistema “marcato dal virus dell’inefficienza”34. Proprio la loro formazione culturale li spinse a elaborare una propria idea di nazione, quella di un soggetto della storia, un soggetto attivo il cui compito era quello di affermarsi e affermare la propria cultura e i propri valori spirituali, conquistando un posto nel panorama geo-politico e in quello culturale del mondo. Ecco perché la politica romena non era adeguata, essa si era dimostrata incapace di guidare il paese verso questa dimensione di grande potenza, si era 34
I. NECULA, Cioran de la identitatea popoarelor la neantul valah, Saeculum, Bucureşti, p. 96.
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limitata ad amministrarlo senza riproporsi invece di farlo crescere, senza programmi ambiziosi e addirittura cercando di introdurre elementi estranei, come le istituzioni liberaldemocratiche, che avevano avuto l’effetto di corrompere la struttura spirituale locale35. La Guardia di Ferro era credibile proprio perché criticava tutti questi aspetti del mondo politico e proponeva un’alternativa su un piano diverso, valorizzando la dimensione mistico-spirituale della comunità nazionale. L’attrazione verso la mistica fu un aspetto presente nella riflessione di diversi esponenti della giovane generazione. Molti di questi studenti universitari avevano attraversato una fase giovanile laica se non addirittura atea36 per poi riscoprire il valore della religione. Anche in questo caso pesava spesso la lezione degli ortodossisti, da Ionescu a Crainic, ma in ogni caso la riscoperta della religiosità si espresse in ciascuno in modo diverso, dall’interesse per la mistica a quello per la “religione laica” dell’ideologia forte. La speranza della costruzione di uno stato non laico, anzi antilaico, rappresentò il punto di approdo di una generazione alla ricerca di un obiettivo per il quale lottare. Questi giovani, che avevano come punto di riferimento nel passato i patrioti dell’Ottocento, che avevano costruito lo Stato-nazione o quelli del primo Novecento, che avevano realizzato la Grande Romania, si ritrovavano in qualche modo “soffocati dai meriti delle generazioni precedenti”, come dice con acutezza Achim Mihu37, aggiungendo che per rimediare a questo senso di inadeguatezza essi avevano due possibilità, quella della rivoluzione politica e quella della rivoluzione culturale. La Guardia di Ferro rappre35
“Il nostro politicantismo dopo la grande unione, quando c’era tanto da fare brancolava nel buio, e si consumava in una fiammella sterile e si dimostrava incapace di mobilitare l’energia romena prima di tutto dei giovani, quelli formati alla scuola di Nae Ionescu”. Cfr. I. NECULA, op. cit., p. 97. 36 “Recentemente usciti dall’ateismo crudo dal quale nessun allievo del corso superiore non ha potuto credo scappare da quando il programma del liceo poneva in conflitto irrisolto, nella IV classe, la Bibbia con la geologia, rifacevamo per conto proprio la conversione a una visione cristiana”, ricorda Vulc nescu in M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 41. Ma anche Cioran ricorda la fase atea in cui si alzava da tavola quando veniva recitata la preghiera. 37 Introduzione a E. WEBER, Dreapta…, cit.
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sentava per le sue caratteristiche il mezzo ideale per conseguire entrambe le mete, il cambiamento della natura dello Stato, così come l’affermazione della cultura romena nel mondo. E alla cultura come strumento di affermazione del paese attribuiva grande importanza lo stesso Codreanu, che invocò più volte il sostegno degli intellettuali. Attorno alla Legione si formò un vero e proprio circolo culturale fiancheggiatore, il cosiddetto cuib Axa (circolo l’Asse), condotto da Ion Mo a38 e aperto a chiunque si riconoscesse nel credo della Legione. Gli intellettuali organici di Axa così come coloro che erano semplici fiancheggiatori del movimento condividevano il recupero delle grandi figure del passato, prima fra tutte quella di Eminescu39, ma anche la tensione verso la costruzione di una grande cultura romena. Perché questo obiettivo fosse raggiunto c’era però bisogno di un mutamento radicale, che partisse dalla creazione di un uomo nuovo, consapevole della missione da compiere e pronto a realizzarla a costo di qualsiasi sacrificio. L’idea della missione da compiere nel segno della cristianità rappresentò una forte attrattiva per la generazione di Eliade e Cioran soprattutto perché rispondeva al loro auspicio di un rinvigorimento della cultura romena. Il mito dell’uomo nuovo rispondeva anch’esso a una tendenza generale della cultura europea del primo Novecento. Era il trionfo del “pensiero forte”, della convinzione che le ideologie potessero cambiare e il mondo e l’uomo stesso. Da questo punto di vista non c’era molta differenza tra ideologie di estrema destra e di estrema sinistra, tra marxismo e hitlerismo o tra marxismo e legionarismo. Consciamente o inconsciamente, i nemici autentici dei movimenti politico-ideologici del periodo tra le due guerre erano la democrazia e il liberalismo, perché non si proponevano nessuna palingenesi, nessuna rigenerazione spirituale, nessun uomo nuovo da costruire. E non è un caso che fossero considerasti regimi “grigi”, mediocri e incapaci di fornire stimoli. In sintesi, la carta vincente del movimento di Codreanu fu la delusione di una parte degli intellettuali romeni per il grigiore della situa38 39
F. VEIGA, op. cit.¸ p. 160. Ivi, pp. 161-164.
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zione del paese e la capacità di proporre un’alternativa. Nonostante questa vicinanza ideologica non sempre il passaggio al sostegno attivo alla Legione fu frutto di una scelta consapevole sulla base della condivisione della sua ideologia. A volte le vicende personali, episodi contingenti ebbero un ruolo fondamentale, ma la loro importanza non va sopravvalutata: ci fu evidentemente anche una sintonia di base che spinse Ionescu o Crainic così come Eliade e Cioran verso la Legione. Chiarissimo a questo proposito Alexandrescu: “Il legionarismo è il tornasole della società romena. Esso non inventa nulla di nuovo, ma porta in superficie esplicitamente tutto ciò che esiste a livello implicito, potenziale, nascosto nella società romena già dal XIX sec.: esclusioni, pregiudizi, miti che sostituiscono la politica, inesistenza di una società civile, spaccatura tra Stato e società”40. 4.1 Il percorso di Eliade All’inizio degli anni Trenta Eliade passò progressivamente dal voluto disimpegno per la politica alla critica aperta nei confronti di alcune sue manifestazioni. In particolare, l’evoluzione in senso politico del pensiero di Eliade si può collocare tra il 1933 e il 1934. Per capire come si sia prodotto questo passaggio occorre comprendere il contesto in cui esso si produsse. Nel 1933 Eliade assistette alla rottura dei rapporti tra Ionescu e Carol II e l’anno successivo, dopo il decreto regio di sospensione delle pubblicazioni di Cuvântul e soprattutto l’arresto di Ionescu, anche Eliade fu in qualche modo costretto a confrontarsi con la situazione interna del paese. La soppressione del giornale di Ionescu portò Eliade a collaborare con la rivista Credin a, sotto lo pseudonimo di Ion Pl eşu. L’allora ventisettenne Eliade avvertiva il cambiamento dell’atmosfera del paese: “tensioni, conflitti, crudeltà e soprattutto il sentimento ineffabile di essere entrati in un’epoca di rottura – questo sentivo soprattutto ora, dopo l’assassinio di Duca e tutto quello che ne è seguito. Criterion continuava con lo stesso successo, ma sembrava che qualco40
S. ALEXANDRESCU, op.cit., p. 135.
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sa si stesse rompendo. Era difficile adesso andare avanti insieme, sulla stessa strada, legionari, democratici e comunisti. I membri di Criterion rimasero amici, ma alcuni tra di loro – ad esempio Polihroniade e Tell – non potevano più, o non volevano più discutere in pubblico certi problemi a fianco di certi conferenzieri”41. Nella dissoluzione della compagnia di Criterion Eliade ovviamente rimase al fianco di Ionescu e continuò a fargli da assistente anche dopo il suo arresto, quando le opinioni politiche di Ionescu erano ormai note a tutti. Fu anzi proprio in questo periodo che Eliade curò una raccolta di articoli del professore, raccolta che spaziava dalla teologia alla politica e della quale Eliade scrisse una postfazione42. Lo manteneva vicino al maestro anche il viaggio che compì a Berlino nell’agosto-settembre 1934. Benché nelle memorie redatte a tanta distanza di tempo Eliade si limiti a dire di “non avere avuto tempo” per riflettere sulla situazione politica43 durante questo soggiorno, è probabile che egli non sia tornato in Romania senza riceverne una forte impressione. Il passaggio dall’agnosticismo politico alla partecipazione attiva avvenne comunque in modo graduale: come si è accennato il primo segnale di un atteggiamento diverso fu la reazione alla prigionia di Ionescu, ma alla base delle sue critiche ai liberali c’erano indubbiamente anche incompatibilità di fondo. Prima di tutto Eliade era fortemente critico nei confronti dell’adozione di modelli politici, istituzionali e soprattutto culturali provenienti dall’Occidente. Convinto della specificità di ogni cultura, egli infatti riteneva che ciò avrebbe inevitabilmente corrotto e indebolito quella romena. Naturalmente, come altri intellettuali antiliberali romeni, considerava responsabili di questa “contaminazione” i quarantottisti: “Non dobbiamo condannare i leader della generazione quarantottista perché hanno preso in prestito una formula di vita straniera, osserviamo soltanto che hanno preso in prestito una formula morta, sterile e inefficace (…). I quarantottisti hanno introdotto ovunque un’astrazione”. Hanno chiesto “di pensare all’universo, all’umanità. Tutte parole 41
M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 309. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 341. 43 Ivi, p. 320.
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queste che non significano nulla, sono vuote e se mai una volta hanno avuto un contenuto, non l’hanno avuto per noi”44. Il rifiuto dell’esperienza quarantottista in Eliade non si riduce dunque a una mera chiusura provinciale verso il liberalismo occidentale, ma si configura come una presa di posizione contro uno stile di vita considerato ormai sterile per la Romania. La tradizione importata dai liberali era incompatibile con quella romena soprattutto perché radicata nel materialismo. Ne era dimostrazione il primato che in essa assumeva la politica, un primato “che conduce inevitabilmente alla sterilizzazione di certi ambienti sociali, alla messa in pericolo quindi della storia reale (…). Tutto ci induce a credere che l’uomo nuovo che la nostra epoca deve realizzare non verrà da qualche gruppo politico. Esso nascerà ancora questa volta così come è sempre accaduto, dalla storia, attraverso un cambiamento radicale dei valori spirituali”45. Il termine “sterilizzazione” non compare casualmente riferito alla dimensione del politico. La politica farebbe infatti parte di quella che Eliade definisce dimensione “materiale”, disprezzata per la sua incapacità di rinnovare i valori autentici della nazione46. Eliade disprezzava questa politica47 demagogica e interessata solo al consenso elettorale, incapace di riconoscere i bisogni reali del paese. Un ambiente come questo esaltava evidentemente le capacità oratorie, gli slogan più convincenti e non le qualità autentiche e l’interesse del paese48. Per Eliade la democrazia aspirava a rendere tutti uguali i cittadini, a livellare la società e di conseguenza non faceva emergere quelli che egli considerava i “migliori”, le personalità crea-
44
M. ELIADE, Paşoptism şi Umanism, “Floarea de foc”, an. II, n. 1, 25 febbraio
1933. 45 M. ELIADE, Reabilitarea spiritului, “Criterion”, an. II, n. 6-7, gennaiofebbraio 1935. 46 M. ELIADE, Invita ie la bărbă ie, “Vremea”, an.VI, n. 307, 1 ottobre 1933. 47 M. ELIADE, Crea ie etnică şi gândire politică, “Cuvântul”, an. X, n. 2994, 26 agosto 1933. 48 M. ELIADE, Demagogia prerevolu ionară, “Vremea”, an. VIII, n. 413, 1° novembre 1935.
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trici, ovvero gli intellettuali. La democrazia premiava più la forma che la sostanza, più la demagogia che la meritocrazia. La condizione di subordinazione della Romania rispetto alle altre potenze era quindi per Eliade da una parte legata all’importazione di modelli stranieri, dall’altra alla marginalizzazione degli intellettuali. Quest’ultima era soprattutto un frutto del presente, poiché in passato tutte le grandi personalità della cultura si erano attivamente impegnate in politica, come nel 1848 o ancora alla fine del secolo e durante la prima guerra mondiale. Persino dopo la guerra, dopo cioè che gli obiettivi storici erano stati conseguiti e ci si aspettava che gli intellettuali si chiudessero in una “torre d’avorio”, una buona parte di essi sarebbe stata spinta a impegnarsi nuovamente in battaglie politiche. Col passare del tempo gli intellettuali sarebbero stati però sempre meno rispettati dai partiti politici e questo li avrebbe portati ad assumere una posizione di nuovo isolamento, se non addirittura di aperta ostilità49. Il rifiuto dell’impegno degli intellettuali in politica in questa situazione di ostilità da parte dei partiti diventava quindi per Eliade una forma di impegno per la patria, essendo legato alla consapevolezza dell’inadeguatezza della classe politica, incapace di guidare il paese verso un futuro glorioso che solo gli intellettuali avrebbero saputo offrire al paese50. La politica era quindi ritenuta responsabile dell’immagine negativa che il paese aveva all’estero, perché gli stranieri non giudicavano la Romania per la sua cultura, ma per i suoi leader, per coloro che la rappresentavano a livello internazionale51. Alla metà degli anni Trenta però Eliade vedeva confortanti segni di risveglio provenire dalla cultura romena e in particolare, inutile dirlo, 49
M. ELIADE, Turnul de fildeş, “Vremea”, an. VIII, n. 382, 31 marzo 1935. “Coloro che rifiutano oggi la politica costituiscono oggi l’ultima resistenza della vita pubblica in Romania. Si potrebbe dire senza alcun paradosso che sono i veri rivoluzionari (…). Il disprezzo degli intellettuali per la vita politica non è un tradimento. Non prendere posizione di fronte a un partito politico, guardare con disprezzo o indifferenza le decine di partiti che appaiono, si agitano e spariscono (…) non significa né tradimento né menefreghismo”; M. ELIADE, Renaştere românească, “Vremea”, an. VIII, Paşti, 21 aprile 1935. 51 M. ELIADE, Roumain, Rumanian, rumane, rumeno, “Vremea”, an. VIII, n. 390, 2 giugno 1935. 50
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dalla giovane generazione. Egli riteneva infatti finita l’epoca degli intellettuali che si vergognavano della loro condizione di romeni, come Cioran, che nel 1933 aveva scritto un articolo dal titolo A nu mai fi român [Non essere più romeno] in cui rimpiangeva le sue origini e criticava il suo piccolo e mediocre paese. Il passo ulteriore che gli intellettuali avrebbero dovuto compiere doveva essere a suo avviso quello di farsi promotori di una “missione culturale”: “per la Romania, che comunque rimane un paese senza possibilità di rivendicazioni politiche, la cultura è l’unico mezzo di affermazione sia di fronte al mondo di oggi che di fronte al mondo di domani. E per cultura intendiamo ogni creazione spirituale. (…) Essendo la nazione uno strumento culturale, il ruolo dello stato non può che essere quello di aiutare ogni cittadino a creare”52. In questo Eliade si dimostrava erede, oltre che di Eminescu, di Nicolae Iorga, e di Vasile Pârvan, dello stesso Ionescu, che aveva espresso questi concetti con ancora maggiore chiarezza53. Il rinnovato interesse del mondo della cultura per il paese spingeva Eliade a credere in una possibile alternativa al sistema liberale, alternativa che era rappresentata da una sorta di “repubblica delle lettere”, dove gli intellettuali avrebbero potuto far risorgere il prestigio della cultura romena nel mondo. Questa visione della società, nella quale un sottile strato di “migliori” si elevava al di sopra delle masse, riproponeva una linea presente in molte delle ideologie del periodo interbellico, dalle teorie sulle élite di Mosca alle avanguardie del proletariato del Che fare? di Lenin. Non tutti infatti, secondo Eliade, potevano realizzare la missione di risvegliare lo spirito nazionale, solo gli spiriti “creatori di fatti” erano deputati a raggiungere questo obiettivo. Gli uomini comuni potevano dare il loro contributo nelle piccole cose, comportandosi in modo onesto e facendo tutto il possibile per il bene del paese, solo pochi però erano in grado di cambiarne le sorti, farlo ascendere tra i massimi rappresentanti culturali del continente. Gli intellettuali, i grandi personaggi della cultura nazionale, dovevano es52 53
Corsivo dell’autore. M. ELIADE, Cultură sau politică?, “Vremea”, an.VIII, n. 377, 21 febbraio
1935.
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sere spiriti creatori, capaci cioè di dare vita a opere concrete, e in effetti erano definiti da Eliade creatori di “fatti”, perché le loro idee potevano cambiare la storia e risvegliare della spiritualità romena54. Nella ricerca di spiriti creatori il suo pensiero dimostrava una connotazione eminentemente vitalista. Naturalmente Eliade proponeva come esempio di spirito creatore il suo maestro Ionescu, che aveva parlato di stato contadino quando di moda era il liberalismo, di amore come strumento di conoscenza quando imperava la logica55. L’obiettivo degli illuminati che avrebbe risvegliato la coscienza del paese era secondo Eliade la rinascita della romenità intesa come patrimonio dei valori della cultura romena. Eppure il concetto di romenità assumeva per Eliade caratteristiche piuttosto ambigue. Al contrario di Ionescu, Eliade ad esempio si rendeva conto che la cultura liberale rappresentava solo un aspetto di quella occidentale. Egli riteneva infatti che proprio a Bucarest, nella città più cosmopolita del paese, il confronto continuo tra idee diverse stesse contribuendo alla rinascita dell’identità culturale romena56. La strategia giusta secondo lui era quella di assumere un atteggiamento costruttivo, di lottare “in positivo” per l’affermazione di certi valori57. L’idea del confronto costruttivo tra culture diverse è indice del fatto che a metà degli anni Trenta Eliade ancora rifiutava di definire la romenità in contrapposizione alle altre identità nazionali: si rifiutava cioè di considerare le minoranze etniche della Romania responsabili del basso livello di dignità della cultura romena. Considerava invece umiliante pensare di risolvere i 54
M. ELIADE, Spiritualitate 1932, “Vremea”, an. X, n. 2766, 5 gennaio 1933. M. ELIADE, Poimîne, “Criterion”, an. I, n. 1, 21 ottobre 1934. 56 M. ELIADE, Bucureşti centru viril, “Vremea”, an. VIII, n. 387, 12 maggio 1935. 57 Eliade scrive nel 1935: “Non capisco perché gridiamo al pericolo. Dove è il pericolo? Perché ci sono troppi esponenti delle minoranze nei posti di comando? Se ne andranno per mezzo della concorrenza, con le nostre forze”, anche se non esclude la possibilità di ricorrere a “leggi amministrative, se occorre”. Esclude tuttavia che “questo possa mettere in pericolo la romenità” e aggiunge “Noi non abbiamo bisogno dell’intransigenza e dell’intolleranza, che sono vizi estranei alla nostra struttura”. Cfr. M. ELIADE, Românismul şi complexe de inferioritate, “Vremea”, an. VIII, n. 386, 5 maggio 1935. 55
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problemi della romenità eliminando gli avversari: una cultura forte doveva secondo lui riuscire ad affermarsi con le proprie forze. Eliade riteneva anche possibile che esponenti di altre minoranze, compresa quella ebraica, accettassero la cultura romena diventandone a pieno titolo rappresentanti. Eliade infatti non ammetteva la condanna senza appello che Ionescu e altri filosofi o teologi avevano pronunciato nei confronti degli ebrei. Alla fine del 1933 aveva anche preso parte a un dibattito a distanza con un altro intellettuale, R coveanu, proprio su questo tema. Dato che questi in un articolo su Credin a aveva criticato aspramente Eliade per aver sostenuto che né i Testi Sacri né la Chiesa avevano mai affermato che gli ebrei fossero destinati alla dannazione, Eliade ribadì la sua convinzione della possibilità di una conversione collettiva del popolo ebraico e sostenne fermamente di non aver trovato alcun riferimento diretto nelle Sacre Scritture a sostegno di una tesi di condanna definitiva nei confronti di questo popolo; un popolo, ricordava Eliade, dal quale era nata la progenie di Abramo e della cristianità. Al contrario, solo eretici come Marcione e Baius, o Giansenio, avevano sostenuto una simile tesi ricevendo l’immediata scomunica della Chiesa. Nel Vangelo di Giovanni si leggeva, era vero, che i non credenti sarebbero stati dannati per sempre, ma non si poteva secondo lui fare un discorso aprioristico e generalizzato sui popoli: il testo si riferiva a tutti coloro che erano finiti “preda di Satana”, indipendentemente dal popolo da cui provenivano58. Le stesse convinzioni vennero espresse nel 1934, quando Eliade intervenne nel dibattito seguito alla prefazione di Ionescu al libro di Sebastian59. Il un lungo articolo che egli scrisse a margine della polemica, evidenzia un certo equilibrio e una certa pacatezza nei toni. Eliade rifiutava la polemica e cercava di distinguere le sue argomentazioni su diversi piani. Prima di tutto interveniva sulle accuse che erano state M. ELIADE, Creştinatatea fa ă de Judaism, “Vremea”, an. VII, n. 349, 5 agosto 1934. 59 Eliade ricorda i tormenti di Sebastian una volta letta la prefazione, la tentazione di rimandare indietro il testo, gli attacchi dall’estrema destra all’estrema sinistra (Belu Silber su Şantier e Petru Manoliu su Credin a per fare due esempi). Cfr. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 313. 58
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mosse a Sebastian e Ionescu, definendole ingiustificate. Eliade si chiedeva quale fosse la causa dello scandalo scoppiato intorno al libro, che egli considerava un libro sugli ebrei come tanti altri apparsi in Romania60. Le accuse all’autore del libro erano secondo Eliade legate non tanto al merito delle sue affermazioni quanto piuttosto al fatto che uno scrittore ebreo come lui avesse accettato (con grande coraggio, diceva Eliade) di includere nel testo una prefazione che poteva facilmente essere considerata antisemita. I correligionari ebrei non avevano perdonato al suo amico Sebastian la scelta di chiamare il nazionalista Ionescu a scrivere la prefazione: egli si sarebbe dimostrato cioè “troppo tollerante”. Eliade giudicava i critici superficiali tanto nel giudicare l’opera di Sebastian quanto la prefazione di Ionescu. Più che antisemita la prefazione del romanzo, a suo parere, si poteva definire “scomoda”, nel senso che diceva cose non piacevoli per gli ebrei, preconizzando loro un destino di eterna sofferenza. In realtà questa prefazione, per usare le parole di Eliade, “ha a che fare con l’imponderabile”, poiché si muoveva su un piano di filosofia della storia: ovvero non dava giudizi, ma si limitava a parlare delle conseguenze che la naturale evoluzione della storia avrebbe avuto su di una particolare comunità, quella ebraica. Non si sarebbe dovuto quindi parlare di antisemitismo. Di antisemitismo si doveva parlare secondo Eliade solo quando ci si riferiva ai fanatici, che prendevano posizione contro qualcuno accusandolo di nefandezze e lo perseguitavano. La stampa rumena, soprattutto quella democratica invece avrebbe equivocato spesso il termine “per cui se sei nazionalista, cioè ami il tuo paese, credi nel suo destino e ti sacrifichi per esso (…) sei antisemita! Allora tutti i buoni cittadini di tutti i paesi sono antisemiti”. Ionescu secondo Eliade non aveva lanciato accuse, ma semplicemente constatato la sofferenza degli ebrei, cercando di individuarne le cause. Eliade accusava quindi la stampa di 60
“Mi chiedo cosa ci sia di irritante in questo libro. Senza dubbio non il fatto che si occupi di ebrei: sono già apparsi libri sugli ebrei scritti da ebrei e sono stati giudicati senza nervosismi, ma al contrario lodati”. Allora forse il fatto che in questo libro gli ebrei soffrono a causa del destino o di cause contingenti? Neanche questo”.
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avere attaccato Ionescu su questioni contingenti di carattere economico o politico, mentre il problema non sarebbe stato a suo avviso quello della sostenibilità delle tesi di Ionescu su questi piani, bensì sul piano della filosofia della storia. Dopo aver difeso il proprio maestro dagli attacchi dell’opinione pubblica, Eliade non esitò a dissentirne sul piano delle argomentazioni. Egli anticipò sin dall’inizio, prima ancora di presentare le sue obiezioni alle critiche nei confronti di Sebastian e Ionescu, che: “per quanto mi riguarda, devo fare obiezioni sia all’autore sia al mio professore Nae Ionescu”. Nello specifico Eliade rimproverava a Sebastian l’ingenuità di chiedere a Ionescu una prefazione senza immaginare quale impostazione avrebbe potuto avere. Lo dice anche nelle sue memorie: “gli ultimi avvenimenti dovevano avvertirlo in che senso sarebbe stata scritta la prefazione, ma Mihail Sebastian non ammetteva in nessun modo di rinunciarvi. Amava e ammirava troppo Nae Ionescu per lasciarsi impressionale dal suo attuale orientamento politico”61. Dopo aver fatto le sue osservazioni sul comportamento di Sebastian, Eliade entrava nel merito delle tesi sostenute da Ionescu nella prefazione. “Mi sembra che il punto di vista della filosofia cristiana che conserva Nae Ionescu nella seconda parte della prefazione non possa essere sostenuta (…). Un cristiano, un teologo cristiano non può cadere nel peccato della disperazione, non può affermare l’universalità del destino di sofferenza di Israele.” Ma questo non era a suo parere sufficiente per affermare che Ionescu fosse un antisemita o un fanatico. D’altra parte la negazione conclamata da Ionescu della possibilità di una conversione degli ebrei convinceva Eliade: Ionescu sosteneva che la conversione della comunità ebraica era impossibile, perché la comunità cristiana era per lui una comunità organica chiusa alla quale non si poteva accedere provenendo da una realtà diversa. In questo modo però, per Eliade, Ionescu si sarebbe spostato dal piano della filosofia della storia a quello della teologia: ma la libertà di Dio di decidere non poteva essere negare e ciò implicava che una possibile conversione collettiva del popolo ebraico, sostenuta da “fermento 61
M. ELIADE, Memori…, cit., p. 310.
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messianico” non potesse essere esclusa a priori62. In questo Eliade si ricollegava al suo modello Eminescu, da lui spesso citato come punto di riferimento. Mentre Ionescu aveva parlato di sofferenza del popolo ebraico, Eliade, pur non ignorando la “sofferenza”, la riconduceva a un “complesso di inferiorità” degli esponenti di questo popolo, che qualunque cosa facessero si trovavano a dover dar conto della loro appartenenza etnica. Eppure questa situazione era dovuta secondo Eliade al contesto in cui le comunità ebraiche vivevano: “bisogna guardare le cose come stanno: i complessi di inferiorità giudaici sono provocati soprattutto dalla storia del mondo cristiano”63. Eliade non credeva quindi nel destino di sofferenza eterna degli ebrei, non parlava degli ebrei come di un popolo “diverso” e anzi criticava aspramente tutte le forme di intolleranza religiosa, da quella dei bolscevichi contro i cristiani a quelle naziste contro gli ebrei. Se la posizione di Ionescu relativamente alla questione ebraica restò sostanzialmente la stessa nel corso del tempo, pur precisandosi e approfondendosi, nel caso di Eliade, alla luce degli articoli pubblicati su varie riviste, si può individuare una effettiva evoluzione tanto nelle convinzioni, quanto nei toni con cui egli affrontò questo tema. La questione è piuttosto delicata anche alla luce del dibattito storiografico che si è sviluppato dopo la II guerra mondiale sul suo antisemitismo. Comunque gli articoli dedicati a questo tema attorno al biennio 1934-35 mostrano un Eliade abbastanza lontano da Ionescu e dall’antisemitismo radicale, tanto è vero che il 14 febbraio 1934 in un articolo su Credin a Eliade metteva sullo stesso piano comunisti e nazisti per la loro politica di intolleranza religiosa: “Come possiamo noi imitare l’hitlerismo che perseguita la cristianità o il comunismo che incendia la cattedrali? (…) Fanatici e barbari sono sia i comunisti che incendiano chiese – come anche i fascisti persecutori degli ebrei. Sia gli uni che gli altri calpestano l’umanità, la fede intima che ognuno è libero di 62
M. ELIADE, Judaism şi antisemitism, “Vremea”, an. VII, n. 347, 22 luglio
1934.
M. ELIADE, Românismul şi complexele de ‘inferioritate’, “Vremea”, an. VIII, n. 386, 5 maggio 1935. 63
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avere (…). Guardate la destra: uomini decapitati in Germania, pensatori imprigionati in Italia, preti cristiani torturati in Germania, ebrei espulsi. Guardate la sinistra: preti cristiani al patibolo in Russia, libertà di pensiero punita con la morte, fanatismo dei comunisti di Parigi, quei bravi comunisti francesi che militano per un alto ideale umanitario e si inaugura l’evo incendiando le cattedrali”64. Oltre che antisemita, in questo periodo Eliade non può evidentemente essere considerato neanche filonazista. Dal nazismo e dal fascismo Eliade era lontano prima di tutto a livello ideologico: egli rifiutava nettamente qualunque teorizzazione razzista. Erano forse i suoi studi sulle religioni e le civiltà orientali che lo guidavano in questo rifiuto? È un fatto che nel 1933 Eliade nel commentare due film razzisti di produzione tedesca: “I Nibelungi” e “La casa dei misteri” li definisse ridicoli, accusandoli di un uso distorto della storia al puro scopo di esaltare la razza bianca “ariana”. Senza rinunciare alle aspre critiche al comunismo Eliade non si limitava a definire l’ideologia nazista come ridicola, ma del nazismo coglieva anche la pericolosità: “da un po’ si cerca di introdurre un’altra ideologia straniera forse più pericolosa della precedente: l’ideologia fascista-hitlerista, basata sulla lotta di razza e di religione, sullo sciovinismo senza umanità e su un patriottismo ridicolo”. Eliade nel febbraio 1934 attaccava chiunque volesse importare un simile modello in Romania: “come possiamo imitare l’hitlerismo che perseguita il mondo cristiano o il comunismo che incendia le cattedrali?”65. L’atteggiamento ancora tollerante di Eliade nei confronti delle minoranze dimostra come il suo avvicinamento alla politica attiva fu alquanto graduale e nel biennio 1933-34, ancora piuttosto ambiguo. Basti pensare che appena un anno prima del caso Sebastian, nel 1933, egli si era difeso dalle accuse di essersi “convertito alla politica” sostenendo di avere sempre militato con tanti altri a sostegno della valorizzazione dell’esperienza e della spiritualità, per il trionfo di una cul-
64 M. ELIADE, Contra dreptei şi contra stângii, “Credin a”, an. II, n. 29, 14 febbraio 1934. 65 M. ELIADE, Contra…, cit.
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tura autentica e della creatività66, e rifiutando di riconoscere una discontinuità rispetto al suo pensiero precedente. Ma solo un anno più tardi della sua difesa di Sebastian, nel 1935, Eliade sostenne che far parte della romenità fosse naturale per ogni romeno: “la romenità non si discute, essa si afferma su ogni piano dell’esistenza. Non puoi discutere il tuo destino biologico, puoi al massimo emigrare o suicidarti. Siamo romeni per il semplice fatto che siamo vivi”, affermazioni certo non così lontane da quelle di Ionescu: alla cui base si poteva riscontrare la stessa concezione etnico-culturale di nazione67. Come si può notare queste affermazioni mal si conciliano con quelle di due anni prima: se la partecipazione alla romenità è un destino biologico infatti, non dovrebbe essere certo possibile accedervi con una semplice conversione. Evidentemente tra il 1933 e il 1935 ci fu un’evoluzione significativa del pensiero di Eliade, significativa ma non completa. Infatti nello stesso articolo in cui definiva la romenità un destino biologico, egli rifiutava di ricondurre questa concezione all’hitlerismo o al fascismo, poiché – diceva – sarebbe come accusare Eminescu di essere nazista o Pârvan di essere fascista. Addirittura secondo lui chi sosteneva e difendeva i valori della romenità non poteva neanche essere considerato nazionalista perché alla romenità non si poteva rinunciare “perché su Karl Marx si può dire di sì o di no e nessuno si arrabbia. Ma sulla tradizione di Eminescu, Pârvan e Iorga non si può che dire sì (…)”68. In realtà la volontà di rendere eterna l’impronta del proprio paese nella storia, l’aspirazione all’eternità per il popolo che ogni uomo dovrebbe avere, non erano altro che una forma di nazionalismo, tanto è vero che Eliade chiamava ogni romeno a lottare per la nazione. Ma le ambiguità non finivano qui: dopo aver negato che la Romania fosse paragonabile alla Germania di Hitler o all’Italia di Mussolini, Eliade citava questi due paesi accanto all’antica Grecia, all’Inghil-
66 M. ELIADE, O convertire la românism, “Cuvântul”, an. X, n. 3020, 22 settembre 1933. 67 M. ELIADE, Criza românismului?, “Vremea”, an. VIII, n. 375, 10 febbraio 1935. 68 Ibidem.
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terra e alla Russia come esempi di stati69 capaci di compiere un salto di qualità per lasciare la loro impronta nella storia. Eliade manteneva quindi la sua identificazione tra nazione e cultura, ma questa volontà che la cultura romena fosse elevata a sistema universale non era tutto sommato molto diversa dai propositi di imperialismo culturale del nazismo. 4.2 Il percorso di Cioran Se Eliade adottò inizialmente una posizione critica nei confronti del nazismo, Cioran potrebbe essere definito vittima di una vera e propria “infatuazione intellettuale” per la Germania di Hitler. Il soggiorno berlinese tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 fu il momento di svolta. Come dimostrano gli articoli scritti per Vremea in questa occasione, egli rimase profondamente affascinato dall’idea nazista di una politica “totale”, che occupasse ogni spazio della vita individuale e sfruttasse ogni forza a disposizione per sostenere l’ideale nazionale e portare a termine la sua missione: “Non si può neanche spiegare in che proporzioni l’idea di pienezza della razza, di assoluto della nazione, del valore esclusivo della comunità ha eliminato dall’ideale tedesco di educazione l’esistenza soggettiva. (…) In Germania la rivoluzione nazionale si è affermata in mezzo a grandi difficoltà, perché sul piano psicologico i nazisti non hanno avuto altra missione che risvegliare le qualità specificamente tedesche, indebolite dal disastro bellico. Quando penso che invece in Romania non c’è il desiderio di una trasformazione totale (…)”. Siamo su un piano se vogliamo opposto a quello di Eliade: per Eliade infatti la politica poteva essere al massimo un mezzo per l’affer69 “Credo che ogni nazionalismo viva, in modo più o meno manifesto, questa sete di eternità per il suo popolo”. Sarebbe quindi necessario “lottare per questa identità (…). Esiste una sete di eternità in ogni uomo, sete per il suo popolo e per la sua terra. Ma esiste anche un altro tipo di eternità, un salto al di là della storia per mezzo del quale un paese e un popolo entrano e restano nella storia eterna. Un salto che hanno fatto l’antica Grecia, l’Italia, l’Inghilterra, la Germania e la Russia”. Cfr. M. ELIADE, România în eternitate, “Vremea”, an. VIII, n. 409, 13 ottobre 1935.
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mazione culturale nazionale, laddove per Cioran l’obiettivo doveva essere la costruzione di un paese forte soprattutto politicamente. Anche Cioran come Eliade intendeva liquidare la Romania mediocre del passato, ma per lui la rottura con la tradizione doveva essere completa e doveva riguardare la politica come la cultura, l’economia come la struttura sociale. Questo è l’aspetto che Cioran maggiormente ammirava in Hitler: la sua capacità di aver fatto della Germania una grande nazione protagonista nel mondo andando oltre il suo passato, laddove la Romania continuava a muoversi su orizzonti di mediocrità70: “nulla è più triste di vedere in Romania un ritmo rallentato di vita, un rilassamento precario dell’energia vitale e la caduta drammatica della nostra esistenza storica (un popolo non si afferma nella storia se non ha un substrato vitale, pronto costantemente a esplodere)”71. L’esempio della Germania era contrapposto alla mediocrità della Romania che dall’esperienza tedesca doveva secondo lui prendere esempio. Questo non significava, Cioran lo diceva apertamente, che la Romania dovesse appiattirsi sulla politica tedesca. Sulla politica estera, in particolare gli obiettivi dei due paesi erano apertamente divergenti, data la posizione revisionista del Reich sui trattati di pace della I guerra mondiale. La Germania doveva però rappresentare un modello ideale per il suo profilo di stato forte72. Non a caso Cioran la citava spesso accanto all’Unione Sovietica bolscevica, altro esempio di Stato forte in cui la vita individuale era stata assoggettata alla politica. Cioran aveva quindi come punti di riferimento la Germania e la Russia, le uniche che secondo lui avessero un’attitudine “etica”, privilegiavano cioè una dimensione che andava oltre l’esistenza contingente e aspirava all’affermazione di valori più alti. La carta vincente di questi due paesi era la capacità di mettere la società e ogni aspetto della vita privata a servizio della propria ideologia, di proporre cioè una politica “totale”. La loro capacità di sfruttare tutte le forze nazionali e soprattutto i giovani fu uno degli aspetti che maggiormente at70
E. CIORAN, Problematica etică, “Vremea”, an. VII, n. 324, 4 febbraio 1934. E. CIORAN, Cultul puterii, “Vremea”, an. VII, n. 351, 26 agosto 1934. 72 E. CIORAN, România în fa a străinăta ii, “Vremea”, an. VII, n. 355, 29 aprile 1934. 71
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trasse Cioran. Una delle più forti immagini degli articoli scritti durante il soggiorno tedesco è quella della gioventù in uniforme a Berlino73. L’esaltazione della gioventù accomunava, come si è visto, tutta la giovane generazione degli intellettuali romeni e Cioran era affascinato, anche e forse soprattutto esteticamente, dal ruolo che veniva riservato ai giovani nella Germania hitleriana e lo vedeva come un sintomo della vitalità della nazione tedesca, portata ad esempio alla “mediocre” e inerme Romania. “Quando vedo a Berlino la gioventù hitlerista vestita in uniforme con la baionetta e la bandiera con un aspetto solenne e allo stesso tempo aggressivo, come se la guerra stesse per iniziare da un momento all’altro, quando vedo questi giovani che iniziano a cinque anni irregimentati e integrati totalmente in un partito politico, non posso trattenere un senso di rivolta e disgusto pensando alla distanza che separa la gioventù tedesca da quella rumena, abbandonata a un disordine sterile, distrutta e derisa dall’ufficialità stessa. Per quanto l’hitlerismo sia criticabile e per quanto sia ingiusta e particolarista l’ideologia nazionalsocialista, il fatto che nella nuova Germania la gioventù sia tanto brillantemente organizzata, che abbia una visione tanto vitale e attiva della nazione e che così un’intera generazione sia stata salvata dalla disperazione mi fa pensare che in definitiva (…) la dottrina non abbia tanta importanza”74. Ma se il risveglio delle forze sociali era il sintomo della vitalità della nazione, ciò che faceva della Germania e della Russia esempi da seguire era la loro ideologia improntata al perseguimento di una “missione”, l’affermazione della propria nazione nel mondo. Ogni nazione che aspiri a diventare “grande” aveva infatti a suo avviso una missione75, per questo era necessario che fosse guidata da un governo forte che se ne facesse carico, valorizzando le forze vitali della gioventù e operando un inquadramento organico e messianico della nazione nel suo destino storico. Cioran dimostrò quindi di con73 E. CIORAN, Dictatura şi problema tineretului, “Vremea”, an. VII, n. 358, 7 ottobre 1934. 74 E. CIORAN, Despre o altă România, “Vremea”, an. VIII, n. 376, 17 febbraio 1935. 75 E. CIORAN, Elogiul profe iei, “Vremea”, an. VII, n. 338, 27 maggio 1934.
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dividere un interpretazione volontarista della storia come scenario della realizzazione dei destini nazionali. Al contrario di Eliade però Cioran pensò sin dall’inizio che artefice della realizzazione di questa missione dovesse essere un movimento politico, un governo forte che irregimentasse la nazione e ne sapesse sfruttare le risorse. Cioran cercò quindi per la Romania qualcosa di analogo al nazismo: “quello che mi turba e allo stesso tempo mi è apparso coinvolgente dell’hitlerismo è il suo carattere di fatalità, di inesorabile collettivo, come se tutti gli uomini fossero strumenti di un divenire demoniaco, resi fanatici fino all’imbecillità”76. Le differenze con Eliade riguardano peraltro anche l’idea di missione: Cioran la intendeva nel senso più concreto della creazione di una potenza politica, culturale ed economica, per Eliade come si è detto invece il profetism era l’affermazione del “primato dello spirituale-culturale”, indipendentemente dalle conseguenze che avrebbe avuto sulla posizione della Romania nel mondo. Mentre Eliade diceva di preferire una Romania piccola, che perdesse qualcuna delle sue province, ma mantenesse la sua identità culturale e la sua intellighentsia77, Cioran parlava invece di un messianismo non astratto, che non si accontentasse di formule e desiderasse qualcosa di concreto, un messianismo imperialista il cui corollario era la creazione di una Romania politicamente forte78.
5. La seconda metà degli anni Trenta: da sostenitori a militanti 5.1 Nae Ionescu: eminenza grigia della Legione Quando Ionescu uscì di prigione, la situazione in Romania era assai tesa e il provvedimento di sospensione della libertà di stampa ancora 76
E. CIORAN, În preajma dictaturii, “Vremea”, an. X, n. 476, 21 febbraio 1937. Frase di Eliade citata in M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 93. 78 E. CIORAN, Schimbarea…, cit., p. 52.
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
in vigore. Ionescu non chiuse la redazione di Cuvântul e addirittura continuò a pagare i redattori nonostante il giornale fosse ancora sospeso, mantenendo unito il gruppo dei suoi collaboratori79. È controverso con quali risorse Ionescu sia riuscito a mantenere unito il nucleo di giornalisti del suo quotidiano: in un documento del Ministero si parla di finanziamenti provenienti dalla Germania, ma si tratta di frasi isolate attribuite a una delegazione sovietica in visita ufficiale a Bucarest80, per cui è difficile verificarne l’autenticità. Dopo l’esperienza del campo di prigionia il legame tra Ionescu e il movimento di Codreanu si rafforzò. Ionescu diventò il leader spirituale dei legionari, che avevano l’obbligo di partecipare alle sue conferenze e di “manifestare a favore del professore e del movimento legionario”81. Codreanu e il suo movimento rappresentavano per Ionescu la possibilità di risvegliare la Romania: tramontata la speranza di riformare lo stato dall’interno, vuoi attraverso il Partito NazionalContadino, vuoi con Carol II, altra strada non gli sembrava possibile, specie dopo la reclusione, che quella di una rottura con le istituzioni democratiche. Per questo si pronunciò a favore della Guardia di Ferro, un movimento speciale e diverso dai partiti tradizionali perché intendeva realizzare una rivoluzione cristiana con l’obiettivo di superare la democrazia e lo stesso concetto di Stato costruendo, analogamente a 79
“Non ho mai capito – dice Eliade – su cosa si basasse la sua speranza che, prima o poi, Cuvântul potesse riapparire. Con ‘il Palazzo’ si trovava nei peggiori rapporti. Aveva nemici non solo tra gli uomini politici e giornalisti di sinistra, ma anche tra quelli di destra”. Cfr. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 341. 80 Nel documento del 23 aprile 1938 si fa riferimento alle critiche della delegazione sovietica per l’atteggiamento poco fermo tenuto dalle autorità romene nei confronti dei legionari e si adduce come esempio dei legami tra questi ultimi e i governi nazionalisti stranieri “il ritorno trionfale da Berlino di Nae Ionescu con un’automobile Mercedes ricevuta in dono e i suoi stretti legami con una certa delegazione a Bucarest”. Cfr. Dosar 22/1938, Diverse, Fond Documentar, Ministerul de Interne. Una testimonianza che può suffragare questa ipotesi si può individuare nella biografia di Vulc nescu: egli ricorda come nel 1936/1937, quando era direttore della Dogana, abbia ricevuto una visita da Ionescu che gli chiedeva un aiuto per introdurre in Romania un’automobile Maybach dalla Germania. Cfr. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 71. 81 Dosar 203/1935, Fond Direc ia General a Poli iei, Ministerul de Interne.
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quanto accaduto in buona parte dell’Europa continentale, “una nazione intesa come unità organica spirituale”82. Il punto di non ritorno nell’impegno legionario di Ionescu fu rappresentato dall’estremo tentativo da lui compiuto nel 1936 per ricucire lo strappo con il re. Ionescu scrisse a Carol II una lettera nella quale accusava Titulescu e i liberali di incompetenza in politica estera e di non comprendere l’evoluzione del panorama internazionale. Il timore era che i liberali portassero la Romania “all’isolamento da tutte le forze realmente attive dell’Europa del futuro”83. Il tentativo fallì perché era ormai chiaro che il solco tra il regime monarchico di Carol e Ionescu era troppo profondo e d’altronde Ionescu aveva trovato in Codreanu quel capo carismatico capace evidentemente ai suoi occhi di riassumere in sé la volontà collettiva del popolo. Da questo momento in poi Ionescu condivise ogni aspetto dell’ideologia legionaria, dai metodi di lotta all’antisemitismo. Egli prese infatti apertamente posizione a favore dei legionari, non esitando a comparire anche in un processo come testimone a difesa di sette giovani studenti accusati di aver picchiato uno studente liberale che diffondeva un volantino anti-nazionalista: nel corso dell’interrogatorio Ionescu giustificò la violenza come mezzo di lotta politica84, così legittimando anche i metodi adottati dalla Guardia di Ferro. La sua adesione al movimento legionario fu tale da avere risvolti piuttosto ridicoli, per cui le misure antisemite adottate dal governo Goga venivano criticate pur essendo analoghe a quelle proposte nel programma della Guardia di Ferro che venivano sostenute; e a chi, N. IONESCU, “Biseric , Stat şi na iune”, Predania, 1 aprile 1937. Dosar V/633, an. 1936, Fond Casa Regal – Personale Carol II, Ministerul de Interne. La lettera è del 19 marzo 1936. 84 Il 26 gennaio del 1937 sette studenti aggrediscono il liberale R dulescu. Ionescu si presenta come testimone per la difesa e nel corso dell’interrogatorio, alla domanda del magistrato “crede il testimone che le percosse possano essere un mezzo di sanzione?” Ionescu risponde “In Danimarca – paese civilizzato – le percosse sono un mezzo di correzione pubblica. Darò un esempio. Se un cittadino fa qualcosa all’angolo della strada, il sergente lo conduce alla prima sezione, dalla quale è portato in strada e i primi passanti vengono fermati. Due lo tengono e il terzo lo picchia. Quindi le percosse sono una sanzione, che non è affatto barbaro”. Cfr. Procesul celor şapte studenti, “Buna Vestire”, an. I, nr. 32, 30 marzo 1937. 82
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come Sebastian, gli faceva notare come questo atteggiamento risultasse incoerente e incomprensibile, Ionescu avrebbe risposto che le analogie riguardavano solo “i fatti, ma non lo spirito. Perché, caro mio, per quanto tu possa sorriderne, tra un uomo che ti uccide con derisione e un altro che fa la stessa cosa ma con il dolore nel cuore, c’è una grande differenza”85. Ionescu sfruttò ogni occasione per affermare e diffondere la propaganda legionaria e, non avendo più a disposizione Cuvântul, fece ricorso a canali alternativi per far arrivare il suo messaggio all’opinione pubblica. Questo gli consentiva di avere un contatto diretto in particolare con i giovani: i suoi corsi divennero sempre più popolari86 e ogni occasione fu buona per celebrare la Legione: Sebastian ricorda ad esempio la lezione del 20 marzo 1935, definita “soffocante. Guardismo bello e buono, senza sfumature, senza complicazioni, senza scuse”. Ionescu parla della politica come della conquista del potere e della nazione come di “un collettivo che ha in sé l’idea di guerra”87. Anche in occasione dell’apertura del corso di logica politica per l’anno universitario 19351936 Ionescu pronunciò una lezione di apertura che è considerata da Sebastian “una piccola professione di fede guardista”88. I centri studenteschi chiamarono più volte Ionescu a tenere discorsi89 ed egli fu celebrato come una vera e propria guida spirituale da molti giovani intellettuali90. Sebastian nel suo Jurnal ricorda un episodio esemplare in proposito: l’11 febbraio 1935 Ionescu avrebbe dovuto tenere una conferenza sulla solidarietà nazionale alla Fondazione Carol I. La conferenza fu vietata all’ultimo momento e gli studenti che si erano adunati furono allontanati dalla polizia. Essi però reagirono, difendendo il professore e sollevandolo addirittura “sulle loro spalle” per farlo parlare, senza preoccuparsi della reazione violenta delle forze dell’ordine91. 85
M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 145. M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. I, p. 341. 87 M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 23. 88 Ivi, p. 40. 89 I. C PREANU, op. cit., p. 80. 90 I. C PREANU, op. cit., p. 82. 91 M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 19.
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L’immagine di Ionescu portato in trionfo dagli studenti che lo difendono dalla volontà delle istituzioni di impedirgli di parlare è rappresentativa tanto del fanatismo ormai diffuso nella società romena quanto della condizione di uno Ionescu ormai irrimediabilmente escluso dalla politica che conta, la cui unica gratificazione era la valorizzazione del suo ruolo di mentore dei legionari. Il momento culminante dell’esperienza legionaria di Ionescu si ebbe tra il 1935 e il 1938 e questa radicalizzazione del suo orientamento politico corrispose all’assunzione di posizioni più radicali anche in politica estera, in cui diventò un aperto sostenitore di Hitler. Ancora Sebastian ricorda in un viaggio in treno nella primavera del 1935 con Ionescu che si recava a Gala i per una conferenza su “Segni e simboli”, di aver assistito a una conversazione tra il suo professore e un altro passeggero sulla situazione politica e di essere rimasto “colpito e depresso” dal tono delle argomentazioni di Ionescu e dai suoi racconti, in cui non esitava a mentire sostenendo di aver conosciuto personalmente Hitler, definito “un grande uomo politico”, soprattutto se paragonato a Stalin, che è “uno stupido”92. Ionescu era ormai convinto che il nazional-socialismo fosse un movimento politico in grado di costruire una comunità spirituale in Germania, che condividesse i valori di una religione politica in grado di superare la contrapposizione tra cattolici e protestanti e le divisioni secolari in diverse strutture politiche93. La carta vincente di Hitler era secondo Ionescu proprio la sua scelta di sostituire i principi della fede con quelli dell’ideologia politica, di plasmare un uomo nuovo tedesco, con una nuova identità religiosa unitaria. L’impegno a fianco del fascismo internazionale portava Ionescu a scrivere la prefazione a Crez de genera ie [Fede di una generazione], che raccoglieva gli scritti più importanti di Vasile Marin, uno dei due legionari (con Ion Mo a) partiti per la Spagna e morti nella battaglia di Majedahonda94. Lo stesso Ion Mo a lasciò a Ionescu il proprio testa92
M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., pp. 21-22. M. VULC NESCU, Nae Ionescu…, cit., p. 141. 94 Sebastian nel diario racconta di come Ionescu abbia parlato in due conferenze a Varsavia e a Lemberg nel 1937, “della nuova Romania, partendo dal sacrificio di Ion 93
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
mento e una serie di lettere personali da consegnare nel caso in cui fosse perito in battaglia95. A morte avvenuta, la rivista Predania, una rivista di critica teologia diretta da R coveanu e nella quale Ionescu si adattò a scrivere dopo la chiusura di Cuvântul, pubblicò nel febbraio del 1937 un necrologio in onore di Ion Mo a e Vasile Marin, nel quale si può leggere “la Romania nuova, la Romania delle grandi responsabilità morali doveva essere presente … Mo a e Marin sono stati plenipotenziari del destino romeno. Il loro martirio significa il coronamento di una missione: la costruzione a costo di ogni sacrificio di una Romania cristiana”. Con loro “un intero popolo, alla fine di una lotta millenaria per la difesa della sua essenza spirituale contro tutte le avversità inizia a raccogliere il suo spirito, a mobilitare l’eroismo e usare tutta la sua energia nella lotta per la salvezza”96. Difficile non vedere in questo la mano di Ionescu, che poco dopo incontrò Julius Evola97 e compì un viaggio in Germania. Del probabile significato politico di tale viaggio parla un documento del Ministero degli Interni del 6 dicembre 1937, che presuppone si trattasse di una “missione per conto della Guardia di Ferro”98. Tutto questo impegno a fianco della Guardia di Ferro e delle sue imprese in patria e all’estero costò alla fine a Ionescu la perdita dell’insegnamento, da cui fu sollevato con decreto regio. La ripresa temporanea delle pubblicazioni di Cuvântul nel gennaio 1938 non cambiarono la situazione personale di Ionescu, tanto più che il 20 febbraio 1938 Carol II sospese la Costituzione del 1923, sostituendola con una autoritaria che concentrava tutti i poteri nelle sue mani. Quella che era dunque una misura auspicata da Ionescu qualche anno prima, quando sperava di avere nel re la figura carismatica che ora aveva trovato in Codreanu, diventava a questo punto proprio la scure con cui il sovrano cercava di tagliare alla radice non solo gli odiati partiti fauMo a, che ‘è andato in Spagna non per combattere, ma per morire”. Cfr. M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 111. 95 Dosar 113/1933, Fond Direc ia General a Poli iei, Ministerul de Interne. 96 Ion Mo a şi Vasile Marin, “Predania”, 15 febbraio 1937. 97 I. C PREANU, op. cit., p. 123. 98 Dosar 2/1937, Diverse, Ministerul de Interne.
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tori della democrazia parlamentare, ma la stessa Guardia di Ferro. Il 30 marzo furono sciolti tutti i partiti e le associazioni politiche. Contro la Guardia di Ferro vennero prese misure particolarmente dure: non solo i membri attivi del movimento, ma anche i fiancheggiatori vengono arrestati e chiusi in campi di concentramento. Le pubblicazioni di Cuvântul furono sospese lo stesso giorno dello scioglimento dei partiti e nella notte tra il 16 e il 17 aprile Ionescu fu arrestato e internato nel lager di Miercurea Ciuc. Le accuse a Ionescu rimanevano quelle di fiancheggiamento della Guardia di Ferro e di attività propagandistica a favore dei legionari. La solidarietà di Ionescu con la Guardia di Ferro non venne meno; al contrario, si rafforzò nei mesi successivi all’arresto. All’interno del campo di concentramento Ionescu tenne delle conferenze ai legionari in cui esponeva il suo pensiero politico e filosofico. Quattro di queste conferenze, pronunciate nel maggio del 1938, furono pubblicate tra agosto e settembre nel Buletin Informativ [Bollettino Informativo] dei legionari in esilio a Berlino. Non si tratta di una relazione stenografata, ma degli appunti di uno dei partecipanti. Tuttavia, secondo il prete ortodosso Ştefan Palaghita, uno dei legionari presenti alle conferenze, il resoconto si può considerare attendibile99. Nelle conferenze Ionescu esponeva il suo modello di nazione, che non differiva da quello elaborato negli anni precedenti il 1933. L’accento era però posto maggiormente sulla differenza tra la struttura spirituale della nazione romena e quella degli altri popoli, soprattutto occidentali. Nelle prime tre conferenze in particolare, Ionescu insisteva sul legame tra la struttura spirituale originaria di ogni popolo e le sue determinazioni storiche concrete: ad esempio, al razionalismo individualista dell’Occidente corrisponderebbe il capitalismo in economia100 e lo Stato liberale in politica101. Nella quarta conferenza Ionescu scendeva più nella realtà politica romena, pur senza fare riferimenti diretti. Si possono qui notare alcuni elementi che deviano leggermente dall’impostazione classica delle sue idee e si avvicinano invece a quelle di Cioran. Prima di tutto Ionescu 99
N. IONESCU, Fenomenul legionar, Antet XX Press, Bucureşti, 1963, p. 6. Ivi, p. 37. 101 Ivi, p. 39. 100
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ribadiva ancora una volta l’idea di nazione come comunità naturale di appartenenza, dalla quale non si poteva uscire che tradendo la propria identità. Secondo lui il XIX secolo era stato il secolo dello Stato nazionale, fondato su una comunità di cittadini, una realtà non organica che comprendeva tutti coloro che abitavano un medesimo territorio: la Costituzione romena del 1923 riproduceva questo tipo di Stato. Nel secolo XX si era invece affermato un nuovo tipo di nazionalismo, basato sul popolo, supporto organico dello Stato, che nasce, vive e muore. Secondo Ionescu quando il popolo acquisiva coscienza di sé diventava nazione, “collettività organica e spirituale che segue certe leggi naturali”102. Come si dimostrerà in seguito questo concetto si ritrova esattamente negli stessi termini in Schimbarea la fa ă a României [La trasfigurazione della Romania] di Cioran. Ma non era questo l’unico punto in comune tra l’affermato professore e il giovane intellettuale suo allievo: un altro tema precedentemente poco sviluppato da Ionescu e vicino a Cioran era quello del carattere offensivo e imperialistico della nazione, anche se quello di Ionescu era un imperialismo che aveva un’accezione più spirituale rispetto a quello dell’allievo. In ogni caso era un tema abbastanza anomalo nel sistema di Ionescu, soprattutto alla luce dei suoi frequenti richiami all’impossibilità e all’innaturalità delle operazioni di “esportazione” dei modelli culturali. Ionescu uscì da Miercurea Ciuc dopo la morte di Codreanu, avvenuta nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1938. Poco dopo il suo nome figurò tra i firmatari di una dichiarazione di alcuni internati a V slui, i quali ripudiavano l’adesione al movimento di Codreanu. Una copia della lettera scritta di proprio pugno da Ionescu fu presentata in prima pagina sul giornale România dell’11 dicembre del 1938, datata 6 dicembre 1938103. Il Ministero degli Interni dispose così che il professore fosse posto in libertà dal 21 dicembre 1938104. Evidentemente questa abiura era soprattutto il frutto di pressioni esterne, visto che anche fuori Ionescu non rinunciò alle critiche nei confronti della ditta102
Ivi, p. 52. Cfr. anche Dosar 29/1938, Diverse, Ministerul de Interne. 104 Ionescu è il primo della lista di coloro che hanno sottoscritto l’abiura al Movimento legionario. Cfr. Dosar 11/1930, Diverse, Ministerul de Interne. 103
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tura. La libertà durò così pochi giorni e il professore fu di nuovo arrestato. Da allora in poi Ionescu praticamente scomparve dalla scena politica: la morte di Codreanu dovette rappresentare per lui il tramonto di ogni residua speranza di cambiamento in Romania. Le sue condizioni di salute si deteriorarono: il 9 marzo 1939 fu ricoverato all’ospedale militare di Braşov, dove restò fino al 29 giugno. Nell’inverno del 1939 tornò alla sua casa di B rnea, ma qualche mese dopo, il 15 marzo 1940, morì per una crisi cardiaca105. 5.2 Eliade: fiancheggiatore o membro attivo? Come abbiamo visto, Eliade era passato dal disinteresse alla critica nei confronti del mondo politico. Nel biennio 1936-1937 egli compì un ulteriore passo in avanti, che lo portò all’impegno politico attivo a sostegno della Guardia di Ferro Il problema è capire quando e perché Eliade sia passato dal bisogno di una rivoluzione culturale alla consapevolezza che solo attraverso una rivoluzione politica si sarebbe potuto realizzare la prima. Già quando, a metà degli anni Trenta, aveva assunto una posizione critica verso il mondo politico, Eliade aveva sostenuto la necessità che un profeta illuminato guidasse il paese verso una nuova fase storica106. Allora, tuttavia, non aveva ancora scelto di impegnarsi direttamente in politica: il suo rimaneva un auspicio generico, privo di riferimenti a partiti e movimenti effettivamente operanti in Romania. Eliade cominciò a identificare in Codreanu il profeta tanto atteso per la Romania intorno al 1936, come testimoniano i suoi articoli e alcuni suoi contemporanei, tra i quali Mihail Sebastian. Il diario di quest’ultimo registra infatti giorno dopo giorno la radicalizzazione della posizione politica di Eliade, inevitabilmente parallela al deterio105
Recentemente è circolata, presso parte della storiografia romena, la tesi di un assassinio di Ionescu. Si veda ad esempio I. C PREANU, op. cit., p. 148. Tuttavia tale ipotesi non appare sufficientemente giustificata e documentata, tanto più che a sostenerla sono soprattutto intellettuali neo-legionari. 106 M. ELIADE, Unde ne e omenia?, “Vremea”, an. VII, n. 364, 18 novembre 1934.
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ramento dei rapporti personali tra i due. Eliade era evidentemente cosciente del fatto che questa scelta avrebbe compromesso i rapporti con Sebastian, tanto è vero che inizialmente cercò di evitare di parlare con lui di politica107, ma in seguito gli scontri divennero sempre più frequenti, soprattutto quando emerse con chiarezza l’avvicinamento di Eliade all’estremismo di destra108. La scelta sua così come quella di altri membri di Criterion109 a favore di Codreanu diventava irreversibile. Se la testimonianza di Sebastian, coinvolto personalmente ed emotivamente dalle scelte del suo migliore amico può essere stata influenzata dalle sue vicende personali, i numerosi articoli pubblicati da Eliade nel 1936 non lasciano dubbi sul rafforzamento della connotazione nazionalista delle sue concezioni politiche. L’appoggio di Eliade alla Guardia di Ferro diventò sostegno attivo nel 1937, quando egli iniziò ad approvarne le azioni violente e a denunciare presunte responsabilità comuniste come causa scatenante delle stesse110. Per cercare di capire quali elementi spinsero Eliade verso il sostegno attivo al movimento legionario non è più sufficiente fare riferimento all’ormai pieno coinvolgimento di Ionescu: questo poteva spiegare l’indulgenza dimostrata da Eliade a Codreanu nel biennio 19341935, ma non l’impegno dichiarato degli anni successivi. Evidentemente Eliade vedeva nel giovane leader e nel suo movimento i potenziali artefici del cambiamento radicale da lui atteso in Romania. Prima di tutto la Legione non era un partito tradizionale, ma un movimento atipico impegnato nella trasformazione radicale della società romena. Il fatto che la Guardia di Ferro non aspirasse semplicemente alla conquista del potere, ma desiderasse il ritorno della comunità nazionale romena ai suoi autentici valori cristiani, rispondeva alla volontà di Eliade di preservare e rilanciare una cultura della quale la 107
Ivi, p. 90. M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 40. 109 Ad esempio il filosofo Haig Acterian, ricorda Sebastian, nel 1932 era comunista. La sua compagna Maria Prahova, attrice al Teatro Nazionale, pur trattata con sufficienza da Codreanu, gli chiede una dedica. Cfr. ivi, p. 91. 110 Cit. in M. SEBASTIAN, Jurnal…, cit., p. 115. 108
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religione restava una componente essenziale. La concezione di Eliade era legata a quella di Ionescu, ma ne differiva per avere alla base una profonda conoscenza di culture e religioni lontane da quelle europee, nonché la convinzione dell’evoluzione continua delle stesse e della reciproca permeabilità. L’ambiguità di fondo del pensiero di Eliade stava nel fatto che da una parte egli auspicava una rottura con il passato, dall’altra chiedeva il recupero della tradizione ortodossa e della lezione dei grandi protagonisti della cultura romena, dal poeta Eminescu allo storico e filosofo Haşdeu. A differenza di Ionescu però, Eliade riteneva che questo recupero del passato dovesse riguardare solo la matrice mistico-religiosa della cultura, non la tradizione contadina o la struttura sociale preindustriale. La sua “Romania nuova”, per il fatto di essere stata concepita a lungo come progetto culturale, diversamente da Ionescu, determinò un ritardo nell’impegno politico di Eliade rispetto a Ionescu e Cioran e lo portò a fare un’unica scelta, quella della Guardia di Ferro. Un altro aspetto del movimento di Codreanu che attraeva Eliade era infatti la sua idea di rivoluzione cristiana orientata al recupero della tradizione ortodossa della cultura e al tempo stesso alla rinascita della nazione romena111. L’impegno politico era soltanto “transitorio”, necessario in quanto mezzo per realizzare il proprio progetto, non obiettivo in sé. L’idea di “imperialismo romeno” che Eliade stesso fece propria non era infatti intesa in senso politico112. Eliade sosteneva che “ancorata per la sua stessa essenza alla spiritualità, una nazione non può avere che un unico destino, creare valori spirituali ecumenici. Imporre, con altre parole, a tutti gli altri popoli, il suo universalismo”113. Poco interessava a Eliade come tutto questo si potesse realizzare, “se sarà o no una dittatura, se sarà una tirannia antidemocratica o che so altro. Un sola cosa mi interessa: se la Romania sarà la questione dominante. Se in nome di questa Romania (…) si faranno riforme sociali con suf111
M. ELIADE, Criza românismului, “Vremea”, an. VIII, n. 375, 10 febbraio
1935. 112 113
M. ELIADE, Destinuri româneşti, “Vremea”, an. IX, n. 430, 22 marzo 1936. M. ELIADE, Na ionalismul, “Vremea”, an. X, Paşti 1937.
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ficiente violenza, si ricolonizzeranno le culture delle province abitate da stranieri, si puniranno tutti i traditori”114. L’imperialismo romeno di Eliade non era quindi fatto di aspirazioni espansioniste o di una Romania forte sul piano politico internazionale, ma di un’autentica cultura romena115, anche se la politica aggressiva poteva servire come mezzo per perseguire l’obiettivo dell’affermazione culturale del paese. A testimonianza dell’ambiguità del suo pensiero, pur chiedendo l’affermazione delle radici culturali ortodosse del paese, Eliade condivideva l’aspirazione legionaria a dar vita a un “uomo nuovo”. Questo doveva secondo Eliade sostituire l’uomo del Rinascimento che, costretto a realizzarsi nei quadri laici, antireligiosi, aveva perso ogni contatto con il trascendente116 e si era perpetuato nella civiltà moderna. Il modello di “uomo nuovo” proposto da Eliade doveva rompere completamente con l’ipocrisia e la viltà della società, doveva essere “un giovane (…) senza paura e senza macchia, con occhi solo per il futuro”117. Eliade riconosceva che l’idea di una palingenesi della razza umana era peraltro comune anche al fascismo e al nazismo, ma i valori fondanti di queste due ideologie, e cioè quelli dello stato e della razza, erano valori terreni e non trascendenti118, come invece gli apparivano quelli che animavano il movimento di Codreanu. I legionari rappresentavano perfettamente l’idea di “uomo nuovo” di cui parlava Eliade: la dimostrazione più alta era la loro disponibilità a sacrificare la vita per la patria119. La caduta di Vasile Marin e Ion Mo a, volontari romeni in Spagna, rappresentava per Eliade la lotta tra i valori della cultura autentica e cristiana contro la civiltà laica e la 114
M. ELIADE, Democra ie şi problema României, “Vremea”, an. IX, Cr ciun
1936. 115
M. ELIADE, De unde începe misiunea României?, “Vremea”, an. X, n. 477, 28 febbraio 1937. 116 M. ELIADE, Renaşterea şi prerenaşterea, “Vremea”, an. VIII, n. 417, 8 dicembre 1935. 117 M. ELIADE, Cîteva cuvînte mari, “Vremea”, an. VII, n. 341, 10 giugno 1934. 118 M. ELIADE, Intelectualii şi fasciştii!, “Vremea”, an. VIII, n. 381, 24 marzo 1935. 119 M. ELIADE, Criza românismului, “Vremea”, an. VIII, n. 375, 10 febbraio 1935.
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disponibilità al sacrificio della vita per il trionfo della verità. Mo a e Marin, diceva Eliade, erano diventati martiri, morti non per la gloria terrena, ma per un ideale superiore120. Agli occhi di Eliade questa disponibilità al sacrificio rendeva i legionari in grado di rappresentare quell’élite che avrebbe dovuto guidare il paese verso la rinascita. Essi rappresentavano pur sempre una minoranza di illuminati, ma più degli intellettuali in cui inizialmente aveva riposto le speranze, essi offrivano a Eliade l’immagine di profeti capaci di coinvolgere il popolo a sostegno del proprio obiettivo121. In quanto profeti, i legionari erano chiamati da Eliade a realizzare una “missione”, missione in senso mistico-religioso. Spiegando la sua adesione al movimento legionario infatti Eliade fece ricorso a un linguaggio evocativo che rimandava a questa impostazione messianica: “Credo nel destino del popolo romeno, perciò credo nella vittoria del movimento legionario”. Il popolo romeno “non può naufragare alla periferia della storia (…). Pochi popoli sono stati dotati da Dio di tante virtù quante il popolo romeno”. La Guardia di Ferro poteva secondo Eliade riuscire a recuperare il valore della cultura romena e affermarla perché era un movimento alimentato da spiritualità cristiana, una rivoluzione spirituale in lotta prima di tutto contro il peccato e la mancanza di fede, non un movimento politico. Il movimento legionario avrebbe vinto, diceva Eliade, per volere di Dio122. Il pieno coinvolgimento con il movimento legionario comportò per Eliade anche l’adesione a posizioni pienamente antisemite. Eliade rinunciò alla tolleranza espressa in precedenza per le minoranze etniche: questo era un aspetto del suo impegno nella lotta contro la democrazia liberale. Eliade riconosceva a essa il merito di aver fatto crescere il popolo romeno, ma era altresì convinto che fosse un regime che 120
M. ELIADE, Ion Mo a şi Vasile Marin, “Vremea”, an. X, n. 472, 24 gennaio
1937. 121
M. ELIADE, Pilo ii orbi, “Vremea”, an. X, n. 505, 19 settembre 1937. Vedi anche M. ELIADE, Noua aristocra ie legionară, “Vremea”, an. XI, n. 522, 23 gennaio 1938 e M. ELIADE, România în eternitate, “Vremea”, an. VIII, n. 409, 13 ottobre 1935. 122 M. ELIADE, De ce cred în biruin a mişcării legionare, “Buna Vestire”, an. I, n. 244, 17 dicembre 1937.
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aveva fatto il suo tempo: non si poteva parlare più di diritti dell’individuo, diritti delle minoranze, libertà di coscienza politica, parlando allo stesso tempo di destino del popolo romeno e di mito della Romania forte e orgogliosa. Nel momento in cui le garanzie costituzionali potevano mettere in pericolo la realizzazione della missione nazionale, Eliade non esitava a rinunciarvi. L’avvicinamento alla Guardia di Ferro procedette di pari passo con l’inasprirsi della critica nei confronti della classe politica romena che a suo dire, pur di mantenere il potere, aveva attuato una politica “suicida” in Bucovina e Bessarabia, favorendo le minoranze, incoraggiandone ogni conquista, esaltandone la cultura e incitandole a creare uno Stato nello Stato123. Ci fu dunque da parte di Eliade un progressivo abbandono della tolleranza iniziale. In realtà in un solo articolo del 1937 compaiono argomentazioni riconducibili all’antisemitismo ideologico del movimento legionario. Non mancano però altre espressioni di intolleranza, in linea del resto con i suoi giudizi sulla politica verso le minoranze dei governi del tempo. In Medita ie asupra arderii catedralelor [Riflessione sugli incendi delle cattedrali], pubblicato su Vremea nel febbraio del 1937, ritorna l’immagine dei bolscevichi che bruciano le Chiese e dei nazisti persecutori di ebrei, ma questa volta i due regimi non erano posti sullo stesso piano. La politica religiosa di Hitler non era considerata da Eliade intollerante come quella comunista, dal momento che i templi della religione ebraica restavano in piedi, laddove i bolscevichi continuano imperterriti a incendiare chiese. E questo non sarebbe accaduto soltanto in Russia, dato che secondo Eliade anche in Francia i comunisti avevano cercato di bruciare cattedrali. Mentre i comunisti passavano all’azione, i nazisti si limitavano a provvedimenti legislativi: “ricordiamo che per gli hitleristi gli Ebrei sono ‘nemici dell’umanità’, tuttavia non sono state incendiate le sinagoghe e non sono stati massacrati i
123 M. ELIADE, Pilo ii orbi, “Vremea”, an. X, n. 505, 19 settembre 1937. Sullo stesso tema anche M. ELIADE, Români care nu pot fi români, “Cuvântul”, an. X, n. 2991, 23 agosto 1933.
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600.000 Ebrei di Germania”124 (sic!): lo testimoniava la bella sinagoga che egli aveva ammirato durante una sua passeggiata a Berlino e che gli aveva ispirato l’articolo. Secondo Eliade la deriva violenta della politica religiosa dei comunisti era legata al loro concetto di rivoluzione, cruenta per definizione. Ovviamente la rivoluzione cristiana invocata da Eliade per il suo paese rispondeva a criteri umanistici che escludevano quelli cruenti dei comunisti e privilegiavano comportamenti “non cruenti” dei nazisti. Era chiaro che Eliade non si muoveva più esclusivamente su un piano filosofico o teologico, non entrava nel merito delle questioni per difendere gli ebrei: si limitava a prendere in considerazione gli aspetti politici della questione e quindi a fare una graduatoria di merito del comportamento delle diverse politiche da cui gli risultava “meno grave” di quella bolscevica la politica tedesca. Tuttavia è anche vero che Eliade non rinnegava esplicitamente ciò che aveva sostenuto in passato, non rivolgeva accuse dirette agli ebrei, non si pronunciava sulle loro colpe e il loro destino. L’articolo nel quale le convinzioni antisemite di Eliade emergono in modo inequivocabile fu pubblicato nell’autunno del 1937. Eliade giudicava la politica del governo nei confronti delle minoranze troppo tollerante, soprattutto verso gli ebrei, che rappresentavano una minaccia per il loro desiderio di potere: “tra tutte le nostre minoranze, al di fuori degli Armeni, solo i Turchi erano inoffensivi e li abbiamo lasciati partire (…) so molto bene che gli ebrei scriveranno che sono antisemita e i democratici che sono un fanatico o un fascista (…) sarebbe assurdo che gli ebrei si rassegnino a essere una minoranza, con certi diritti e molti obblighi – dopo aver assaggiato l’ambrosia del potere e aver conquistato tanti posti di potere. Gli ebrei lottano per le loro posizioni di potere in attesa di una futura offensiva”125. È qui indubbiamente riscontrabile una sterzata verso le posizioni antisemite della Guardia di Ferro: Eliade condivide infatti l’accusa dei legionari agli ebrei di volere promuovere un’offensiva contro il popo124 M. ELIADE, Medita ie aspupra arderii catedralelor, “Vremea”, an. X, n. 474, 7 febbraio 1937. 125 M. ELIADE, Pilo ii orbi, “Vremea”, an. X, n. 505, 19 settembre 1937.
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lo romeno. È vero che l’articolo resta abbastanza isolato e le accuse agli ebrei sono inserite in un discorso più generale sulla questione delle minoranze, ma il tono di Eliade è più accusatorio di quelli usati in precedenza. La vicinanza ideologica di Eliade al movimento di Codreanu ebbe pesanti ripercussioni sulle stesse vicende personali dello storico delle religioni. Anche lui infatti, come il suo maestro Ionescu, fu arrestato il 14 luglio 1938 e imprigionato a Miercurea Ciuc (il 1 agosto). Il periodo di reclusione trascorso insieme rafforzò i legami tra i due – ammesso che ce ne fosse bisogno – come risulta da diverse testimonianze126. Corneliu Codreanu morì nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1938, la notte di Sant’Andrea, ucciso nel corso di un trasferimento notturno da una prigione a un’altra insieme ad altri legionari. Eliade narrò l’episodio nel romanzo Noaptea de Sînziene [La notte delle genziane], rievocando le reazioni dei legionari al giungere della notizia e citando la commemorazione fatta nel lager proprio da Ionescu. Si è molto discusso su quanto questo romanzo possa essere considerato autobiografico. Sicuramente Eliade non fu testimone diretto dei fatti, visto che era uscito dal campo di concentramento nell’ottobre del 1938 per essere ricoverato all’ospedale di Maroieni e in novembre era tornato a Bucarest127. Il profondo coinvolgimento nelle vicende narrate però non può essere messo in discussione, e non sorprende che, a dispetto di quanto affermato dall’autore stesso, più di un lettore abbia associato la figura del protagonista del romanzo (Ştefan) a quella di Eliade. D’altra parte anche successivamente, quando Eliade affermò di non aver mai creduto nella stella di Codreanu, egli sostenne altresì di aver sempre ritenuto assurdo dissociarsi apertamente dal Movimento Legionario, giudicando inconcepibile prendere le distanze dalla sua generazione in difficoltà, quando alcuni dei suoi colleghi erano perseguitati senza colpa128. 126
S. GHINEA-VRANCEA, op.cit., p. 28. Eliade ottiene un trattamento privilegiato grazie all’intercessione del generale Condescu, zio della moglie di Eliade Nina e personaggio vicino a Carol II. Cfr. A. LAIGNEL-LAVASTINE, op. cit., p. 196. 128 M. ELIADE, Memorii…, cit., vol. II, pp. 27-28. 127
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È probabile che l’internamento da un lato e la morte di Codreanu dall’altro abbiano provocato in Eliade un ripensamento non tanto sugli ideali quanto nelle prospettive del movimento legionario, tant’è che a metà del 1939, quindi dopo l’esperienza dell’internamento a Miercurea Ciuc, decise di accettare l’incarico di redattore della pagina letteraria del quotidiano Timpul [Il tempo], rifiutando invece l’offerta del quotidiano nazionalista România, sulla base del fatto che il primo avesse “una connotazione in qualche modo più democratica” 129. Un’ulteriore riprova delle incertezze di Eliade in questo periodo starebbe nella sua ricerca di allontanarsi dalla scena politica romena: infatti egli richiese e ottenne un incarico all’estero presso una sede diplomatica. Ma la sua fama ormai lo precedeva. Il 15 aprile 1940 Eliade arrivò a Londra come invitato del Ministero della Propaganda e fu sorvegliato da vicino dalle autorità britanniche. A Londra non beneficiò di passaporto diplomatico, lo statuto non gli fu concesso dalle autorità proprio sulla base delle sue simpatie legionarie. Eliade fu incluso nella lista delle persone passibili di arresto come misura di rappresaglia. Secondo quanto afferma Alexandra Laignel Lavastine il Foreign Office avrebbe incluso Eliade in una lista di fiancheggiatori della Legione passibili di arresto e un alto esponente del medesimo Ministero avrebbe definito Eliade “il più nazista della delegazione inglese”130. Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Gran Bretagna e Romania, Eliade nel febbraio 1941 si trasferì in Portogallo dove restò fino a giugno 1945. Inizialmente svolse le funzioni di delegato alla stampa all’Ambasciata di Romania. Il 20 giugno del 1942 chiese di essere trasferito a Roma e il 30 luglio successivo chiese una promo129 Il documento è del 5 maggio 1939. Oltre a parlare della scelta di Eliade e della giustificazione della stessa fornita a un gruppo di amici (legionari), il documento contiene anche la risposta che Eliade avrebbe fornito alla domanda se avesse o meno rinunciato definitivamente al movimento legionario, domanda alla quale Eliade avrebbe risposto “I tempi, e soprattutto gli avvenimenti di ordine esterno, impongono a tutti i romeni dotati di una coscienza di sentirsi fortemente uniti, per poter far fronte al pericolo proveniente dall’esterno, che ancora persiste in grande misura”. Si tratta quindi di una risposta alquanto evasiva. Cfr. Dosar 11/1930, Diverse, Ministerul de Interne. 130 Cfr. A. LAIGNEL-LAVASTINE, op. cit., pp. 281-282.
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zione. Ottenne solo quest’ultima, diventando primo consigliere alla stampa nel settembre 1942. Fu rimosso dall’incarico dopo il colpo di stato del 23 agosto 1944. Durante la permanenza in Portogallo scrisse Salazar şi revolu ia în Portugalia: l’esaltazione del regime di Salazar presente nel pamphlet appare una dimostrazione che il suo orientamento politico non era cambiato in un momento in cui le forze dell’Asse e dei loro alleati apparivano vincenti. Questo lavoro nacque, come scrisse Eliade stesso, in alternativa a un impegno culturale in senso stretto, cioè quello di un saggio su Camoens. Eliade dichiarò di aver operato questa scelta per servire meglio il proprio paese131, a ulteriore dimostrazione di quanto forte fosse in lui in questo periodo il fervore politico. La prefazione recita: “Questo libro di storia politica è scritto da un uomo che non si occupa né di storia in senso proprio, né di politica. Essa è nata da una irrequietezza ed è stata scritta per rispondere alla domanda, che l’autore non si stanca di porre da dieci anni: ‘è possibile una rivoluzione spirituale? È realizzabile storicamente una rivoluzione fatta da uomini che credono prima di tutto nel primato dello spirituale?’ Il Portogallo di oggi, il Portogallo di Salazar è forse l’unico paese del mondo che ha cercato di rispondere a questa domanda. (…) La rivoluzione morale e materiale di Salazar è riuscita; la miglior dimostrazione è la salute e la ricchezza del Portogallo di oggi, comparato con il caos del regime passato”132. Eliade, come si può notare, coltivava le stesse speranze che aveva nutrito in Romania: credeva ancora nella “rivoluzione cristiana”, anche se quella dei legionari era fallita e vedeva nel Portogallo un esempio della possibilità di successo delle proprie convinzioni. Salazar era infatti riuscito secondo Eliade a realizzare uno stato totalitario cristiano, costruito non sull’astrazione, ma sulla realtà viva del popolo e delle sue tradizioni, perché nazione significava per il Portogallo comunità d’amore e di destino133.
131
Ivi, p. 30. M. ELIADE, Salazar şi revolu ia în Portugalia, Gorjan, Bucureşti, 1942, p. 7. 133 Ivi, p. 9.
132
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Ancora più importante però per capire la posizione di Eliade durante il periodo portoghese è il diario che tenne dal 21 aprile 1941134 al 5 febbraio 1945. Il Diario Portugués, scritto in romeno, è comparso solo in castigliano nel 2000. Il traduttore sostiene di avere tradotto dal manoscritto originale, che dovrebbe essere in possesso di Mac Linscott Ricketts e conservato nel fondo su Eliade dell’Università di Chicago. In questi quattro anni e mezzo Eliade annotò le sue esperienze, parlò della sua vita privata e dei suoi impegni di delegato diplomatico, non mancando di commentare gli accadimenti della politica internazionale. Il testo – interessante soprattutto perché non modificato successivamente – rivela chiaramente come Eliade continuasse a sentirsi legionario. Nell’annotare, ad esempio, il suo breve viaggio a Bucarest nel 1942 e gli incontri ivi avuti scrisse di mantenersi in contatto con gli “amici legionari” e parlando di una discussione tra Noica e gli altri, disse: “sebbene legionario, lascio in sospeso le mie opinioni sulla politica interna mentre continua la guerra con la Russia”135. Ancora nel 1945 egli faceva riferimento alle sue “avventure legionarie”136. Del resto il fervore nazionalista degli ultimi anni Trenta permea tutte le pagine del suo diario. Anche in questo testo si mantiene la convinzione che la decomposizione inevitabile delle democrazie liberali lasciasse spazio a una rivoluzione rigeneratrice137, una rivoluzione guidata da un’élite, perché, come scrive Eliade citando Salazar “è sufficiente un’élite per trasformare un paese”138. Eliade ribadiva quindi la necessità che la Romania di Antonescu prendesse ad esempio il Portogallo di Salazar. L’“amore rabbioso per la Romania, dal nazionalismo incandescente”139 percorre tutto il diario, nel quale emerge altresì la sua ferma e prolungata fede nella vittoria del Reich. Gradualmente però Eliade dovette prendere atto che le forze dell’Asse stavano incontrando difficoltà sempre maggiori, tanto che in occasione del suo già 134
Eliade dice di essere arrivato a Lisbona il 10 febbraio. M. ELIADE, Diario…, cit., pp. 42-43. 136 Ivi, p. 178. 137 Ivi, p. 98. 138 Ivi, p. 39. 139 Ivi, p. 17.
135
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ricordato breve ritorno a Bucarest del 1942, Eliade si meravigliò che i suoi connazionali non si rendessero conto di quello che aspettava la Romania se avessero vinto gli anglo-russi. Il rischio era che la Romania sarebbe stata sconfitta “come stato e come nazione”140, una prospettiva accostata all’invasione turca in Europa, che aveva segnato un arresto nella crescita culturale del continente, spazzando via la civiltà greca e quella romana141. Il successo della Russia in particolare spaventava Eliade, perché avrebbe significato il successo di un modello culturale quanto più lontano dalla sua concezione: per lui il trionfo del marxismo significava trionfo dell’individualismo, che gli appariva come il materialismo alla massima potenza, il compimento di quella rivoluzione antropologica iniziata con il Rinascimento e continuata con la rivoluzione industriale. Con il suo successo ogni speranza per il suo paese sarebbe venuta meno, quella rivoluzione spirituale che avrebbe dovuto risvegliare la Romania e farla affermare e crescere come nazione si sarebbe tradotta in un fallimento totale142. “Nell’apocalittica lotta di oggi, il mio popolo ha poche possibilità di sopravvivere … La Romania, inclusa la nazione romena (nei suoi elementi di continuità storica e culturale), sta attraversando la crisi più grave della sua esistenza. Siamo vicini a un impero sei volte più grande di tutta l’Europa, con duecento milioni di abitanti e che nel 2000 ne ospiterà quattrocento o cinquecento, con un spazio economico e geopolitico enorme, con una mistica sociale ecumenica e soprattutto che sarà popolare quando finirà la guerra”143. Nel suo terrore per le prospettive di una Romania sovietizzata Eliade accusava la classe dirigente romena di aver portato il paese sull’orlo di questa tragedia: eppure le scelte di politica estera erano pur state da lui condivise. Nel 1944 Eliade era ormai rassegnato e d’altra parte proprio in questo anno si consumò una tragedia persona140
Ivi, p. 41. Ivi, p. 61. 142 “Il disastro sul fronte russo potrebbe convertirsi in una catastrofe. Qui si parla di una possibile caduta della Germania questo stesso inverno. Gli anglofili si rallegrano che incoscienti! Penso che l’anno 43 potrebbe significare l’anno tragico della storia della Romania”. Cfr. ivi, p. 81. 143 Ivi, p. 99. 141
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le, quella della morte della moglie Nina, che egli affermò distoglierlo dalle preoccupazioni “materiali” della politica: in realtà egli annotò anche di provare una disperazione di due tipi, quella per la morte di Nina e quella “storicamente concreta” per il destino della Romania144. Nel 1945 le sorti della Romania erano ormai segnate ed Eliade fu costretto a prendere coscienza che tutto il mondo in cui aveva creduto e per cui aveva simpatizzato sta crollando: la morte di Mussolini fu accolta con un’amara rassegnazione: “l’ultima briciola di stima per il popolo italiano è scomparsa. Davanti al cadavere di Mussolini hanno sfilato cinquemila operai di Milano e ognuno di loro ha dichiarato i suoi sentimenti antifascisti dando un calcio nel sedere al duce”145. 5.3 Cioran e Codreanu: la speranza di una “trasfigurazione della Romania” Le tematiche affrontate da Cioran in forma sparsa negli articoli scritti dopo il 1933 furono riprese e trattate in modo sistematico in Schimbarea la fa ă a României146, pubblicato nel 1936147 quando egli insegnava al liceo Andrei Şaguna di Braşov. Come è stato giustamente detto da Marta Petreu148, studiosa romena di Cioran, quest’opera occupa un posto a sé nella produzione di Cioran, soprattutto perché è l’unica organicamente dedicata alla romenità. Nonostante la posizione particolare che Schimbarea la fa ă a României assume nella produzione e nel pensiero di Cioran, non si tratta di un’opera di totale rottura rispetto al suo pensiero precedente e successivo, prima di tutto perché la riflessione è condotta sul piano della filosofia della storia più che su quello politico. Cioran era e continuò a essere un “pensatore”, tutto sommato estraneo alle vicende quotidiane 144
Ivi, p. 170. Ivi, p. 236. 146 Schimbarea la fa ă a României significa “la trasfigurazione della Romania”. 147 L’edizione a cui si fa riferimento è quella del 1936. Dell’opera esistono quattro edizioni. Le prime due per la casa editrice Vremea sono del 1936 e del 1940, le altre per Humanitas nel 1990 e 2001. Le prime due presentano rispetto alle successive differenze significative, delle quali si parlerà più approfonditamente in seguito. 148 M. PETREU, op. cit., p. 16. 145
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del suo paese e più interessato alla filosofia della storia e alla riflessione sulle sorti del mondo che alla quotidianità della politica. C’è però un aspetto che rende Schimbarea la fa ă a României unica nella produzione di Cioran: per una volta, forse l’unica nel suo percorso intellettuale, Cioran abbandonò il pessimismo e il nichilismo che hanno contraddistinto il suo pensiero e dimostrò di credere in una interpretazione del processo storico. Egli utilizzò la critica al suo paese in senso costruttivo, per indicargli la via del cambiamento. Rifacendosi a Spengler e in un certo senso a Hegel, egli riconduceva il senso della storia al giudizio sul passato dei popoli: la storia non era secondo Cioran un flusso continuo, un percorso univoco verso il progresso, ma si identificava con il cammino delle grandi culture149. La differenza fondamentale tra le grandi e le piccole culture secondo Cioran era rappresentata dal fatto che le prime erano contraddistinte da visioni del mondo capaci di offrire una soluzione a ogni problema. Secondo Cioran però le grandi culture non si limiterebbero a custodire la propria identità: convinte della superiorità della propria Weltanschauung esse aspirerebbero infatti a imporla a tutte le altre culture, grandi e piccole. Questa sarebbe la loro missione nel mondo. L’aspirazione a imporre il proprio modello come universale era per Cioran naturale: secondo lui un popolo diventava nazione quando assumeva un profilo storico originale e imponeva i suoi valori particolari come validi universalmente. Mentre le piccole culture secondo Cioran subivano passivamente questa politica aggressiva, le grandi culture concorrenti reagivano proponendo il proprio modello come universale: ne scaturivano una serie di confronti violenti. Proprio questo confronto/scontro continuo tra grandi culture sarebbe secondo Cioran alla base della storia. La storia scaturiva dal succedersi dei loro conflitti ed era mossa dall’affermazione dell’istinto storico delle grandi culture, come dimostrava lo scontro secolare tra Francia e Germania. Cioran definiva la cultura francese come una cultura di stile, in cui gli slanci vitali erano frenati dalla raffinatezza e il senso dell’esistenza non era 149 “La storia presuppone l’esistenza delle nazioni come suo unico mezzo di realtà e il divenire storico stesso giustifica la sostanza del conflitto tra di loro”. Cfr. E. CIORAN, Schimbarea la fa ă a României, Vremea, Bucureşti, 1936, p. 49.
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vissuto in modo drammatico150. La cultura tedesca si caratterizzerebbe invece per una lacerante ricerca interiore: se la Francia era il paese dei tanti talenti, la Germania era quello dei pochi uomini di genio151. L’esito violento del confronto tra le grandi culture dimostrava secondo Cioran come esse non si limitassero a subire gli eventi, ma li creassero, fossero cioè artefici del proprio destino. Le piccole culture come quella romena152, erano invece secondo Cioran del tutto passive153. Il giudizio di Cioran sulla condizione della Romania riguardava tutta la sua storia: al contrario di Eliade e di Ionescu Cioran infatti non riconosceva alcuna dignità alla cultura romena, anche del passato. Gli stessi storici Nicolae Iorga e Vasile Pârvan, esaltati quali esempi da imitare da Eliade, erano giudicati da Cioran solo dei tradizionalisti. Guardare a loro come dei modelli significava per Cioran guardare al passato: al contrario, la Romania doveva concentrarsi sul futuro: “il tradizionalismo è una formula di comodo, non impegnativa. Esso esprime solidarietà con la nazione, ma non volontà di darle un grande senso nel mondo”154. Cioran non escludeva che la Romania potesse uscire dalla sua condizione, ma a suo parere occorreva maggiore slancio: se voleva cambiare, il suo paese doveva compiere un salto di qualità, prendendo a modello la Russia, un paese che aveva vissuto in passato un’analoga condizione di mediocrità, ma aveva saputo riscattarsi. Nel corso del XIX secolo infatti, i Russi si sarebbero posti ossessivamente il problema del loro destino155 e avrebbero poi trovato la base del loro messianismo nella visione apocalittica. D’altra parte la Russia secondo Cioran era entrata nella storia quando le altre culture erano già mature 150
Ivi, p. 13. Ivi, p. 14. 152 Già alla fine del 1933 Cioran aveva denunciato la condizione di piccola nazione della Romania: “la Romania non si può salvare che negando se stessa, liquidando totalmente il suo passato (…). I romeni non si salveranno che quando inizieranno a lottare contro se stessi. Cfr. E. CIORAN, ara oamenilor atenua i, “Vremea”, an. VI, n. 306, 24 settembre 1933. 153 E. CIORAN, Schimbarea…, cit., p. 10. 154 Ivi, p. 24. 155 Ivi, p. 17. 151
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
e questo le era costato uno sforzo maggiore, di conseguenza anche la Romania doveva essere pronta ad affrontare grandi difficoltà per recuperare il ritardo con cui entrava nel processo storico. Quella romena non era infatti storia, secondo Cioran, era sub-storia. Per poter rinascere la Romania doveva infatti subire una rigenerazione “interiore” e sviluppare una nuova coscienza e maturità156. Questa necessità di nascere alla storia era definita da Cioran “adamismo”: le culture adamitiche erano per lui quelle che non avevano un passato e che dovevano creare le condizioni per il loro futuro. La costruzione di una identità, la ricerca del proprio stile erano dunque il senso della trasfigurazione storica che egli chiedeva al paese157, un paese ridotto a espressione geografica158. Cioran chiedeva insomma un cambiamento di identità, che avrebbe consentito alla Romania di superare qualsiasi difficoltà storica159 e trasformare il popolo in nazione160. La piccola cultura romena aveva bisogno di un impulso messianico verso la storia, doveva cioè capire il suo ruolo nel mondo, ruolo che poteva essere secondo Cioran quello di punto di riferimento sociale e politico per l’Europa sud-orientale161. Ma chi poteva far compiere alla Romania questo salto di qualità? Cioran parlava di un “profeta”. Profeta era a suo avviso chiunque fosse in grado di fare della Romania un paese forte: poco importa che fosse di destra o di sinistra, nazionalista o comunista, come dimostrava d’altronde l’ammirazione di Cioran tanto per il nazismo quanto per il bolscevismo162. Se la scelta del modello da adottare in Romania cadde sul primo, questo fu dovuto al fatto che tutto sommato un’ideologia di destra si adattava senz’altro meglio alla realtà romena che non una di sinistra. Cioran era cosciente del fatto che se una speranza di 156
Ivi, p. 39. Ivi, p. 44. 158 Ivi, p. 53. 159 Ivi, p. 24. 160 Ivi, p. 53. 161 Ivi, p. 161. 162 “È un merito definitivo della rivoluzione russa di aver creato nella terra più reazionaria, sulle rovine dei più sinistri autocrati, una coscienza industriale come, nella sua accezione mistica, non ha mai conosciuto la storia”. Ivi, p. 111. 157
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creazione di stato forte c’era in Romania, questa aveva molte più probabilità di realizzarsi attraverso un movimento nazionalista che non uno comunista, data l’esiguità dei consensi raccolti dalla cultura comunista e socialista nel paese prima della seconda guerra mondiale. La concezione di Cioran è quindi lontana da quella di Ionescu e di coloro che cercavano nel passato una presunta autentica identità nazionale da riscoprire. La Romania dei villaggi e della tradizione contadina rimpianta da Ionescu era aspramente criticata da Cioran163, che invece proponeva un “modernismo conservatore”, una “variante della destra antidemocratica della filosofia dello sviluppo”164. Cioran non parlava di tradizione, di struttura spirituale del popolo romeno, non cercava di recuperarne l’ispirazione ortodossa e di difenderla dalla contaminazione dell’Occidente. Per Cioran il problema non era capire che cosa fosse la nazione romena e distinguerla dalle altre, ma piuttosto trovarle una missione nel mondo, per questo egli rifiutava il patriottismo consolatorio165. Pur essendo allievo di Ionescu, Cioran non si poteva certo considerare un intellettuale ortodossista e autoctonista. La premessa dalla quale partiva la sua elaborazione intellettuale era anzi opposta a quella del maestro. Diverso in fondo era anche l’obiettivo, il modello di nazione che i due volevano costruire. Il punto di convergenza invece era il mezzo che i due individuarono per raggiungere l’obiettivo, ovvero un cambiamento radicale operato da una personalità forte. L’auspicio di Cioran per un cambiamento radicale e profondo, che rompesse con la tradizione e costituisse una Romania nuova e aggressiva, era una celebrazione della forza pura166 – come aveva dimostrato la sua ammirazione per Hitler. Quello che Eliade accettava come un
163
Lettera a Bucur incu, 23 novembre 1930, contenuta in E. Cioran, 12 scrisori…, cit., p. 30. 164 L’efficace definizione è di Alexandra Laignel-Lavastine. Cfr. A. LAIGNELLAVASTINE, op. cit., p. 127. 165 E. CIORAN, Adamismul românismului, “Vremea”, an. VIII, n. 379, 10 marzo 1935. 166 Ivi, p. 71.
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
“effetto collaterale”, un “mezzo necessario” per far uscire la Romania dalla sua mediocrità, per Cioran era un elemento da esaltare in sé. Il capitolo più discusso e controverso dell’opera di Cioran è indubbiamente il quarto dell’edizione del 1937, intitolato Collectivism na ional [Collettivismo nazionale], la parte più consistente “tagliata” nell’edizione del 1990. In questo capitolo Cioran sosteneva che ogni nazionalismo dovesse aspirare a proiettare all’esterno la forza del paese. Alla base di questo progetto doveva però esserci la creazione di una realtà compatta all’interno, conseguibile risolvendo i conflitti e le disuguaglianze sociali167. Il successo della rivoluzione russa era stato a suo avviso proprio in questa opera di omogeneizzazione interna168. Per raggiungere questa compattezza in Romania secondo Cioran occorreva risolvere il problema degli stranieri, ovvero gli ebrei, responsabili a suo dire della condizione misera in cui versava il paese169: pur non accusando gli ebrei di tutti i mali del paese, egli definiva l’antisemitismo un’azione purificatrice170. Il problema ebraico era per Cioran assai complesso: egli sosteneva la sostanziale diversità di questo popolo, la sua inevitabile tendenza al vampirismo e la sua aggressività171. Cioran portava l’esempio della Germania della prima guerra mondiale dove gli ebrei avrebbero accumulato ricchezze, mentre il resto dei cittadini tedeschi era sottoposto a immani sacrifici172. Questa propensione ad approfittare delle tragedie di un popolo in guerra per occupare i posti di potere sarebbe legato all’assenza di un qualsiasi legame di fedeltà a una nazione, da cui tutti i loro problemi di convivenza con gli altri popoli. La stessa opera di desolidarizzazione interna gli ebrei starebbero affermando contro i tentativi di costruire una comunità nazionale omogenea in Romania173. Essi si sarebbero opposti e continuerebbero a opporsi a ogni tentativo di rinnovamento del regime politico, schierandosi a sostegno della 167
Ivi, p. 127. Ibidem. 169 Ivi, p. 128. 170 Ivi, p. 129. 171 Ivi, p. 130. 172 Ibidem. 173 Ivi, p. 132. 168
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liberaldemocrazia: “si sono opposti con tutte le forze delle quali dispone il loro imperialismo sotterraneo, il loro cinismo e l’esperienza secolare. Il regime democratico della Romania ha avuto la sola missione di sostenere gli ebrei e il capitalismo giudaico-romeno”174. Eppure Cioran sosteneva che nessuna soluzione fosse possibile, poiché anche annientando l’intera popolazione ebraica della Romania essa sarebbe rinata175. Al contrario di Eliade, Cioran escludeva inoltre ogni possibilità di assimilazione e definiva la minoranza ebraica un gruppo di traditori176, “una condanna della quale non è responsabile che Dio”, aggiungendo “se fossi ebreo mi suiciderei all’istante”177. Si può azzardare che per Cioran la giudaicità prima di essere una categoria etnica fosse una categoria sociale e ideale. Al momento della redazione di Schimbarea la fa ă a României Cioran ancora comunque distingueva la politica con la maiuscola del nazismo da quella mediocre del suo paese, movimento legionario compreso, al quale successivamente si sarebbe avvicinato. Ancora il 4 aprile 1937, parlando del suo proposito di partire per Parigi, scriveva a Eliade di sentirsi incapace di militare nel movimento nazionalista178. Nello stesso anno partì per la capitale francese come borsista dell’Istituto di Cultura Francese di Bucarest e si iscrisse alla Facoltà di Filosofia di Parigi, che tuttavia non frequentò. Il passaggio al sostegno della Guardia di Ferro si consumò proprio in questo periodo, come testimonia il fatto che nel 1940 Cioran scrisse la prefazione al testo di Paul Guiraud Codreanu şi Garda de Fier. [Codreanu e la Guardia di Ferro] Guiraud era un intellettuale francese che nutriva grande ammirazione per Codreanu e il suo movimento. La prefazione al testo è in forma di lettera ed è firmata Legionarii din Paris [I legionari di Parigi] e riporta la datazione “30 novembre 1940, giorno dell’anniversario della morte di Codreanu”. Cioran dimostrava di apprezzare l’opera di Guiraud perché al contrario della maggior 174
Ivi, p. 133. Ibidem. 176 Ivi, p. 131. 177 Ivi, p. 132. 178 Lettera a Mircea Eliade, 4 aprile 1937, contenuta in E. CIORAN, Scrisori…, cit., p. 271. 175
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parte della stampa internazionale, critica verso il movimento legionario, essa avrebbe a suo dire presentato in modo obiettivo la Legione. Di Codreanu nella prefazione si parlava come di “una figura generosa, creatrice e organizzatrice del movimento legionario, supremo esempio di sacrificio (…) per tutti i legionari dotato di un’aureola di santità e martirio. Egli è colui che, primo tra tutti i romeni, (…) ha proclamato che occorre ritrovare lo spirito della nazione romena, costantemente spinta al fallimento, prima da secoli di servitù e ancora, più recentemente, da una classe dirigente ipocrita e criminale. Nello stesso tempo egli ha espresso fiducia nelle virtù nascoste e inalterabili del nostro popolo e ha capito che questo popolo deve essere libero, vorremmo dire che ha bisogno di essere se stesso e non quello che gli si dice di dover essere”179. L’ammirazione di per Codreanu si mantenne dunque anche dopo la morte di quest’ultimo. In questo momento Cioran nutrì però speranze anche in Antonescu, nonostante il suo antagonismo con Codreanu, e sperò che egli volesse seguire le orme del suo predecessore e completarne l’opera. Nel settembre del 1940 Cioran rientrò a Bucarest e in novembre usò più o meno gli stessi toni e argomenti della prefazione a Guiraud nella conferenza radiofonica Profilul interior al Căpitanului [Il profilo interiore del capitano], poi pubblicata sul giornale ufficiale dei legionari Glasul Strămoşesc [La voce degli antenati]. Narrò di aver incontrato il Capitano, “uomo in un paese di nullità umane”, e afferma: “la sua presenza era emozionante e non me ne sono mai andato da quegli incontri senza provare un senso di inesorabilità, che è caratteristico di tutte le esistenze segnate dalla fatalità”. Raccontò di aver confessato a Codreanu di non credere che la Romania si sarebbe mai risollevata per conquistare un ruolo di primo piano nel mondo e di come Codreanu gli abbia risposto che ci fossero invece segnali molto forti in questo senso, come il Movimento Legionario appunto: “io ho allora compreso che stiamo vivendo la seconda nascita della Romania (…) qualcuno doveva venire (…) il capitano ha dato all’uomo romeno un volto (…) non solo la Legione darà vita alla Romania futura, ma dovrà anche Il brano è contenuto nella prefazione a P. GUIRAUD, Codreanu şi Garda de Fier, Majahonda, Bucureşti, 1958, pp. 9-10. 179
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riscattarla dal suo passato e recuperare, da una follia unica e ispirata, l’immensità del tempo passato. Il pathos legionario è la reazione a una storia fatta di catastrofi”; “prima di Codreanu la Romania era un Sahara”. Di nuovo, Cioran parlava di una Romania che prima di Codreanu era solo una “espressione geografica”180 e che adesso era pronta a prendere coscienza di sé. Durante il soggiorno romeno Cioran scrisse anche su Vremea e altre riviste, incoraggiando la Guardia di Ferro a realizzare la sua rivoluzione nazionale. La rivoluzione della Guardia di Ferro non era secondo Cioran una rivoluzione legata a un momento storico, ma una rivoluzione della storia, in grado di cambiare l’essenza del paese. Codreanu sarebbe riuscito a dare una missione alla Romania e Cioran rimpianse la sua scomparsa come una grave perdita per il paese181. In questo periodo Cioran mostrò di credere che la rivoluzione di destra che la Guardia di Ferro voleva attuare fosse l’ultima possibilità per la Romania182. È indubbio che Cioran non possa essere considerato un intellettuale organico alla Guardia di Ferro. Le differenze tra il suo pensiero e l’ideologia legionaria sono piuttosto evidenti. La prima evidente differenza è nella rilevanza dell’elemento religioso, fondamentale per Codreanu e del tutto assente in Cioran. Lo stesso antisemitismo che si ritrova in Schimbarea la fa ă a României non ha alla base una contrapposizione di fedi. Anche il modello di Romania che la Guardia di Ferro si poneva come obiettivo era diverso da quello auspicato da Cioran, se non addirittura opposto. Cioran non voleva una Romania che ritornasse alle origini, che recuperasse la sua matrice contadina, sperava invece che dalla rivoluzione realizzata dal Movimento sorgesse un paese del tutto nuovo, moderno e industrializzato, una grande potenza economica e politica. 180
L’espressione è contenuta nella prefazione a P. GUIRAUD, op. cit., p. 16. E. CIORAN, Profilul interior al Capitanului, “Glasul str moşesc”, an. VI, n. 10, 25 dicembre 1940. 182 Lettera a Mircea Eliade, 13 dicembre 1937, contenuta in E. CIORAN, Scrisori…, cit., p. 271. Cfr. anche E. CIORAN, La vigilia dictaturii, “Vremea”, an. X, 21 febbraio 1937. 181
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Gli anni Trenta: la “conversione” alla politica
Cioran non si può neanche definire anti-bolscevico come Codreanu. Egli ammirava alcuni degli aspetti dello stalinismo. Riconosceva, è vero, che la rivoluzione bolscevica era materialista e non spirituale come quella nazista, tuttavia ne apprezzava il messianismo e la proiezione nel futuro, l’aspirazione alla costruzione di un mondo diverso, il culto del capo, l’antiparlamentarismo e l’antisemitismo. Il fatto che Cioran, al contrario di Eliade, riconoscesse un misticismo nel nazismo è indice di una visione della realtà storico-politica del suo tempo più ampia di quella del suo collega: Cioran non riduceva lo “spirituale” al religioso, aveva coscienza del fatto che, al di là delle differenze evidenti, nazismo e bolscevismo erano accomunate dal proporre un’interpretazione messianica e teleologica della storia. Si potrebbe dire che il movimento di Codreanu fosse ritenuto da Cioran uno strumento per raggiungere lo scopo della salvezza della nazione romena e questo spiega l’anomalia per cui il sostegno di Cioran alla Guardia di Ferro arrivò in ritardo rispetto a quello degli altri intellettuali, nonostante egli fosse stato tra i primi a subire il fascino dei regimi totalitari. Secondo gli storici neolegionari Cioran restò un punto di riferimento per i legionari e per gli esuli romeni all’estero183 anche dopo la partenza per Parigi. Anche Alexandra Laignel-Lavastine (che certo non può essere considerata una storica neolegionaria) ha sostenuto che nel febbraio 1941 Cioran sia stato nominato consigliere culturale all’ambasciata romena di Vichy grazie all’interessamento di Horia Sima, leader dei legionari dopo la morte di Codreanu nonché Primo Ministro. L’incarico durò tre mesi, in seguito Cioran si trasferì a Parigi, che sarebbe poi diventata la sua città d’adozione184. Non è naturalmente possibile datare con sicurezza la disillusione di Cioran verso la sua infatuazione politica giovanile, ma un evento sicuramente importante fu per lui l’arresto e la deportazione ad Auschwitz (nonostante i tentativi di impedirlo dello stesso Cioran) dell’amico ebreo Benjamin Foudane.
183 184
C. MUTTI, op. cit., p. 82. A. LAIGNEL-LAVASTINE, op. cit., pp. 362-368.
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Conclusioni
A metà degli anni Trenta il rapporto tra gli intellettuali romeni e la politica cambiò: da un impegno diversificato nella forma e nel livello di coinvolgimento si passò a un omogeneo schieramento a favore della Guardia di Ferro. Le premesse di questa svolta erano state poste già nel secolo precedente, quando all’indomani della guerra il mondo della cultura romena si interrogò sul sistema politico, economico e sociale che avrebbe potuto assicurare al paese la grandezza cui esso avrebbe dovuto e potuto aspirare. Una parte degli intellettuali romeni rifiutò il sistema democratico parlamentare in nome della sua estraneità alla cultura del paese e dei valori materiali sui quali si fondava. In Nae Ionescu questa tendenza trovò un portavoce autorevole per il suo prestigio nell’ambiente accademico, per il riscontro che le sue idee avevano nell’opinione pubblica e soprattutto per l’influenza che esercitò nei confronti di una generazione di giovani intellettuali. L’approdo all’impegno politico si inserì in un contesto intellettuale ancora negli anni Venti piuttosto sereno, ma già caratterizzato da forti tensioni antisemite in ambito studentesco, che poi era lo stesso frequentato da questi intellettuali. Nell’economia romena però, nonostante i tentativi di modernizzazione, rimasero carenze strutturali che la esponevano alla fluttuazione dei mercati internazionali e si riflettevano in un profondo disagio a livello sociale. La frattura tra il mondo urbano, formatosi largamente sui modelli occidentali e impegnato nel difficile processo di ammodernamento economico di un paese ricco di risorse, e una campagna socialmente e culturalmente molto arretrata, resero estremamente complesso ai liberali prima e ai contadinisti poi, far funzionare efficacemente e senza corruzione il sistema democratico parlamentare. L’economia romena rimaneva dipendente in larga parte dal settore agricolo e non aveva attraversato processi di modernizzazione suffi-
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cientemente forti. La società era ancora in fondo divisa in un’élite di grandi proprietari terrieri e in una massa di contadini. Il suffragio universale era stato concesso solo dopo la guerra e questo aveva frenato lo sviluppo di partiti con una base elettorale popolare. Il partito comunista come si è visto era marginale: non poteva fare appello alla classe operaia, essendo essa ben poca cosa nella Romania del tempo, né cercare l’appoggio dei contadini. La classe contadina in Romania, al contrario che in Bulgaria e in Serbia, non era composta da piccoli proprietari terrieri, ma dai braccianti dei vecchi latifondi, che nella stragrande maggioranza dei casi erano analfabeti e completamente disinteressati alla politica. Dopo la guerra il suffragio universale, la riforma agraria, l’introduzione dell’obbligo scolastico cercarono di cambiare la situazione, ma in ritardo rispetto al resto d’Europa. Tra queste riforme e la crisi economica della fine degli anni Venti passò troppo poco tempo: quegli intellettuali che non si erano mai convinti della bontà del sistema democratico trovarono conferma in quella crisi del fallimento del regime. Essi rilevarono una continuità tra la classe politica interbellica e quella che aveva guidato il paese in precedenza: non solo i liberali, ma tutti coloro che accettavano e difendevano la democrazia vennero accomunati nell’accusa di aver portato il paese alla rovina. Accusa tutto sommato ingiusta: le difficoltà attraversate dalla Romania erano dovute soprattutto alla congiuntura internazionale negativa. C’erano certamente casi di corruzione, difficoltà di funzionamento delle istituzioni, ma queste erano forse naturali in un paese che aveva poco più di mezzo secolo di esperienza democratica, e non erano superiori a quelle attraversate da buona parte dei paesi europei, compresi alcuni di lunga tradizione democratica. Di fronte alla crisi economica e sociale interna e all’immagine vincente di movimenti, come quello nazista, che sembravano aver risollevato un paese prostrato come quello tedesco, gli intellettuali della scuola di Nae Ionescu credettero nella possibilità di un cambiamento radicale, videro in Codreanu un possibile strumento per la realizzazione di questo e in alcuni casi sperarono anche di poter rivestire un ruolo di primo piano nello stato romeno da loro auspicato: Ionescu, non dimentichiamolo, si avvicinò ai legionari dopo la sua emarginazione
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Conclusioni
da parte di Carol II, Eliade sperava nella creazione di una Romania guidata da spiriti “illuminati”. Fu facile identificare in Codreanu il potenziale omologo di Hitler in Romania: la sua organizzazione come quella nazista intendeva sovvertire le istituzioni corrotte, si proponeva di dare alla Romania un futuro da grande potenza e identificava un “nemico” della nazione: gli ebrei. Ognuno degli intellettuali romeni che aderirono alla Guardia di Ferro lo fece con il proprio bagaglio culturale (ortodossista, misticheggiante, vitalista). Al di là delle differenze però tutti questi pensatori credevano nella possibilità che la legione potesse rovesciare la democrazia, abbattere cioè quel regime materialista che aveva reso la Romania uno stato nel senso burocratico del termine e non una potenza da temere. Tutti questi intellettuali condividevano infatti la critica al razionalismo e alla cultura positivista in nome di una supposta superiorità del mondo della cultura sulla dimensione materiale della politica, dell’economia, della burocrazia, da loro disprezzate. Questo loro rifiuto del mediocre regime democratico privo, a loro avviso, di grandi ideali, li portava ad accettare anche la persecuzione ebraica come mezzo per eliminare tutti gli ostacoli alla creazione (o al recupero) di un’identità romena pura e forte. L’impegno di un’intera classe intellettuale a fianco di un movimento antisemita non può essere liquidato come semplice “infatuazione giovanile”: la posizione dell’intellighentsia favorì la radicalizzazione dell’opinione pubblica, creando il clima di conflitto sociale in cui si perpetrarono gli orrori della seconda guerra mondiale. Di fronte a ciò che accadde in Transnistria, poco contano le motivazioni di chi scelse di sostenere posizioni antisemite. Si trattasse di un antisemitismo su basi ontologiche, accolto tardivamente e come semplice corollario dell’adesione guardista o con radici in una certa filosofia della storia, l’appoggio degli intellettuali contribuì a dare credibilità al movimento di Codreanu e legittimò la sua persecuzione delle minoranze. Su queste responsabilità si è largamente taciuto nel dopoguerra, in parte per l’atteggiamento degli stessi intellettuali coinvolti, che hanno liquidato quegli anni come un veniale peccato di gioventù o, peggio
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ancora, hanno tentato di riscrivere il loro passato, direbbe Alexandra Lavatine, raccontando un’altra verità. Ha contribuito a far cadere il silenzio sulla questione anche il regime comunista, che si è dimostrato all’altezza di quello precedente e tutto sommato ha preferito adottare un atteggiamento poco aggressivo nei confronti degli esuli romeni all’estero sulla base della sua linea politica, che non di rado ha tentato un recupero dei nazionalisti romeni e ha adottato un atteggiamento repressivo nei confronti delle minoranze. Il dibattito si è così riaperto con forza, tanto in Romania quanto all’estero. Anche se non ci si è liberati del tutto da influenze e interessi politici, se non altro si è cominciato a riflettere su un momento della storia romena che ha pesato quanto e forse più del periodo comunista sulla cultura attuale del paese. Le difficoltà incontrate nel processo di democratizzazione successivo alla caduta del comunismo lo dimostrano.
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Indice dei nomi
Adevărul – 81, 102 Alecsandri, Vasile – 43 Alessandro I di Jugoslavia – ii Alleanza Antiisraelita Universitaria – 25 Angelescu, Constantin – 10 Antonescu, Ion – iii, 172, 181 Argentoianu, Constantin – 18, 85, 86 Associazione degli Studenti Cristiani – 120 Avântul – 48 Averescu, Alexandru – 5, 17, 18, 80, 89 Azi – 114 Bacaloglu, Elena – 19, 20 Baeumker, Clemens – 49 Baius, Michel – 145 Bergson, Henri – viii, 114 Bismarck, Otto von – 2 Blaga, Lucian – vii, 37, 76, 79, 112 Bonaiuti, Ernesto – 105 Boris III di Bulgaria – ii Br tianu, Gheorghe – 14 Br tianu, Ion – 2, 29 Br tianu, Ionel – 2, 5, 15, 89, 92 Br tianu, Vintil – 5, 89 Bruno, Giordano – 106 Buletin Informativ – 160 Buonaiuti, Ernesto – 105, 112 Burke, Edmund – 76 Buzdugan, Gheorghe – 89, 92 Čadaev – 52 Čajanov – 34 Calendarul – 114 Camoens, Luis Vaz de – 171 Campanella, Tommaso – 106 Carol I – 2, 22, 48, 157 Carol II – ii, 22, 48, 83, 89, 94, 95, 98, 117, 118, 126, 127, 128,130, 155, 156 159, 169, 187 Carp, Petre – v Cioculescu, Şerban – 107
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
Cioran, Emilian – 113 Codreanu, Corneliu Zelea – iii, xii, xiii, 25, 83, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 129, 130, 131, 135, 136, 138, 155, 156, 159, 161, 162, 163, 164, 165, 169, 170, 174, 180, 181, 182, 183, 186, 187 Constantinescu, Niki – 126 Convorbiri Literare – v Crainic, Nichifor – iii, vii, 22, 36, 37, 39, 40, 49, 50, 53, 63, 76, 79, 80, 111, 112, 117, 123, 137, 139 Credin a – 33, 139, 145, 148 Cristea, Miron – 57, 65, 89 Criterion – 22, 100, 139, 140,163 Croce, Benedetto – 136 Cuib Axa – 138 Curentul – 82 Cuvântul – xi, 22, 61, 66, 79, 81, 85, 94, 96, 98, 104, 105, 108, 113, 114, 123, 126, 129, 135, 139, 155, 157, 159, 160 Cuza, Alexandru C. – xiv, 17, 18, 23, 25, 29, 41, 43, 44, 48, 117, 120, 124 Dacia Literarǎ – v De Bonald – 76 De Maistre, Joseph – 76 Devechi, Titu – 79 Della Mirandola, Pico – 106 Dilthey, Wilhelm – viii, 53, 109 Discobolul – 114 Dolfuss, Engelbert – ii Duca, Ion – G. 125, 126, 139 Durkheim, Émile – viii Einstein, Albert – ix Elian, Alexandru – 108 Eminescu, Mihai – xi, 41, 43, 102, 138, 143, 148, 150, 164 Enacovici, Titus – 82 Est-Vest – 49 Evola, Julius – 159 Facla – 32 Fascia Na ională Română – 20 Ferdinando d’Aragona – 132 Ferdinando I – 2, 88, 89 Fichte, Johann Gottlieb – 114 Ficino, Marsilio – 106 Filipescu, Nicolae – 2 Floarea de Foc – 22, 114 Formichi – 105 Fotino, Elena – 49
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Indice dei nomi
Foudane, Benjamin – 183 Frazer, James Georges – 102 Freud, Sigmund – ix Frontul Eventimentului – 19 Galilei, Galileo – 106 Gellner, Ernest – 9 Gentile, Giovanni – 99, 105 Giansenio, Cornelio (Cornelis Jansen) – 145 Gilsan – 105 Glasul Strămoşesc – 181 Goga, Octavian – 18, 50, 117, 156 Gongopol – 79 Guardia di Ferro – iii, xii, xiii, 1, 28, 40, 41, 120, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 135, 136, 137, 155, 156, 159, 160, 162, 163, 164, 166, 167, 168, 180, 182, 183, 185, 187 Guiraud, Paul – 180, 181 Gusti, Dimitrie – 15 Hartman, Eduard von – viii Haşdeu – 102, 164 Hechter, Ioseph – 132 Hegel, Georg Wilhelm – 36, 49, 114, 175 Heidegger, Martin – 51, 109, 116 Herder, Johann Gottfried – viii Hitler, Adolf – 14, 96, 97, 130, 150, 151, 152, 158, 167, 178, 187 Horthy, Mikols – ii Husserl, Edmund – 48 Ideea Europeanǎ – 49 Internazionale Verde di Praga – 34 Ionescu, Eugen – xiii, 22 Ionescu, Take – 2, 16 Ionescu, Wladimir – 79 Iorga, Nicolae – vi, vii, 15, 17, 18, 21, 25, 43, 48, 62, 76, 88, 95, 96, 102, 103, 104, 117, 143, 150, 176 Isabella di Castiglia – 132 Isopescu, Claudiu – xi, 105 Iunian, Grigore – 18, 85 Junimea – v, vi, vii, 31, 36 Kallikles – 81 Kant, Immanuel – 36, 107, 114 Kireevski, Ivan – 54 Klages, Ludwig – 51, 99, 116 Kossuth, Lajos – iv Külpe, Oswald – 49
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Lega Antisemita Universale – 25 Legione dell’Arcangelo Michele – 121, 122, 123, 125, 126, 127, 135, 136, 138, 139, 154, 157, 163, 170, 181, 187 Lenin, Nicolaj (Vladimir Ilič Uljanov) – 83, 143 Liga Apărarii Nazionale României – 25 Lötze, Rudolf Hermann – viii Lovinescu, Eugen – 31, 35 Lumea nouă – 40 Lupescu, Elena – 89, 95, 123 Lupu, Nicolae – 16 Macchioro, Vittorio – 105 Machiavelli, Niccolò – 132 Madgearu, Virgil – 15, 16, 34, 35 Maiorescu, Titu – v, 2, 36, 40, 62, 63, 76, 85 Malthus, Thomas Robert – 44 Maniu, Iuliu – 14, 16, 17, 90, 91, 92, 93, 94, 118, 124 Mann, Thomas – 136 Manoilescu, Mihail – 40 Mântuirea – 68 Marcione – 145 Marghiloman, Alexandru – 2, 3 Marin, Vasile – 136, 158, 159, 165, 166 Maritain, Jacques – 105 Marx, Karl – 150 Maurras, Charles – 20, 54, 72, 86, 94 Meinecke, Friedrich – 51 Metaxas, Joannis – ii Mickievicz, Adam – iv Mihalache, Ion – 15 Mironescu, George – 16 Mo a, Ion – 138, 158, 159, 165 Movimento nazionale italo-romeno culturale ed economico – 19 Mussolini, Benito – iii, 19, 20, 84, 130, 150, 174 Narodnaia Volia – 34 Negruzzi, Iacob – v Negulescu, Petre – 48 Noica, Constantin – iii, 22, 114, 172 Nouǎ revistǎ românǎ – 48 Opinie Publică – 20 Origene – 53, 64 Palaghita, Ştefan – 160 Panaitescu, Vasile – 48 Panzini, Alfredo – 105
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Indice dei nomi
Papini, Giovanni – 102, 104, 105, 106, 107, 110, 112 Partito Comunista – 19, 85, 186 Partito Conservatore – v, 2, 14, 15, 16, 17, 27, 86 Partito Contadino – 15, 16, 17, 18, 27, 33, 34, 85, 86, 87, 90 Partito Contadino Democratico – 18 Partito del Popolo – 17, 18 Partito Nazional-Contadino – 16, 18, 87, 90, 92, 93, 94, 96, 97, 117, 118 Partito Nazional-Democratico – 95 Partito Nazionale Agrario – 18 Partito Nazionale Romeno – 18 Partito Nazionale Romeno di Transilvania – 18 Partito Social-Democratico – 19 Pârvan, Vasile – 48, 103, 143, 150, 176 Päts, Konstantin – ii Paulescu, Nicolae – 23, 25, 41, 43, 44 Petrescu, Cesar – 15, 79 Pilsudski, Josef – ii Pl eşu, Ion – 139 Pogor, Vasile – v Polihroniade, Mihail – 140 Predania – 38, 159 Puini, Carlo – 105 R coveanu, Gheorghe – 145, 159 R dulescu, Heliade – 101, 156 R dulescu-Motru, Constantin – vi, 38, 39, 48, 49, 89, 109 Ralea, Mihai – 32 Renan, Ernest – 60 Salazar, António de Oliveira – 171, 172 Salvatorii Patriei – 20 Sămănatorul – vi, vii, 27, 34, 76 S r eanu, Constantin – 92 Schopenauer, Arthur – 113 Sebastian, Mihail – 22, 70, 78, 98, 101, 121, 124, 128, 132, 145, 146, 147, 149, 150, 157, 158, 162, 163 Şeicaru, Pamfil – 79, 82 Šestov, Lev (Lev Isaaković Schwarzmann) – 113 Sima, Horia – iii, 183 Simmel, Georg – 114 Skythes – 81 Smedrea, Titu – 128 Smetona, Ananas – ii Socialismul – 68 Soloviev, Vladimir Sergeevič – 113
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
Spengler, Oswald – ix, 37, 39, 101, 109, 114, 136, 175 Stalin – 130, 158 Stambolijski, Alexand r – 34 Stere, Constantin – 15, 18, 34, 35, 43 Stînga – 19 Studii Filozofice – 49 T t rescu, Gheorghe – 14 Timpul – 170 Titulescu, Nicolae – 129, 156 Tönnies, Ferdinand – 71, 76 Tucci, Giuseppe – 105 Tudor, Sandu – 33 Ulmanis, Kärlis – ii Unione Agraria – 18 Universul – 32, 102 Vaida-Voievod, Alexandru – 16 Via a românească – 32 Vinea, Ion – 32 Voltaire (François-Marie Arouet) – 108 Vremea – xi, 114, 151, 167, 182 Vulc nescu, Mircea – 47, 77, 79, 80, 81, 90, 93, 95, 98, 128, 129, 130, 132, 137, 155 Wilson, Woodrow – ii Zaedinjena Slovenija – iv Zeletin, Ştefan – 31, 32, 35 Zissu, A. L. – 134 Zogu, Ahmed – ii
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Bibliografia
Fonti primarie Archivi - Archivio del Ministero degli Interni, Bucarest Fond Diverse Fond Direc ia Generală a Poli iei Fond Casa Regală – Personale Carol II - Archivio del Ministero degli Affari Esteri, Roma Serie Affari Politici (1931-1945) - Biblioteca del Ruänisches Institut di Friburgo - Biblioteca Alessandrina, Roma Fondo Isopescu Testi -
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
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Riviste - Buna vestire, quotidiano Sono stati esaminati tutti i numeri, ovvero quelli usciti tra 1937 e 1938 - Credin a, altra rivista nazionalista alla quale Eliade collabora dopo la sospensione di Cuvântul tra il 1934 e il 1938 - Cuvântul, quotidiano diretto da N. Ionescu
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Bibliografia
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Sono stati esaminati tutti i numeri pubblicati, ovvero quelli usciti tra 1924 e la sospensione del giornale nel 1934 e quelli usciti tra gennaio e aprile 1938, data della definitiva soppressione Buna vestire, quotidiano Sono stati esaminati tutti i numeri, ovvero quelli usciti tra 1937 e 1938 Ideea europeană, rivista in cui Ionescu comincia la sua attività pubblicistica tra 1919 e i i primi anni Venti Iconar, rivista mensile Sono stati esaminati tutti i numeri pubblicati, ovvero quelli usciti tra il 1935 e il 1938 Însemnări sociologice, rivista mensile diretta da T. Br ileanu Sono stati esaminati tutti i numeri pubblicati, ovvero quelli usciti tra 1935 e 1938 Vremea, rivista settimanale diretta da V. Donescu Sono stati esaminati tutti i numeri pubblicati tra 1933 e 1943
Letteratura storica -
AA.VV, Centenarul Nae Ionescu 1890-1990, Colec ia Institutului român de cercet ri istorice din California, San Diego, 1990 AA.VV, Convorbiri cu Cioran, Humanitas, Bucureşti, 1993 A. ACTERIAN, Neliniştile lui Nastratin, Alfa, Iaşi, 2000 S. ALEXANDRESCU, Paradoxul român, Univers, Bucureşti, 1998 M. AMBRI, I falsi fascismi, Jouvence, Roma, 1980 V. ANDRONI, Mircea Eliade şi creştinismul ortodox, Ramida, Bucureşti, 1996 W. T. BEREND – G. RÀNKI, Lo sviluppo economico nell’Europa centro-orientale nel XIX e XX secolo, il Mulino, Bologna, 1978 J. W. BURROW, The crisis of reason, Yale University Press, New Haven-London, 2000 G. BUZATU, C. CUCANU, C. SANDACHE, Radiografia dreptei româneşti (1927-1941), FF Press, Bucureşti, 1996 M. C LINESCU, Istoria literaturii române de la origini şi pîna la prezent, Aristarc, 1998 I. C PREANU, Nae Ionescu şi adevărul creştin, Tipo Moldova, Iaşi, 2001
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
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D. CIACHIR, Ginduri despre Nae Ionescu, Institutul European, Iasi, 1990 Cioran naiv şi sentimental, Apostrof, Cluj, 2000 R. CODRESCU, Spiritul dreptei, Anastasia, Bucureşti, 1997 I. P. CULIANU, Mircea Eliade, Cittadella Editrice, Assisi, 1978 (edizione romena I. P. Culianu, Mircea Eliade, Nemira, Bucureşti, 1995) A. DI NOLA, Mircea Eliade e l’antisemitismo, in “La Rassegna Mensile di Israel”, n. 42, gennaio-febbraio 1977 I. DUR, Noica-între dabdysm şi metul şcolii, Editur Eminescu, Bucureşti, 1994 E. DURKHEIM, Règles de la méthode sociologique, 1895 Eastern European Nationalism in the 20th Century, ed. by P. F. Sugar, The American University Press, Washington, 1995 M. FATU – I. SPALATELU, Garda de Fier. Organzatie terorista de tip fascist, Editura politica, Bucureşti, 1971 S. FISCHER-GALA I, Twentieth Century Romania, Columbia University Press, New York-Londra, 1970 S. GHINEA-VRANCEA, Mircea Eliade şi Emil Cioran in tinerete, Elisavaros, Bucureşti, 1998 D. GR SOIU, Mihail Sebastian său ironia unui destin, Minerva, Bucureşti, 1986 P. GUIRAUD, Codreanu şi Garda de Fier, Majahonda, Bucureşti, 1958 M. HANDOCA, Mircea Eliade – biobliografia, Jurnalul Literar, Bucureşti, 1997 M. HANDOCA, Pro Mircea Eliade, Dacia, Cluj-Napoca, 2000 M. HANDOCA, Via a lui Mircea Eliade, Dacia, Cluj-Napoca, 2000 A. HEINEN, Die Legion “Erzengel Michael” in Rumänien – Soziale Bewegung und politische Organisation, Oldenbourg Verlag, München, 1986 (edizione romena A. HEINEN, Legiunea “Arhangelul Mihail”. O contribu ie la problemului fascismului interna ional, Humanitas, Bucureşti, 1999) K. HITCHINS, Rumania 1866-1947, Oxford University Press, 1994 (edizione romena K. HITCHINS, România 1866-1947, Humanitas, Bucureşti, 1998) L’intreccio perverso, a c. di A. Pitassio, Morlacchi Editore, Perugia, 2001
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Bibliografia
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NAE IONESCU, MIRCEA ELIADE, EMIL CIORAN
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Bibliografia
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