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Miloš Forman
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Miloš Forman a cura di Angelo Signorelli

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La sezione dedicata a Miloš Forman è organizzata da Chiara Boffelli, Fiammetta Girola e Angelo Signorelli. Con la collaborazione e il supporto del Centro Ceco di Milano Un particolare ringraziamento a Miloš Forman, Ivan Passer, Theodor Pištěk, Neumannová Radka (Centro Ceco di Milano), Jean-Claude Carrière, Alberto Barbera, Stefano Francia Di Celle. Si ringraziano Daniela Vincenzi, Arturo Invernici, Paolo Vecchi. La mostra «I costumi da Oscar di Theodor Pištěk - La ribellione e lo sfarzo nei film di Miloš Forman», Bergamo, Teatro Donizetti, Ridotto Gavazzeni, prodotta da Bergamo Film Meeting, è promossa da Comune di Bergamo, Assessorato alla Cultura, con il Patrocinio di Università degli Studi di Bergamo - CAV (Centro di Arti Visive), in collaborazione con Centro Ceco di Milano, Tirelli Costumi e Fondazione Tirelli Trappetti (Roma), GAMeC | Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. La mostra è a cura di Massimiliano Capella con la collaborazione di Elisabetta De Toni e Clara Pellegris. Per la rassegna cinematografica si ringraziano Kateřina Fojtová, Tomáš Žůrek (Národní filmov. archiv), Simona Calboli (Centro Ceco Milano), Jitka Prochzková e Hana Čiháková (Česká televize), Mr. Harvánk, Nadja Šičarov (Slovenske kinoteke), Darja Hlavka (RTV Slovenija), Karpo Godina, Robert Jaquier, Julie Charles, Nadia Valentin (Olympic Foundation for Culture and Heritage), Danilo Di Tommaso (Coni Italia), Roberto Fabbricini (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), George Watson (BFI – British Film Institute), Paul Zaents (The Saul Zaentz Company), Jack Bell (Park Circus), Selyna Boye (The Festival Agency), Tommaso Verna (Warner Bros. Entertainment Italia Srl), Federica Bonfoco (PGA Milano), Arianna Turci, Micha Pletinckx, Nicola Mazzanti (Cinémathèque Royale de Belgique), Lab 80 film, Laurence Berbon (Tamasa), Radka Production, Luca Farinelli, Andrea Peraro e Isabella Malaguti (Fondazione Cineteca di Bologna), Stefano Boni (Museo Nazionale del Cinema di Torino). Per il volume Miloš Forman si ringraziano Chiara Boffelli e Arturo Invernici per l'affettuosa attenzione e i preziosi consigli. Paolo Vecchi, Eva Zaoralova, Massimo Tria, Emanuela Martini, Roberto Manassero, Jean-Sébastien Massart, Anton Giulio Mancino, Arturo Invernici Fototeca e archivi Fondazione Alasca Traduzioni Susanna Bourlot, Monica Corbani, Lucia Casadei L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per testi e immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte.

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Con il patrocinio e il contributo di

Con il contributo di

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Sponsor

marzo 2017

35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Neumannová Radka

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a 35° edizione del Bergamo Film Meeting dedica quest´anno la retrospettiva a uno dei più grandi personaggi del cinema mondiale, Miloš Forman.

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iloš Forman, tra i registi più noti e riconosciuti, ha fatto parte della cosiddetta Nová Vlna (Nuova onda), un eccezionale laboratorio sperimentale e periodo decisivo per la fioritura del cinema cecoslovacco degli anni  ’60. Nel 1968, poco prima dell’invasione della Cecoslovacchia, si trasferisce negli Stati Uniti, dove, dopo l’insuccesso del suo primo film, realizza Qualcuno volò sul nido del cuculo, che vince i 5 Oscar più importanti: miglior film, regia, protagonista maschile e femminile, sceneggiatura. Forman diventa una celebrità e dirige diversi film, tra i quali Amadeus, che gli permette di tornare a Praga e che si aggiudica ben 8 Oscar, uno anche per i costumi. Creare costumi di scena significa cogliere a fondo la personalità del ruolo, come era ben chiaro al costumista e disegnatore ceco Theodor Pištěk, che Miloš Forman ha coinvolto in ben due produzioni diventate leggendarie: Amadeus e Valmont. La loro collaborazione è stata un’esplosione di creatività e immaginazione, che hanno origine nella tradizione della scuola artistica ceca, da cui derivano le bellissime scene e i costumi di entrambi i film.

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oi siamo fieri di poter presentare, grazie a Bergamo Film Meeting, almeno una parte dell’enorme lavoro che ha coinvolto costumisti cechi e italiani. Nonostante che il film sia stato girato in Cecoslovacchia durante il regime comunista, rimane la prova di una collaborazione culturale che, anche se per un periodo limitato, è andata oltre le barriere politiche.

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ttualmente, il Centro Ceco mette in campo risorse significative, che arricchiscono le iniziative culturali in molte città italiane, promuovendo con continuità la produzione culturale ceca. Grazie al nostro lavoro, nelle sale italiane vengono proiettati i film non solo di rinomati registi cechi, ma anche di quelli emergenti. Come si dice che l´amore passa per lo stomaco, la conoscenza di una nazione, secondo noi, passa per la cultura. Senza la cultura e l´arte le nostre vite risulterebbero impoverite, perciò apprezziamo la collaborazione con Bergamo Film Meeting, che non solo favorisce il dialogo culturale tra i due paesi, ma soddisfa anche il nostro appetito di cultura e approfondisce la comune conoscenza dell´Europa.

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Man on the Moon, 1999

35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Sommario

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La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna Paolo Vecchi

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I film cechi di Miloš Forman Eva Zaoralová

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Miloš Forman, o lo sguardo dei senza potere Massimo Tria

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Forman in Wonderland Emanuela Martini

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Mr Forman goes to America Roberto Manassero

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Un momento critico nell’opera americana di Forman: Larry Flynt — Oltre lo scandalo / Man on the Moon Jean-Sébastien Massart

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Miloš’ Ghosts (1989-2006) Anton Giulio Mancino

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È così che tutto è cominciato Miloš Forman

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Miloš Forman racconta Miloš Forman

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Lezioni occasionali Miloš Forman

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Filmografia di Miloš Forman a cura di Arturo Invernici

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Indice

Il paese del disincanto e dell'oscenità Angelo Signorelli

Il paese del disincanto e dell'oscenità

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The People vs. Larry Flynt Larry Flynt – Oltre lo scandalo 1996

35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Angelo Signorelli

Il paese del disincanto e dell'oscenità

Miloš Forman è figura complessa, intrigante, controversa. I saggi di questo volume, ad opera di studiosi — usiamo il maschile, ma solo per brevità — competenti e appassionati, contengono informazioni, approfondimenti, riflessioni critiche che permettono al lettore/spettatore di disegnare il ritratto di uno degli autori più rappresentativi del cinema contemporaneo.

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Il paese del disincanto e dell'oscenità

opo quattro lungometraggi girati in patria, Forman è già all’estero, da dove assiste all’invasione del suo Paese, l’allora Cecoslovacchia, da parte delle truppe del Patto di Varsavia. A parte Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko!, 1967), in cui si legge una satira impietosa all’apparato burocratico del partito, gli altri film guardano ai giovani e ai disagi, le aspettative, le inquietudini, le insofferenze che caratterizzano il periodo del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La gioventù ceca non è diversa da quella dell’Europa occidentale: i padri incarnano il potere in famiglia, le madri funzionano da “ammortizzatore sociale”, i corpi scoprono il piacere, pur tra esitazioni, paure, frustrazioni. Le illusioni sono tante, come i desideri, ma poi arrivano gli scoramenti, i fallimenti, le crisi. Niente di nuovo sotto il sole. Ma Forman è uomo di cinema: la mano è solida, l’inquadratura eloquente, il ritmo adeguato al soggetto, la scrittura efficace. E poi c’è la capacità di cogliere l’espressione giusta, quella che racconta un comportamento, un modo di essere, uno stato d’animo. Forman voleva essere uomo di teatro, diventa l’uomo con la macchina da presa, per mettere in scena il grande spettacolo della realtà. Dapprima, è quella del mondo in cui vive, che egli osserva con senso realistico – o forse sarebbe meglio dire neorealistico, come inducono a pensare certe sue affermazioni – ma già con un evidente gusto per la sottolineatura ironica o lievemente grottesca. Si pensi al padre di Petr in L’asso di picche (Černý Petr, 1963), petulante e insistente, ossessivamente compreso nelle sue convinzioni, ma comicamente incostante sui destini del figlio. O alla madre di Milda in Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965) che, dopo che il figlio si è sistemato tra lei e il marito nel letto matrimoniale, in piena notte ingaggia una sfiancante schermaglia con i due maschi, innervositi e riottosi, a causa della situazione paradossale che si è venuta a creare nell’appartamento. Sono solamente normali scenette famigliari, si po-

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trebbe dire: ma le espressioni di Petr e quelle di Andula, la giovane che ha creduto alle bugie di Milda, descrivono fastidio e sofferenza, immaturità e un’amarezza ancora di pelle, segni di un processo di formazione che è solo agli inizi. I loro sguardi sono smarriti, attoniti, indifesi, come quelli dei cuccioli. Petr tentenna, Andula sbaglia: la Cecoslovacchia non è terra di sogni. Se pensiamo a Al fuoco, pompieri! troviamo solo squallore, mediocrità, ipocrisia, corruzione, rigidità sociale: il concorso di bellezza è un vero e proprio scempio, un teatrino dove le madri si fanno in quattro per condizionare il verdetto. C’è un senso di chiusura in questi primi film, una ristrettezza di spazi, che tuttavia il regista utilizza come una risorsa per raccontare il contesto politico, l’insofferenza e quell’“istinto di libertà”, quella voglia di affrancamento che, sebbene repressi, premono dal profondo di tanti esseri umani.

Il paese del disincanto e dell'oscenità

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a violenza dei carri armati russi fa sì che Forman si ritrovi come chiuso fuori dalla porta, esule per costrizione e forse anche un po’ per scelta. In fondo, è anche l’inizio della sua fortuna. Passano però quattro anni prima che riesca a realizzare Taking Off (id., 1971): alla sceneggiatura ci mette mano anche Jean-Claude Carrière, uno che è capace di sferzare i costumi borghesi e la morale dei benpensanti, vantando una lunga collaborazione con Luis Buñuel e la simpatia per la cultura surrealista. Forman gioca subito a carte scoperte; prende l’America di petto, la spella, può continuare a mettere in scena i conflitti irrisolti delle società cosiddette evolute, trapiantando le situazioni narrative, con il loro carico ideologico, dal mondo comunista a quello capitalista. Il suo è un traghettare, con la convinzione che sì, le società sono diverse, ma in fondo ci sono delle costanti esistenziali che si esprimono ovunque ci sia inconciliabilità tra le attese dell’individuo e gli apparati di controllo. Che, ovviamente, entrano in azione già nel nucleo famigliare. Taking Off possiede una sua ferocia; come è possibile, infatti, che una coppia di genitori, inizialmente angosciati per la scomparsa della figlia, si riducano a fumare marjuana per poi abbandonarsi a un ridicolo e improbabile spogliarello in compagnia di un’altra coppia? Pensando che la figlia sia altrove mentre è nella sua stanza e, quando ne esce, non può far altro che assistere a quello spettacolo grottesco. Il suo sguardo, come quello dello spettatore, non è neanche di sorpresa perché non sembra neppure immaginare ciò che sta succedendo. O forse, sospende il giudizio, di fronte a un padre che nasconde con le mani le parti intime e la guarda senza dire nulla, instupidito dal fumo, mentre le note di La traviata rendono ancora più surreale e ridicola la situazione. Naufraghi del significato, gli adulti si abbandonano alla cerimonia della demolizione dal loro ruolo. Semplicemente, non sono più nessuno e non potranno nemmeno riscattarsi, perché reitererebbero all’infinito il loro senso di vergogna. Sono stati scoperti nella loro impotenza, che è rimasta latente dietro le certezze della loro posizione sociale. Un mondo che va in frantumi, come insegna la termodinamica, non può essere ricomposto.

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.P. McMurphy si rifugia nella clinica psichiatrica per non finire in carcere e crea disordine portando fuori i matti e dentro le donnine, in entrambi i casi per “innovare” i metodi di cura infrangendo però il protocollo terapeutico. Ma il gioco va oltre le sue intenzioni e dovrà fare i conti con un sistema vampiresco che fa di tutto per succhiare la coscienza individuale. Come Inés – che sarà sì liberata ma si ritroverà con la mente sconvolta a tal punto da perdere la cognizione del tempo e con essa il ricordo della propria storia –, sarà violentato dall’istituzione e reso irriconoscibile agli occhi dell’amico pellerossa (altra categoria di esclusi). Non essere più persona, non essere attore della propria vita: questo è il piano inclinato lungo cui l’individuo rischia di scivolare nel corso dell’intera esistenza. Forman sembra credere che la condizione dell’uomo sia un continuo stare in bilico, in equilibrio precario, sempre sul punto di cadere, di soccombere a forze che gli sono superiori. Nessuno può ritenersi vincitore, neppure Valmont, il dongiovanni che riesce a conquistare tutte le donne, ma che finisce per essere umiliato e sostituito in società dal giovane maestro d’arpa, a cui aveva sottratto la promessa sposa, ancora bambina, ancora inesperta delle arti amatorie. E come non pensare a Hair (id., 1979), il film che vorrebbe tradurre l’esperienza hippy, ormai

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Il paese del disincanto e dell'oscenità

l cinema del regista cecoslovacco sta cambiando nella forma: da cinema dell’osservazione diventa cinema della rappresentazione. Non c’è più bisogno di sceneggiature originali: Qualcuno volò sul nido del cuculo (Some Flew Over the Cuckoo's Nest, 1975) è tratto da un romanzo e va ridotto per lo schermo. Il set diventa uno spazio organizzato in tutti i dettagli, anche se il regista si concede qualche ripresa “fuori controllo”. I piani sono funzionali al racconto, le geometrie ai rapporti gerarchici, le durate alle relazioni tra i personaggi o all’insorgenza dei deliri. Forman assimila i modi della messa in scena d’Oltreatlantico, senza però rinunciare, nella costruzione del racconto, alla divaricazione, mai risolvibile, mai placata, tra l’ansia individuale di riconoscimento della propria complessità e la risposta, all’occorrenza violenta, dell’ordine sociale, fondato sulla semplificazione amministrativa delle regole; poche ma buone, funzionali all’ingabbiamento della protesta e della devianza. In fondo, non sono diversi i criteri stabiliti dal tribunale dell’inquisizione in L’ultimo inquisitore (Goya’s Ghosts, 2006)per riconoscere a prima vista l’ebreo: pochi indizi bastano per condannare una persona, per iscriverla al campo opposto e considerarla una grave minaccia all’ordine costituito. Usare il rogo piuttosto che l’elettroshock o la lobotomia ci dice solo che i tempi sono cambiati, ma che il trattamento della diversità, quando diventa pericolosa, deve essere drastico e risolutivo. Lorenzo contro Inés, R.P. McMurphy contro Mildred Ratched: le antinomie escludono le sfumature, ma non le ambivalenze e le compromissioni sessuali, quantunque la vittima non possa far valere la sua parola, costretta a discolparsi ma non a difendersi. Come il protagonista di Ragtime, trascinato a un gesto estremo perché la sua versione dei fatti è irrilevante per la giustizia dei bianchi, nonostante le prove a suo favore siano schiaccianti.

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storicamente conclusa, come inno alla pace e alla non violenza, ma che in realtà si chiude con una beffa, uno scambio involontario di persona. La scomparsa del leader porta gli altri protagonisti in un cimitero di guerra cosparso di croci perfettamente allineate come se anche la morte dovesse adeguarsi a un ordine stabilito, a una parata militare con tutte le pedine al loro posto. Una geometria dell’assurdo, con le croci bianche che emergono, tutte uguali, su un prato verdissimo e perfettamente rasato. Hair è stato realizzato a guerra ormai finita; una guerra che ha lasciato una ferita profonda nella coscienza del popolo americano e che condizionerà la politica estera – e non solo – delle diverse amministrazioni che si sono via via succedute fino ai nostri giorni. Forman assorbe la storia americana, apparentemente se ne appropria, ma in realtà la usa, come scenario, come terreno in cui coltivare le proprie insofferenze e ribellioni, con la lucidità di chi, venendo da un altro Paese e da un’altra cultura, può mantenersi a una certa distanza, all’occorrenza impietoso, mai accomodante, raramente affettuoso, a volte sornione, sostanzialmente ambiguo.

Il paese del disincanto e dell'oscenità

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i potrebbe parlare, per il regista ceco, della presenza nella sua poetica di una tenace forma di pessimismo della ragione completamente privo del suo contraltare kantiano, l’ottimismo della volontà. Se vai contro le regole, alla fine sbatti la testa contro il muro e ne esci con le ossa rotte e la mente offuscata. Lo si vede anche nelle rappresentazioni dei personaggi che crescono, vivono e operano dentro il sistema: Andy Kaufman, il protagonista di Man on the Moon (id., 1999) e Larry Flynt, il protagonista di Larry Flynt – Oltre lo scandalo (The People vs. Larry Flynt, 1996). Il primo, nonostante il successo, perde gli ingaggi a causa della sua ostinazione artistica e dei suoi modi non proprio politicamente corretti e si ammala di cancro; il secondo rimane paralizzato per un colpo d’arma da fuoco sparato da un cecchino, è internato in un ospedale psichiatrico e subisce un processo per diffamazione. I due soggetti sono comunque difficili, ambigui, contorti, strafottenti, irritabili, incostanti. Sfruttano il sistema, remano contro, ma non lo cambiano. Larry Flynt vince la sua battaglia, ma rispetto ai princìpi che fondano la democrazia americana; per il resto, esce prostrato dalle tante battaglie che deve sostenere, contro l’autorità giudiziaria, contro il proprio corpo, contro le sventure della moglie Althea, personaggio di rara umanità e di un’amorevolezza lancinante. Andy Kaufman rimane vittima del proprio personaggio, stretto tra le maglie di uno show business che non perdona, che rigetta il corpo divenuto estraneo e lo butta via come un rifiuto. Due figure di anticonformisti, con una loro ostinazione, ma anche con una loro arroganza, a volte indisponenti, a volte persino violenti e volgari. Non c’è nulla di mitico nelle loro imprese: essi raccontano due storie di resistenza, eppure nel sistema ci sono dentro fino al collo. Vorrebbero solo agire liberamente, ma nei loro cervelli vi sono aree diffuse di mediocrità, ignoranza e superstizione: Larry ha crisi mistiche, Andy si affida a un guaritore tailandese che in realtà è un imbroglione, uno che specula sulle illusioni dei malati terminali. Sono due film significativi nella filmografia di Forman, espressioni di un cinema maturo, spettacolare, che tiene allacciata la vicenda soggettiva all’ambiente in cui è collocata, tanto da renderli inseparabili, contestuali alla

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costruzione della messa in scena, nella forma a volte dell’opposizione, a volte della loro reciproca necessità. In tal modo, la rappresentazione acquista forza, trascende la particolarità della storia e si fa visione, crudele e disincantata, dell’insieme dei meccanismi costrittivi e punitivi che un qualsiasi settore produttivo è in grado di mettere in atto. In questo senso, sono due film che non hanno perso la capacità di interpretare l’esistente, questa maledetta realtà che si rivela nelle prestazioni di una macchina sociale ed economica, che non può essere rallentata da richieste, individuali o collettive, di verità, di rispetto, di difesa del diritto e dei valori della convivenza. L’America che abbiamo davanti agli occhi è tragicamente grottesca, se la guardiamo con la lente della nostra incrollabile cultura umanistica, ma ne avvertiamo la protervia, lo strapotere, gli incantesimi, se gli orizzonti di riferimento sono esclusivamente le leggi del mercato.

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The People vs. Larry Flynt / Larry Flynt – Oltre lo scandalo, 1996

Il paese del disincanto e dell'oscenità

orse una cosa è vera, quantunque oggi possa apparire inattuale: la sola via di fuga che rimane all’essere umano per non scivolare nel conformismo è l’azione creativa, che comprende un’area vasta di fattori, come una particolare sensibilità verso le vite degli altri, il piacere del libero pensiero, la capacità di ideazione, il riconoscimento del valore dell’esperienza e della relazione con il diverso, l’insofferenza alle convenzioni. Il gesto artistico, l’irruzione della fantasia, costituiscono una “dote” che è ancora capace di fare la differenza, che sgancia l’individuo dalla rete di obblighi, materiali e ideali, che lo vorrebbero sottomesso e omologato. La speranza è che ci siano tanti Amadeus, il personaggio che ha in sé molte delle “virtù” per mezzo delle quali Forman trasmette la sua visione del mondo: irrispettosi, sguaiati, giocosi, carnali, dispettosi, imprevedibili, irriducibili, incoscienti. Presenze che ci suggeriscono di cambiare i nostri modi di vedere, ma soprattutto alcune opinioni che abitano la nostra mente a volte assonnata: individui che sono altrove, scentrati, dissipativi, incostanti. Con il loro modo di essere, sgraziato burlesco osceno, ci stanno semplicemente dicendo che la realtà non va accettata per quello che è.

La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

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Lásky jedné plavovlásky Gli amori di una bionda 1965

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Paolo Vecchi

La fenomenologia, l’indiscrezione, la metafora. Forman ai tempi della Nová Vlna

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rfano di entrambi i genitori, è ospite di un collegio nella cittadina termale di Poděbrady, dove conosce Ivan Passer, in seguito suo assiduo collaboratore, Václav Havel, futuro commediografo nonché Presidente della Repubblica dopo l’89, e quello che diventerà uno degli autori di spicco del Nuovo Cinema Polacco, Jerzy Skolimowski, la madre del quale è addetto culturale dell’ambasciata del suo Paese a Praga. Espulso per uno scherzo al direttore di un’importante rivista letteraria, Forman si diploma nella capitale, dove mette in scena e interpreta La ballata degli stracci di Voskovec e Werich, un musical sulla vita di François Villon. Durante una delle repliche a Kolin, dove saranno poi ambientati un episodio di Konkurs e L’asso di picche, la recita si risolve in un disastro. Mancano alcuni attori e tutti debbono interpretare più parti, lo scenario crolla e un elettricista, colpito da una scarica di corrente, precipita sul palcoscenico. Ma il pubblico si diverte credendo di assistere a una specie di Hellzapoppin’. Le leggi preordinate dello spettacolo sono sovvertite dal caso, ma l’occhio dello spettatore-voyeur ne ricompone l’unità fittizia: la gaffe, anziché affossare la messa in scena, la valorizza.

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n seguito, Forman viene ammesso al corso di sceneggiatura al FAMU, la scuola di cinema attraverso la quale passeranno tutti gli artefici della nuova onda cecoslovacca. Qui insegnano registi come Otakar Vávra ed Elmar Klos, scrittori come Miloš Kratochvíl e Milan Kundera.

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La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

Prima di affrontare l’analisi dei due mediometraggi e dei tre lungometraggi realizzati da Miloš Forman in Cecoslovacchia, ci sembra opportuno segnalare, sia pure schematicamente, le tappe fondamentali della sua formazione.

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La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

Così, nonostante ne esca praticamente senza nozioni di tecnica cinematografica, i cinque anni che passa in questo laboratorio sperimentale sono fondamentali nella costruzione della sua futura personalità artistica, così come la frequentazione della vie de bohème praghese, dove, tra i caffé concerto e i cenacoli di Jan Werich e del poeta cristiano Vladimír Holan, maturano posizioni non conformiste che si oppongono radicalmente al realismo socialista, spesso nel recupero delle avanguardie storiche.

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opo una breve esperienza come presentatore di telequiz, il regista ha il primo approccio col cinema partecipando alla sceneggiatura di Nechte to na mně (t.l.: Lascia fare a me, 1955), del veterano Martin Frič, un risultato mediocre che però gli permette di imparare i rudimenti del mestiere. Più importanti le sue collaborazioni, come assistente alla regia e attore a Dědeček automobil (t.l.: Nonno automobile, 1957), come cosceneggiatore e aiuto regista a Štěňata (t.l.: I cuccioli, id.), di Ivo Novák. Quest’ultima è un’opera già in qualche modo formaniana, con uno sguardo benevolmente fenomenologico sulla realtà delle giovani generazioni. Dědeček automobil fa invece conoscere a Forman il regista Alfréd Radok, che lo coinvolge nell’esperienza, in tutti i sensi elettrizzante, di Laterna Magika, che nel 1958 si trasferisce nel padiglione cecoslovacco dell’Expo di Bruxelles, arricchita da altri apporti di prestigio come quello del grande scenografo Josef Svoboda. Lo spettacolo prevede proiezioni multiple, il Cinemascope, musica stereofonica e un palcoscenico sul quale avvengono performances dal vivo, in sincrono, a contrasto o “in dialogo” con le proiezioni fisse o in movimento. Forman è affascinato da questa totalità frammentata e multimediale, quasi un Gesamtkunstwerk tecnologico. Bruxelles, inoltre, gli offre la possibilità di entrare in contatto con grandi personalità dello show business americano, come Ella Fitzgerald, Harry Belafonte, Harold Robbins e Walt Disney. Gli saranno utili nel suo approdo a Hollywood.

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ornato a Praga, incontra l’oggetto magico che gli cambierà la vita, una “Pentaflex” a 16mm antiquata come meccanica ma dotata

di ottimi obiettivi. Con Ivan Passer e Miroslav Ondříček, suo futuro direttore della fotografia, elabora una serie di progetti, destinati fatalmente a rimanere nel cassetto. Quando però il cabaret “Semafor” bandisce un’audizione per gruppi e cantanti solisti, Jiří Šlitr, una delle due vedettes del locale insieme a Jiří Suchý, che ha lavorato con lui a Laterna Magika dividendo poi la camera d’albergo a Bruxelles, lo invita ai primi incontri. Forman decide di girare con la cinepresa nascosta di fronte ai cantanti. Poi, con i primi rulli sotto braccio, si presenta agli studi Sebor-Bor. Le sequenze piacciono e il film, da cosetta amatoriale qual era, ottiene il sostegno di una produzione vera e propria.

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onkurs (t.l.: Il concorso, 1963) ha una struttura che lo colloca tra cinéma vérité, candid camera e docu-fiction. Un montaggio serrato — caratteristica già del primissimo Forman — restituisce con un’evidenza ai limiti della crudeltà quanto accade sul palcoscenico. I giovani che ci vengono mostrati possiedono tutti i tic e i disagi della loro età, accentuati dal fatto che, davanti a un appuntamento che essi giudicano di capitale importanza, la tensione li porta o a cercare di apparire più grandi o a bloccarsi per l’emozione, come la ragazza che non riesce letteralmente ad aprire bocca (1). Come ha dichiarato il regista, la crudeltà che vi guarda con occhio torvo dallo schermo è presente nella stessa natura dell’audizione. Ma la presunta oggettività del documentario è con tutta evidenza piegata a un discorso personale. Tant’è che Forman inserisce nel contesto “realistico” delle prove un episodio di pura finzione, quello della commessa che chiede il permesso di uscire mentendo al proprio datore di lavoro. La supposta cattiveria formaniana non è tuttavia mai disgiunta dalla comprensione e dalla simpatia, il grottesco e l’ironia non riescono a scalfire la sostanza di ingenuità e purezza di questi adolescenti gettati allo sbaraglio.

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ealizzato con mezzi precari, Konkurs rivela tuttavia un autore già maturo e originale, capace di proporre, nei temi e nello stile, un cinema radicalmente diverso da quello che lo ha preceduto.

1 A confermare l’intreccio inestricabile di realtà e finzione, questa non attrice, Vera Kresadlova, diventerà la seconda moglie di Forman, madre dei suoi primi due gemelli. 35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Tuttavia, a Forman si pone un problema. Il film dura troppo poco perché lo si proietti da solo. La soluzione si presenta contestualmente alla realizzazione del primo lungometraggio del regista. Tutto il cast è definito, manca soltanto l’attore che dovrà interpretare il padre del protagonista. Qualcuno segnala a Forman il direttore della banda dei pompieri di Kolin, la cittadina in cui si è programmato di girare. Questi, che si chiama Jan Vostrčil, si rivela un personaggio dotato di straordinarie qualità mimiche e comunicative. Ma rifiuta la parte perchè l’impegno sottrarrebbe tempo al suo lavoro di musicista. Forman allora gli propone di realizzare contemporaneamente al film un mediometraggio sulle bande musicali. Nasce così Kdyby ty muziky nebyly (t.l.: Se non ci fossero quelle bande musicali). La vicenda è estremamente tenue. Due ragazzi suonano il basso tuba in due diverse bande musicali. Ma quando una prova importante coincide con una gara di motocross essi decidono per quest’ultima. I direttori li espellono ma ciascuno finisce per rimpiazzare l’altro. Lo spunto consente di dare largo spazio all’esecuzione di brani musicali, che Forman filma con divertito compiacimento, costruendo su di loro il ritmo del montaggio e soffermandosi con bonaria ironia sui tipi umani che gravitano attorno a questo microcosmo. Così, sia da un punto di vista stilistico che tematico-strutturale, l’accoppiamento che viene fatto — sotto il titolo comune di Konkurs — con il mediometraggio d’esordio risulta tutt’altro che strumentale. Nonostante l’occasionalità della realizzazione e la (relativa) disomogeneità dell’accostamento, gli elementi del discorso sono infatti già allineati, sia pure in ordine sparso, pronti a confluire nelle più meditate costruzioni successive.

La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

Konkurs / Il concorso, 1963

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La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

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erný Petr (1963, da noi L’asso di picche, alla lettera Pietro il Nero, in entrambe le accezioni la carta della sfortuna) è tratto da un racconto di Jaroslav Papoušek ambientato tra il 1945 e il 1948. Forman afferma di avere spostato la vicenda al presente per motivi di budget, e probabilmente è vero. Di certo, comunque, c’è in questa scelta una precisa volontà di parlare dell’oggi, rifiutando quelle facili scappatoie nel passato che avevano contraddistinto troppo cinema socialista negli anni dello stalinismo, nei quali era pressoché impossibile un approccio problematico con il presente. Come nei due titoli d’esordio, Forman guarda ancora una volta al disagio giovanile, alla difficoltà ad affrontare la vita, i rapporti con i genitori, con l’altro sesso e il mondo del lavoro. Il protagonista — l’incantevole Ladisav Jakim, appena uscito dal cabaret “Semafor” — è tutt’altro che un eroe positivo, apparendo viceversa come un campionario di tutte le incertezze dei coetanei. I suoi problemi hanno certamente natura psicologica, esistenziale. Ma l’ottica del regista non si limita a una sia pure brillante registrazione dei fenomeni sul piano del costume. Anzi, la costruzione accurata di un contesto intorno al personaggio, i continui rimandi a situazioni generalizzabili, rinviano a un sociale sempre presente, anche quando la levigatezza della commedia sembra arrotondarne gli spigoli. La figura di Petr, infatti, va a definirsi rispetto a tre ambiti di appartenenza: la famiglia, il lavoro e il tempo libero.

I Černý Petr / L'asso di picche, 1963

l primo è il microcosmo sul quale Forman insiste maggiormente, e sul quale tornerà. La famiglia, così come ce la mostra il regista, non appare molto diversa dalle corrispettive nei paesi al di qua della cosiddetta Cortina di ferro. A esse infatti la apparenta quell’universale categoria dello spirito rappresentata dalla piccola borghesia.

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l luogo di lavoro è una drogheria che soltanto eufemisticamente potremmo definire grande magazzino. Questo ambiente, fisico e morale, è un misto di squallore tipicamente “socialista” e bottegaismo mitteleuropeo anteguerra, con un direttore mediocre, un piccolo burocrate agilmente trasferibile ad altre realtà del corpo sociale. Anche i clienti sono parimenti male in arnese, fisicamente brutti, mal vestiti, perfino gli scaffali danno l’impressione di essere pieni di derrate di pessima qualità. L’apprendistato — al mestiere e alla vita — di Petr implica oltretutto il compito ingrato di spia, tanto che la comicità, nel suo vagare impacciato, nasce dallo spavento di fronte alla possibilità di scoprire un ladro e doverlo denunciare. La scelta di questo inconsueta attività, al di là della creazione di una serie di gag, non è forse casuale. Essa rinvia, in modo mediato, alla profonda crisi che la produzione industriale e le attività commerciali stanno conoscendo

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in questo periodo nei paesi dell’Esteuropa. Così, questo negozio gestito da incompetenti, in cui i clienti rubano e tutto sembra andare a rotoli, con tanti saluti a un’auspicata “moralità socialista”, può oggi essere visto — magari rischiosamente, attraverso una sorta di cannocchiale rovesciato — come microcosmo di un sistema destinato all’implosione.

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l terzo ambito è quello degli amici e degli amori. Ci sono momenti lirici, negli squarci di natura (il fiume, il paesaggio di Kolín) o negli imbarazzati approcci al sesso (Petr che spia la sua giovane amica mentre si spoglia, facendo un uso in qualche modo “nobile” del voyeurismo, che la sua attività lavorativa vuole pervertito, distolto dal suo oggetto naturale). E c’è molta tenerezza nei dialoghi con i suoi coetanei. Ma anche qui il dato costante è quello dell’incertezza, del disagio. L’amico muratore, ad esempio, pur essendo per mestiere più concreto e vicino alle cose, è tutt’altro che realizzato e vive anch’egli in maniera tragicomica le angosce della sua generazione. Nella lunga sequenza della sala da ballo, Forman torna poi a essere l’entomologo del “Semafor”. In un’ottica ancora una volta fenomenologica ricostruisce quella sorta di “universo concentrazionario” in sedicesimo che è il locale per giovani, popolandolo di figure insieme buffe e grottesche alle quali non vengono tuttavia negate comprensione e tenerezza. Sarebbe dunque ingeneroso accusare di crudeltà il regista, che mette in scena con levità la sempiterna frattura tra le generazioni, l’incertezza degli adolescenti, la loro stessa goffaggine, la pretesa dei genitori di programmare i figli a loro immagine e somiglianza, una situazione archetipica che, sia pure con differenti sfumature, accomuna sistemi economici e sociali a Est come a Ovest, bloccata come il fotogramma fisso che alla fine del film ci consegna il faccione bonario del padre di Petr.

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remiato in patria e fuori, L’asso di picche diventa oggetto di analisi e, fatalmente trattandosi di un’opera prima, di una serie di esegesi comparate.

La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

Questa medietà, fatta di senso e luoghi comuni, è incarnata con efficacia dal padre chiacchierone e pedagogico, splendidamente interpretato dal già citato Vostrcil, mentre alla madre viene affidato il ruolo marginale di temperare gli sproloqui del marito, oltrechè alleviare le sofferenze del figlio con dolci di sua preparazione. La sua è probabilmente la storia di tanti cecoslovacchi della stessa età: la guerra, il passaggio di regime alla fine degli anni quaranta, l’inverno staliniano, l’abitudine al silenzio, il ripiegamento sul privato nella ricerca di uno spazio di sopravvivenza. Anche per questo, forse, Forman non butta del tutto la croce su di lui. Anzi, il suo sembra piuttosto un atteggiamento equidistante, nella simpatia con la quale viene infine connotato il personaggio, al quale va riconosciuta una notevole carica di buon senso. Cosicché si può dire che apra in maniera brillantissima il libro delle caricature formaniano, consegnandoci un personaggio non indegno dell’archetipo letterario imprescindibile per leggere non soltanto l’opera del regista, ma, più in generale, la tendenza della cultura cecoslovacca del novecento attraverso le lenti di un’ironia caustica e strampalata: Il buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek.

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Lásky jedné plavovlásky Gli amori di una bionda, 1965

La più attendibile ci sembra quella del futuro regista André Téchiné, che accosta Forman ad Antonioni, per la narrazione che «prende un andamento interrogativo, che esclude ogni conclusione e definizione», a Olmi per «la persistenza di un’eredità neorealistica nella quale il sapore di un tratto impedisce la caricatura attraverso una dimensione morale» (2). Altri hanno parlato, certo con cognizione di causa, di Nouvelle Vague, Truffaut e Rozier in primis, o di Free Cinema (si pensi a certe tranches de vie fenomenologiche in Reisz e Richardson). Personalmente potremmo suggerire fonti più lontane ed eterogenee come il Vigo di Zéro de conduite o il Salinger di The Catcher in the Rye. Il nome che ricorre più di frequente nella critica, però, è quello di cinéma vérité. L’equivoco nasce dalla apparente contaminazione che Forman attua tra fiction e stile documentaristico. Nei due mediometraggi d’esordio questo era più evidente, pur nella diversità del dosaggio. Ma si trattava tuttavia di un gioco consapevole, di una divertita riflessione sulla precarietà dei mezzi utilizzati.

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n L’asso di picche cadono il tenue alibi della “povertà” e la residua ambiguità dell’avvenimento spiato dallo zavattiniano buco nel muro. Il banale quotidiano è sottomesso a un progetto che prevede una lunga preparazione della sceneggiatura, un capillare lavoro su attori e non attori. La deformazione della realtà che il regista attua attraverso scarti ironici trova il suo corrispondente, a livello di scelta espressiva, nell’uso di un montaggio scandito e autorevole, nel rifiuto di fotografare il dato della messa in scena attraverso il piano sequenza. Il cinema di Forman sembra così definirsi negando sia la drammatizzazione che la registrazione, sospendendosi nella no man’s land delle sfumature.

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e il soggetto di L’asso di picche nasceva da un racconto, quello di Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965) prende spunto dall’incontro fortuito di Forman con una ragazza con la valigia che, dopo un breve incontro d’amore con uno studente capitato nella sua cittadina di provincia, si era recata a Praga scoprendo che l’indirizzo datole dal giovane era falso.

2 André Téchiné, Le sourire de Prague, «Cahiers du Cinéma» n. 174, gennaio 1965. 35° Bergamo Film Meeting / 2017

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quella programmazione socialista che, partendo dall’economia, dovrebbe coinvolgere le scelte più personali. Se indubbia è la sua buona volontà, i risultati appaiono risibili e gettano una patente di incapacità anche sul Compagno Generale, coinvolgendo nella satira l’intoccabile istituzione dell’esercito. I tre riservisti o reduci («Della Grande guerra!», esclama malignamente qualcuno) sembrano infatti usciti ancora una volta dalla penna di Hašek, o magari di quel Bohumil Hrabal a partire dal sodalizio col quale si dipanerà il percorso artistico di Jiří Menzel.

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orman non risparmia loro banalità e meschinerie (anche cattive: si veda la sequenza della bottiglia, prima recapitata per errore al tavolo delle bruttine, poi dirottata su quello delle legittime destinatarie). La sequenza della balera, che dovrebbe sancire l’incontro tra operaie e militari, sposa queste due differenti ma omogenee realtà di squallore in uno dei più straordinari mélanges di tutto il cinema di Forman, in cui l’ironia dimentica la bonarietà e si fa sarcasmo, seppellendo sotto una sequela di gag i piccoli uomini scalpitanti e timorosi per l’approccio con le giovani operaie.

Hoří, má panenko! / Al fuoco, pompieri!, 1967

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Nella sostanza, il film non sposta tuttavia i termini del discorso di quello precedente, anche se lo articola con maggiore complessità, chiamando in causa agganci più solidi con la realtà cecoslovacca contemporanea. Andula, la protagonista, intrattiene infatti rapporti di strettissima parentela con lo sfortunato Petr, anche se per lei il problema fondamentale non é quello del lavoro. Lei ce l’ha, in una fabbrica di scarpe, ma la vita di relazione con le compagne è grigia, i pochi coetanei disponibili sono rozzi e senza un briciolo di fascino. Il nocciolo della questione, comunque, è spostato in avanti rispetto a L’asso di picche. Oggetto principale del film è infatti la scoperta dell’amore fisico da parte di una giovane, delle dolcezze e amarezze legate a questo importante momento. Ma, se le annotazioni psicologiche sono qui del tutto pertinenti, non bisogna dimenticare come il contesto giochi ancora una volta un ruolo importante. Il lavoro, la vita di relazione, i rapporti con l’altro sesso, gli stessi ambienti fisici sono appannati da un percettibile squallore. Il generoso tentativo del dirigente della fabbrica di ovviare all’insufficienza della popolazione maschile facendo arrivare nella cittadina una compagnia di militari si inquadra comicamente in

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iù scontata la definizione dell’ambiente familiare. Anche se i dialoghi tra i genitori di Milda, piccoloborghesi abbrutiti dalla televisione e dalla desuetudine a porsi dei problemi oltrechè ancorati ai più frequentati luoghi comuni, sono ancora una volta gustosi e incisivi, se la bonarietà e la comprensione di Forman riescono a sposarsi con la critica tracciando due sapide caricature, siamo sempre su un registro analogo a quello di L’asso di picche.

D La fenomenologia, l'indiscrezione, la metafora / Forman ai tempi della Nová Vlna

i nuovo c’ è soprattutto lo spazio dato al personaggio femminile. Di Andula, a parte il lavoro, sappiamo abbastanza poco. La mdp di Forman entra con discrezione nella stanza che condivide con altre colleghe e, come più tardi in Taking Off (id., 1971), accarezza oggetti apparentemente insignificanti. Un bisbiglio dapprima indefinito acquista quindi consistenza, mettendoci a parte delle solite confidenze tra adolescenti: il ragazzo, il suo regalo, l’appuntamento. Ma il fidanzato non è proprio quello che i suoi sogni rincorrono, tanto è vero che la cravatta che ha comperato per lui sembra più giustificarsi nella necessità di contraccambiare che in un vero rapporto affettivo. Più tardi, in una delle sequenze più poetiche e insieme divertenti, sapremo che il senso del dono risiede nella costruzione di un rituale, quello delle modalità di consegna, che vengono provate su un tronco in una nevosa foresta di larici sotto gli occhi perplessi di un guardiacaccia. L’amore di Andula è quindi ancora una ricerca senza oggetto, un incerto desiderio di darsi senza destinatario. L’avventura con Milda diventa dunque centrale nell’economia del plot. Il ragazzo ha tutte le caratteristiche per essere il primo uomo: è “carino”, viene da Praga, veste con una certa eleganza, suona il pianoforte, è più colto di lei che non sa chi sia Picasso ed è infine abbastanza uomo di mondo per conoscere tutti gli artifizi (anche truffaldini: si veda la sequenza in cui insegna ad Andula a difendersi dagli approcci non desiderati) per fare breccia nel cuore delle ragazze.La sequenza della seduzione nella camera d’albergo semibuia è una delle più tenere del cinema di Forman, che però non rinuncia alla gag, come quella della tenda che Milda non riesce mai a sistemare, esorcizzando le possibili cadute nel mélo con l’ironia (3).

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al punto di vista linguistico, il film sviluppa e approfondisce alcune costanti dell’opera prima. Come ha scritto Jean Collet, se L’asso di picche «era il ritratto di un personaggio che doveva essere — professionalmente — curioso, o voyeur, se preferite, o indiscreto» per cui «a sua volta il voyeur diventava il soggetto del film, bersaglio di una mdp felina e attenta a non perdere una briciola di questo gioco a nascondino», anche Gli amori di una bionda è una sorta di gioco a nascondino, dove si vede quello che non si dovrebbe vedere, si sente quello che non si dovrebbe sentire (4).

3 Nella versione italiana il film si apre e chiude con Caterina Caselli che canta Nessuno mi può giudicare, ingenerando il sospetto di una grottesca lettura moralistica della vicenda, oltre ad allettare lo spettatore con un motivo in voga. In quella originale, l’incipit è su una ragazza che con la sua commovente acconciatura sembra ancora una volta uscita dal “Semafor”, la quale, accompagnandosi con la chitarra, canta una canzone in cui racconta di un ragazzo trasformato in uno hooligan dal bacio di una poco di buono, la conclusione su un’altra che intona l’Ave Maria di Bach-Gounod senza parole. 4

Jean Collet, Indiscrétions, «Cahiers du Cinéma» n. 176, marzo 1966. 35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Tutto è all’insegna dell’indiscrezione, quella che spinge la madre di Milda ad aprire la valigia di Andula, che fa origliare la ragazza alla porta della stanza in cui dormono il giovane e i genitori. La mdp è una presenza indiscreta che sottolinea la gaffe, ma la gaffe consiste proprio nel fatto che la cinepresa sia là, facendo nascere il riso e il disagio.

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opo Gli amori di una bionda Forman rischiava di finire in un cul-de-sac. Quella che abbiamo chiamato estetica dell’indiscrezione minacciava di sfibrarsi in ripetizioni che avrebbero ridotto notevolmente il respiro del suo cinema. Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko!, 1967, ma letteralmente Fuoco, ragazza mia) rappresenta il superamento di questa possibile impasse e il decollo verso nuovi orizzonti. La novità dell’opera, la sua pregnanza metaforica, non riguardano unicamente l’iter artistico

del regista, ma sono strettamente connesse con la profonda evoluzione politica della Cecoslovacchia in questo periodo breve e febbrile, in un rapporto di feconda interazione. «Assieme a tutto il resto della cultura cecoslovacca, con gli studiosi umanistici, con gli economisti, con i migliori giornalisti e, nelle ultime fasi, con il contributo di alcuni esponenti dell’establishment politico, il cinema cecoslovacco ebbe un ruolo importante nel porre le basi culturali e sociali per quella che sarebbe diventata la Primavera di Praga del 1968. Ma fu soltanto a partire dal 1968, quando ogni censura era stata abolita e i gruppi di produzione avevano raggiunto piena autonomia, che i film cecoslovacchi cessarono di essere solo analisi parziali e palloncini sonda e cominciarono a delineare un quadro di quella che il filosofo Karel Kosík definì la totalità concreta del mondo stalinista» (5).

5 Mira e Antonin J. Liehm, Il cinema nell’Europa dell’est negli ultimi quindici anni, in Il cinema nell’Europa dell’Est, Marsilio/La Biennale di Venezia, Venezia 1977. International Film Festival

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Hoří, má panenko! / Al fuoco, pompieri!, 1967

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nalizzando le differenze tra Al fuoco, pompieri! e i due lungometraggi che lo hanno preceduto, la prima che salta agli occhi, a parte i colori caldi della fotografia di Ondříček, riguarda la struttura. Qui mancano i protagonisti, la scena sembra brulicare di insetti talmente anonimi da non meritare un’attenzione particolare. Così il film, che si esaurisce completamente nel ballo a parte un breve prologo e un altrettanto breve epilogo, si organizza in tre nuclei — diciamo così — drammatici, costituiti dalla lotteria, l’elezione delle miss e l’incendio della casa. Ciascuno di questi momenti dà a Forman la possibilità di mettere a frutto la sua sperimentata ottica di acuto osservatore dei comportamenti umani, facendogli cogliere il ridicolo e il grottesco nelle situazioni più ordinarie. Ma questa volta, complice il mutato clima politico, l’osservazione caustica non si arresta sulla soglia del non detto, l’ironia non si stempera nel sorriso. Dall’allusione delle agrodolci commedie di costume il regista passa alle irridenti durezze di una trasparente costruzione metaforica. I pompieri, cioè la classe dirigente, palesemente inetti rispetto alla loro funzione primaria, dimostrano la loro pochezza anche nell’organizzazione del ballo, della lotteria e del concorso di bellezza. Intellettualmente poco dotati, ipocriti, afflitti da molteplici miserie sul piano sessuale, psicologicamente legati al più vieto senso comune, incarnano un potere ormai impotente al quale l’apparenza della divisa va stretta non riuscendo più a celare le magagne. Ma neppure i loro “sudditi” si salvano: anni e anni di abitudine li hanno piegati a immagine e somiglianza dei gestori della cosa pubblica, dei quali condividono miseria morale, arrivismo spicciolo e tendenza al furto come pratica generalizzata.

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se ancora Hašek ci può essere di aiuto per costruire un retroterra culturale, la presenza di una palese satira della società può far giustamente citare ad Antonin J. Liehm il Gogol’ dell’Ispettore Generale (6).I padri, che hanno subito lo stalinismo finendo per esserne complici, stanno morendo. I figli sono in grado solo di garantire lo sfacelo, nel piccolo cabotaggio della gestione burocratica. L’edificio del regime è quasi crollato, i suoi zelanti si limitano a montare la guardia alle macerie.

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ella sua scanzonata ferocia, il film seppellisce definitivamente una generazione e una gestione del potere, ponendo con categorica urgenza la necessità di voltare pagina. Ed è gran merito della sua “cattiveria del nuovo” il fatto che non ci proponga una soluzione positiva che possa in qualche modo recuperare e addolcire il suo messaggio. In questo senso, Al fuoco, pompieri! è un’opera chiave, momento discriminante tra la fine di un’epoca storica troppo lunga e l’inizo di un’altra troppo breve (7). 6 Antonin J. Liehm, The Milos Forman Stories, International Arts and Sciences Press, White Plains, N.Y., 1975. 7 Questi veloci appunti sul cinema di Forman prima del suo approdo a Hollywood toccano solo di sfuggita la situazione storico-politica in cui è nata la Nová Vlna, e ancora di più la collocazione del regista nel suo ambito, accanto ai vari Němec, Chytilová e Menzel. Per chi voglia approfondire suggeriamo l’ancor oggi fondamentale Nová Vlna — Cinema cecoslovacco degli anni ‘60, a cura di Roberto Turigliatto, Festival Internazionale Cinema Giovani/Lindau, Torino 1994. E, si parva licet, il nostro «Castoro» su Forman, La Nuova Italia, Firenze 1981, certo datato e con tutti i limiti del lavoro critico prima dei VHS e dei DVD, al cui impianto si rifanno comunque queste note. 35° Bergamo Film Meeting / 2017

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Lásky jedné plavovlásky / Gli amori di una bionda, 1965

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Černý Petr L'asso di picche 1963

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Eva Zaoralová

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«A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta all’età di ormai quasi trent’anni, avevo finito gli studi, ma il sogno di fare una carriera di regista cinematografico non si era ancora realizzato… A quei tempi avevo già scritto alcune sceneggiature, fatto l’aiuto regista e collaborato al casting, ma non avevo ancora tenuto in mano una cinepresa, non avevo mai giuntato due pellicole cinematografiche né parlato delle mie idee con un compositore.

Ronzava terribilmente, ma aveva uno splendido obiettivo Zeiss Jena».

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osì Miloš Forman racconta il contesto in cui nacque il suo primo film Konkurs (t.l.: Il concorso). Nel 1961, quando insieme al vecchio compagno di scuola Ivan Passer e al nuovo amico Miroslav Ondříček, cameraman presso gli Studi di Barrandov, cominciò a girare un documentario muto sul teatro “Semafor”, che in quel periodo cominciava a essere in voga sulle scene teatrali praghesi, il ventinovenne Miloš Forman aveva già alle spalle una serie di esperienze lavorative. Aveva collaborato alla sceneggiatura del film Nechte to na mně (t.l.: Lasciate fare a me, 1955) di Martin Frič, massimo esponente della commedia cinematografica ceca e al debutto del regista Ivo Novák con il film Štěňata (t.l.: I cuccioli, 1957), aveva collaborato con Alfréd Radok come assistente alla regia durante le riprese del film Dědeček automobil (t.l.: Nonno Automobile, 1956) e, soprattutto, alla realizzazione del suo famoso progetto Laterna Magika, che ebbe un grande successo all’EXPO 1958 di Bruxelles.

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Decisi che dovevo rimediare a queste lacune della mia formazione cinematografica e che l’avrei fatto a mie spese. Prelevai tutti i miei risparmi e comprai una pesante cinepresa fabbricata nella Germania Est che era appena comparsa sul mercato.

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All’Accademia di cinema FAMU, dove Miloš era capitato più per caso che per scelta, conseguì il diploma in sceneggiatura. Nella vita privata stava facendo i conti con il fallimento del suo primo matrimonio con la stella del cinema ceco Jana Brejchová, un’attrice che aveva suscitato interesse anche all’estero grazie al film di Jiří Weiss La tana del lupo (Vlčí jáma, Premio FIPRESCI alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1958).

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ermamente deciso a diventare un grande regista, seguendo il sogno che aveva accarezzato fin dall’infanzia tragicamente segnata dalla perdita dei genitori morti durante la seconda guerra mondiale nelle prigioni naziste, dotato di un eccezionale talento di osservatore e fermamente convinto che il compito del cinema fosse di raccontare la verità sulla vita della gente comune, entrò con la macchina da presa che ronzava sulla scena del teatro “Semafor”, dove conosceva bene i fondatori, i famosi Jiří Suchý e Jiří Šlitr. Al “Semafor” si stava svolgendo un’audizione di nuove cantanti e il modo penoso in cui le candidate, cercando di nascondere la mancanza di talento, si mettevano in mostra nella speranza di diventare famose, era talmente stupefacente che sembrava fatto apposta per essere registrato. Girare un semplice documentario, tuttavia, a Forman sembrò troppo poco. Organizzò pertanto un finto concorso, collegando le scene in cui le ragazze facevano le smorfie davanti al microfono con la semplice storia di una commessa che scappa dal lavoro per partecipare alla gara e il cui palese insuccesso convince un’altra ragazza a non cantare, nonostante le sue evidenti possibilità di vincere grazie al talento e all’esperienza professionale. Quella ragazza dai capelli neri era Věra Křesadlová che poco tempo dopo divenne non solo cantante e attrice di spicco del teatro “Semafor”, ma anche la seconda moglie di Forman e madre dei gemelli Petr e Matěj, oltre che eccellente interprete del primo film di Ivan Passer Intimní osvětlení (t.l.: Illuminazione intima, 1965). Dato che le riprese erano fatte con una cinepresa amatoriale, il suono doveva essere registrato a parte su un nastro magnetico, per cui durante il montaggio fu quasi impossibile abbinare le riprese alle registrazioni sonore effettuate separatamente. Il risultato fu talmente sorprendente che la maggior parte delle persone, compresi coloro da cui più o meno dipendeva il destino di questo film realizzato privatamente e del suo autore, dovettero riconoscere che «nel cinema ceco una cosa simile non si era ancora mai vista».

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in da questa sua prima opera Forman non si affidava all’improvvisazione, come gli viene spesso erroneamente attribuito. Già allora si basava sulla sceneggiatura, naturalmente prendendo in considerazione la possibilità di eventuali cambiamenti che potevano succedere davanti alla cinepresa nel girare una determinata situazione. La sfilata delle partecipanti all’audizione rappresenta una rapida successione di inquadrature in cui ragazze per lo più prive di talento cantano Oliver Twist, il tormentone in stile rock-and-roll di allora. Nel montaggio diciassette ragazze si alternano davanti al microfono, in riprese di varia durata; ad alcune viene lasciato il tempo di cantare un pezzo di una canzone, altre fanno appena in tempo

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a cominciare o a finire una sola parola della ripresa precedente, oppure solo a fare un respiro per essere “tagliate” subito dopo. A volte dimenticano il testo e si limitano a fissare imbarazzate la cinepresa. Non si può negare che in questa rassegna di situazioni penose vi sia una certa malignità, che del resto in seguito la critica spesso rinfacciò a Forman anche per altri suoi film, in particolare nella scena di una gara simile e non meno parodistica in Taking Off (id., 1971). Le scene con le due protagoniste della storia apparentemente priva di significato sono recitate con la stessa spontaneità con cui Forman riuscì a far recitare gli attori non protagonisti in altri film.

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Černý Petr L'asso di picche 1963

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ll’epoca in cui montava le riprese di queste goffe cantanti, Forman aveva già in mano il soggetto di un altro film il cui autore era lo scultore Jaroslav Papoušek. Prima che si chiarisse il destino del Konkurs, troppo breve per essere presentato da solo, ma che gli autori non volevano ridurre alle dimensioni di un cortometraggio da proiettare prima del film principale, il trio Forman, Passer e Papoušek rielaborò il soggetto originale trapiantando la storia di L’asso di picche (Černý Petr, 1963) dal 1947 nella realtà dei primi anni Sessanta. Prima che la sceneggiatura fosse approvata e che questo suo primo lungometraggio passasse alla produzione Forman, in collaborazione con Passer e Ondříček, riuscì a girare il mediometraggio Kdyby ty muziky nebyly (t.l.:

Se non ci fossero quelle bande musicali) che in seguito costituì la prima parte di Konkurs. Le due parti formano una sorta di feuilleton, dove l’ambiente musicale è osservato dal punto di vista della giovane generazione, ma al posto della musica beat c’è, in questo caso, una banda musicale, un genere molto amato dalla gente di campagna. Figure centrali della parte intitolata Kdyby ty muziky nebyly sono i giovani componenti di due orchestre antagoniste, entrambi appassionati di gare di motociclismo. A causa della loro passione trascurano il proprio dovere e vengono espulsi dall’orchestra. Ma poiché vengono licenziati, si libera un posto in entrambe le orchestre e ognuno dei due passa semplicemente alla concorrenza, quindi alla fine non succede niente. In contrasto con i due giovani e sconsiderati protagonisti si pone il capobanda della vecchia scuola, rappresentato da un vero capobanda, Jan Vostrčil, un attore scoperto da Forman che l’avrebbe in seguito utilizzato per tutti i suoi film girati in Cecoslovacchia. Mentre il ruolo del giovane trombonista Vláďa era stato affidato ad un giovane aspirante attore, Vladimír Pucholt, Jan Vostrčil in sostanza recitava il proprio ruolo. Miloš Forman aveva trovato in lui quel tipo di “non attore“ che riesce a superare i limiti della propria personalità immedesimandosi nel ruolo che gli è stato assegnato, come l’autoritario direttore d’orchestra o il padre che fa la predica nell’Asso di picche o il funzionario del coro dei pompieri in Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko!, 1967).

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ue anni dopo le riprese dell’audizione al teatro “Semafor”, il film arrivò finalmente nelle sale cinematografiche, con il titolo di Konkurs, composto di due parti: Kdyby ty muziky nebyly e Audition. Contemporaneamente era pronto anche il lungometraggio L’asso di picche, girato ormai in modo professionale. La prima visione dei due film ebbe luogo nella primavera del 1964 e gli spettatori fecero la fila davanti ai cinema non solo a Praga, ma anche in altre città cecoslovacche. Ci si potrebbe chiedere come era potuto accadere che Miloš Forman fosse riuscito in questo doppio debutto cinematografico se dall’avvento al potere dei comunisti nel 1948 era obbligatorio rispettare l’estetica del realismo socialista, i personaggi positivi dei film dovevano essere degli operai o dei contadini diligenti, mentre quelli negativi erano rappresentati dagli imperialisti occidentali che cercavano di distruggere l’edificazione del socialismo. Questo in una cinematografia in cui a decidere su soggetti, sceneggiature e produzione erano persone alle quali, senza alcuna istruzione, era stato affidato l’incarico politico di giudicare delle opere d’arte nella veste di esecutori del partito comunista al potere, vietando tutto ciò in cui vedevano una critica del sistema socialista.

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ccorre spiegare che, alla fine degli anni Cinquanta, quando lo Studio statale Barrandov controllava severamente la produzione dei film a cominciare dal soggetto e dalla sceneggiatura, una serie di progetti erano stati rifiutati fin dall’inizio o proibiti prima ancora della loro presentazione. Dopo il famoso discorso di Chruščëv sul culto della personalità pronunciato al XX Congresso del Partito comunista sovietico all’inizio del 1956, la situazione politica si andava distendendo. Sebbene i fatti accaduti in Ungheria avessero temporaneamente riportato ad un irrigidimento ideologico, tuttavia nell’ambito del cinema di stato cecoslovacco, dove si decideva sulla cinematografia a livello ministeriale, si riscontrò un certo progresso grazie al ricambio dei dirigenti e ai nuovi direttori artistici. Alcuni di essi erano persone di vedute più larghe che conoscevano meglio l’arte cinematografica mondiale dell’epoca ed erano in grado di giudicare meglio il potenziale delle proposte che

non valutavano più con criteri gretti. Gli inizi di Forman si collocano così in un periodo in cui, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, alcuni autori più anziani riuscirono a girare dei film con delle idee più profonde: Velká samota (t.l.: La grande solitudine, 1960) di Ladislav Helge oppure almeno dei ritratti anticonformisti, come fu per il debutto di Zbyňek Brynych Žižkovská romance (t.l.: Romanza di Žižkov, 1958) con un’evidente influenza del neorealismo. In quell’epoca alla FAMU si diplomavano i cineasti della generazione di Forman e Passer (Věra Chytilová, Evald Schorm, Jan Němec, Jiří Menzel, Jaromil Jireš, Pavel Juráček, Antonín Máša, gli slovacchi Štefan Uher, Juraj Jakubisko, Elo Havetta), accomunati da un modo di pensare simile e da una buona conoscenza del cinema italiano o francese. Grazie al leggendario professor A.M. Brousil, uno dei fondatori della FAMU, ebbero la possibilità di conoscere sistematicamente nel corso dei loro studi le opere del neorealismo, ma anche gli esordi di Ermanno Olmi, i primi film della nouvelle vague francese e del cinéma vérité. La maggior parte dei colleghi di Forman, tranne Evald Schorm, si concentravano tuttavia più sull’allegoria e sulla metafora, perché in questo modo potevano aggirare le esigenze ideologiche ed estetiche della politica culturale del regime. Anche se non pubblicarono mai un manifesto comune (una cosa simile si sarebbe scontrata immediatamente con il rifiuto dei censori che decidevano sui contenuti dei film), la loro produzione cominciò ad essere indicata come la nouvelle vague cecoslovacca.

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in dall’inizio della sua carriera Miloš Forman non si espresse mai tramite allegorie e stilizzazioni. Già da bambino amava osservare le persone nella bottega dello zio che l’aveva adottato dopo l’arresto dei genitori e, dopo la guerra, durante i viaggi domenicali in treno dal collegio a casa del fratello più grande. «Già allora decisi fermamente che, se mai fossi riuscito a girare un mio film, avrei cercato di fare in modo che fosse il più vicino possibile alla realtà. Le persone avrebbero dovuto essere e agire come quelle che vediamo ogni giorno intorno a noi. Ma paradossalmente fu proprio questo desiderio ad allontanarmi dall’idea di un vero e proprio documentario.

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Hoří, má panenko! / Al fuoco, pompieri!, 1967

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on la sua forte personalità Miloš Forman riuscì a convincere delle proprie idee Jiří Šebor e Vladimír Bor che erano a capo di uno dei gruppi di produzione dello Studio cinematografico Barrandov. Ottenne un finanziamento modesto per girare Konkurs ed un sostegno anche per il suo secondo semidocumentario, Se non ci fosse la musica. Sotto la loro direzione nacquero poi anche tutti gli altri film che Forman girò in Cecoslovacchia.

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a sceneggiatura di L’asso di picche, di cui alcuni brani uscirono nel 1963 sulla rivista mensile «Film a doba» (Il film e i tempi), prima di essere pubblicata per intero nella prima parte dell’almanacco «3 ½» di Jiří Janoušek dedicato alla nouvelle vague ceca, mette in evidenza quanto i film di Forman fossero ben costruiti sia per quanto riguarda le situazioni che per i dialoghi. Confrontando il film finito con la sceneggiatura, si scopre tuttavia che il regista sapeva anche improvvisare durante le riprese per dare la massima autenticità all’ambiente e al linguaggio degli intepreti. La storia di L’asso di picche, a dire il vero, non ha alcuna trama: troviamo il sedicenne Petr nel momento in cui debutta nella vita lavorativa come apprendista, istruito da un lato dal padre autoritario, dall’altro lato dal direttore di un negozio di alimentari, dove deve sorvegliare i clienti perché non rubino. Questo ruolo non piace al ragazzo timido e goffo, ma non riesce ad opporsi. Dopo una serie di episodi privi di drammaticità che si limitano a illustrare i tratti della passività di Petr e la sua crescente ribellione contro il padre patriarcale, il suo goffo tentativo di stabilire un rapporto amoroso con Pavla e di fare amicizia con l’apprendista

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I film cechi di Miloš Forman

La presenza stessa della cinepresa, infatti, disturba spesso l’autenticità… Descrivere la vita quotidiana in un documentario non è facile, spesso è meglio semplicemente ricostruirla», dice nel libro autobiografico Che ne so? Ovvero cosa posso farci se è vero (Co já vím? aneb Co mám dělat, když je to pravda), a pagina 163.

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muratore Čenda, abbandoniamo il protagonista nel momento in cui, nel bel mezzo di una delle prediche del padre che sta per dargli un ceffone, compare inaspettatamente Čenda e l’esasperazione del padre di Petr si sposta a poco a poco su di lui in quanto altro rappresentante della giovane generazione che “sa cosa non vuole, ma non sa cosa vuole”. Nel bel mezzo del gesto del braccio alzato il monologo educativo si interrompe e il film finisce, senza che veniamo a sapere quale lezione il padre di Petr intendesse impartire a Čenda. Con la figura impacciata di Petr, Forman portò sullo schermo il primo dei suoi personaggi outsider fra i quali, a differenza del timido Petr che non ha l’energia per ribellarsi, troveremo nei film successivi dell’autore anche dei ribelli. Il loquace Čenda in realtà si differenzia poco da Petr, anche lui si limita a ostentare sicurezza e coraggio. Per questo personaggio Forman scelse come interprete Vladimír Pucholt, che aveva già dato una buona prova di sé nel film precedente ambientato in una banda musicale, ma che ormai era troppo grande per il ruolo di Petr, mentre Ladislav Jakim, al quale il regista aveva affidato un piccolo ruolo in Concorso, espresse splendidamente la timidezza e l’indecisione dell’adolescente Petr. Nel ruolo di rappresentante della generazione dei padri che hanno le idee chiare su tutto e sanno meglio di tutti cosa sia buono per i figli, spiccò nuovamente Jan Vostrčil. La madre di Petr che sforna ottimi dolci, fu interpretata con particolare naturalezza da Božena Matušková, un esempio di quel tipo di non attori che, secondo Forman, sullo schermo riescono ad essere solo se stessi.

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a prima proiezione privata di L’asso di picche non suscitò alcuna reazione negativa né positiva da parte dei rappresentanti degli organi ufficiali presenti, ma sui giornali uscirono delle recensioni favorevoli e il film non fu condannato nemmeno dal temuto quotidiano «Rudé Právo». La critica per lo più apprezzò la capacità di osservatore di Forman, la coraggiosa rappresentazione del tema dei giovani, compresa la componente erotica presentata qui con ironia. Poco tempo dopo il film fu invitato a Locarno dove vinse il primo premio, malgrado la concorrenza dei film di J.L. Godard (Les Carabiniers, id., 1963) e Michelangelo Antonioni (L’eclisse, 1962). Secondo la critica estera la

prima opera di Forman mostrava i segni della maturità dell’autore e metteva in evidenza l’autenticità dei personaggi e un originale umorismo. Seguirono inviti ad altri festival e altri premi, in particolare il Premio della critica cinematografica cecoslovacca e la Menzione d’onore del cinema cecoslovacco, il che apriva le porte a Miloš Forman per poter cominciare a lavorare ad un altro film.

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o spunto gli venne di notte, da un incontro casuale con una ragazza che trascinava un’enorme valigia e che gli raccontò la sua storia. Era arrivata da un paesino per raggiungere un uomo che le aveva giurato il suo amore e l’aveva invitata a Praga, ma l’indirizzo che le aveva dato non esisteva. Il solito terzetto Forman, Passer e Papoušek cominciò a scrivere la sceneggiatura che fu riscritta più volte prima di arrivare ad una storia ambientata in una città di provincia, dove le dipendenti di una fabbrica locale di calzature, quasi tutte giovani, soffrono per la cronica mancanza di occasioni di fare conoscenza con l’altro sesso. Il direttore della fabbrica organizza per loro una festa da ballo dove invita dei militari. Solo che al posto dei giovani soldati arrivano dei riservisti piuttosto attempati e per lo più sposati, anche se alcuni di loro nascondono volentieri l’anello nuziale. La bionda sedicenne Andula, una versione femminile di Petr del film precedente, annoiata dalla compagnia di tre “paparini”, cede alle avances del giovane pianista dell’orchestra e trascorre la notte con lui. Poco tempo dopo, poiché Milda non si fa sentire, parte per cercarlo a Praga. Quando suona il campanello di casa, le aprono sorpresi i genitori del ragazzo che non nascondono il loro disappunto, accogliendo la ragazza con una predica moralistica. Tuttavia non mandano via Andula e le assegnano il divano in cucina, dove è solito dormire il figlio. Tornato a casa molto tardi, anche lui sembra sorpreso e viene obbligato dai genitori a passare il resto della notte con loro nel letto matrimoniale, fra i rimproveri della madre scandalizzata e i suoi litigi con il marito che vorrebbe dormire. Andula, delusa per la scoperta che a Milda non importa niente di lei, torna in fabbrica, ma descrive la sua gita alle amiche con tinte romantiche, così come l’aveva immaginata lei stessa.

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l successo del primo lavoro aveva facilitato a Forman l’approvazione della sceneggiatura, ma non influenzò il budget per Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965). Durante le riprese che si svolsero prevalentemente a Zruč nad Sázavou, dove si trovava una fabbrica di calzature in cui lavoravano numerose giovani operai nubili, i cineasti dovettero accontentarsi di condizioni molto spartane, sebbene Forman ricordi la realizzazione di questo film come uno dei periodi più felici della sua vita. Fin dal momento in cui era stata scritta la sceneggiatura aveva pensato, per il ruolo di Milda, a Vladimír Pucholt, il Čenda del Konkurs. Il personaggio dell’ingenua Andula fu affidato a Hana Brejchová, la sorella della sua ex moglie. Nel resto del cast alternò di nuovo con successo attori con non attori, secondo la sua teoria che mischiare gli attori professionisti con i non attori può essere positivo per un film, a condizione che gli attori abbiano una forte personalità teatrale e che non si spaventino del comportamento rozzo e spontaneo dei non attori. Una simile forte personalità, nella prima parte del film ambientata in una sala da ballo, fu interpretata da Vladimír Menšík nel ruolo di uno dei soldati in uniforme di riservista, un ottimo attore sia comico che drammatico famoso fra l’altro per aver recitato nel film di Vojtěch Jasný Cronaca morava (Všichni dobří rodáci, 1968). I film cechi di Miloš Forman

Lásky jedné plavovlásky / Gli amori di una bionda, 1965

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Lásky jedné plavovlásky / Gli amori di una bionda, 1965

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on la sua recitazione professionale ma spontanea Menšík, seduto a tavola accanto a degli attori non professionisti, dava il giusto tono a quella festa improvvisata, creando un gruppo omogeneo. Nella scena in cui Menšík, durante una sterile conversazione fra gli ospiti in uniforme e le ragazze inesperte, interrompe gli attimi di imbarazzato silenzio, nessuna gag viene portata a termine. Per Forman non è importante concludere le battute finali, che al contrario lascia deliberatamente inconcluse perché somiglino il più possibile alla vita di tutti i giorni. Anche la storia d’amore fra Andula e Milda, culminante con la scena a letto ancor oggi molto apprezzata, si svolge come involontariamente, al limite fra il serio e il ridicolo, mettendo ancor più in contrasto l’insistenza seduttiva del giovane pianista e la commovente spontaneità con cui Andula gli si concede. Nella seconda parte, ambientata nello spazio chiuso di un piccolo appartamento, il ruolo dei genitori fu interpretato da non attori, Milada Ježková e Josef Šebánek, con una tale convinzione che Forman, e non solo lui, continuò ad assegnare loro un ruolo anche nei film successivi. In particolare Milada Ježková, il cui peronaggio è descritto nella sceneggiatura come quello di una “madre apprensiva”, aggiunse a questo carattere sostanzialmente positivo i tratti di una grettezza piccoloborghese prepotente e aggressiva, contribuendo all’effetto fortemente satirico della parte finale del film. Anche questa volta furono sviluppate durante le riprese alcune scene che nella sceneggiatura erano solo accennate, ad esempio tutta la scena del litigio a letto dei genitori, in cui i protagonisti adattarono i dialoghi alla propria visione della situazione con un’incredibile naturalezza.

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no dei principali critici cinematografici del tempo, A.J. Liehm, ha paragonato lo stile dei film di Forman e il suo rifiuto della drammaturgia tradizionale nella costruzione di una storia con il metodo di Charlie Chaplin.

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’interesse del famoso produttore italiano a partecipare alla produzione del film successivo fu per Miloš Forman molto più importante del Premio Statale Klement Gottwald che aveva ricevuto nel suo Paese. In ogni caso la sua fama crebbe e, agli inizi della Primavera di Praga, per il regime comunista che si stava lentamente avvicinando al “socialismo dal volto umano” era l’esponente più accettabile della “nuova onda”, grazie all’umanità dei suoi film e al successo di cui non potevano certo vantarsi altri colleghi concentrati sul linguaggio dei simboli e delle metafore.

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opo aver girato per la televisione ceca il fortunato spettacolo del teatro “Semafor” Dobře placená procházka (t.l.: Una passeggiata ben pagata, 1966), a cui sarebbe ritornato anni dopo, e dopo il vano tentativo dei tre amici di trasformare in sceneggiatura il soggetto sul quale inizialmente si era accordato con Carlo Ponti, Forman cominciò a cercare l’argomento per un nuovo film. Come per il film precedente, anche questa volta i cineasti trovarono l’ispirazione in un’esperienza vissuta realmente, la partecipazione ad un ballo di pompieri organizzato nella cittadina di Vrchlabí, ai piedi dei Monti dei Giganti. Ciò che avvenne nel corso della festa da ballo fornì il soggetto per il film Al fuoco, pompieri!. Forman e Papoušek si fecero poi un’idea dell’interpretazione dei personaggi principali dopo il ballo nell’osteria locale, dove fecero meglio conoscenza con gli organizzatori dell’evento che erano dei veri pompieri.

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nche quella volta la sceneggiatura ebbe varie versioni, sebbene rimanesse sempre valido l’accordo stipulato con la produzione statale ceca Filmexport che Carlo Ponti avrebbe investito nella produzione del film 80.000 dollari, cosa che avrebbe permesso al regista di girare per la prima volta a colori. Nemmeno questa volta il film aveva una vera storia; la trama era composta da una serie di situazioni comiche ispirate prima dai preparativi per lo più falliti della serata, poi dal suo svolgimento, interrotto dallo scoppio di un incendio divampato in paese, al quale i paesani assistono affascinati. L’atmosfera di questa scena drammatica dà al film una sfumatura tragica che rompe stilisticamente con la narrazione precedente, piena di allegria. Successivamente la gente torna in sala per partecipare al clou della festa. Si girò in una vera sala da ballo di paese con un gran numero di comparse composte prevalentemente dagli abitanti del posto. Nell’intreccio delle scene si evidenziano a poco a poco, fra la folla dei partecipanti, i membri del comitato della festa e il suo presidente (Josef Vostrčil), le candidate per lo più anonime del concorso di bellezza e il sorvegliante della lotteria con la moglie, unici personaggi caratterizzati da una descrizione psicologica più approfondita.

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Anche per Chaplin l’umorismo scaturisce da una catena di situazioni, non da una storia unitaria. Sebbene il regista stesso abbia sempre sottolineato di non voler fare un film politico, sia L’asso di picche che Gli amori di una bionda erano una rappresentazione della vita reale degli strati popolari della società e del suo provincialismo, distorti in qualche modo dalla pressione della morale ufficiale. Proprio per questo motivo una parte dell’opinione pubblica ceca rimase scandalizzata dalla visione di Forman della vita quotidiana delle persone semplici. Ad esempio la scena d’amore dei protagonisti nella prima parte del film Gli amori di una bionda provocò un’acceso dibattito nell’opinione pubblica sul tema del sesso nei film. In ogni caso l’eccezionale successo di entrambe le opere confermava che i film di Forman potevano portare un messaggio anche senza l’etichetta dell’“impegno politico”. «I film di Forman sono l’antitesi diretta di ogni propaganda, di ogni forzatura ideologica. Annotano frammenti impercettibili, ma reali delle reazioni psicologiche», secondo il famoso storico e teorico del cinema tedesco occidentale Ulrich Gregor («Die Welt», Amburgo, 4 settembre1965). La maggior parte dei critici, in Patria e all’estero, apprezzò Gli amori di una bionda ancor più di L’asso di picche. Forman poteva essere al culmine della gioia: non solo il film fu invitato nel 1965 al Festival internazionale del cinema di Venezia e in seguito anche nominato all’Oscar nella categoria dei film stranieri, ma oltretutto cominciò ad interessarsene Carlo Ponti.

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Tutti gli interpreti non attori, sia quelli con una precedente esperienza che quelli scoperti da poco, sono inseriti in un mosaico di scene concentrate su alcuni temi: la guardia ai premi della lotteria, l’elezione della reginetta di bellezza scelta fra le giovani non particolarmente attraenti del luogo, il grottesco atto di solidarietà nei confronti del vecchietto al quale è appena bruciata la casa, la successiva scoperta che i premi della lotteria sono stati rubati, e infine la consegna del premio ad un membro meritevole del corpo dei pompieri che si rivela un ulteriore disastro della cerimonia.

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’umorismo pacato dei film precedenti, dove l’attenzione era incentrata sui rapporti familiari, lasciava ora il posto al grottesco e ad una satira esplicita che mirava, attraverso un’inquadratura allargata, ad un gruppo più ampio, composto da varie generazioni e da un maggior numero di tipi umani. Tutto partiva dalla situazione creata da una folla di persone e dalle sciocche attività ideate dagli organizzatori del ballo. Questa volta Miloš Forman non potè negare il significato metaforico del furto della lotteria o dell’atteggiamento della moglie del guardiano che deride la sua onestà. Come anche quello dei membri del comitato della festa che poco dopo rinfacciano all’onesto collega di averli messi in ridicolo con il suo tentativo di restituire la soppressata rubata dalla lotteria. Era evidente che si trattava di un’allusione alla cattiva situazione economica dello Stato coperta dall’ipocrisia e dalla menzogna. Questo naturalmente non poteva piacere agli esponenti del potere statale che presto trovarono un pretesto per criticare il nuovo film, sostenendo che Forman aveva messo in ridicolo le classi popolari con un ritratto sarcastico della nobile professione dei pompieri (il termine ceco più usato hasič, pompiere, fu del resto sostituito dal regime socialista con il termine a suo dire meno dispregiativo di požárník, vigile del fuoco). Sebbene, secondo la testimonianza di Forman, gli abitanti della cittadina dove era stato girato il film non avessero trovato niente di male nella descrizione della festa da ballo e si fossero divertiti molto alla proiezione del film, dove spesso si riconoscevano, bastò organizzare alcune proiezioni ufficiali per altri corpi di pompieri, in precedenza preparati al fatto che avrebbero visto un film che sminuiva il valore della loro attività, perché si

moltiplicassero pubbliche proteste per vietare ulteriori proiezioni. Non furono di meno i critici che si soffermarono sul «tono astiosamente critico», scrivendo addirittura, nel caso di Jan Kliment, che si trattava «del film più scarso di Forman […] dove il pubblico ride in situazioni in cui può ridere solo un cinico». («Kulturní tvorba», 6 1968, n. 3, pag. 13). Il colpo finale, però, arrivò da Carlo Ponti che dopo la proiezione se ne andò senza dire una parola facendo sapere subito dopo che voleva indietro i suoi 80.000 dollari, ufficialmente perché non era stato rispettato il contratto secondo cui il film sarebbe dovuto durare almeno settantacinque minuti (Al fuoco, pompieri! dura solo 73’). In realtà rimproverava al film di mettere in ridicolo la gente comune, una critica non molto diversa dalle obiezioni dei comunisti.

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’ultimo film che Miloš Forman realizzò in Patria ebbe anche in seguito un destino avverso. Il contributo del produttore italiano fu fatturato da Filmexport all’autore, mentre a Cannes, dove il film Al fuoco, pompieri! era stato inviato nel maggio 1968 per partecipare al concorso sull’onda della Primavera di Praga, non fu nemmeno proiettato a causa dell’interruzione provocata dalla protesta degli intellettuali occidentali. Dopo il 21 agosto 1968, quando la Cecoslovacchia venne occupata dalle “truppe dei Paesi alleati“, Forman era a Parigi e, grazie a Claude Berri, Truffaut e altri amici che comprarono i diritti del film, poté pagare a Filmexport la somma richiesta da Carlo Ponti. In Cecoslovacchia il film Al fuoco, pompieri! fu poi chiuso nella cassaforte del direttore generale dell’Organizzazione statale Film cecoslovacco, dove rimase per tutto il periodo della “normalizzazione” fino al 1989, insieme ad alcuni altri film di produzione nazionale. Miloš Forman andò incontro ad altre avventure in USA e, quando lo incontrai nel nel 1971 a Cannes, dove era proiettato il suo primo film americano Taking Off, che ricorda ancora molto per lo stile i suoi film cechi, era pieno di nostalgia, ma deciso a restare in esilio. Voleva ancora diventare un grande regista, e ci riuscì per davvero. Tornò in Patria solo quando l’Oscar ricevuto per il suo film Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975) gli rese più facile girare le riprese di Amadeus (id., 1984) in Cecoslovacchia.

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Černý Petr L'asso di picche 1963

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Miloš Forman e Václav Havel sono andati a scuola insieme (con un già inquieto giovanissimo Jerzy Skolimowski e con il futuro collaboratore e collega Ivan Passer).

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uello che sarebbe poi divenuto il primo presidente della Cecoslovacchia libera era di qualche anno più giovane, ma apparve subito come «un marmocchio dagli occhi intelligenti», forse anche troppo gentile ed educato. Miloš e Václav poi non si sono mai persi di vista, tanto che fra i progetti mai realizzati ce n’è almeno uno di un certo rilievo di cui i due amici sarebbero risultati coautori (2) e che in una bella giornata del 1990 l’ormai pluripremio Oscar ebbe modo di accompagnare l’ex compagno di scuola per le strade di New York. In quell’occasione il regista ebbe l’onore di introdurre ufficialmente il neopresidente cecoslovacco in visita negli Stati Uniti alla cerimonia che in quell’anno pieno di speranze democratiche fu organizzata in suo onore a Manhattan, definendo la sua opera civile e artistica come un «miracolo» e come il primo passo che poteva aiutare «a scacciare le ombre del pensiero totalitario dalle menti e dai cuori di milioni di persone» (3), quasi a chiudere quell’arco politico-esistenziale che decenni prima li aveva visti muovere i primi passi adolescenziali a cavallo di due diverse dittature, la nazista e la pseudocomunista. Ci sembra che quest’amicizia, questi contatti biografico-esperienziali, siano qualcosa di più che una superficiale coincidenza, ma ci aiutino invece ad indagare alcune similitudini ideali in quelli che sono senza dubbio due rappresentanti fra i più indipendenti e stimolanti della cultura democratica ceca.

1 Miloš Forman, Jan Novák, Co já vím? aneb Co mám dělat, když je to pravda?, Bookman, Praga 2009, pagg. 56-86.

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2 Si tratta della trasposizione del romanzo Le Fantôme de Munich di Georges-Marc Benamou, dedicato al Patto di Monaco e all’annessione dei Sudeti cecoslovacchi da parte di Hitler nel 1938.

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Come il ceco-americano narra nella propria autobiografia (1), nella scuola di Poděbrady, cittadina non lontanissima da Praga, era stato creato un collegio maschile per orfani di guerra, e lì quel gruppetto di ragazzi che avrebbe fatto tanta strada ebbe anche modo di condividere alcune non sempre felici esperienze giovanili in uno stato che stava per cadere nelle grinfie dello stalinismo.

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no irriverente autore di commedie di provincia che con gli anni matura fino ad affrontare tematiche universali, l’altro un drammaturgo e sperimentatore della parola (4) che attraverso una involontaria ma eroica carriera di prigioniero politico e le esperienze di Charta 77 si impone automaticamente nella Cecoslovacchia del 1989 come primo presidente democraticamente eletto dopo decenni di grigia burocrazia poliziesca. Ci sembra che più che i pur preziosi testi drammaturgici o le coraggiose prime dichiarazioni di Havel nei primi anni della Normalizzazione post ’68 (5), una delle possibili griglie interpretative unificanti possa essere ritrovata in uno dei manifesti dell’opera havliana, quel Potere dei senza potere (1978) (6) con cui egli illustrava la sua interpretazione dei regimi del Patto di Varsavia come istituzioni “post-totalitarie”, ovvero come strutture politico-burocratiche che, lungi dall’essere sanguinarie dittature, si erano trasformate in imperi della menzogna, in fabbriche del consenso e della paura (paura di perdere il lavoro, di non poter mandare i figli a scuola, di essere vittime di delazioni…), in quella congerie di fandonie e stereotipi (pseudo)socialisti cui nessuno più credeva, ma che tutti rispettavano nella loro esteriorità lampantemente fasulla. Tale situazione antropologica è ben illustrata dal modello esemplare di cittadino obbediente e uniformato che in quelle pagine Havel utilizza per svolgere la sua riflessione, ossia quello dell’ortolano che per non avere fastidi con il partito appende nel proprio negozietto lo slogan di facciata «Proletari di tutto il mondo, unitevi», senza magari ben sapere neanche quali siano le caratteristiche del proletariato in oggetto e in quale causa concreta esso si sarebbe dovuto unificare. Nel negozio di frutta e verdura dove Havel lo colloca e tematizza, quello slogan che era ormai diventato (maxime dopo la vergognosa invasione dell’agosto 1968) un puro coacervo fantasmatico di parole svuotate di senso sembra offrirci casualmente un’ulteriore curiosa coincidenza biografica: come anche Josef Škvorecký (7) ricorda, il giovanissimo Forman, dopo che i nazisti gli avevano trucidato i genitori nei campi di concentramento, si era ritrovato a passare le sue giornate nel negozietto di alimentari dello zio nella cittadina di confine di Náchod, dove sostanzialmente osservava i clienti (come poi farà il protagonista del suo esordio nel lungometraggio), aspettando di vedere cosa la vita gli avrebbe riservato.

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Stanislava Přádná, Miloš Forman. Filmař mezi dvěma kontinenty, Host, Brno 2009, pagg. 338-339.

In italiano, fra i molti testi tradotti, si recuperino almeno Václav Havel. Dissenso culturale e politico in 4 Cecoslovacchia. Per una decifrazione teatrale del codice del potere, a cura di Claudio Guenzani, Marsilio, Venezia 1977, Interrogatorio a distanza. Conversazione con Karel Hvížďala, Garzanti, Milano 1990, L’opera dello straccione e altri testi, a cura di Gianlorenzo Pacini, Garzanti, Milano 1992, Il potere dei senza potere, a cura di Angelo Bonaguro, La casa di Matriona-Itaca, Castel Bolognese-Milano 2013. 5 Il primo, fondamentale testo di rottura fu la sua Lettera a Gustáv Husák dell’aprile 1975, da noi tradotta in http://www.esamizdat.it/rivista/2007/3/pdf/temi_charta77_4_eS_2007_(V)_3.pdf. Ne esistono diverse versioni italiane, noi tradurremo direttamente i passi che ci servono da Moc 6 bezmocných in Václav Havel, O lidskou identitu, Úvahy, fejetony, protesty, polemiky, prohlášení a rozhovory z let 1969-1979, Rozmluvy, Praga 1990. 7 Si veda come lo scrittore rievoca i primi casuali incontri con il futuro regista ed amico nella cittadina che gli aveva dato i natali, nel fondamentale Josef Škvorecký, Všichni ti bystří mladí muží a ženy. Osobní historie českého filmu, Horizont, Praga 1991, pagg. 81-82. 8

Václav Havel, O lidskou, op. cit., pag. 71.

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l suo sguardo rischiava di diventare quello di una vittima invelenita e astiosa, pronta a vendicarsi sugli altri per rifarsi di un destino infelice, o capace di offrire tacita obbedienza alla visione omologata di regime. Invece, come Havel stesso propone per cercare una via d’uscita dallo stato post-totalitario, dallo stato della menzogna, Forman «lancia un’occhiata oltre il sipario», al di là della “cortina” delle falsità istituzionalizzate, matura uno sguardo obliquo, indiretto, laterale sulla realtà, che gli permette di aspirare (ché attingervi è ontologicamente impossibile e noeticamente illusorio) alla “Verità”, almeno a quella della visione artistica.

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Taking Off, 1971

Miloš Forman, o lo sguardo dei senza potere

l suo modo di osservare (soprattutto nei primi film) è furbesco, trasversale: almeno fino a Taking Off (id., 1971) questo approccio scopico indiretto è più antropologico/generazionale, poi la critica alla manipolazione e all’omologazione si fa più prettamente politica, o se vogliamo, più sociologico-istituzionale, affissandosi sulle versioni occidentali e atlantiche di quelle che erano le sovrastrutture omologanti delle “democrazie popolari”. Come ancora Havel del resto ci suggerisce, superando a piè pari distinzioni eccessi-

vamente manichee fra Est e Occidente, «il sistema post-totalitario è sorto sul terreno dell’incontro storico della dittatura con la società consumistica» (8), che da una parte e dall’altra della cortina di ferro imponevano i propri «rituali prescrittivi», le proprie «regole del gioco», dei meccanismi omologanti contro i quali molti personaggi formaniani provano ad operare una propria incerta, a volte buffa, per lo più inconcludente, ma non per questo meno meritevole minirivolta individuale. Sono gli istintivi tentativi di fuga dei protagonisti dei suoi film, che cercano appunto di uscire dal campo d’influenza di quelle regole unificanti imposte così nella Cecoslovacchia (pseudo)comunista come nell’Occidente (pseudo)democratico, provando a non rimanere schierati nelle file dell’ideologia dominante. Come scriveva il dissidente/futuro presidente: «Componente integrante di tale ideologia è il delegare intelletto e coscienza nelle mani dei superiori, sulla base del principio di identificazione del centro del potere con il centro della verità» (9). Le più riuscite creature di Forman provano appunto a sfuggire da questa centripeticità imposta, a uscire fuori, a rimanere “out, on the side”.

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he si pensi al suo periodo ceco, “fenomenologico” (10), con l’osservazione spesso para-documentale di adolescenti quasi disadattati (Petr e Čenda, Milda e Andula, ma anche i giovani musicisti e tutti i suoi aspiranti cantanti), o alla maturità del suo periodo americano più fruttuoso, con antieroi incommensurabili alle griglie della middle class way of life (Randle McMurphy, gli hippies di Hair, id., 1979, Andy Kaufman, Larry Flint…) non si può negare che il conflitto di indoli anomale e a tratti anomiche con l’Ordine abbia disegnato una filmografia se non proprio omogenea, per lo meno piuttosto compatta.

n ceco, nel ceco filosofico e comico a un tempo stesso di Forman e Havel, esiste un bel termine per questo concetto che il regista ha del resto spesso con piacere utilizzato a fini di auto-definizione: outsiderství. Come si può facilmente desumere, è uno dei tanti prestiti derivati da termini culturali anglosassoni, che a ondate irregolari si sono fatti strada e hanno contaminato quella lingua slava mitteleuropea, soprattutto nei periodi di maggiore libertà dalla ingombrante presenza dei vari imperi che hanno più o meno a lungo soffocato la libertà espressiva e l’attitudine jazz di boemi, moravi e slesiani (che si trattasse di Austria-Ungheria, Terzo Reich o Patto di Varsavia): “outsider”, ovvero la posizione di colui che non è centrato, non è incluso e strutturato in macrodiscorsi ideologici di riferimento, e che dal suo stesso “side”, dalla sua posizione esterna, può dunque a volte avvantaggiarsi di una visione d’insieme, di una panscopia generale, di un disilluso sguardo laterale. È quella posizione e quel point of view di cui ci sembra faccia tesoro (non diremo sempre, ma per lo meno spesso) il regista di Čáslav, con modalità varie, ma in sostanza rimanendo fedele alla sua acentralità e indisponibilità all’inquadramento. Ciò dicendo, non si vuole far passare il buon Miloš per un ribelle o un sovvertitore degli ordini sociali o estetici. Ma che egli, pur nella diversità delle sue fasi artistiche, assuma prospettive sghembe e affissi lo sguardo su figure periferiche, de-centrate, eccentriche, lo si potrà difficilmente negare.

a cominciamo dalla provincia boema: è stato giustamente notato che nell’ambito della nová vlna ceca e slovacca il primo Forman si potrebbe inquadrare nella schiera dei suoi rappresentanti più vicini alla documentazione diretta della quotidianità, anche in forza di una registrazione quasi oggettiva (11) del reale, utile a cogliere l’atmosfera della provincia cecoslovacca del tempo, la produttiva confusione delle sue giovani generazioni e l’ironia agro-dolce della tradizione antistituzionale di quelle terre. Riguardiamo quei primi suoi film anche nell’ottica “laterale” che qui proponiamo. I protagonisti principali sono quasi tutti personaggi costretti a stare ad osservare, a non prendere quasi mai parte alla realtà che conta, anche perché privi di qualsiasi potere all’interno del sistema di rapporti sociali: ragazzi schiacciati dalla famiglia, lavoratrici costrette a lavori alienanti, provinciali fuori dai centri decisionali. Nella maggior parte dei suoi tentativi maggiormente riusciti (diremo anche: quelli meno contaminati da uno sguardo esterno normalizzatore, che sia esso rappresentato dalla censura miope o da produttori poco lungi-miranti che gli hanno osteggiato il director’s cut) è innegabile che sia forte questa perifericità centrifuga dell’occhio che filma, in diretto contrasto con il principio opposto, quello della Parola accentratrice e ideologica: si veda lo sguardo dei e sui giovani non irreggimentati dei suoi primi film cechi, proprio in contrapposizione non casuale con la Parola ridondante, centripeta, sì, ma in fin dei conti vuota, della generazione più anziana, ormai arenata su valori illusori, chiari, definiti, visibili e dunque proposti per una pedissequa imitazione.

10 Di “ottica fenomenologica” parla giustamente Paolo Vecchi nel suo acutissimo Miloš Forman, La Nuova Italia, Firenze 1981, pag. 73.

11 Per esempio Petr Král parla di «tendenza Forman» come di una critica oggettiva, in Nová Vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, a cura di Roberto Turigliatto, Lindau, Torino 1994, pag. 43.

Hair, 1979

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osa porta Forman negli USA di questa sua peculiarità d’inquadramento? Proprio la predilezione per l’osservazione da e su posizioni marginali. Egli continua anche in America la sua riflessione sui meccanismi con i quali il Centro si impone sulla Periferia e prova ad inglobarla.

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Rubiamo anche questa riuscitissima analogia a Paolo Vecchi.

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Il Vostrčil che interpreta prima il direttore d’orchestrina di provincia (Se non ci fossero quelle bande musicali) e poi il padre chiacchierone che vuole imporre la propria visione funzionale e pragmatica al figlio garzone/spione di bottega (L’asso di picche, Černý Petr, 1963); i musicisti Šlitr e Suchý che nel proprio teatro “Semafor” mentono spudoratamente ai candidati, imponendo la propria autorità per ingannare giovani che osservano agognanti i loro modelli di carriera impossibile (i provini sono infatti fasulli); la «ragazza con la valigia» (12) che in Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965) è costretta a spiare dal buco della serratura per capire di essere stata rigettata dal suo seduttore e dalla di lui famiglia istupidita dalla tv, o ancora la catastrofica guardia ai premi della Lotteria che in Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko!, 1967) si trasforma in una delle più fallimentari applicazioni del controllo totale imposto nelle repubbliche del cosiddetto socialismo reale. Società occhiute dove bisogna ricordare che nel segreto della cabina elettorale «Stalin non ti vede» ma sa comunque per chi hai votato, e in cui soprattutto (come Forman dà benissimo ad intendere all’esperto pubblico cecoslovacco in questa che è la più pessimista delle sue agrodolci commedie) le pratiche egoistiche del furto e dell’accaparramento indebito erano un deleterio portato sociologico, fortemente radicato e applicato soprattutto quando non si era, per l’appunto, visti da nessuno. Tanto bene capì l’allusione il presidente e primo segretario comunista Antonín Novotný che andò su tutte le furie e bocciò un film in cui l’accusa politica più imperdonabile all’ordine sociale vigente non era la ridicolizzazione del corpo dei vigili del fuoco (motivazione capziosa scatenata per limitare al minimo la distribuzione), ma la rappresentazione palese del principio, così noto ai cittadini socialisti, secondo il quale «chi non ruba allo stato, ruba alla propria famiglia»: si ricordi appunto la visualizzazione dello “scandalo”, il passaggio improvviso dall’invisibile al visibile, dal buio alla luce della sala da ballo, quando il più coscienzioso dei pompieri viene sorpreso a riporre uno dei premi, rubato in realtà da sua moglie. Lo sguardo degli astanti lo “uccide”, la manifestazione pubblica di un segreto di Pulcinella, di una prassi vergognosa ma celata, era accusa infamante per il personaggio (che infatti sviene), per il gruppo dei pompieri (che si infuria non per il furto in sé, ma per la sua visibilità) e soprattutto per gli organi censori dell’epoca, che compresero fin troppo bene questo passaggio minaccioso del giovane autore dall’applicazione ancora prevalentemente comica del suo sguardo sghembo verso invece la sua trasformazione in meccanismo di mise-en-scène funzionale, in arma rivelatrice di storture di massa e di ingiustizie individuali.

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Decathlon Ciò che l’occhio non vede 1973

Cos’altro sono altrimenti i suoi film sulle droghe leggere e la controcultura giovanile, sul sistema sanitario che marchia gli “anormali” in quanto non condividono una visione uniformante centralizzata, o ancora i suoi bio-pic extra-vaganti, a-topici, iper-trofici su uomini di spettacolo (ossia abituati ad essere osservati, e a fare della visione la propria professione) come l’osceno per definizione Larry Flint e quell’Andy Kaufman la cui comicità era caratterizzata da un pensiero parallelo, da una prassi indisciplinata, da tempi comici s-centrati?

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questo punto sarà bene comunque precisare che il discorso che veniamo facendo in queste pagine riguarda solo molto marginalmente alcuni dei suoi film più classici in costume (Amadeus, id., 1984; Valmont, id., 1989; L’ultimo inquisitore, Goya’s Ghosts, 2006), per loro stessa natura “paludati” in panni poeticoestetici che trovano una consonanza solo parziale con gli spunti polemici sui contesti sociali che Forman viene via via sperimentando (non a caso sono anche quelli che trattano di epoche meno attuali e di temi meno scottanti). Solo sulla base di una discreta forzatura potremmo inquadrarli nell’arco del nostro discorso, ad esempio considerando (come già altri esegeti hanno fatto) la corte viennese come una riproposizione camuffata del regime comunista cecoslovacco, oppure la rappresentazione dell’Inquisizione spagnola come ulteriore declinazione dell’arbitrio totalitario sui deboli (in questo caso la povera Inés Bilbatua interpretata dalla Portman). Ma troppo labili ci sembrano tali spunti per potervisi appoggiare con convinzione, così come fuorviante sarebbe individuare nella ingenua Cécile De Volanges di Valmont un’altra delle “senza potere” che si contrappone al sistema: la giovane promessa sposa raffigurata in quello che rimane il peggiore e inutilmente sfarzoso film di Forman è invece della schiatta dei conformisti, o (per ritornare al lessico di Havel) di quei venditori di verdura che per paura e debolezza si adeguano alle regole del sistema vigente.

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Ragtime, 1981

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e non ci convincesse l’analisi generale della sua filmografia, una macro-esegesi complessiva, capovolgiamo allora funzionalmente per un attimo il metodo analitico, puntando sul particolare e traendone un raggio di luce interpretativo; gettiamo uno sguardo parallelo, alternativo proprio su uno dei suoi esperimenti più liberi, quel quasi sbilenco cortometraggio girato per la serie Visions of Eight e dedicato alle Olimpiadi di Monaco (Decathlon, 1972). Chiamato insieme ad altri sette autori ad immortalare le imprese epiche degli atleti durante la kermesse sportiva per antonomasia, egli riprende invece gli arbitri assonnati o imbolsiti, gli sguardi incerti degli astanti, la fatica degli atleti distrutti dai millecinquecento metri o le loro rovinose cadute sugli ostacoli, demitizzando l’atmosfera agonistica bavarese con musichette popolari extra-diegetiche, raccogliendo e combinando insomma tutto quel “non-visto”, o forse meglio “censurato” dalle telecamere dei pro-

fessionisti, in quanto opposto alla retorica della vittoria e della glorificazione del gesto sportivo. Si evidenzia in questo caso la lateralità anche fisica della sua posizione, uomo impartecipe e quasi sogghignante a bordo campo, occhio estraneo “che uccide” (in quanto peeping Tom smitizzante) la prosopopea del rituale olimpico.

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on l’andare degli anni il suo approccio osservazionale liquido e divertito si fa più seriosamente impegnato, si solidifica attorno ad alcuni grandi temi dettati dal nuovo paese in cui vive e dalla sua storia. Negli USA Forman acquista in densità politica in primis per la denuncia diretta del razzismo (Ragtime, id., 1981) e di vari orientamenti tesi a centralizzare le energie umane entro confini di controllabile rispettabilità (che si tratti di oppressione istituzionale, filisteismo borghese o di pruderie sessuale), ma lo è anche nel suo portare alla ribalta personaggi sostanzialmente a-sociali, disobbedienti, liberi o per lo meno contrari all’uniformazione. Il passaggio dal Vecchio al Nuovo continente amplifica e adegua alle nuove condizioni culturologiche e produttive l’istintiva posizione formaniana di naturale fastidio per le ingiustizie individuali (13).

13 Non ci sembra peregrino il collegamento generalizzante fra cultura europea e americana così come viene evidenziato anche nella seguente, ben nota dichiarazione formaniana: «Penso che tutto ciò che di grande è rimasto nella letteratura e nell’arte, da tempi immemorabili, da Balzac fino a Hemingway, e tutto ciò che è caratteristico anche delle opere contemporanee di una certa forza, si è sempre occupato e continua a occuparsi delle ingiustizie e dei torti commessi contro l’individuo. È perché noi percepiamo l’opera d’arte in quanto individui. È per questo che abbiamo sempre rapporto con la storia del singolo», in Nová vlna, op. cit., pag. 222. International Film Festival

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Ma pur tuttavia ci sentiamo di poter dire che molti suoi film degli ultimi quarant’anni di attività sono una sorta di evoluzione anglosassone del suo modo centro-europeo di essere un “osservatore laterale” dei rapporti fra potere e uomini “senza potere”.

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One Flew Over the Cuckoo's Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975

Egli dichiara esplicitamente questa evoluzione proprio riguardo a Ragtime e alla rivolta personale del musicista di colore: «Il dilemma di Walker mi era fin troppo familiare dai tempi di Praga. Nella Cecoslovacchia comunista ti dovevi continuamente scontrare con degli idioti che detenevano il potere e che si divertivano ad umiliare gli altri. Chi vi si opponeva, metteva in gioco il proprio benessere, e a volte anche la vita» (14). E sempre il regista precisa che un ceco tradizionale (per intenderci: uno rimasto in Europa, troppo smagato e poco pragmatico), oppresso anche geograficamente in quanto appartenente a un “piccolo popolo” sballottato fra Hitler e Stalin, avrebbe probabilmente reagito all’ingiustizia commessa contro Coalhouse Walker jr. con un atteggiamento alla Josef Švejk, limitandosi a deridere i propri derisori. Ma Coalhouse è «un americano. E di più, un americano di colore». Attraverso quel gesto romantico e disperato del suo personaggio Forman registra il momento in cui egli stesso «era divenuto un cittadino americano […] che combatte per i propri diritti, fino ai limiti del suicidio» (15).

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n alcuni dei suoi personaggi americani più riusciti scorgeremo interessanti consonanze anche con un altro dei suggerimenti del testo di Havel da cui siamo partiti, ovvero quella

Miloš Forman, Jan Novák, Co já vím?, op. 14 cit., pag. 328. 15

Ivi, pag. 329.

16 pag. 118.

Václav Havel, O lidskou, op. cit., pag. 108,

17

Ivi, pagg. 62-63.

18

Ivi, pag. 127.

19

Ivi, pag. 131.

«condotta alternativa» su cui si basa il tentativo (spesso destinato a fallire) di svincolarsi dalla «legalità burocratica», dalla tendenza dei sistemi post-totalitari a legare tutto secondo un ordine intrecciato di direttive, prescrizioni, decreti, norme e regole (16). Non sembra casuale infatti che lo scrittore, ben lungi dall’idealizzarle, includa nella propria critica ai sistemi autoreferenziali ed anti-individuali anche le «tradizionali democrazie parlamentari», in quanto anche esse, nella loro inevitabile ed innegabile imperfezione, sono sostenute da quel «samopohyb» («auto-cinesi»), da quel «cieco auto-movimento», moto autoreferenziale uniformante che impone la conservazione del potere nelle mani di un gruppo dominante (17). Havel precisa poi che in fondo «soltanto il modo con cui esse manipolano l’essere umano è infinitamente più sottile e raffinato di quello brutale dei sistemi post-totalitari» (18). Come non trovare spunti ed echi di rivolta contro questi sistemi che egli chiama collettivamente «post-democratici» (19) nella condotta libertaria di McMurphy, George Berger e i suoi fratelli hippies, Coalhouse Walker jr., ma anche (in modo ancora squisitamente ironico e non engagé) dei giovani di Taking Off? 20 Miloš Forman, Jan Novák, Co já vím?, op. cit., pagg. 58-61, ma anche i vari passi in cui l’autore riflette sullo scarso sostegno offerto ad uno dei suoi maestri, il grande regista teatrale Alfréd Radok, quando questi fu sottoposto a forte persecuzione politica da parte del regime comunista. 21 Stanislava Přádná, Miloš Forman, op. cit., pagg. 333-337. 35° Bergamo Film Meeting / 2017

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ibadiamo, in conclusione, che non è nostra intenzione elevare Forman a simbolo di dissidenza tout court, sia perché sarebbe questa una interpretazione infondata e per lo meno approssimativa, ma anche perché almeno in parte egli stesso ha ammesso di non essere stato propriamente eroico in alcune occasioni delicate della sua vita (20), laddove poi altri rimproveri anche molto pesanti gli sono stati rivolti dai dissidenti “ufficiali”, per esempio in occasione delle interviste che egli ha concesso a organi mediatici vicini ai regimi cecoslovacco e sovietico (21).

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Amadeus, 1984

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a che si oppongano alle imposizioni ultra-borghesi, alle falsità di facciata del socialismo reale, alle limitazioni dell’America puritana, alle discriminazioni razziali, al militarismo espansivo o allo stesso show-business e a certi suoi modi troppo tradizionali di fare spettacolo, molti dei suoi antieroi confermano quella tendenza a picconare i sistemi autoreferenziali, i “movimenti auto-cinetici”, da posizioni laterali e anti-convenzionali. È in questo che si conferma in buona parte la sostanza e il valore democratico e umanizzante, antipost-totalitario, del miglior Forman, che ha spesso, anche se non sempre e non sempre con identico successo realizzativo, mostrato il mondo attraverso lo sguardo laterale dei senza potere.

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Taking Off 1971

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Emanuela Martini

Forman in Wonderland

Questo titolo è rubato. L’ho rubato a un critico che, nel corso degli anni, si è occupato con finezza e passione del lavoro di Miloš Forman, dall’esuberanza dei primi film praghesi alla sua fuga in America e al suo progressivo adattamento a un sistema produttivo sempre più fastoso, e che ha letto in controluce nei suoi film (anche, all’apparenza, i più diversi) una sorta di ironico autoritratto (spesso in progress, naturalmente).

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ono d’accordo (tranne che per un particolare, sul quale ritornerò) con tutto quello che ha scritto nel corso degli anni Paolo Vecchi che, tra l’altro, con l’autorevolezza del raffinato conoscitore musicale ha immediatamente colto l’istintiva musicalità dello stile del regista, ben prima che questi si dedicasse esplicitamente al musical. Per cui, mi rifarò spesso a quanto Paolo afferma, utilizzando referenti culturali che condivido con lui, come il richiamo fiedleriano al “ritorno del pellerossa”, considerato il fatto che Leslie A. Fiedler, non solo con The Return of the Vanishing American ma con tutta la sua opera, è ancora oggi fondamentale non solo per capire la letteratura, la storia, il cinema, in generale la “narrazione” che l’America ha dato e continua a dare di se stessa, ma anche il processo di adattamento culturaledegli esuli negli Stati Uniti (anche gli esuli “di lusso”, hollywoodiani, del Novecento), e gli appigli, le suggestioni, i modelli ai quali questi potevano rivolgersi (in particolare negli anni Sessanta).

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Forman in Wonderland

Il critico è Paolo Vecchi e parla, a proposito dei film americani di Forman, di “autobiografia dissimulata”, rintracciando di volta in volta i personaggi nei quali l’autore si identifica, o sui quali per lo meno proietta i diversi stadi della propria progressiva “naturalizzazione”.

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Forman in Wonderland

uindi, gli ho anche rubato il titolo, perché è bellissimo e rende appieno la “meraviglia”, l’aria, il mood nei quali dovette trovarsi immerso Miloš Forman approdando negli States nella seconda metà di quel decennio. Wonderland, il Paese delle meraviglie. Ma non nel senso del “Paese dalle mille opportunità”, quello del Sogno alla portata di tutti e della continua ascesa economica e sociale verso il quale s’imbarcavano gli emigranti europei del secolo precedente e dell’inizio del Novecento. Anzi, semmai, tutto il contrario: non il Mito, ma l’Antimito. L’America nella quale arriva Forman, intellettuale trentacinquenne, dopo il 1968, è un disastro di contraddizioni non risolte. Per chiamare le cose con il loro nome, un vero casino; ma un casino percorso da segni di vita, da umori contraddittori, da rabbie, istinti, possibilità espressive ancora in parte da vivere e da consumare.

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e il sogno hippie è ormai al tramonto, trasformato in moda, “digerito” dai media e corteggiato dalle classi medie (vedi Taking Off, id., 1971); se il kennedysmo ha avuto il suo definitivo, tragico epilogo con l’assassinio di Robert Kennedy il 5 giugno del 1968; se l’ipotesi di una via pacifica all’integrazione razziale è stata a sua volta stroncata definitivamente da un altro assassinio politico (Martin Luther King, ucciso, anche lui, nel 1968), rendendo così sempre più plausibilie la via aggressiva del Black Panther; se il Movimento per i diritti civili e la Nuova Sinistra non sono mai riusciti a coagularsi su linee politiche comuni; tuttavia l’escalation, dal 1966, della guerra del Vietnam, con la sua incessante richiesta di reclute, di giovani, di vite, ha catalizzato la protesta, estendendola a strati sociali inaspettati e facendola dilagare su televisioni e giornali. Il 21 ottobre del 1967, quasi centomila persone hanno partecipato alla marcia per la pace davanti al Pentagono: radicali, studenti, hippie, il Black Power, il Movimento dei diritti civili e quello delle donne, artisti, intellettuali, reduci del Vietnam, spesso mutilati. Davanti a loro, l’esercito in assetto di guerra. La manifestazione dura tre giorni e ci sono centinaia di feriti e arrestati. A marzo del 1968, il presidente Johnson annuncia di non volersi ricandidare alle elezioni, per dedicarsi alle trattative di

pace nel Vietnam (laboriosissime — e infatti la guerra continua —, conclusesi a Parigi nel 1973). Il repubblicano Richard Nixon diventa il nuovo presidente degli Stati Uniti nel novembre del 1968. E “Tricky Dicky” non sta con le mani in mano: subito dopo la sua rielezione del 1972, comincia a circolare negli ambienti giudiziari la voce di un’inchiesta giornalistica avviata da due giovani reporter del «Washington Post» (Carl Bernstein e Bob Woodward) su una strana effrazione nella sede del Comitato per la campagna del Partito democratico. È l’inizio del Watergate, scandalo che nel 1974 porta Nixon alle dimissioni un attimo prima che arrivi l’impeachment da parte del Congresso, e fine vera del vorticoso amalgama di sogni e frustrazioni, aspettative e delusioni, voglia di fare o semplicemente di fuggire che ha alimentato il panorama culturale e politico americano per più di un decennio. Alle pulsioni alternative subentra la paranoia (che a sua volta si trasforma in materiale espressivo pregnante e inquietante).

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nche il cinema, verso la fine del decennio, ha cominciato a muoversi. Nel 1969 esce Easy Rider (costo: 375.000 dollari, incasso del primo triennio: 60 milioni di dollari), e finalmente Hollywood si accorge che, ai suoi margini, nelle periferie degli indipendenti e sulla East Coast degli intellettuali che fanno televisione e teatro, cova in realtà un “nuovo cinema americano”, che poi sarà ribattezzato “New Hollywood”. Il dissenso, quello esploso nelle università nel 1963-64, quello visibile nelle marce per la pace e nei roghi delle cartoline precetto, quello già esplicito nelle canzoni di Dylan-Baez-Hendrix e tutti gli altri, nelle riviste satiriche, nei libri di Cheever-Pynchon-Vonnegut-Dick e nelle esibizioni degli scrittori-guru Ken Kesey e Timothy Leary, arriva anche, finalmente dispiegato, sul grande schermo. Un pugno di anni, tra il 1967 e il 1976, fertilissimi per il cinema americano, durante i quali Hollywood (e non più solo l’intellettuale, dissidente New York) si apre ai giovani (e meno giovani, come Altman e Peckinpah) capaci di raccontare finalmente l’America ai loro coetanei (il principale pubblico del cinema e, in generale, il principale consumatore di “cultura”), attraverso i loro occhi, i loro sogni traballanti, il loro desiderio di fuga, le loro ansie.

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uale ambiente migliore per un giovane cineasta, già abbastanza noto internazionalmente, maestro del montaggio e del ritmo musicale delle immagini, che nel suo Paese ha narrato soprattutto il divario tra genitori e figli, tra aspirazioni individuali e rigidità istituzionali, e che, ancora nel suo Paese, ha metabolizzato ben bene sia la ruvidezza della repressione intellettuale che i meccanismi narrativi con i quali aggirarla? Nonostante le inevitabili difficoltà iniziali, gli aggiustamenti al sistema produttivo sconosciuto, le incomprensioni e i disagi, l’America della fine degli anni Sessanta per Forman è davvero Wonderland, il Paese dove tutto è espoloso e poi imploso, dove la repressione agisce dall’interno della way of life, dove le aspirazioni sono immense, velleitarie e, spesso, senza una meta precisa, dove puoi marciare e bruciare bandiere, cantare e raccontare che stai male, ma comunque non sai che fare se non continuare a star male. Gigantografia di quello che è già successo e sta succedendo tra gli intellettuali e nelle università europee, meno politica e più mediatica, la controcultura americana offre i suoi spazi di analisi, derisione e dissenso a un osservatore acuto come Forman. Coagulo di musica, gente e colore, è il luogo ideale nel quale andare a scovare le facce, i tic, le bizzarrie, le anomalie, le ingenuità e la ferocia che sono state (e continueranno a essere) il centro vitale del suo cinema. Forman in Wonderland

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Go West, young man

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iloš Forman arriva definitivamente in America nel 1968, da Parigi, dove si è fermato, senza rientrare in Patria, dopo che le truppe sovietiche hanno invaso la Cecoslovacchia, ponendo fine alla Primavera di Praga. Non è la sua prima volta negli Stati Uniti: c’è già stato, ospite con i suoi film al New York Film Festival, e poi per lavorare a un progetto americano propostogli da Moris Ergas (e mai realizzato) e per scrivere insieme a Jean-Claude Carrière la sceneggiatura di un film prodotto insieme a Claude Berri (che sarà poi Taking Off). Nel frattempo, da turista di lusso, ospite internazionale, si è trasformato in “emigrante” e, in quanto tale, impiega un po’ di tempo per adattarsi al nuovo sistema che lo circonda e che, seppure in maniera meno esplicita e categorica dell’altro (quello sovietico) dal quale si è allontanato, oppone resistenza al nuovo e all’insolito, fa richieste, dissemina trabocchetti. Per “montare” la produzione di Taking Off ci vogliono circa due anni; il film si concretizza quando la Universal compra i diritti della sceneggiatura di Forman e Carrière e mette a disposizione un budget di 850.000 dollari. Forman potrà girare in libertà (come sta accadendo a molti dei giovani cineasti statunitensi), con il suo direttore della fotografia abituale, Miroslav Ondříček, autore della fotografia di quasi tutti i suoi film precedenti e di molti dei successivi. E potrà anche mescolare, come ha sempre fatto, attori professionisti e dilettanti, ragazze e ragazzi incontrati per strada, musicisti, sceneggiatori, come lo scrittore Buck Henry (il protagonista, Larry Tyne, che va in cerca della figlia adolescente fuggita di casa), che in realtà lavora già da qualche anno in televisone ed è già apparso in due piccole parti in Il Laureato (The Graduate, 1967) e in Comma 22 (Catch 22, 1970), che ha adattato per lo schermo.

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aking Off è un’immersione totale nel “nuovo mondo”, anche se questo è circoscritto al recinto più familiare e più “europeo” di New York, in particolare l’East Village, un susseguirsi di volti, squarci, stili, ritmi, occhiate, situazioni imbarazzanti o più o meno insolite. Niente di nuovo sotto il sole, è evidente: la piccola borghesia americana, sebbene metropolitana, non è poi tanto diversa da quella ceca. Più ricca certo, ma solo all’apparenza più disinibita (in realtà puritana fino al midollo) e altrettanto petulante e distratta nei rapporti con i figli. Che, a loro volta, girano timidamente ma testardamente su se stessi, vanno, vengono, inseguono una libertà che comunque fatica a guardare al di là dei confini del Village e a “osare” qualcosa di più di una stressante audizione teatrale. Forman ha l’occhio acuto e acchiappa al volo la massificazione, già consacrata, degli elementi più vistosi della contro-

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che guida con il suo contrappunto surreale gli sviluppi della storia centrale, non solo regolandone il ritmo, ma anche allargandone la prospettiva, dicendoci in pratica che la storia della fuga di Jeannie e della ricerca intrapresa dai suoi genitori è solo il tassello di un flusso più ampio, questa non è che la riproposizione dell’analoga competizione di Konkurs (1963, il primo lungometraggio di Forman) e della scena pretitoli (musicale) e di quella della sala da ballo dove suona Milda di Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965). Forman affronta ciò che non gli è familiare (la media borghesia newyorkese e i suoi figli) utlizzando gli strumenti espressivi che ha già maturato in Patria: il dialogo impossibile tra genitori e figli, la propria sincera simpatia verso questi ultimi, la ricerca continua del particolare, del gesto automatico, della gaffe, dell’espressione inconsapevole (da cogliere senza preavviso, sia sul set che per strada), e quindi il ricorso al grottesco, all’ironia, come obiettivi attraverso i quali scrutare il mondo, la musica come collante e artefice del ritmo conferito alle immagini, il canto non tanto come “liberazione” (questo, se mai, arriverà con Hair, id., 1979), quanto come almeno potenziale espressione di sé (le ragazze, alquanto taciturne, partecipano alla prova di canto e, soprattutto, alla fine Lar-

Lásky jedné plavovlásky / Gli amori di una bionda, 1965

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cultura (soprattutto hippie): un giovane musicista silenzioso e capellone guadagna cifre astronomiche, i grandi, gli “adulti”, fumano erba durante un party istruiti da un figlio dei fiori ripulito e poi, a casa, improvvisano uno strip poker tra coppie, una ragazza suona nuda il violoncello perché, da vestita, nessuno s’interessa al suo strumento. Li osserva, ne coglie i gesti, gli abiti, gli sguardi, gli status symbol, vecchi e nuovi. E, nella lunga sequenza dell’audizione disseminata nel corso del film, coglie soprattutto la disarmante voglia di cambiamento di questi ragazzi, che paiono però non avere la forza necessaria per liberarsi veramente, le “ali” per prendere il volo, per “decollare” (il significato del titolo, nelle sue diverse accezioni). Esattamente quello che accadeva ai suoi giovani protagonisti cechi, goffamente intrappolati tra aspirazioni confuse e genitori incapaci di guidarli al di là della loro stessa mediocrità quotidiana, colti da Forman mentre girano a vuoto tra lavori insoddisfacenti e prime esperienze sessuali, tra sale da ballo affollatissime, fughe presto rientrate e riti ingannevoli come l’audizione musicale, alla quale si sottopongono con titubante ingenuità. Questa audizione, vero tessuto connettivo di Taking Off, l’elemento che dà ancora oggi vita e respiro a questo primo piccolo affresco americano,

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ry, il protagonista, esterrefatto dalle cifre che guadagna con la musica il capellone scontroso che la figlia gli ha portato a casa, irrompe in un’interpretazione a gola spiegata di Stranger in Paradise, celeberrimo brano del musical Kismet, come a dire che lui, in quel mondo, non ci capisce più niente, ma forse anche un’autoironica dichiarazione dell’autore esule al Paese adottivo.

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n pratica, Forman mettea frutto il suo passato per lavorare sul suo presente, e riesce così a entrare con intelligenza caustica nella realtà americana. Per questo mi sembra (ed è questo il particolare sul quale sono in disaccordo con Paolo Vecchi) che Taking Off rientri a pieno titolo in quel magma sfaccettatissimo che fu chiamato New Hollywood, dove le linee, le derive e gli stili non furono mai predefiniti né coerenti; dove si trattava semplicemente di raccontare gli umori, l’aria, le suggestioni e le contraddizioni che continuavano a esplodere nella società e nella cultura americane. Se mai, la sua è una New Hollywood più newyorkese che losangelina, più acida commedia urbana che fuga verso l’infinito, più fenomenologia mimica che intimismo paesaggistico, più satira bruciante che paranoia incombente. Più volte si è parlato di “bozzetto” o “caricatura” come cifra umana (e perciò stilistica) prediletta da Forman; e, se trovo ingenerosa la seconda parola (caricatura, che implica generalmente un giudizio limitativo, di mancato approfondimento), credo che il bozzetto, la situazione o l’espressione colta al volo, sia stato uno dei meccanismi espressivi chiave di tutte le nouvelle vague occidentali. E che, alla sua maniera, la New Hollywood non abbia fatto differenza. Certo, la grandezza sta nel saper passare dal bozzetto all’affresco: e qui non si può non citare il maestro indiscusso, Robert Altman, cui Forman, sotto certi punti di vista, assomiglia. La coralità (punto di forza dei migliori film altmaniani, anche quando non siano esplicitamente corali) è la caratteristica che Forman ha già sviluppato in Patria, e sulla quale continuerà a lavorare, con più o meno dedizione, in America. Non la trasforma, come Altman, nella propria cifra stilistica e morale fondamentale. Anzi, l’unica volta che ne avrebbe davvero l’occasione, nel 1981, con Ragtime (id.,), kolossal dal romanzo di Doctorow prodotto da De Laurentiis che, colpevolmente, lo ha sottratto ad Altman, nonostante la costruzione caleidoscopica fosse perfetta per il maestro di Kansas City, Forman sbaglia completamente il bersaglio, eliminando gran parte della costruzione a mosaico per privilegiare una delle tante storie narrate. Tuttavia, non perde mai del tutto di vista il “contorno” umano che generalmente sta ai margini dello schermo. Forman sta un po’ in bilico tra Altman, da una parte, e, dall’altra, Nichols e Mazursky, newyorkesi, più acculturati (Altman lavorava, da uomo colto, più sull’istinto, sulla “pancia”, che sulla razionalità), più orientati alla commedia che al dramma.

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d è proprio con il dramma (quello caustico degli ultimi decenni del Novecento) che Forman diventa non solo cittadino americano, ma una star indiscussa del panorama hollywoodiano.

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A dying nation of moving paper fantasy

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ualcuno volò sul nido del cuculo è un trionfo: record d’incassi mondiale, vincitore dei cinque Oscar maggiori (film, regia, protagonista maschile e femminile, sceneggiatura non originale), osannato dalla critica americana e francese con le motivazioni più disparate, dove l’istituzione totale del manicomio diventa riflesso non solo delle teorie psicanalitiche e dei conflitti culturali e ideali che agitavano quegli anni, ma di tutto lo scibile.

One Flew Over the Cuckoo's Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975

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opo la partecipazione, nel 1973, al film collettivo sulle Olimpiadi di Monaco Ciò che l’occhio non vede (Visions of Eight), con l’episodio Il decathlon, originale (e talvolta esilarante) successione di atleti all’opera ma soprattutto di atleti esausti alla fine della prova, di giudici di gara puntigliosi e compunti e di brani musicali grottescamente eseguiti da campanacci, incudini e martelli, Forman riceve dal produttore Michael Douglas uno dei libri più noti della controcultura americana, Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over ther Cuckoo’s Nest, 1975), pubblicato nel 1962 da Ken Kesey e basato su una sua giovanile esperienza diinfermiere nel reparto psichiatrico di un ospedale. Dopo il successo del romanzo, Kesey è diventato uno dei profeti della cultura alternativa hippie, in giro per gli Sates su un pullman variopinto con i Merry Pranksters, a predicare la liberazione della marjuana e l’LSD, e poi si è ritirato in campagna. Ha anche scritto una sceneggiatura dal suo libro, che non piace a Forman. L’incontro con il romanzo è il primo (e forse il più importante) appuntamento rimandato con il destino della carriera di Forman; infatti, già nel 1963 i diritti del libro

erano stati acquistati da Kirk Douglas (allora produttore di se stesso, e anche piuttosto potente, basti pensare al suo rapporto con Kubrick, da Orizzonti di gloria, Paths of Glory, 1957, a Spartacus, id., 1960), che l’aveva spedito a Forman, in Cecoslovacchia, pensando a lui per la regia. Ma il libro non era mai arrivato. Tocca a Michael ritornare da Forman, offrendo un budget di tutto rispetto (4 milioni di dollari) e la più ampia libertà. Jack Nicholson, che qualche anno prima aveva tentato a sua volta di opzionare il libro, viene finalmente scelto per interpretare McMurphy (non si capisce perché avessero pensato ad altri, pur bravi, attori, come James Caan e Gene Hackman, dal momento che Nicholson è McMurphy) e Louise Fletcher sostituisce Ellen Burstyn (bloccata da motivi familiari) nella gelida parte di Miss Ratched.

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Maggiori distinguo, spesso pretestuosi, talvolta più accurati, tra la critica italiana: per esempio, il film non piace a Franco La Polla, che gli rimprovera di aver furbescamente ridotto il conflitto a un fatto personale tra McMurphy e lo staff dell’ospedale psichiatrico e, soprattutto, di aver completamente eliminato il côté onirico fortemente presente nel romanzo. Rivisto oggi e collocato, come deve essere, sia nella filmografia dell’autore che nel contesto del cinema americano di quel decennio, il Cuculo rivela contemporaneamente i suoi punti di forza e di debolezza. La forza sta nella capacità di tenere agganciati a un racconto chiuso in uno spazio ristretto e tra un pugno di personaggi, senza mai mollare la presa drammatica e costringendo il pubblico a percepire i rapporti di forza e la violenza soffusa e istituzionalizzata. Non c’è dubbio che sia una metafora della società americana e, per quanto riguarda Forman, anche un ritratto di quanto avviene dalle sue parti. Le ansie di libertà, le differenze, le dissidenze non sono tollerabili e tollerate e finiscono per essere sedate con maggiore o minore violenza (in questo senso, più della lobotomizzazione di McMurphy — abbastanza prevedibile — è agghiacciante la scoperta che la maggior parte dei ricoverati che partecipano alle sedute di psicoterapia è lì rinchiusa volontariamente e non coercitivamente, in esilio volontario da un “fuori” che temono e che sono incapaci di affrontare). La Grande Madre Bianca è, come da tradizione mitica, una carogna castratrice e non lascia vie di fuga all’eccentrico ribelle; se non il passaggio del testimone al diverso per antonomasia, il “vanishing American” fiedleriano, il pellerossa, che Forman trasforma nell’individuo di gran lunga più razionale e cauto tra i ricoverati nel manicomio, probabilmente uno al quale un secolo di persecuzioni ha insegnato la sottile arte della mimetizzazione, che solo alla fine esplode e mette in atto una fuga ben più spettacolare di quella che avevano progettato con Mc Murphy: una fuga quasi rituale, con esibizione di forza ancestrale, sbarre spezzate e corsa verso le montagne e il nulla. Anche se per un attimo ci chiediamo quanto Bromden andrà lontano, tuttavia il suo gesto ha un grande impatto simbolico. Un’illusione alla quale attaccarsi per un momento. Quanto alle debolezze, sono le stesse insite in altri esemplari contemporanei della New Hollywood: nel 1975, cominciamo già ad avviarci verso la “normalizzazione” del nuovo cinema americano, una scommessa vinta dai giovani e dagli (ex) indipendenti, che ha dimostrato la sua efficacia ai botteghini mondiali e che perciò acquista via via sempre più credito (in senso letterale, di budget) e a questo deve adattarsi. Smussare certe asperità, riempire certi silenzi, chiarire certe intuizioni, fare cioé più “spettacolo”. Corrono cinque anni tra il Cuculo e, per esempio, Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces, 1970) di Bob Rafelson, altra storia di un disadattato per scelta interpretato da Nicholson nel 1970: e lì in mezzo passa la parabola della New Hollywood. Qualcuno volò sul nido del cuculo è una spettacolare “macchina da guerra”, un meccanismo perfetto per agganciare il successo e, ancora oggi, le emozioni degli spettatori.

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hapeau all’esule che, in soli sette anni, è riuscito a entrare così bene nei meccanismi produttivi e, soprattutto, mitologici del Paese d’adozione.

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Ricordi del’età dell’Acquario

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ra dal 1967 che Forman desiderava fare un film da Hair, il musical di Gerome Ragni, James Rado e Galt MacDermot che aveva debuttato quell’anno off Broadway, per poi passare nel 1968 a Broadway e da lì diffondersi in tuttto il mondo. Adesso, dopo il successo del Cuculo, un produttore glielo propone, con un budget di 10 milioni di dollari, la possibilità di usare i suoi collaboratori di fiducia, con l’aggiunta di Twyla Tharp, una grande coreografa teatrale, che lavorerà ancora con lui per Ragtime e Amadeus (id., 1984). Questa è l’occasione per realizzare il connubio totale tra immagini e musica, sempre al lavoro nei film di Forman.

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Hair, 1979

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n Hair, tutti i tasselli della storia di Forman, autore in bilico tra due Paesi e due culture, vanno esattamente al loro posto: la musica e il ballo come guida emotiva delle immagini, la capacità di osservare e cogliere al volo i particolari del comportamento e delle fisionomie (qui rimessi in scena e frantumati dal ritmo), il montaggio come grande amalgama armonico, il grottesco come lente attraverso la quale osservare il mon-

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chiaro che Hair, il film, arriva in netto ritardo rispetto alle pulsioni, agli ideali e alle rabbie dei quali parla: è il musical sul Vietnam, sulle istanze pacifiste e sulla “filosofia” di vita hippie della prima metà degli anni Sessanta, quello che canta l’Età dell’Acquario e che invita a lasciare entrare il sole splendente, quello dei nudi integrali in scena (per épater les bourgeois come fanno i protagonisti con i benpensanti che incontrano per strada), quello dell’esplosione dei colori e dei sogni giovanili. Già il musical, nel 1967, andava in scena sul tramonto della fantasiosa ubriacatura hippie. Il film di Forman, poi, esce nel 1979, quando la guerra del Vietnam è stata finalmente archiviata, persino Nixon se n’è andato da un pezzo ed è presidente degli Stati Uniti l’opaco Jimmy Carter, cui succede nel 1981 un signore che si chiama Ronald Reagan e che apre un’era economica e culturale ben diversa da quella, auspicata, dell’Acquario. Hair di Forman è la foto ricordo di un momento travolgente e solare, è il “come eravamo” della controcultura dei Sixties, è il canto a qualcosa che non si ripeterà ma che valeva la pena di vivere. Ed è, ancora oggi, molto bello (molto più bello di qualsiasi ripresa teatrale), di cristallina onestà e di entusiasmante vitalità.

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do e sottolinearne i paradossi, la baldanza ingenua dei giovani che, nonostante i loro giri a vuoto e le loro contraddizioni, restano comunque gli unici motori possibili di un cambiamento e di un’idea, la forza segreta e minacciosa delle istituzioni, della politica, dell’esercito, che riescono sempre a vanificare gli sforzi di elementi ostili e centrifughi. In questo senso, l’inversione finale rispetto all’originale, con Berger, il leader dei figli dei fiori, che parte per la guerra e muore in Vietnam al posto di Bukowski (che ha quasi per scherzo sostituito per poche ore al campo di addestramento, per permettergli di andare a incontrare la ragazza che gli piace), è emblematica: muore il “matto”, il ribelle che aggredisce e sbeffeggia esplicitamente l’ordine costituito, muore Berger (come muoiono McMurphy e Mozart), consentendo forse così a un “alieno” di turno (pellerossa o contadinotto provinciale) di acquistare coscienza di sé, se non di fuggire.

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a è sul piano del musical in sé e per sé che Hair ha retto magnificamente la scommessa con il tempo. Se è vero, infatti, che il musical stava già cambiando, che Hair era stato preceduto nel ‘73 dalla versione cinemtaografica, diretta da Norman Jewison, di Jesus Christ Supestar (alquanto solenne), nel ‘75 dall’altro musical rock e psichedelico Tommy, diretto da Ken Russell e interpretato da Roger Daltrey (che però, visivamente, nasce come film, basato sull’album del ‘69 dell’opera rock omonima degli Who), e, soprattutto, nel ‘72 dal primo musical dell’autore che cambia radicalmente il rapporto tra numero musicale e schermo (Cabaret di Bob Fosse), non c’è dubbio però che il film di Forman abbandoni drasticamente la tradizione, che “liberi” la musica, il canto e il ballo dall’impaccio di un immaginario palcoscenico. Sembra quasi che Hair non sia mai stato rappresentato su un palcoscenico ma pensato, sempre, per la macchina da presa e i suoi stacchi.

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n un’intervista a Michel Ciment, Forman ha detto: «Ogni volta che sullo schermo qualcuno apre la bocca e comincia a cantare, mi provoca uno shock. Quello che mi ha sempre messo a disagio nelle commedie musicali è che si segue una storia e che improvvisamente tutto si ferma per un numero. Allora, mi sento tagliato fuori dal film. Abbiamo passato molto tempo per risolvere questo problema». E l’hanno risolto più che brillantemente: i balletti, ambientati per lo più open air al Central Park, paiono letteralmente costruiti dalla macchina da presa, mentre il canto si salda senza soluzione di continuità con la parola, arrivando talvolta a trasformarsi in un vero e proprio “scambio di battute” tra soggetti diversi (come nell’eccezionale Black Boys-White Boys, il numero nel quale “dialogano” a distanza le ragazze nere nel parco e i militari bianchi nell’ufficio di leva). E, a parte la sontuosa costruzione onirico-psichedelica del trip di Bukowski, ci sono scene di grande potenza evocativa, come la celeberrima Aquarius, intonata dall’alto da splendente solista nera e danzata da tutto il parco, compresi i cavalli dei due poliziotti, e l’angosciante rincorsa di Let the Sun Shine In, che raccoglie in un unico numero la conclusione della storia dei due protagonisti e, forse, di un pezzo di Storia, con i giovani manifestanti che si riversano sul prato davanti alla Casa Bianca, con la bandiera pacifista e quella americana, e vengono fissati in un frame che scolora.

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Salieri il Nero Moccioso maleducato, irresponsabile, sboccato, blasfemo, eppure seguito con simpatia e corteggiato con annotazioni deliziose (il suo desiderio di avere tre teste per poter indossare tutte le parrucche che il coiffeur gli fa provare), Mozart è attraversato da una sorta di sublime superficialità adolescenziale, destinata forzatamente a infrangersi contro una realtà con la quale egli risulta incapace di fare i conti. Il genio è un ragazzotto sciammannato e simpatico che la morte del padre tortura con lacerante senso di colpa, un individuo a cui uno sfrontato candore preclude una gestione mediamente vantaggiosa delle proprie capacità artistiche, un robusto bevitore e un incallito puttaniere. Ma è purtroppo un genio». Difficile descrivere il protagonista di Amadeus meglio di come ha fatto Paolo Vecchi su «Cineforum» (n. 244, maggio 1985, pag. 41), difendendo il film dai diversi attacchi (soprattutto da parte della critica italiana, sempre orfana della verosimiglianza realistica) al film fastoso con il quale Forman torna a girare in Patria (a Praga), seppur con un budget e interpreti americani.

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madeus è una sorta di cerniera tra il passato e il presente: aria di casa, di Mitteleuropa, ma anche capacità di confezionare un prodotto di tutto rispetto capace di attrarre il grande pubblico; accentuato senso del grottesco, delle “caricature” nobili e popolari (soprattutto la corte dell’imperatore Giuseppe II, ma anche guitti, artisti e servi), ma senza dimenticare la centralità dell’eroe (o meglio, degli “eroi” contrapposti); una strizzata d’occhio alla cultura alta, ma raccontata secondo l’affabulazione che piace a Hollywood. Infatti, il film vince otto Oscar, tutti i maggiori praticamente, tranne quello a

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Amadeus, 1984

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Tom Hulce, che l’avrebbe comunque meritato, al quale l’Academy preferisce F. Murray Abraham, che interpreta Salieri. Ed è infatti Antonio Salieri, l’uomo maturo, il musicista di corte, accorto diplomatico e suadente bugiardo, il vero “antieroe” di film di Forman, segnato dalla drammatica consapevolezza della propria insanabile mancanza di talento (per non parlare del “genio”, al quale con monastica dedizione credeva di essere stato destinato da Dio in persona). Ma Salieri conosce bene la musica e capisce subito da che parte stanno genio e mediocrità, senza nemmeno il bisogno di arrivare alla “controprova” degli spartiti del rivale buttati giù di getto senza una cancellatura, delle sue improvvisazioni o addirittura della dettatura del Confutatis e del Lacrimosa del Requiem K. 626 che Mozart morente fa a lui, che non riesce nemmeno a stargli dietro con la trascrizione. Se il giovane, travolgente e autodistruttivo Wolfgang Amadeus è il centro mercuriale del film (proprio perché questo — ancora con le scintillanti coreografie di Twyla Tharp — rimette in scena la sua musica, filo conduttore e ispirazione visiva dell’intera vicenda), il cauto, tormentato Salieri è il suo cuore oscuro, il personaggio narrativamente più interessante. Amadeus è uno dei tanti giovani di Forman; negli anni 60 del Novecento avrebbe fatto l’hippie al Central Park; e non bastano i sensi di colpa per la morte del padre, ostinatamente insoddisfatto di lui e minaccioso, a conferirgli i risvolti oscuri di McMurphy. Salieri, invece, è qualcosa di nuovo nella filmografia dell’autore: non è la raffigurazione a tutto tondo dell’istituzione, il “cattivo”, come la capoinfermiera Ratched, né lo sprovveduto, maldestro borghese che non riesce a entrare in sintonia con i propri figli, come tanti dei genitori che ha descritto. Salieri è un uomo di cultura, che capisce fin troppo bene sia l’arte sia la psicologia dello sfrenato ribelle con cui si trova a fare i conti, che lo detesta perché è tanto più bravo di lui, ma che non può fare a meno di invidiarne e desiderarne le caratteristiche. È un personaggio molto fine e sfaccettato, disperatamente a corto di “doni” e molto solo. Non si può né odiarlo né amarlo. Non so se questo c’entri con la doppia vita artistica e produttiva dello stesso Forman (come ipotizza Paolo Vecchi nello stesso articolo); ma indubbiamente apre agli sviluppi successivi, per esempio a una figura complessa come quella di Larry Flynt, l’editore interpretato da Woody Harrelson nel suo bel film del 1996, con il quale Forman entra dritto nel cuore dell’America che l’ha adottato.

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Amadeus, 1984

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Ragtime 1981

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Roberto Manassero

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Forman arriva a New York all’inizio del 1968. Lo fa legalmente, con un visto di lavoro, non da rifugiato o esule, ma da regista ceco che per contratto deve girare un film negli Stati Uniti. A New York ci resta qualche mese, poi fa ritorno in Europa, a Parigi, dove lo accolgono i colleghi che un anno prima avevano salvato dall’oblio il suo film Al fuoco, pompieri! (1967): Claude Berri, François Truffaut, Louis Malle…

La Storia travolge la vita di Forman, lo costringe prima a farsi raggiungere in Francia dalla moglie e dai figli, poi a separarsi definitivamente da loro per fare ritorno a New York e finire un film già iniziato.

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uel film è ovviamente Taking Off (1971), l’esordio americano di Forman, che il regista scrive con Jean-Claude Carrère e comincia a girare nell’estate del 1970, non dopo aver passato diversi giorni in compagnia della fotografa Mary Ellen Mark, presso la Bethesda Fountain di Central Park, a guardare gli hippy ortodossi mischiarsi con quelli occasionali. Uno spettacolo che Forman osserva da distante, da straniero, cercando le comparse per il film da fare e inconsapevolmente per un altor film che farà (Hair, 1979, ovviamente), come se un filo rosso collegasse i frammenti di una filmografia piena di contraddizioni eppure compatta, unica. Come se il cinema di Forman nascesse dal continuo adattamento di uno sguardo sempre uguale, sempre acuto e in superficie, sulla realtà impenetrabile e irraggiungibile della società americana e della sua storia.

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Nel frattempo i carri armati russi invadono Praga, a Parigi gli studenti innalzano le barricate nelle strade e chi ha fatto di tutto per buttare giù la bandiera del comunismo, come Forman osserverà stupito in molte interviste, vede gli amici di un altro paese fare di tutto per issarla…

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n Taking Off c’è un momento straordinario e rivelatore: Larry e Lyne Tyne, quarantenni benestanti del Greenwich Village, hanno da poco scoperto che la figlia quindicenne è fuggita di casa. Con loro c’è una coppia di amici, è notte fonda; i quattro adulti vagano per la grande casa, in sottofondo si sentono le note dello Stabat mater di Dvořák. A un certo punto l’attenzione di Lyne Tyne è attirata da uno spiraglio di luce che proviene dall’alto, in un angolo della casa. Una porta è aperta e affaccia sulla strada. Improvvisamente è mattina, la luce del sole è calda, i quattro adulti escono all’aria, “in superficie”, ed è come se si affacciassero per la prima volta su un mondo mai visto. Due stacchi di montaggio mostrano in campo lungo una strada alberata deserta; poi il sole che si riflette sulla superficie di un grattacielo e — stacco — Larry Tyne che cammina su un marciapiede di Manhattan, fra strade trafficate e giovani hippie tra i quali potrebbe nascondersi sua figlia.

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cco l’America: nuova, luminosa, incomprensibile, piatta e riflettente come la superficie di un grattacielo. Forman è invischiato in questo mondo di pure rappresentazioni, ma al tempo stesso ogni elemento del film rimanda alla sua vita, al suo lavoro e alle sue origini. Lo Stabat mater di Dvořák è l’opera di un musicista ceco che visse anch’egli in America, a New York (dal 1892 al 1895, come direttore del Conservatorio Nazionale); il montaggio di primi piani di ragazze impegnate in un’audizione su cui si apre il film è un evidente rimando al mediometraggio Konkurs (1964); lo sguardo affascinato e stupito sulle nuove generazioni fa pensare a Gli amori di una bionda (1965); la rappresentazione grottesca e divertita del bigottismo adulto al caustico e grottesco Al fuoco, pompieri!...

Taking Off, 1971

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i diverso e nuovo, in un film ancora influenzato da un metodo di lavoro “europeo”, con diverse scene improvvisate e una sceneggiatura usata più che altro come traccia, s’intravede la possibilità di un cinema più scritto e controllato, quel futuro passaggio a una messinscena fondata sull’azione più che sul comportamento, sulle scene più che sulle descrizioni, che segnerà il cinema americano di Forman. Nell’intervista contenuta nel documentario Avant Taking Off : Milos Forman, en route pour l’Amérique (1), Forman imputa tale scelta alla necessità di adattarsi a una lingua straniera, a un sistema di suoni, parole, significati nascosti che non conosce e che lo costringe a darsi un controllo formale e narrativo assoluto.

film, in una wilderness tipicamente americana, si muove nella penombra a un’andatura compassata, quasi fosse una figurina di cartone dentro un diorama. L’outdoor americano è una terra violata, una pura superficie, il segnale di un mondo da osservare come cultura, come ideologia e soprattutto come rappresentazione.

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1 Avant “Taking Off” : Milos Forman, en route pour l’Amérique, bonus dell’edizione francese di Taking Off (Cd e Bluray, Carlotta Film 2011).

2 Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rizzoli, Milano 1988, pag. 399 (trad. Bruno Oddera).

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el passaggio dall’Europa agli Stati Uniti, Forman accetta dunque il destino cui la Storia l’ha condannato e trasporta nel suo cinema, nel suo metodo di lavoro e nel suo sguardo, la dimensione di spettatore e ascoltatore di una cultura che non gli appartiene. Viene in mente Bromden, l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo, nel finale del romanzo di Ken Kesey da cui Forman nel 1975 trarrà l’omonimo film. Scappando oltre il giardino dell’ospedale psichiatrico, correndo, anzi balzando a lunghe falcate, verso il Canada e prima ancora verso la riserva da cui proviene, il personaggio, che è anche la voce narrante, dice: «Darei qualcosa pur di vedere questo. Soprattutto, mi piacerebbe rivisitare la regione intorno alla gola, soltanto per poterla vedere con chiarezza nella mente. È tanto tempo che ne sono lontano» (2).

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llo stesso modo, si potrebbe pensare, Forman attraversa lo spazio americano per vederlo con chiarezza prima nella sua mente e poi con i suoi occhi. Il capo indiano Bromden del film, diversamente da quello di Kesey, non parla, è quasi muto, così come il punto di vista sull’ospedale psichiatrico di Salem non è soggettivo e filtrato da una mente malata, ma è freddamente oggettivo, gestito dal montaggio, senza più tracce di libertà formale.

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l Bromden di Forman non corre veloce oltre il giardino della prigione, non getta lunghe falcate nella notte. Nell’ultima inquadratura del

air, in questo senso, è il film decisivo di Forman, l’incontro con il genere (il musical), con la Storia (gli anni della contestazione) e i suoi residui. È un film in costume, il racconto a un decennio di distanza di un’epoca lontana e trasformata in reminiscenza vintage. Un’epoca con cui Forman intrattiene un rapporto ambiguo, legato com’è alla lotta contro il comunismo in Cecoslovacchia e al tempo stesso costretto a riconoscere l’assurdità di un’altra guerra, quella del Vietnam, dichiarata anch’essa contro il comunismo ma condotta contro una generazione di giovani americani non diversi dai ragazzi che a Praga si opponevano ai carri armati sovietici. La risultante di tali divergenze storiche e personali è una messinscena che usa ancora una volta lo spazio americano come palcoscenico. Il campo lungo su uno scorcio del Midwest su cui si apre Hair — sorta di coda dell’ultima inquadratura del film precedente — viene immediatamente “superato” da una sequenza girata a Central Park, in cui un gruppo di hippie canta e balla la celebre Aquarius. Il musical arriva subito, in Hair, senza motivazioni o preavvisi; non è un mondo possibile affiancato a una rappresentazione realistica del mondo, ma è un’invasione dello schermo, il segnale di una messinscena alternativa. Eppure, quella degli hippie di fine anni Sessanta non è una conquista: alla fine del decennio successivo il loro momento storico è passato, l’era della contestazione finita. I numeri musicali del film sono infatti spezzati dal montaggio, il ritmo fra le parti cantate e quelle recitate è discontinuo, le coreografie annegano nello spazio di una New York troppo vasta e filmata con troppo realismo da diventare scenografia. Come nel contemporaneo I guerrieri della notte (1979), in Hair non è il cinema ad appropriarsi della città, ma, viceversa, è la città che si impone come luogo di produzione dell’immaginario.

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l musical zoppo e poco attraente di Hair ha a che a fare più con la morte di un movimento e di una generazione che con la sua idealizzazione. Le folle che invadono Washington nel finale sono i sopravvissuti a una guerra che ha trasformato migliaia di altri giovani in lapidi bianche. Vivi contrapposti ai morti, così come Claude, il soldato idealista convertito alla cultura dei figli dei fiori, si oppone a Berger, l’hippie che per uno scherzo del destino partirà per il Vietnam: due figure speculari che finiscono letteralmente per scambiarsi di ruolo nella morte.

Henry Ford, Houdini, e le fa interagire con figure inventate che lascia significativamente senza nome, il Padre, la Madre, il Fratello Maggiore e così via. Quando lo scrittore sceglie di dare un nome a uno dei personaggi fittizi, come il pianista nero che si ribella ai bianchi e minaccia di far esplodere mezza Manhattan, opta ad esempio per Coalhouse, storpiatura e derivazione del Michael Kohlhaas di Von Kleist, che ovviamente funziona da modello per il personaggio… In un continuo gioco di rimandi incrociati, Ragtime mette sul medesimo piano la Storia, la narrazione e i rimasugli di un immaginario che definisce le modalità stesse con cui la Storia viene tramandata. E c’è di più: perché agli albori del ’900, nel momento dello scontro fra nascente capitalismo finanziario e classe operaia, tocca a tre personaggi dalle umili origini, l’illusionista Houdini, il musicista Coalhouse e il marionettista Tateh (l’ebreo errante che fa fortuna e diventa regista cinematografico), reinventare il racconto della realtà attraverso nuove forme estetiche fondate sull’immaginazione, la velocità e la meccanica: il vaudeville, il ragtime e il cinema.

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el cinema di Forman il conflitto è sempre individuale e storico-sociale, mette cioè in campo personaggi in competizione e gruppi di individui opposti a un’istituzione repressiva. Ovviamente in tutto questo c’è un residuo delle battaglie contro burocrazia socialista, ma nel periodo americano a prevalere è soprattutto il discorso spesso implicito sulla Storia come rappresentazione, sul cinema come funzione dell’immaginario popolare. In tal senso, la scelta di un romanzo come Ragtime sembra inevitabile. Il romanzo di Doctorow, bestseller del 1975 alla cui trasposizione Forman aveva già lavorato con lo scrittore stesso subito dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo, è l’opera per eccellenza del sincretismo culturale americano. Un libro che fa letteralmente a pezzi la storia del paese e di conseguenza la sua narrazione, che procede per capitoli singoli e linee narrative che si incontrano solamente in una dimensione intertestuale o in una sorta di ultra-narrazione. In Ragtime, Doctorow trasforma in personaggi di finzione figure storiche del primo ’900 come Teddy Roosevelt, Emma Goldman, Harry K. Thaw, Stanford White, J. Pierpont Morgan,

ome ha fatto notare Fredric Jameson in Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, le due questione fondamentali di Ragtime sono l’annientamento della lotta di classe attraverso la creazione di forme di spettacolo popolari assurte a fenomeni di massa e, soprattutto, il fatto stesso che il romanzo usi l’idea di spettacolo e di rappresentazione della Storia come terreno impossibile e inesistente su cui costruire il racconto. Scrive Jameson:

«Gli oggetti della rappresentazione, personaggi evidentemente narrativi, sono incommensurabili e sono fatti, per così dire, di sostanze incomparabili, come l’olio e l’acqua — essendo Houdini una figura storica, Tateh una immaginaria e Coalhouse una intertestuale…» (3).

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ancora: «[Il romanzo] lo si può riformulare come una versione classica dell’”esperienza della sconfitta” propria della sinistra novecentesca, cioè l’idea che la spoliticizzazione del movimento operaio sia da imputare ai media o alla cultura in genere […]. Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero 3 La logica culturale del tardo capitalismo, Fazi Editore, Roma 2007 (trad. Massimiliano Manganelli).

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Questo, secondo me, è il fondo elegiaco, se non proprio il significato, di Ragtime, e forse della totalità dell’opera di Doctorow; ma allora è necessario descrivere il romanzo in un altro modo, quale espressione inconscia e indagine associativa di questa doxa della sinistra, di questa opinione storica o semivisione dello “spirito oggettivo” nell’occhio della mente. Ciò che una descrizione siffatta tenderebbe a registrare è il paradosso secondo cui un romanzo apparentemente realistico come Ragtime è in realtà un’opera estranea alla rappresentazione, che combina dei significanti immaginari di ideologemi diversi in una specie di ologramma»(4).

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agtime, il romanzo, sembra sì scritto appositamente per il cinema, tanto è rapsodico e sincretico. Ma Ragtime, il film, nel momento in cui mette in scena la scrittura di Doctorow, non può far altro che riportarla alla tradizione ottocentesca, pre-moderna, del romanzo come forma d’espressione. Usando il cinema come discorso di azioni e non di descrizioni. Forman non svilisce il materiale di partenza ma in qualche modo lo assorbe nelle immagini, lo annienta.

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arlando della scelta di eliminare dal montaggio del film le scene con Emma Goldman, fondamentali per il romanzo, Forman dice una cosa esemplificativa del suo metodo e della natura del cinema: «those scenes are in the book to tell you about the class structure of the society then. But I saw no reason to underestimate the visualm power of the film.

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Ibidem.

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ra, la versione di Forman di Ragtime (1981), per quanto semplificata rispetto al romanzo e adattata alle esigenze di una produzione da 20 milioni di dollari; per quanto formalmente agli antipodi rispetto allo sperimentalismo postmoderno (o, se vogliamo, tardo-modernista) di Doctorow, non può che restare anch’essa racchiusa in quello “spirito oggettivo nell’occhio della mente” di cui parla Jameson. “L’occhio della mente” di Bromden, che non si muove più come una marionetta nel paesaggio americano ma ricrea quello scorcio storico e geografico come ologramma.

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We don’t have to talk about it, because we will see the class structure with our own eyes — how people dressed and walked and talked on the Lower East Side, and how the upper class looked and lived» (5).

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l cinema, dunque, introietta il conflitto sociale, lo assorbe nelle immagini e rappresenta di per sé, ottant’anni dopo i fatti che racconta, ciò che Doctorow nel romanzo illustra come processo storico. Il montaggio non può accontentarsi di accostare personaggi storici e personaggi di finzione, ma deve mostrare, illustrare il conflitto. E così facendo, ha bisogno di quei legami che il romanzo può permettersi di eludere o al massimo evocare in una linea narrativa intertestuale che trasforma la Storia e la finzione in un’unica grande narrazione episodica della contemporaneità.

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ei primi minuti di Ragtime, mescolando immagini d’archivio del primo ’900 a ricostruzioni d’epoca con il passo incerto del muto, Forman trova una maniera esplicita per mescolare le “sostanze incomparabili” di cui è fatto il romanzo e al tempo stesso mostrare la contraddizione che sta alla base del film stesso. Con lo stile formalmente ineccepibile del suo periodo americano, Forman dimostra di non concepire il cinema come un’arte anch’essa rapsodica, fatta di connessioni libere e ideali, ma come una forma di racconto inevitabilmente “realistica”. E in questo modo fallisce consapevolmente l’aggancio con la Storia e di conseguenza con il classicismo. Ragtime è un film in equilibrio precario fra una messinscena post-moderna, che mette sullo stesso piano diverse opzioni di rappresentazione della

5 David Sterritt, Milos Forman and the tricky business of filming “Ragtime”, «The Christian Science», 10 dicembre 1981.

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Storia (l’archivio, la ricostruzione, la finzione, il vintage, la riflessione intellettuale, lo spettacolo borghese), e un superamento della stessa «per via “omeopatica”, ossia per mezzo di una somministrazione curativa e attentamente dosata del “veleno metanarrativo”» (6). Sempre secondo Jameson, Doctorow riesce nel tentativo di aggirare il post-moderno dando la prevalenza ai personaggi e non alla struttura del romanzo, mettendo cioè in primo piano il loro sguardo idiosincratico e frantumato sulla realtà; Forman, dal canto suo, trova soprattutto nei volti aspri dei suoi interpreti (l’indifeso Fratello di Brad Douriff, l’innocente Evelyn Nesbit di Elizabeth McGovern, la dolce Madre di Mary Steenburger...) l’antidoto al rischio di parodizzare ironicamente l’epoca che racconta o di trasformarla in un museo di cere.

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ndy Kaufman, invece, il magnifico, folle, geniale, incomprensibile fool di Man on the Moon è una figura fuori da ogni logica morale, uno showman che porta il cinema di Forman oltre l’azione, oltre il realismo della superficie e (letteralmente, fin dalla prima scena) oltre i limiti della cornice. Man on the Moon è un biopic a tutti gli effetti: non, però, sulla vita del suo 6 Luca Briasco, Americana — Libri, autori e storie dell’America contemporanea, Minimum Fax, Roma 2016, pag. 206. International Film Festival

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quasi trent’anni dall’arrivo negli Stati Uniti, insomma, in Man on the Moon Forman accetta ancora una volta di farsi rapire dal potere della scena, ma al tempo stesso, padrone del proprio sguardo distante e consapevole, fa ancora una volta convivere sullo stesso piano, attraverso il montaggio come principio regolatore del cinema, il riflesso del sole su un vetro e la piattezza della superficie che ne riflette la luce…

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l cinema americano, o meglio ancora il cinema “sull’America” di Forman è un cinema della distanza, formalmente controllato, magari anche compassato, ma attraversato da brividi e fratture. Almeno fino al 1999, anno di Man on the Moon e della biografica di Andy Kaufman, rispetto al suo rapporto con gli Stati Uniti Forman rimane invischiato in un evidente tormento interiore. In Larry Flint — Oltre lo scandalo(1996) l’America è ancora presente come spettacolo e rappresentazione (ad esempio, nella scena della festa per il bicentenario, tra divise militare del ’700, bandiere stelle e strisce, festini lesbo e anziani ignari e bigotti), con Forman che si limita a esporre il conflitto fra l’ambiguità morale della pornografia e la libertà d’espressione difesa dal primo emendamento della Costituzione. Più che innescare un cortocircuito nel sistema ideologico americano, Larry Flynt mette in crisi Forman stesso; non a caso tutto il film è giocato sulla doppiezza e sul contrasto fra le discutibili azioni di una figura non irreprensibile e la sacrosanta battaglia che combatte contro le istituzioni.

protagonista, ma su quel mondo dell’indistinto, dell’imperscrutabile e della convergenza fra Storia e immaginario, fra partecipazione e distanza, che è lo spettacolo americano. Alle prese con un personaggio che ammira e non capisce, Forman si mette totalmente al servizio della sua creatività distruttiva. E costruendo la finzione a partire dall’idea di spettacolo di Kaufman — fondata sul confine indistinguibile fra performance e realtà — porta a compimento ciò che aveva avviato con Ragtime: l’incertezza della struttura, la mancanza di logica di una narrazione “completa”, la rappresentazione che finalmente svela il vuoto su cui poggia… E Kaufman stesso, sdoppiato dal suo alter ego Tony Clifton, capace di far proseguire la finzione nel tempo della realtà (come nel numero con il Grande Gatsby), costretto anche nella morte a prendersi gioco della vita, fa saltare il biopic inteso come genere e risolve con la sua figura pienamente compiuta solo nella dimensione dello spettacolo e della “superficie” la contraddizione — fondamentale per il cinema di Forman — fra partecipazione e negazione, presenza e invisibilità, storia e immaginario.

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Un momento critico nell’opera americana di Forman:

Tra Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975) e Amadeus (id., 1984) si colloca un primo momento decisivo della carriera di Forman a Hollywood. Un momento che può essere descritto innanzitutto in termini estetici: dopo Taking Off (id., 1971), film ancora molto influenzato dallo stile Nouvelle vague del periodo ceco, Forman si orienta verso forme più solide da un punto di vista drammaturgico e indiscutibilmente più adeguate all’entertainment hollywoodiano.

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ra Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975) e Amadeus (id., 1984) si colloca un primo momento decisivo della carriera di Forman a Hollywood. Un momento che può essere descritto innanzitutto in termini estetici: dopo Taking Off (id., 1971), film ancora molto influenzato dallo stile Nouvelle vague del periodo ceco, Forman si orienta verso forme più solide da un punto di vista drammaturgico e indiscutibilmente più adeguate all’entertainment hollywoodiano. La svolta compiuta a metà anni Settanta con Qualcuno volò sul nido del cuculo si conferma col successo di Hair (id., 1979): entrambi i film sono portatori di uno spirito contestatario tipico della Nuova Hollywood, di cui troviamo ancora una traccia discreta in Amadeus, biopic che non dice molto della musica di Mozart, ma che dipinge piuttosto il ritratto di un giovane festaiolo irriverente

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ed esuberante: i suoi eccessi alla corte di Vienna sono il riflesso della mentalità disinibita dei primi anni Ottanta, si tratta, insomma, di un Mozart rock.

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uali che siano le qualità che si prestino a questi tre film, bisogna ammettere che la loro costruzione drammatica indulge talvolta alla facilità: il montaggio sperimentale di Taking Off è stato definitivamente abbandonato, il regista ha ormai conquistato il pubblico mainstream. Lo scontro tra McMurphy e miss Ratched in Qualcuno volò sul nido del cuculo sembra essere diventato il paradigma del racconto formaniano: da un lato l’individuo, sempre dotato di un potere di disturbo, di una creatività esuberante e pericolosa, dall’altro un sistema sociale perfettamente gerarchizzato, le cui rigidità e intransigenza vengono trasposte nella corte di Vienna di Amadeus.

Un momento critico nell’opera americana di Forman: Larry Flynt — Oltre lo scandalo / Man on the Moon

Larry Flynt — Oltre lo scandalo (The People vs Larry Flint, 1996) / Man on the Moon (id., 1999)

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The People vs. Larry Flynt / Larry Flynt – Oltre lo scandalo, 1996

Non stupisce, da questo punto di vista, che nella sceneggiatura del film sia inserito il famoso aneddoto che riferisce che, dopo aver sentito Il ratto dal serraglio, l’imperatore Giuseppe II avrebbe rimproverato a Mozart di avervi messo “troppe note”. L’eccesso e il senso dell’esuberanza grottesca che troviamo nelle satire ceche (nel regolamento di conti familiare alla fine di Gli amori di una bionda, Lásky jedné plavovlásky, 1965, per esempio) e nel primo film americano di Forman (la partita di strip poker dei genitori su cui si chiude Taking Off) vengono ormai problematizzati in un rapporto individuo/sistema che diventa l’asse drammaturgico principale della sua opera. La scena della trattativa sulla partita di baseball tra miss Ratched e McMurphy offre un altro modello, che poi ritroviamo nelle scene del processo di Larry Flynt — Oltre o scandalo (The People vs. Larry Flynt, 1996) e negli happening disturbanti di Andy Kaufmann in Man on the Moon (id., 1999).

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uesti due biopic realizzati negli anni Novanta introducono però sfumature importanti nel racconto formaniano: le contrapposizioni sono meno nette, l’eroe non ha più il monopolio dell’invenzione grottesca, dal momento che la società stessa ha assunto la dimensione di un teatro in cui va in scena a cielo aperto la commedia del bigottismo (vedi l’episodio Ruth Carter in Larry Flynt), in cui lo spettacolo finisce per mettersi a nudo da sé (in Man on the Moon). Questo periodo particolare nell’opera di Forman, che io chiamo critico, corrisponde ad uno stadio in cui la prospettiva contestataria dei film precedenti si rivolta contro se stessa, in un moto dialettico abbastanza avvincente, che si cristallizza nei capovolgimenti barocchi degli sketch di Kaufman. Quando l’umorista sabota in diretta la sitcom

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agli anni Novanta, dopo l’insuccesso commerciale di Valmont (id., 1989), l’opera di Forman attraversa dunque un periodo di crisi all’interno del sistema hollywoodiano che ha incoronato il regista coprendolo due volte di premi (cinque Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo, otto per Amadeus). Lungi dal seguire la via dell’intrattenimento mainstream, il regista definisce un programma simile a quello di Verhoeven, un altro grande regista europeo unanimemente incensato da Hollywood in quegli anni. Tale programma consiste nell’attaccare l’entertainment per mezzo dell’entertainment. Scegliendo un genere diventato hollywoodiano per eccellenza — il biopic — Forman si accinge a realizzare un’operazione di hackeraggio paragonabile a quella con cui Verhoeven aggredisce il thriller hitchcockiano in Basic Instinct (id., 1992): laddove Verhoeven gioca sul whodunit del thriller classico per dipingere il ritratto di un investigatore sessualmente frustrato (l’ispettore Nick Curran) che riscopre la propria virilità, Forman in Larry Flynt mette in scena la commedia del biopic edificante per descrivere un personaggio (Flynt) che percorre la strada opposta: Flynt infatti passa dalla potenza (sessuale, economica, sovversiva) all’impotenza e si trova riconosciuto nei suoi diritti di cittadino nel momento in cui ha perso ogni energia contestataria.

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’asse drammaturgico che ha fatto la fortuna dei grandi racconti formaniani — il conflitto individuo/sistema — subisce quindi uno spo-

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stamento significativo: il sistema sociale non viene più mostrato come brutale o ingiusto, come in Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma piuttosto recita contro l’eroe una commedia estenuante che sfocia, nella narrazione del film, in una specie di status quo, senza sconfitti né vincitori. Dopo l’annientamento mediatico e la morte, quella sì reale, di Andy Kaufman, il pubblico rappresentato alla fine di Man on the Moon accoglie trionfalmente Tony Clifton, e lo acclama in nome di una morale hollywoodiana che probabilmente non era esattamente quella di Kaufman: the show must go on. In altre parole, se è vero che i due biopic realizzati da Forman negli anni Novanta sono i sintomi di un momento critico, l’epilogo di Man on the Moon ci dice che questo non cambia minimamente l’industria dell’enterntainment vista come un sistema democratico capace di digerire qualsiasi impresa contestataria. Da questo punto di vista, la scomparsa di Forman da Hollywood dopo Man on the Moon coincide esattamente con quella di Verhoeven dopo Starship Troopers (id., 1997): i due film più sottilmente ironici degli anni Novanta hanno posto fine alla carriera americana dei due registi. Su questo terreno dell’enterntainment critico, siamo ancora in cerca di loro successori.

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arry Flynt — Oltre lo scandalo e Man on the Moon non sono film facili, bisogna ammetterlo. Il loro rapporto con la nozione di entertainment è talmente problematico che possono quasi essere descritti come opere schizofreniche. I loro eroi sono del resto ossessionati da doppi: Larry Flynt, il direttore di «Hustler», ha delle crisi mistiche che lo portano a sabotare le copertine della sua rivista e a mettere in pericolo l’industria che ha fatto la sua fortuna. Andy Kaufman, star di una popolarissima sitcom dei primi anni Ottanta, non può fare a meno di regalare la scena al suo avatar odioso e osceno, il cantante di cabaret Tony Clifton. Lungi dal suscitare l’adesione dello spettatore, questi due personaggi non fanno che inceppare la meccanica dello spettacolo hollywoodiano: non si limitano a mostrare, come McMurphy, che il mondo è un teatro (è il vecchio motivo barocco di Qualcuno volò sul nido del cuculo), non si limitano a sabotare la commedia sociale o mediatica, ne distruggono anche il riflesso che ne propone il cinema hollywoodiano, inscenando

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di cui è la star rifiutandosi di recitare la commedia, il suo attentato contro l’entertainment viene immediatamente recuperato dal patron di ABC che lo trasforma in happening. In modo ancora più evidente rispetto a Larry Flynt, Man on the Moon descrive la commedia che il popolo americano recita a se stesso in un momento in cui i suoi valori sono scossi da controversie (il processo O.J. Simpson a metà anni Novanta) e da scandali (il caso Monica Lewinsky nel 1998). Il grottesco non è più sulla scena, è insito nello spettacolo di una società che inscena compiaciuta la propria commedia e dimostra, nell’inventarla, risorse di recitazione potenti almeno quanto quelle dei clown che, da McMurphy a Kaufman, in Forman hanno sempre occupato la ribalta.

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la commedia della commedia. I due film quindi ci portano a chiederci fino a che punto la performance del personaggio (e dell’attore che lo incarna) interroghi la società americana in modo critico.

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a seconda parte di Larry Flynt è abbastanza esemplare in proposito. Apparentemente può essere vista come un lungo tunnel giuridico che riprende tutti i codici di scrittura del film giudiziario. Ma le scene in cui Flynt si scontra con i tribunali si ripetono con una tale insistenza da far propendere piuttosto per l’ipotesi della parodia: Larry Flynt è un film sulla commedia della giustizia, che ha per sfondo il processo più controverso dell’America degli anni Novanta: quello di O.J. Simpson. Minando la solennità abituale del film giudiziario tramite gli eccessi della performance di Woody Harrelson, sottolineando le intemperanze di Flynt che si presenta di fronte ai tribunali indossando magliette su cui si legge I wish I was black o Fuck the court, Forman prende atto dello stravolgimento morale prodotto dal processo Simpson, e più in generale della crisi morale che caratterizza la presidenza di Bill Clinton, ben presto trascinato nella sinistra commedia della

pubblica confessione durante il caso Lewinsky (1998-1999). Una commedia inscenata dallo stesso Flynt quando si invaghisce della bigottissima Ruth Carter — per poi buttar lì, dopo il tentato omicidio che lo lascerà menomato, questa frase nichilista: «There is no God».

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uesto nichilismo, non nuovo in Forman, fa di Larry Flynt un’eccezione nella storia recente del biopic hollywoodiano. Impossibile oggi immaginare un biopic americano che non sia portatore di valori, questo è anzi il principio della vita portata sullo schermo, deve mutarsi in esempio, in leggenda, in mito edificante. Eccezion fatta per l’ultima scena del processo — la vittoria dell’avvocato Isaacman (Edward Norton) che perora la causa di Flynt in nome della libertà di espressione — non troviamo in Larry Flynt il minimo intento edificante. Il film termina su un ritratto crepuscolare del suo eroe, che pensa alla moglie (Courtney Love) e rivede, piangendo, una registrazione in cui lei gli aveva promesso di non diventare mai “vecchia e brutta”. Difficile concepire un finale più plumbeo — e anche in questo si manifesta il lavoro critico di Forman sulle forme hollywoodiane: nel mo-

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erge Daney aveva colto perfettamente la funzione di McMurphy: è un innesco, scriveva, è il clown gettato nel film per portare lo scompiglio nel manicomio diretto col pugno di ferro da miss Ratched. Al momento della sua uscita — nel 1975 — lo spirito contestatario di cui la Nuova Hollywood è portatrice induce per lo più a una lettura allegorica: Daney, nei «Cahiers du Cinéma», sviluppa un testo brillante sul problema della violenza legale (1), mentre Pauline Kael ricollega il lavoro di Forman a tutta l’estetica nata dalle contro-culture che già percorre il romanzo di Ken Kesey di cui il film costituisce un adattamento (2). L’opera successiva di Forman, in particolare i suoi due film degli anni Novanta, oggi ci consentono di vedere Qualcuno volò sul nido del cuculo con maggiore chiarezza, e di cogliere meglio il senso della performance di Jack Nicholson. McMurphy è il primo eroe dell’entertainment americano nell’opera di Forman: la scrittura del film mette a confronto le potenze dello spettacolo e dell’intrattenimento (la cui oscenità si riassume nel mazzo di carte erotiche di Nicholson) con una democrazia impassibile e silenziosa, in cui le voci (dei matti) sono state da tempo confiscate (l’ospedale di miss Ratched).

1 Serge Daney, Réserves, in La Maison cinéma et le monde, POL, Parigi 2001: «Il buon funzionamento del film di Forman», scrive Daney «è dovuto all’approntamento, fin dalle prime inquadrature, della batteria minima che alimenta l’immaginario dello spettatore: una riserva e l’innesco. A fare da riserva è il manicomio: persone riservate, collocato in riserva, riserva di aggressività e di violenza, riserva indiana. L’innesco, McMurphy, è quello che potremmo chiamare un “alleato sul posto”: “il nostro uomo nella fiction”, come potremmo dire “il nostro uomo all’Avana”. Il ruolo di McMurphy è quello di raffigurare una dopo l’altra tutte le posizioni possibili e desiderabili in cui lo spettatore si può trovare di fronte a un luogo di reclusione, a un qualsiasi recinto. Facoltà di fuggire o restare, di simulare o di stare al gioco, di essere un ragazzino infernale […] o un infermiere modello […]». International Film Festival

2 Pauline Kael, Le plus fou parmi les fous, in Chroniques américaines, Sonatine, Parigi 2010, pagg. 285-295.

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strare, attraverso lo schema classico del rise and fall, la vanità di qualsiasi impresa sovversiva, la tragica autodistruzione che ne deriva, la profonda abiezione con cui l’eroe deve compromettersi nel suo slancio contestatario. Man on the Moon funziona secondo lo stesso modello: è un film apparentemente molto hollywoodiano, che si attiene a una linea narrativa abbastanza chiara (ascesa e declino di Andy Kaufman). Ma l’operazione estetica del film è ancora più subdola che in Larry Flynt: apparentemente si tratta di una commedia su un comico, affidata all’interpretazione di una star incoronata dal sistema (Jim Carrey, a quel tempo al vertice della sua carriera). In realtà è un’anti-commedia spesso sinistra, in cui lo spettatore non fa che ridere a denti stretti — perché il film lo mostra mentre sta ridendo, e spesso ride a sue spese. «It’s not funny» è una battuta ricorrente in Man on the Moon: proprio in questa delusione comica risiede il progetto di Forman, che si pone, come Kaufman, al limite tra ciò che è divertente e ciò che non lo è, dentro il sistema e fuori di esso, in una zona intermedia in cui è possibile raccontare contemporaneamente l’alienazione di un comico e quella del suo pubblico. È il soggetto di Qualcuno volò sul nido del cuculo esteso alla dimensione del mondo della televisione, e dell’industria dell’intrattenimento di cui essa era ancora, negli anni Novanta, il simbolo assoluto.

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La scena della votazione a proposito della partita di baseball è, da questo punto di vista, molto illuminante: per vedere la partita, McMurphy vuole trattare con miss Ratched una modifica del regolamento del manicomio. Lei organizza una votazione per alzata di mano. Nove voti. «Una marea», commenta provocatoriamente McMurphy. Miss Ratched allora ricorda — con la fredda serenità che caratterizza l’interpretazione di Louise Fletcher — che bisogna contare anche i voti di quelli che non votano. In altre parole: la votazione è un imbroglio, visto che gran parte del manicomio non è in grado di votare. Ovviamente questa scena può essere letta con riferimento ai ricordi di gioventù di Forman e alla sua esperienza del comunismo (Daney faceva del manicomio un gulag). Ma la si può anche vedere come un primo modello di uno schema drammatico che si ripete in modo più sottile in Man on the Moon, dove il principio della votazione viene ripreso secondo la modalità eliminato o ancora in gara quando la rete ABC chiede ai telespettatori di decidere il destino mediatico di Kaufman. Principio di realtà (economica) contro principio di piacere. Il clown è sempre allo stesso posto, crede di turbare un ordine stabilito e alla fine si ritrova alienato da un sistema che su di lui ha il vantaggio della democrazia. Imbattibile argomento ab auctoritate che permette di neutralizzare il riso e la sua potenza sovversiva. Vien quasi da pensare che Forman si collochi nella schiera dei saltimbanchi romantici, su cui Jean Starobinski, nel suo Ritratto dell’artista da saltimbanco, si esprime in questi termini: «Non ci si affretti troppo ad assegnare loro un ruolo, una funzione, un senso; bisognerà lasciarli liberi di essere null’altro che un gioco insensato. La gratuità, l’assenza di senso è, se mi è lecita l’espressione, la loro aria natale. Soltanto a prezzo di questa vacanza, di questo vuoto primario, essi potranno passare

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al significato che abbiamo scoperto per loro. […] In un mondo utilitaristico, attraversato dal reticolo fitto delle relazioni significanti, in un universo pratico nel quale ogni cosa viene investita d’una funzione e di un valore d’uso o di scambio, l’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e […] apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di vita» (3). uesta breccia è stata aperta in Man on the Moon — e non è senz’altro un caso che Forman ritrovi, per il suo ultimo film hollywoodiano, la figura del clown, quasi venticinque anni dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo. Kaufman sta come un funambolo al di sopra di un mondo brutto e sinistro, del quale il suo doppio, Tony Clifton, è il riflesso grottesco e ripugnante. Il conflitto che occupa la scena lungo gli happening televisivi di Kaufman è innanzitutto di ordine estetico: è quello della scomodità dell’umorismo contro le risate registrate delle sitcom, della gratuità dello spettacolo comico contro gli interessi di un mondo utilitaristico che cerca di assegnare una parte al comico — quella di Latka, per esempio, il meccanico idiota che ha fatto la popolarità di Kaufman nella serie Taxi. Una simile visione del mondo viene senz’altro dal teatro. È noto, da

3 Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Bollati Boringhieri, Torino 1984. International Film Festival

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lla fine di Qualcuno volò sul nido del cuculo, McMurphy finiva come un guscio vuoto, lobotomizzato per aver tentato di strangolare miss Ratched — ma la sua morte dava a Big Chief il coraggio di andarsene dal manicomio. Anche Flynt finisce come un guscio vuoto, nonostante una vittoria davanti alla Corte Suprema che gli riconosce il diritto alla caricatura e fa di lui un simbolo della libertà di espressione. Per Kaufman, invece, non c’è vittoria: lo spettacolo ha coperto tutta la sua esistenza, l’entertainment è diventato il suo involucro. Di qui l’ambiguità dell’epilogo di Man on the Moon.

One Flew Over the Cuckoo's Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975

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molte interviste, quanto l’incontro col mondo del teatro, che Forman ha scoperto giovanissimo grazie al fratello, sia stato fondante, ritroviamo la sua influenza profonda in Amadeus e Man on the Moon. Ma Forman non si limita semplicemente a dire di nuovo che il mondo è un teatro. Nei suoi grandi film critici degli anni Novanta, dipinge dei clown patetici, annientati, che si sono bruciati le ali con la pessima idea di recitare la commedia americana. Alcuni personaggi di secondo piano, che incarnano il compromesso con il sistema (Isaacman in Larry Flynt, Shapiro in Man on the Moon), sono testimoni della loro autodistruzione.

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Kaufman muore di cancro al polmone ma sopravvive attraverso lo spettacolo, con uno sketch testamentario proiettato su uno schermo che sovrasta la bara durante il suo funerale. Poi, il suo avatar Tony Clifton riappare sulla scena di un cabaret per cantare I Will Survive. Lo spettatore ha due possibilità. La prima è considerare che Kaufman non sia morto davvero, che abbia inscenato la commedia della morte con tutto il pathos previsto — e in questo caso l’ultima scena rappresenta l’ultimo raggiro. In alternativa, il ritorno clamoroso di Tony Clifton è un modo di dire che il brutto spettacolo avrà sempre la meglio sul dramma, ben reale, del saltimbanco. Il film si concluderebbe quindi in modo molto hollywoodiano, analogamente a Dietro i candelabri (Behind the Candelabra, 2013) di Soderbergh: che lo spettacolo continui.

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ltimo film hollywoodiano di Forman, Man on the Moon è il più ambiguo di tutta la sua opera: lo si può vedere come un biopic hollywoodiano dedicato a una performance di attore (quella di Jim Carrey, che rotea gli occhi e gigioneggia ancor più che in The Mask, id., 1994). Lo si può anche considerare retrospettivamente come una specie di autocritica — il destino di Kaufman può infatti rinviare a quello di Forman a Hollywood, al suo sgretolarsi e alla sua scomparsa definitiva all’avvento degli anni Duemila. Sei anni dopo, con L’ultimo inquisitore (Goya’s Ghosts, 2006), Forman torna con uno strano film storico, che non ha nessuna possibilità di attirargli di nuovo il favore del pubblico. Vi possiamo vedere l’ultima confessione del cineasta, ed è molto bella. Goya, l’uomo che fu ad un tempo pittore di corte e testimone degli orrori della storia, incluso nel sistema e contemporaneamente incapace di trattenersi dal dipingerne l’ignominia, è Forman. E tutto ciò che il regista dice di sé in questo film è forse racchiuso in una scena in cui il pittore svela per la prima volta il suo ritratto ufficiale del re e della regina di Spagna. E in quel momento un cortigiano gli chiede: «Ma la regina è davvero così brutta?».

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’ultimo inquisitore funziona come una specie di analisi retrospettiva del momento crisua carriera hollywoodiana. A metà anni Novanta, in una società americana in piena crisi morale, Forman si è gradualmente allontanato dai racconti comodi e rassicuranti, ha voltato le spalle al suo destino di entertainer, ha lasciato che lo spettacolo continuasse senza di lui. Il suo lasciare l’ultima parola a Tony Clifton che con voce nasale canta I Will Survive alla fine di Man on the Moon è un segno che non può ingannare: sulle ceneri di qualsiasi impresa sovversiva, c’è un clown osceno che continua a cantare e ballare.

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Goya's Ghosts / L'ultimo inquisitore, 2006

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Goya's Ghosts L'ultimo inquisitore 2006

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Anton Giulio Mancino

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«Non mi considero un artista politico, ma sono consapevole di una cosa: qualsiasi storia tu racconti, dato che stai trattando la vita delle persone, tocchi sempre la politica. In arte qualsiasi cosa tu faccia è politica» (Miloš Forman, 2006)

lla fine della lettera inviata a Madame de Rosemonde, la penultima delle complessive centoventicinque che compongono il romanzo epistolare di Pierre-Ambroise-François Chorderlos de Laclos, Le liaisons dangereuses, il cavalier Danceny dichiara di aver preso una decisione inappellabile: «Andrò infine a cercare di dimenticare sotto un cielo straniero tante infamie il cui ricordo potrebbe solo rattristare e inaridire il mio cuore». La stessa decisione quasi due secoli dopo la prende Miloš Forman, abbandonando la nativa Cecoslovacchia nel 1968, prima che la Primavera di Praga scateni l’intervento militarizzato sovietico, per trasferirsi negli Stati Uniti, definitivamente. Gli argomenti del giovane Dancency, sulla carta, appartengono a Forman di diritto. Al punto che il romanzo stesso diventa la premessa motivazionale di fondo, cifrata, del suo Valmont (id., 1989), film molto maltrattato, a torto, a causa dell’uscita appena un anno prima di Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons, 1988) di Stephen Frears, scritto da Christopher Hampton. Conta molto relativamente stabilire in questa sede quale dei due film sia migliore, argomento che invece a suo tempo appassionò molti gli addetti ai lavori, che conclusero l’istruttoria sommaria con un giudizio critico quasi unanimemente negativo su Valmont.

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a verità, come al solito, è un’altra. E trascende gli umori e il gusto corrente di chi si occupa di cinema per mestiere, spesso senza rendersi conto di cosa significhi non tanto farlo ma viverlo come esperienza biografica. Miloš Forman, virtuoso perciò del biopic, appartiene infatti alla ristretta categoria di autori in cui la creatività ha investito dal principio la vicenda personale, determinando una sferzante e sconcertata visione del mondo. Non ci vuole molto a capire che la riflessione di e su Forman, inseparabili l’una dall’altra, quale che sia il singolo film esaminato, si spinge oltre il testo di riferimento preso in prestito, o il contesto cui esso fa riferimento. La premessa biografica dell’autore di Valmont, di origini cecoslovacche, origini sempre più lontane e quanto mai presenti, nonostante la decisione intransigente di stabilirsi negli Stati Uniti, anzi a maggior ragione per questa dislocazione geografica, può essere assimilata per alcune tragiche concomitanze fondamentali, esclusivamente a quella del suo coetaneo polacco, Roman Polanski, che proprio con gli Stati Uniti ha avuto e mantiene, suo malgrado, un rapporto conflittuale, irrisolto, controverso. Entrambi i due straordinari cineasti, in qualche modo senza vera fissa dimora, apolidi per vocazione artistica e culturale, indipendentemente dal Paese esteuropeo di appartenenza o da quello europeo o nordamericano di effettiva cittadinanza, a seconda dei casi, vivono in uno stato di dilacerazione ed estremo disinganno storico-politico che condiziona ogni loro opera, quand’anche sfugga l’immediata evidenza di tale “pericolosa relazione”.

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Certo nessuno si sognerebbe oggi di fraintendere il motivo che possa aver spinto strada facendo Polanski a cimentarsi con film di genere, a prima vista dell’orrore, per non parlare delle incursioni nei territori insondabili e indicibili di una Shoah mai rimossa né davvero rappresentabile o recepibile dallo schermo fino in fondo. Viceversa, permangono su Forman molte perplessità o obiezioni riguardo al suo presunto formalismo. Obiezioni degne di un noto modello critico e ideologico dal quale Forman si è per sua fortuna affrancato da decenni. Obiezioni che si sono addensate con un certo accanimento sulla sua trasposizione del romanzo di Laclos. Su Valmont si scatena una reazione che attribuisce a Forman un’attitudine “formal”, perdendo di vista la questione centrale.

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osa si cela dietro altresì le sue prese di posizioni a favore di soggetti sopra le righe, contraddittori, simpatici, certo, ma più o meno spiccatamente sessisti (Qualcuno volò sul nido del cuculo, One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975, Valmont e Larry Flynt — Oltre lo scandalo, The People Vs. Larry Flint, 1996, in testa, ma anche a ben guardare Man on the Moon, id.,, 1999, se pensiamo alla scena della casa d’appuntamenti o alla figura dell’alter ego antipatico e scostante Tony Clifton), ciò nonostante in aperto dissenso con il sistema, qualsiasi sistema, in ogni angolo del pianeta e in ogni epoca? E cosa lo porta ad adottare un registro formale molto accentuato, al servizio di questi individuo fuori controllo, esasperati ed esasperanti, a lui tanto cari? La risposta a queste domande complementari va ricercata nelle pieghe del racconto, nella ricorrente prassi della rappresentazione dentro la rappresentazione. Forman spesso e volentieri non si accontenta di mettere in scena e in campo situazioni e personaggi. Ha bisogno di incorniciarli e iscriverli in spettacoli, quadri, film, schermi televisivi. Ed è qui che urge trovare la chiave di volta del discorso generale. In Larry Flynt — Oltre lo scandalo la spia del concreto impegno a favore della causa del protagonista pornografo risiede nell’accostamento da lui stesso proposto tra le immagini “innocue” di un’industria oscena, ovvero quelle pubblicate sulla testata giornalistica per soli adulti di cui egli è il miliardario editore, e le immagini di un’altra pornografia. La pornografia diversamente seriale, massificata. Una pornografia organizzata su scala industriale del crimine che include ovviamente le immagini provenienti dal tremendo repertorio della Shoah. La perdita all’età di otto anni di ambedue i genitori, vittime della deportazione nazista, il padre a Buchenwald, la madre ad Auschwitz, per Forman, classe 1932, sta alla quasi analoga biografia caratterizzante di Polanski, classe 1933, il quale perde la madre ad Auschwitz mentre il padre sopravvive all’inferno di Mathausen. Ciò spiega come mai un qualsiasi film del primo, Forman, stia a un qualsiasi film del secondo, Polanski. Tess (id., 1979) come Valmont.

The People vs. Larry Flynt / Larry Flynt – Oltre lo scandalo, 1996

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E come mai ognuno dei loro film sia inevitabilmente un tassello più o meno scoperto di una estesa, labirintica cartografia della crudele coazione a ripetere della Storia. Ogni argomento, sia pure il più lontano da questo nucleo problematico, rientra dalla porta di servizio o da quella principale in disegno coraggioso e dilazionato.

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estando sul versante Forman, notiamo che i casi favorevolmente accolti di Larry Flynt — Oltre lo scandalo, come quelli di Man on the Moon o tutto sommato di L’ultimo inquisitore (Goya’s Ghosts, 2006), per restare all’intorno temporale che va dal 1989 al 2006, come vedremo foriero di concomitanze storiche impressionanti, non sono che punte d’iceberg. Non possono cioè essere mere eccezioni che confermano la regola di un autore dedito a sterili esercizi di stile, uno stile decorativo, spento, senza slancio.

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uello rimproverato in Valmont, per intenderci. Adoperando simili parametri, cadrebbero sotto i colpi implacabili del vaglio contenutistico tutti i film di Luchino Visconti. Qualcosa di simile è accaduto, alla sua uscita, puntualmente a uno dei grandi capolavori di Stanley Kubrick, che con il Valmont di Forman mantiene non pochi punti di contatto: Barry Lyndon (id., 1975) da qualcuno viene definito un film «inamidato».

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n estrema sintesi, anche Valmont, proprio Valmont, principalmente Valmont, con buona pace del testa a testa con Le relazioni pericolose, merita un grado ulteriore di giudizio. Ed è probabilmente questa prassi garantista — che è poi il succo della politica degli autori, autori politici anche quando non lo sono o non sembrano esserlo, come Forman ha dichiarato nell’intervista di cui abbiamo riportato in esergo il passo saliente — che dovrebbe farci cogliere la differenza sostanziale tra questi due film ugualmente tratti dalla struttura letteraria ed epistolare ordita da Laclos, ma incompatibili sotto ogni altro aspetto. Non occorre a conti fatti un grande sforzo di immaginazione, né speciali elementi di indagine per accorgersi che Valmont agita un sottotesto di spessore. Più che un capriccio occasionale per un allestimento impeccabile di un’epoca remota, lascia intravvedere qualcos’altro. Si presenta come un oggetto alieno, non identificato, a dispetto della facilità con cui è stato frettolosamente catalogato. Un dispositivo non convenzionale di riflessione meta-storica, nella misura in cui nel medesimo ventennio Larry Flynt — Oltre lo scandalo, Man on the Moon e L’ultimo inquisitore sono altrettanti saggi su ciò che vuol dire e comportano le pratiche rappresentative, di qualsiasi tipo e per qualsiasi utenza. Dalla carta stampata alla pittura, dal cinema alla televisione.

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Questo nell’eventualità che tali pratiche, in circostanze eccezionali, si trasformino volenti o nolenti in altrettanti veicoli eversivi, antagonisti all’establishment, in ogni epoca e luogo, invisi alla censura. L’impietoso e superficiale paragone con il film di Frears non tiene perciò conto dell’interesse implicito di Forman per quella Francia sull’orlo del precipizio, aggrappata alle tresche amorose, appannaggio di una aristocratica retriva e infida. Un mondo gaudente, sterile, pericoloso e in pericolo, che a breve sarà travolto dalla Rivoluzione. Donde la morte, di fatto un suicidio per interposta persona, del protagonista. Un presagio? Detto altrimenti, la trama ricavata dalla concatenazione di lettere immaginata concepita da Laclos permette a Forman, anche sceneggiatore, coadiuvato da Jean-Claude Carrière, come già in Taking Off (id., 1971) e poi in L’ultimo inquisitore, di mantenere fede all’appuntamento irrinunciabile con la Storia, sempre e comunque contemporanea, di cui egli stesso è stato il dolente, involontario testimone. In linea dunque con il precedente Amadeus (id., 1984) e il successivo L’ultimo inquisitore. Senza Amadeus, non ci sarebbe Valmont. E senza quest’ultimo la requisitoria di L’ultimo inquisitore risulterebbe priva di supporto. madeus, Valmont e L’ultimo inquisitore sono tre inequivocabili rievocazioni non di un passato qualsivoglia da vestire, bensì da travestire. Non si tratta di arredare un’assenza di ispirazione, ma di ricreare e collocare altrove, con maggiore o minore consenso di pubblico e riconoscimenti internazionali, un nodo strutturale del presente perpetuo, da illustrare ossessivamente, con precisione, una cura dei dettagli a dir poco maniacale. Un presente a tempo indeterminato, in valore tragicamente assoluto, che trascorre dalle auspicate luci di progresso materiale, sociale e spirituale, in senso sia illuministico che nazionalsocialista e socialista, alle sinistre ombre che i rivolgimenti radicali e violenti comportano inesorabilmente.

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L’istanza intellettuale e artistica che sottende il progetto multiforme di Forman è sempre la medesima, urgente e impellente: esplorare e redarguire, sollecitare associazioni di idee, coincidenze, ovunque nel tempo e nello spazio. Nell’Austria (Amadeus) e nella Francia (Valmont) di fine XVIII secolo come nella Spagna a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo (L’ultimo inquisitore). O come negli Stati Uniti del XIX e del XX secolo, fino ai giorni nostri, quindi da Ragtime (id., 1981) e Hair (id., 1979) a Larry Flint — Oltre lo scandalo e Man on the Moon. Sono questi i più recenti ambiti in cui l’autore si sofferma in cerca di prosaici, ripetitivi e riproducibili effetti collaterali di un potere che si afferma contro un altro potere. Un potere illuminato, più giusto e avanzato che pretende e promette di abbattere un determinato regime oscurantista, soltanto per istaurarne uno nuovo, altrimenti repressivo. Un copione che si attua e si replica nei secoli nel contesto originario europeo da cui Forman proviene. O d’altro canto, un potere che non riesce a corrispondere in pieno a un ideale democratico conclamato. Un copione alternativo, questo, che invece è tipico del contesto americano in cui Forman approda, contraddittorio, irrisolto e comunque di gran lunga preferibile, scaturito da un’altra Rivoluzione ancora. Metodologicamente l’analogia serve all’autore cecoslovacco per redigere senza sosta un severo e costante resoconto di fatti e scenari vecchi, nuovi. Appariscenti, reversibili, intercambiabili.

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ome si può in questo sguardo d’insieme preoccuparsi dell’operazione di Hampton e Frears, che lo avrebbero preceduto, sì, ma non battuto sul tempo, dal momento che Forman di tempo se ne intende, ha con il tempo un conto aperto, ne orchestra il decorso lungo una linea più elaborata e pragmatica. Per giunta, sul significato allegorico del tempo storico, Valmont vanta un primato su Le relazioni pericolose: l’essere riuscito in un’abile operazione, non di trasposizione ma di intersezione. L’intersezione dettata dall’emergenza: della realtà, soggettiva e collettiva, con l’andamento narrativo del romanzo. L’ambiente mondano, depravato e insidioso, in cui i rapporti di forza si ammantano di tragica sensualità e di crudele coazione a ripetere, rientra nelle sue corde, più o meno segrete, di cineasta-contro.

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icapitolando, l’humus sociale di Valmont rimanda automaticamente avanti e indietro nella filmografia di Forman, ad Amadeus e L’ultimo inquisitore, tra Austria e Spagna tardo settecentesche, ugualmente messe di fronte alle reciproche avvisaglie o conseguenze dell’ondata di trasformazione proveniente dalla Francia. La Francia, quella che giocando d’anticipo già in Valmont viene indicizzata e condannata, dove il sovrano in persona presenzia le nozze riparatrici conclusive, è la stessa che, dopo la palingenesi rivoluzionaria, ribalta i destini individuali e collettivi della Spagna di L’ultimo inquisitore: la culla del pensiero laico, dei principi di libertà, uguaglianza, fratellanza universale, con i suoi conti in sospeso da regolare con l’Ancien Régime e la macchina religiosa dell’Inquisizione, che mette a punto nel frattempo sistemi violenti e coltiva di lì a poco prosaici sogni imperialisti, destinati a rimettere in moto

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de esemplari in cui il potere e la potenza, anziché coincidere, si oppongono scatenando l’uno tristezza, l’altra gioia. È Gilles Deleuze a sintetizzare il concetto ereditato da Spinoza, nella voce Joie del suo prezioso Abécédaire audiovisivo circolato postumo nel 1996: «In Spinoza ritroviamo i testi più carichi di affetti. E credo voglia dire, semplificando molto, che la gioia è tutto ciò che realizza una potenza. Proviamo gioia quando […] in noi si realizza una potenza. […] Al contrario, cos’è la tristezza? Quando sono separato da una potenza che a torto o a ragione, o di cui a torto o a ragione mi credevo capace. […] Potremmo dire che ogni tristezza è il risultato di un potere esercitato su di me. […] Non ci sono “cattive” potenze. Cattivo è il grado più basso della potenza e il grado più basso della potenza è il potere. Insomma cos’è la cattiveria? È impedire a qualcuno di fare ciò che può. La cattiveria è impedire a qualcuno di fare, di realizzare la propria potenza. Non c’è cattiva potenza. Ci sono dei poteri cattivi, e forse ogni potere è cattivo per natura o forse no, sarebbe troppo facile dirlo.

Goya's Ghosts / L'ultimo inquisitore, 2006

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e a infrangersi contro le inevitabili spinte restauratrici. Ed è proprio su questa Francia sotterranea di Valmont, sommersa, in fibrillazione, coperta a stento da storielle perfide, abiti e rituali leziosi, restituiti fino al parossismo e alla saturazione del segno e del senso, che Forman si intestardisce anche in veste di sceneggiatore, con Carrière, prima di ripetere l’esperimento con L’ultimo inquisitore. Un film non esisterebbe senza l’altro, come una causa non potrebbe dirsi tale senza presupporre una conseguenza. La parabola di Valmont non rimanda esclusivamente a se stessa. Funge piuttosto da cassa di risonanza di un modello di società morente e minata dai segnali funesti di avvenimenti incipienti. Si concede i suoi ultimi giorni di godimento sfrenato e funereo, retta a vari livelli da abusi e ipocrisie sistematiche, nelle relazioni amorose come — è sottinteso — nelle propedeutiche esercitazioni del potere e dei privilegi di classe. Non poteva che essere inaugurata meglio, cioè da Valmont, la stagione più recente della filmografia di Forman, che in L’ultimo inquisitore trova il suo corrispettivo: un simmetrico, impietoso e disperato sigillo alla serie di vicen-

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Ma è proprio […] la confusione tra potere e potenza che è disastrosa. Il potere separa sempre le persone che sottomette da ciò che possono. È da lì che parte Spinoza, […] la tristezza è legata ai preti, ai tiranni, ai giudici, sono persone che separano sempre i propri “soggetti” da ciò che possono, che impediscono la realizzazione di potenze».

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cco, l’opera omnia di Forman, acuendosi progressivamente, non fa che ribadire, spunto dopo spunto, l’intrinseca incompatibilità tra il potere e la potenza. Il potere è impotenza e frustrazione, la potenza una forza troppo grande, addirittura ingestibile, che consuma chi la esprime, sopravvivendogli attraverso creazioni concrete, impermeabili al tempo e allo spazio.

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ono molte le chiavi di accesso all’universo di Miloš Forman, il cui funzionamento interno può essere compreso talvolta a partire da circostanze a prima vista contingenti. Ad esempio la scelta di Praga come cornice e soprattutto teatro, in tutti i sensi, retrodatato per restituire verosimilmente l’immagine del periodo storico in cui si svolge Amadeus, che precede e apre la strada alla tetralogia conclusiva su cui stiamo ponendo l’accento, per via del suo speciale carattere di consuntivo tematico e stilistico. In un certo senso è un grande vantaggio quello di poter far risaltare la fine. Incominciare esattamente dalla fine, sulla falsariga dell’incipit di Man on the Moon, dove Jim Carrey nei panni molto congeniali dell’incorreggibile, inesauribile, spregiudicato Andy Kaufman introduce a ritroso il film di cui è egli stesso protagonista. Il film cioè che stiamo per vedere. E che paradossalmente ci viene consegnato già al termine. Ovviamente Carrey/Kaufman, un entertainer sull’altro, poliedrico, cangiante, accoglie direttamente l’anonimo pubblico,

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i risiamo. Forman parla di una fattispecie di potere che inibisce la potenza altrui. Un potere che in Larry Flynt — Oltre lo scandalo, con l’ausilio di un killer anonimo, armato di fucile di precisione, costringe questa stessa potenza antagonista a capitolare. Ma non ci riesce. Non può con un individuo esorbitante e volgare il quale ha investito sul sesso, il corpo, la pornografia come corollario capitalistico del binomio corpo-sesso, a sprofondare in uno stato di drammatica, paradossale impotenza sessuale, che tuttavia non ne esaurisce la sintomatica carica trasgressiva. I corsi e i ricorsi storici additati da Forman stanno lì a dimostrare quanto la ritorsione del potere, istituzionale, giudiziario, regale o ecclesiastico, nei confronti della potenza sia prevedibilmente dura e terribile. Gli oppositori, amanti, comici, tycoon del porno, pittori non hanno scampo: ad attenderli, nel corpo a corpo stravagante e offensivo nei riguardi del potere o del sistema normativo e omologante, c’è la morte (Valmont, Man on the Moon) o la menomazione fisica (Larry Flynt — Oltre lo scandalo, L’ultimo inquisitore).

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uattro film, un unico giro di vite, che ripropone l’analoga sorte dei degni predecessori sparsi in Qualcuno volò sul nido del cuculo, Hair, Ragtime, Amadeus. Ogni attentatore dell’ordine costituito in sostanza si comporta e agisce come un regista cinematografico. Lavora con le immagini, pagandone il prezzo. L’oltraggio consiste nel copiare, riprodurre, dipingere, interpretare, pubblicare immagini e icone popolari in modo sconveniente e incomprensibile (Larry Flynt — Oltre lo scandalo, Man on the Moon, L’ultimo inquisitore). E questo non va bene. Come non va bene, sulla stessa lunghezza d’onda e di onta, inseguire immagini femminili, mogli e vergini promesse spose, per possederle, obbedendo a un criterio seriale e spregiudicato, fino all’imprevedibile e fatale innamoramento (Valmont). Il che impone una sanzione e una punizione rigorose. L’amante performativo, incauto strumento sessuale e implicitamente politico, tragico e compulsivo, va incontro alla sua condanna a morte in stato di ubriachezza, non di incoscienza. Espia la colpa di essersi ribellato infine al gioco della menzogna e dell’inganno.

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infrangendo al riparo da ogni preavviso l’illusione rassicurante della quarta parete. Andy interpella, inaspettatamente noi. Ci addita dal suo punto di vista antagonista al nostro. Può permettersi di prenderci in contropiede — e in controcampo — in quanto incompatibile con noi. Lui è perennemente un Altro. Un mistero. Un altro da noi. Si mantiene per tutto il tempo un fantasma audiovisivo, un significante assente. Mentre gli spettatori comuni, i destinatari del messaggio cronologicamente invertito e logicamente capovolto, abituati a recepire lo spettacolo nei modi consueti offerti dalla sala buia, non possono far altro che attenersi alla situazione imposta dal dispositivo cinematografico. Lui, il super-umano, post-umano, extra-terrestre che imperversa in Man on the Moon, l’oggetto spettacolare mancante della diffusa protesta incondizionata, spontanea, del desiderio di rivalsa, con chi ce l’ha? Ce l’ha con noi. È contro di noi, che invece crediamo di esserci, ma non accettiamo categoricamente di essere considerati come soggetti in grado di interagire, dimostrarci senzienti, presenti. Guai a essere chiamati in causa, all’occorrenza, dal film. O in giudizio, nello spazio similare di un tribunale, di un teatro, di un salotto o dello studio di un pittore, non fa differenza. L’altro protagonista emblematico e speculare di quello di Man on the Moon, il pornografo incallito e capitalista di Larry Flynt — Oltre lo scandalo è una figura centrale nella mappa cinematografica di Miloš Forman. Una figura che si confonde con altre, intercambiabile. E che nell’ultimo scorcio di filmografia non smette di essere riformulata. In continuazione assume sembianze e caratteri diversi. In Larry Flynt — Oltre lo scandalo è un imprenditore ignobile, il nemico/amico dei diritti civili, del Primo Emendamento della Costituzione. Un businessman, nondimeno “on the Moon”, da processare come genio del mercimonio del sesso, a detta dei suoi detrattori bigotti e scandalizzati. Bene o male un capitalista del corpo, che la stessa società da cui è emerso coerentemente, cerca all’improvviso di interdire, depotenziare, nell’accezione di cui sopra. Insomma ridimensionare, inibire o prontamente colpire. Magari con un’arma da fuoco, che nell’America sempiterna dei delitti eccellenti non guasta.

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film di Forman spesso cominciano dalla fine. Pensiamo ad Amadeus o a Man on the Moon. E non per ragioni di copione preesistente. Perché la fine, svelata e ostentata, è il greve fardello conoscitivo che lo spettatore deve portare per tutta la durata del film. Sapere prima ciò che accadrà dopo è indispensabile, per non coltivare eccessive speranze. Man on the Moon, nel portare al limite il ragionamento, non può non prendere di petto il cinema come regime dello sguardo, convenzione tecnica e illusoria. Quel che l’incomprensibile, strano e straniante interlocutore fa nella prima/ultima scena, se lo fa, lo fa direttamente a noi, gli spettatori. Sbuca dal buio assoluto dello schermo, dice qualcosa, ci mostra un film che sta finendo, poi daccapo scompare. La reazione di disagio inaugurale, lo “strappo” immediato nel pirandelliano “cielo di carta”, è fondamentale. A partire dai titoli di coda. Una prova generale, prioritaria, di quel che accadrà infine, quando al cospetto della salma di Andy, provvederanno le sue immagini registrate a interfacciarsi nuovamente con gli astanti, amici, parenti, conoscenti, ammiratori commossi, non fa differenza, nostri rappresentanti, e simulacri, sullo schermo. Noi come loro, tutti, asserragliati in silenzio al di qua dello schermo, dal principio alla fine, perennemente sorpresi. L’operazione demistificante, in Man on the Moon affrontata secondo preliminari modalità meta-filmiche, concorre a dare un’idea di ciò che nel blocco assortito di film concepiti per ultimi Forman voglia dirci, con la dovuta e rafforzata dose di scetticismo, a mo’ di compendio. Quattro film in tutto, ripetiamo, che si danno a vedere, e ascoltare come un microcosmo proporzionale dell’intero e pluridecennale progetto cinematografico cui l’autore si è dedicato dagli anni Sessanta, in quella Praga in cui a cinquant’anni compiuti torna per realizzare, con impudenza, Amadeus. Perché? «Praga», spiega «era assolutamente città ideale perché grazie all’inefficienza comunista il XVIII era rimasto intatto». La trasferta nella Capitale cecoslovacca, la Capitale della sua ex Patria comunista, ancora immersa in una persistente e insidiosa dimensione anche architettonica di regime, sei anni prima della caduta del Muro di Berlino, segna un punto di non ritorno. Di più: la linea di demarcazione

tra la filmografia di Forman, fino ad Amadeus, e quella successiva che qui abbiamo voluto guardare più da presso. Una porzione di filmografia non casuale, che introduce un fattore differenziale nell’arco di quasi vent’anni, dal 1989 di Valmont, appunto, l’anno della caduta del Muro, al 2006 di L’ultimo inquisitore, un film che invece anticipa di un anno (sulla scorta di una sceneggiatura pronta già nel 2002) alcuni aspetti della operazione dell’esercito (d’invasione) americano in Iraq.

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uestione di coincidenze? In un certo senso sì, a patto di accettare a monte la dolente constatazione, da sempre recepita dai film del sempre più intransigente Forman, dal primo all’ultimo, che la Storia è di per sé il luogo geometrico delle peggiori e (in)volontarie repliche. Non c’è da sorprendersi che egli abbia accentuato dagli anni Ottanta il proprio interesse per le biografie di personaggi celebri, variamente “stralunati”. Alla lettera, tutti esponenti di una categoria sui generis. Tutti chiamati per nome, cognome o nome e cognome in causa dai rispettivi titoli originali: Amadeus, Valmont, Larry Flynt, Goya. Con la relativa eccezione di uno, Andy Kaufman, ugualmente mattatore incontrastato di un biopic che è anche una crudele radiografia del mezzo cinematografico. Uno showman che in Goya’s Ghosts, con l’ausilio di una macchina del tempo o di una macchina-cinema, di sicuro verrebbe sottoposto alla tortura della corda dai suoi sinistri inquisitori, non i primi né gli ultimi della Storia, perché confessi le proprie origini giudaiche.

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a diciamo le cose come stanno. Anche il cognome di Andy è stato inserito, parzialmente, nel titolo del “suo” film.

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n (Kauf)Man on the Moon tira l’altro: Miloš Forman. Ovvero Miloš on the Moon.

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Il mio approccio col cinema è stato un po’ strano. Avevo cinque anni e il primo film che ho visto è stato un film muto, La sposa venduta, tratto dall’opera lirica di Smetana [ndt: titolo originale Prodaná vevesta, probabilmente si tratta del film del 1913 di Max Urban]. Il sonoro all’epoca esisteva già, ma il caso ha voluto che il mio primo film fosse muto. Era come se avessi fatto un torto alla mia fatina buona e lei avesse deciso che il mio primo contatto con l’arte sarebbe stato un film-opera in cui non c’era neppure la musica, ma soltanto una serie di movimenti esagerati e vistosi.

o vissuto a Časlav fino al 1940. Quell’anno i tedeschi arrestarono i miei genitori. Mio padre aveva fatto parte degli Scout, era un ufficiale di riserva ed era sempre stato una persona attiva. Le persone attive in genere sono dei rompiscatole. Non ci puoi fare nulla probabilmente, tanto alla fine la Storia si fa nonostante tutto il loro attivismo, nel bene o nel male (per lo più nel male), anche se normalmente non è colpa loro. Loro fanno il meglio possibile, ma il risultato è sempre un film muto.

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n ogni caso io mi trovai a fare il giro di parenti e amici ed è così che arrivai alla città di Náchod, Boemia del nord. Dopo di che andai a vivere per un po’ a Kutná Hora. Tutti luoghi storici, come si noterà, davvero pieni di storia. Mio fratello, che aveva diciannove o venti anni all’epoca, studiava col celebre artista cecoslovacco František Tichý che era anche un grande appassionato di teatro, circo e feste popolari. Fu lui ad aiutarlo a trovare un lavoro come scenografo per le operette del Teatro di repertorio della Boemia orientale.

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miei rapporti con la cultura, al momento, si riducevano a quel film muto di Smetana e a Biancaneve e i sette nani di Disney. Lo zio che mi ospitava si rifiutava di darmi i soldi per andare a vedere i film tedeschi o in ogni caso qualsiasi cosa fosse in programmazione in Cecoslovacchia durante la Seconda Guerra Mondiale.

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poi a Náchod arrivò in tourné il Teatro di Repertorio della Boemia orientale. Io passai più tempo nel retro palco con mio fratello, che a casa. È così che arrivai ad allargare i miei orizzonti culturali, con della roba tipo Sangue polacco e Lo zingaro barone [ndt: titoli originali Polská krev di Oskar Nedbal e Der Zigeunerbaron di Johann Strauss]. Mi sembrava tutto incredibilmente eccitante. Ma ero un bambino e nessuno pensava di cacciar via un bambino dai camerini delle attrici.

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el 1944 i tedeschi chiusero i teatri in Cecoslovacchia. Tutti i teatri. L’ultima replica del Teatro di repertorio fu una di quelle operette vivaci e festose. Gli attori erano prossimi alle lacrime. Io non avevo la minima idea di quel che stesse succedendo, ma capivo che c’era qualcosa nell’aria. C’era una scena molto divertente nel terzo atto e fu proprio in quel momento che all’improvviso tutti scoppiarono a piangere. Come nel film La sposa venduta, aprivano la bocca e non veniva fuori alcun suono. Non sapevano più come andare avanti. Il direttore d’orchestra cercava di richiamarli all’ordine con la bacchetta e loro ci provavano di nuovo. Ma tutto quel che veniva fuori erano le lacrime dagli occhi. E così via per un buon quarto d’ora. Quella sera lo spettacolo non arrivò in fondo. Forse per la prima volta nella mia vita rimasi terribilmente impressionato. Da quel momento ebbi chiaro che, più di ogni altra cosa, quel che volevo fare nella vita era lavorare nel teatro. Furono gli avvenimenti di quella sera a decidere per me.

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o stesso anno venimmo a sapere che i miei genitori erano morti in un campo di concentramento. Poco dopo la guerra ebbe fine. I miei fratelli erano ancora giovani e non avevano ancora messo su famiglia. Fu per questo che finii in un collegio nella città termale di Poděbrady.

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a scuola aveva una buona reputazione. Era la prima nel Paese a cercare di coniugare lo studio con insegnamenti sulla vita pratica di tutti i giorni. Avevamo il nostro laboratorio di lavorazione dei metalli, di rilegatura e di falegnameria. E in più potevamo usufruire dell’assistenza medica della struttura termale.

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stato lì che ho avuto modo di conoscere Ivan Passer, l’autore teatrale Václav Havel, Jerzy Skolimowski (sua madre era all’epoca l’addetta culturale polacca a Praga) e Pavel Fala che (col nome di Paul Fierlinger) avrebbe in seguito realizzato diversi documentari negli Stati Uniti.

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a mia educazione venne prematuramente stroncata già al primo anno di liceo. Nella mia classe si trovava anche il figlio del direttore di un’importante rivista letteraria. Un bravo ragazzo che disgraziatamente era vittima di una di quelle ingiustizie che nessuna rivoluzione potrà mai eliminare: non era una cima ed era pure svogliato. Meritava di essere bocciato in almeno quattro materie ogni semestre. Poi interveniva suo padre e lui veniva promosso. Lo stesso trattamento, naturalmente, non veniva riservato a noi altri e questo ci dava un senso d’ingiustizia e d’indignazione. Avevamo l’impressione di subire un torto, in particolar modo perché la scuola si vantava di voler sviluppare nei ragazzi il senso di responsabilità, giustizia e onestà. Il nostro modo di scaricare quella rabbia fu tipicamente infantile.

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a nostra reazione fu decisamente sofisticata. Due volte alla settimana venivamo portati nelle docce per una ventina di minuti e lì operavamo una vendetta speciale sul bersaglio del nostro risentimento. Non so se l’avete mai notato, ma se qualcuno vi piscia addosso mentre siete sotto il getto caldo di una doccia, non vi accorgete di nulla. Questa è una delle piccole esperienze che molti non provano mai anche perché normalmente uno fa la doccia da solo. Nei giorni deputati alla doccia noi tenevamo in serbo le nostre munizioni fin dal mattino. Poi, dal momento in cui lui s’insaponava e, con gli occhi chiusi, si metteva sotto il getto d’acqua, facevamo fuoco. Stavamo attorno a lui a ridere e scherzare e lui rideva con noi senza sospettare nulla. Un giorno tutto questo ebbe fine. Tutto stava andando come al solito quando mi accorsi che gli altri ragazzi avevano smesso di ridere, si erano “gelati”, come se la loro pipì si fosse esaurita. Tutti tranne me. Stavo di spalle alla porta del bagno e continuavo tranquillamente a pisciare. Solo quando mi girai, vidi che sulla porta c’era uno degli insegnanti.

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on mi preoccupai molto, ma alcuni giorni dopo l’incidente divenne un “caso politico”. Il preside mi suggerì di ritirarmi volontariamente dalla scuola. Rifiutai sdegnosamente. Solo più tardi, resomi conto che non capivo niente di politica, passai a un liceo di Dejvice, un sobborgo di Praga. E lì presi il mio diploma.

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urante l’ultimo anno, però, successe qualcos’altro d’importante. Assieme a un amico organizzai un gruppo teatrale e misi su la produzione di un musical su François Villon, Balada z hadrů [t.l.: Ballata degli stracci], scritto da Voskovec e Werich, con la musica di Jaroslav Ježek. Fu un’esperienza incredibile. Usammo la danza moderna e un’orchestra jazz. Eravamo tutti dilettanti ed è stato fantastico.

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n quello stesso periodo Emil František Burian cominciò ad avere problemi con le autorità. Come provocazione ci lasciò usare il suo teatro il lunedì, giorno in cui non c’erano repliche. È incredibile come in quel periodo, nonostante tutti i controlli, fosse facile farla franca. Riuscimmo perfino a farci stampare i manifesti dello spettacolo e, corrompendo gli attacchini, a farli piazzare accanto a quelli del Teatro Nazionale. E tutto questo in un periodo in cui ci volevano carte bollate e permessi speciali per fare qualsiasi cosa.

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Miloš Forman

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Per rafforzare la nostra immagine politica, mettemmo un annuncio sul giornale in cui la nostra produzione veniva presentata come «un dramma sul poeta rivoluzionario francese François Villon». Il nostro gruppo aveva perfino un nome: Teatro della Commedia Musicale. Il fatto che a Praga esistesse già un Teatro della Commedia creò un po’ di confusione, tanto da far pensare che fossimo dei professionisti.

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na volta ci invitarono perfino a recitare a Kolin in occasione di un convegno del partito comunista regionale. Questo perché il segretario locale della cultura s’era convinto, per dolorosa esperienza personale, di quanto fossero noiosi i drammi rivoluzionari cechi. Un dramma rivoluzionario francese, pensava, sarebbe stato più interessante. Quel che non sapeva è che in realtà si trattava di una commedia di Voskovec e Werich e non lo sapeva perché in quel periodo di Voskovec e Werich non si potevano citare nemmeno le iniziali. Fu in assoluto il nostro più grande successo di pubblico. La gente si rotolava dalle risate. Per loro fu una piacevole sorpresa della quale ci ringraziarono molto.

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u in quegli anni che cominciai a capire cosa voglia dire davvero l’assurdo, sia personalmente sia come concetto generale. Per esempio, ci fu la volta che ci chiamarono a recitare a Slaný. Noi eravamo tutti dilettanti e quindi quattro degli attori semplicemente non riuscirono a partire con noi. Io coprii una delle parti, un’altra la fece il tecnico delle luci e una mia compagna di classe si prestò per altri due ruoli. Al nostro arrivo a Slaný scoprimmo che, nella confusione, avevamo lasciato a casa lo scenario di sfondo. Altre volte ci era capitato di dover rimediare utilizzando i materiali che avevamo a portata di mano. Ma come spesso succede, le disgrazie non vengono mai sole: la scenografia crollò, gli attori continuavano a entrare a sproposito e a scontrarsi tra loro sul palco. Nonostante questo andammo avanti imperterriti. Il pubblico era in delirio. Alla fine del primo atto tutti applaudirono ed esultarono, noi intanto stavano tra le quinte a litigare come matti, dandoci vicendevolmente la colpa per tutto quello che era andato storto. Sembravamo un gruppo di striptease: convinti che quel che stavamo facendo fosse arte e ferocemente permalosi sull’argomento.

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inito l’intervallo, l’orchestra attaccò l’ouverture, mentre in sala tutti erano in attesa di vedere cosa sarebbe successo nel secondo atto. All’improvviso si sentì un tremendo rumore da dietro il sipario. Era successo che, in mezzo a tutto quel bailamme, il tecnico delle luci s’era preso una scossa da 220 volt, era caduto dalla passerella e ora giaceva sul palcoscenico in una pozza di sangue. Tutto questo mentre la gente rideva istericamente e chiedeva che s’alzasse il sipario. Tirammo via il ragazzo dal palco e portammo a termine la recita. Il pubblico era in delirio. Il ragazzo passò i successivi sei mesi in ospedale.

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uello fu l’ultimo anno del liceo. Dopo il diploma presentai domanda per iscrivermi alla Scuola Drammatica di Praga. I colloqui si svolgevano in primavera e i risultati sarebbero stati resi noti solo in autunno. Il responsabile del comitato di ammissione era Jiři Frejka. Il colloquio in sé era una normale prova di idoneità. All’improvviso Frejka mi chiese qualcosa come: «Bene, adesso mi dica come metterebbe in scena la lotta per la pace!». Per me fu uno shock e mi sentii come un perfetto stupido. Non riuscivo a pensare a nulla da dire. Assolutamente nulla. Alla fine me ne uscii fuori con qualcosa di talmente idiota che, fortunatamente, ora non riesco più a ricordare. Di seguito andai sul lago Mácha a passare una splendida vacanza con alcuni amici.

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on mi era neanche mai passato per la testa che potessero non prendermi. Avevo deciso di fare una sola cosa nella vita, il teatro. E nessuno poteva impedirmelo. Verso la fine di agosto mi arrivò una lettera che diceva che ero stato scartato. Bella situazione! A quel punto c’erano poche facoltà che potessero prendere ancora nuovi studenti e io non volevo andare militare, quindi dovevo trovare qualcosa. Le uniche possibilità ancora aperte, scartando metallurgia e miniere, erano Legge e la facoltà di Cinema all’interno dell’Accademia delle Arti dello Spettacolo (FAMU - Filmová a televizní fakulta Akademie múzických uměni v Praze). I colloqui per Legge si tenevano il mercoledì, quelli per la FAMU il martedì. Io mi iscrissi in gran fretta a entrambi con l’idea che sarebbe stato comunque meglio fare l’avvocato che andare sotto le armi. Gli esami

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d’ingresso alla FAMU durarono un giorno intero e la sera stessa, con mia grande sorpresa, mi dissero che ero stato accettato nella classe di sceneggiatura. Non andai oltre.

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o passato cinque anni fantastici alla FAMU.

egli anni in cui studi puoi anche sfogare tutte le tue follie. Quando lavori per un film commerciale non c’è posto per le follie. Se lavori per la Warner Brothers non puoi scrivere: “Il suo sperma schizza attraverso il buco della serratura e colpisce il soffitto”. In una scuola come la FAMU puoi farlo. Il professionismo è tremendamente puritano. Prima ancora di avere la possibilità di capire quel che vuoi fare e cosa sei capace di fare, ti fai carico di una gran quantità di restrizioni, che derivano da convezioni puritane che sono parte del fatto stesso di essere un professionista. Una scuola invece è generosa e aperta e ti permette di sfogare tutte le tue ingenuità.

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na scuola ti aiuta anche a far crescere un senso d’identità con la tua professione. Se avessi studiato Legge, probabilmente sarei diventato un avvocato che amava andare al cinema e a teatro. Ma dato che casualmente ero finito nella scuola di cinema, scelsi la carriera di regista. Dopo, non prima.

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osa mi rimane di quegli anni di studio? Cinque anni di vita in cui non dovevo rispondere a nessuno per quel che riguarda ciò che pensavo.

orrei dire che la cosa più importante è vedere film e poi discuterli assieme agli altri. È anche questo che ti dà la spinta a trovarti una macchina da presa e metterti a girare un film. Non importa che tipo di film. Un altro vantaggio della scuola e che c’è qualcuno che ti insegna a darti da fare, se non l’hai già imparato da qualche altra parte. [ndt: l’espressione “to cut and splice” vuol dire alla lettera “tagliare e giuntare, ricombinare”, ho provato a tradurre con “darsi da fare” anche se non ne vado fiero] La cosa più importante però è che mentre studi puoi entrare in contatto con altre persone. Persone coma Vávra, Kratochvil, Daniel, Kundera…

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n quel caso sarebbe stato diverso. Ma questo non vuol dire. La maniera migliore e più rapida per imparare una tecnica è quella di metterla in pratica.

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uando cominci molto giovane a lavorare nel cinema sei costretto a fare quel che vuole il tuo capo sia dal punto di vista estetico che sociale o filosofico o produttivo. Che il tuo capo sia una compagnia cinematografica, un produttore o un regista, il risultato non cambia. Ma una scuola come la nostra aveva il pregio di instillare in una persona di diciannove o venti anni una certa fiducia in se stesso. Questa persona studia, vede film, li discute, diventa più sicura di sé. E questo è estremamente importante per un regista.

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e sono stato accettato alla FAMU lo devo a un mio professore di liceo, il professor Macháček. Più di qualsiasi docente abbia mai incontrato lui sapeva stimolare nei suoi studenti la passione di esprimersi attraverso la scrittura. Ivan Passer e Václav Havel possono testimoniarlo. Metà della sua classe adorava quel che l’altra metà odiava: i compiti scritti di composizione. A dimostrazione di quanto era bravo quando parlava di poesia o di scrittura creativa. Per l’esame d’ingresso alla FAMU avevo dovuto scrivere un breve racconto su

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lla FAMU non ho imparato nulla riguardo alla tecnica cinematografica. Alla fine del corso non sapevo neppure come si usasse una macchina da presa e probabilmente ne sapevo meno, in quanto a direzione degli attori e pratica cinematografica, di quanto ne sa oggi un ragazzino di sedici anni. Per quello dovetti attendere il 1961 quando comprai una camera 16mm e conobbi Mirek Ondříček che mi mostrò come era fatto un negativo, come caricare la macchina e come mettere a fuoco. Avevo terminato la scuola da sei anni e avevo lavorato a due film prima di arrivare a padroneggiare la tecnica. Ho messo mano a una macchina da presa per la prima volta nella vita come assistente alla regia per Alfréd Radok per Dědeček automobil. [t.l. Nonno automobile] È stato lì, sostanzialmente, che ho imparato tutto quel che so riguardo alla tecnica. La verità è che al FAMU non studiavo regia.

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un soggetto predeterminato e un altro su un soggetto a mia scelta. Non avrei mai passato quell’esame se non fosse stato per i miei anni di liceo, gli anni in cui avevo scoperto come fosse bello riuscire a esprimersi attraverso la scrittura.

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tutto qui: un senso di libertà, centinaia di film e il carattere e lo spessore delle persone che ti stanno attorno e con le quali puoi discutere di quei film. Credo che questo sia più o meno il massimo che si possa chiedere.

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’è un’altra cosa. La gente spesso mi chiede quali film o quali registi siano stati i più importanti per me. E ogni volta mi chiedo se non siano stati i peggiori tra loro, se quel che faccio adesso non sia una reazione ai brutti film che facevano gli altri. Le cose belle ti spingono all’emulazione. Ma le cose che ti irritano ti stimolano di più.

potuto vedere. Avevamo la possibilità di stare in contatto con persone come Miloš V. Kratochvíl, il direttore del dipartimento di drammaturgia, una persona che piano piano divenne molto importante per me.

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osì ho passato tranquillamente i miei esami, in genere con voti bassi. Non avevo un grande interesse per l’estetica cinematografica. La mia prima sceneggiatura aveva come protagonista il pedagogo e umanista cecoslovacco Jan Amos Komenský (Comenius). Poi, come esercizio, feci un adattamento di Doccia fredda di Majakovskij e infine, nel terzo anno, scrissi una cosa romantica su un ragazzo a cavallo che porta una ragazza in mezzo ai boschi.

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icordo con piacere il mio periodo alla FAMU. Sono stati quattro o cinque anni in cui nessuno badava a noi, ci trovavamo sotto una sorta di parafulmine. Vedevamo un mucchio di film che altrimenti non avremmo mai

a strada per arrivare dalla FAMU agli studi cinematografici Barrandov fu lunga. Non conoscevo nessuno dell’ambiente finché Kratochvíl non mi presentò Jiří Sebor a cui feci leggere la mia sceneggiatura di I cuccioli (Štěňata), Ottenuto il diploma divenni amico dell’attore Oldřich Nový che mi fece conoscere il famoso regista Martin Frič (1) il quale mi propose di collaborare alla sceneggiatura di

1 Martin Frič, che era nel cinema fin dagli anni Trenta, era diventato agli occhi dei più giovani come lui stesso ammetteva, un “vecchio arnese”. Questa è la sua confessione: «Ho sempre fatto quel

che c’era da fare… Il cinema vuol dire tutto per me». Per altre informazioni su Frič e altri film e registi cecoslovacchi, vedi A. J. Liehm, Closely Watched Films.

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un film chiamato Nechte to na mně [t.l. Lascia fare a me]. Nel frattempo mi guadagnavo da vivere come presentatore televisivo. Facevo soprattutto i programmi di cinema, i quiz e roba del genere.

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crivere una sceneggiatura con Martin Frič è stata un’esperienza interessante. All’epoca avevo la testa piena d’ideali e nessuna esperienza e proprio in quel momento incontravo un uomo che da tempo non aveva ideali di nessun tipo. Ma aveva un sacco di esperienza. Da un punto di vista teorico ero totalmente contrario al suo modo di fare cinema, ma mi scoprii ad apprezzarlo come persona. Preso in mezzo a questo dilemma cominciai a capire qualcosa del mondo del cinema, più di quanto avrei capito se avessi dovuto farmi l’esperienza da solo, a mie spese.

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aradossalmente Nechte to na mně era proprio pensato per colpire quel tipo di persone che fanno di tutto per ottenere incarichi pubblici e posizioni di potere. Durante la lavorazione andavo sul set a guardare. Ero curioso. Nessuno parlava molto. Tutti sapevano che si trattava di un lavoro di routine, che non era il caso di invocare l’Arte. Tutti avevano un buon rapporto con Martin Frič e Oldřich Nový, che era il protagonista, così il risultato era migliore che se si fosse davvero trattato di una qualunque porcheria. Ma poi scoprii che c’era qualcuno che prendeva il lavoro seriamente e che pensava fosse anche buono: Martin Frič stesso. Alla visione dei giornalieri stavamo seduti lì, annoiati a morte. Nessuno rideva o reagiva in qualche modo, a parte Frič che si divertiva come un matto. Normalmente la mia reazione sarebbe stata di un assoluto cinismo. E per un po’ fu così. Ma Frič mi era simpatico e allora cercai di capirlo. All’improvviso mi resi conto che quello che mi dava più fastidio non era il film in sé, erano le facce serie delle persone attorno. Mi faceva piacere che Frič si stesse divertendo, che fosse contento del suo film. Per la prima volta nella vita mi resi conto che una persona deve tirare avanti, come un mulo che spinge una

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na volta presi parte a un incontro del Consiglio Artistico che doveva dare un giudizio sulla nostra sceneggiatura. Presi la cosa molto sul serio. Mi trovavo lì, in una stanza in cui si trovavano più di cinquanta persone che dovevano giudicare il lavoro che avevamo fatto. Cercate di capire: per chi non è al corrente di come andavano le cose, tutte queste mediazioni e diplomazie – che in gran parte, come ho capito in seguito, sono inevitabili – possono sembrare una cosa priva di senso. Nella maggior parte dei casi le persone lì riunite avevano un certo spessore, ma quando ti trovavi ad ascoltare quel che veniva fuori come gruppo, non potevi non notare quanto il tutto fosse mediocre. Poi mi accorsi che non era colpa delle persone se si produceva tutta questa roba inutile. Probabilmente ogni individuo seduto attorno a quel tavolo era cento volte più intelligente di qualsiasi frase tutti loro fossero riusciti a produrre collettivamente.

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carretta. Questo probabilmente è l’unico modo di spiegare come mai Frič abbia fatto così tanti film. In quel momento non gli importava quel che dicevano gli altri, l’importante era che si stava divertendo. E questo è quel che gli permetteva di andare avanti nella vita.

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uando sei a scuola sei assolutamente intollerante. Riesci a vedere immediatamente tutti gli errori (a parte i tuoi) e non manchi di esprimere giudizi categorici. L’attitudine di Frič nei confronti del proprio lavoro mi ha insegnato a guardare gli altri con maggiore umiltà. Mi ha fatto capire che, considerate le circostanze, Frič faceva del suo meglio e nessuno aveva il diritto di criticarlo.

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cuccioli (Štěňata) è stato il primo film un po’ “mio”. Avevo scritto la sceneggiatura giusto per provare a fare qualcosa. Il mio primo incontro con Sebor, il direttore dell’unità di produzione Sebor-Bor, andò bene, soprattutto grazie al fatto che sembrava accordarmi fiducia. «Chi pensi che dovrebbe dirigerlo?» mi chiese. In quel momento sapevo che nessuno mi avrebbe dato la possibilità di dirigere un film, ma almeno volevo comunque far parte il più possibile della produzione. Così ci accordammo sul nome di Ivo Novák, una persona cortese e piena di tatto. Anche sfortunata. Per anni era stato assistente alla regia e la sua prima occasione come regista era stata quella di terminare un film che Wasserman non aveva finito di girare. Il risultato non fu buono e così su Novak rimase il marchio di un fallimento di cui sostanzialmente non aveva colpa. Fui contento della scelta, anche perché non riuscirei a pensare a un altro regista capace di prestare altrettanta attenzione allo sceneggiatore durante la lavorazione di un film. Mi attribuirono perfino la qualifica di primo assistente alla regia.

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a storia de I cuccioli era semplice: un ragazzo (Rudolf Jelínek) si sposa all’insaputa dei genitori (Jan Pivec e Blanka Waleská). Non ha un posto in cui passare la prima notte di nozze, quindi fa entrare di nascosto la moglie (Jarka Panýrková) nella casa dei suoi. Naturalmente i genitori li scoprono. Di base non è altro che una semplice commedia, ma è interessante il motivo per cui i due si sposano così frettolosamente. La protagonista non voleva andare a lavorare in campagna nel posto che le era stato destinato una volta finito il liceo. Per lo stesso motivo una sua amica continuava a buttarsi giù dalle finestre. L’amica era interpretata da Jana Breichová. È così che ci siamo conosciuti.

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miei problemi abitativi cominciarono nel momento in cui andai a vivere a Praga dove non avevo né amici, né parenti. A parte il dormitorio della FAMU in via Hradebni, ho alloggiato in un mucchio di posti diversi, una serie di stanze in subaffitto una più interessante e stimolante dell’altra. Per esempio ho affittato una stanza nella casa dell’autore X. E quella fu la mia introduzione alla Praga degli intellettuali e dei letterati. Il Maestro aveva passato i sessanta. Un tempo era stato anche un ottimo scrittore e alcuni dei suoi libri si lasciano leggere volentieri ancora adesso.

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l paradosso con personaggi del genere è che, per un qualche istinto di conservazione, tendono a costruire un’immagine di sé completamente falsa. Credo di sapere il perché. Probabilmente è l’unico modo che hanno per conservare un minimo di autostima, che è la cosa che li tiene mentalmente vivi. Il Maestro aveva un complesso. Doveva per forza avere un’amante giovane perché alla sua stessa età Goethe ne aveva avuta una. Io mi adoperai per favorire il loro idillio e per evitare che la moglie del Maestro lo scoprisse. Lo capivo e stavo attento a non tradirlo finché non scoprii che la moglie era stata, fin dall’inizio, al corrente di tutto. Una cosa totalmente al di fuori della mia comprensione che all’epoca mi sconvolse. Oggi, quando mi ricordo di loro, mi resta una sorta d’affetto per quei due vecchi. Era per loro una specie di gioco poetico, una messinscena che loro recitavano l’uno di fronte all’altro e di fronte al mondo – un “gioco di Goethe” su cui si erano accordati fin dal principio. Questo è quello che probabilmente rendeva la situazione ancor più patetica.

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a moglie morì di lì a poco e quel povero vecchio sposò la giovane amante. Ma tutto quel che a lei interessava era il fatto che lui fosse un vecchio con una villa e con i proventi dei suoi libri. Eppure sarebbe ingiusto gettarle la croce addosso, aveva fatto la cameriera, proprio l’opposto del tipo intellettuale. Per il vecchio lei rappresentava la sua Dulcinea la cui anima si era ripromesso di adorare e trasfigurare. Lui le regalava dei libri meravigliosi che lei, subito dopo, andava a vendere in un negozio di libri di seconda mano. E con quei soldi comprava alcool che andava a bere con i suoi vari amanti. Lui naturalmente lo sapeva, ma faceva in modo che questo non interferisse con i suoi sogni. Il giorno dopo le regalava altri libri e trovava altre bottiglie vuote in cucina. Alla fine la ragazza si trovò un fidanzato fisso e, così come lei aveva atteso la morte della moglie del vecchio, lui si mise ad aspettare la morte del Maestro, così da poter andare a vivere con lei, sperperare i suoi soldi per poi abbandonarla.

Štěňata / I cuccioli, Ivo Novák, 1958

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tanze in affitto… Jana ed io ci sposammo e, all’improvviso, nel giro di un anno, il 1958, diventammo entrambi delle celebrità. (2)

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n un lampo Jana diventò l’attrice cinematografica più celebre della Cecoslovacchia e anche il mio nome divenne famoso grazie al successo di Laterna Magika all’Esposizione di Bruxelles. Eppure non riuscivamo a trovare un posto in cui vivere. Ci capitarono cose esilaranti da questo punto di vista. Quando Jana andò al festival di Venezia con La tana del lupo (Vicí jáma) di Jiří Weiss, i giornalisti che l’intervistavano le chiedevano cose come «Di quante stanze si compone la sua casa?» oppure «Che tipo di fiori ama tenere in casa?». All’epoca io vivevo in una stanza ammobiliata in via Skořepka nell’appartamento di due persone anziane che non sopportavano che la gente venisse a trovarmi. Allo scoccare delle sei venivano a bussare alla mia porta. «La signorina (o il signore) deve uscire immediatamente!» dicevano. Jana non era messa meglio: viveva in una topaia incredibile.

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lla fine trovammo una stanza nell’appartamento di uno che era stato direttore di un grande magazzino, che era stato licenziato per peculato e che ora lavorava per una compagnia di assicurazioni. Con lui vivevano la moglie e un giovane figlio viziato. Noi occupavamo la stanza che era stata della figlia la quale ora viveva con un professore di ginnastica e non si faceva mai vedere.

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gni sera la famiglia andava a letto alle dieci e noi dovevamo camminare in punta di piedi per entrare nella nostra stanza. Non potevamo neanche accendere la radio o la luce. Una volta, passata la mezzanotte, mentre stavamo sgattaiolando verso la nostra stanza ci accorgemmo all’improvviso che la porta della loro camera era aperta. Il letto era intatto e non c’era nessuno in casa. Immaginammo che i due avessero deciso di passare fuori la loro serata annuale di baldoria.

2 Per un certo periodo, Jana Breichová è stata l’unica star del cinema cecoslovacco e questo in un sistema in cui le star di fatto non esistevano. Era stata scoperta all’inizio degli anni Cinquanta dal regista Jiří Sequens che stava girando un film su dei bambini proletari, sugli scioperi e la disoccupazione al tempo della Depressione. [ndt: il film era Olovený chléb (trad. lett. Pane nero)] Un altro regista, Jiří Krejčik, che fu il primo a battersi perché i corsi di recitazione cinematografica fossero distinti da quelli di recitazione teatrale (vincendo la battaglia), dovette impegnarsi in un›altra battaglia per far ammetter Jana alla scuola

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uando alla fine tornarono a casa noi eravamo già a letto. Il loro rientro fu inusualmente rumoroso dato che la moglie rideva in maniera strana. Dev’essere ubriaca, pensammo. Rimanemmo in ascolto e ci accorgemmo che non stava ridendo, ma piangeva a dirotto. «Stava lì seduta, poveretta, come se fosse ancora viva», continuava a ripetere la donna. «E come ci guardava, con i capelli a posto e il suo vestito buono, come se fosse ancora viva.» Il marito intanto vaneggiava. Qualcuno suonò alla porta e poi qualcun altro finché non si formò un gruppo che stazionava attorno al tavolo della stanza d’ingresso. Alla fine, con le orecchie incollate alla porta, riuscimmo a capire quel che era successo.

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ome erano soliti fare ogni domenica pomeriggio, i nostri padroni di casa erano andati a far visita alla figlia e al marito di lei. Solo che quella volta, dopo aver bussato alla porta e suonato il campanello, nessuno era venuto ad aprire. Alla fine si erano resi conto che dalla porta veniva fuori un odore di gas. Il portinaio aveva forzato la porta e la figlia stava lì, morta, seduta su una poltrona e col vestito buono indosso, che li guardava. L’aveva fatto perché il marito la tradiva. La sua idea era quella di farsi trovare così dal marito, al suo ritorno dall’incontro con l’amante. Ma quello aveva fatto tardi ed erano arrivati per primi i genitori.

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a madre, poveretta, non si riprese più dallo shock e uscì fuori di testa. Soffriva di una sorta di schizofrenia. Ogni volta che tornavamo a casa e ci ritiravamo nella nostra stanza lei prendeva una sedia e si piazzava davanti alla nostra porta ad ascoltare i nostri discorsi, i nostri sussurri o i nostri movimenti. Evidentemente immaginava che fosse sua figlia a muoversi, parlare o sussurrare. Alcune volte le andammo a sbattere contro quando aprivamo la porta senza pensare, al punto che cominciammo a bussare ogni volta che volevamo uscire. Al momento in cui noi comparivamo sulla porta la sua illusione svaniva. E ci odiava di recitazione. La giovane operaia un po’ teppista si trasformò in breve in una vera bellezza e dato che, oltre a questi due prerequisiti per diventare “una stella cinematografica socialista”, la sorte le aveva concesso anche del talento, l’ascesa di Jana fu incredibilmente rapida. Cosa ancor più strana, la sua reputazione non si affievolì per tutti gli anni Sessanta, quando riuscì regalmente a reggere l’assalto delle nuove generazioni.

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per quello, eppure ci teneva al fatto che restassimo lì perché voleva che ci fosse qualcuno nella stanza della figlia. E noi del resto non avevamo un altro posto in cui andare.

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n seguito qualcuno prese a cuore la nostra situazione e fece in modo di farci conoscere Ladislav Štoll, all’epoca Ministro della Cultura, e Václav Kopecký, membro del Politburo e vice Primo Ministro.

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u durante una pausa dei lavori del parlamento. Noi non riuscimmo neppure a dire una parola. Fu un’esperienza incredibile: dopo le presentazioni Štoll entrò subito in argomento senza lasciarmi il tempo di aprir bocca.

«Senti Václav, questa è una coppia di giovani di talento che non ha una casa in cui vivere».

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toll rimase un attimo interdetto, poi ci fece cenno di seguirlo. Kopecký continuò a parlare per tutto il tempo di altri argomenti mentre noi gli correvamo dietro. Una volta attraversata la strada ed entrati nel palazzo del parlamento, Kopecký si fermò. «Allora, cosa possiamo fare per loro due?» chiese controvoglia Štoll. «Sai cosa puoi fare? Chiama il sindaco» disse. E se ne andò.

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toll rimase fermo un attimo, poi si allontanò e tornò con un piccoletto che portava le insegne del sindaco. Parlarono tra loro a lungo e alla fine si girò verso di noi: «Il compagno sindaco si occuperà della vostra situazione su richiesta del compagno Kopecký».

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ontinuarono a parlarsi sotto voce con aria da cospiratori finché il sindaco si rivolse a noi e ci disse sottovoce: «Chiamatemi tra due settimane, tra le sette e tre quarti e le otto».

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aclav lo interruppe: «Be’, sì, certo, certo, so chi sono. Questa giovane e bella compagna recitava in quel film di… come si chiama… Krejčik… Svědomí [t.l. Coscienza]… No, non era quello… era quello sui teppisti… Svědomí, perbacco, uno dei migliori film che abbia mai fatto quel Krejčik! Un gran bel lavoro e l’abbiamo venduto in tutto il mondo. Anche se a Slánský non era piaciuto, capisci, gli non era piaciuto. Be’, adesso Lada, dobbiamo tornare in riunione, sai com’è, vero?” e se ne andò [ndt: Jana Brejchová non recita nel film di Krejcik. Il film con cui esordisce Brejchová, quello sui teppisti, è Olovený chléb (trad. lett. Pane nero), 1953 di Jiří Sequens] [ndt: Slánský era stato eletto segretario del Partito comunista nel 1946, ma nel novembre del 1952 era stato vittima di una purga stalinista e condannato come Titoista e Sionista].

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ravamo emozionati. Avremmo avuto una casa! Avremmo avuto un posto tutto per noi! Due settimane più tardi chiamai il sindaco: «Richiama tra due settimane», mi disse. Che divennero altri dieci giorni. Il meccanismo si ripeté ancora un paio di volte finché: «Le cose stanno andando per il verso giusto,» mi disse. Come in una storia poliziesca, l’appuntamento con un rappresentante del Partito e del Governo era nel retro del bar dell’Hotel Ambassador. Quello arrivò e tirò fuori un lungo formulario, mentre non riusciva a staccare gli occhi da Jana. Che era molto bella. Le chiese dov’era nata, a che scuola era andata, se era membro del Partito, se aveva un lavoro fisso. Si segnò tutto questo sul suo documento e poi disse: «Chiamatemi la prossima settimana».

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n mese dopo il Sindaco ci diede un nuovo appuntamento. Lo stesso luogo e lo stesso formulario sul quale appuntò le stesse cose che ci avevano chiesto l’altra volta. A quel punto erano già passati sei mesi dal nostro primo incontro con Kopecký. Poi d’improvviso: «Vediamoci domani mattina alle sette e un quarto al capolinea del tram numero 22 a Břevnov».

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pochi passi da lì c’era una casa ancora in costruzione. Il sindaco sorrise soddisfatto e ci fece un cenno. Ci affrettammo a seguirlo fino al terzo piano. Aveva una chiave con la quale aprì una porta, ancora da dipingere. Davanti a noi c’era un magnifico appartamento di due stanze. «Be’ che ne dite?» «Fantastico!» «Certo, qui vi troverete benissimo. Telefonatemi tra otto giorni alle sette e tre quarti del mattino.»

Konkurs / Il concorso, 1963

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o chiamai. «Dobbiamo vederci. Domani mattina alle sei e tre quarti davanti all’edificio del Comitato Nazionale di Praga 12…»

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l che era strano! Jana era registrata a Pankrác e io a Praga 1, la stanza ammobiliata in cui vivevamo era a Bubeneč, il nuovo appartamento era a Břevnov: perché diavolo dovevamo andare a Praga 12 che era a Vinohrady? Ci andammo comunque. [ndt: Bubeneč, Břevnov e Vinohrady sono tutti quartieri di Praga] «Ora arriva il momento cruciale,» ci disse. «Dobbiamo metterci d’accordo col direttore del Dipartimento Edilizia di Praga 12. Un compagno molto importante. Non sa ancora nulla del vostro caso.» ntrammo. A quell’ora c’erano già impiegati che correvano per i corridoi. rano le sette di mattina. Salimmo fino al quinto piano.

«Aspettatemi qui. Sbrigo io tutti i preliminari, poi vi faccio entrare.»

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ercorse un lungo corridoio e sparì dietro l’ultima porta sulla sinistra. Cominciammo ad aspettare. Mezz’ora, un’ora, due, tre, quattro ore. A mezzogiorno e mezzo il sindaco e un altro uomo sbucarono fuori dall’ultima porta a destra del corridoio. Ci passarono davanti ed entrarono in uno di quegli ascensori a vista. Mentre scendevano, riuscimmo a veder la testa del Sindaco che scompariva in basso e che ci faceva cenno di prendere le scale. Ci precipitammo il più in fretta possibile, ma quella fu l’ultima cosa che vedemmo di lui. Non lo incontrai mai più e non riuscii mai più a raggiungerlo per telefono. Naturalmente non ci diedero mai quell’appartamento.

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ei mesi dopo il nuovo Ministro dell’Istruzione, Kahuda, riuscì finalmente a farci assegnare una stanza in una casa via Vsehrdova. Era un grande edificio dall’aspetto borghese che dal 1918 era stato la sede di un’organizzazione della Slesia e per questo aveva preso il nome di Slezský Dům (Casa Slesky). C’erano stanze in comune, uffici e una biblioteca. Nel 1948 era stato requisito

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gni volta che nel Ministero si celebrava un compleanno, tutti si ubriacavano e vomitavano nei bagni. C’era un gabinetto con due lavandini. Il posto in cui di solito lasciavamo i nostri spazzolini da denti prima di scoprire che gli impiegati, oltre a usarci sapone e asciugamani, si lavavano perfino i denti con i nostri spazzolini!

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ra la nostra stanza e l’ufficio attiguo c’era soltanto una porta. Fu così che divenni un esperto degli effetti sonori degli sfoghi romantici dei burocrati. Quasi quotidianamente uno degli impiegati s’attardava dopo l’orario d’ufficio con una delle segretarie con la quale s’accoppiava o sulla scrivania o su una sedia o per terra. Jana ed io ascoltavamo ansiosamente nel tentativo di scoprire quale fosse il metodo amatorio corretto per un burocrate. Il tipo di incontro variava col variare dei partecipanti, ma gli effetti sonori erano quasi sempre gli stessi. A un certo punto un lungo silenzio, poi un «Va bene. Arrivederci…», detto tutto sottovoce come se temessero di essere ascoltati. E questo nonostante non si fossero minimamente preoccupati dei rumori fatti fino a un momento prima. Una porta che si chiude, i passi decisi di una donna in tacchi alti, un’altra porta che sbatte alla fine del corridoio, un numero di telefono che viene formato: «Pronto cara, sono in arrivo. Abbiamo dovuto fare un po’ di straordinario oggi, ma ora ho finito. Vuoi che compri qualcosa?» Di nuovo la porta che si chiude, un rumore di passi, questa volta maschili, e poi di nuovo la porta in fondo al corridoio. A quel punto potevamo fare l’amore anche noi, in pace e senza troppo rumore.

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dal Ministero dell’Istruzione e della Cultura. Alcuni piani erano stati trasformati in uffici e altri in appartamenti per gli impiegati. In ogni corridoio si aprivano cinque uffici e tre altre stanze, una piccola e due grandi. Questo era il modo per risolvere i problemi abitativi più urgenti in quel Ministero. Zdeněk Mahler, commediografo e romanziere, viveva in una delle stanze, noi in un’altra e un impiegato piuttosto giovane del Ministero aveva la terza.

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a la pièce de résistance della nostra situazione abitativa era il terzo inquilino, l’impiegato del ministero che ho citato prima e che chiamerò J. K. Questi era quasi un prodotto classico di quel periodo. Suo padre era un muratore di una cittadina di campagna e sua madre una contadina. Lui aveva fatto pratica come piastrellista. Durante la guerra era finito in Germania in un campo di lavoro, era sopravvissuto ai bombardamenti aerei e, una volta tornato a casa, aveva terminato il suo apprendistato. Dopo il 1948 il Partito gli aveva fatto seguire un corso accademico di avviamento al lavoro e lui aveva preso il diploma. Quindi era stato reclutato dal Ministero della Cultura in qualità di funzionario.

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o conobbi dieci anni dopo. Mahler ci presentò. J. K. mi strinse la mano, strizzò gli occhi timidamente e scappò via. «Non avere paura, Josef,» gli gridò dietro Mahler. «Ha dei problemi,» mi spiegò. «Vedrai tu stesso.» E lo vidi.

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. K. lavorava all’ufficio passaporti del Ministero, quindi non aveva molto a che fare con la cultura se non per il fatto che sapeva a chi era concesso andare all’estero e a chi no e in quali Paesi. Ma non era lui a prendere quelle decisioni. Ci vedevamo di rado finché una volta, all’una di notte, sentii bussare alla mia porta. «Chi è?» «Apri!» «Chi è?» «Apri la porta!» «Ma chi è?» «Apri!”»

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. K., ubriaco fradicio, entrò nella stanza barcollando senza badare al fatto che Jana era a letto e io in pigiama. Aveva gli occhi pieni di lacrime e continuava a balbettare incoerentemente che io ero un artista mentre lui non era che un pezzo di merda. In una situazione del genere uno si comporta in maniera amichevole: «Sì, certo Pepik, va bene, ma è ora di andare a letto». Ma dopo una o due ore di quella situazione i nervi ti possono anche saltare. Alle quattro del mattino fui costretto a cacciarlo fuori. Tuttora rimane per me un mistero come sia stato possibile che quel tipo così mingher-

lino, malaticcio all’aspetto e fisicamente fragile, che mi caricai sulle spalle e misi a letto, sia stato poi capace di alzarsi la mattina dopo alle sette per andare a lavorare.

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a settimana dopo l’episodio si ripeté. Quindi capitò due volte alla settimana, tre volte e alla fine tutte le notti; a mezzanotte, all’una, alle due, arrivava e bussava alla porta. Provammo a far finta di non essere in casa. Ma per una sorta di sesto senso quel tizio intuiva che non era così. E poteva andare avanti per delle ore a dar calci alla porta finché non aprivo. Quindi si sedeva, urlando e maledicendo il regime, le ingiustizie e tutti quei figli di puttana. Scappava via soltanto quando gli chiedevo chi fossero quei figli di puttana.

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uando era sobrio non trovava mai il coraggio di parlarmi. Se casualmente c’incontravamo nell’ingresso, lui di solito sussurrava furtivamente un “Salve” e scappava via. Quasi non lo riconoscevo quando era sobrio, il che succedeva una volta al mese, quando lui andava a trovare la madre. Al ritorno si ubriacava di nuovo e strillava anche più del solito. Parlava con grande affetto di sua madre che, a quanto sembra, era molto lusingata dal fatto che vivessimo vicini. Ci mandava miele, lardo e uova fresche.

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a qual era in fondo la sua tragedia? Il Partito l’aveva portato in alto, gli aveva trovato un lavoro al Ministero della Cultura. Con l’unico risultato di farlo sentire fuori posto. Soffriva di un colossale complesso d’inferiorità. Molte persone famose l’andavano a trovare, gli parlavano e lo adulavano, ma lo facevano soltanto per riuscire a ottenere un passaporto. E lui proprio per superare questo complesso s’era messo a bere ed era diventato un alcolista. Il Ministero non poteva mantenerlo in quella posizione e quindi prese a spostarlo da un ufficio all’altro, con un salario sempre minore. Lui si ubriacava con alcol sempre più a buon mercato, finché non arrivò a ubriacarsi con la birra. Ed era troppo tardi per lui o troppo umiliante l’idea di tornare a posare piastrelle, un lavoro nel quale era probabilmente piuttosto bravo.

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a la cosa che mi sbalordiva di più era la sua disciplina, il suo autocontrollo. Per

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quanto potesse essere ubriaco, nelle sue esternazioni non oltrepassava mai i limiti di sicurezza. «Quei figli di puttana.» «Chi?» «L’hanno licenziato!» «Chi?» «L’hanno ucciso!» «Chi?» «L’hanno rovinato!» «Chi è stato rovinato? E chi è stato a farlo?» «Nulla» Nessuno riuscì mai a cavargli fuori un nome.

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irca due settimane dopo bussò alla porta ed entrò come un matto nella nostra stanza tenendo in mano una grossa pistola. Lavorava nel dipartimento del personale e quindi naturalmente faceva parte della Milizia Popolare. «Adesso mi sparo!» Ma la pistola la teneva rivolta verso di me. Gli feci saltar via la pistola dalla mano, tornai a picchiarlo e lui se ne andò tranquillamente a dormire. A me rimase la pistola. Era carica. La misi sotto il cuscino e rimasi in attesa. Nulla. J. K. non si fece più vedere e andò a finire che io dormii per un mese con una pistola carica nascosta sotto il cuscino. Aveva timore di venirmela a chiedere e io avevo paura a rendergliela.

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i dispiaceva moltissimo per lui. Era sostanzialmente un bravo ragazzo che era stato rovinato dalle circostanze. Alla fine iniziò una relazione con una donna che era incinta, ma non sapeva chi fosse il padre e che aveva bisogno di un uomo che ne ricoprisse il ruolo. Così s’era aggrappata a J. K che da quel momento in poi non si fece più vedere.

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on molto tempo dopo, Jana e io ci lasciammo e questo proprio prima dell’episodio che sto per raccontare: un classico, ovvero come venne sciolto il gruppo di Laterna Magika. È quasi un caso da libro di testo… delle elementari.

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l modo stesso in cui Laterna Magika partì merita di essere raccontato. Era stata commissionata come un’attrazione per l’Esposizione Mondiale di Bruxelles, dove avrebbe dovuto promuovere la Cecoslovacchia e i suoi prodotti. Eravamo nel 1956 e tutti pensavano – quelli che l’avevano promossa e quelli che l’avevano realizzata – che fossimo sulla soglia di una grande, nuova era di fantastica libertà socialista e che presto tutto quello che ci era stato negato per anni sarebbe stato di nuovo possibile. Così il gruppo di artisti creativi che aveva ricevuto il compito di realizzare il progetto, capitanato da un grande personaggio del teatro ceco, Alfréd Radok, si mise al lavoro, usò cervello e immaginazione fino a che qualcosa di veramente originale cominciò a venir fuori.

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aterna e tutto il padiglione cecoslovacco a Bruxelles furono un successo inaspettato. Piacque anche alla delegazione russa che non ebbe problemi a perdonare delle piccole infrazioni alla linea ufficiale, che non erano nulla in confronto ai vantaggi politici. Oltre a questo si scoprì che Laterna, nata senza fine di lucro come attrazione per l’Esposizione, sarebbe potuta diventare in realtà un’impresa largamente redditizia. Le autorità competenti allora non solo ordinarono che Laterna avesse una sede fissa a Praga, ma che si attivasse per rispondere all’interesse mostrato da tanti altri Paesi. Il nostro gruppo – Radok, Roháč, Svitáček, Svoboda, io e alcuni altri – ricevette l’incarico di costituire una compagnia itinerante con rapporti con l’estero.

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ravamo incredibilmente pazienti con lui, ma quando la sua performance diventò quotidiana io cominciai a farci il callo [ndt: alla lettera: sviluppai la cotenna di un elefante]. Una volta, quando l’avevo lasciato a scalciare la porta per circa un’ora, lui finalmente gridò: «Anche tu sei un figlio di puttana. Ora esco e vado a suicidarmi!». A questo seguì un silenzio preoccupante. Aprii la porta e camminai in punta di piedi fino alla sua stanza, avvicinando il naso al buco della serratura. Gas. Feci irruzione e lo trovai sdraiato sul letto col rubinetto del gas aperto. Lo afferrai, lo presi a pugni, inveii conto di lui. Tremava come una foglia e aveva così paura di me che per quella notte non provò più a uccidersi.

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ome avevo fatto a entrare nel gruppo? Avevo sempre provato ammirazione per Radok e nel 1956 gli avevo telefonato perché avevo un’idea per un film. Lui era di nuovo in disgrazia in quel periodo, così non aveva molto da fare. Ci incontrammo e cominciammo a conoscerci. Mi fece una grande impressione, ne rimasi letteralmente affascinato. Quando gli diedero la possibilità di girare Dědeček automobil, mi chiese di scrivere assieme la sceneggiatura, a condizione che venissi pagato non come sceneggiatore, ma come secondo assistente alla regia, dato che i diritti, secondo contratto, dovevano andare ad Adolf Branald, l’autore del libro da cui era tratto il film. Credo di aver dato un buon contributo a quella sceneggiatura. Ricordo con piacere il periodo in cui lavorammo a Dědeček automobil e al tempo che ho passato con l’attore francese Raymond Bussières, una bella persona e un ottimo attore. Per la prima volta capii cosa bisognava sapere, da un punto di vista tecnico e pratico, per dirigere un film.

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uando il Ministro della Cultura propose Laterna a Radok, lui mi chiese se volevo lavorare di nuovo con lui. E fu con Laterna che per la prima volta mi avventurai fuori dai confini del mio Paese. L’Esposizione di Bruxelles fu una splendida esperienza formativa perché in quello spazio ristretto ebbi la possibilità di vedere quasi tutto quello che c’era da vedere di importante nel mio campo: Ella Fitzgerald, Harry Belafonte e le coreografie di Jerome Robbins, tra gli altri. E grazie al fatto che Laterna era un grande successo ebbi modo di parlare con persone del calibro di Walt Disney, per esempio, e con molti altri.

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lfréd Radok era un vero genio. Anche quando parlavamo di niente, lui trovava il modo di dire qualcosa d’interessante. Purtroppo dopo il successo di Bruxelles ci trovammo tutti praticamente sul marciapiede. E forse fu una fortuna. Lavorare per Laterna era una bella tentazione. Grazie a quel progetto ero andato all’estero per la prima volta in vita mia e, se non ci avessero messo i bastoni fra le ruote, probabilmente avrei continuato così e sarei finito a fare qualcosa di simile a un commesso viaggiatore.

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o stile e il metodo che usai nel mio primo film fu coscientemente una reazione alla tecnica usata per Laterna. Laterna aveva proiezioni multiple, cinemascope, un palco per l’azione dal vivo e musica stereofonica, insomma una sorta di macchina cibernetica che richiedeva tutta l’attenzione dello spettatore. Dopo quell’esperienza, quando arrivai a mettere le mani su una camera 16mm, mi sentii come uno che ha perso venti chili.

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oco dopo il nostro ritorno da Bruxelles ci mettemmo a lavorare su un nuovo programma di Laterna Magika. Poi successe qualcosa che all’inizio feci fatica a comprendere. Il nostro progetto era semplicemente quello di espandere quel che avevamo fatto a Bruxelles – cosa che tra l’altro, prima che mi dimentichi, ebbe il merito di riportare in auge Radok e gli valse anche un premio di Stato – ma il Partito e il governo, non appena videro il nuovo programma, cominciarono a fare un sacco di storie. In particolare fu la mia vecchia conoscenza Václav Kopecký a creare problemi. Radok ricadde in disgrazia, peggio ancora di prima, e noi con lui. Nessuno capì mai bene come andarono le cose, ma eravamo nel periodo in cui Chruščëv aveva pronunciato un discorso sull’arte e sulla battaglia ideologica. Forse non avevano gradito molto la versione cinematografica di Otvírání studánek di Bohuslav Martinů che Radok aveva girato. [t.l.: Aprendo le acque] La verità però è che non si trattava di una questione di gusti. La motivazione ufficiale era che nel progetto mancavano delle cose, per esempio le dighe. Ma se non fosse stato per quello, avrebbero detto che non c’erano abbastanza miniere e poi che non c’erano abbastanza ponti e così via. Non c’era modo di capire esattamente. Tutto era molto confuso e complicato e noi non avevano la minima idea dei reali interessi in gioco. Svitáček, Roháč e io cercammo di fare qualcosa per evitare che Radok venisse licenziato, ma alla fine lo rimpiazzarono comunque.

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n giorno venni convocato dal compagno Michailov, l’uomo che ne aveva preso il posto. Non appena entrai nel suo ufficio mi disse che voleva le mie dimissioni. Al che io risposi che non capivo il perché e gli chiesi i motivi. E lui mi spiegò: partendo dal grande successo a Bruxel-

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n realtà c’era qualcosa che avrei dovuto sapere, prima di presentarmi a quel colloquio. Durante la lavorazione de I cuccioli uno degli ultimi assistenti alla produzione era un ragazzo silenzioso, riservato, efficiente che chiamerò Jaroušek. Proprio poco prima che cominciassimo a girare lui era venuto da me a dirmi che aveva due figli piccoli, un mucchio di

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problemi economici, una paga bassa e nessuna prospettiva e mi aveva chiesto di ottenere per lui la qualifica di assistente alla regia. Avevo simpatia per lui e quindi feci il possibile per assicuragli la “promozione”. Mi fu straordinariamente riconoscente e lavorò come un matto. Si poteva sempre contare su di lui. Quindi, quando cominciammo a lavorare a Laterna, suggerii di prenderlo con noi a Bruxelles come assistente. E questo fu per lui un nuovo piccolo passo avanti. Visto che lavorava all’estero, gli concessero una diaria aggiuntiva e la sua situazione cominciò a migliorare.

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bbene, Michailov, prima di convocare me, aveva fatto chiamare Jaroušek e gli aveva chiesto: «Dimmi, cosa pensi davvero di questo Forman?». Jaroušek aveva balbettato qualcosa prima che il nuovo direttore gli suggerisse: «Pensaci e ne riparliamo. Sai com’è in questi casi, le cose cambiano in tutte le istituzioni».

Laterna Magika: Variace 66, Otvírání studánek / Lanterna Magica: Variazione 66, L'apertura delle sorgenti, 1966

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les, Laterna Magika era diventata un’istituzione culturale e politica estremamente importante. La sua rilevanza culturale e artistica, per non parlare di quella politica, era andata molto al di là del progetto iniziale. Se non volevamo che sfiorisse, se volevamo al contrario che Laterna sviluppasse e realizzasse le grandi aspettative che il mondo aveva per lei, c’era bisogno di un gruppo di lavoro ben più maturo, sia artisticamente sia culturalmente. Dopo aver sentito le sue spiegazioni gli dissi che certo, naturalmente, avrei rassegnato le mie dimissioni.

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aroušek capì che non poteva sottrarsi a questa verifica di lealtà. Se lui parlava bene di noi o, come si diceva in quei giorni, “se lasciava aperta la porta, ideologicamente”, poteva succedere che la stessa cosa capitasse a lui. Mentre rimuginava sulla questione, il nuovo capo del personale lo chiamò e, nel corso della conversazione, quasi casualmente gli chiese: «Senti, tu sei stato a Bruxelles. Non potresti scrivere un breve rapporto su Forman, giusto una paginetta?».

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quel punto era chiaro a Jaroušek che quel che era in ballo era il suo destino e quello della sua famiglia. Avrebbe dovuto suicidarsi e rifiutare di diffamarmi, quando poi nessuno di noi sarebbe stato in grado di aiutarlo? O al contrario avrebbe dovuto cercare di salvare la pelle? E così, come ogni buon padre di famiglia avrebbe fatto, si sedette e si mise a scrivere un lungo atto d’accusa nei miei confronti: scrisse che volevo fuggire all’estero, assieme a tutti gli altri del gruppo, che volevo vendere Laterna agli americani e così via. E queste erano solo le accuse minori. Scrisse, firmò e consegnò. Ma la sua coscienza non lo lasciava in pace e così circa due mesi dopo, quando eravamo già stati cacciati tutti quanti, mi venne a trovare, si sfogò e mi raccontò tutta la storia. Naturalmente non mi disse che era stato lui a scrivere l’atto d’accusa, mi dis-

se solo che avevano fatto pressioni su di lui, quei figli di puttana. Una storia che avevo già sentito.

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aturalmente non era una bella situazione. Io non avevo mai avuto un soldo di mio; il successo di Laterna Magika mi aveva lasciato credere che avrei avuto una possibilità di vivere decentemente. Ora anche quella era sfumata.

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entre cercavo di capire cosa fare e dove andare, venni a sapere che “l’artista di livello superiore” che aveva ricevuto l’incarico di costruire un programma pari alle aspettative di tutto il mondo non era altri che Boris Michailov, l’uomo che fino a poco tempo prima ne era stato il direttore amministrativo. A quel punto capii: Michailov sapeva bene che se avessero lasciato costruire il nuovo programma al gruppo originario, quello avrebbe preteso una ricompensa economica. E comunque se noi ne fossimo usciti puliti, senza macchie, sarebbe stato difficile impedirci di lavorare al progetto individualmente e il risultato sarebbe stato lo stesso. Ma se riusciva a liberarsi di noi in quanto nemici del popolo, poteva autonominarsi direttore artistico e così gestire in proprio le più che rosee prospettive economiche, condividendo il più possibile il malloppo con gli amici che

Laterna Magika: Variace 66, Otvírání studánek / Lanterna Magica: Variazione 66, L'apertura delle sorgenti, 1966

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l’avevano aiutato a ottenere il posto. Quello è stato il momento in cui sono stato promosso e sono passato alla classe successiva nella scuola della vita. In un attimo, tutta la favoletta ideologico-politica di Michailov si era trasformata in chi guadagna di più nell’impresa Laterna. E nonostante questo, penso che Vaclav Kopecký credesse davvero alla sua “versione ideologica”. Non si era semplicemente reso conto di essere stato usato in un intrigo e una macchinazione delle quali forse non era neppure al corrente.

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irca un anno dopo, quando ero di fatto disoccupato e cercavo lavoro negli Studi Barrandov, questi chiesero a Laterna il mio dossier personale che con gli anni era diventato consistente. Il capo del personale degli studi si chiamava Senecký, evidentemente una persona onesta. Quel che stava in quel dossier era praticamente ciò che mi teneva al riparo dall’ira dei politicanti. E poi, in aggiunta, quelle orribili accuse che in qualche modo non s’accordavano col resto delle informazioni. Sembrava quasi che descrivessero un’altra persona. Tipicamente questi rapporti sui funzionari non indulgono in sfumature o in ritratti psicologici dettagliati. Nella maggior parte dei casi quel che

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n quel tempo Jaroušek viveva a Chuchle una di quelle comunità operaie di periferia con casette basse, abitate per lo più da persone anziane, membri del Partito Comunista in pensione che tiravano avanti con duecento corone al mese. Il rapporto che questi compilarono su Jaroušek fu sconvolgente. Venne fuori che nel 1945, grazie a quel po’ d’inglese che sapeva, Jaroušek aveva fatto da interprete per l’ufficiale americano di collegamento di Praga, facendosi bello di questo, con tanto di gomme americane, sigarette e altri vantaggi. Poi, nel 1948 la rivoluzione aveva fatto i suoi gloriosi passi avanti e aveva denunciato quel tipo di persone, pur continuando a tenerle d’occhio. Ma all’improvviso, nel 1958, mentre questi vecchi soldati e le loro anziane signore sopravvivevano con qualche centinaio di corone al mese, questo ex-lacché degli imperialisti era risbucato fuori, di ritorno da Bruxelles, con dozzine di calze di nylon, calzini e maglioni, e col petto gonfio di ideologia politica. Per questo motivo il rapporto compilato su Jaroušek da questi vecchi veterani del Partito era un condensato della loro amarezza repressa e del loro disincanto verso il passato.

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opo la storia finita male di Laterna, i dirigenti di un nightclub di Praga, l’Alhambra, chiesero al regista Jan Roháč di allestire uno spettacolo dal vivo, pensato soprattutto per i turisti stranieri. Roháč disse di sì a condizione di potersi liberare di quell’ignobile brogliaccio che loro gli avevano proposto e di poterne scrivere uno proprio. Loro accettarono e io, sotto pseudonimo, cominciai un nuovo lavoro molto divertente. Non guadagnavo molto, ma si trattava di un’entrata sicura, visto che lo spettacolo andava in scena ogni giorno.

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l seguito di questa storia da sussidiario delle elementari è tipicamente cecoslovacco. Prima ci licenziarono in blocco. Poi tirarono fuori un programma che, a parte alcuni dettagli minori, era esattamente uguale a quello che avevamo proposto noi, ma naturalmente senza citarci. La maggior parte delle royalties finirono nelle tasche del direttore artistico e dei suoi amici. Anche se non riuscirono a rubarci tutto. Si accontentarono di portarci via quasi tutto quel che era nostro e ci lasciarono misericordiosamente i resti. Naturalmente non si parlava di soldi. Tutto si giocava su un livello altamente ideologico e politico, così non c’era possibilità di rivalerci. Piano piano l’intera storia venne dimenticata. Dopo un po’ Michailov venne espulso dal Partito e licenziato da Laterna Magika. Naturalmente non per come si era comportato con noi, ma solo per aver sedotto in maniera imprudente una ballerina minorenne che l’aveva contattato per avere un lavoro.

ci può essere è se il compagno in questione è socievole, ha buoni rapporti con gli altri e in genere si tratta di rapporti positivi. Il mio invece pullulava di aggettivi, termini stranieri e costruzioni involute. Senecký non ci dormì una notte, tanto da chiedere informazioni sulla persona che aveva messo assieme quella strana raccolta di infamità, al comitato di quartiere in cui la persona viveva. E la persona non era altri che Jaroušek.

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llo stesso tempo cercavo di trovare lavoro come regista indipendente e non ci sarebbero stati inconvenienti (eravamo nel 1961) dato che ero stato completamente riabilitato, grazie al rapporto su Jaroušek, tranne che (e questa è, di nuovo, una cosa tipicamente cecoslovacca) se le autorità, nonostante tutti gli sforzi, non riescono mai rovinarti completamente, non possono neanche riabilitarti completamente, neanche con tutta la buona volontà. Non ci fu nulla da fare e io tornai a fare l’assistente alla regia per il film di Pavel Blumenfeld Tam za lesem. [t.l.: Dietro la foresta]

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a poco prima era successa un’altra cosa importante. Ero disoccupato, divorziato e avevo tempo da spendere. Vivevo ancora nello stesso palazzo del Ministero e nello stesso corridoio e non ne potevo più. Fu allora che la Pentaflex 16mm comparì sul mercato: era pesante, scomoda e rumorosa. Ma aveva un’ottica eccellente. Misi letteralmente gli ultimi soldi in quell’acquisto (avevo appena comprato un’automobile con i miei “penultimi” soldi). E visto che, nonostante il mio diploma alla Famu, non sapevo usarla, chiesi aiuto a Ivan Passer che mi presentò Mirek Ondříček. Andavamo in giro senza pretese e usavamo un po’ di pellicola solo per divertirci. Per esempio riprendevamo la gente che si girava a guardare le ragazze a Piazza Venceslao, dalle parti del Teatro Semafor. Ed è stato lì che è davvero cominciato tutto.

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onoscevo la gente del Teatro Semafor prima ancora che quello aprisse (al club Reduta alla fine degli anni Cinquanta, quando Jiří Suchý aveva cominciato a farsi conoscere con le sue originali e poetiche canzoni pop). Svitáček e Roháč conoscevano Jiří Šlitr e, al momento di decidere a chi affidare la parte musicale di Laterna, pensarono a lui. A Bruxelles noi quattro abitammo nello stesso appartamento per sei mesi e diventammo grandi amici. Šlitr, naturalmente, aveva anche lavorato al secondo programma, quello che era stato bocciato. Laterna – o meglio, le persone che l’avevano creato – fu uno dei primi semi di un nuovo tipo di cultura. Un altro di questi “semi” fu il Teatro Semafor. Poi arrivò il Teatro delle Balaustre (Divadlo Na Zábradli) e il Club

del Dramma (Činoherni Klub). Eravamo tutti amici e c’erano anche molte delle persone conoscevo dai tempi della FAMU. Be’, erano gli anni Sessanta e le cose cominciavano a muoversi. Veloci.

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on credo sia stata una coincidenza. Ho una mia teoria sul miracolo culturale cecoslovacco degli anni Sessanta. Nel tipo di società che si era sviluppata in Cecoslovacchia, un giovane ambizioso e provvisto di talento scopriva in fretta che l’unico luogo possibile in cui realizzare le proprie ambizioni era il campo culturale. Sono sicuro che in un altro sistema politico, metà delle persone che contribuirono a creare questo miracolo sarebbero emerse comunque, ma facendo lavori diversi – per esempio come uomini d’affari o in generale come professionisti o anche come gestori di alberghi di lusso. Ma in Cecoslovacchia non c’era nulla di simile al “medico ideale” tipo Albert Schweitzer o l’“imprenditore ideale” tipo Ford o un avvocato come Darrow o un politico come Masaryk. Nulla. Gli ideali possibili erano tre: Stalin, Chapayev e l’Artista. Forse anche l’Atleta. C’era una larga scelta in queste due ultime categorie. Ed è stato così che nella sfera culturale c’è stata un’incredibile crescita di talenti, una concentrazione di così tante persone capaci, che alla fine qualcosa doveva semplicemente accadere. Dalla mia esperienza personale, visto che sono cresciuto in quel periodo, so per certo che il modello che il sistema stava cercando di creare – l’“eroe lavoratore” e cose del genere – non aveva la minima attrattiva tra i giovani membri dell’intellighenzia.

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ll’inizio tutto quel che volevamo fare [ndt: Mirek e io] era girare qualcosa al Teatro Semafor, giusto per divertirci. Male che andasse, sarebbe rimasto comunque come testimonianza per gli archivi del teatro. Assieme a Suchý e Šlitr ci chiedevamo cosa avrebbero dato Voskovec e Werich per aver avuto un filmato della loro Vest Pocket Revue, la prima opera che il loro famoso Osvobozené Divadlo [trad. lett.: Teatro Liberato] aveva messo in scena negli anni Venti. Alla fine un giorno Mirek Ondříček e io proiettammo quel che avevamo girato e l’impressione non fu cattiva. Quanto meno a noi piaceva.

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ra il periodo in cui a Praga comparivano i primi gruppi rock che cantavano in ceco e io andai a sentire uno di questi concerti ai Giardini Vrtba. Una delle band aveva annunciato che era alla ricerca di un ragazzo e una ragazza per il ruolo di cantante e, dato che anche al Semafor cercavano qualcosa del genere, io andai a dare un’occhiata. Era incredibile osservare queste ragazzine che stavano lì in attesa che succedesse il miracolo. Forse pensavano davvero che nel momento in cui si sarebbero trovate davanti al microfono, il buon Dio avrebbe concesso loro il dono della voce e della bellezza.

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uando il film usci, la gente disse che era cinico e crudele. Ma la crudeltà che veniva fuori dallo schermo è quella tipica di qualsiasi tipo di audizione, sta nella sua essenza e non ha nulla a che vedere con le buone o cattive intenzioni di coloro che l’organizzano o che la filmano. Al contrario girare un’audizione e spurgarla della sua crudeltà sarebbe come eliminarne la sua stessa essenza. L’audizione non è ancora la vera battaglia, ma è solo il meccanismo di selezione. E io non conosco nulla di più crudele e di più imbarazzante che essere selezionati.

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iù tardi, quando uno si trova già nella mischia, tutto diventa normale. A quel punto perfino la morte più crudele ha un ché di eroico. Ma durante la selezione, anche quello che un giorno diventerà una grande star si sente nudo e stupido come tutti gli altri.

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inito il montaggio, mostrammo il nostro lavoro: un film di 55 minuti. Lo ricordo come se fosse oggi. Eravamo negli studi Barrandov, Sala di proiezione 1, l’uomo che li dirigeva era il signor Boudský. Accanto a lui c’erano Veselý, all’epoca

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stato allora che pensammo che sarebbe stata una buona idea per un film. E così, dato che io ero ancora in contatto con l’unità di produzione Sebor-Bor, fin dal mio periodo alla Famu e poi per I cuccioli, misi assieme tutte le bobine che avevamo girato in una valigetta e andai da loro a mostrare quel che avevamo fatto. Le stelle giocavano a nostro favore. Chruščëv aveva dichiarato da qualche parte che bisognava concedere un’opportunità ai giovani. Subito dopo Novotný s’era affrettato a dire la stessa cosa. [ndt: Antonín Novotný è stato il segretario del Partito Comunista dal 1952 al 1968, quando verrà sostituito da Dubček] Lo studio allora si mobilitò per trovare i fondi per realizzare dei cortometraggi che sarebbero stati programmati assieme ai normali lungometraggi. Un doppio programma col prezzo del biglietto raddoppiato. Questo progetto in breve fallì, ma loro riuscirono comunque a farci avere il finanziamento per un film da 15 minuti, che corrispondeva a circa dieci giorni di lavorazione. Girammo in 16mm e lo gonfiammo a 35mm e, visto che si trattava di un piccolo progetto costato pochi soldi, nessuno sembrò prestare molta attenzione a noi o si mise in testa di controllare quel che facevamo. Lo chiamammo Konkurs.

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direttore amministrativo degli studi, Kune, capo del reparto sceneggiature, Sebor, Bor e io. Al termine della proiezione uscimmo nell’atrio e loro si misero a discutere del film. Questo era contrario a tutte le regole. Il regista era lì presente e la riunione dunque non era a porte chiuse. Era giusto un capannello di persone e io stavo lì assieme a tutti gli altri. Veselý: «Be’, cosa ne pensate?» Kune: «I nostri giovani non sono così» – e altri commenti negativi. Ma prima che la sua opinione potesse diventare un verdetto ufficiale, Veselý lo interruppe: «Hm, a me è piaciuto abbastanza». Kune: «Be’ se lo guardi da quel punto di vista non era male.» E quello fu il giudizio finale.

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ccadde così che il film non finisse direttamente negli archivi. Cosa che, considerati i pochi soldi che era costato, non sarebbe stata un problema. Ma cosa farne? Non era un lungometraggio, né era abbastanza breve per poter essere accoppiato a un film normale. Così continuarono a discuterne finché alla fine Sebor e Bor mi chiamarono e dissero: «Senti, abbiamo paura che prima o poi ti chiederanno di ridurlo a venti minuti. Ma se hai un’idea per un altro cortometraggio, forse potremmo metterli assieme». E fu così che girammo un altro corto chiamato Kdyby ty muziky nebyly [t.l.: Se non ci fosse la musica].

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aturalmente non fu facile come sembra. Avere l’ok per Konkurs aveva aperto delle prospettive e nella primavera del 1963 avevo avuto la possibilità di cominciare a girare L’asso di picche (Cerný Petr). Lavoravamo tutta la settimana al film, ma nel frattempo cercavamo disperatamente un’idea per il corto da aggiungere a Konkurs, cosa per cui ci avevano dato una scadenza.

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Černý Petr / L'asso di picche, 1963

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Hoří, má panenko! Al fuoco, pompieri! 1967

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Cinema in piscina

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oris Ergas, il braccio destro di Ponti, fece investire il suo capo nello sviluppo di una sceneggiatura che ancora oggi mi spiace non aver girato. La storia di Americans Are Coming comincia con l’ultimo orso del monte Tatra. L’orso è molto vecchio, e siccome probabilmente sta per morire, gli agenti della Forestale ceca decidono di venderlo ai cacciatori occidentali. Una battuta di caccia costa diecimila dollari, ed è un ricco americano ad aggiudicarsi il primo tentativo di uccidere l’ultimo orso dei Carpazi. Poco prima del suo arrivo però, l’orso attraversa la frontiera ed entra in Polonia. Si scatena il panico: il denaro ormai è stato incassato. L’americano atterra a Praga e l’orso è all’estero. La storia parte da lì.

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apoušek, Ivan e io eravamo entusiasti dello spunto narrativo, e tiravamo fuori un’idea dietro l’altra. Ponti ci invitò subito in Italia, a lavorare sulla sceneggiatura nella campagna fuori Roma. Non voleva che scrivessimo senza il suo contributo:

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onti ci sistemò in un hotel paradisiaco sul mare, a Torvaianica, ci diede un’auto a noleggio, dell’argent de poche e uno sceneggiatore inglese che incuteva timore e di cui non farò il nome. Quell’uomo aveva appena scritto un film di enorme successo al botteghino, aveva due segretarie, affittava metà di uno splendido castello con una piscina fantastica, e sembrava più prolifico di una locusta. Dettava così tanto alle sue segretarie che le avrebbe fatte morire anzitempo.

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gni pomeriggio andavamo in auto al castello e lavoravamo insieme a lui sul bordo della piscina. Il posto sembrava uscito da una commedia dell’assurdo. Apparteneva a un aristocratico di una delle più antiche famiglie di Roma. Non era un uomo ricco, sebbene avesse due domestici, e così per mantenere la famiglia affittava un’ala del castello a inquilini interessanti. Passava il tempo a scrivere astrusi saggi marxisti e, in quanto comunista convinto, era raro che chiedesse ai suoi domestici di fare qualcosa per lui. I domestici prendevano il sole in piscina con il resto noi. […]

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l successo di Gli amori di una bionda fece entrare Carlo Ponti nella mia vita. La nouvelle vague del cinema ceco era ormai all’apice, i film di Věra Chytilová, Jiři Menzel, Ján Kadár, Elmar Klos, Jan Němec e altri registi venivano recensiti in tutta Europa, e Ponti voleva approfittare di tutta quella pubblicità. Aveva appena guadagnato milioni con Il dottor Zivago, e noi eravamo un buon affare.

ci avrebbe fornito uno sceneggiatore inglese che capiva gli aspetti commerciali del cinema in Occidente e che doveva aiutarci a scrivere una commedia per spettatori che pagavano in valuta pregiata. Dopo averne parlato tra noi, fummo tutti e tre d’accordo di fare un tentativo. Se anche non fosse uscito niente da quella collaborazione, almeno avremmo trascorso qualche settimana in Italia.

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’Italia era divertente, ma scrivere la sceneggiatura a bordo piscina si rivelò un incubo. In quel periodo l’inglese aveva altri due progetti tra le mani. Dettava una commedia in versi su Sansone e Dalila a una segretaria e un trattato specialistico sulle porcellane cinesi all’altra. Di solito dedicava la mattina ai distici, e poi, al pomeriggio ci infilava tra una pagina e l’altra del suo libro erudito. […] Era raro che uscisse dall’acqua […]

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opo una settimana a bordo piscina, andammo tutti e quattro a Roma per incontrare Ponti. Arrivammo puntuali alla casa di produzione, ma ci fecero comunque aspettare un paio d’ore. Mentre ce ne stavamo lì seduti, il nostro inglese cominciò a diventare sempre più nervoso. All’improvviso, sfoderò una pipa e un pezzetto di hashish e se l’accese nella sala d’aspetto.

«Fatevi un tiro ragazzi! Ponti vorrà che gli raccontiamo tutto quel che abbiamo fatto finora. Un tiro vi farà solo bene», disse. Facemmo girare la pipa in silenzio. Era un buon hashish.

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uando alla fine ci fecero accomodare da Ponti, il suo ufficio era leggermente nebbioso e gli oggetti continuavano ad andare fuori fuoco. Era una stanza sorprendentemente piccola, tappezzata di libri rossi, e ingombra di un branco di cani di porcellana. Erano a grandezza naturale, mostruosi, come se ne vedono in certe polverose stazioni ferroviarie. Ponti sedeva dietro a una scrivania ad altezza uomo, sopra a una pedana che dominava le poltrone per gli ospiti. Continuò a scrutarci pensieroso mentre gli spiegavamo quel che avevamo fatto fino a quel momento. «Fantastico», disse quando finimmo «Ma ecco a cosa credevo che stessimo lavorando tutti quanti», e prese a parlare di un altro soggetto, che non era incentrato sui cechi e l’orso, ma sul cacciatore americano. Non so bene quale dei due soggetti fosse meglio, ma è chiaro che non avrebbero mai finito per convergere sullo schermo.

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ornando in hotel, Papoušek, Ivan e io sprofondammo nella depressione. Il nostro “sforna-sceneggiature” non era altrettanto pessimista. Secondo lui, potevamo ancora ri-

solvere tutto. Ci voleva solo un po’ di fegato da parte nostra. «La vie c’est la guerre», ci disse.

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l giorno seguente, a bordo piscina, ritentammo. L’inglese nuotava avanti e indietro, solo che adesso cercava di incorporare le idee di Ponti nella nostra sceneggiatura. Molto probabilmente, c’era in gioco il suo compenso.

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re giorni dopo, andammo a un altro incontro con Ponti. Passammo di nuovo un bel po’ di tempo in sala d’attesa, fumando hashish e ascoltando le urla che uscivano dal suo ufficio. Tre uomini strillavano in italiano a pieni polmoni, e quando la porta si aprì, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini uscirono barcollando. Non erano insanguinati, ma si muovevano come se avessero appena subito un pestaggio. Per me, De Sica e Zavattini hanno fatto alcuni dei migliori film della storia del cinema: devo aver visto Miracolo a Milano almeno venti volte. Mi sarebbe tanto piaciuto stringergli la mano, a tutti e due, ma non osai aprire bocca e restai a guardarli mentre si trascinavano verso l’uscita.

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ircondato dal suo branco di cani silenziosi, Ponti sembrava esattamente quel che era. A quel punto, lo trovavo davvero insopportabile, anche se non lo lasciavo trasparire. «Quelli erano il signor De Sica e il signor Zavattini, vero?», gli chiesi. «Non nominarli neanche!», ringhiò lui, indicando i suoi segugi di pietra «Questi cani scriverebbero una sceneggiatura migliore di quei due!».

«Allora perché non la scrive lei, signor Ponti?». «Oh, lo farei eccome! Credi che mi piaccia avere a che fare con gente del genere?! Ma dove lo trovo, il tempo?». Il primo ad andarsene dall’Italia fu Papoušek. «È una follia», disse «Non ce la faccio».

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van e io restammo ancora qualche giorno, ma non servì a niente. Ci separammo da Ponti come una vecchia coppia di soci d’affari che non riuscivano a mettersi d’accordo.

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Al fuoco, pompieri!

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uando fallisci in qualcosa, ti viene naturale buttarti nel lavoro e mettercela tutta per riscattarti.

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ornati dall’Italia, Ivan si dedicò a un altro progetto, invece Papoušek e io cominciammo subito a scrivere una sceneggiatura su un disertore che viveva nei sotterranei di Palazzo Lucerna, una famosa sala da concerti di Praga. Andammo sui Monti dei Giganti, dove avevamo un bellissimo tavolo da biliardo, ma la scrittura procedeva lentamente, a fatica, e alla fine si arenò del tutto. Forse eravamo troppo ansiosi o forse il nostro soggetto aveva un qualche difetto fatale. Ivan venne ad aiutarci, ma neanche lui riuscì a farci uscire dalle secche.

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l Corpo dei Pompieri di Vrachlabí era formato da volontari. Lavoravano quasi tutti in fabbrica. Erano venuti al ballo per divertirsi, e così fu. Avevano organizzato un concorso di bellezza per le loro figlie bruttine, e anche una lotteria. Bevevano e litigavano con le mogli ed erano totalmente se stessi.

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a domenica, Papoušek, Ivan e io non riuscivamo a smettere di parlare di quel che avevamo visto al ballo. Il lunedì, stavamo traducendo le nostre impressioni in idee per un soggetto. Il martedì attaccammo a scrivere.

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a sceneggiatura si scriveva quasi da sola. Se avevamo dei dubbi, tornavamo a Vrachlabí e verificavamo con i pompieri. Avevamo trovato la taverna in cui andavano a bere birra, e giocavano a carte o a biliardo. Quando ci conobbero meglio, cominciarono a parlarci liberamente. Sei settimane dopo, avevamo la versione definitiva di Hoří, má panenko! o Al fuoco, pompieri!

Hoří, má panenko! Al fuoco, pompieri!, 1967 International Film Festival

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rustrati e di cattivo umore, decidemmo di scordarci la sceneggiatura e di andare tutti e tre a un ballo del corpo dei pompieri locale. Avevamo voglia di vedere un po’ di gente, ubriacarci, magari attaccare bottone con qualche ragazza, rilassarci. E comunque non avevamo niente di meglio da fare quel sabato sera.

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a nostra sceneggiatura si basava molto su quel che avevamo visto al ballo, e poi ci avevamo costruito su. Un pompiere anziano sorveglia i premi della lotteria, che però vengono rubati, un concorso di bellezza per le figlie entusiasma soprattutto le madri, che fanno pressioni sui giudici, e in città scoppia un incendio.

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Šebor la sceneggiatura piacque, e mentre lui metteva in piedi la produzione, io tornai a Vrachlabí. Presi una stanza all’hotel cittadino e diventai un cliente abituale della taverna vicino alla caserma dei pompieri. Per un paio di settimane, tutte le sere restai con i pompieri volontari fino alla chiusura del locale. Allora avevo ancora il fegato giusto per girare film in quel modo. Quando venni via da Vrachlabí, avevo affidato i ruoli a gente che mi piaceva e a cui io piacevo.

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uando la produzione era pronta a partire, Ergas e Ponti decisero di investire nel progetto. Ponti ci mise ottantamila dollari. Sulla carta, questo lo rendeva il produttore del nostro film, anche se non vide mai il set, e il suo finanziamento ci permise di girare a colori. All’epoca la maggior parte dei film prodotti dalla Barrandov era in bianco e nero. Solo i registi più anziani e meritevoli, che di solito erano anche, guarda caso, i più fedeli al partito, ricevevano l’approvazione per la pellicola a colori della Germania Est. Si chiamava Orwo, e aveva dei colori irregolari, morbidi e lirici, che non erano molto adatti a una commedia. Con i soldi di Ponti, potevamo comprare della buona pellicola a colori in Occidente. Volevo girare Al fuoco, pompieri! a colori solo perché lo avvicinava ulteriormente alla realtà. Di solito non nutro una passione viscerale per il colore, nei miei film, però insisto sempre che il nero sia nero davvero e che la pelle non sembri imbalsamata.

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i avanzavano abbastanza dollari per comprare un Elemac, un dolly con una gru che facilitava molto le riprese del ballo. I nostri pompieri non avrebbero rischiato di inciamparsi sulle rotaie e sui cavi di una classica produzione Barrandov, e quindi nel complesso l’investimento di Ponti mi pareva un buon affare.

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ornammo a Vrachlabí e cominciammo le riprese. Nel cast non c’era un solo attore professionista, e tutti i nostri pompieri volontari lavoravano a tempo pieno nella fabbrica locale. Si alzavano alle cinque del mattino, timbravano alle sei, ritimbravano alle due, tornavano a casa, mangiavano, si cambiavano d’abito e venivano sul set. Cominciavamo a girare alle quattro del pomeriggio e lavoravamo fino alle dieci o le undici di sera, tutti i santi giorni, per sette incredibili settimane.

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pompieri erano entusiasti e generosi, e i giornalieri sembravano belli. Usai lo stesso metodo di lavoro che avevo adottato per L’asso di picche. Non mostrai a nessuno del cast un copione. Spiegavo la scena ai pompieri e poi lasciavo che fossero loro a trovare le parole davanti alla macchina da presa. La struttura della nostra sceneggiatura non cambiò molto, ma i dialoghi, il ritmo, i comportamenti diventarono molto più naturali.

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uando mi chiusi in sala di montaggio con il girato, capii che la versione finale doveva essere piuttosto breve. Al fuoco, pompieri! era un film su un evento, quindi tutte le unità aristoteliche erano rispettate, ma questo non giovava all’impatto emotivo. Non c’erano dei personaggi centrali con cui il pubblico potesse identificarsi, nessuno che reggesse il film.

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uando finii il montaggio, il film durava settantatré minuti, ma a me andava benissimo. L’unica cosa che mi preoccupava, era come l’avrebbero preso i burocrati della cultura. La maggior parte di loro era stata promossa perché non aveva il minimo senso dell’umorismo, quindi già sapevo che non avrebbero gradito la mia commedia realistica. Speravo però che piacesse a Ponti, perché lui poteva trovarle una distribuzione in Occidente. Già allora, in Cecoslovacchia la valuta pregiata contava più del Partito.

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i eravamo tenuti in contatto con Ponti durante tutta la produzione. Ergas ci era venuto persino a trovare un paio di volte sulla location. Ergas mi piaceva, perché non era affatto presuntuoso.

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Aveva cominciato esportando pasta e dalle ultime notizie che avevo, era nel settore della gestione alberghiera, quindi per lui gli affari erano affari. Aveva sposato una stella del cinema, Sandra Milo, ma continuava a essere alla mano e concreto, e provava un affetto sincero per il cinema ceco.

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gni volta che mostravamo a Ergas una scena, lui dava il suo solito consiglio: «Ci vuole più amore!», vale a dire ragazze nude. Non ho niente contro le scene d’amore o le ragazze nude, ma non sapevo proprio come infilarle nella storia. Avevo rivisto il soggetto insieme a Ergas diverse volte e pensavo che avesse finito per accettare la mia posizione.

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on appena finimmo un montaggio preliminare, invitammo Ponti a Praga a vederlo. Ponti si presentò con il classico codazzo dei magnati, il che era un bene perché non avrei voluto mostrare Al fuoco, pompieri! in una sala vuota. Ero sicuro che più spettatori c’erano, più avrebbero riso.

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enni a sapere che Ponti rivoleva indietro i suoi ottantamila dollari. Secondo la ragione ufficiale che addusse, non avevamo rispettato il contratto. Neanche l’avevo letto il contratto che quelli della Filmexport ceca mi avevano fatto firmare con Ponti, perché il mio inglese non era all’altezza. Mi avevano detto di firmare sulla linea tratteggiata, e così avevo fatto. Adesso scoprivo che una delle clausole scritte in piccolo specificava che Ponti stava acquistando da noi 75 minuti di prodotto cinematografico. Noi ne avevano consegnati solo 73: lo avevamo defraudato di due minuti di prodotto, quindi il contratto era nullo.

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n seguito mi dissero qual era la vera obiezione di Ponti. Pensava che prendessimo in giro l’Uomo Comune, e questo non andava bene per gli affari. Nel giro di un mese, i burocrati comunisti rivolsero quasi la stessa accusa a Al fuoco, pompieri! Dissero che prendevo in giro la classe operaia, e questo ovviamente non andava bene per i loro affari. Il miliardario italiano e i burocrati del Partito condividevano lo stesso sentimentalismo fasullo verso l’Uomo Comune, questa mitica costruzione dei cattivi filosofi e dei cattivi statistici, perché nessuno di loro sapeva niente di come vivesse e pensasse la gente.

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quella prima proiezione ci furono delle risatine quando il proiettore cominciò a girare, ma durarono poco. In sala calò il silenzio, che si diffuse, si intensificò e non andò più via. Poi il film finì, si accesero le luci e Ponti si alzò. Mi salutò con un cenno del capo, distolse lo sguardo e si diresse all’uscita. Non disse una sola parola. Il suo entourage fece qualche sorriso imbarazzato, e un attimo dopo non c’era più nessuno.

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rmai temo l’ora della posta. Ogni giorno, arrivano intere biblioteche di libri e sceneggiature, curricula di attori, lettere strampalate, petizioni, appelli, accuse e richieste.

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uando vivevo al Chelsea [il Chelsea Hotel di New York, storico “rifugio” di artisti e bohèmien, NdR], invece, la consegna della posta spesso era il momento migliore della giornata. Aspettavo la proposta che mi avrebbe cambiato la vita e, nel frattempo, accettavo ansiosamente tutti gli inviti che facevano sperare in un pasto gratis.

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n giorno, mi arrivò un pacchetto dalla California. Dentro c’era un libro che non conoscevo, scritto da un autore che non avevo mai sentito nominare, accompagnato da una lettera di due produttori a me ignoti. Quando aprii il romanzo e cominciai a leggere, mi prese subito. Non sapevo che quel libro era stato non solo un best seller, ma un vero e proprio fenomeno editoriale, ma capii subito che era il miglior materiale su cui avessi posato gli occhi da quando vivevo in America.

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ualcuno volò sul nido del cuculo si svolge in un ospedale psichiatrico. Ken Kesey l’aveva scritto basandosi sulla sua esperienza personale, ed era un romanzo magnifico.

One Flew Over the Cuckoo's Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975

A narrare la storia è il “Capo” Bromden, un indiano ricoverato nell’istituto che finge di essere sordomuto. Quest’uomo grande e grosso dallo spirito rimpicciolito, guarda un nuovo paziente, il carismatico McMurphy, sfidare quella puritana dell’infermiera Ratched, che dirige il reparto a forza di farmaci ed elettroshock. In particolare, McMurphy prende sotto la sua ala Billy Bibbit, un giovane balbuziente traumatizzato dalle proprie inibizioni sessuali. Organizza un incontro amoroso per Billy, che finalmente diventa uomo e risolve il suo problema. L’infermiera Ratched, furiosa per aver perso influenza su Billy, fa subito leva sul suo enorme senso di colpa, ma calca troppo la mano e finisce per far crollare il ragazzo, che si suicida. Ritenendola responsabile della morte di Billy, McMurphy la aggredisce, ma l’infermiera Ratched ha un potere assoluto sul reparto. McMurphy subisce quindi una lobotomia, che lo lascia in uno stato vegetativo. Con un atto di misericordia, il Capo Bromden lo soffoca con un cuscino e poi fugge dall’ospedale — presumibilmente per vivere la vita che McMurphy gli aveva ispirato.

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l libro racconta l’eterno conflitto tra l’individuo e le istituzioni. Inventiamo le istituzioni per cercare di rendere il mondo un luogo più giusto, più razionale. La vita nella società non sarebbe possibile senza gli orfanotrofi, le scuole, i tribunali, gli uffici governativi, e gli ospedali psichiatrici, eppure non appena

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sorgono, cominciano subito a controllarci, a irreggimentarci, e dirigere la nostra vita. Incoraggiano la dipendenza per perpetuare se stessi, e sono minacciati dalle personalità forti.

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essi il libro diverse volte prima di decidermi a incontrare i due produttori californiani che me l’avevano mandato, e buttai giù una scaletta della sceneggiatura; sapevo cosa avrei tagliato e cosa avrei lasciato, dove avrei aggiunto e dove avrei tolto. Decisi anche che il film non sarebbe stato narrato dal punto di vista dell’indiano.

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mio parere, la narrazione in prima persona è più adatta alla letteratura che al cinema. La letteratura si occupa del regno astratto delle parole, dove ogni frase più spalancare un nuovo mondo. Lo scorrere delle parole riflette meravigliosamente la modulazione del pensiero, e la scrittura è uno strumento perfetto per rendere il flusso di coscienza. Il cinema invece di solito vede il mondo dall’esterno, da un punto di vista più oggettivo. Le immagini sono concrete, quindi hanno un impatto più viscerale, più universale e persuasivo, però è più difficile ritrarre una vita interiore. arlai delle mie idee ai produttori in un ristorante cinese a Los Angeles. Erano una strana coppia, un giovane attraente che ne sapeva di cinema e uno spiritoso veterano brizzolato a capo di un’etichetta discografia di San Francisco che aveva sotto contratto i Creedence Clearwater Revival. Si chiamavano Michael Douglas e Saul Zaentz, e tra tutti e due non

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One Flew Over the Cuckoo's Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975

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avevano ancora messo insieme un solo film. Nel 1973 i nomi dei produttori non significavano niente, per me. Loro due avevano l’aria in gamba e sicura di sé. Sembravano sapere quel che volevano, ed erano sicuri che avrebbero trovato da soli i soldi per il film.

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ll’epoca, il costo medio di un film si aggirava sui sei milioni e mezzo di dollari, cifra con cui oggi ti compreresti forse i servigi di una star vagamente di successo, ma Zaentz e Douglas erano convinti di poter fare Qualcuno volò sul nido del cuculo per meno di due milioni di dollari. Secondo i loro calcoli, potevano tenere basso il budget usando attori sconosciuti e facendo lavorare tutti per il minimo sindacale. Avevano bisogno di un regista che fosse ambizioso, ma economico, il che era perfetto per me, e mi offrirono un contratto che non prevedeva un gran cachet, ma garantiva una percentuale sui profitti, clausola che finì per giocare a mio favore.

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ra un drink e l’altro, scoprii che Michael Douglas era il figlio del famoso Kirk Douglas, che avevo incontrato una volta a Praga. Negli anni Sessanta Kirk Douglas aveva girato per l’Europa dell’Est come ambasciatore di buona volontà degli Stati Uniti, e io ero stato invitato a una festa che l’addetto culturale americano aveva dato in suo onore. Kirk aveva visto i miei film, così iniziammo a chiacchierare e legammo subito. «Senti, sto lavorando a un progetto a cui tengo molto», mi aveva detto «Vorrei che gli dessi uno sguardo». «Ne sarei felice». «Si tratta di un libro. Te lo manderò».

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veva citato il titolo, ma siccome non mi diceva niente, me l’ero subito dimenticato. Diedi a Kirk il mio indirizzo e poi aspettai di vedere se arrivava qualcosa con la posta. Con il mio inglese riuscivo a malapena a leggere i cartelli stradali, quindi avrei dovuto trovare qualcuno che mi traducesse il libro a grandi linee. Non ricevetti mai nulla da Douglas, cosa che non mi sorprese. Era una grande star, e pensai che avesse parlato preso dall’entusiasmo del momento, e poi se ne fosse scordato nel momento stesso in cui usciva dalla porta.

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uando Michael e Saul Zaentz mi scritturarono, andai in California e incontrai di nuovo Kirk a una festa dai Douglas.

«Signor Forman, non sarà mica un gran figlio di puttana?», fu la prima cosa che mi disse. Io ero allibito. Intorno a noi scese il silenzio. «Perché?». «Quando le ho spedito il libro, non ha avuto nemmeno la decenza di scrivermi “Crepa”. Ma adesso che vive qui, è ben contento di dirigerlo».

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olo in quel momento capii che il libro di cui mi aveva parlato anni prima Kirk Douglas era Qualcuno volò sul nido del cuculo. Risposi, «Sa, signor Douglas, per tutto questo tempo ho pensato esattamente la stessa cosa di lei. Non è buffo?».

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olto probabilmente il romanzo di Kesey era stato confiscato dai doganieri cechi, ma nessuno di noi due poteva saperlo. Era stato Kirk Douglas a comprare i diritti del Nido del cuculo; aveva anche recitato in un adattamento teatrale fatto da Dale Wasserman e andato in scena a Broadway nel 1963. Poi aveva cercato per anni di produrlo con una delle major. Ma nessuno voleva il progetto perché secondo le classifiche dei profitti hollywoodiani, nessun film sulla malattia mentale aveva mai guadagnato un dollaro, e alla fine Kirk si era stufato di tutti quei rifiuti e aveva regalato i diritti a suo figlio.

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uando, una decina d’anni dopo il viaggio di Kirk a Praga, Qualcuno volò sul nido del cuculo finì per trtrovarmi al Chelsea, mi sembrò un segno del destino.

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Taking Off 1971

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ella scelta degli attori per un film, c’è una regola inderogabile, quella di evitare qualsiasi attore — professionista o non professionista — che sia dominato dalla vanità, dal timore di sembrare ridicolo o brutto o goffo.

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econda regola: nessun attore dei miei film — in Patria o negli Stati Uniti — ha mai letto la sceneggiatura. La ragione è semplice: io ho bisogno di lavorare con persone che si fidino di me completamente, che siano sicure che stiamo facendo un buon lavoro e che credono in quel lavoro perché credono in me. Loro devono pensare che io so quel che sto facendo. Tutto questo rischia di essere minato se lascio che leggano la sceneggiatura (che spesso è una cosa ingenua, noiosa e incomprensibile). Leggere la sceneggiatura avrebbe come unico risultato quello di scuotere la loro fiducia in me. Anche nel caso fossero disposti ad andare avanti e girare comunque il film, la lettura della sceneggiatura li farebbe cadere in preda ai dubbi.

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aturalmente è stato difficile in America convincere gli attori a lavorare così. Gli agenti pretendono sempre che l’attore conosca la sceneggiatura. Alla fine trovai un escamotage che funzionava: «Sono superstizioso», dicevo. E così l’avevo vinta.

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Attori e recitazione

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a professione dell’attore. Questo è qualcosa che solo gli attori professionisti possono capire, quegli attori che sono cresciuti a teatro e sanno che la cosa importante è andare in scena sera dopo sera e ripetere ogni volta la stessa parte che è stata messa a punto durante le prove e che ha bisogno di essere solo approssimativamente simile alla vita reale. Il fatto è che le convenzioni teatrali prevedono che lo spettatore non debba avere l’impressione che quel che succede sul palcoscenico sia letteralmente vero. Il palcoscenico in sé è già un’astrazione.

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a stessa cosa, però, non vale per il cinema. Io non solo ho bisogno di una costante ripetizione, parola per parola, delle battute e di un’illusione di realtà, ma, ogni volta che ci riesco, voglio anche cogliere quei momenti fugaci che non si ripresentano più. Il cinema è l’unica arte capace di cogliere e integrare artisticamente quel tipo di momenti. Non puoi farlo a teatro, in letteratura o nelle arti grafiche, al massimo puoi farlo in televisione, ma solo se fai un documentario. Di fatto la televisione ne fa un grande uso. Fate caso a quante volte durante una giornata sono capaci di ripetere l’irripetibile che è stato registrato su nastro. Il knockout dell’incontro Frazier-Clay è stato replicato quindici volte sulla tv a circuito chiuso!

Ragtime, 1981

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l cinema è capace di fare questo non soltanto in senso documentaristico, ma anche artistico. Io cerco sempre di girare non appena l’attore ha chiaro in mente quel che il dialogo in quella scena vuol dire, ma prima che lui abbia imparato meccanicamente le sue battute, nel momento in cui lui sta ancora pensando a cosa dire e non a come dirlo. In quel momento il suo volto e la sua espressione sono il riflesso straordinariamente sensibile di quello che prova internamente. A teatro lo spettatore vede il corpo dell’attore nella sua interezza, ma perde l’espressione del viso. Ma quando il viso è in primo piano sullo schermo, questo rivela infallibilmente se la persona che sta dietro a quella faccia è un personaggio o se è semplicemente uno che ripete le battute a memoria.

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on voglio dire che non esistano grandi attori capaci di essere il personaggio che interpretano e non soltanto far finta di esserlo, capaci di produrre quella sensazione unica di qualcosa che succede una sola volta e non può ripetersi. Ma troppo spesso in un film, anche il migliore degli attori finisce per ricadere in quelle prestazioni formalmente perfette, ma di routine, che hanno l’effetto di relegare lo spettatore nel ruolo di un osservatore freddo e distaccato.

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aturalmente se uno incontra un professionista capace di adattarsi a questo stile di lavoro e che è bravo a farlo, allora lavorare con lui è più semplice che lavorare con un non professionista. Il professionista di certo è meglio preparato in termini di tecnica, disciplina, etcetera.

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e lascio che gli attori leggano la sceneggiatura, loro impareranno il loro ruolo a memoria. In quel caso magari il risultato non sarà molto diverso da quello che ottengo usando il mio metodo preferito. Può esserci magari una differenza del cinque per cento. Ma questo cinque per cento può essere sorprendentemente importante. Io credo molto all’interscambio tra attore e regista. Dovrebbe essere un affare cinquanta e cinquanta.

T

Q

uando sono sul set un attore non deve chiedermi se deve andare a sinistra o a destra: deve soltanto muoversi. Sta a me, poi, fermarlo per dirgli di andare da un’altra parte o al contrario accettare quel che ha fatto perché è molto più vero di quello a cui avevo pensato io. È come una gara sportiva, che si evolve attimo per attimo, che cambia continuamente, ma seguendo sempre le sue regole interne. E questo sempre restando fedeli alla sceneggiatura, non aggiungendo mai nulla alla narrazione.

T

utto questo porta alla conclusione che quel che è importante è il metodo di lavoro, non il fatto di scegliere tra professionisti e non professionisti. Essere un non professionista non è un prerequisito per me. In Cecoslovacchia però c’era un altro tipo di problema. Difficilmente potevo fare richieste del genere a un attore che fino alle undici della sera prima aveva lavorato in teatro, poi era andato a bere qualcosa, aveva fatto una comparsata televisiva la mattina dopo, alle quattro del pomeriggio aveva partecipato a un programma radiofonico per essere di nuovo a teatro la sera. Un attore stanco, che fa fatica a concentrarsi, non può adattarsi al mio metodo di lavoro e per me è impossibile lavorare con lui.

International Film Festival

Lezioni occasionali

utto prende forma soltanto quando ci si trova sul set: movimenti, testo, azione e reazione. Per un attore è molto più impegnativo lavorare così che con il metodo tradizionale, quello in cui lui studia la parte a casa e poi cerca di renderla nel modo più accurato possibile. È molto più duro e faticoso se l’attore deve creare il suo personaggio durante la performance stessa. Il regista, mentre lavora, può scoprire che vuole trasmettere all’attore le nozioni minime, essenziali riguardanti il personaggio, allora deve farlo nella maniera più rapida e concisa possibile. È così che il regista si trasforma in attore. E, in risposta, gli attori diventano co-registi, proprio perché non si sono semplicemente limitati a memorizzare situazioni e battute scritte da qualcun altro.

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Lavoro collettivo

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egli Stati Uniti ho conosciuto sceneggiatori che pensano che il loro lavoro sia semplicemente di scrivere quel che io chiedo loro di scrivere. Persone che mettono completamente da parte le proprie idee personali, che “staccano la spina” e che considerano questo come il segno distintivo di un professionista.

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l mio ideale invece è il tipo di collaborazione che ho avuto con Ivan Passer e Jarda Papoušek. Lavoravamo assieme, ma ognuno di noi aveva le proprie idee sul film come se ognuno di noi fosse il solo responsabile della cosa in quanto regista. E così, dato che per uno scherzo del caso, capitava che le loro idee si accordassero con le mie, e viceversa, risultava che ci stimolavamo e ci ispiravamo l’un l’altro.

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giornalisti americani mi chiedono spesso di chi sia stata quella particolare idea o quale sia stato il contributo di un certo attore o sceneggiatore. L’unica risposta onesta è che non lo so. Quando lavoriamo diciamo sempre un mucchio di idiozie prima che uno di noi tiri fuori un’idea sensata. Di chi è il merito? Se non fosse stato per quelle idiozie non saremmo arrivati poi a quell’idea.

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Lezioni occasionali

i tutti gli attori con cui ho lavorato, quello con cui ho avuto più interscambio è stato Buck Henry che, naturalmente, è anche uno sceneggiatore.

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The People vs. Larry Flynt Larry Flynt – Oltre lo scandalo, 1996

’è un problema con alcuni dei miei colleghi americani. Anche se sono persone estremamente affidabili e di grande professionalità, avendo lavorato per anni nelle produzioni commerciali americane, hanno paura di commettere errori. Non fanno nulla che non venga loro richiesto espressamente. In realtà un film ci guadagna quando i collaboratori contribuiscono con qualcosa a cui il regista non aveva pensato. Non voglio criticare i miei colleghi americani per questo. Li capisco. Sono stati abituati così. E professionalmente sono perfetti. [ndt: quando parla di “colleghi americani” naturalmente non pensa ai registi, ma ai vari collaboratori come gli sceneggiatori, i direttori della fotografia, ecc…]

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Fotografia

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’altra parte, per le scene più intime, ho scoperto che la presenza di un operatore rischia di essere un fattore inibitorio perché crea un limite di luci e di spazio alla sensazione di realtà. Usare due o più camere vorrebbe dire moltiplicare quel limite. Di fatto la camera in sé è sterile e bisogna stare attenti che non lo diventi anche l’uomo che ci sta dietro. Quel che conta è che sia capace di cogliere l’impressione, come minimo, della normale realtà — in altre parole in modo che si possano sentire dei veri, vivi esseri umani. Lo stesso vale per le prestazioni degli attori.

International Film Festival

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in dal momento in cui si comincia a preparare un film, la fotografia è importante quanto la scelta degli attori o, più tardi, il montaggio e la musica. È una delle componenti principali dello stile del regista.

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l rapporto tra un regista e il suo direttore della fotografia è delicato e sottile. Oltre al suo lavoro vero e proprio, il direttore della fotografia è l’uomo che mi permette di lavorare in un certo modo: di impiegare i trucchi che uso per distrarre gli attori, di far partire la ripresa nel momento esatto in cui l’attore ha trovato il tono giusto. Questo naturalmente varia da attore ad attore: alcuni rendono bene alla prima ripresa, per altri sono necessari quattro o cinque tentativi.

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llo stesso tempo un buon direttore della fotografia deve avere delle proprie idee riguardo allo stile e alla composizione. Idee, naturalmente, che devono accordarsi alle mie. Un direttore della fotografia — il mio direttore della fotografia — non può essere soltanto uno che fa partire la macchina. Non mi piace

Černý Petr / L'asso di picche, 1963

Lezioni occasionali

er principio, uso più di una macchina da presa solo quando c’è molta azione o nelle scene di gruppo. E anche in quel caso mi concentro su una sola camera, usando le altre per le “riprese di sicurezza”. Il risultato di queste lo vedo soltanto al momento della proiezione dei giornalieri. È stato così che abbiamo girato il party dei genitori e l’iniziazione alla marijuana e le scene dei provini in Taking Off. In sequenze del genere più camere usi, più punti di vista hai. L’esperienza che ho fatto nel filmare il decathlon mi ha solo confermato questa idea. Mi ha insegnato a fidarmi degli operatori in quelle situazioni. [ndt: il riferimento è al cortometraggio Il decathlon contenuto nel film Ciò che l’occhio non vede (Visions of Eight), 1973]

L’attore è abituato a essere osservato da un certo punto di vista, se viene guardato da più direzioni, diventa nervoso. In un buon attore questa cosa può essere soltanto inconscia, ma ha comunque degli effetti e non ho mai nemmeno provato a usare due macchine da presa quando giravo scene intime con attori non professionisti.

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quel tipo di rapporto in cui uno mette da parte i propri ideali e cerca solo di fare del suo meglio per compiacermi; smette di pensare e fa soltanto quel che gli dico di fare. D’altro canto non puoi metterti a discutere di estetica mentre giri un film e ci sono momenti in cui ci vuole un’assoluta armonia tra un direttore della fotografia e un regista.

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n questo senso Miroslav (Mirek) Ondříček è perfetto. Ha un suo sguardo, ha le proprie opinioni, eppure cerca sempre di armonizzarle con le mie. C’è perfino una certa tensione tra noi nel momento in cui cominciamo a lavorare.

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Lezioni occasionali

e uno comincia a fare esperimenti o a giocare con la macchina da presa c’è il rischio che l’attore finisca per stancarsi e che si blocchi. Per questo c’è bisogno di fare dei compromessi. Non tutti i direttori della fotografia, però, sono abbastanza “duttili” da saper fare questi compromessi nel proprio lavoro.

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er esempio la sequenza dello strip poker in Taking Off è stata una di quelle sequenze lunghe e complicate da girare. Quando, dopo due o tre riprese, gli attori presero il tono giusto, continuammo semplicemente a fare delle lunghe inquadrature che non avevamo preparato in precedenza. Ondříček si mise dietro alla camera e riprese dei totali che non avevamo mai provato prima. Con questo non volevamo cambiare lo stile del film, quindi quelle inquadrature non dovevano avere un sapore documentario. Quando si mise alla camera, sapevo che era nervoso come un bambino delle scuole elementari. Ma fece un lavoro fantastico.

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n’altra cosa che mi piace è che il direttore della fotografia sia anche operatore alla macchina. Non mi piace che quello che guarda in camera sia responsabile agli occhi di qualcun altro per quel che vede. Non voglio che sia qualcuno che non sa o non capisce chi seguire con l’obbiettivo quando uno degli attori esce di campo e che ha paura di prendere decisioni. Non critico nessuno e non ce l’ho con lui. Ma è meglio avere dietro la macchina da presa un uomo che fa sì che il suo sguardo sia guidato dalle necessità dell’azione. È un grande vantaggio se chi sta dietro la macchina ha questa abilità.

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l momento di usare una macchina da presa, così come quando dirigi un attore, ci sono un mucchio di cose che devono essere gestite con sensibilità, situazioni che richiedono dell’intuizione. C’è una sequenza in Taking Off in cui Buck Henry vaga per l’East Village alla ricerca della figlia. Io pensavo che avremmo potuto usare uno stile documentaristico. Così ci siamo messi a girare come se fossimo dei documentaristi. Nessuna di quelle sequenze che abbiamo girato così è rimasta nella versione finale. Fortunatamente Mirek aveva già capito mentre giravamo che eravamo su una pista sbagliata. Me ne parlò e cominciammo a discuterne, finché non l’ebbe vinta lui. Restammo d’accordo che avrebbe potuto girare delle altre inquadrature nello stile che secondo lui era più giusto. Alla fine, per quella sequenza, usammo solo le sue riprese.

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n’altra cosa positiva di Mirek Ondříček è che lui sa, quanto lo so io, che non si va da nessuna parte se non si preparano le cose accuratamente in anticipo. È ridicolo sperare che il genio della lampada compaia sul set e ti risolva i problemi. Per esempio l’appartamento sulla 72a, in cui dovevamo girare la scena della marijuana in Taking Off, venne trovato solo all’ultimo istante. Nella fretta del momento e con tutte le cose da fare, spiegai in poche parole all’attrezzista e allo scenografo di cosa avevamo bisogno. L’interno non era l’ideale e quindi avevamo deciso assieme di farlo assomigliare a una galleria d’arte, con quadri americani di fine secolo. Ma Ondříček non si sentiva tranquillo e così, la sera prima del giorno in cui era prevista quella scena, andò nell’appartamento per dare un’occhiata. Ne tornò disperato. Avevano preso, da un’agenzia di noleggio, le peggiori porcherie immaginabili e ora quei quadri stavano lì appesi alle pareti. Quando arrivai anch’io scoprii che, tecnicamente, lo scenografo e l’attrezzista avevano fatto quel che io avevo chiesto loro, ma nello scegliere i quadri non li avevano guardati con l’occhio di chi conosce lo stile del film. Il mattino dopo di buon’ora Ondříček e io facemmo un giro di gallerie e trovammo un mucchio di quadri fantastici. (È stato grazie a lui che a quel punto mi resi conto che la pittura americana dell’Ottocento è eccellente).

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Colore

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rmai faccio fatica a immaginare un film in bianco e nero. Ma forse se girassi in bianco e nero, varrebbe esattamente l’opposto. La stessa cosa mi capita con i formati. Quando uscirono questi nuovi formati, da 1:1.65 fino a 1:2.55, la gente disse che erano uno stupro del formato classico, una prostituzione del cinema. A dir la verità, ho scoperto per esperienza che qualsiasi formato mi capiti di usare, dopo un po’ mi piace. E non importa se è diverso da quello che ho usato fino a ieri.

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colori fanno parte della realtà e il regista deve soltanto usarli secondo il proprio gusto estetico, cosi come qualsiasi altra cosa. Non sono un elemento che possa far cambiare sostanzialmente le tue idee o avere un’influenza esagerata su quel che vuol dire un film o su come viene realizzato. E comunque il colore esiste e bisogna tenerne conto e lasciarsi guidare da quello. Anche se non ha nessuna conseguenza sugli effetti drammatici o sulla struttura della storia.

Montaggio l montaggio è un momento essenziale della pratica cinematografica, così come la sceneggiatura, la recitazione, la ripresa: ognuno di questi ha il proprio ruolo. Questi sono gli elementi su cui si basa un film — anche se con questo non voglio sottostimare il resto, come il sonoro, le scenografie o i costumi. Ma questi ultimi sono meno importanti. Se uno sbaglia a fare il montaggio non è possibile correggerlo: le cose sono già andate troppo avanti per poter rimediare.

S Man on the Moon, 1999

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ono sempre stato contrario, fin dall’inizio, a quel sistema per cui il montatore, mentre il regista dirige il film, mette assieme il girato e gli dà una prima forma iniziale. Questo metodo non mi soddisfa perché delle volte cancella dalla mia memoria quel che avevo in testa originariamente per il montaggio di quella particolare scena.

Lezioni occasionali

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’è una regola che ho imparato dal signor Hájek, un montatore degli studi Barrandov, ed è incredibile come questa regola funzioni sempre. Ogni volta che iniziavo dicendo: «Be’, proviamo questo…» e poi cambiavo idea e provavo qualcos’altro ancora, lui mi diceva sempre: «Si può fare, ma non è stato girato per questo». In altre parole mi stava dicendo che il montaggio ha delle sue leggi implicite che dipendono dal modo in cui è stata girata una scena. E non puoi contravvenire a questa regola senza metterti nei guai. Quando sto girando ho sempre bene in mente il fatto che sto facendo quella particolare ripresa per uno scopo preciso.

Lezioni occasionali

A

volte faccio delle riprese senza un vero motivo, come “sicurezza”, in maniera tale che posso farne quel che voglio al montaggio. Le scene dei provini in Taking Off ne sono un esempio; non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori una volta montate. D’altra parte ci sono scene che sono state girate precisamente per essere montate in un certo modo. E in quei casi, quando ti trovi in sala di montaggio scopri, con tua grande sorpresa, che non c’è nessun altro modo per metterle assieme.

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aturalmente ci sono milioni di alternative tra questi due estremi. A seconda delle circostanze io lascio sempre una o due o quattro o anche dieci porte aperte a soluzioni diverse. Anche se non c’è modo di appuntarselo così da poterlo ricordare al momento in cui devi prendere la decisione finale. Ripeto, soltanto il regista sa che tipo di montaggio aveva in mente quando stava girando il film. Io verifico le mie idee sul montaggio al momento di visionare i giornalieri. Ma è soltanto più tardi, nella sala di montaggio che comincio a considerare tutte le possibili varianti. Ma qualunque tipo di variante e qualunque tipo di nuova idea deve armonizzarsi con la mia idea originale di come deve essere il film, anche se quell’idea a volte può essere stata minata dall’incertezza, anche se nel frattempo ho avuto un mucchio di dubbi e preoccupazioni. L’importante è restare fedeli all’idea originale perché è quella che inizialmente mi ha spinto a fare il film.

È

importante fare il montaggio in ordine cronologico. Uno dovrebbe partire dalla prima

inquadratura e andare avanti così, come quando leggi una poesia o un romanzo. Il montaggio che viene dopo è sempre influenzato dal tipo di montaggio che hai fatto prima.

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a un montatore non mi aspetto obbedienza passiva e conformismo. Voglio sentire le sue obiezioni e i suoi suggerimenti. Ma pretendo che non metta mano al film se non in mia presenza. Quando facciamo il montaggio io sono lì. Dalla mattina alla sera.

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on sono mai riuscito ad abituarmi alla Moviola verticale che usano in America. Così ancora prima di iniziare a girare Taking Off ho chiesto di prendere a noleggio una tavola di montaggio orizzontale. Alla fine ho avuto la soddisfazione di sentir dire a John Carter, il nostro montatore, che non avrebbe mai più lavorato in un altro modo. Non voleva più sentire neanche parlare di Moviola. [ndt: negli Stati Uniti, all’epoca, si usava ancora la classica Moviola verticale, per questo nella traduzione ho aggiunto i termini “verticale” e “orizzontale”, sennò non si capisce la differenza]

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questo è tutto. Non ho nessuna teoria chiara e semplice su come si girano i film. Non ho mai pensato troppo alla teoria. Ho sempre tagliato e messo assieme delle cose finché non ero contento del risultato.

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a c’è una cosa che ho fatto per la prima volta in America e che probabilmente continuerò a fare. Ancora in fase di montaggio, abbiamo fatto circa cinque proiezioni di prova con un pubblico normale e questo ci è stato di grande aiuto. Avere le reazioni del pubblico è l’unico modo per prendere una boccata d’aria, per così dire, e sentire se c’è qualcosa che non va o anche se c’è qualcosa che va bene. È una cosa delicata, naturalmente, e uno non deve farsi prendere dal panico. Una sola proiezione non vuol dire niente, devono essere almeno tre o quattro. La gente reagisce in maniera diversa, ma c’è sempre stato un certo accordo generale ogni volta che avevo fatto qualcosa di particolarmente stupido o al contrario se avevo fatto la cosa giusta e il ritmo era quello giusto.

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opo due mesi in sala di montaggio Taking Off durava ancora 104 minuti. Ero in un vicolo cieco. Ogni secondo del film mi sembrava importante o semplicemente troppo bello per essere scartato. Poi arrivarono le pre-proiezioni (uno non deve invitare né parenti, né amici, solo persone che non siano coinvolte direttamente nella produzione).

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ll’improvviso smisi di essere così innamorato dei miei materiali e mi resi conto che dentro c’erano un mucchio di stronzate (questa è l’unica cosa che ti dà la forza di prendere di nuovo in mano le forbici e ricominciare a tagliare). Alla fine lo portammo a 93 minuti. E sono stato contento del risultato.

Politica e cinema

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avvero, lo giuro — e giuro che sono sincero — non associo mai ai miei film una qualunque implicazione politica. Non ha importanza se, mentre scrivo una sceneggiatura, trovo un qualche significato politico o sociale. Se c’è, va bene, non m’importa. Ma di certo non lo infilo a forza dentro un film. Le valenze politiche e sociali sono solo un aspetto della nostra vita. E non mi sprincipio giusto per trovare dei materiali che si adattino a queste.

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accio fatica a parlare di musica forse perché non ho ancora mai avuto con un compositore lo stesso tipo di rapporto che ho avuto con Mirek Ondříček, Ivan Passer o Jarda Papoušek. In genere preferisco usare musica che conosco già e che mi piaccia. Come fa un compositore a produrre un capolavoro su commissione? Ma se pensiamo alle canzoncine che le ragazze hanno composto per Taking Off o allo Stabat Mater di Dvořák — uno dei brani musicali più belli del mondo — so che non mi posso sbagliare.

ppure se consideriamo l’impressione che un film fa sullo spettatore, la musica è tanto importante quanto tutti gli altri fattori. Non so perché. Forse è così: c’è un’immagine e c’è un sonoro. Un’immagine è fatta di migliaia di elementi e di movimenti che in sé non significano nulla. Tutto comincia ad avere senso quando questi elementi prendono forma attorno al destino di un personaggio, cosa che lo spettatore può seguire nella sua evoluzione. Anche il sonoro è fatto di migliaia di suoni, dialoghi e sussurri.

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a musica, d’altra parte, può essere considerata come la filosofia del sonoro, molto più profonda di un dialogo che non è mai altro che un modo per fornire informazioni sulla trama o sui personaggi.

International Film Festival

’altra parte, devo confessare di essere sempre colpito dalle storie di persone che sono state messe in crisi o in una situazione drammatica per il fatto di essere impotenti. E il tipo più crudele di questa impotenza, quello che maggiormente produce empatia, è l’impotenza dell’individuo rispetto al Sistema. Forse è in questo che consiste il messaggio sociale di un film. E che a quel punto permette di avanzare interpretazioni politiche, immagino.

na piccola nazione come la Cecoslovacchia che nel corso degli anni è stata minacciata da potenti Stati confinanti, non ha modo di sopravvivere se non facendosi furba, facendo finta di niente e non perdendo il senso dell’umorismo. Non ho mai finito di leggere Il buon soldato Sc’vèik, ma fin dove sono arrivato m’è piaciuto. È il giusto tributo al nostro spirito nazionale. Reinhardt Heydrick, il Reichsprotektor di Hitler, una volta l’ha sintetizzato così, in una riunione segreta con i membri della Gestapo a Praga: «Nazioni come la Polonia, la Yugoslavia o la Russia non sono pericolose quanto la Cecoslovacchia, perché puoi schiacciarle con la forza. Ma non la Cecoslovacchia. I cecoslovacchi si piegano. E aspettano… E non appena ti rilassi, ti colpiscono…». Magari anche soltanto con una battuta.

Lezioni occasionali

Musica

aturalmente se riesco a fare un film totalmente onesto, questo non può fare a meno di avere un determinato significato politico e sociale, qualunque sia l’argomento del film.

Filmografia di Miloš Forman

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Hoří, má panenko! Al fuoco, pompieri! 1967

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a cura di Arturo Invernici

Filmografia di Miloš Forman

Regie

Konkurs (t.l.: Il concorso) Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Ivan Passer (episodio Kdyby ty muziky nebyly), Thomas Kulik (episodio Audition). Soggetto e sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer. Fotografia (bianco e nero): Miroslav Ondříček. Montaggio: Miroslav Hájek. Musica: Jiří Šlitr. Suono: Adolf Böhm (episodio Kdyby ty muziky nebyly), Josef Vlček (episodio Audition). Interpreti: episodio Kdyby ty muziky nebyly: Jan Vostrčil (il direttore della banda di ottoni Kmoch), Vladimír Zeman (il direttore della banda di ottoni dei Pompieri), Vladimír Pucholt (Vlada), Václav Blumenfeld (Vašek Blumental); episodio Audition: Markéta Krotká (la pedicure), Ladislav Jakim (l’amico della pedicure), Jiří Šuchý, Jiří Šlitr, Věra Křesadlová, Petr Brožek, Karel Mareš, Vladislav Hrabanek, Jiří Planner (loro stessi). Produzione: Filmové

International Film Festival

Studio Barrandov. Distribuzione: Ústřední Půjčovna Filmů (Cecoslovacchia). Durata: 80’. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Praga, 28 febbraio 1964. Documentario in due parti. Il primo episodio, Kdyby ty muziky nebyly (Se non ci fossero quelle bande musicali), ci porta alle prove di un’orchestra di fiati paesana. Un direttore autoritario conduce una banda di musicisti amatoriali. Tra loro c’è il giovane e timido trombonista Vlada, che si inventa un piano per evitare di partecipare a un prestigioso festival d’ottoni, dove la sua banda dovrebbe esibirsi, ma che si tiene lo stesso giorno in cui Vlada vorrebbe guardarsi una gara di motociclismo. Il secondo episodio, Audition, segue lo svolgersi di un concorso per la posizione di cantante indetto dal famoso teatro praghese Semafor. Si presentano numerose ragazze adolescenti più o meno talentuose, timide ma anche audaci. Al microfono si alternano giovani belle, brutte, pretenziose e impacciate, tra cui anche la cantante Věra Křesadlová.

Filmografia di Miloš Forman

1963

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1963

Filmografia di Miloš Forman

Černý Petr L’asso di picche Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Ivan Passer. Soggetto: da un racconto di Jaroslav Papoušek. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jaroslav Papoušek. Fotografia (bianco e nero): Jan Němeček. Montaggio: Miroslav Hájek. Musica: Jiří Šlitr. Scenografia: Karel Černý. Costumi: Barbora Adolfová. Suono: Adolf Böhm. Interpreti: Ladislav Jakim (Petr), Pavla Martínková (Aša), Jan Vostrčil (il padre di Petr), Božena Matušková (la madre di Petr), Vladimír Pucholt (Čenda), Pavel Sedláček (Lada), Zdeněk Kulhánek (Kudrnáček), Jaroslav Bendl (Mara), František Kosina (il direttore del negozio), Josef Koza (il capomastro), Antonín Pokorný (il ladro), Jaroslav Kladrubský (il magazziniere), Františka Skálová (la cliente), Majka Gillarová (l’amica di Asa), František Pražák (l’amico di Sako), Jaroslava Rážova, Dana Urbánková (le bambine), Zuzana Oprsalova. Produzione: Rudolf Hájek per Filmové Studio Barrandov/ CBK/Sebor. Distribuzione: Ústřední Půjčovna Filmů (Cecoslovacchia), Zebra Film (Italia). Durata: 86’. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Praga, 17 aprile 1964.

Regie

Petr vivacchia in una piccola cittadina, cercando di svicolare il più possibile dalla famiglia, con un padre che insiste perché metta la testa a posto e una madre possessiva. Le sue principali occupazioni si limitano alla frequentazione degli amici e alla corte alle ragazze. Non preoccupandosi granché del suo futuro, viene spinto dal padre a impiegarsi in un supermercato della zona. Petr spera di essere ammesso almeno al ruolo di venditore; lo assegnano invece alla sorveglianza della clientela e alla prevenzione dei furti. Unico maschio in mezzo a tante ragazze, e tutte di lingua tagliente, Petr si dimostra subito maldestro e

inefficace nello svolgimento dei suoi compiti. Un giorno, sospettando che un cliente abbia rubato un articolo, lo insegue per le vie della città, prima di decidere che non vale più la pena di tornare al negozio. Preferisce andare a nuotare con due apprendisti muratori, che peraltro non lo stimano granché. Conosce una ragazza della sua età, la corteggia senza successo. Poi, a una festa, si prende una bella sbronza. Dopo tutti questi fallimenti, suo padre lo incoraggia a intraprendere un altro mestiere, quello di muratore. Chissà che Petr trovi finalmente la sua strada, e magari un giorno si ritrovi a fare il capomastro.

1965 Lásky jedné plavovlásky Gli amori di una bionda Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Ivan Passer. Soggetto: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek. Sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek, Václav Šašek. Fotografia (bianco e nero): Miroslav Ondříček. Montaggio: Miroslav Hájek. Musica: Evzen Illín. Scenografia: Karel Černý. Costumi: Zdena Snajdarová. Suono: Adolf Böhm. Interpreti: Hana Brejchová (Andula), Vladimír Pucholt (Milda), Vladimír Menšík (Vacovský), Ivan Kheil (Maňas), Jiří Hrubý (Burda), Milada Ježková (la madre), Josef Šebánek (il padre), Josef Kolb (Pokorný), Marie Salačová (Marie), Jana Nováková (Jana), Jarka Crkalová (Jaruška), Zdena Lorencová (Zdena), Táňa Zelincová (la ragazza con la chitarra), Jan Vostrčil (il colonnello), Antonín Blažejovský (Tonda), M. Zedníčková (l’istitutrice). Produzione: Doro Vlado Hrelijanović, Rudolf Hájek per Filmové Studio Barrandov/CBK/ Sebor. Distribuzione: Filmové Studio Barrandov (Cecoslovacchia), Zebra Film (Italia). Durata: 85’. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Biennale di Venezia, 26 agosto 1965.

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Dobře placená procházka (tv) (t.l.: Una passeggiata ben pagata) Regia e sceneggiatura: Miloš Forman, Jan Rohac. Aiuto regia: Pavel Horák. Soggetto: dall’opera jazz omonima di Jiří Šlitr e Jiří Suchý. Fotografia (bianco e nero):

International Film Festival

Uli e Vanilka sono una coppia in procinto di divorziare. Quando le pratiche stanno ormai per giungere in porto, arriva la notizia che una zia di Liverpool ha deciso di donar loro un milione di sterline, a beneficio del figlio che la coppia metterà al mondo, a patto che Uli e Vanilka continuino a rimanere uniti e vivano in armonia. La tentazione di restare insieme, sia pure formalmente, è forte, ma il malloppo comincia a fare gola anche ai loro avvocati divorzisti.

1967 Hoří, má panenko! Al fuoco, pompieri! Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Jaroslav Papoušek. Sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek. Fotografia (Eastmancolor): Miroslav Ondříček. Montaggio: Miroslav Hájek. Musica: Karel Mareš. Scenografia: Karel Černý. Costumi: Zdena Snajdarová. Suono: Adolf Böhm. Interpreti: Jan Vostrčil (il capo del comitato), Josef Kolb (Josef), Jan Stöckl (il capo dei pompieri in pensione), Stanislav Holubec (Karel), Josef Kutálek (Ludva), Antonín Blazejovský (Standa), Milada Ježková (la moglie di Josef), Hana Hanusová (Jarka), František Svět (l’uomo anziano), Stanislav Ditrich (il cameriere), Hana Kuberová (la donna ubriaca), Alena Květová, Anna Liepoldová, Miluse Zelená, Marie Slovova (le partecipanti al concorso di bellezza), František

Filmografia di Miloš Forman

1966

Jaroslav Kučera. Montaggio: Karel Kohout. Musica: Jiří Šlitr. Scenografia: František Zajíček. Costumi: Marie Doležalová, Bela Novotná. Suono: Adolf Böhn. Interpreti: René Gabzdyl (Uli), Eva Pilarová (Vanilka), Hana Hegerová (la zia di Liverpool), Vladimír Hrabánek (l’uomo con la valigia), Jiří Šlitr (l’avvocato), Jiří Suchý (il postino). Produzione: Televizní Filmová Tvorba. Distribuzione: Československá Televize (Cecoslovacchia). Durata: 73’. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Praga, 3 giugno 1967.

Regie

In un piccolo centro industriale della Cecoslovacchia, oltre duemila ragazze lavorano in una fabbrica di scarpe. In questa grigia cittadina di provincia le ore di tempo libero trascorrono vuote e noiose. Con un rapporto di sedici donne per ogni uomo, le ragazze sognano l’arrivo del Principe azzurro. Preoccupato per il loro stato d’animo, non foss’altro perché alla lunga il malumore delle ragazze rischia di influire negativamente sul rendimento in fabbrica, il caporeparto chiede alle autorità militari di trasferire nei paraggi almeno un contingente. Non avendo però la zona alcuna importanza strategica, si ripiega sull’invio di alcuni tranquilli riservisti quarantenni. Per le ragazze, dunque, non c’è da stare allegre, tranne che per Andula, che viene fatta oggetto delle premure di Milda, un giovane pianista di passaggio, a quanto pare l’unico maschio nei paraggi al di sotto dei trent’anni. La ragazza cede alle sue lusinghe, si beve le sue bugie e prende alla lettera la frase buttata lì, prima di partire: «Vieni a trovarmi a Praga». Andula si reca allora nella Capitale e, a sera inoltrata, si presenta a casa di Milda. Questi è via, ma Andula viene accolta dai genitori. Se la madre del giovane finisce per rimproverarla, il padre non se la sente di lasciarla in giro per la città in piena notte, per cui le offre ospitalità. Milda torna tardissimo, probabilmente dopo esser stato in giro a fare il dongiovanni con altre ragazze e, quando la vede, nega di averla mai invitata. Andula, che ha sentito tutto, ci rimane male, poi se ne va con discrezione. Tornata in fabbrica, alle sue colleghe racconta che è andato tutto bene.

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Regie

Filmografia di Miloš Forman

Debelka, Josef Šebánek, Karel Valnoha, Josef Rehorek, Josef Valnoha, Vratislav Cermák, Václav Novotný, František Reinstein, František Paska, Ladislav Adam (i membri del comitato), Jiří Líbal, Jarmila Kucharová, Vlastimila Vlková. Produzione: Rudolf Hájek per Filmové Studio Barrandov/Carlo Ponti Cinematografica. Distribuzione: Ústřední Půjčovna Filmů (Cecoslovacchia), Mondadori (Italia, video). Durata: 73’. Origine: Cecoslovacchia/Italia. Prima: Vrchlabi (Cecoslovacchia), 15 dicembre 1967. L’ex capo dei pompieri di un minuscolo villaggio di campagna decide di dare una gran festa per il suo ottantaseiesimo compleanno, aperta a tutti gli abitanti nonché ai vigili del fuoco in servizio: ci saranno un ballo, una lotteria e un concorso di bellezza riservato alle ragazze del paese. L’organizzazione dell’evento, però, comincia subito a complicarsi. Dopo una serie di episodi assurdi, anche il concorso di bellezza si risolve in un vero e proprio fiasco. Le madri delle ragazze, tutte bruttine o mediocri, assumono il controllo della situazione e fanno pressione sul comitato del ballo; i padri si disinteressano della cosa e bevono; le ragazze infine scappano perché si vergognano e non vogliono mettersi in mostra. Nel bel mezzo del caos generale, quando i membri del comitato stanno rincorrendo le ragazze scelte per la sfilata, scoppia un incendio in paese. I pompieri, ubriachi, non riescono a tirare fuori la pompa dalla neve. I partecipanti alla festa si danno da fare per mettere in salvo le cose più preziose e cercano di spegnere il fuoco con la neve, ma invano. L’oste raggiunge i clienti fuggiti dalla sala e cerca di raccogliere i soldi che gli sono dovuti. Si fa dare il tavolo salvato dalla casa in fiamme e imbastisce un banco improvvisato per il rinfresco dei compaesani che ancora lottano con lil fuoco, mentre alcune contadine si preoccupano della salute dell’anziano che ha appena perso la casa. Alla fine tutti tornano nella sala da ballo e riprendono il divertimento. Nel frattempo, i premi della lotteria sono spariti.

1971 Taking Off id. Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Phillip M. Goldfarb. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jean-Claude Carrière, John Guare, John Klein. Fotografia (Movielab Color): Miroslav Ondříček. Montaggio: John Carter. Musica: Mike Heron. Scenografia: Robert Wightman (art direction). Costumi: Peggy Farrell. Suono: Stanford Rackow. Interpreti: Lynn Carlin (Lynn Tyne), Buck Henry (Larry Tyne), Georgia Engel (Margot), Tony Harvey (Tony), Audra Lindley (Ann Lockston), Paul Benedict (Ben Lockston), Vincent Schiavelli (il signor Schiavelli), David Gittler (Jamie), Linnea Heackock (Jeannie Tyne), Rae Allen (la signora Divito), Phillip Bruns (il poliziotto), Gail Busman (Nancy Lockston), Corinna Cristobal (Corinna Divito), Barry Del Rae (Schuyler), Robert Dryden (il dottor Bronson), Allen Garfield (Norman), Anna Gyory (Ellen Lubar), Jack Hausman (il dottor Bob Besch), Carrie Kotkin (Laurie), Frank Berle, Madeline Geffen (i tutori), Kathy Bates (una cantante all’audizione), Ike Turner, Tina Turner, Jessica Harper (loro stessi). Produzione: Alfred W. Crown per Forman Productions/Crown-Hausman. Distribuzione: Universal Pictures (USA), Cinema International Corporation (Italia). Durata: 89’. Origine: USA. Prima: New York, 28 marzo 1971. Preoccupati per l’assenza della figlia Jeannie, che da qualche giorno non dà più notizie di sé, i coniugi Larry e Lynn Tyne chiedono conforto agli amici Tony e Margot. Dopo averne denunciata la scomparsa, e dopo averla cercata invano, Larry e Tony finiscono in un bar a ubriacarsi. Jeannie, che è stata a un incontro hippie, torna a casa ma, esasperata dai pressanti interrogatori dei genitori, prende di nuovo il volo. Larry e Lynn riprendono quindi le ricerche che, in base alle segnalazioni della polizia,

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Nedostaje mi Sonja Henie/ I Miss Sonja Henje (t.l.: Mi manca Sonja Henje)

Johnny è un veterano di guerra senza braccia, sfigurato, sordo e quasi cieco. Alla moglie di Johnny, il medico che l’ha in cura dice che ormai esiste una sola possibilità perché il poveretto possa comunicare con il mondo esterno: chiede a un’infermiera e alla moglie di fare un piccolo spogliarello a beneficio del paziente cosicché, eccitandosi, questo possa scrivere con una matita legata al suo pene. Il messaggio lasciato è: «I miss Sonja Henie».

1973 The Decathlon Il decathlon ep. di Visions of Eight (Ciò che l’occhio non vede) Regia e sceneggiatura: Miloš Forman. Fotografia (Technicolor): Jörgen Persson. Montaggio: Lars Hagstrom. Musica: Henry Mancini. Suono: Rene Borisewitz, Tetsua Ôhashi. Produzione:

International Film Festival

Parte di un documentario a più mani, girato durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 e dedicato alla memoria degli atleti israeliani morti nell’attacco terroristico. Il brano di Forman segue la gara di decathlon, una delle discipline più prestigiose e faticose. I decathlonisti sono, gara dopo gara, sempre più stanchi, e alla fine arrivano vicini al collasso fisico.

1975 One Flew Over the Cuckoo’s Nest Qualcuno volò sul nido del cuculo Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Irby Smith. Soggetto: dal romanzo omonimo di Ken Kesey e dalla sua versione teatrale di Dale Wasserman. Sceneggiatura: Lawrence Hauben, Bo Goldman. Fotografia (Technicolor): Haskell Wexler. Montaggio: Sheldon Kahn, Lynzee Klingman. Musica: Jack Nitzsche. Scenografia: Paul Sylbert (art direction: Edwin O’Donovan). Costumi: Aggie Guerard Rodgers. Suono: Lawrence Jost, Pat Jackson, Mary McGlone, Robert R. Rutledge, Veronica Selver. Interpreti: Jack Nicholson (R.P. McMurphy), Louise Fletcher (l’infermiera Mildred Ratched), William Redfield (Harding), Michael Berryman (Ellis), Peter Brocco (il colonnello Matterson), Danny DeVito (Martini), Christopher Lloyd (Taber), Vincent Schiavelli (Fredrickson), Will Sampson (Capo Bromden), Brad Dourif (Billy Bibbit), Scatman Crothers (Turkle),

Filmografia di Miloš Forman

Regia e sceneggiatura: Miloš Forman, Buck Henry. Interpreti: Miloš Forman (Johnny), Buck Henry (il medico). Produzione: Karpo Godina per Neoplanta Film. Durata: 3’. Origine: Yugoslavia. Prima: Belgrado, 1972.

Stan Margulies, David L. Wolper per Wolper Productions/Bavaria Atelier. Distribuzione: Universal Pictures (USA), Cinema International Corporation (Italia). Distribuzione: Cinema 5 Distributing (USA), 20th Century Fox (Italia). Durata: 16’. Origine: USA/ Repubblica Federale Tedesca. Prima: New York, 10 agosto 1973.

Regie

li conducono in posti diversi. Di ritorno in città dopo un giro estenuante, Larry e Lynn vengono a sapere di una “Società Genitori Figli in Fuga”, che raccoglie persone nelle loro stesse condizione e promuove l’uso della marijuana per meglio capire i comportamenti dei figli. Larry e Lynn invitano altre coppie a casa loro per una “festicciola”. Jeannie, tornata nuovamente a casa, sorprende i genitori sotto gli effetti dell’erba, e trova il modo di volgere a proprio vantaggio la situazione.

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Regie

Filmografia di Miloš Forman

Dean R. Brooks (il dottor Spivey), Alonzo Brown (Miller), Mwako Cumbuka (Warren), William Duell (Sefelt), Josip Elic (Bancini), Lan Fendors (l’infermiera Itsu), Nathan George (Washington), Ken Kenny (Beans Garfield), Sydney Lassick (Cheswick), Kay Lee (l’infermiera di notte), Dwight Marfield (Ellsworth), Ted Markland (Hap Arlich), Louisa Moritz (Rose), Phil Roth (Wolsey), Mimi Sarkisian (l’infermiera Pilbow), Marya Small (Candy), Delos V. Smith jr. (Scanion), Tin Welch (Ruckley), Mel Lambert (il marinaio), Aurore Clément (la donna sul pontile), Saul Zanetz (il capitano sulla riva), Anjelica Huston (una donna nella folla). Produzione: Saul Zaentz, Michael Douglas per Fantasy Films. Distribuzione: United Artists (USA/Italia). Durata: 129’. Origine: USA. Prima: New York e Los Angeles, 19 novembre 1975. Di finire in galera, R.P. McMurphy non ne ha proprio voglia. Condannato per reati di violenza, preferisce farsi passare per matto e finire in un istituto psichiatrico. Il reparto della struttura in cui viene mandato, l’Ospedale Psichiatrico di Stato di Salem, nell’Oregon, è retto con pugno di ferro dalla capo infermiera Mildred Ratched, che impone a tutti i ricoverati una rigidissima disciplina. McMurphy, però, non si fa intimidire. Si fa beffe delle sedute di terapia di gruppo, improvvisa la radiocronaca di immaginarie partite di baseball, organizza con gli altri pazienti una squadra di basket e li porta pure a fare una gita in barca, ovviamente non autorizzata. Tutti gradiscono questa nuova aria, la Ratched molto meno. McMurphy viene sottoposto a un elettroshock, ma poi continua per la sua strada. Quando viene a sapere che, allo scadere dei sessantotto giorni di detenzione a cui è stato condannato dal tribunale, non verrà rilasciato dalla clinica, McMurphy decide di evadere. Organizza un piano con Bromden, un monumentale nativo americano che si finge sordomuto e con il quale ha stretto amicizia, per raggiungere il Canada. Stabilito il giorno, organizza una specie di “festa d’addio”,

per la quale riesce a fare arrivare anche due prostitute. Si prende però una sbronza così forte da non riuscire a svegliarsi e andarsene via. La mattina dopo, una stupefatta e indignata Ratched provvede a rimettere le cose a posto. Scopre che Billy, un giovane oppresso dalla figura materna, si è addormentato assieme alle due prostitute. A seguito della minaccia di farlo sapere a sua madre, Billy si suicida. McMurphy, furioso per la morte del giovane, salta la collo della Ratched. Bromden, l’indiano sfonda una finestra con un enorme lavabo e si mette a correre, libero, verso il Canada.

1979 Hair id. Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Michael Hausman. Soggetto: dal musical Hair: the American Tribal Love-Rock Musical, libretto di Gerome Ragni e James Rado, musica di Galt MacDermot. Sceneggiatura: Michael Weller. Fotografia (Technicolor, Panavision): Miroslav Ondříček, Richard C. Kratina, Gene Talvin. Montaggio: Alan Hein, Stanley Warnow, Lunzee Klingman. Musica: Galt MacDermot. Coreografia: Twyla Tharp. Scenografia: Stuart Wurtzel. Costumi: Ann Roth. Suono: Milton C. Burrow, Gordon Davidson, Edward L. Sandlin, William A. Sawyer. Interpreti: John Savage (Claude Hooper Bukowski), Treat Williams (George Berger), Beverly D’Angelo (Sheila Franklin), Annie Golden (Jeannie Ryan), Dorsey Wright (LaFayette “Hud” Johnson), Cheryl Barnes (la fidanzata di Hud), Don Dacus (Woof Daschund), Nell Carter (la cantante in Central Park), Richard Bright (Fenton), Miles Chapin (Steve Franklin), Charlotte Rae (la signora in rosa), Nicholas Ray (il generale), Michael Jeter (Woodrow Sheldon), Fern Tailer (la madre di Sheila), Charles Denny (il padre di Sheila), Herman Meckler (lo zio di Sheila), Agness Breen (la zia di Sheila), Antonia Rey (la madre di George), George J. Manos (il padre di George), Linda Surh

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International Film Festival

Ragtime id. Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Michael Hausman. Soggetto: dal romanzo omonimo di Edgar Lawrence Doctorow. Sceneggiatura: Michael Weller, Bo Goldman [non accr.]. Fotografia (Technicolor): Miroslav Ondříček. Montaggio: Anne V. Coates, Antony Gibbs. Musica: Randy Newman. Scenografia: John Graysmark (art direction: John Dapper). Costumi: Anna Hill Johnstone. Suono: Greg P. Russell, Archie Ludski, Les Wiggins. Interpreti: James Cagney (il commissario della Polizia di New York Rhinelander Waldo), Mary Steenburger (Mamma), Elizabeth McGovern (Evelyn Nesbit), Brad Dourif (il Fratello minore di Mamma), Howard E. Rollins jr. (Coalhouse Walker jr.), James Olson (Papà), Mandy Patinkin (Tateh), Jeff Daniels (il sergente Frankie O’Donnell), Kenneth McMillan (Willie Conklin), Moses Gunn (Booker T. Washington), Norman Mailer (Stanford White), Pat O’Brien (Delphin Delmas), Robert Joy (Harry Kendall Thaw), Bessie Love (l’anziana signora), Donald O’Connor (l’insegnante di danza), Jeffrey DeMunn (Harry Houdini), Bruce Boa (Jerome), Hoolihand Burke (Brigit), Edwin Cooper (il Nonno), Fran Drescher (Mameh), Robert Boyd (il presidente Theodore “Teddy” Roosevelt), Donald Bisset (J.P. Morgan), Herman Meckler (Vernon Elliott), Jenny Nichols (la Bambina), Max Nichols (il Bambino), Ilana Rapp (la Sorella), Eloise Taylor (la signora Thaw), Don Plumley (l’ispettore McNeil), Norman Chancer (l’agente), Hal Galili (il capitano di polizia), Alan Gifford (il giudice), Richard Griffiths (l’assistente di Delmas), Michael Jeter (il reporter), Chaim Blatter (il rabbino), Sonny Abagnale (l’autista di Evelyn), Ron Weyand (il dottor Muller), Norris Mailer (la signora accompagnata da Stanford White), Frankie Faison, Samuel L. Jackson, Calvin Levels (i membri

Filmografia di Miloš Forman

Il giovane Claude Bukowski giunge a New York dal natio Oklahoma per unirsi ai Marines in partenza per il Vietnam. Durante una passeggiata in Central Park si imbatte in George Burger e nel suo gruppo di amici hippie: Jeannie, Woof e Lafayette. Dopo aver fatto amicizia con lui, cercano di convincerlo a cambiare idea e a non andare più in Vietnam; non riuscendovi, gli propongono di passare in loro compagnia il tempo che gli resta prima di indossare l’uniforme. Durante questi due giorni, Claude viene iniziato dai suoi nuovi amici a una vita di libertà assoluta, che comprende fra l’altro anche l’uso degli stupefacenti. Claude vorrebbe rivedere Sheila, una ragazza conosciuta al parco. Per aiutarlo a rintracciarla, George organizza un’allegra sortita a una festa dell’alta società a cui partecipa anche Sheila. L’improvvisata finisce però in rissa. Interviene la polizia e Claude, George e gli altri si ritrovano in carcere. Per pagare la cauzione, George si fa dare da Claude il poco che ha in tasca e recupera altri soldi per liberare gli amici dietro cauzione. Dopo una notte trascorsa fare il bagno in un laghetto, a litigare e riappacificarsi, Claude parte per il campo di addestramento. Sapendo quanto l’amico desideri rivedere Sheila prima di partire, George raggiunge la base insieme alla ragazza e al resto della compagnia proprio il giorno in cui arriva l’ordine di partenza. Sostituitosi a Claude per consentirgli di passare ancora qualche momento di intimità con Sheila, George si ritrova suo malgrado a salire con gli altri Marines sull’aereo per il Vietnam.

1981

Regie

(la ragazza vietnamita), Janet York (la psicologa della prigione), Rahsaan Curry (Lafayette jr.), Harry Gittleson (il giudice), Donald Alsdurf (l’agente della Polizia militare), Ren Woods (il cantante del brano Aquarius), Melba Moore, Ronnie Dyson (i cantanti del brano 3-5-0-0). Produzione: Michael Butler, Lester Persky per CIP Filmproduktion. Distribuzione: United Artists (USA/Italia). Durata: 121’. Origine: USA/Repubblica Federale Tedesca. Prima: New York, 14 marzo 1979.

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Regie

Filmografia di Miloš Forman

della gang), Jack Nicholson (l’attore che interpreta un pirata sulla spiaggia). Produzione: Dino De Laurentiis per Sunley Productions Ltd./Dino De Laurentiis Company. Distribuzione: Paramount Pictures (USA), Gaumont (Italia). Durata: 149’. Origine: USA. Prima: New York, 30 dicembre 1981. New York, primi anni del Ventesimo secolo. Il miliardario Harry Kendall Thaw, marito della bellissima Evelyn Nesbitt, uccide per gelosia l’architetto Stanford White, celebre progettista del Madison Square Garden ed ex amante della ragazza. Evelyn accetta di testimoniare a favore del marito, a cui viene riconosciuta l’infermità mentale. La giovane nel frattempo conosce Tateh, un immigrato ebreo che si guadagna da vivere ritagliando silhouettes, e diventa l’amante del Fratello minore di Mamma. Colta in flagranza di adulterio da due investigatori privati, Evelyn è costretta a firmare uno svantaggioso compromesso economico. Nel giardino della villa dei genitori viene rinvenuto un neonato afroamericano. Mamma lo accoglie in casa assieme alla madre Sarah. Qualche giorno più tardi si presenta il padre, disposto a riconoscere la creatura e a sposare la donna. Si chiama Coalhouse Walker jr., fa il pianista di ragtime, è ben vestito, possiede modi raffinati e guida una Ford Model T nuova fiammante. Si pensa già a preparare le nozze quando Coalhouse, alla guida della sua auto, rimane vittima di un grave episodio di razzismo da parte di alcuni pompieri bianchi. Non ottenendo giustizia, e dopo la morte di Sarah, uccisa per errore mentre cerca di perorare la sua causa, Coalhouse mette insieme una banda dove entra, unico bianco, il Fratello minore di Mamma. Papà e Mamma, in villeggiatura ad Atlantic City, fanno la conoscenza di Tateh, che ora, diventato regista cinematografico, si fa chiamare barone von Ashkenazy e sta girando sulla spiaggia un film di pirati la cui protagonista è Evelyn Nesbitt. Intanto, Coalhouse e i suoi seguaci si asserragliano all’interno della biblioteca privata del magnate J.P.

Morgan e chiedono che vengano loro consegnati l’infame capo dei pompieri e la Ford Model T rimessa a nuovo. Dopo alcuni negoziati con il capo della polizia Rhinelander Waldo, si giunge a un accordo: i seguaci di Coalhouse potranno fuggire sulla Ford riparata, e il loro capo si consegnerà alla polizia. Qualche tempo dopo, Harry Kendall Thaw esce dal manicomio, Houdini si fa appendere al pennone di un grattacielo legato con una camicia di forza e le prime pagine dei giornali annunciano che in Europa è scoppiata la guerra.

1984 Amadeus id. Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Michael Hausman. Soggetto: dalla commedia omonima di Peter Schaffer. Sceneggiatura: Peter Schaffer. Fotografia (Technicolor, Panavision): Miroslav Ondříček. Montaggio: Michael Chandler, Nena Danevic (director’s cut 2002: T.M. Christopher). Supervisione musiche: sir Neville Marriner. Scenografia: Patrizia von Brandenstein (art direction: Karel Černý). Costumi: Theodor Pištěk, Christian Thuri [non accr.]. Suono: Christopher Newman, B.J. Sears. Interpreti: F. Murray Abraham (Antonio Salieri), Tom Hulce (Wolfgang Amadeus Mozart), Elizabeth Berridge (Constanze Mozart), Roy Dotrice (Leopold Mozart), Simon Callow (Emanuel Schikaneder), Christine Ebersole (Katherina Cavalieri), Jeffrey Jones (l’imperatore Giuseppe II d’Austria), Charles Kay (il conte Orsini-Rosenberg), Kenny Baker (il Commendatore parodiato), Lisbeth Bartlett (Papagena), Barbara Bryne (frau Weber), Martin Cavani (Salieri da giovane), Roderick Cook (il conte Von Strack), Milan Demjanenko (Francesco Salieri), Richard Frank (padre Vogler), Patrick Hines (il kappelmeister Bonno), Nicholas Kepros (l’arcivescovo Colloredo), Philip Lenkowsky (il domestico di Salieri), Herman Meckler

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International Film Festival

1989 Valmont id. Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Olivier Horlait. Soggetto: dal romanzo Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Miloš Forman. Fotografia (colore, Panavision): Miroslav Ondříček. Montaggio: Nena Danevic, Alan Heim. Musica: Christopher Palmer. Scenografia: Pierre Guffroy (art direction: Loula Morin, Albert Rajau, Martina Skala). Costumi: Theodor Pištěk, Paule Mangenot, Carine Sarfati. Suono: Richard P. Cirincione, Bruce Kitzmeyer, Kevin Lee, Harry Peck Bolles, Mark Rathaus, Ahmad Shirazi. Interpreti: Colin Firth (il visconte di Valmont), Annette Bening (la marchesa di Merteuil), Meg

Filmografia di Miloš Forman

Vienna, novembre 1823. Dopo un tentativo di suicidio, Antonio Salieri, un tempo celebre compositore, confessa la sua storia a un giovane prete. Fin da ragazzo, Salieri consacra la propria vita alla musica. A Vienna, la capitale musicale dell’epoca, intraprende una brillante carriera che culmina con la carica di musicista di corte dell’imperatore Giuseppe II. Nel 1781, l’arrivo di Wolfgang Amadeus Mozart nella capitale austriaca incuriosisce Salieri, che rimane però sbalordito quando si rende conto che Mozart stesso, capace di sublimi composizioni, è anche una specie di moccioso sguaiato e libertino. Nel frattempo Amadeus persuade l’Imperatore a commissionargli un’opera cantata in tedesco, Il ratto dal serraglio, andando contro la moda allora imperante dell’opera all’italiana. Il doppio successo di Mozart, sulle scene con la sua composizione e nell’alcova con la

cantante Katherina Cavalieri, alla quale Salieri è legato da un sentimento platonico ma molto intenso, scatena la gelida avversione di quest’ultimo, che decide quindi di dedicare la propria esistenza alla distruzione, professionale e alla fine fisica, del rivale. Il parziale fiasco di Le nozze di Figaro, e la disapprovazione manifestata dal rigido padre Leopold per il matrimonio con Costanza assecondano le mire di Salieri, che vede il suo rivale assillato da sempre più pressanti problemi economici. La morte di Leopold precipita poi il figlio in un profondo senso di colpa, che prende corpo nella figura superegotica del Commendatore del Don Giovanni. Deciso a portare a termine il suo piano, Salieri, in incognito e vestito di nero, bussa alla porta di Amadeus e gli commissiona una urgente Messa da Requiem. Il superlavoro e gli stravizi prostrano ulteriormente la fibra del musicista. Mentre dirige la prima de II flauto magico, Mozart è vittima di un collasso. Dopo la morte del rivale, Salieri sarà costretto a sopravvivere a se stesso, assistendo al rapido oblio della propria musica e all’inarrestabile affermazione di quella di Mozart.

Regie

(il prete), Jonathan Moore (il barone Van Swieten), Cynthia Nixon (Lorl), Brian Pettifer (l’interno d’ospedale), Vincent Schiavelli (il valletto di Salieri), Douglas Seal (il conte Arco), Miroslav Sekera (Mozart da giovane). Voci: Il flauto magico: June Anderson (la Regina della notte); Gillian Fisher (Papagena), Brian Kay (Papageno); Don Giovanni: Richard Stilwell (Don Giovanni), John Tomlinson (il Commendatore), Willard White (Leporello); Le nozze di Figaro: Samuel Ramey (Figaro), Deborah Rees (Barbarina), Isobel Buchanan (Susanna), Anne Howells (Cherubino), Robin Leggate (don Curzio), Felicity Lott (la Contessa), Alexander Oliver (Basilio), Patricia Payne (Marcellina), Richard Stilwell (il conte Almaviva), John Tomlinson (il dottor Bartolo), Willard White (Antonio); Il ratto dal serraglio: Suzanne Murphy (Costanza); Axur: Suzanne Murphy (Katherina Cavalieri). Produzione: Saul Zaentz per The Saul Zaentz Company/AMLF. Distribuzione: Orion Pictures (USA), Warner Bros. (Italia). Durata: 158’ (1984), 180’ (director’s cut 2002). Origine: USA/Francia. Prima: Los Angeles, 6 settembre 1984 (director’s cut: Berlinale, 11 febbraio 2002).

Regie

Filmografia di Miloš Forman

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Tilly (madame De Tourvel), Fairuza Balk (Cécile De Volanges), Siân Phillips (madame De Volanges), Jeffrey Jones (Gercourt), Henry Thomas (il cavaliere di Danceny), Fabia Drake (madame De Rosemonde), T.P. McKenna (il Barone), Isla Blair (la Baronessa), Ian McNeice (Azolan), Aleta Mitchell (Victoire), Ronald Lancey (José), Vincent Schiavelli (Jean), Sandrine Dumas (Martine), Antony Carrick (monsieur De Tourvel), Richard De Burnchurch (il maggiordomo dei Volanges), Sébastien Floche (il prete), Murray Gronwall (il venditore al mercato delle pulci), Yvette Petit (la madre superiora), Jose Licenziato (il chitarrista cieco), Ivan Palec (il servitore), Eric Moreau (il mendicante), John Arnold, Nils Tavernier (i cavalieri dell’Ordine di Malta), Alain Frérot, Daniel Laloux, Christian Bouillette (i teppisti). Produzione: Michael Hausman, Paul Rassam per Renn Productions/Timothy Burrill Productions. Distribuzione: Orion Pictures (USA), Delta (Italia). Durata: 135’. Origine: USA/Francia. Prima: Los Angeles, 14 novembre 1989. Nella Francia di Luigi XV la marchesa di Merteuil, bella e spregiudicata, scopre che il suo amante attuale, il conte di Gercourt, presto sposerà la giovanissima Cécile De Volanges. Non volendo accettare questo scacco, chiede al suo amico e antico amante, il visconte di Valmont, di sedurre la ragazza in modo che non arrivi più illibata alle nozze. Valmont ha, però, tutt’altre mire: madame de Tourvel, donna sposata e fedele, eccita con la sua ritrosia l’animo dell’aristocratico libertino, e la seduzione di Cécile per Valmont non rappresenta altro che un’inutile perdita di tempo. La marchesa non si dà per vinta e sfida il visconte a sedurre entrambe le donne: la posta in gioco sarà lei stessa, per una notte. Nel frattempo tesse altre trame, “usando” il cavaliere di Danceny, il maestro di musica di Cécile, senza tuttavia ottenere granché: il giovane musicista, che idealizza l’amore come una comunione di spiriti eletti anziché un incontro di concupiscenze, è troppo

preso dall’arte e, di portarsi a letto Cécile, neanche ci pensa. Valmont, dopo aver sedotto Cécile, porta a termine l’impresa anche con madame de Tourvel, ma la Merteuil non accetta di pagare il suo debito. Abbandonato allo sconforto e alla disperazione, Valmont si batte a duello con Danceny, e accetta volontariamente di lasciarsi uccidere. Poco tempo dopo, Cécile sposa Gercourt, come predisposto, non senza però avere rivelato alla zia di Valmont di essere rimasta incinta del nipote. Danceny diventa un libertino, prendendo il posto lasciato vacante dal visconte.

1996 The People vs. Larry Flynt Larry Flynt — Oltre lo scandalo Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: David McGiffert. Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski. Fotografia (Technicolor, Panavision): Philippe Rousselot. Montaggio: Christopher Tellefsen. Musica: Thomas Newman. Scenografia: Patrizia von Brandenstein (art direction: Shawn Hausman, James Nedza). Costumi: Arianne Phillips, Theodor Pištěk. Suono: Stan Bochner. Interpreti: Woody Harrelson (Larry Flynt), Courtney Love (Althea Leasure Flynt), Edward Norton (Alan Isaacman), Brett Harrelson (Jimmy Flynt), Donna Hanover (Ruth Carter Stapleton), James Cromwell (Charles Keating), Crispin Glover (Arlo), Vincent Schiavelli (Chester), Miles Chapin (Miles), James Carville (Simon Leis), Richard Paul (il reverendo Jerry Falwell), Burt Neuborne (Roy Grutman), Jan Tříska (Joseph Paul Franklin), Cody Block (Larry a dieci anni), Ryan Post (Jimmy a otto anni), Nancy Lea Owen (Ma’ Flynt), John Fergus Ryan (Pa’ Flynt), Kacky Kane (Ma’ Flynt da giovane), John Ryan (Pa’ Flynt da giovane), Rainbeau Mars (Tovah), Oliver Reed (il governatore Rhodes), Chris Schadrack (Robert Stapleton),

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dei dolori lancinanti, sprofonda nella tossicodipendenza. Dopo un’operazione che gli allevia notevolmente i dolori, torna a lavorare, ma viene internato in un ospedale psichiatrico per oltraggio alla corte, a causa del suo rifiuto di rivelare la fonte di un videotape in suo possesso che denuncia l’incontro tra alcuni agenti dell’FBI e un trafficante di droga. Intanto, Althea scopre di essere affetta da AIDS. I guai non sono ancora finiti: «Hustler» viene citato per diffamazione da Jerry Falwell, un noto predicatore televisivo. Flynt è coinvolto in un processo che fa epoca.

Larry Flynt, con l’aiuto del fratello Jimmy, è proprietario di un locale notturno dove si esibiscono spogliarelliste mediocri, che all’occorrenza vengono fatte prostituire. Una di queste, la dirompente Althea Leasure, bisessuale e tossicodipendente, diventa la sua sposa. Larry pensa in grande: per propagandare la sua attività, diventa editore di una pubblicazione, «Hustler», dapprima un semplice catalogo delle “prestazioni” del night, poi una rivista vera e propria, con una sua linea editoriale che, a differenza della patinata «Playboy» e dell’aggressiva «Penthouse», si propone come molto più spinta. I benpensanti insorgono. Mentre gli affari prosperano, cominciano le prime grane giudiziarie e fioccano le condanne, nonostante la consulenza del giovane e bravo avvocato Isaacman. A seguito dell’incontro con Ruth Carter Stapleton, sorella del presidente Carter, Larry vive una parentesi religiosa, ma la rabbia dei suoi persecutori non si placa. All’uscita da un tribunale, in Georgia, Larry e Isaacman sono colpiti da un cecchino. L’avvocato se la cava relativamente bene, mentre Larry rimane paralizzato e costretto su una sedia a rotelle. Assieme ad Althea si trasferisce a Hollywood dove, a causa

Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: David McGiffert. Sceneggiatura: Scott Adam Boome, Lynzee Klingman, Christopher Tellefsen Alexander, Larry Karaszewski. Fotografia (colore, Panavision): Anastas N. Michos. Montaggio: Musica: R.E.M. Scenografia: Patrizia von Brandenstein (art direction: James F. Truesdale). Costumi: Jeffrey Kurland. Suono: Jamie Candiloro, Pat McCarthy, Ron Bochar. Interpreti: Jim Carrey (Andy Kaufman), Danny DeVito (George Shapiro), Courtney Love (Lynne Magulies), Paul Giammatti (Bob Zmuda), Vincent Schiavelli (Maynard Smith), Gerry Becker (Stanley Kaufman), Leslie Lyles (Janice Kaufman), George Shapiro (il signor Besserman), Melanie Vesey (Carol Kaufman), Michael Kelly (Michael Kaufman), Peter Bonerz (Ed Weinberger), Michael Villani (Merv Griffin), Bob Zmuda (Jack Burns), Reiko Aylesworth (Mimi), Pamela Abdy (Diane Barnett), Wendy Polland (la piccola Wendy), Tamara Bossett (Foxy Jackson), Bobby Boriello (Andy Kaufman da piccolo), Greyson Erik Pendry (Michael Kaufman da piccolo), Brittany Colonna (Carol Kaufman da piccola), Budd Friedman, Marilu Henner, Judd Hirsch, Howdy Doody, Carol Kane,

1999 Man on the Moon id. Filmografia di Miloš Forman

International Film Festival

Regie

Blaine Nashold (il dottor Bob), Michael Detroit (il procuratore DeLorean), Jim Grimshaw (il giudice William Rehnquist, Presidente della Corte Suprema), James Smith (il giudice Thurgood Marshall, della Corte Suprema), Rand Hopkins (il giudice Scalia, della Corte Suprema), Charles M. Crump (il giudice Stevens, della Corte Suprema), D’Army Bailey (il giudice Thomas Alva Mantke, della Corte di Los Angeles), Larry Flynt (il giudice Morrissey, della Corte di Cincinnati). Produzione: Michael Hausman, Oliver Stone, Janet Yang per Phoenix Pictures/Filmhaus/ Illusion Entertainment/Ixtlan/Columbia Pictures Corporation. Distribuzione: Columbia Pictures (USA), Columbia TriStar (Italia). Durata: 124’. Origine: USA. Prima: New York Film Festival, 13 ottobre 1996.

Regie

Filmografia di Miloš Forman

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Christopher Lloyd, Jerry Lawler, David Letterman, Lorne Michaels, Jim Ross, J. Alan Thomas (loro stessi). Produzione: Danny DeVito, Michael Shamberg, Stacey Sher per Jersey Films/Cinehaus. Distribuzione: Universal Pictures (USA), Warner Bros. (Italia). Durata: 114’. Origine: USA/Gran Bretagna/Germania/ Giappone. Prima: Los Angeles, 20 dicembre 1999.

quelle olistiche, Kaufman tenta senza alcun risultato un guaritore filippino. Un anno dopo la sua morte, in un locale tapezzato di ritratti dei più grandi comici fra i quali il suo, fa il suo ingresso, imprevisto e devastante come sempre, Tony Clifton.

Andy Kaufman fin da bambino coltiva la passione per l’improvvisazione comica. Divenuto adulto, si esibisce davanti a spettatori perplessi per la sua comicità assai poco in linea con i gusti correnti. Scoperto dal talent scout George Shapiro, Andy inizia una fortunata carriera che culmina con l’ingaggio nella sitcom Taxi. Poco convinto — non gli piace il genere, con le risate a comando — detta una serie di condizioni, tra le quali la partecipazione allo show di Tony Clifton, un tale che ha rovesciato su di lui una caterva di insulti in una telefonata a Shapiro. Questi, dubbioso, si reca a Las Vegas e scopre che Clifton, un crooner stonato, cialtrone e aggressivo con il pubblico, altri non è che Andy. Intanto, il personaggio creato per Taxi, Latka Gravas, ha un enorme successo.Un successo che però lo infastidisce. Tony Clifton, con il suo comportamento sopra le righe, si fa licenziare da Taxi. Di lì a poco, Kaufman si innamora del wrestling, delle sue azioni ingannevoli e spettacolari. Così, il comico si produce in un match televisivo dove affronta una spettatrice disposta, dietro compenso, a raccogliere il guanto della sfida. La prima vittima di questo show, Lynne Margulies, diventa la sua compagna di vita. In calo di gradimenti, viene estromesso dal Saturday Night Live, riceve la notizia dell’annullamento di Taxi e viene pure espulso dalla comunità yoga che ha preso a frequentare. Torna così a esibirsi nel locale da cui era partito. Ammalatosi di cancro ai polmoni, organizza alla Carnegie Hall di New York un ultimo, sfarzoso spettacolo, durante il quale si esibisce come ballerina morente reincarnantesi in uno sciamano. Risultate inefficaci sia le cure chemioterapiche che

Goya’s Ghosts L’ultimo inquisitore

2006

Regia: Miloš Forman. Aiuto regia: Charlie Lázaro. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jean-Claude Carrière. Fotografia (Technicolor): Javier Aguirresarobe. Montaggio: Adam Boome. Musica: Varhan Orchestrovich Bauer, José Nieto. Scenografia: Patrizia von Brandenstein (art direction: José María Alarcón, Eduardo Hidalgo hijo). Costumi: Yvonne Blake. Suono: Peter Glossop. Interpreti: Stellan Skarsgård (Francisco Goya), Javier Bardem (Lorenzo Casamares), Natalie Portman (Inés Bilbatúa/Alicia), Randy Quaid (re Carlo IV di Spagna), Blanca Portillo (la regina María Luisa), Michael Lonsdale (padre Gregorio), José Luis Gómez (Tomás Bilbatúa), Mabel Rivera (María Isabel Bilbatúa), Mercedes Castro (doña Julia), Aurélia Thiérrée (Henrietta), Fernando Tielve (Álvaro Bilbatúa), Unax Ugalde (Ángel Bilbatúa), Julian Wadham (Giuseppe Bonaparte), Craig Stevenson (Napoleone Bonaparte), Cayetano Martínez de Irujo y Fitz-James Stuart (il duca di Wellington), Genoveva Casanova y González (una prostituta), Jack Taylor (il ciambellano), Wael AlMoubayed (l’interprete di Goya), Eusebio Lázaro (il corniciaio), Trinidad Rugero (la madre superiora), Simón Andreu (il direttore del manicomio), Ben Temple (il messaggero reale), Natalia Gil (la maja), Lola Brown Pierson (Julieta Casamares), Romy Kittay (Clara Casamares), Thomas Riordan (Juan Casamares), Manuel Brun (re Ferdinando), José Alias (il cocchiere di Goya), Scott Cleverdon (un generale francese), Carlos Bardem (un colonnello francese). Produzione: Saul Zaentz,

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International Film Festival

2009 Dobře placená procházka (t.l.: Una passeggiata ben pagata) Regia: Miloš Forman (regia di scena: Miloš Forman, Petr Forman). Soggetto: dall’opera jazz omonima di Jiří Šlitr e Jiří Suchý. Fotografia (colore): Jan Malíř. Montaggio: Tonicka Janková. Musica: Jiří Šlitr. Coreografia: Veronika Svaboda. Scenografia: Matěj Forman. Costumi: Jan Pištěk. Suono: Viktor Ekrt, David Hysek. Interpreti: Petr Stach (Uli), Dása Zázvuková (Vanilka), Tereza Halová (la zia di Liverpool), Petr Píša (l’avvocato), Jiří Suchý (il postino). Produzione: Radka Kadlecová, Ondřej Černý per Radka Production/Národní Divadlo (Teatro Nazionale di Praga). Distribuzione: Falcon (Repubblica Ceca). Durata: 85’. Origine: Repubblica Ceca. Prima: Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, 4 luglio 2009. Uli e Vanilka sono una coppia in procinto di divorziare. Quando le pratiche stanno ormai per giungere in porto, arriva la notizia che una zia di Liverpool ha deciso di donar loro un milione di sterline, a beneficio del figlio che la coppia metterà al mondo, a patto che Uli e Vanilka continuino a rimanere uniti e vivano in armonia. La tentazione di restare insieme, sia pure formalmente, è forte, ma il malloppo comincia a fare gola anche ai loro avvocati divorzisti. (Ripresa televisiva della nuova edizione dell’opera jazz di Jiří Šlitr e Jiří Suchý, andata in scena al Teatro Nazionale di Praga il 22 aprile 2007)

Filmografia di Miloš Forman

Nella Spagna di fine Settecento l’Inquisizione sta consumando i suoi ultimi sussulti. Uno dei suoi funzionari più zelanti, Lorenzo Casamares, prende le difese di Francisco Goya, sotto accusa per alcuni suoi disegni ritenuti sacrileghi. Il pittore, assieme al ritratto di Casamares, sta completando quello di Inés Bilbatúa. La giovane, una sera, viene notata da alcuni sgherri del sacro tribunale mentre si diverte in una taverna assieme ai fratelli. Vedendola rifiutare una portata di maiale, l’accusano di essere ebrea. Arrestata, confessa sotto la tortura della corda e viene incarcerata. Tramite Goya, il facoltoso padre di Inés invita a cena Casamares e, per dimostrargli l’inattendibilità della confessione estorta a sua figlia, lo sottopone alla medesima tortura inflitta a Inés, facendogli confessare di essere figlio una scimmia e di un orango. Casamares cerca quindi di convincere il suo superiore a liberare Inés ma, non ottenendo nulla, espatria, non prima di aver approfittato della ragazza, visitata in carcere. Passano gli anni. Goya è diventato sordo e ha rapporti sempre più difficili con la Corte. Quando i francesi invadono la Spagna, ritorna a farsi vivo Casamares. Ora è votato alla causa giacobina, è un importante funzionario napoleonico, si è sposato e ha due figli. A seguito della liberazione dei prigionieri dell’Inquisizione, esce dal carcere anche Inés, ormai sconvolta nella mente e votata a trovare la figlia Alicia, avuta in seguito alla violenza carnale subita dall’allora inflessibile inquisitore. Anche Casamares, informato da Goya, la cerca. Alicia, fuggita dal collegio al quale era stata affidata, è dedita alla prostituzione. Casamares la rintraccia, cerca di convincerla a espatriare offrendole del denaro e, al suo rifiuto, la fa catturare per mandarla con altre prostitute nelle

colonie. Wellington, a capo delle truppe inglesi, attraversa il confine per venire in aiuto della monarchia spagnola. Alicia viene liberata e si sposa con un ufficiale inglese; Casamares è condannato a morte e Inés, credendo di aver ritrovato la figlia in una neonata rimasta sola alla morte dei genitori, se la prende con sé.

Regie

Mark Albela, Denise O’Dell per The Saul Zaentz Company/Kanzaman/Antena 3 Televisión/Xuxa Producciones S.L. Distribuzione: The Samuel Goldwyn Company (USA), Medusa (Italia). Durata: 110’. Origine: USA/Spagna. Prima: Madrid, 8 novembre 2006.

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Sceneggiature

1955 Nechte to na mně (t.l.: Lasciate fare a me) Regia: Martin Frič. Sceneggiatura: Miloš Forman, Martin Frič. Fotografia (bianco e nero): Rudolph Stahl. Montaggio: Jan Kohout. Musica: Zdeněk Petr. Interpreti: Oldřich Nový (Patocka), Theodor Pištěk (Rokos), František Kreuzmann (Kalousek). Produzione: Studio Umeleckých Filmu Praha. Durata: 73’. Origine: Cecoslovacchia.

Filmografia di Miloš Forman

Patocka è un impiegato così diligente da assumere quanti più compiti gli capitino a tiro. A un certo punto, però, lo stress si fa sentire e, per voler fare tutto, Patocka con riesce a concludere nulla.

1958 Štěňata (t.l.: I cuccioli) Regia: Ivo Novák. Aiuto regia: Miloš Forman. Sceneggiatura: Miloš Forman, Ivo Novák. Fotografia (bianco e nero): Jan Novák. Montaggio: Jan Kohout. Musica: Jan F. Fisher. Interpreti: Rudolf Jelínek (Ota Josíf), Jaroslava Panýrková (Hanka Havelková), Jan Pivec (il padre di Ota), Blanka Waleská (la madre di Ota). Produzione: Studio Umeleckých Filmu Praha. Durata: 78’. Origine: Cecoslovacchia. Una giovane coppia di laureati, che si avviano verso il loro primo impiego, vorrebbe sposarsi. Il problema è che la sede di lavoro è fuori città, e non si trova facilmente un alloggio adatto a metter su famiglia.

Sceneggiature

Laterna Magika (t.l.: Lanterna Magica) Regia: Alfréd Radok, Vladimír Svitáček, Ján Roháč. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia.

1960 Laterna Magika II (t.l.: Lanterna Magica II) Regia: Alfréd Radok. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia.

1963 Konkurs (t.l.: Il concorso) Regia: Miloš Forman. Soggetto e sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer.

1963 Černý Petr L’asso di picche Regia: Miloš Forman. Soggetto: da un racconto di Jaroslav Papoušek. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jaroslav Papoušek.

1965 Lásky jedné plavovlásky Gli amori di una bionda Regia: Miloš Forman. Soggetto: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek. Sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek, Václav Šašek.

1966 Dobře placená procházka (tv) (t.l.: Una passeggiata ben pagata) Regia e sceneggiatura: Miloš Forman, Jan Rohac.

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Regia: Alfréd Radok. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia.

1967 Hoří, má panenko! Al fuoco, pompieri! Regia: Miloš Forman. Sceneggiatura: Miloš Forman, Ivan Passer, Jaroslav Papoušek.

La pince à ongles (t.l.: Il tagliaunghie) Regia: Jean-Claude Carrière. Sceneggiatura: Miloš Forman, JeanClaude Carrière. Fotografia (colore): Edmond Séchan. Montaggio: Gilbert Martignan. Musica: Michel Legrand. Interpreti: Michael Lonsdale (il marito), Marie Descott (Marie-Claude), Henri Garcin (il portiere d’hôtel). Produzione: Paul Claudon per C.A.P.A.C. Durata: 12’. Origine: Francia. Una tranquilla, meticolosa coppia prende alloggio in una stanza d’hôtel. Dopo un accuratissimo controllo della stanza, lui va in bagno, appoggia la trousse sul ripiano dello specchio, ne estrae un tagliaunghie e comincia a usarlo. Torna in stanza, appoggia il tagliaunghie sul tavolino, poi fa per riprenderlo ma il tagliaunghie non c’è più. Dov’è finito? È l’inizio di una situazione destinata a diventare sempre più misteriosa.

International Film Festival

Taking Off id. Regia: Miloš Forman. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jean-Claude Carrière, John Guare, John Klein.

Nedostaje mi Sonja Henie/I Miss Sonja Henje (t.l.: Mi manca Sonja Henje) Regia e sceneggiatura: Miloš Forman, Buck Henry.

1973 The Decathlon Il decathlon ep. di Visions of Eight (Ciò che l’occhio non vede) Regia e sceneggiatura: Miloš Forman.

1975 Le mâle du siècle (Il cornuto scontento) Regia: Claude Berri. Soggetto: da un’idea di Miloš Forman. Sceneggiatura: Claude Berri, Jean-Louis Richard. Fotografia (Eastmancolor): Jean-Pierre Baux. Montaggio: Sophie Coussein. Musica: Claude Morgan. Interpreti: Juliet Berto (Isabelle), Claude Berri (Claude), Yves Afonso (Louis Maboul), László Szabó (il gangster). Produzione: Claude Berri per Les Films Christian Fechner/ Renn Productions. Durata: 88’. Origine: Francia. La gelosia di Claude è così forte che, quando la moglie Isabelle viene presa in ostaggio durante una rapina in banca, finisce per convincersi che fra lei e il gangster possa nascere qualcosa.

Filmografia di Miloš Forman

1968

1971

Sceneggiature

Laterna Magika: Variace 66, Otvírání studánek (t.l.: Lanterna Magica: Variazione 66, L’apertura delle sorgenti)

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Propone al gangster di prendere il posto della moglie, ma questi rifiuta. Il malvivente viene poi arrestato dalla polizia, e sua moglie liberata; ma ciò non basta a placare i sospetti di Claude.

1989 Valmont id. Regia: Miloš Forman. Soggetto: dal romanzo Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Miloš Forman.

2006

Filmografia di Miloš Forman

Goya’s Ghosts L’ultimo inquisitore Regia: Miloš Forman. Sceneggiatura: Miloš Forman, Jean-Claude Carrière.

Aiuto regia

1957 Dědeček automobil (t.l.: Nonno automobile) Regia: Martin Frič. Aiuto regia: Miloš Forman (secondo aiuto regista). Sceneggiatura: Adolf Branald, Alfréd Radok. Fotografia (bianco e nero): Jaromír Holpuch. Montaggio: Jiřina Lukešová. Musica: Jan F. Fischer. Interpreti: Luděk Munzar (Frantík Projsa), Ginette Pigeon (Nanette Frontenac), Raymond Bussières (Marcel Frontenac), Radovan Lukavský (Václav Klement), Miloš Forman (un meccanico). Produzione: Studio Hraných Filmov Bratislava. Durata: 96’. Origine: Cecoslovacchia. Francia, 1904. Il giovane Frantík, che partecipa come meccanico a una gara automobilistica, si innamora di Nanette, figlia di un ingegnere francese.

1958 Štěňata (t.l.: I cuccioli) Regia: Ivo Novák. Aiuto regia: Miloš Forman (primo aiuto regista).

1962

Sceneggiature / Aiuto regia

Tam za lesem (t.l.: Al di là della foresta) Regia: Pavel Blumenfeld. Aiuto regia: Miloš Forman (primo aiuto regista). Sceneggiatura: Pavel Blumenfeld, Vladimír Bor. Fotografia (bianco e nero): Václav Hunka. Montaggio: Jiřina Lukešová. Musica: Jiři Pauer. Interpreti: Július Vašek (Martin), Jiři Vala (Brzon), Tibor Kišš (Jurka), Mária Markovičová (Lékarka), Miloš Forman (il medico). Produzione: Filmové Studio Barrandov. Durata: 91’. Origine: Cecoslovacchia. Una unità di soldati cecoslovacchi, inquadrata nell’Armata Rossa, combatte con coraggio nella sanguinosa battaglia del Passo Dukla.

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1953 Slovo dělá ženu (t.l.: Una donna di parola) Regia: Jaroslav Mach. Sceneggiatura: Jiří Karásek. Interpreti: Oldřich Nový (Ludvík Zach), Jiřina Steimarová (Jarmila), Jaromír Spal (Jirka Zach), Miloš Forman (il giovane operaio). Durata: 88’. Origine: Cecoslovacchia.

1954 Stříbrný vítr (t.l.: Vento argentato)

1957 Dědeček automobil (t.l.: Nonno Automobile) Regia: Martin Frič. Sceneggiatura: Adolf Branald, Alfréd Radok. Interpreti: Luděk Munzar (Frantík Projsa), Ginette Pigeon (Nanette Frontenac), Raymond Bussières (Marcel Frontenac), Radovan Lukavský (Václav Klement), Miloš Forman (un meccanico). Produzione: Studio Hraných Filmov Bratislava. Durata: 96’. Origine: Cecoslovacchia.

1961 Strop (t.l.: Soffitto) Regia: Věra Chytilová. Sceneggiatura: Věra Chytilová, Pavel Juráček.

International Film Festival

1986 Heartburn Heartburn — Affari di cuore Regia: Mike Nichols. Soggetto: dal romanzo omonimo di Nora Ephron. Sceneggiatura: Adolf Branald, Alfréd Radok. Interpreti: Meryl Streep (Rachel Samstat), Jack Nicholson (Mark Forman), Jeff Daniels (Richard), Maureen Stapleton (Vera), Miloš Forman (Dmitri). Produzione: Mike Nichols, Robert Greenhut per Paramount Pictures. Durata: 108’. Origine: USA.

1989 New Year’s Day Le prime immagini dell’anno nuovo Regia e sceneggiatura: Henry Jaglom. Interpreti: Maggie Wheeler (Lucy), Gwen Welles (Annie), Melanie Winter (Winona), Henry Jaglom (Drew), David Duchovny (Billy), Miloš Forman (László). Produzione: Judith Wolinsky per Jagfilm/The Rainbow Film Company. Durata: 88’. Origine: USA.

1991 Proč Havel?/Why Havel? (t.l.: Perché Havel?) Regia e sceneggiatura: Vojtech Jasný. Con: Vacláv Havel (se stesso), Miloš Forman (presentatore e voce narrante). Produzione: Rock Demers per KF a.s./Société Générale des Industries Culturelles du Québec/La Fête. Durata: 95’. Origine: Cecoslovacchia/Canada.

Filmografia di Miloš Forman

Regia: Fráňa Šrámek. Sceneggiatura: Václav Krška. Interpreti: Eduard Cupák (Jan Ratkin), Vladimír Ráž (il professor Ramler), Jana Rybářová (Anicka), Miloš Forman (un ufficiale presso lo stand). Durata: 98’. Origine: Cecoslovacchia.

Interpreti: Marta Kaňovská, Julián Chytil, Jaroslav Satoranský, Josef Abrhám, Miloš Forman (l’uomo che balla nel bar). Produzione: Studio FAMU. Durata: 42’ Origine: Cecoslovacchia.

Interpretazioni

Interpretazioni

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2000 Keeping the Faith Tentazioni d’amore

Peklo s princeznou (t.l.: All’inferno con la principessa)

Regia: Edward Norton. Sceneggiatura: Stuart Blumberg. Interpreti: Ben Stiller (rabbi Jake Schram), Edward Norton (padre Brian Finn), Jenna Elfman (Anna Riley), Anne Bancroft (Ruth Schram), Eli Wallach (rabbi Ben Lewis), Miloš Forman (padre Havel). Produzione: Edward Norton, Stuart Blumberg, Hawk Koch per Triple Threat Talent/Spyglass Entertainment/Touchstone Pictures. Durata: 128’. Origine: USA.

Regia: Miloslav Šmídmajer. Sceneggiatura: Miloslav Šmídmajer, Miroslav Buberle, Marie Poledňáková, Barbora Červenková, Roman Kopřivík. Interpreti: Tereza Voříšková (la principessa Anetě), Jiří Mádl (il principe Jeroným), Petr Nárožný (il re Leopold), Václav Postránecký (il re Bedřich), Miloš Forman (Erlebub). Produzione: Miloš Šmídmajer, Magdaléna Sedláková per Bio Illusion/Česká Televize. Durata: 95’. Origine: Repubblica Ceca.

2003 Filmografia di Miloš Forman

2009

A Room Nearby (t.l.: La stanza accanto) Regia e sceneggiatura: Paul Fierlinger, Sandra Fierlinger. Con: Paul Fierlinger, Sandra Fierlinger, Lynn Blue, Domingo D’Achille, Miloš Forman (anche voce narrante). Produzione: Paul Fierlinger, Sandra Fierlinger per Independent Television Service. Durata: 27’. Origine: USA.

2008

2011 Les bien-aimés id. Regia e sceneggiatura: Christophe Honoré. Interpreti: Chiara Mastroianni (Véra), Catherine Deneuve (Madeleine), Ludivine Sagnier (Madeleine negli anni Sessanta), Louis Garrel (Clément), Miloš Forman (Jaromil). Produzione: Pascal Caucheteux per Why Not Productions/ Sixteen Films/Negativ/France 2 Cinéma. Durata: 133’. Origine: Francia/ Gran Bretagna/Repubblica Ceca.

Interpretazioni

Chelsea on the Rocks (t.l.: Chelsea sul ghiaccio) Regia: Abel Ferrara. Sceneggiatura: Abel Ferrara, David Linter, Christ Zois. Interpreti: Linda Kaplan (Linda), María Maratea (Juanita), Bijou Phillips (Nancy Spungen), Jamie Burke (Sid Vicious), Adam Goldberg (Tim), Giancarlo Esposito (Tip), Shanyn Leigh (Janis Joplin), Grace Jones (Bev), Abel Ferrara, Dennis Hopper, Miloš Forman, Ethan Hawke (loro stessi). Produzione: Jen Gatien, David D. Wasserman per Deerjen Films. Durata: 88’. Origine: USA.

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1990 Dreams of Love (t.l.: Sogni d’amore) Regia e sceneggiatura: Jeffrey W. Mueller. Interpreti: Claire Danes (Edith Lammers), Sasha Pasmur (Jeremy Lammers), Ben George (Hans Lammers). Produzione: Miloš Forman, Tobias Meinecke. Durata: 16’. Origine: USA.

2000

2014 A Short History of Decay (t.l.: Una breve storia di decandenza)

Produzioni

Produzioni

Regia e sceneggiatura: Michael Maren. Interpreti: Emmanuelle Chriqui (Erika Bryce), Kathleen Rose Perkins (Shelly), Bryan Greenberg (Nathan Fisher), Harris Yulin (Bob Fisher), Linda Lavin (Sandy Fisher). Produzione: Alfred Sapse, Timothy Snell, Miloš Forman (produttore esecutivo) per Short History/ Big Fan Films. Durata: 94’. Origine: USA.

Way Past Cool (t.l.: Duri a morire)

2005 Köshpendiler Nomad — The Warrior Regia: Sergei Vladimirovič Bodrov, Ivan Passer. Sceneggiatura: Rustam Ibragimbekov. Interpreti: Kuno Becker (Mansur), Jay Hernandez (Erali), Jason Scott Lee (Oraz), Doskhan Zholzhaksynov (Galdan Ceren), Ayana Yesmagambetova (Gaukhar). Produzione: Rustam Ibragimbekov, Ram Bergman, Pavel Douvidzon, Maroussia Morgan, Miloš Forman (produttore esecutivo) per Ibrus/True Story Production/Wild Bunch/Kazakhfilm Studios. Durata: 112’. Origine: Francia/ Kazakhstan.

International Film Festival

Filmografia di Miloš Forman

Regia: Adam Davidson. Soggetto: da un romanzo di Jess Mowry. Sceneggiatura: Jess Mowry, Yule Caiser. Interpreti: Wayne Collins (Deek), Luchisha Evans (Markita), Terrence Williams (Ty), Kareem R. Woods (Danny). Produzione: Ira Deutchman, Avram Ludwig, Miloš Forman (produttore esecutivo) per Redeemable Features/Pricel. Durata: 96’. Origine: USA/Francia.

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Opere multimediali

1958 Laterna Magika (t.l.: Lanterna Magica)

Filmografia di Miloš Forman

Regia: Alfréd Radok, Vladimír Svitáček, Ján Roháč. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Esposizione Universale EXPO ´58, Bruxelles, 9 maggio 1958. Il progetto teatrale in un atto unico Laterna Magika, creato per l’Esposizione Universale EXPO ´58 a Bruxelles, combina una registrazione cinematografica con la musica suonata dal vivo e attori e ballerini presenti sul palcoscenico. Il programma è composto da diversi episodi che sviluppano i dei rapporti tra un’azione recitata o ballata e una pellicola. Consiste di tredici scene: Konference (Conferenza), Cimbálový koncert (Concerto di cimbali), Taneční intermezzo (Intermezzo di danza), Inspirace (Ispirazione), Živé sklo (Vetro vivo), Praha (Praga), Symfonieta (Piccola sinfonia), Československo (Cecoslovacchia), Slovenské lidové písně (Canzoni popolari slovacche), SĽUK /slovenský ľudový umelecký kolektív (Gruppo folcloristico slovacco), Deti (Bambini), Jan Amos Komensky, Finale. Lo spettacolo intende caratterizzare al meglio la vita nella Cecoslovacchia dell’epoca.

1960 Laterna Magika II (t.l.: Lanterna Magica II)

Opere multimediali

Regia: Alfréd Radok. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Palazzo Adria, Praga, 5 dicembre 1960.

cinema Moskva del Palazzo Adria a Praga. Per questo scopo viene persino fondato un nuovo gruppo teatrale stabile. La preparazione della nuova rielaborazione è nuovamente affidata al regista Alfréd Radok, che sceglie il nome Laterna Magika II: Tour Programme. Laterna Magika II ha un carattere maggiormente informativo in modo da poter presentare la Cecoslovacchia all’estero, questa volta però con un’enfasi sulla cultura e l’arte piuttosto che sull’industria e l’agricoltura, come nel caso dell’EXPO. La parte danzata è parzialmente sostituita dalla recitazione, e il palcoscenico e la pellicola proiettata sono maggiormente connessi l´uno all´altra. Uno dei suoi episodi, Otvírání studánek (L’apertura delle sorgenti) di Bohuslav Martinů, verrà però proibito dalla censura del regime comunista.

1966 Laterna Magika: Variace 66, Otvírání studánek (t.l.: Lanterna Magica: Variazione 66, L’apertura delle sorgenti) Regia: Alfréd Radok. Sceneggiatura: Josef Svoboda, Miloš Forman. Origine: Cecoslovacchia. Prima: Palazzo Adria, Praga, 27 maggio 1960. La terza versione degli spettacoli della leggendaria Laterna Magika è una raccolta degli episodi più pregevoli degli spettacoli precedenti. Nasce nel periodo della democratizzazione della Cecoslovacchia, nella seconda metà degli anni Sessanta. Alfréd Radok può ritornare al progetto originario e terminare la sequenza originalmente proibita, L’apertura delle sorgenti.

Dopo l´enorme successo di Bruxelles, lo spettacolo di Laterna Magika è rielaborato per essere realizzato nel

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1945 Teatro Na Kovárně di Podebrady Regia: Josef Sahula. Interpreti: studenti delle scuole medie superiori, tra i quali Miloš Forman. Saggio annuale di teatro allestito dagli studenti del Collegio di studi classici di Podebradry. Miloš Forman vi interpreta i ruoli del marito in Matrimonio di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, di Arpagone in L’avaro di Molière e di Hadrian da Rimsy in Hadrián z Římsů di Václav Kliment Klicpera.

Balada z hadrů (t.l.: La ballata degli stracci) Di Jiří Voskovec, Jan Werich. Regia: Miloš Forman. Interpreti: Ivan Kheil, Jiří Hrubý, Jaromír Tot, Miloš Forman. Messa in scena amatoriale di un musical prebellico allestita ai tempi del liceo con alcuni amici.

1972 The Little Black Book (t.l.: Il libretto nero) Regia: Miloš Forman. Interpreti: Richard Benjamin, Delphine Seyrig. Prima: Little Theatre, New York, 25 aprile 1972. Versione in inglese, per la traduzione di Jerome Kilty, della commedia L’Aidemémoire (1968) di Jean-Claude Carrière.

International Film Festival

Dobře placená procházka (t.l.: Una passeggiata ben pagata) Regia: Miloš Forman, Petr Forman. Interpreti: Petr Stach (Uli), Dása Zázvuková (Vanilka), Tereza Halová (la zia di Liverpool), Petr Píša (l’avvocato), Jiří Suchý (il postino). Prima: Národní Divadlo (Teatro Nazionale di Praga), 22 e 23 aprile 2007. Nuovo allestimento dell’opera jazz di Jiří Šlitr e Jiří Suchý.

Filmografia di Miloš Forman

1950

2007

Teatrografia

Teatrografia

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Progetti non realizzati / cinematografici e teatrali

1958

Filmografia di Miloš Forman

Kapela to vyhrála (cinema) (t.l.: Il nostro gruppo ha vinto) Dal racconto Eine kleine Jazzmusik di Josef Škvorecký, adattato per lo schermo dallo stesso Škvorecký assieme a Forman, è la storia di un gruppo jazz che, durante la guerra, partecipa a modo suo alla Resistenza. Il progetto viene proposto ai Filmové Studio Barrandov, ma non passa il vaglio della censura, che disapprova il tono antimilitarista della storia e impone tagli che ne snaturerebbero lo spirito. Forman e Škvorecký giocano però d’astuzia, riproponendo una sceneggiatura che, di ciò che era stato cacciato fuori dalla porta, molto viene fatto rientrare dalla finestra. Tuttavia, quando tutto è già pronto per cominciare a girare, arriva il veto del Presidente della Repubblica Antonín Novotný il quale — pare — è convinto che si tratta non del racconto Eine kleine Jazzmusic, ma di un’altra opera di Škvorecký, il romanzo Zbabělci (I vigliacchi), opera più recente e ben più apertamente satirica.

1966

Progetti non realizzati

Americans Are Coming (cinema) (t.l.: Arrivano gli americani) Da un’idea di Moris Ergas, braccio destro di Carlo Ponti, un soggetto offerto a Forman subito dopo il successo di Amori di una bionda, che dovrebbe essere prodotto da Ponti stesso. La storia parla dell’ultimo orso del monte Tara nei Carpazi il quale, molto vecchio, probabilmente sta per morire. Per fare un po’ di soldi, gli agenti della Forestale ceca decidono di

“venderlo” ai cacciatori occidentali per una battuta di caccia. Un ricco americano si aggiudica la partita ma, poco prima del suo arrivo, l’orso attraversa la frontiera ed entra in Polonia, godendo così di una sorta di status di “non estradittorietà”. Il guaio è che il denaro ormai è stato incassato, e l’americano sta arrivando. Forman comincia a lavorarci sopra, assieme a Ivan Passer, Jaroslav Papoušek e a un altro sceneggiatore inglese di successo, ospiti in un castello del litorale laziale messo a disposizione da Ponti. Una divergenza di punti di vista con Ponti sulla direzione da dare alla storia, tuttavia, determina l’abbandono del progetto.

1972 Harry the King of Comedy (cinema) (t.l.: Harry il Re della commedia) Soggetto proposto da Paul Zimmerman, da scrivere a sei mani da Forman, Buck Henry e lo stesso Zimmerman, racconta la storia di un tassista che vuole diventare comico televisivo. Intoppi di carattere produttivo costringono i tre a desistere.

1977 Bobby Fischer vs. Boris Spassky (cinema) (t.l.: Bobby Fischer contro Boris Spassky) Durante la preproduzione di Hair, Forman si interessa a un film sulla celebre partita, avvenuta a Reykjavik nel 1972, che vide affrontarsi i due più grandi scacchisti del loro tempo in una sfida che prese quasi i tratti di un’allegoria intellettuale della Guerra fredda. Peter Falk, che ha comprato i diritti di un romanzo ispirato all’evento, si unisce all’impresa. Forman vorrebbe

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1994 Disclosure (cinema) (t.l.: Rivelazioni)

1999 The Hell Camp (cinema) (t.l.: Il campeggio infernale) Soggetto ispirato a un documentario sui corsi manageriali giapponesi, noti appunto come “campeggi infernali”, sviluppato da Forman con il giovane e talentuoso sceneggiatore Adam Davidson, tratta di Taylor, un americano con un matrimonio che sta andando in frantumi, che si reca a Tokyo per ragioni di lavoro. Sul volo, conosce Joe, un ragazzo obeso che si sta recando in Giappone per inseguire il suo sogno, quello di diventare un lottatore di sumo. Rimasto senza lavoro il primo, e senza soldi il secondo, annegano i loro dispiaceri nell’alcol finché non conoscono due ragazze giapponesi. Finanziato

International Film Festival

2000 Dalibor (teatro) Allestimento dell’opera del compisitore Bedřich Smetana (1824-1884). Forman: «Quando è comparsa l’opportunità di mettere in scena Dalibor, ho deciso di realizzarlo come avrei voluto vederlo da studente. Ancora oggi mi ricordo vivamente in quali momenti dello spettacolo me ne andavo a fumare una sigaretta, ogni volta passeggiavo nelle stesse zone del corridoio. Così decisi di eliminare proprio quelle parti per la mia versione di Dalibor. Ho un carattere molto realista e quindi tutto il secondo atto, per fare un esempio, mi sembrava inutile. Poi mi sono messo in testa di spostare l’aria che canta Dalibor dopo aver limato le sbarre. Ho preso un vecchio magnetofono e ho fatto, in maniera molto grezza e brutale, i tagli che volevo eseguire all’opera originale. Ho spedito il nastro a Praga per dimostrare almeno a grandi linee il mio concetto della messa in scena a Libor Pešek che doveva dirigere l’orchestra. Egli mi richiamò immediatamente dicendomi che le mie idee gli piacevano e come non vedesse l’ora di collaborare con me. Contro il mio concetto però si era subito opposto in maniera netta e decisa il Capo regista della lirica del Teatro Nazionale».

2001 Bad News (cinema) (t.l.: Cattive notizie) John Dortmunder è il truffaldino quanto rocambolesco antieroe di una serie di popolari romanzi di Donald E. Westlake a metà strada fra noir e

Filmografia di Miloš Forman

Regista inizialmente designato alla trasposizione cinematografica del best seller di Michael Crichton, Forman si trova presto di fronte alla richiesta di controllo totale sulla sceneggiatura da parte dello scrittore. La sceneggiatura dello stesso Crichton e di Paul Attanasio passa quindi a Barry Levinson.

da Michael Hausman per la TriStar Pictures e pronto al via, il progetto fallisce per l’intransigenza dell’associazione giapponese di sumo, che impone condizioni proibitive pochissimi giorni prima dell’inizio delle riprese.

Progetti non realizzati

che gli stessi scacchisti interpretassero loro stessi, ricevendo l’ok di Spassky ma anche il rifiuto del più ritroso Fischer. Purtroppo, su questo scoglio si arena il progetto. Da notare che Peter Falk, pochi anni prima, aveva già recitato, nei panni del celebre tenente con l’impermeabile stazzonato, nel telefilm Colombo: L’ultimo scaccomatto (Columbo: The Most Dangerous Match, 1973), in cui si trova a indagare sulla rivalità tra due scacchisti, l’americano interpretato da Laurence Harvey e il russo interpretato da Jack Kruschen.

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racconto umoristico, il primo dei quali, Gli ineffabili cinque, è già diventato film nel 1972 con il titolo La pietra che scotta (The Hot Rock), per la regia di Peter Yates e con l’interpretazione di Robert Redford e George Segal. Ottenuto l’interessamento di Dustin Hoffman per la parte, e iniziato il trattamento con lo sceneggiatore Doug Wright, il progetto sfortunatamente fallisce per mancanza di finanziamenti.

2005

Progetti non realizzati

Filmografia di Miloš Forman

Embers (cinema) (t.l.: Le braci) Pellicola basata sul romanzo Le braci dello scrittore ungherese Sándor Márai, sceneggiata dal regista assieme al collaboratore e amico Jean-Claude Carrière, parla di due amici, ex compagni di studi presso un’Accademia militare dell’Impero Austroungarico, che si incontrano quarantun anni dall’ultima volta che si erano visti. Nel frattempo, c’è stata una guerra, l’Impero è crollato, un’altra guerra si avvicina e la loro amicizia non è più quella di una volta. Parlano dell’amore, della gelosia e, alla fine, trovano il modo di mettere una pietra sopra gli avvenimenti che avevano determinato il raffreddamento dei loro rapporti. Per il ruolo dei due protagonisti, Forman aveva ottiene la partecipazione di Sean Connery, entusiasta del progetto, e di Klaus Maria Brandauer, e, per quello della donna che si era trovata suo malgrado a dividerli, Winona Ryder. Prodotto da Robert e Michael Haggiag, e con il vecchio collaboratore Michael Hausman come produttore esecutivo, il progetto viene interrotto un paio di mesi prima dell’inizio delle riprese a causa del mancato accordo tra Michael Haggiag e Sean Connery.

2010 Ghost of Munich (cinema) (t.l.: Il fantasma di Monaco) Progetto di altissimo livello, sceneggiato in collaborazione con Jean-Claude Carrière e Vacláv Havel partendo dal romanzo Le Fantôme de Munich di Georges-Marc Benamou, tratta della Conferenza di Monaco, in base alla quale la Cecoslovacchia dovette cedere, nell’autunno del 1938, i territori confinanti con la Germania nazista, aprendo così la strada a Hitler per l’invasione dell’Europa. La storia inizia nel 1968, con una giovane giornalista americana che intervista l’ex primo ministro francese dell’epoca, Edouard Daladier, uno dei firmatari dell’accordo. Nei ricordi dell’ex politico si sviluppa un appassionante dramma di coscienza. Il ruolo del giovane Daladier è assegnato a Mathieu Amalric, quello di lui anziano a Gérard Depardieu, ma la Pathé, produttrice del film, non riesce a trovare abbastanza finanziamenti, fra le altre cose anche a causa di problemi con i diritti d’autore. Inoltre, come ebbe a osservare lo stesso Forman: «Un film sulla Conferenza di Monaco avrebbe potuto dare fastidio ai tedeschi, ai francesi e agli inglesi, quindi diverse persone rimasero dell’idea che sarebbe potuta essere una perdita di soldi. Già un paio di miei progetti son collassati in questo modo, quando era tutto già pronto e le riprese stavano per iniziare. Fa parte dello show business».

35° Bergamo Film Meeting / 2017

Credits

Progetto grafico Sūqrepubliq Paper Interno / Sappi Magno Natural 120 gr. Esterno / Fedrigoni Symbol Tatami 250 gr. Stampa Tipolitografia Pagani © Edizioni di Bergamo Film Meeting via Pignolo 123 — 24121 Bergamo (Italy) www.bergamofilmmeeting.it ISBN 978-88-85444-01-0 Finito di stampare il 10 marzo 2017

ISBN 978-88-85444-01-0

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