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Italian Pages 174 [126] Year 2006
Luca Malavasi (Vigevano, 1975) è ricercatore presso l’Università di Genova, dove insegna Storia e critica del cinema e Storia delle teoriche del cinema. Svolge attività didattica anche all’Accademia di Brera. Si occupa prevalentemente di teoria del cinema e di storia del cinema italiano e americano. Tra le sue pubblicazioni: Gabriele Salvatores (2005), Il cinema di Arthur Penn (2008), David Lynch. Mulholland Drive (2008), Racconti di corpi: cinema, film, spettatori (2009) e Dieci film. Esercizi di lettura (2011). Ha scritto per l’Enciclopedia Treccani del cinema, per la Storia del cinema edita da Marsilio e per numerose riviste, tra cui «Aut Aut» e «Bianco e Nero». Collabora con «Cineforum», «Blow Up» e «Pulp», scrivendo di cinema, televisione e letteratura. Il Castoro Cinema n. 220 © 2006 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale 2013 www.ridigito.it In copertina: La donna del fiume ISBN 978-88-8033-729-4
Luca Malavasi
Mario Soldati
MARIO SOLDATI
Perché il cinema? Perché mi sono messo a fare cinema? […] Una volta – quaranta, cinquant’anni fa – il giovane che affrontava la vita con l’idea di fare il letterato o lo scrittore, e che non aveva mezzi di famiglia che gli permettessero di non lavorare, pensava, come norma, di fare il professore. […] Oggi, al giovane che voglia fare il letterato o lo scrittore si presenta un quadro spaventoso. […] Stiamo entrando – o forse ci siamo già – in un’epoca di decadenza della cultura. […] Quando io stavo per finire l’università la mia famiglia era già senza mezzi. Perciò io dovevo dare lezioni private, scrivere articoli sui giornali, fare della critica d’arte. Ecco: il giornalismo, che nonostante l’apparenza si oppone a uno studio serio delle lettere, quanto e forse più, appunto per la somiglianza della tecnica, del cinema. Giornalismo, critica d’arte; ecco i miraggi del giovane letterato. Oggi a questi si aggiunge il cinema, o soprattutto il cinema. A quel tempo non ancora. Andavo molto di rado al cinema; ammiravo Charlot, mi piaceva Ombre bianche, e basta. Dopo la laurea andai a Roma, all’Istituto superiore di storia dell’arte, e poi in America, alla Columbia University. Anche in
America accadevano le stesse cose, anzi peggio, per lo studioso. Con l’alto costo della vita americana i miei soldi finirono presto. Perciò dovetti passare gli altri due anni che vi restai facendo tutti i mestieri per vivere. Quando tornai in Italia, due anni dopo, avevo necessità di guadagnare. Ero sposato e avevo un figlio; quindi dovevo lavorare. Allora tornò in scena il vecchio amico di famiglia. «Vada a Roma, alla Cines». […] Andai a Roma ed entrai alla Cines. Cinema e snobismo Molti anni fa, quando ero studente, a New York, ricevevo pressanti lettere da Torino, da un vecchio amico della mia famiglia, che era amministratore delegato della ricostituita Cines-Pittaluga: il “sonoro” era appena inventato, conseguentemente si prevedeva una grande ripresa dell’industria cinematografica italiana: e il mio vecchio amico mi consigliava di andare al cinema il più possibile, di approfittare del mio soggiorno americano per vedere film su film: così, al mio ritorno in Italia, avrei avuto titoli ancora maggiori per essere assunto alla Cines e mi sarei trovato avvantaggiato nella mia nuova carriera di cinematografaro. Ma io, questa carriera, non la volevo a nessun costo intraprendere. […] Andavo, invece, e più sovente che potevo, al teatro: quasi tutte le sere. […] La mia preferenza per il teatro non era casuale, e non era soltanto ribellione alla proteggente benevolenza del mio vecchio amico di famiglia: era, anche, un fenomeno di snobismo. Eh, sì! A quel tempo, in tutto il mondo e specialmente negli States, la gente chic, le élites mondane e intellettuali “snobbavano” il cinema, non lo prendevano nemmeno in considerazione. È vero, a me, ragazzo, e a qualche mio compagno torinese, Tino Richelmy primissimo, le comiche mute avevano sempre fatto profonda impressione: Max Linder, Ben Turpin, Harold Lloyd, Larry Semon (Ridolini), Buster Keaton (Salterello) e soprattutto Charlot erano, da noi, considerati poeti molto prima che tali li decretassero i critici parigini. Ma non vedevo nessun rapporto tra la magia di queste pellicole arcaiche e la nuova produzione allora trionfante a Times Square, vicende comicosentimentali e molli canzoncine, stella massima Janet Gaynor. […] Quanto tempo è passato da allora! Quante cose sono cambiate! Ho finito per dedicarmi proprio al cinema, e per lavorare nel cinema, prima come assistente, poi come sceneggiatore, e infine come regista, quasi trent’anni. La prima volta Arrivai la sera, dopo aver cercato in tutti i modi di entrare alla Olivetti di Ivrea, ma il vecchio Camillo mi disse no, in uno studio della Cines. La mattina cominciai un film come terzo assistente di Camerini che girava Figaro e la sua gran giornata, un film ispirato alla commedia Ostrega che sbrego!, protagonista il povero Gianfranco Giachetti. Era l’estate del ’31. Non ho mai dimenticato il primo giorno in cui entrai in un teatro di posa. Non avevo mai pensato al cinema, non lo avevo mai desiderato, non mi ero mai neppure immaginato che cosa fosse, come fosse. Entrai in questo teatro enorme; tutto buio, coi riflettori abbacinanti; allora si usava molta più luce che non adesso. Era estate, faceva un caldo terribile. […] Entrai a fare questo lavoro come un condannato. Battevo il ciak, facevo i conti della pellicola: rimanevo un’ora o due, tutto solo nel teatro deserto, a fare i conti dopo che gli altri se ne erano andati. […] Non parlavo con nessuno, andavo sempre in giro con un libro sotto braccio, ma non riuscivo mai a leggerlo: era una specie di amuleto… Insomma sopportavo tutto, dicendo che dovevo farlo per espiare i miei peccati. Invece continuai. Da ciacchista diventai aiuto-regista, e poi, senza volerlo e senza accorgermene, imparai un mestiere. Lo sapevo, ma non mi piaceva. […] Di impegno in impegno, di spesa in spesa, di debito in debito, tutto sempre più grande; e fui travolto. A poco a poco accettai delle finte regie, poi regie in collaborazione e finalmente un film da solo. Ricordo ancora la prima inquadratura che feci da solo per un film mio. Mettere la macchina, puntare l’obiettivo, parlare agli attori, dare il via; credevo di non essere capace, invece ho continuato. Il mestiere lo sapevo senza accorgermene, e ho continuato.
E continuo ancora a fare dei film, e ogni tanto, quando posso, scrivo un articolo, una novella. Non rinuncio a scrivere, ma non posso assolutamente rinunciare al cinema che mi è più necessario della letteratura. Il regista Tutto il lavoro del regista… regista? Brutta parola che appartiene all’epoca in cui fu coniata. Fa pensare anche alla parola “autista”. Quando ho cominciato a fare il cinema, nel 1931, non esisteva ancora il “regista” si diceva “metteur en scène”, “direttore di scena”, o “direttore”. Camerini diceva di se stesso «sono un metteur en scène». Regista non viene dal “regisseur” francese, che è il nostro segretario di produzione; viene dal tedesco. Comunque adesso tutti lo dicono e bisogna piegarsi. Anch’io vorrei continuare a dire “chauffeur” anziché autista; oppure tento di dire “il mio meccanico”, ma non ci riesco e dico autista anch’io. Quindi diciamo regista. Tutto il lavoro del regista è lavoro con gli altri e contro gli altri. È un litigio continuo, una lotta continua. In questo litigio continuo bisogna distinguere due grandissime categorie: i litigi razionali e quelli irrazionali. Come norma i litigi razionali sono con una determinata serie di collaboratori; quelli irrazionali con un’altra serie di collaboratori. Come norma, però; perché mole volte si passa, con gli stessi collaboratori, dall’una all’altra categoria di litigi. Vediamo la prima categoria. Cosa sono queste liti, queste risse razionali? Sono quelle che sorgono di solito fra tutte le persone con le quali si lavora col cervello: produttore, sceneggiatore, montatore. […] Ci sono produttori coi quali si parla lo stesso linguaggio, ma magari non sono quelli con cui, in quel momento, si è costretti a lavorare. Io ho un produttore col quale ci intendiamo benissimo; ma proprio con quello non sono mai riuscito a lavorare. Ed è così anche con lo sceneggiatore e il montatore. Non sempre si può prendere lo sceneggiatore che si preferisce, perché magari è occupato, non può, non gli piace l’argomento o altro. Soltanto i sommi registi possono scegliere, ma fino a un certo punto. In ogni modo con lo sceneggiatore e col montatore è più facile; ma col produttore c’è sempre di mezzo la questione finanziaria. E il produttore, attraverso l’interesse finanziario, influisce a sua volta sul montatore e sullo sceneggiatore. Quindi questi litigi razionali sono sempre intralciati dall’interesse finanziario. Cosa che non avviene per le discussioni che uno scrittore fa, invece, con un amico sopra la sua propria opera. Altra categoria: litigi irrazionali. Questa comprende tutti gli altri collaboratori. L’operatore, prima di tutto, poi gli attori, elettricisti, costumisti, architetti, musicista. Qualche volta si può ragionare con questa gente; qualche volta si può essere critici. Con gli attori e con l’operatore quasi mai. Bisogna giocare d’istinto e di finzione. Poi ci sono altri collaboratori: gli animali, e quelli inanimati: qualche volta un cielo, una luce, un’acqua che bisogna cogliere in un certo momento. Tutto collabora nel lavoro del regista. Si pone veramente mano a cielo e terra. È una cosa spaventosa. Sceneggiare Innanzi tutto bisogna premettere che quello che i critici, i filologi, gli storici sanno della sceneggiatura, se lo deducono dai soli titoli dei film, è sempre sbagliato. Non è mai vero quello che c’è scritto lì, non è mai vero. C’è scritto: soggetto del tale, sceneggiatura del talaltro; non è vero: è magari di altri che non figurano. Questo innanzi tutto. Per quello che riguarda le sceneggiature, io per esempio ho fatto, sì, quasi tutto da solo la sceneggiatura di Gli uomini che mascalzoni, questo è vero. Però c’era un soggetto, mi pare di Aldo De Benedetti; però ho lavorato sempre con Camerini, l’abbiamo sceneggiato. Camerini e io, non io da solo, Camerini e io. La tavola dei poveri non l’ha scritta Cecchi, aveva solo la supervisione, qualche consiglio e basta; la sceneggiatura l’ha scritta Viviani con me. Ma la sceneggiatura scritta da Viviani e da me non è quella che è stata girata da
Blasetti. […] Casomai ho lavorato ad Acciaio, che è dedotto dal soggetto di Gioca Pietro di Pirandello. Ma quella sceneggiatura è stata fatta praticamente da Ruttmann, era un regista onnivoro Ruttmann, faceva tutto lui. Nel ’32 io ero un ragazzo, scrivevo quello che Ruttmann mi diceva di scrivere. Poi, accuse di Pirandello, Toepliz, di Cecchi, di tutti. Cecchi no, era troppo intelligente, ma tutti gli altri accusarono me. Ma io potevo fare soltanto quello che voleva Ruttmann, capito? Questo è il punto. Lo stesso Pirandello mi disse: «Credevo che lei avesse più rispetto per il maestro». Diceva “il maestro” parlando di se stesso, ma non ironicamente, non come lo dico io, ma con un tono… Freddamente, freddamente. Pirandello assomigliava un po’ a Ezra Pound. L’operatore Innanzi tutto, quello che colpisce quando si pensa all’operatore è che esiste veramente, al di sotto delle differenze e dei caratteri propri a ciascun individuo, un tipo dell’operatore. Credo che ci siano pochissimi altri esempi dove la professione o il mestiere possa uniformare, deformare e condizionare a questo punto il carattere privato dell’uomo. […] L’operatore è, in tutto il globo, un uomo del popolo, intelligente, simpatico e attivo, con una grande voglia di lavorare e di guadagnare: cioè di innalzarsi finanziariamente e socialmente. Data la crescente rapidità dello sviluppo dell’industria cinematografica in questo secolo, l’operatore è dunque un proletario che in breve volgere d’anni si è trasformato in borghese. È un nuovo borghese, un ultimo arrivato, e, come tutti gli ultimi arrivati in una classe, è il più accanito difensore, il più deciso zelatore di tutti i vecchi principi di quella classe. […] Il suo credo estetico si riassume nei seguenti semplici principi: mai effetti troppo spinti; mai esagerare; tutto ciò che è forte va addolcito; tutto ciò che è dolce va rinforzato… Ora avviene che l’intimo gusto, l’intimo senso d’arte che è nell’operatore, molte volte si ribella a queste leggi: e molte volte, senza accorgersene oppure addirittura temendo di cadere in errore, l’operatore esagera. Avviene che tutte le volte che esagera, fa una bella fotografia. […] L’operatore ha fatto una bella fotografia abbandonandosi a se stesso, seguendo fino all’estremo il suo istinto e soffocando dentro di sé quella nocetta piccolo-borghese che continuava a mormorargli: tutto ciò che è forte va addolcito, tutto ciò che è dolce rinforzato, ecc. […] A volte ci sono operatori buonissimi che si lasciano dominare dal loro temperamento borghese e rispettoso del denaro fino a perdere completamente di vista lo scopo del loro lavoro. Un giorno, per esempio, per un comune quanto deprecabile incidente, l’architetto (sempre voglioso di strafare) mi costruì una sala di enormi proporzioni, gran parte della quale era assolutamente inutile allo svolgimento della scena. Al vecchio e ottimo operatore che era meco piangeva il cuore di vedere sprecati tanti soldi. […] Il vecchio operatore fu irremovibile: e girò la scena con un’inquadratura assurda, abbracciando con inutili panoramiche e carrelli tutto l’ambiente, affinché i produttori non avessero la sensazione di aver speso i loro denari invano. […] Come il cacciatore con il cane, come il comandante al macchinista, così è affezionato il regista all’operatore, […] tra cui, più che una collaborazione, è un’indefinibile appassionata amicizia e quasi lo sdoppiamento di una sola attività. […] Soltanto un uomo e una donna che possono diventare amanti offrono uno spettacolo simile. Sorrisi ambigui, lunghe strette di mano, paroline all’orecchio, lente passeggiate romantiche nei così poco romantici giardinetti dei teatri di posa, e perfino palpeggiamenti. Carrelli e amicizie La verità è che siamo pigri a considerare gli altri come esseri umani. È molto più comodo trattarli così soltanto in apparenza e, in realtà, dentro di noi, pensarli macchine. È necessario, per questa necessaria e sempre dolorosa operazione, che gli altri ci aggrediscano. E Alberto Lattuada non mi aveva ancora aggredito. Avvenne verso la fine della lavorazione [di Piccolo mondo antico]. A
Torino, nei vecchi teatri della Fert. Giravo un pomeriggio di dicembre, una scena particolarmente difficile, con il povero grande Molteni, Alida Valli e Massimo Serato. Si trattava di un carrello laterale. La macchina doveva seguire, di fianco, di profilo, i tre attori che attraversavano la grande sala terrena della casa di Oria, passando davanti a una porta finestra aperta sul giardino, con lo sfondo fotografico del lago, e uscendo finalmente da una porta interna. […] La difficoltà massima consisteva in questo: che la macchina sul carrello si fermasse, ogni volta, nell’attimo stesso in cui si fermava Molteni, ma si fermasse angolata in modo da non sforare. […] Non c’era che provare e riprovare, ripetere la scena all’infinito. Ma c’era anche il rischio che quando si provava andava bene, e poi male quando si girava. E il rischio, ben più grave, che, a furia di ripetere (come accade sempre agli attori di teatro, anche bravissimi, se non sono abituati al cinema) a furia di ripetere il buon Molteni si innervosisse, perdesse ogni naturalezza, la vita stessa della sua recitazione, straordinariamente naturale e viva. Così, infatti, accadde. Dopo tre o quattro ore inutili, tra prove e riprese, Molteni, come si dice nel gergo, si smontò. E, finalmente, mi smontai anch’io. Tirai un moccolo e sgridai: «Basta! La pianto! La pianto lì!». Mi rificcai in capo il basco, che mi ero tolto dalla rabbia, mi misi il cappotto, e mi avvicinai, con passo deciso, per uscire dal teatro […] Un macchinista, silenzioso e allibito, scostò per me le pesanti portiere, scorrenti sulle ruggenti coulisses […] Ma nell’attimo che stavo per infilarmi nella fessura, una voce tonante risuonò nel teatro: una voce da dittatore, che per un secondo non seppi riconoscere: «Avanti! Tutti a posto! Si gira! Si continua a girare!». Era la voce di Alberto. Era quel momento di pazienza in più, che lui ebbe. Feci dietro front, di colpo. Tornai al mio lavoro. Alberto, che si era seduto sul carrello al mio posto, accanto all’operatore Carlo Montuori, si alzò immediatamente: e sorrideva, mi sorrideva. Fu quello un lampo. Diventammo amici. Maestro? Allievo? Un buon maestro è, sempre, anche allievo dei suoi allievi. Un buon allievo è, sempre, anche maestro dei suoi maestri. Da quel momento Alberto Lattuada mi fu anche maestro, come ogni vero amico deve essere per il suo amico. Gli attori Gli attori io non li considero propriamente degli intellettuali. Ce ne sono alcuni, fra gli inglesi per esempio; ma generalmente non sono intellettuali anche se intelligenti. Vorrei rifare tale e quale Malombra, con la Valli […] al posto della Miranda. Sono sicuro che sarebbe stato un trionfo di importanza estrema per tutta la mia vita. […] Se uno conosce la vicenda di Malombra come l’ha tracciata Fogazzaro, non può accettare la Miranda. Ma il produttore aveva già in mano un contratto con lei. La consideravano la Garbo italiana. […] Sarebbe risultata ben poco credibile nei panni di una “giovane” donna malata, tutta presa da allucinazioni, perduta tra pensieri contorti. […] Aveva, come dire, un fisico “vecchio”, appassito. […] Eppure dovetti cedere. Non seppi assolutamente battermi, e invece dovevo. Insistere, insistere, per ottenere quello che, in quel momento, dopo il notevole esito di Piccolo mondo antico, sicuramente mi avrebbero concesso. Lo dico per la prima volta e mi costa una certa fatica perché coinvolge due attori che ho sempre stimato, enormemente, Gualtiero Tumiati e Aldo Fabrizi. Quando stavo preparando Eugenia Grandet non ebbi esitazione nel prevedere Tumiati nel ruolo del padre, del vecchio Grandet. Grande attore di teatro, severo, misurato, lo consideravo perfetto per un personaggio francese. Ne aveva le caratteristiche, funzionava giusto… Eppure… A distanza di anni ho capito che se non mi fossi lasciato coinvolgere – troppo – dal clima del romanzo avrei dovuto rischiare e preferire Fabrizi a Tumiati. Pensa che avido Grandet mi avrebbe fatto! Ma quel suo essere romano di sangue mi aveva spaventato, trattenuto in una scelta che avrebbe sicuramente portato a risultati eccellenti. E Fabrizi
ha dimostrato di essere un attore straordinario. Modelli e, forse, maestri A un certo momento mi sono accorto che esisteva anche Clair. Ma René Clair non è cinema. René Clair è vaudeville, è un’altra cosa, molto carina… Clair si serve del cinema, ma non è cinema. Mi sono accorto che esisteva Ford, per esempio. A un certo momento mi sono accorto di My darling Clementine, del Lungo viaggio di ritorno, mi sono accorto che teneva la macchina ferma. Poi Becker, Jacques Becker, soprattutto Goupi-Mains-Rouges. E poi, naturalmente, Sternberg, L’angelo azzurro. Sono film che mi hanno colpito, mi sono piaciuti ma… Ford mi è piaciuto moltissimo, l’ho detto, Pabst meno, Pabst molto meno. E Lubitsch. Ma anche Lubitsch è un po’ teatro, è Molnar che si serve del cinema. Si vede, è cinematografo, però, insomma, è sempre un cinema così. Non è proprio puro cinema. Ford, Ford. Veri comici da film – con Stanlio e Ollio, amatissimi – sono solo due: Chaplin e Keaton. Ma forse vorrei dire solo Buster Keaton. Chaplin, senza il cinema, sarebbe stato grandissimo egualmente… sarebbe stato un clown eccezionale, da ammirare di continuo… Keaton, invece, senza il cinema, forse non sarebbe esistito. Pensa a The General, pensa ad altri suoi film: è lui il cinema. Non ci sono dubbi. Cinema “arte minima” Il cinema non è come lo scrivere, non è come la letteratura: è una cosa meno individuale, appartiene meno a chi la fa. […] I registi sono meno individuali, più collettivi: sono più a contatto con il popolo. Il cinematografo talvolta è arte, ma è sempre industria. Un po’ come l’architettura. Lo so che il cinema può anche essere arte, che certe volte – rare – è arte. Però è sempre, e non può non esserlo, in tutti i casi, un’industria costosissima. Quindi l’artista che fa del cinema deve per forza venire a patti con questa industria. Direte: «Ma anche l’editoria è un’industria». Non è la stessa cosa, perché il costo della produzione cinematografica è troppo più alto del costo della produzione editoriale e non permette all’artista che vuol fare del cinema non dico la diffusione dell’opera, non dico la stampa, ma perfino la stesura dell’opera stessa nelle sue concrete qualità artistiche. Anche la carta e l’inchiostro e la penna necessari allo scrittore fanno parte di un’industria, ma è un immobilizzo di capitale così piccolo che non esiste. Il problema dello scrittore che voglia assolutamente scrivere è quindi tutto individuale. Il problema del regista che non può fare un film, o non può fare il film che vuole, è invece completamente diverso dal problema dello scrittore che non trova l’editore. Bisognerebbe pensare a questo: a uno scrittore che non abbia i soldi nemmeno per la carta e la matita. Peggio ancora. Poiché uno scrittore può anche essere poeta, può addirittura comporre i propri versi senza scriverli e magari senza recitarli: basta che pensi alle parole. Invece siccome le parole del regista costano milioni e miliardi, un regista che non può fare un film è come uno scrittore che non possa nemmeno pensare. Cioè non esiste. Quindi vedete che il cinema prima di essere arte, è industria. È un’industria che si rivolge a molti, fatta per molti. Il cinematografo non ha appunto nulla del lavoro, del dovere: è vario e complesso come la vita medesima. Una vita rinchiusa tra quattro pareti di celotex e dominata, come da un incubo astrale, dal ronzio della macchina da presa: ma che simula, al tempo stesso, tutte le forme, le passioni, le attività, e i viaggi e le abitudini e i piaceri e i dolori della vita: che sostituisce in fondo la vita e dà al debole, al pigro, l’illusione di aver vinto la propria debolezza e pigrizia.
Ho molto amato il cinema. Come modo di vita, lo farei sempre, ma vorrei che non uscisse niente dalla macchina da presa. Amo la vita del cinema, amo la messa in scena, ma non mi piace che dopo si veda qualcosa: tutto dovrebbe finire lì. Questa è la verità. Amo molto il cinema; di fatto, in quasi tutti i miei libri il cinema interviene in un modo o nell’altro. Insomma, io vorrei che la pellicola non fosse impressionata e che tutto il resto rimanesse uguale a se stesso. Mi piace il montaggio ma non la proiezione. Il montaggio mi diverte, la proiezione mi annoia. Non ho mai visto i miei film con il pubblico o molto di rado. Non mi piace vedere i miei film: dopo vent’anni può essere, ma a quel punto mi emozionano, mi riportano alla memoria dei ricordi. Sì, il cinema è un sogno. Progetti nel cassetto Ce ne sono due. Uno riguarda un romanzo non molto conosciuto, La bufera, di Edoardo Calandra, uno scrittore piemontese che narrò una storia straordinaria, d’amore, di passione, di violenza, ambientata in epoca napoleonica. Ho sognato di poterlo portare sullo schermo, e sarebbe stato un soggetto di grande richiamo emotivo. […] L’altro desiderio riguarda un testo più noto, Il diavolo nella bottiglia di Stevenson. Con Suso Cecchi avevamo anche steso la sceneggiatura… pensavo di ambientare la vicenda nel paese di Padre Pio, tra arretratezza e superstizione… Ho lottato per mesi e mesi, ma l’intoppo maggiore era rappresentato dal nome dell’attrice che volevo mettere a fianco di un protagonista inglese. Pensa, volevo Brigitte Bardot! Sì, proprio lei, non ancora diva e per questa ragione negatami dal produttore. [Tra gli altri progetti rimasti alla fase di scrittura, si segnalano in particolare i due pubblicati in «Filmcritica», n. 32, gennaio 1954: il primo, Bandiera rossa, è un soggetto ambientato tra Milano e la Brianza nel secondo dopoguerra, e descrive il progressivo imborghesimento di una ex partigiana divenuta moglie di un nobile che, al contrario, si scopre a poco a poco ribelle al conformismo della propria classe sociale; il secondo è un soggetto scritto con Carlo Musso, un curioso esperimento cinematografico in cui, per raccontare la solitudine dell’uomo moderno, si decide di spiare per sei mesi, con nove macchine da presa, la vita dei viaggiatori che passano per La camera 207 (questo il titolo) di un grande albergo, N. d. A.] Le dichiarazioni sono tratte da: C. Bertieri, “Conversando con Soldati”, in AA.VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino, 1991: J.A. Gili (a cura di), Mario Soldati, Edizioni Cinecittà International, Roma, 1992; D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Mario Soldati, Frassinelli, Milano, 1983; F. Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano i protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), vol. III, Bulzoni, Roma, 1979; M. Soldati, America primo amore, 1935; M. Soldati, 24 ore in uno studio cinematografico, 1935; M. Soldati, Prefazione a F.M. De Sanctis, Alberto Lattuada, Guanda, Parma, 1961.
[Avvertenza: Per evitare di appesantire il testo con lunghe specificazioni bibliografiche, abbiamo preferito indicare la provenienza delle molte dichiarazioni di Soldati e dei suoi collaboratori secondo le seguenti sigle: FF – Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti (1935-1959), Feltrinelli, Milano, 1979. JG – Jean A. Gili (a cura di), Mario Soldati, Edizioni Cinecittà International, Roma, 1992. FS – Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano i protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), vol. III, Bulzoni, Roma, 1979.] Introduzione «Qualche momento brillante all’interno di una carriera senza rilievo. Questo scrittore non ha mai saputo creare un universo cinematografico coerente, ma ha ricamato con non poco talento sull’universo letterario degli altri»: la pagella dei «Cahiers», pubblicata nel ’62 all’interno di un censimento dei registi italiani, per quanto lapidaria, riassume bene il giudizio che fin dalla metà
degli anni Quaranta circonda la produzione di Soldati. Poche righe possono bastare: per mettere l’accento sulla natura di scrittore e sospettare un’intrusione imperdonabile, tanto più perché accompagnata da parole spesso sprezzanti nei confronti del cinema pronunciate dallo stesso regista; per salvare pochi film (due, forse tre) nel mare magnum di una produzione per il resto piena di aritmie qualitative, passi falsi, furbizie commerciali e accondiscendenza estetica, iniziata e chiusa un po’ improvvisamente, senza entusiasmi, prima, né rimpianti, poi, e resa ancora più dimenticabile proprio da quelle due, tre eccezioni (che in realtà, stando a quanto afferma Soldati, sarebbero otto: Piccolo mondo antico, Malombra, Daniele Cortis, Le miserie del signor Travet, Fuga in Francia, La mano dello straniero, La provinciale, Policarpo, ufficiale di scrittura); per richiamare, infine, alla letterarietà e forse leziosità un po’ parassitaria di quei pochi titoli salvabili, più di gusto che d’arte, comunque insufficienti a creare “un universo” e a generarne di nuovi, per imitazione o reazione. Intanto, un anno prima, nel ’61, quando Soldati ha ormai concluso la sua carriera di regista (ma nel ’63 intraprenderà quella di critico all’«Europeo», al posto di Giuseppe Marotta, e per molti sarà un pessimo spettatore), era apparso il primo studio complessivo sulla sua opera, firmato da Francesco Bolzoni, già autore di due lunghe ricognizioni monografiche su «Ferrania» (agosto 1956) e «Bianco e Nero» (maggio 1959); e il giudizio, anche se diluito in una decina di pagine, suonava non meno aspro e liquidatorio di quello in arrivo sui «Cahiers». Di tutta la produzione del regista torinese, aperta nel ’38 dalla Principessa Tarakanova, Bolzoni promuove a pieni voti soltanto i televisivi Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini (1957) e Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno (1960), su cui pesa positivamente l’influenza di Zavattini, e boccia sonoramente tutto il resto, sotto un’insegna che anticipa quella dei critici d’oltralpe (Soldati «possiede una teorica interessante e non un’opera valida») e a partire da un approccio critico perdente: troppo rispettoso dello scrittore per non cercarne un equivalente cinematografico, Bolzoni si impantana subito nella promozione o bocciatura dei singoli film e, soprattutto, risulta attrezzato a concepire l’”autorialità” come un valore immutabile, anziché a vedere nell’autore una funzione e un processo continuamente rinnovabili e diversamente interpretabili – tanto più nel caso dell’industria cinematografica – sullo sfondo delle trasformazioni degli scenari mediali, sociali e culturali. Il letterato, poi, talentuoso e di successo, disturba. E il rischio, lungo questo crinale, è di guardare a Soldati come a un regista mancato e a uno scrittore frustrato dall’incapacità di trasferire al cinema il proprio talento o di realizzarvi un altro sguardo, altrettanto personale: secondo Bolzoni, l’intera produzione soldatiana sarebbe dunque attraversata da un sentimento di «rimorso» prodotto dall’impossibilità di dare dimostrazione «della propria acutezza di sguardo». Più che ricondurre la filmografia del regista, nato a Torino il 17 novembre 1906, a uno schema interpretativo costruito sui sacri valori dell’autorialità e per questo destinato a incrinarsi subito di fronte all’insoddisfazione di opere riuscite sempre a metà, promettenti e deludenti insieme, con qualche capolavoro per caso, vale forse la pena di ripartire proprio dai film, mettendo un po’ da parte – non senza qualche fatica – il Soldati scrittore e critico di se stesso (salvando utilitaristicamente il cronista), e tutta l’ingombrante mole di giudizi, chiavi interpretative e fugaci teorizzazioni con cui, alternando i ruoli, ha circondato, accompagnato e in fondo appannato il proprio lavoro, ottenendo spesso l’effetto (voluto?) di imbalsamare l’esercizio critico, iniziandolo sempre, e tendenziosamente, per primo. Per dirla con Caldiron, che dell’opera di Soldati è stato uno dei pochi interpreti originali, si deve provare a «non farne un caso personale», col rischio di trascurare «lo scenario più ampio dei processi di trasformazione dell’industria culturale». Per non appiattire il regista sullo scrittore, trattandolo alla stregua di un alter ego sfuggente e traditore, si deve insomma supporre una, almeno parziale, soluzione di continuità tra le due figure, senza per questo legittimare all’origine di tutto una specie di dissociazione schizofrenica. Si tratta,
piuttosto, e proprio a partire dalla dismissione di un’idea astorica, romantica e idealistica di autore, di vedere nel Soldati regista un altro modello d’autore, perfettamente consonante e a proprio agio con le piccole e grandi rivoluzioni in corso nell’industria culturale italiana fra gli anni Trenta e il boom economico. Solo così le tante, troppe contraddizioni lasciate in eredità dall’opera soldatiana possono, diversamente da quanto è successo fino a oggi (con poche eccezioni), funzionare “al contrario”: ossia, come i sintomi di un’attitudine al “fare artistico” completamente nuova, attraversata, non c’è dubbio, da intenzioni, energie e obiettivi talvolta contrastanti e culturalmente dissomiglianti, ma non per questo priva di una logica più profonda e diversa dalla semplice opportunità commerciale. Lo sguardo, però, deve allargarsi: a comprendere Soldati e la sua opera sullo sfondo dei tanti e diversi contesti culturali, produttivi, sociali che egli non attraversa semplicemente ma con cui entra in contatto e contrasto, trovandovi in molti casi – almeno per quanto riguarda il cinema – forme, temi e figure già pronte, sollecitazioni, pratiche e modalità professionali già avviate; che non contraddice, ma interpreta. Un ritratto “in positivo”, da opporre al più tradizionale gioco delle differenze con lo scrittore. Soldati, insomma, è più moderno e “aggiornato” dei suoi critici e di molti suoi colleghi, e manifesta una disponibilità maggiore a condurre una doppia o tripla vita all’interno di settori della produzione culturale di cui aveva perfettamente capito la differenza e al tempo stesso l’integrazione sistemica, passando poi a interpretarle e a esercitarle, testimoniando così di una nuova e vincente modalità di presenza e azione dell’”intellettuale” nel quadro della cultura di massa; per dirla con Grasso, Soldati è stato il «primo, grande media-man della cultura italiana». E del resto, meglio dei suoi critici, egli sembra aver compreso molto presto la possibilità di una coabitazione di diversi ordini di valori, pratiche e procedure estetiche, in tensione tra “arte” e “industria” e in conformità con la dislocazione e la desacralizzazione della creazione che definiscono il “fare artistico” nel Novecento. Nessuna schizofrenia, dunque, tradimento o “incompiuto”; ma a patto di ricomporre i margini del regista a partire dallo scambio continuo, vitale e proficuo con cui l’autore collabora col sistema, nel gioco delle reciproche determinazioni. Ciò che può stupire, e magari stordire, è semmai l’agilità mentale e professionale, la sicurezza “artigianale” con cui Soldati è stato in grado di alternare l’attività di scrittore, vissuta all’origine come prolungamento romantico di un esercizio soggettivo e privato dello “spirito”, a quella di regista, avvertita perlopiù come industriale e collettiva, tecnologica e mediata, esercitata nel compromesso con la dimensione commerciale e in costante ascolto dei “gusti” del pubblico, «il vero centro dell’interesse produttivo, la condizione cui piegare le intenzioni creative, di fatto ribaltando i criteri tradizionali della produzione artistica che poneva in primo piano l’ispirazione dell’autore e la sua urgenza espressiva» (L. Farinotti, “L’autore cinematografico”, in F. Colombo, R. Eugeni (a cura di), Il prodotto culturale, Carocci, Roma, 2002, p. 167). Di questi ribaltamenti costitutivi dello sviluppo dell’industrializzazione della cultura, che modificano alla radice l’idea e la pratica della creazione artistica (soprattutto nel dotarla di un carattere collettivo e “meccanico” dipendente da fattori nuovi), Soldati è stato un interprete consapevole e modernissimo, e appare oggi un testimone prezioso per il fatto di aver contaminato, tra la crisi e la critica, due “posture” socialmente e culturalmente poco comunicanti: quella degli intellettuali d’élite, che osservano dall’esterno i processi culturali in corso e «coltivano una propria identità specifica», trattando il medium come «pura occasione tecnica di un discorso espressivo che si vuole fortemente personalizzato», e quella degli intellettuali-autori che accettano di essere interni «alla macchina stessa, cedendole in qualche modo la “paternità” dei prodotti» (F. Colombo, La cultura sottile, Bompiani, Milano, 1998, pp. 28-29). Non a caso il regista, entrato nel ’31 nel mondo del cinema, sente subito il bisogno di scriverne (24 ore in uno studio cinematografico esce nel 1935), ma sotto falso nome, come a ribadire la coabitazione non facile ma possibile – questa sì, in quanto traguardo operativo, vagamente schizofrenica – dei due punti di vista.
Un po’ come Salgari, per citare l’esempio più celebre, Soldati rappresenta dunque una posizione intermedia tra i due fronti, problematica e complessa e per questo sintomatica. Più esattamente, si muove (ed è fatto muovere dalla critica) sul crinale ambiguo tra la figura del regista-letterato, che porta al cinema valori, tradizioni e logiche altre e che però, al tempo stesso, e quasi inaspettatamente, riesce a “funzionare” dentro l’ingranaggio del cinema, e quella dello scrittorecineasta, che s’avventura per ragioni non sempre chiare o nobili nello scintillante e commerciale mondo del cinema, restando tuttavia circondato da un cordone sanitario paraestetico che qualifica la sua esperienza cinematografica come subalterna. Ma Soldati è stato anche, più semplicemente, un registaregista e uno scrittore-scrittore; un abile regista e un bravo scrittore. In quasi trent’anni di carriera (contando la gavetta che anticipa l’esordio alla regia), egli si è variamente disposto nei confronti di questi due status dell’autorialità artistica, facendoli ora collidere, ora felicemente incontrare, ora contraddittoriamente riunendoli, ora obbligatoriamente separandoli; rubando al cinema tecniche e immaginari da convertire in scrittura e prendendo dalla letteratura quasi esclusivamente il primato della narrazione e dell’ideazione “a parole”. E il fatto che considerasse il cinema “un’arte minore” – non tanto un giudizio di valore ma, piuttosto, l’indicazione di specifiche proprietà creative e comunicative di cui testimoniano tutti i suoi film – ha aiutato lo sviluppo autonomo dei due ambiti e una riduzione dei possibili “disturbi”. Dialettica e sintesi che fanno del Soldati regista un luogo di convergenza prezioso in cui si cristallizzano immagini e idee diverse, e a volte distanti, riferite allo statuto dell’autore in epoca moderna, al ruolo dell’artista posto di fronte all’industria culturale, alle gerarchie culturali della produzione artistica, alle pratiche e ai saperi professionali richiesti dall’orizzonte multiforme, e in continuo rimescolamento, della spettacolarità massmediale. Solo così, forse, è possibile “salvare” Soldati, e non semplicemente una manciata dei suoi film; e solo così la sua filmografia può trasformarsi da luogo di negazione, frustrazione e incompiutezza, in uno spazio in cui si affermano con decisione e coerenza un’idea di autore e di cinema testimoni di processi culturali che eccedono i limiti di una storia e di una critica dell’autore cinematografico. La traccia che tiene unita la filmografia soldatiana, così diversa e centrifuga e, nella diversità, compatta, andrà allora cercata proprio nella messa a punto di una pratica creativa plasmata (e continuamente riplasmata) sulle logiche e i diktat dell’industria culturale e sempre rispettosa della natura industriale, meccanica e popolare del cinema, su cui pesa senza dubbio l’avvio di carriera accanto a Camerini. «I registi – scrive in America primo amore, a partire dal confronto con la letteratura – sono meno individuali, più collettivi: sono più a contatto con il popolo»; similmente, nell’intervento Cinema e letteratura: «Insomma il cinema non è come lo scrivere, non è come la letteratura: è una cosa meno individuale, più collettiva»; e in 24 ore in uno studio cinematografico: «[il cinema] è un’opera totalmente nuova che si fa, oltre che con le idee fondamentali ispiratrici, con le facce di determinati attori, e le pareti e i mobili di una data scena, e i paesaggi di un dato esterno»; il cinema è «arte, cioè istinto, ma anche lavoro, preparazione, pazienza, coscienza e intelligenza». Anonimo e popolare, industriale e collettivo, concreto e intermediale: Soldati ricorda Edgar Morin, che vedeva nell’incontro tra arte e industria il ritorno dell’«antico collettivismo del lavoro artistico, quello delle epopee anonime, dei costruttori di cattedrali, delle botteghe di pittori», e, senza mezzi termini, identifica il cinema come “professione” e “artigianato”. Non è un caso, quindi, che, accanto a un libro divertito e al tempo stesso stupefatto come 24 ore in uno studio cinematografico, visita guidata alla fatica del cinema, Soldati dia alle stampe, nel 1943, un saggio rimasto celebre sull’operatore, additato come «il centro tecnico, magico e affascinante del cinematografo», e in cui il cinema appare fatto soprattutto con «le bestemmie, le sudate, le trovate, gli interminabili intrichi di bandiere, velatini, gelatine, luci e lucette, ombre e ombrette, e buchi e tubi e grigiliati, le notti insonni nell’ansia di vedere i provini di sviluppo, i sordi litigi nel buio delle piccole proiezioni».
Il precoce riconoscimento della specificità estetica, culturale e comunicativa del cinema – magari per contrasto con la letteratura – spiega inoltre i rapporti, nient’affatto critici, se non su un piano filosofico generale, tra lo scrittore e il regista. Prova ne è uno dei dati più appariscenti del dialogo tra i due, ossia l’assenza totale di adattamenti dal primo o di soggetti originali offerti da questo al secondo (che invece dialoga bene con l’esperto d’arte, laureato in Lettere a Torino nel ’23 con una tesi su Boccaccio Boccaccino, relatore Lionello Venturi, e poi specializzando all’Istituto superiore di Storia dell’Arte di Roma), con la curiosa eccezione di 24 ore in uno studio cinematografico, che sembra il canovaccio di Due milioni per un sorriso e Dora Nelson, entrambi del ’33. Quando Soldati scrive per e al cinema, lo fa completamente dentro le regole di un’istituzione che, proprio per il fatto di averne compreso le specificità, evita di piegare a pratiche, abitudini e logiche “esterne”; il che, naturalmente, non esclude una certa continuità tematica tra l’opera narrativa e quella cinematografica, se non altro per inevitabili fenomeni osmotici. Viceversa, egli ammette la possibilità di uno scambio tra i due ambiti, e anzi una parte considerevole della sua produzione appare segnata dall’adattamento; ma il ricorso frequente alla riscrittura di romanzi più o meno famosi non deriva banalmente da una specie di disposizione originaria. La trasposizione letteraria – uno dei principi di coerenza tra i diversi segmenti in cui si è soliti distinguere la sua filmografia (con la cesura più importante posta alla fine degli anni Quaranta) – realizza piuttosto, localmente, un fenomeno più generale e caratteristico di tutto Soldati, vale a dire il riuso, spesso molto personale, e sempre cinematograficamente segnato, di materiali preesistenti. Il “popolare” soldatiano passa principalmente di qui, e le trasformazioni occorse lungo la sua filmografia in rapporto alla tipologia dei testi utilizzati e alle pratiche di scambio e adattamento disegnano un percorso coerente, in linea con le logiche dell’industria culturale e la sua tendenza al collage e al pastiche. Così, se da un lato, tra Piccolo mondo antico (1941), Botta e risposta (1950) e I tre corsari (1952), film normalmente allontanati l’uno dall’altro quasi fossero opera di autori diversi, si osserva una indubbia continuità operativa e poetica, essendo tutti “tratti da” con un identico atteggiamento “professionale”, dall’altro lato cambiano, e significativamente, le fonti e le procedure di adattamento. Il primo, come anche Malombra (1942) e Daniele Cortis (1947), è ispirato con una certa fedeltà a un romanzo di Antonio Fogazzaro, di cui Soldati trattiene e travasa al cinema soprattutto lo spirito “scapigliato”, romantico e romanzesco, e insomma “popolare”, iniziando tra le altre cose a prendere le misure di un genere (popolare e nazionale per eccellenza) cui tornerà spesso, il melodramma, e trovando al contempo un primo, riuscito equilibrio tra “antico” e “moderno” – vale a dire, su un altro piano, tra valori e funzioni letterari e logiche produttive e di consumo cinematografiche. E in questo Soldati dimostra di saper fare – non a caso all’ombra della Lux – quello che a molti dei registi passati negli uffici di Gualino è riuscito solo in parte, ossia tradurre il patrimonio culturale dell’italiano “medio” in spettacolo. Il secondo, Botta e risposta, nasce dalla rielaborazione del programma radiofonico ideato da Silvio Gigli nel 1944 per Radio Firenze e inanella una serie di sketch comici senza troppa continuità, ispirandosi alla logica spettacolare (a “numeri”) del varietà e, assieme ai successivi È l’amor che mi rovina e O.K. Nerone, entrambi del ’51, testimonia splendidamente dell’intreccio mediale e della nuova logica di coabitazione tra alto e basso e popolare e d’élite che in quegli anni caratterizza l’industria culturale. I tre corsari, infine, è un liberissimo adattamento di un libro salgariano (cambia il titolo originale) o, più esattamente, l’eclettico collage – in bilico tra plagio e tradimento – di una serie di immagini, personaggi e situazioni ispirate all’universo ciclico, seriale e già “polverizzato” di Salgari, in cui la fedeltà all’autore lascia il posto al mélange più sfrenato, avendo di mira l’unico valore determinante dell’esplosiva (almeno in termini numerici) industria cinematografica del tempo, vale a dire l’intrattenimento. Non casualmente, poi, dopo aver omaggiato il “maestro” Pirandello, a più di vent’anni dal loro
unico, sfortunato incontro sul set di Acciaio, in “Il ventaglino” (1954), 2° episodio del collettivo Questa è la vita, gli ultimi film del regista, con l’eccezione di Policarpo, ufficiale di scrittura (1959), sono opere “originali” e di gruppo, alla ricerca di formule nuove per un cinema che sta bruciando a una velocità impressionante generi, situazioni, personaggi, ma in cui di nuovo c’è soprattutto, e ancora una volta, il riutilizzo di stereotipi, schemi e registri del passato del cinema e della letteratura, e del presente del consumo mediale, tra cultura di massa e difesa della qualità tradizionale. Così, se La donna del fiume (1955), per cui si mette al lavoro un team impressionante di scrittori formato da Bassani, Flaiano, Moravia, Pasolini, Vancini oltre allo stesso Soldati, è, con il suo “neorealismo da esportazione”, un remake a distanza di Riso amaro (di Giuseppe De Santis, 1949), il successivo Era di venerdì 17 (1957) denuncia più apertamente la sua discendenza da un proto-testo neorealista come Quattro passi tra le nuvole (di Alessandro Blasetti, 1942). Solo adesso, del resto, Soldati, indifferente e anzi critico nei confronti del Neorealismo, trova il modo di recuperarlo e contraddittoriamente omaggiarlo; solo adesso, quando è ormai stile, formula, gusto: lo recupera, cioè, già consumato e “industrializzato”, spolverandolo con maestria su opere picaresche e corsare. La pratica della trasposizione intesa non tanto come omaggio ma riuso e riciclaggio realizza poi, nella pratica, l’idea di quel contatto ravvicinato con il “popolo” che il cinema dovrebbe assecondare, ritrovando così, contemporaneamente, una delle sue proprietà originarie. La voce dell’autore, di conseguenza, si adegua, tesa tra il prevalere dei “valori di scambio” e dello sbilanciamento verso gli apparati della distribuzione. Soldati abbassa dunque i toni, si ritira, non per rinuncia alla propria individualità ma per felice comprensione dei limiti del proprio ruolo creativo di fronte a un’arte intesa e vissuta soprattutto «come artigianato, come organizzazione industriale, come gusto collettivo» (Caldiron). E trova così uno stile che porta incisi i tratti di quell’assenza di “marcatezza” che, agli occhi di Maurizio Grande, qualifica il popolare di contro alla produzione “d’autore”; o, meglio, trova tanti stili diversi, uno per ogni film, «raffreddando l’esuberanza autoriale in una serie di singoli progetti» (Ghezzi), ossia modellando il suo classicismo di fondo sulle esigenze del “manufatto”, senza per questo rinunciare del tutto a un pizzico di continuità poetica. Emergono dunque in primo piano i sacri valori della narratività e del ritmo, spalmati senza significative variazioni sulla trasposizione del classico come sul film di cappa e spada. Soldati impara da Camerini e perfeziona una scrittura “trasparente” e classica, che ne fa uno dei registi più hollywoodiani del nostro cinema: alto artigianato e rapidità professionale che non distinguono tra film di serie A e film di serie B e che, tanto nella pratica (marcato collettivismo della creazione), quanto nella logica (attenzione alle richieste del mercato e ai desideri del pubblico), sintetizzano la ricetta di quel cinema “medio” oggi scomparso, di cui Soldati testimonia non soltanto la morfologia ma, per un ventennio, anche la storia. L’incontro – tra mediazione e medializzazione – delle ragioni dell’industria e delle richieste dell’audience, nel riutilizzo e nella codificazione di un lessico comune in bilico tra stereotipi, generi e icone, è infatti quasi sempre perfetto. Così che ogni singola fase del cinema di Soldati – come quella di ogni buon hollywoodiano – è in primo luogo la sezione di una storia più grande. Del cinema ma anche, in prospettiva, della cultura e della società italiane. Lo dice bene Cecchi recensendo Le miserie del signor Travet (1946), ma l’osservazione può essere generalizzata: «Qui il mestiere è saldo e versatile come nei più agili film americani; mentre la sostanza, il gusto e i significati sono nostrani al cento per cento». E lo nota, non senza amarezza per i risultati estetici, Massimo Puccini, sempre all’altezza di Travet, definendolo «regista delle esperienze». “Il gusto e i significati nostrani” rappresentano in effetti l’oggetto privilegiato di tutto il cinema di Soldati, quand’anche in trasferta nel tempo o nell’illusionismo dei generi avventurosi. Il ritratto di quell’”Italia piccola” che porterà nel titolo del suo penultimo film segna tutta la sua carriera, offerto ora direttamente, attraverso il racconto di piccoli mondi, spesso appartati e settentrionali, di
sentimenti e “cose”, ora indirettamente, nella messa in scena di storie e forme che incontrano il gusto del pubblico e in cui il pubblico si vuole specchiare. All’origine del “popolare” soldatiano ci sono sensibilità e curiosità antropologica, e se il suo cinema documenta meglio di tanti realismi lo “stato delle cose”, è per questa risalita dal basso del gusto verso gli “universali” delle forme. Il cinema si fa strumento di indagine e documento, senza per questo appiattirsi sulla replica e nella traccia: perché – fedele a un’idea di arte come artificio e invenzione – Soldati trova la verità (dell’uomo e dell’arte) nella deformazione del riflesso, nelle forme del gusto. Poco, per esempio, si è riflettuto sul tratto forse più appariscente della sua filmografia, ossia il fatto di essere perennemente in costume, non soltanto quando torna all’Ottocento o frequenta generi “travestiti” come il cappa e spada. Il gioco trasformativo del cinema – che tiene il regista a distanza dalla poetica neorealista, facendogli preferire l’ossimorica etichetta di “neorealista borghese”, similmente allo scrittore che, nel ventennio, lascia volentieri ai Moravia, ai Vittorini e agli Alvaro il realismo romanzesco – si riflette nella propensione alla recita, al camuffamento, al rovesciamento; la logica dell’artificio, consustanziale al cinema e alla sua ontologia, incontra il piacere, che è anche del letterato (La giacca verde, La verità sul caso Motta…), alla dislocazione dell’io, al suo incessante perdersi e ritrovarsi, al suo continuo travestirsi e fingersi. Per rivelarsi infine nella nudità che il camouflage, moltiplicandosi, rivela, così come la «carnevalizzazione del ruolo dell’autore» (Caldiron) o la sua «parodia» (Ghezzi) hanno di mira un identico svelamento nei confronti dei nuovi assetti dell’industria culturale. Il costume è insomma del cinema, dell’arte e dell’uomo; e se il cinema vuole e può dire qualcosa di vero (senza cadere nell’equivoco del verosimile) deve assecondare la sua natura. Non è un caso che all’origine della filmografia soldatiana ci siano Due milioni per un sorriso e Dora Nelson, emblemi di quel «pirandellismo diffuso» (A. Farassino, “I nipotini di Mattia Pascal”, in M.A. Grignani, a cura di, Il cinema e Pirandello, La Nuova Italia, Firenze, 1992), basso e bastardo, di tanto cinema italiano degli anni Trenta e Quaranta, in cui il groviglio psicologico del Soldati narratore, dove «la finzione è annessa al mondo dello spirito e quindi legittimata» (Cesare Garboli), si traduce in tema, trovando nel cinema il mezzo. Pirandellista, appunto, e non pirandelliano, perché la finzione non è indicata come limite e forma della dispersione del soggetto ma come luogo di rivelazione. E in cui le esigenze spettacolari del cinema, ma anche il rispetto dei suoi principi costitutivi, si incontrano con l’interrogazione filosofica, trasformando la messa in scena nello specifico cinematografico, «punto di partenza per un lavoro ermeneutico e combinatorio che per così dire ne illustra i meccanismi interni, ne distrugge l’incanto ingannevole» (G. Fink, L’uso del vetrino: il cinema nella pagina di Mario Soldati, «Paragone», 1986), riflettendo il cinema stesso e rivelandosi il luogo di una copertura provvisoria ma necessaria. In questa prospettiva andrà di conseguenza rivisto un altro resistente luogo comune dell’esegesi soldatiana, quello che lo vuole disimpegnato e frivolo, soprattutto a confronto con la battaglia neorealista annunciata fin dai primi anni Quaranta sulle pagine di «Cinema», in coincidenza con Piccolo mondo antico. Soldati fa film e parla poco: non alza la voce per difendersi dalle accuse di calligrafismo e non partecipa ai numerosi dibattiti critico-teorici che attraversano la pubblicistica specializzata tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Fa film e concede interviste: il suo profilo, “basso” e artigianale, è anche in questo più simile a quello di un regista hollywoodiano che non a quello del neonato regista-teorico-cinefilo che farà da matrice, qualche anno dopo, al modernismo della professione. Ritirato nella forma, Soldati, per i più, avrebbe praticato un cinema che, nella migliore delle ipotesi, starebbe dalle parti dell’apolitico; in tempi di Neorealismo, si dubita perfino della sua umanità per il fatto che «gli anni e le esperienze dolorose del dopoguerra hanno inciso senza frutto nella loro ispirazione» (nel giudizio di Mida lo si associa a Camerini). L’idea, che ancora oggi deve molto alle ormai antiche pagine di «Cinema», per cui il metro – più quantitativo che qualitativo – dei “quarti”
di realtà sullo schermo stabilisce automaticamente una gerarchia e un valore, sottostima alcuni dati messi recentemente in luce da Vito Zagarrio e Antonio Costa, ma fatti già balenare nel corso della celebre tavola rotonda sul Neorealismo di Pesaro ’74 e direttamente recuperabili dalla visione di film dimenticati, come Tragica notte (1942) o Quartieri alti (1945). Certo, la scrittura di “secondo grado”, sempre un po’ filtrata di Soldati sospende una comunicazione orizzontale tra realtà e cinema, recuperando la prima come dettaglio e particolare, arredamento e scenografia o, nella migliore delle ipotesi, cornice; vivifica il “cotto” col “crudo” e fugge l’attualità. E quand’anche il paesaggio – geografico e umano – si fa avanti, la piega che prende è quella dell’impaginazione calligrafico-hollywoodiana. Il realismo, del resto, non gli interessa se non come appendice descrittiva e, come detto, l’artificio e i suoi fuochi servono il racconto del reale meglio della replica. Eppure, dedurre da questo un disimpegno e un orientamento ludico – soprattutto nel clima rovente degli anni Quaranta, prima e dopo la guerra – suona riduttivo. Intanto perché, come ricorda Costa (in AA.VV, Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino, 1991), il rimprovero che si muove al “calligrafismo”, ossia «l’assenza di un progetto “forte” di integrazione tra una scelta estetica e una scelta sociale», non deve farci dimenticare «che persino questa concezione del cinema come arte minore, recuperata a posteriori da Soldati, sottintendeva una scelta di autonomia, di libertà di muoversi tra generi diversi, tra il recupero della grande tradizione letteraria ottocentesca e una fenomenologia di gesti e comportamenti per la quale non mancavano modelli cinematografici accreditati (da Lubitsch a Camerini) né letterari». Come a dire che il calligrafismo non è un rifugio “bianco”, che continuerebbe il disimpegno della commedia coeva, ma, al contrario, un’opzione di per sé critica e, al tempo stesso, uno spazio di trasfigurazione che, agli occhi più attenti, non occulta ma rivela. E poi perché, in secondo luogo, in quella poetica del travestimento – che certo cambia di segno lungo la filmografia di Soldati e in alcuni casi servirà davvero soltanto il meccanismo ludico dello spettacolo – nei suoi capitoli più perfetti, cameriniani e calligrafici, si può cogliere in opera quella “dissimulazione onesta” con cui Zagarrio, in Cinema e fascismo, riconosce nel calligrafismo (ma il discorso può essere allargato al “pirandellismo” diffuso nella filmografia soldatiana e non solo), una strategia estetica che ha un suo preciso versante politico e polemico. Tortuosità, ambiguità e doppiezze appaiono infatti come una precisa risposta al “totalitarismo imperfetto” che contraddistingue l’Italia fascista del dopo-Etiopia; la finzione, nel triplo senso di falsità, recitazione e fiction, si fa contemporaneamente modus operandi e specchio di un modus vivendi «della società e un modo di essere della cultura italiana in una determinata fase storica». E se la tendenza, nel caso di Soldati, si accentua fino a diventare cifra stilistica, è perché il gioco della dissimulazione e dell’apparenza, più che in altri registi che lo praticano magari una tantum, sopravvive alle pressioni del contesto, trasformandosi in un mezzo per vedere la realtà per quello che è. Prologo. Soggetti, sceneggiature e mezzi film (1931-1938) L’ingresso di Mario Soldati nel cinema, «in quella tristissima estate romana» del luglio del 1931, è troppo celebre per essere narrato ancora una volta; moltiplicato e sapientemente variato a seconda delle sedi, ha tutto l’aspetto (e il dettaglio) di un rito d’iniziazione definitivo, in cui Soldati figura come preso e tirato dalle circostanze e incapace di reagirvi: in quell’anno qualcosa, in lui, che era allora un giovane sprovveduto e confuso, di ritorno da un viaggio negli States finito male, solo, senza soldi né lavoro, che avrebbe voluto stare al Nord (la Olivetti) ed è invece costretto a scendere a Sud (un avanti e indietro che continuerà per tutta la sua carriera), cambia per sempre. E come ogni buon rito di iniziazione, il suo ingresso negli stabilimenti Cines, dove si gira Figaro e la sua gran giornata, partorisce un altro uomo. La genesi stessa del Soldati cinematografaro possiede insomma qualcosa di “pirandellista”, al pari di molti suoi film degli esordi; e del resto, come sostiene Garboli, egli è stato lo scrittore del
Novecento italiano che più di ogni altro ha saputo dire “io” trattandosi «come una terza persona», applicando il gioco della dissimulazione e della finzione alla sua stessa biografia. Il cinema, per parte sua, vi contribuisce spremendo dall’io, quello “vero”, una specie di doppio autoriale e rinfocolando quel processo di disseminazione dell’ego e di confusione mai bugiarda ma “naturale” tra vita vissuta e vita scritta e inventata che non costituisce soltanto un “complesso psicologico” originario ma anche, più semplicemente, uno dei temi più resistenti della sua narrativa (scritta e filmata). Coerentemente, le prime esperienze di regia di Soldati sono versioni doppie, più che multiple (La principessa Tarakanova e La signora di Montecarlo, entrambe del 1938, Il peccato di Rogelia Sanchez, 1940), ossia mezze regie strutturalmente pirandelliane, che anticipano il debutto alla “regia intera” con due testi archetipici del sottogenere “nipotini del (fu) Mattia Pascal”, in cui al pirandellismo si aggiunge una buona dose di camerinismo, facendo di Due milioni per un sorriso e Dora Nelson testi cruciali per lo studio del cinema italiano degli anni Trenta. A proposito di identità e giochi di ruolo, poi, bisognerà ricordare che sul set del suo primo film, in quell’estate del 1931, Soldati è subito uno e centomila, anche se si sente nessuno. Camerini, non a caso, lo ricorda perennemente in bilico, diviso, metà da una parte, dove si gira, metà dall’altra, dove stanno gli attori: «Si vedeva la faccia di questo con la barba […] e mezzo corpo che cercava di sfondare il muro della platea per ficcarsi dentro un palco». Comincia da ciacchista, ma nei titoli di Figaro e la sua gran giornata è già assistente realizzatore, accanto a Raffaello Matarazzo e Giuseppe Fatigati, e dopo qualche giorno sul set comincia a intervenire sulla sceneggiatura. E da sceneggiatore continua, prolungando però in modo “innaturale” l’esperienza, perché, a differenza di quanto accade a tanti coetanei incontrati in ruoli subalterni negli stabilimenti della Cines, la regia non s’annuncia come sbocco naturale e automatico: Soldati ci arriverà anzi un po’ per caso, avendo imparato il mestiere per osmosi e perché qualcuno intravede l’“affare”. E allora, nel frattempo, scrive e sceneggia, perché per tutti, e anche per se stesso, è prima di ogni cosa uno scrittore. Lavora a lungo con Camerini, facendogli spesso anche da assistente (Gli uomini, che mascalzoni, 1932, Cento di questi giorni, 1933, Giallo, 1934, Il cappello a tre punte, 1934, Ma non è una cosa seria, 1936, Il grande appello, 1936, Il signor Max, 1937, Il documento, 1939, Una romantica avventura, 1940), ma anche con Blasetti (La tavola dei poveri, 1932, e La contessa di Parma, 1937) e Mastrocinque (Voglio vivere con Letizia, 1938, e L’orologio a cucù, 1938), e in una sola occasione con Malasomma (La cantante dell’opera, 1932), Biancoli (Stasera alle undici, 1937) e Genina (Castelli in aria, 1939). Impara insomma il mestiere non solo dai più bravi ma anche dai più “colti” e coscienti, da quelli, cioè, che nella pratica fanno ricadere anche un’idea di cinema, il senso di un ruolo, il valore di una professione. E se è indubbio che Camerini gli resterà appiccicato più a lungo (non da ultimo perché entrambi socialisti), Blasetti, che incarna un’opzione più ardente e battagliera, in cui il cinema, attraverso l’autofascistizzazione, si scopre realista e “sociale”, gli suggerisce forse, per reazione, una terza via tra l’apolitico e il politicamente schierato, con lo spettacolo e il gusto per la messa in scena a smistare le carte tra realtà e finzione e a distribuire i pesi tra intrattenimento e ideologia. Ma non si deve esagerare con l’archeologia e la sindrome dell’influenza, se non altro perché Soldati è già anche uno scrittore (ha pubblicato i racconti di Salmace nel ’29 e il più fortunato America primo amore nel ’35, subito seguito da 24 ore in uno studio cinematografico); e a volerla far bene, la filologia dovrebbe includere anche le influenze che il letterato passa al regista, a partire da quell’attitudine cosmopolita che spiega tra l’altro l’incontro felice con Camerini, anche se in Soldati la tendenza all’internazionalismo culturale si fonde con una specifica matrice tardo ottocentesca. Di certo, la lunga parentesi da sceneggiatore e aiuto gli serve a prendere le misure di quella “seconda pelle” che cambierà soltanto alla fine degli anni Cinquanta, a gestire la doppiezza dei ruoli, a placare l’insoddisfazione; insomma a entrare nella “tribù” dopo quel primo rito iniziatico. E nel frattempo
incrocia, conosce e frequenta tutti quelli che contano nel cinema di allora, così come accadrà in seguito, anche se i ruoli saranno rovesciati. Perché Soldati, dopo essere stato parte attiva del motore che definisce lo stile e il gusto del cinema italiano degli anni Trenta, dal decennio successivo, e fino alla fine della sua carriera cinematografica, rappresenterà uno straordinario luogo di passaggio e di scambio nella formazione della cultura italiana, soprattutto di quella “media” e popolare, da cui, magari una tantum, transita, ogni volta lasciando e ricevendo in cambio qualcosa, un numero impressionante di scrittori, letterati, intellettuali, sceneggiatori, attori e futuri registi. La funzione autoriale di cui si è parlato nella parte introduttiva trova qui una sua specifica figura, perfettamente intonata alle logiche dell’industria culturale, e particolarmente di quella degli anni Cinquanta, in cui il Soldati regista, anziché rimescolare i sedicesimi di nobiltà autoriale raggranellati tra un Fogazzaro e l’altro e chiuderli in una ricetta sicura, si rimette in gioco e in ascolto, beffa (volterrianamente) la regalità del titolo e si apre e allunga a comporre una rete dall’estensione e dalla trama continuamente rinnovate: anche questa, in fondo, è disseminazione dell’io e moltiplicazione dell’ego, più soldatiana, però, che pirandellista. A inizio carriera, tuttavia, è soprattutto attirato nelle reti altrui, anche se in quel modo sempre un po’ inquieto e destabilizzante che ricorda Camerini, e che gli consente di provare un po’ tutto. Una gavetta come si deve, insomma, che comprende anche un paio di mezze regie ricordate senza troppo entusiasmo: «Ho fatto parecchie regie finte, ero scelto per fare la versione italiana di film con doppia nazionalità, i quali per legge dovevano avere una parte dei collaboratori, attori, tecnici, di nazionalità italiana per ottenere il ristorno delle tasse erariali. Ero pagato per non fare niente, o il meno possibile. La signora di Montecarlo, La principessa Tarakanova, Il peccato di Rogelia Sanchez» (FF, p. 53). Quando è necessario, dà qualche consiglio agli attori italiani; per il resto, quasi fosse uno spettatore, sta a guardare, seduto su una sedia che però già porta scritto, in grande, il suo nome. In realtà, Il peccato di Rogelia Sanchez, tratto da un romanzo di Armando Palacio Valdès e girato a Cinecittà in versione italiana e spagnola, è diretto da Carlo Borghesio in tandem con Roberto De Ribon. Soldati vi figura soltanto come collaboratore alla sceneggiatura, col compito di tradurre e adattare i dialoghi, lavoro diviso con un altrettanto giovane Alberto Moravia (che ritroverà per La donna del fiume, essendo La provinciale, 1953, semplicemente “tratto da”), amico di infanzia e compagno di giochi durante le lussuose estati a Viareggio, prima del coinvolgimento del padre nel fallimento della Banca di Sconto, all’inizio degli anni Venti. Lo stesso Soldati, poi, include questo film accanto agli altri due soltanto in un paio d’occasioni. E se qualcosa, sul set, ha diretto, lo si deve probabilmente all’antica amicizia con il piemontese Borghesio che, di tanto in tanto, lo lascia “provare”, anticipando così la coregia di Due milioni per un sorriso, dove però i pesi saranno inversamente distribuiti. È del resto difficile, stando ai racconti dello stesso Soldati, definire con esattezza il suo ruolo sul set di questi faux films, come li definisce nell’intervista a Jean Gili, in cui la sua stessa partecipazione alla regia si risolve in una specie di controllo a distanza di un meccanismo condotto da altri. E tuttavia non si tratta di episodi privi di valore, se non altro perché sia La principessa Tarakanova che La signora di Montecarlo – entrambi di buona fattura – portano il giovane sceneggiatore su set classicamente cosmopoliti, accanto a due protagonisti dell’internazionalismo stilistico e culturale di quegli anni, Fedor Ozep e André Berthomieu, artisti-artigiani irrequieti e sofisticati che somigliano un po’ a Soldati (o a cui Soldati un po’ somiglierà). La principessa Tarakanova (noto anche come Tarakanova, la principessa di Tara e semplicemente come Tarakanova per i mercati esteri), viene realizzato nell’autunno del 1937 a Cinecittà (uscendo nel marzo dell’anno dopo) in doppia versione italo-francese, soggetto di André Lang e Ladislao Vajda e regia francese del russo Fedor Ozep. Produce, sotto il marchio S.A.I. Produzione Film Internazionali, Roberto Dandi, «un romano estremamente simpatico» che, conosciuto sul set di Il
grande appello, spinge Soldati alla regia. Accanto a lui, nella versione italiana, ci sono anche Ferdinando Maria Poggioli, secondo assistente e montatore, e Gianni Franciolini, aiuto regia. Anna Magnani, che sta muovendo i primi passi e finisce doppiata da Marcella Rovena, interpreta già il ruolo di una “popolana”, Marietta, ma i modi e la recitazione sono da Palazzo e non ancora da periferia romana. L’interprete principale è invece Annie Vernay, doppiata da Lidia Simoneschi, proveniente dall’esperienza in abiti russi di Le mensonge de Nina Petrovna (Viktor Tourjansky, 1937), con Isa Miranda futura interprete di Malombra, mentre un anno dopo è nel Werther di Ophuls (1938), in coppia con Pierre-Richard Willm, il conte Orloff di La principessa Tarakanova. Una particina anche per Alberto Sordi, emissario segreto. San Pietroburgo, 1784. L’imperatrice Caterina II di Russia è raggiunta dalla notizia che una tale Elisabetta Tarakanova, fuggita a Venezia, si proclama erede al trono. Infuriata, invia nella città lagunare il suo favorito, il conte Alexis Orloff (Alessio, nella versione italiana), per arrestare e ricondurre in patria la giovane. Che, nel frattempo, trascorre la sua esistenza tra feste e politica, consigliata dal principe Radzwill. Durante il carnevale, scambiatasi abiti e identità con la sua cameriera Marietta, la principessa incontra Orloff; solo rivedendosi a teatro, la sera dopo, scoprono l’uno l’identità dell’altra. Radzwill trama per uccidere Orloff contro il volere di Elisabetta, che preferirebbe vincerlo facendolo innamorare di sé. Anche Orloff decide di giocare la carta dell’amore per far prigioniera la principessa, benché Caterina II, informata per lettera, ne sia gelosa. Così, la sera stessa, va a farle visita e di nuovo l’indomani, strappandole la promessa di un incontro chiarificatore con Radzwill: Orloff si dice pronto ad abiurare la sua fede in Caterina per abbracciare la causa di Elisabetta. Attirati sul vascello di Orloff, Elisabetta e Radzwill dovrebbero essere fatti prigionieri, ma il conte cambia idea a causa del suo amore per la principessa, ormai sincero. Orloff la rivede il giorno dopo per dirle che, confuso dai suoi sentimenti, ha deciso di tornare in Russia. Si confessa a Elisabetta, che lo caccia, salvo poi offrirsi prigioniera recandosi nottetempo al vascello. L’uomo, a questo punto, non vorrebbe più partire, ma subisce un ammutinamento. Svegliandosi dopo una notte d’amore, scoprono di essere già lontani da Venezia e vengono arrestati, ma l’equipaggio, poco prima di giungere a San Pietroburgo, intenerito dalla Tarakanova, decide di riassegnare il comando a Orloff affinché possa difendere la ragazza di fronte a Caterina. La sovrana, tuttavia, la condanna a morte e i tentativi del conte di liberarla si rivelano inutili. I due saranno impiccati insieme per tradimento.
Il film, che ha un precedente illustre nella Tarakanova di Raymond Bernard (1930), rimaneggia una storia vera, anche se circondata da molte ombre: poco o nulla, infatti, si sa della principessa Tarakanova e delle sue pretese al trono, mentre la figura di Orloff, che scese a Livorno nel 1769 per combattere i turchi, possiede maggiori attestazioni. Il film, del resto, deve più alla narrativa fiorita attorno alla figura di Elisabetta che non alla cronaca storica, e senza alcuna remora sposta l’azione da Pisa a Venezia. La città lagunare, infatti, interamente ricostruita in studio secondo un’architettura onirica (fot. 1), si presta bene ad ambientare questa storia di doppi giochi, identità sfumate, biografie incerte, di cui il carnevale, regolato dal rovesciamento e dal travestimento e posto quasi all’inizio del film, diventa il principio dominante, anticipando il gioco delle maschere e quell’idea di vita come eterna messa in scena, tra gusto della fiction e menzogna, che diventerà uno dei registri di tutto il cinema di Soldati. Perché, sembra suggerire il film, solo nella moltiplicazione delle apparenze, nel camuffamento infinito, nell’andirivieni spesso incontrollato da una recita all’altra è possibile ravvisare scampoli di verità; solo dalla finzione portata agli estremi è possibile spremere qualcosa che si avvicini all’“essenza” delle cose, che dalla finzione è messa alla prova e infine stanata. La realtà, insomma, si vede meglio sotto le (mentite) spoglie della farsa, che offre inoltre il vantaggio di introdurre nel racconto quelle “macchinerie” narrative tanto care a Soldati, per cui la trama assume l’andamento della variazione sul tema, della replica variata, della sceneggiata, moltiplicando i punti di vista e in molti casi facendo incontrare e collidere identità e alterità (Dora Nelson), alto e basso (come nel dittico salgariano, con i nobili che diventano corsari e poi giocano a fare i signori), mondi reali e mondi immaginari (in Travet, per esempio, col povero impiegato “riscritto” dal pettegolezzo che traduce ciò che si crede in ciò che è, ma anche in quel filmmanifesto che è Quartieri alti).
FOT. 1
Pirandellismo, s’è detto, con una vena “fantastica” e sottilmente surreale (le maschere, l’insistenza sul sonno e la notte, il doppio Elisabetta-Caterina) vicina a quella scanzonata di La verità sul caso Motta, pubblicato per Rizzoli nel 1941 ma anticipato a puntate su «Omnibus» nel ’37 e ispirato alla vicenda dello smemorato di Collegno (che è poi alla base di Come tu mi vuoi di Pirandello, portato in scena a Milano nel ’30, a sua volta fonte della farsa Lo smemorato di Righelli del ’36). Così Orloff è definito un “commediante” da Caterina, mentre Elisabetta vive una condizione ancor più ambigua, professandosi nipote illegittima di Pietro il Grande ma più perché sospinta a crederlo dal perfido regista Radzwill; costui, senza troppi giri di parole, la considera una sua “creatura”, una regina-diva che nella prima inquadratura è un’immagine tenuta tra le mani di Caterina, che vive adeguandosi a una scenografia imponente, si fa dipingere a grandezza naturale, non perde un appuntamento mondano e sacrifica il privato per il pubblico («L’amore è un regno a cui io non posso più tendere»). La mascherata si allunga insomma ben oltre l’atemporalità del carnevale veneziano, tra mentite spoglie e falsi racconti, entrambi snudati dal crescere dell’amore. Anche le due parti in cui è diviso il film – quella veneziana, scintillante e monumentale, venata dal comico e segnata dall’amore, e quella russa, oscura e sotterranea – sembrano svolgere in grande questo movimento di spoliazione della farsa, di cui si pagano infine le conseguenze nella povertà di una cella. Il risultato è un melodramma sottovetro, perfetta espressione di quello stile internazionale dall’esotismo circense che contamina, mescola e rielabora un vasto orizzonte di riferimenti e figure condiviso da cinema e letteratura. E, anche, un film sottovuoto, senza cieli, tessuto di luci spettacolari e false che, nella prima parte, accanto a qualche inserto lagunare di gusto impressionista, stemperano la percezione di una cronologia reale, per lasciare posto, nella seconda, a uno spazio metafisico tagliato dai contrasti espressionisti delle prigioni pietroburghesi (fot. 2); il racconto procede spedito, con qualche espediente visivo da cinema muto e qualche analogia romanticheggiante, ritmato dalla logica ferrea dell’alternanza, che serve bene il disegno mélo dell’incertezza tra dovere e volere e tra realtà e finzione. Fino alla fine, quando ogni cosa si raffredda e una data precisa – quella dell’esecuzione, 12 maggio 1784 – riporta tutto alla luce del sole, nella piazza in cui Orloff e la Tarakanova vengono pubblicamente impiccati. Il finale è secco, senza troppe cantilene drammatiche, e nei primi piani silenziosi di Elisabetta che commenta con gli occhi e poche lacrime la condanna a morte, il riferimento alla Giovanna d’Arco di Dreyer è immediato (fot. 3).
FOT. 2
FOT. 3
Da questo film-attrazione che se non è “tutto” di Soldati incontra senz’altro il suo gusto, anticipando molto del suo cinema a venire, il regista passa, nell’autunno del ’38, a una seconda mezza regia, su un soggetto ancora più esplicitamente intonato alle tendenze cosmopolite, internazionaliste e déco che attraversano, ora come una spolverata di genere, ora con più importanti conseguenze estetiche e culturali, una discreta quantità di film a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, e di cui proprio le versioni multiple sono un formidabile luogo di codificazione. Si tratta, ancora una volta, di un doppio film, italiano e francese, girato in Italia, ma questa volta negli stabilimenti della Pisorno, e che si porta fin nel titolo, La signora di Montecarlo (che diventa inconnue nella versione d’oltralpe diretta da René Berthomieu), uno dei luoghi simbolo dell’immaginario “dekobriano” del periodo. Giorgio Duclos, proprietario di una fiorente azienda, incarica il fratello Andrea di recarsi in Costa Azzurra per incassare una grossa somma frutto di un affare. Tutto procede bene finché, giunto a Montecarlo, Giorgio viene truffato da una banda di bari che, grazie a una bellissima donna, Vera, lo attirano in una bisca clandestina facendogli scommettere e perdere il denaro. Resosi conto dell’imbroglio, si lancia all’inseguimento dei truffatori diretti a Parigi, finendo vittima di un grave incidente stradale che gli costerà un lungo ricovero. Contemporaneamente il fratello, informato dei fatti, si mette alla ricerca della banda, finendo per scoprire che Vera è una sua vecchia fiamma. L’amore tra i due si riaccende, ma la situazione è troppo complicata, e quando Andrea esce dall’ospedale, Vera decide di fuggire. Tuttavia, scampata fortunosamente a un agguato della polizia in cui cadono i suoi complici, e pentitasi delle sue azioni, decide di tornare. La situazione viene chiarita, i dissapori con Andrea superati e finalmente Vera può vivere il suo sogno con l’uomo di cui è da sempre innamorata.
C’è molto camerinismo in questa pellicola un po’ sospesa, ambientata nel mondo dorato – o piuttosto déco-rato – della borghesia industriale, disegnato da Virgilio Marchi, fautore della “regia estetica” teorizzata da Carlo Enrico Rava, e realizzato da Corrado Marchi e Athos Rogerio Natali; il soggetto è invece di Toni Huppertz, la versione italiana è scritta da Soldati assieme a Castellani con cui, nello stesso anno, scrive L’orologio a Cucù per Mastrocinque. Da Montecarlo a Parigi, l’ambiente del film è insomma quello del più tipico cosmopolitismo dekobriano che si consuma nei miti del lusso, della velocità (con le macchine lanciate a folle andatura), del denaro facile – legale e illegale –, nello spettacolo della perdita e dell’agnizione, che assurgono a topoi drammaturgici di una società perennemente in movimento, inquieta, scintillante e fasulla. Di Soldati, “riconosciuto” dalla critica italiana come autore a pieno titolo della pellicola, si loda soprattutto la capacità di confrontarsi senza incertezze con la complessità della trama: «La vicenda assai imbrogliata ha trovato in Mario Soldati un regista ferratissimo se non altro in quanto riguarda il movimento e il ritmo che devono avere questi spettacoli sensazionali che guai se lasciano oziosa l’attenzione dello spettatore e libero il suo raziocinio. Soldati, che conosce i suoi polli, tira via senza lasciarsi vincere da dubbi e rimorsi, servito molto bene da un Jules Berry, avventuriero di gran classe, e da una Dita Parlo, evanescente donna fatale. Giachetti, purtroppo, è il più sacrificato e dall’azione e dalla fotografia. Che è veramente di una bruttezza insigne» (A. Franci, «L’illustrazione Italiana», 1° gennaio 1939). Gli fa eco Filippo Sacchi sul «Corriere della sera» (15 dicembre 1938): «[Il film], nel suo genere dekobriano, non è mal congegnato, solo mancandogli, per la rappresentazione di questo mondo elegante e galante, più brillantezza di scenari e di fotografia». Insomma, come osserva Gherardi su «Film» (17 dicembre 1938), attribuendo significativamente La signora di
Montecarlo al solo Soldati, «Niente fronzoli letterari, ma azione, azione, azione. Niente psicologia, ma fatti, fatti, fatti. Vi sono però per merito del regista alcune sequenze di mano felice, come quella del giuoco, della corsa e altre». Soldati ritroverà questo mondo “bianco”, popolato di nobili e avventurieri e modellato sul sogno collettivo di una società entrata nella sua fase di modernizzazione più spinta e contraddittoria, nelle due pellicole di debutto, Due milioni per un sorriso e Dora Nelson, con i viaggi reali moltiplicati da quelli resi possibili dal cinema. Film, a loro modo, già in costume, in cui lo stile europeo, sull’esempio di Camerini, trova una felice declinazione nazionale, preannunciando inoltre la virata romanzesca con cui Soldati entra ufficialmente nel pantheon dei registi italiani. Una virata di “modi”, più che di forme: dal racconto tutto d’azione e di fatti al romanzo psicologico. Primo tempo. Commedie, milioni, cinema (1939-1940) Dopo due mezzi film, nel 1939 Soldati è sul set di due “film doppi”, entrambi ambientati nel mondo del cinema ed entrambi costruiti sulla replica e sul potere dell’immagine di sostituirsi al “vero”, ora facendo rivivere un momento passato (Due milioni per un sorriso), ora rimpiazzando un corpo con un altro (Dora Nelson); due film sulla sparizione della realtà, nell’oblio della memoria o per i capricci di una diva che fugge dal set, a cui il cinema risponde con una copia verosimile e un sosia da modellare. Due film “pirandellisti”, senza dubbio, ma anche un po’ platonici, in cui quel mondo stravagante raccontato in 24 ore in uno studio cinematografico si trasforma, quasi inevitabilmente, in uno spazio dove prendono forma e si svolgono temi già centrali nella filmografia del regista (la recita, l’identità, il vero e il falso), solo in parte addolciti, nelle loro implicazioni filosofiche e politiche, dal tono leggero e farsesco delle trame. Due milioni per un sorriso, girato tra il febbraio e il marzo del 1939 negli stabilimenti Safa e sceneggiato con Castellani, è un film doppio anche nel senso che Soldati ne condivide la paternità, almeno nei titoli di testa, con Carlo Borghesio. In realtà, come ricorda l’autore, la collaborazione, nella pratica, fu un po’ diversa: «Borghesio era un vecchio amico, un piemontese che ha diretto film molto riusciti, per esempio Come persi la guerra. Con Borghesio, all’inizio delle riprese, avevo delle lunghe discussioni che facevano perdere molto tempo. Il produttore è allora intervenuto e ho finito per dirigere quasi da solo il film» (JG, p. 15). Il produttore in questione è un altro piemontese, Valentino Brosio, braccio destro di Riccardo Gualino, che con Due milioni per un sorriso dà il via alla stagione produttiva della Lux, all’epoca ancora Compagnia Italiana Cinematografica Lux, dopo la falsa partenza del Don Bosco di Alessandrini (1935), originariamente offerto proprio a Soldati. L’incontro sarà dei più felici, e il regista passerà da via Po per altri cinque film, contribuendo non poco a formalizzare il “tocco” della casa con Malombra e quel «manifesto della piemontesità e dei valori piccolo-borghesi» (Farassino) che è Le miserie del signor Travet (1946), per poi alternare il falso-neorealistico Fuga in Francia (1949) alla commedia noir (Quel bandito sono io, 1950) e al film in costume (Donne e briganti, 1951). Ma la Lux, all’altezza di Due milioni per un sorriso, non è ancora quella della “qualità italiana” e il film costituisce un esordio eccentrico rispetto alla politica del futuro, presentandosi come la versione “colta” dei più diffusi stereotipi déco-cameriniani (non manca neppure un leit-motiv canoro di Bixio), vale a dire lusso e astrazione scenografica con un pizzico di realismo all’americana debitore a Lubitsch, un regista molto amato da Soldati che, durante il suo biennio americano, cercò di incontrarlo e con cui avrebbe volentieri lavorato (ricevendone però in cambio un secco «I have nothing for you, Mr Soldati, I have nothing!»). Nondimeno, come sottolinea Toffetti nel suo contributo al volume Lux Film (Il Castoro, Milano, 2000) curato da Alberto Farassino, Due milioni per un sorriso risulta «funzionale all’esibizione delle nuove forze produttive schierate sul campo di battaglia del cinema romano. In altre parole, “arrivano i piemontesi”». Piemontesi, infatti, sono, con Soldati e Borghesio e Valentino Brosio, anche lo scenografo, Gino Brosio e, soprattutto, l’interprete
principale, il torinese Enrico Viarisio, che dà vita alla figura del ricco industriale Giacomo Perotti, in cui «non è difficile scorgere una garbata canzonatura del “padrone”, l’avvocato Gualino». Perché in fondo anche alla Lux, come alla Perotti’s Film, «si fa il cinema per fare qualcos’altro». Giacomo Perotti, il Re del tabacco, torna dall’America in Italia per rivedere il luogo dove, trent’anni prima, alla vigilia della sua partenza, aveva detto addio all’amata Maria, la figlia del proprietario dell’Osteria della Luna che, sebbene innamorata di lui, gli aveva fatto credere di essere impegnata con un altro pur di non farlo soffrire. Ma adesso che ha scoperto la verità, Perotti non può che rimpiangere ciò che non è stato. Finché non incontra Spinelli, un equivoco personaggio che ha ereditato il locale (ormai in fallimento), che gli propone di aprire una casa cinematografica per girare il film della sua vita e “rivedere” così il passato incompiuto. Perotti trova il progetto interessante, ma le difficoltà sono subito tante, a partire dalla scelta dell’attrice a cui affidare la parte di Maria. Decide pertanto di farsi aiutare da Martino, un maestro elementare incontrato per caso e che gli ricorda se stesso trent’anni prima. L’uomo è innamorato di Mariuccia, una dattilografa a cui non riesce a dichiararsi. Nel frattempo le ricerche continuano fuori città: nella campagna romana, Martino incontra una giovane pastorella e si convince che potrebbe essere adatta a vestire i panni di Maria. La ragazza in realtà è un’attricetta amica di Spinelli, il quale ha organizzato la gita fuori porta per far compiere a Martino la scelta a lui più conveniente. Alla prova del set Martino si accorge dell’errore e decide che sarà Mariuccia, con cui nel frattempo ha avuto un litigio, a interpretare Maria. Spinelli, che non può permetterlo, trama affinché la dattilografa lasci Martino, convincendola che l’uomo è innamorato di un’altra. I due, come Giacomo e Maria trent’anni prima, si dicono dunque addio negli stabilimenti della Perotti’s Film. Ma un operatore distratto ha acceso e voltato verso di loro la macchina da presa, che riprende la scena. La vedrà, poco dopo, Giacomo, in coda alle riprese volute da Spinelli. E il suo sogno di rivivere il giorno in cui disse addio a Maria, finalmente, sarà esaudito. E affinché il futuro di Martino e Mariuccia possa essere diverso dal suo, lascia tutti i suoi soldi ai due giovani.
L’estetica, fin dai crediti, è quella del cinema déco degli anni Trenta, delle lire, dei milioni e dei miliardi portati nei titoli, e che in questo caso contamina le storielle un po’ sciocche di ricchi borghesi o aristocratici più o meno decaduti impegnati tra un viaggio e un ballo con la narrativa di un altro filone assai popolare all’epoca in Italia, quello dei film sul cinema; i due milioni si riferiscono in effetti al budget della pellicola che Perotti intende produrre. Il film, come il successivo Dora Nelson, continua poi quella visita guidata alla fatica del set iniziata con 24 ore in uno studio cinematografico, tra celebrazione del lavoro (l’altra metà dell’arte) e illustrazione dello “specifico” filmico, ossia l’artificio, che per Soldati «sempre è alla base del cinematografo. Ma non bisogna prendere questa parola in cattivo senso. Se i risultati sono buoni, l’artificio è, senz’altro, sinonimo di arte». E l’artificio del cinema è anche il luogo ideale e materiale in cui un sotto-genere incrocia l’altro, col déco che appronta la giusta scenografia per il gioco del doppio. Dora Nelson, in particolare, la userà per raccontare di una donna che si sostituisce a un’altra, prolungando la recita dal set alla vita privata fino a diventare realmente l’altra, mentre il film gemello segue un percorso tutto sommato inverso: la sfida, che il cinema perde, consiste infatti nel resuscitare in forme presenti il passato che non c’è più (Maria è morta col suo sorriso) ed è sfumato nella memoria di Perotti, trasformando il set in una macchina del tempo e forzando il potere illusorio della finzione. E qui Soldati, a proposito d’artificio, sembra prendersi una piccola rivincita sul cinema, additandone una debolezza congenita: il fallimento, alla fine, non è infatti dovuto a una più generale impossibilità dell’arte di presentificare il passato e cucire le ferite della memoria (per Soldati la vera arte cura sempre la manque), ma allo “specifico filmico”. Perché il cinema può egregiamente sostituirsi alla realtà (Dora Nelson) e può benissimo costruirne un’altra (i film in costume), ma fallisce quando cerca di “(ri)fare il vero”. L’idea è solo abbozzata, ma spiega già, tra l’altro, la futura diffidenza di Soldati per il Neorealismo, che considera filosoficamente impacciato proprio perché scambia il cinema per quello che non è, costringendolo al balbettio della verosimiglianza e all’impero del falso; per lui, al contrario, è il luogo del finto, che è poi, nell’arte, la principale via d’accesso al vero. Così, per esempio, la follia del progetto di Perotti (che sul set sbotta in un «Tutto falso, falso, falso»), è subito rivelata durante il discorso con cui Spinelli informa la stampa dell’iniziativa, con il
crollo dell’insegna dell’Osteria della Luna, primo motore del ricordo e della vicenda. False, del resto, anche se su un altro piano, sono le intenzioni di Spinelli, che finge di voler trasformare il biopic di Perotti in un film “educativo” per istruire su come i milioni non portino la felicità, avendo soltanto di mira, in realtà, il suo personale arricchimento; e false sono le maestranze riunite sul set, ex dipendenti del bar di Spinelli in fallimento: l’operatore si prepara al primo ciak sfogliando il manuale Cappella su Come si diventa operatori cinematografici in 30 giorni. E così l’insegna dell’osteria cadrà di nuovo nel corso della prima, fallimentare ripresa. Tutto da rifare. Quel che scopre Perotti, a poco a poco, è che la realtà – la sua realtà – non si può rifare; almeno non con i mezzi manovrati da Spinelli, che più tenta di avvicinarsi al verosimile, più s’allontana dal vero. Colpa, appunto, della puerile convinzione che il cinema possa farsi copia del reale, anziché dispiegare tutte le sue straordinarie capacità ri-creative. Perché il ricordo non necessita di forme somiglianti ma di una similitudine del dramma, che Giacomo Perotti troverà nella vita reale, nella storia d’amore (perfettamente cameriniana) tra il maestro e la dattilografa: incontrando per caso Martino Bo, Perotti lo riconoscerà («Voi siete me!», e in effetti sempre di Enrico Viarisio si tratta), ribattezzandolo Giacomino (fot. 4). Pesano uguale, portano il 42 di scarpe, il 7 e mezzo di guanti, il 58 di cappello, detestano i dolci e la bistecca al sangue, amano i sigari e non le sigarette: insomma Perotti trent’anni prima. E sarà non sul set ma nel privato di Martino – fotografato da una cinepresa voltata per errore verso il dietro le quinte in cui Mariuccia gli dice addio (fot. 5 e 6) – che Perotti ritroverà il dramma di trent’anni prima, Maria e il suo sorriso. E così, alla fine, la pellicola brucia, come messa all’indice dalla purezza dei sentimenti, mentre il reality di Martino e Mariuccia, per ora solo casualmente spiato dall’occhio della cinepresa, promette non soltanto di resuscitare l’antico amore di Perotti ma anche di dargli un sequel. Lo produce lui, lasciando i suoi soldi ai due giovani.
FOT. 4
FOT. 5
FOT. 6
Morale pirandellista, appunto, e non pirandelliana, perché dalla finzione che pure, almeno al principio, Perotti decide di giocare (anche nella vita privata, col servitore che appende all’amo della sua canna i pesci), l’uomo, alla fine, esce, abiurando il cinema e la sua incerta circolazione tra vero e falso per “investire” nella realtà. Due milioni per un sorriso finisce insomma per riaffermare i valori del “vero” e, nella fattispecie, lontano dalle follie del cinema, la morale piccolo-borghese di tanti film dell’epoca, poggiando interamente su un conflitto messo frequentemente a tema dal cinema dei telefoni bianchi, quello tra campagna e città. Alla prima, da dove viene e alla fine torna Mariuccia e da dove veniva Maria e a cui pensa Martino quando scrive le sue “poesie campestri”, si riconoscono valori di purezza e onestà forse perduti per sempre e sconosciuti alla seconda, che al massimo può metterli sotto contratto, come le pecore che “debbono lavorare fino alle tre”: 100 lire più gli straordinari. E la distanza è ancora maggiore quando, come in questo caso, la città è una cine-città. La politica del falso e dell’apparenza mescolata e a volte indistinguibile dal vero viene dunque riconosciuta come il regime privilegiato della vita metropolitana, anche al di fuori degli stabilimenti cinematografici (il pastore presta le pecore ma non la figlia: «non voglio mica che me la guastino con le storie del cinematografo»). E se la commedia, condotta benissimo da Soldati, stempera i toni polemici, non mancano alcune parentesi narrative che al divertimento associano una certa critica; come, per esempio, nel grazioso episodio, di sapore surrealista, in cui, al ritmo di Ma le gambe, Martino incappa in una serie di manichini che un operaio, canticchiando la canzone (ma dichiarando di amare “quelle vere”), carica su un furgoncino (fot. 7), assieme alle gambe, in carne e ossa ma quasi indistinguibili, di alcune ragazze…
FOT. 7
La critica, più sommessamente, filtra attraverso la nostalgia alla base dello “strano caso di un industriale italo-americano”, tradotta in un sentimento più generale – e molto soldatiano – per le cose andate e che mai torneranno, con il conflitto tra vita rurale e ritmi cittadini che attualizza lo scontro tra passato e futuro, dichiarato fin dall’incipit con una veduta di New York dissolta negli esterni campagnoli di un’Italia anonima. Dove si reca anche Martino alla ricerca di una simil-Maria, trovandovi però, ancora una volta, soltanto la finzione allestita da Spinelli, perché l’unica vera pastorella è partita per Milano. Una ricerca che, sotto certi aspetti, anticipa quella televisiva dello stesso Soldati che, a fine carriera, perlustrerà la campagna italiana alla ricerca di cibi e vita genuina di cui forse sente un po’ la nostalgia, completando l’inchiesta con una manciata di film dedicati alla sua amata “Italia piccola”.
FOT. 8
In campagna, su una stradina anonima, si allontanano anche i due protagonisti nel finale di Dora Nelson, (fot. 8) remake a distanza dell’omonimo film diretto da René Guissart nel ’35 (che però Soldati dice di non aver mai visto). Dora Nelson, ex principessa russa e famosissima attrice, lascia il set del suo nuovo film dopo l’ennesimo litigio con la troupe. In segreto, del resto, trama per andarsene dall’Italia, lasciando il marito, l’ingegner Giovanni Ferrari, per unirsi al principe in esilio che la corteggia da tempo e le ha chiesto dei soldi per poter rientrare nel suo Stato. Per far fronte all’abbandono dell’attrice, viene reclutata una timida operaia, Pierina, che, oltre a prendere il posto di Dora sul set, deve prolungare la recita anche nella vita privata. A poco a poco nasce l’amore tra l’ingegnere e la ragazza, così diversa dall’“originale”. La vera Dora, nel frattempo, viene a sapere che il principe di cui è innamorata è, in realtà, un attore reclutato dal suo primo marito, Alberto, creduto erroneamente morto, per spillarle quattrini. La donna torna dunque da Giovanni, intenzionata a riappropriarsi della sua vita, ma è troppo tardi: avendo scoperto che Alberto è ancora vivo, l’ingegnere invalida il matrimonio con l’attrice e chiede a Pierina di diventare sua moglie. Per Dora non resta che tornare al cinema.
L’ingegner Ferrari (Carlo Ninchi) e Pierina (Assia Noris) si lasciano dunque alle spalle la città e le sue finzioni, ma la loro fuga, che sfocerà nel matrimonio, viene interrotta dalle riprese di un film, proprio ai bordi della strada; protagonista ne è la vera Dora, tornata sul set dopo essere caduta nel tranello ordito dall’ex marito. La vita e il cinema si scambiano un ultimo saluto, dopo aver giocato a imitarsi e a sostituirsi, con Pierina che ha dovuto indossare gli abiti della star, prendendo poi volentieri il suo posto anche nella vita quotidiana, e con la diva che, delusa, è tornata al cinema, dove almeno può sognare di essere la principessa che ha creduto di poter diventare veramente, lei che non perde occasione per ricordare di essere la vedova di un principe russo (la strizzatina d’occhio alle rivendicazioni della Tarakanova non è casuale; il più recente film di Dora, poi, si intitola La principessa misteriosa). Il film, come il precedente, è tutto giocato sul labile confine tra realtà e finzione, cinematografica ma anche teatrale, con la pièce astutamente costruita dal primo marito dell’attrice, fintosi morto e tornato a spillarle un po’ di soldi. Ma, a differenza del precedente, sui titoli di testa c’è solo il nome di Soldati, che ricorda Dora Nelson, girato a Cinecittà tra l’agosto e il settembre del 1939, come una “liberazione” dopo tanti anni di sceneggiature e mezze regie: «Con Dora Nelson ho provato finalmente il piacere di riconquistare l’autorità, di fare un vero film, di costruire l’architettura del soggetto. Mi sono sentito alla fine libero di divertirmi come volevo. Ecco perché questo film è venuto bene: non per il fatto di realizzare un’opera – Dora Nelson è un divertimento ben costruito – ma per il fatto psicologico di essere finalmente libero di fare quello che volevo» (JG, p. 16). Nel cast, la prima delle tante dive con cui Soldati lavorerà, Assia Noris, mentre nei panni di Emilio, l’ottico invaghito di Pierina, c’è Carlo Campanini, con cui la collaborazione sarà lunga e felice; tra le comparse, invece, un giovanissimo Massimo Girotti, doppiato. Dialoghi e sceneggiatura sono scritti in collaborazione con Luigi Zampa. Finalmente libero, Soldati, «abile, sagace e sicuro come fino a oggi ancora non era stato» (Mario Gromo, Cinema italiano 1903-1953, Mondadori, Milano, 1954), imbastisce una farsa lubitschiana attorno alla dialettica tra attore e personaggio, sottoponendo la realtà a un interrogativo che viene dritto dal film precedente: «Chi dunque recita meglio e di più, la grande diva o la piccola operaia, e quanto influiscono la finzione e la convenzionalità sulla realtà se alla fine di complicate vicende il marito dell’attrice sposerà davvero la ragazza che è stata sua finta moglie?» (A. Farassino, “I nipotini di Mattia Pascal”, cit.). Più che in Due milioni per un sorriso, il regista sembra curioso di capire fino a che punto il cinema – luogo della finzione per eccellenza – possa influire sulla realtà, non semplicemente cambiandola ma prestandole le sue “regole”: messa in scena, recita, travestimento. Tutto, nel film, è falso, a volte doppio; lo scambio di persona diventa la regola e il cinema si prolunga e sostituisce alla vita senza avvertenze. E il sentimento è un misto d’ammirazione e condanna: un po’ stupefatto, come nel reportage di 24 ore, Soldati osserva “da
dentro” la magia del cinema, decostruendone i meccanismi per concludere che la somma delle parti non fa l’intero, e che quella magia, in fondo, può anche diventare arte. Magari abbagliante e un po’ superficiale, come le stelle a quattro punte che ambientano i titoli di testa, metafora perfetta del film ma anche dello stile sofisticato e spensierato, più farsesco che screw-ball, che accomuna tante pellicole del tempo, e che non appartiene soltanto al mondo del cinema, ma si prolunga a decorare l’ideologia dell’epoca. Lo stacco tra mondo reale e mondo della finzione, in effetti, è meno brusco di quanto dovrebbe essere: fuori dalla fabbrica dei sogni ci sono i sogni dell’Italia fascista che si rappresenta attraverso le stesse forme e gli stessi topoi dei film che vede. Tra la “realtà” di Cuore infranto (il film che si gira) e quella di Dora Nelson esiste insomma una continuità quasi perfetta; e senza caricare il film di intenzioni che non ha, è però impossibile non vedere in questa sospetta continuità una critica neppure troppo velata al regime della finzione (o, per riprendere le parole di Zagarrio, della dissimulazione) che ammanta e organizza la percezione della realtà in epoca fascista. Ma alla fine Soldati sta al gioco, si diverte e fa divertire; non al gioco della politica, naturalmente, ma a quello dell’industria. Non sottostima il potere del cinema di fare politica; semplicemente, da buon cameriniano, sa evitare la politica pur facendo cinema.
FOT. 9
In primo piano c’è piuttosto il piacere del racconto, che Soldati complica e sbroglia con la scioltezza di cui aveva già dato prova nei film precedenti: un talento per la “trasparenza” più hollywoodiano che italiano e che poi si chiamerà, incontrando l’Ottocento, calligrafismo. E se pure la scenografia è quella più tipica della commedia sofisticata, con greche di luce soffusa proiettata da Anchise Brizzi sulle pareti di stanze lussuose (fot. 9), attraversate da servitori in continuo, muto movimento, e popolate di feste e balli, Soldati non se ne fa intrappolare. Il “senso” della scena incontra quello dell’inquadratura, e la frase che ne esce è sempre giusta perché egli è già (e lo sarà sempre) uno dei «più capaci, più svelti e più americani» uomini di cinema (T. Sanguineti, “La grandezza della Lux”, in A. Farassino, a cura di, Lux Film, cit.).
FOT. 10
Ma Dora Nelson, con le sue «tematiche del successo e dell’amore incanalato in circuiti tortuosi» (M. Grande, Il cinema di Saturno, Bulzoni, Roma, 1992), non evacua completamente la realtà, rimandando alle poche ombre sfuggite al “bianco” l’eco di un disagio. Pur essendo un esempio emblematico, e anzi forse un centone (i temi ci sono tutti, o quasi), della commedia déco, il film, come già Due milioni per un sorriso, lascia entrare qualcosa del mondo “di fuori”. Basta qualche
tocco – i dialoghi dialettali tra le maestranze sul set (fot. 10), la realtà operaia di Pierina, la quotidianità industriale e borghese dell’ingegnere e dei suoi parenti – a scaldare la rappresentazione e a suggerire, appena dietro lo scintillio accecante delle stelle del cinema e delle finzioni fasciste, dinamiche sociali che lo schermo, per il momento, può solo raccontare portandole dentro la sua “Ruritania” cosmopolita e inabissandole «in ingannevoli sprofondamenti di senso». E la “scuola” non è senza conseguenze, perché il percorso di Soldati, da qui in poi, mentre i fautori del realismo si apprestano a imbracciare le armi, seguirà proprio questa traiettoria di sublimazione del reale nel cinematografico; non però per derealizzare la «contiguità iconica che congiunge cinema e realtà» (M. Grande, Il cinema di Saturno, cit.), come accade nella commedia “bianca”, ma per donare forme diverse, più icastiche ed eterne, intelligentemente compromesse con lo spettacolo, il mercato e l’industria, al racconto della realtà – una realtà che eccede i confini stretti della storia e della cronaca, grazie a un racconto che «aspira a depurarsi, ad assolutizzarsi nell’immagine fissa, al riparo dagli insulti degli uomini e del tempo» (G. Fink, L’uso del vetrino…, cit.). Il cinema, insomma, non ha bisogno di mostrare la realtà per raccontarla, né, tanto meno, di rinunciare al gioco della finzione, che, al contrario, come insegna Dora Nelson, appartiene a entrambi, quasi fosse un lessico comunque che il cinema passa alla realtà e che la realtà esprime e ritrova attraverso il cinema. E così l’ultima sequenza, raddoppiando idealmente la prima, mostra la vera Dora alle prese con un nuovo film (Il principe azzurro), per partner il falso principe dell’inganno giocatole dal marito, nei panni di un “vero” principe, su un set settecentesco montato ai bordi di una strada immersa nella campagna su cui sfreccia Pierina. La quale, prima di sparire, saluta regista e troupe scimmiottando per l’ultima volta l’accento francese della star. Happy end – naturalmente – anche in Tutto per la donna (1940), che chiude la serie delle commedie déco trasferendo l’azione dagli scenari metropolitani delle cine-città al bianco delle vette del Trentino, una specie di anticipazione delle rocambolesche avventure sciistiche di È l’amor che mi rovina. Aldo De Benedetti, che lavorerà a lungo con Soldati, offre il soggetto, rimaneggiando la commedia omonima di Nicola Manzari, mentre la sceneggiatura porta le firme di Borghesio e Zampa. Il regista ricorda il film, interpretato da Junie Astor, Antonio Centa e Carlo Campanini, come il punto più basso della sua carriera, semplicemente «una coglionata»: un’involuzione e un insuccesso commerciale che determinano, in parte, la sua precoce (e ancora attuale) invisibilità. Resta semmai, almeno nella memoria di Soldati, l’incontro con la giovane olandese Cornelia Troost, avvenuto durante le riprese in Alpe di Siusi: la breve storia d’amore che ne segue è alla base del racconto L’ultimo treno per Parigi. Per conquistare Elsa Ducrò, una donna di cui si è invaghito, proprietaria di un lussuoso albergo in cattive acque, Gianni si inventa uno stratagemma, improvvisandosi segretario: assume un parrucchiere facendo circolare la voce che sia un tombeur de femmes, attirando così una folla incredibile di donne che cadono puntualmente ai suoi piedi, contribuendo a risollevare le sorti dell’albergo. In realtà l’innamoramento è frutto di un microbo inventato da un medico, e l’amore una malattia. Ma gli effetti sono assolutamente “normali”. L’unica a non innamorarsi, almeno all’apparenza, è proprio Elsa che, troppo orgogliosa per riconoscere l’ottimo lavoro di Gianni, lo caccia in malo modo quando la situazione economica sembra essere migliorata. Ma a poco a poco, lontana dal suo “segretario”, capisce di provare qualcosa per lui. E alla fine lo riassume. Come fidanzato.
Senza aggiungere nulla all’immaginario più tipico delle commedie “bianche” del periodo, Tutto per la donna celebra l’esaurimento del camerinismo ricevuto in dono dagli anni della gavetta: nei modi stanchi con cui Soldati affronta il film si leggono l’insoddisfazione e l’irrequietezza che lo poteranno di lì a poco verso Fogazzaro, la letteratura e il cinema in costume, dalle parti del macrogenere calligrafico che accoglie in quegli anni i registi meno allineati alla politica fascista e cinematograficamente transfughi della commedia. Nell’amato ruolo di critico di se stesso, spesso spietato, Soldati ricorda di essersi inizialmente entusiasmato per la commedia dell’amico Manzari, vista a teatro, a Roma: a piacergli è soprattutto
la moderna figura della protagonista, una donna-padrona che esercita una tirannia non dissimile, nella sostanza, da quella subita da tanti personaggi maschili della sua narrativa. Ma nel passaggio dal teatro allo schermo questo aspetto salta completamente, la complessità psicologica sfuma e la “morbosità” di Elsa si risolve in capriccio. Colpa del cinema, stando a Soldati, del suo linguaggio e delle forme a cui è costretto a cedere, ma il fallimento va senz’altro diviso con il regista, che dalla collaborazione con Camerini ha ereditato senso del ritmo e dell’azione e freschezza descrittiva ma non certo più sottili strumenti per l’analisi psicologica dei personaggi. Li troverà e spunterà da sé già con il film successivo, derivando dalla pagina di Fogazzaro insegnamenti destinati a durare a lungo. E tra le righe delle recensioni al film, sono proprio i valori cameriniani a essere riconosciuti e lodati: il «Corriere della sera» (31 agosto 1940) parla di una «vivacità» e «festosità […] che non rivelano sforzo. Per artificioso che sia l’intrico e per voluto, regia e recitazione gli danno naturalezza, se non proprio credibilità. […] Mario Soldati e la felice scelta dell’ambiente – un centro di turismo invernale, che dà origine a una serie di suggestivi quadri di neve – rendono ogni cosa accettabile». Per Paola Ojetti («Film», 14 settembre 1940), «Tutto per la donna […] è un film graziosamente e scorrevolmente diretto da Mario Soldati», con attori «all’altezza l’uno dell’altra, spigliati, piacenti, eleganti e tanto simpatici da indurre il pubblico a seguire volentieri le loro più o meno peregrine vicende», e non dissimile è il parere di «Il mattino» (6 settembre 1940): «Bisogna riconoscere che se la commedia, filando sulle rotaie della convenzione, riusciva a divertire per certo suo svelto e amabile piglio umoristico, il film non è meno piacevole. Merito più d’ogni altro di Soldati, che ha spesso diretto con quell’arguzia sciolta e veloce che aveva già dimostrato in Dora Nelson, e degli attori principali. […] Tutto sommato, si può esser lieti se, rimescolando abusati ingredienti comicosentimentali, traendo buon partito da attori allenati al genere, si riesce a far passare decorosamente la serata». Ma Soldati, a dieci anni dal suo ingresso nel mondo del cinema, cerca ormai qualcosa di più. Secondo tempo. Letteratura: Fogazzaro, Patti, Cinelli, Balzac (1941-1947) Piccolo mondo antico, con cui molti fanno cominciare la carriera di Soldati – è il primo titolo che si ricordi, e che lui stesso abbia voglia di ricordare – rappresenta effettivamente l’inizio della piena autonomia creativa del regista e porta a maturazione una serie di pratiche di scrittura e di modalità lavorative che diventeranno caratteristiche, prima fra tutte la tendenza a ricavare i soggetti da romanzi più o meno celebri, con una preferenza spiccata per l’Ottocento. Il film, inoltre, capitolo iniziale della trilogia tratta da Fogazzaro, segna uno scarto deciso nei confronti del “camerinismo” degli esordi, che tornerà provvisoriamente, ma soltanto per essere liquidato una volta per tutte, con Quartieri alti: la commedia cede il passo al dramma (o, come nel caso di Le miserie del signor Travet, al tragicomico), piegando il cosmopolitismo, il travestitismo farsesco e il “senso” e la logica teatrali dei precedenti verso una spazialità e una temporalità reali e storiche. E comincia qui, in modo più deciso e aderente, il racconto di quell’Italia “piccola”, appartata e provinciale, cui Soldati si dedicherà per tutta o quasi la sua carriera, ora richiamandola direttamente sullo schermo (Fuga in Francia, La provinciale, La donna del fiume…), ora documentandone indirettamente gusti, tendenze e piaceri (Botta e risposta, È l’amor che mi rovina, il dittico salgariano…), prima di intervistarla personalmente nella fase televisiva che chiude la sua carriera. E la morfologia è subito al singolare, col racconto che si orienta al dramma dei comportamenti e che conduce verso il ritratto (con cornice), tanto che quattro dei sette film realizzati in questi anni portano il nome del personaggio nel titolo. Ma radunare il periodo compreso tra i due estremi di Piccolo mondo antico e Daniele Cortis significa anche cogliere una parentesi estremamente coerente del percorso poetico di Soldati che, distillata nel “formalismo” del primo, si prolunga ben oltre la conclusione della stagione
calligrafica, dentro il secondo dopoguerra, in controtendenza e anzi in aperta polemica con il Neorealismo, a dimostrazione, da un lato, che l’adesione alla “bella forma” non è accidentale né banalmente contestuale e, dall’altro, che il cinema in costume non è un genere provvisorio ma anzi, come già lasciano intuire gli esordi, la forma emersa di un’attitudine specifica al racconto. Un’attitudine destinata, negli anni della proposta (neo)realista, a riscuotere pochissima fortuna, tanto che all’interno di questi estremi cronologici si consuma anche la storia d’amore tra il regista e la critica: che lo incensa per Piccolo mondo antico per poi rifiutarlo a poco a poco, fino a considerarlo definitivamente perso, alla “causa” e al cinema, con Daniele Cortis. Valsolda (Lago di Como), 1850. Un gruppo di ospiti giunge presso la dimora della marchesa Orsola Maironi per l’onomastico della padrona di casa. Dopo le presentazioni, il discorso cade sul nipote della marchesa, Franco, la cui assenza è doppiamente vistosa, perché si sa che la nonna intende approfittare dell’occasione per annunciare il suo fidanzamento con la signorina Tarabelli. In realtà Franco è andato all’ennesimo appuntamento con Luisa Rigey, sua fidanzata segreta perché sgradita alla potente nonna, e si presenta al convito in ritardo. Quando tutti se ne sono andati, nipote e nonna hanno un colloquio durante il quale quest’ultima lo minaccia di diseredarlo qualora prosegua la relazione con la ragazza. In realtà proprio per quella notte è fissato, sotto gli auspici dello zio, l’ingegner Piero Ribera, il matrimonio segreto dei due giovani. Tutti si ritrovano a casa della madre della sposa. La stessa notte Gilardoni, musicista amico di famiglia, rivela a Franco che la nonna ha commesso una falsificazione ereditaria ai suoi danni, ponendogli fra le mani l’originale del testamento del nonno, che in realtà diseredava la consorte, la quale ha provveduto a distruggere l’altra copia, convinta che fosse l’unica. Ma Franco rifiuta di avvalersene, per non danneggiare l’onore del casato. Tenta quindi di presentare la neoimpalmata moglie alla nonna, che però fa mettere alla porta la coppia. Cinque anni dopo, 1855. Gli sposi vivono felici a casa dello zio Piero a Oria, allietati dalla presenza della figlia Ombretta, nata nel frattempo. Una vita serena che non rinuncia alla frequentazione politica degli amici dediti alla causa dell’unità italiana, turbata nottetempo da una perquisizione (voluta dalla marchesa per vendicarsi dello zio Piero) della polizia austriaca, che culmina nel finto arresto di Franco. L’obiettivo di rovinare l’ingegner Ribera viene peraltro conseguito, attraverso l’uso di documenti compromettenti sottratti durante la perquisizione. Luisa dissente dalla rinuncia del marito a far valere i propri diritti sulla falsificazione testamentaria della marchesa: l’uomo è convinto che Gilardoni abbia distrutto il documento decisivo secondo le sue istruzioni. Nel frattempo il musicista tenta di far ricredere la marchesa riguardo alla falsificazione, ma ne ottiene in cambio l’espulsione da Milano. Franco parte per Torino dove ha ottenuto un impiego giornalistico-politico, allo scopo di sostenere la famiglia oltre che la causa. Marito e moglie si lasciano male perché lui è convinto che Luisa abbia avuto parte nello sfortunato tentativo di Gilardoni. Mentre Franco s’inserisce progressivamente nella Torino euforica per la presa di Sebastopoli, Luisa decide di trovare un lavoro di copisteria per far fronte al disagio economico. Venuta a sapere dell’annuale pellegrinaggio della marchesa al locale Santuario, e contemporaneamente del sequestro delle lettere di Franco contenenti il danaro torinese, decide di affrontare la nemica. Mentre la raggiunge, sotto un temporale, Ombretta, rimasta incustodita, annega nel lago. Luisa e lo zio Piero sono distrutti. Franco, avvertito dell’accaduto, rientra da Torino passando clandestinamente il confine dalla Svizzera. La marchesa, colta da un malore mortale, chiede il perdono dei coniugi dichiarandosi disponibile a riconoscerli eredi. Ma Luisa, stroncata dal dolore, è interessata solo alla tomba della figlioletta e si distacca dal marito, nel frattempo fuggito perché ricercato, e dalla religione. 1859. Da quattro anni Luisa rifiuta di rivedere Franco. Raggiunta da una sua lettera alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, con la quale le chiede di riabbracciarla all’Isola Bella prima di partire, pur riluttante accetta l’incontro. Nel calore della notte di vigilia all’Albergo del Delfino, i due coniugi paiono ritrovarsi: la mattina dopo, il battello dei volontari salpa per la guerra.
Piccolo mondo antico nasce produttivamente a metà strada tra Roma e Milano e viene girato negli studi torinesi della Fert, anche se il secondo partner porta dritto da Gualino: sotto l’etichetta Ata, fondata nel capoluogo lombardo nel ’40 da un personaggio ottocentesco e moderno, e insomma soldatiano, come l’aristocratico filocomunista milanese Leonardo Bonzi, marito della Calamai e «pilota di aereo, pluritrasvolatore di oceani e attraversatore di deserti, recordman di distanze e velocità» (Farassino), ci sono infatti Patellani, Mambretti e soprattutto Ponti e Lattuada, che nel ’43 co-produrranno La freccia nel fianco di quest’ultimo in collaborazione con la Lux, entrando poi nell’organico della casa torinese. L’altro partner produttivo è invece la romana Ici di Roberto Dandi,
che aveva accompagnato e anzi spinto l’esordio alla regia di Soldati, e che inizialmente candida la trasposizione di Corrispondente di guerra di Lamberti Sorrentino, una spy-story ambientata in Portogallo. Alla fine la scelta ricade su Fogazzaro e, in attesa di chiudere il contratto stipulato nel maggio del 1940, Soldati si dedica alla sceneggiatura di Castelli in aria di Genina accanto a Castellani, con cui il sodalizio nasce nel ’38 per La signora di Montecarlo e prosegue con particolare intensità per un biennio e più, durante il quale i due lavorano per gli altri (L’orologio a cucù di Mastrocinque, Il documento di Camerini) e per sé (Due milioni per un sorriso, Un colpo di pistola e Mio figlio professore). Mario Bonfantini, Emilio Cecchi e Alberto Lattuada sono invece i nomi che compaiono, accanto a quello di Soldati, nei credits di sceneggiatura: tutti rappresentanti «di un’idea di cultura aperta alle influenze straniere e rispettosa al tempo stesso del primato della letteratura» (Brunetta) e tutti destinati a rinnovare la collaborazione con il regista. Il primo è un amico di infanzia, co-fondatore, assieme a Enrico Emanuelli, del foglio novarese La Libra (1929); il secondo, conosciuto a Torino, lo chiama personalmente alla Cines nel ’33 per lavorare alla sceneggiatura di Acciaio, salvo poi licenziarlo l’anno dopo come unico e necessario responsabile dell’insuccesso del film e dello scontento di Pirandello. Costretto a vivere con 200 lire al mese, Soldati si consola rifugiandosi a scrivere America primo amore a Corconio, sul Lago d’Orta, con l’amico Bonfantini, dove resta per quasi due anni prima di essere richiamato a Roma da Camerini per collaborare – ironia della sorte – alla sceneggiatura di Ma non è una cosa seria da Pirandello. Il terzo, infine, è una conoscenza recente, un nome suggerito da Ponti. Soldati, amico del padre Felice, incontrato sul set di Figaro e la sua gran giornata, lo “intervista” in un viaggio in treno da Milano a Torino; Lattuada passa l’esame e sarà anche primo assistente; secondo e terzo, Dino Risi e Lucio De Caro. In concreto, ricorda il regista, «la sceneggiatura l’abbiamo fatta Bonfantini ed io»; «Lattuada ha messo dei dettagli, parecchi e precisi, come l’ostensorio: cose ottiche, visive» mentre Cecchi «dava a me autorità. […] Poi molte cose, molto gusto; quando lesse la sceneggiatura lasciò le battute che andavano bene, tolse le altre, tagliò certe esagerazioni, insomma è stato molto molto importante» (FS, p. 1043). Il film viene girato tra il settembre e il dicembre del 1940 ed esce nell’aprile dell’anno successivo, ottenendo un notevole successo al botteghino e portando al regista grande notorietà. Per il ruolo di Luisa, dopo aver pensato a Elena Zareschi, la scelta ricade sulla diciannovenne Alida Valli: Soldati, al primo provino, ne è rapito; lo soddisfano meno le doti recitative di Massimo Serato, che però è protetto della Magnani e poi «era molto bello, figurativamente andava bene». Gli attori secondari – in molti casi provenienti dal teatro, come Giacinto Molteni (fot. 11) – sono scelti personalmente dal regista, che già rivela innegabili doti di talent scout, mai più smentite: ha un fiuto infallibile per la “scenografia umana” dei suoi set, per le facce e le parlate giuste che informano subito su conti in banca, psicologia, storia e quotidianità; se proprio è stato un calligrafico, Soldati lo rivela qui meglio che altrove. E va d’accordo con Fogazzaro, che in fatto di caratterizzazione delle figure di contorno era secondo a pochi.
FOT. 11
Il “pacchetto”, insomma, è finalmente quello di una produzione di serie A: i direttori della
fotografia sono due, e tra i più bravi, ossia Arturo Gallea, torinese, per gli esterni (sul lago di Como), e Carlo Montuori per gli interni; la scenografia è di Gastone Medin, i costumi di Gino Carlo Sensani e Maria De Matteis. Ponti è onnipresente. E sono proprio i valori di prestigio produttivo, prima di altri, a impressionare positivamente tutta o quasi la critica dell’epoca, che nelle sue frange più giovani e propositive sta solo cominciando a elaborare quell’idea precorritrice di (neo)realismo contro cui rimbalzerà sempre più sgradito il letterario e il ricostruito dei film successivi, Malombra in testa. Ma appena prima del “ritorno a Verga”, Fogazzaro va ancora bene; tanto che Soldati figura tra i pochi registi italiani a cui un suo futuro detrattore, Giuseppe De Santis, guarda con speranza dopo l’uscita di Piccolo mondo antico: «Per la prima volta nel nostro cinema abbiamo visto un paesaggio, non più artefatto, pacchiano-pittoresco, ma finalmente rispondente alla umanità dei personaggi sia come elemento emotivo che come indicatore dei loro sentimenti» (Per un paesaggio italiano, «Cinema», aprile 1941). Ma già qualche mese dopo, in coppia con Alicata (Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema», ottobre 1941), De Santis, anche se trasversalmente, ritratta: dispiace Fogazzaro e dispiace che Soldati, nel passaggio dalla letteratura al cinema, abbandoni «le sue osterie e i suoi porti, i suoi interni oppressi e senza luce, i suoi paesaggi coloriti e puri per i risotti con i tartufi». Il rilievo estetico del primo intervento annega così nel programma di poetica del secondo: e d’ora in poi Soldati, per la frangia di «Cinema» ma anche per «Bianco e Nero», resterà un gran cuciniere di pietanze profumate, e l’escalation quasi persecutoria contro il suo lavoro culminerà con il riconoscimento che egli rientra tra coloro che «hanno chiarito ormai la loro fredda posizione di calligrafi» (De Santis nel ’43, a proposito di Malombra). Da parte sua Soldati, che pure non prende parte al dibattito attorno al calligrafismo (lo liquida tardi, e senza pietà: «una cosa incredibile… tutte cretinate»), non mancherà, in futuro, di bocciare sonoramente la poetica realista che comincia a definirsi sulle pagine di «Cinema»: questione di estetica, certo, ma anche di biografia e cultura, perché «comprese che il Neorealismo del dopoguerra negava ogni giustificazione storica all’atteggiamento del letterato vagabondo e sfuggente» (F. Bolzoni, Mario Soldati, Centrofilm, Torino, 1961, p. 5). E la sua ricetta da “neorealista borghese”, quasi scandalosa negli anni d’oro del Neorealismo, suonerà più che sensata quando la discussione si sposta, nei primi anni Cinquanta, sulle pagine di «Cinema Nuovo». Naturalmente la condanna non è esclusiva; Soldati è, semplicemente, il più autorevole dei “nemici” del realismo e, con Piccolo mondo antico e Malombra, uno dei registi di punta del periodo. Allo stesso modo, Fogazzaro si trova in buona compagnia tra i tanti letterati vissuti a cavallo tra Otto e Novecento a cui il cinema italiano si rivolge nei primi anni Quaranta, affidandone la “traduzione” a Camerini, Lattuada, Calzavara, Castellani e Poggioli. Tutti formalisti o calligrafici, forse, come si disse allora, ma non allo stesso modo: perché se Camerini continua semplicemente a fare l’apolitico, dal bianco dei telefoni a quello della carta da lettere, Soldati non aderisce semplicemente “alla moda”, né si rifugia nei sacri valori della forma per sottrarre se stesso e il suo cinema dall’epidemia del consenso. Perfeziona, al contrario, con Fogazzaro e il cinema in costume, una sua cifra specifica che resisterà a lungo, e proprio in controtendenza alle direttive neorealiste. Il trittico fogazzariano – 1941, 1942, 1947 – testimonia del resto una cronologia d’autore relativamente insensibile alle cesure capitali della storia e dell’estetica cinematografica, solidamente piantata in un’idea di cinema che sposta in fondo i valori contingenti della politica per sposare quelli della ricerca della verità contro l’imbroglio del verismo e la retorica del verosimile («La verità sta oltre la realtà», dirà il regista a proposito di A cena col commendatore, 1953). Fogazzaro, appunto, contro Verga. Il che, per altro verso, fa del “bello stile” soldatiano una forma perennemente inquieta perché temporanea, funzionale, al limite “indifferente” e, questa sì, contingente, ma anche costante, al di là della parentesi storico-politica in cui girar bene vuole dire essere calligrafico. Al tempo stesso, come osserva Walter Mauro, l’incontro di Soldati con la letteratura di Fogazzaro (che, aneddotica vuole, coincide con la firma del contratto) rivela inaspettate consonanze private
perché «i frammenti di vita e di educazione sentimentale che rappresentavano non solo gli anni della sua prima immissione culturale, ma anche i materiali sui quali era andato elaborando la sua esperienza di scrittore» si ritrovano in Fogazzaro, «dalla cui opera emergevano tutti quei temi dell’inquietudine post-romantica che costituiranno il nodo della corrente di pensiero del modernismo, con il tormento di una visione del cattolicesimo in perenne conflitto con le tentazioni del vitale quotidiano» (W. Mauro, Invito alla lettura di Mario Soldati, Mursia, Milano, 1981, pp. 137-138). Piccolo mondo antico rappresenta insomma il primo sapiente distillato di mestiere e cultura (letteraria e pittorica: nel ’27 Soldati aveva scritto l’introduzione a un catalogo della nuova Galleria d’Arte Moderna di Torino, dedicato ai pittori lombardi e piemontesi); la prima riuscita metamorfosi da una logica autoriale a un’altra (restando intatto il piacere per l’affabulazione), l’avvio di quel cinema “di qualità” senza compiacimenti, sempre un po’ calligrafico – non lo sono forse anche i film degli anni Cinquanta? – o letterario, destinato, negli anni, a scontentare i figli che scalpitano per il nuovo e gli estimatori della prima ora che non riescono a liberarsi dal vecchio. Soldati, che pure, in privato e in pubblico, coltiva il primato della letteratura, è già un abile “cinematografaro”: nell’operazione di adattamento scorcia, taglia, condensa e se non somiglia a tanti altri formalisti dell’epoca è anche per l’intelligenza della traduzione, che se a qualcuno, forse troppo affezionato al romanzo, appare segnata dalla «tipologia spicciola imparata dai memorialisti dell’Ottocento» (Bolzoni), istruisce oggi sull’importanza del set contro il governo della parola, inaspettatamente accolta e abilmente vissuta dallo scrittore Soldati. Che trova così «la giusta via per non rimanere invischiato nel descrittivismo minuto di ambienti, situazioni e atmosfere riguardanti i personaggi minori che affollano le pagine del romanzo. Non solo li riduce di numero, ma tende anche a risolverli soprattutto in termini di precise e sintetiche caratterizzazioni: cioè, affidandosi più al lavoro di direzione degli attori e di regia che a quello di sceneggiatura. Il ruolo essenziale dei caratteristi in questo film (e, in genere, nel cinema di Soldati) deriva da una costante ricerca di esattezza del gesto, dell’ambiente, dell’atmosfera figurativa. Il risultato è, appunto, l’impressione di una grande fedeltà che, in realtà, deriva da una sistematica presa di distanza dalla vischiosità del testo letterario» (A. Costa, “Soldati, Puig e il volto ‘pieno di mistero’ di Isa Miranda”, in AA.VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, cit.). Piccolo mondo antico lievita insomma “dall’interno”, a partire da una lettura che, oltre a vincere le resistenze che il romanzo, nella sua lunghezza e complessità, pone a una traduzione filmica, lascia alla pagina tutto ciò che potrebbe abbandonarla solo con qualche difficoltà, valorizzando al contempo gli elementi già di per sé cinematografici. Fogazzaro, inoltre, maniaco del dettaglio scenografico e antropologico, attratto dal “pittoresco” e dal feuilletonesque, amante del contrasto forte e abile manovratore di sottotesti politici e morali dentro trame più d’appendice che d’arte – in breve, nota Soldati, «uno dei più vivi, dei più moderni, e cioè dei più cinematografici» – appare quasi naturalmente votato a incontrare con profitto la scrittura soldatiana e a stimolarne la propensione alla drammatizzazione e la fedeltà alla drammaturgia “socializzata” di comportamenti e sentimenti che libri e cinema contribuiscono a comporre e a divulgare. Al tempo stesso, il regista dialoga bene con Fogazzaro anche quando il gioco si sposta dal racconto alla nominazione, ricorrendo per esempio a una messa in scena di grande fedeltà documentaria per i tanti luoghi che lo scrittore, nel libro, si limita a indicare, senza ingabbiarli nella lingua e rinviando idealmente al lettore la loro descrizione. Ad accogliere e sostenere la complessa traduzione filmica dell’impalcatura del romanzo vi è poi l’ormai saldo classicismo anti-naturalistico, ma a vocazione realista, di Soldati: velocità d’esecuzione e scioltezza narrativa raggiungono con Piccolo mondo antico uno dei loro vertici (il gioco dell’ellissi è perfetto), senza per questo compromettere l’esattezza geografica, culturale e sociale di luoghi e personaggi che incorniciano un racconto mai “imbalsamato”. La ricetta del
classicismo soldatiano sta proprio in questo delicato equilibrio tra scena e sequenza, in una trasparenza che non dissolve il vero ma lo capta e mette in forma, predisponendolo a diventare cinema, a metà strada tra Hollywood e realismo europeo. E con grande economia di mezzi: le strategie linguistiche che reggono questa e altre traduzioni letterarie, Malombra in testa, sono poche e precise, contribuendo al rigore della messa in scena e aprendosi ad accogliere “localmente” il libro per darne un’organizzazione diacronica prettamente cinematografica. Da un lato, in particolare, emerge il gioco dell’alternanza ordinata tra “dentro” e “fuori”, tra scena e sfondo, set e mondo (fot. 12); dall’altro, come nota Andrea Martini, si denuncia nel film una tendenza (destinata a perfezionarsi) verso l’organizzazione di uno spettacolo nei limiti della singola inquadratura, in una spesso felice convergenza tra letteratura, cinema, teatro e pittura, in cui la macchina da presa riduce la propria mobilità a favore del “quadro”. Ora “veduta”, animata per mezzo di risorse teatrali come il gioco chiaroscurale e il movimento degli attori, usati però con sapienza cinematografica (fot. 13). Ora ritratto, a cui Soldati, grazie all’analisi della “microfisionomia” della Valli (fot. 14), rimanda l’elaborazione dei contenuti del film, sia sotto il profilo sentimentale che morale.
FOT. 12
FOT. 13
FOT. 14
La vicenda, così, si stringe, senza stingersi, sul dramma di Franco e Luisa, commerciando bene – lo nota Guglielmo Usellini recensendo il film per «Bianco e Nero» – tra carattere spirituale e dissidio di interessi. E la concessione all’aspetto feuilletonesque che deriva al film, rimproverata da Puccini su «Cinema», si rivela al contrario un restringimento necessario e intelligente, perfettamente cronometrato sui limiti – di tempo, forma e visibilità – del cinema e sulle preferenze soldatiane per la ritrattistica, d’epoca e non. L’urgenza dell’intrigo (al centro di tutto vi è la questione del testamento di Maironi) si sposta dunque in primo piano quale motore della “curiosità” narrativa, e sullo scheletro di una suspense famigliar-monetaria Soldati incastra il sottotesto politico del
romanzo. Ma, soprattutto, dissemina il film di segni che appaiono ogni volta preziosismo letterario, cura scenografica, spettacolo visivo e incurvatura ideologica, e che meritano oggi una rilettura più cosciente e consapevole, a partire da una diversa valutazione dell’atteggiamento che sta all’origine dell’opzione formalista accolta in questi anni. Piccolo mondo antico, come molti altri film calligrafici, ha in effetti sofferto un po’ troppo a lungo delle dissociazioni rimproverategli alla sua uscita dal gruppo di «Cinema» e delle mezze stroncature di una parte della critica che, ereditando quel dibattito in forma sbiadita, ha insistito fino ai giorni nostri sul disimpegno politico e ideologico che dalla “scuola” discende al film. Si è dovuto aspettare il più recente ripensamento del calligrafismo, che ha trovato i suoi principali punti d’appoggio nel convegno pesarese documentato in La bella forma, a cura di Andrea Martini (Marsilio, Venezia, 1992) e in molti studi “anti-ideologici” sul cinema del ventennio, per tornare a vedere certi film, e in particolare Piccolo mondo antico e Malombra, con sguardo nuovo. Le opzioni di rilettura e recupero della parentesi calligrafica sono troppe per documentarle qui: Soldati, assieme a Poggioli, vi figura come il “salvato” per eccellenza, anche se l’operazione ha paradossalmente inasprito l’incomunicabilità tra questa fase della sua opera e la successiva, rivelandosi incapace di vedere nel formalismo soldatiano la formula di un’attitudine al cinema che resiste anche al di là del contesto fascista e che anzi predispone una tattica – estetica e ideologica – destinata a voltarsi in strategia nei confronti di tutta la politica italiana. Piccolo mondo antico costituisce infatti la sintesi del modello di “conversazione” con i modi di produzione culturale e ideologica elaborato da Soldati a partire dalla “dissimulazione onesta” dei precedenti cameriniani, in cui si impone il primato della messa in scena contro il contenutismo del cinema di ispirazione sociale e quello, “ambientale”, di stampo neorealista, e in cui l’orientazione ideologica finisce assorbita dai segni del set e rielaborata attraverso il linguaggio del cinema. Così, su un piano generale e sinteticamente, se la scelta dell’Ottocento è già di per sé – nel clima della guerra – un’opzione carica di significati, Piccolo mondo antico, oltre a omaggiare il cinema in quella sua anima “popolare” cara a Soldati, riesce anche a raccogliere e rielaborare lo “spirito dei tempi”, comunicando un’inquietudine persistente (recepita talvolta come aritmia stilistica) nell’opposizione tra la trasparenza delle scelte di regia – potere concentrico della scena, sintassi a episodi, frontalità dello sguardo, antropomorfismo dei movimenti di macchina, grammatica causale – e il dramma dell’opacità che affligge i rapporti tra i personaggi, regolati dal complotto, dalla delazione e dal sospetto, tra un testamento falso e un volantino nascosto, un matrimonio segreto e una parentela negata. Il principio è insomma quello di un chiaroscuro che è al tempo stesso opzione formale, condivisione delle contraddizioni morali che legano Fogazzaro a Soldati e, più in generale, negoziazione tra valori spettacolari e ideologici del cinema. La crisi, in breve, è tutta nella sintesi, che cerca – perché ne ha bisogno – l’ordine della bella scrittura e la sua apparente neutralità contro un’epoca di dittatura e miseria. Non riconoscere dietro la compostezza della forma un afflato anche politico significa cadere in un errore interpretativo previsto fin dall’origine e destinato a preservare il testo da letture “contrarie”, di cui oggi ha invece bisogno, non soltanto per sottrarlo al gioco sempre un po’ ragionieristico cui è andato incontro, tra una stroncatura e una rivalutazione, ma soprattutto per risistemarlo nel corpo della filmografia soldatiana, che tra il ’41 e il ’45 alterna al doppio Fogazzaro un melodramma fosco e realista (Tragica notte) e una commedia “grigia” e all’americana (Quartieri alti): un chiasmo quasi perfetto, di cui oggi appare necessario comprendere il gioco di scambi, prestiti e influenze, anziché rimarcare una volta di più l’apparente contrarietà dei termini. Tragica notte viene realizzato tra il giugno e il settembre del 1941, rinnovando la collaborazione con Cecchi e Bonfantini, cui si aggiungono Lucio De Caro (già aiuto per Piccolo mondo antico), Enzo Giachino, Delfino Cinelli (autore del romanzo da cui è tratto il film, La trappola) e Alberto Moravia, non accreditato. E dopo Assia Noris, e in attesa di Isa Miranda, Soldati incrocia un’altra
delle dive del ventennio, Doris Duranti (che perde curiosamente la “s” nei titoli di testa), la donna di Pavolini, alla quale si deve la scelta del soggetto e qualche tensione di troppo in fase di scrittura e ripresa. Anche per questo, forse, Soldati, con la consueta “leggerezza”, annovera il film tra le occasioni mancate e ricorda che, «soprattutto, non mi piaceva il soggetto; non avrei dovuto accettare di fare questo film. Detto questo, più il soggetto non mi piaceva, più ero attento alla forma, che volevo che fosse buona. Onestamente, credo di aver avuto delle attenzioni e delle delicatezze infinite» (JG, p. 19). Un gruppo di uomini tende un’imboscata a Stefano mentre è a caccia, picchiandolo fino a farlo svenire. Ripresosi quando gli assalitori sono ormai fuggiti, egli torna a casa, si medica e l’indomani si reca allo spaccio del paese, gestito da Armida e dal marito, Nanni, in cui riconosce uno degli assalitori: nella colluttazione è infatti riuscito a strappare un bottone dalla giacca dell’uomo che lo ha schiaffeggiato, lo stesso bottone che manca a quella di Nanni. Il quale, del resto, ha un conto in sospeso con Stefano, responsabile, tempo addietro, della sua incarcerazione. Due anni dopo. Mentre Stefano e Nanni discutono sulla possibilità di dimenticare il passato, torna in paese il conte Paolo Martorelli, partito un paio di anni prima per gli Stati Uniti. Nanni è la prima persona che desidera salutare: sono cresciuti insieme e hanno condiviso molte avventure. Il conte, poi, non ha mai conosciuto Armida, o così crede il marito: in un flashback si viene invece a sapere che mentre l’uomo era ancora in prigione il conte l’ha corteggiata. La tensione è palpabile, anche se niente, nel passato, è accaduto. Eppure il seme della gelosia è piantato, e Stefano ne approfitta per tessere una trama di sospetti con cui vendicarsi di Nanni, opponendolo all’amico. Nel frattempo, giunge in paese la madre di Armida; l’indomani le due donne, Stefano e il conte si recano in visita alla torre che domina l’azienda agricola di quest’ultimo. Rimasta indietro per un capogiro, Armida ha modo di chiarirsi con il conte, cui confessa di “voler bene”. Stefano prosegue nel suo piano, convincendo Nanni a scrivere al conte fingendosi Armida. Il contenuto della lettera fa sì che l’uomo, chiamato a Firenze da un telegramma, torni in paese; intanto, Stefano dà appuntamento a Nanni per quella notte, al burrone: ci saranno lui e Paolo e insieme andranno a caccia di tassi. Dice che la situazione è risolta e che il conte non ha mai avuto intenzione di tradire la fiducia dell’amico corteggiando Armida tanto che, resosi conto che la lettera proveniva dalla donna, non l’ha degnata di uno sguardo. Stefano e Nanni si ritrovano al burrone. Il conte è lontano, in cima a un pendio; si tratta in realtà di un manichino. Paolo, seguendo le indicazioni del biglietto, si è infatti recato da Armida. Scoperto l’inganno, Nanni uccide Stefano. Arriva il conte, con cui ha un chiarimento definitivo. Al sopraggiungere di alcuni uomini attirati dagli spari, Paolo copre la fuga dell’amico, preparandosi a raccontare che è stato un incidente.
Sulla sconfessione di Soldati pesa probabilmente anche la pessima accoglienza tributata al film alla sua uscita. Trattato male dalla critica e fischiato dal pubblico (ma piace ai giovani cinéphiles), Tragica notte deve anche subire la condanna “interna” di Cinelli che, spalleggiato da Cecchi, e pur avendo preso parte alla sceneggiatura, lo considera un tradimento del suo romanzo. In effetti la pellicola corregge la fonte in molti punti essenziali, primo fra tutti la caratterizzazione dei personaggi, trasformando Stefano da servitore rispettoso e pedante in una specie di Iago e, all’opposto, donando fascino e simpatia a Nanni. Una riscrittura che rende forse il triangolo amoroso un po’ più manicheo, con i personaggi naturalmente predisposti a compiere un certo tipo di azioni, ma che, al tempo stesso, accelera il ritmo e serve bene il gioco dello stereotipo mélo: correzione tipicamente soldatiana, che sveltisce e semplifica e soprattutto prevede con intelligenza “industriale” una destinazione di genere, interpretando perfettamente le esigenze di “formato”, al limite contro la letteratura. Ma il film, tra i meno visti dei “minori” di Soldati e rimosso puntualmente dalle storie generaliste, riconsiderato oggi – e già nelle parole dei recensori più attenti dell’epoca – possiede non pochi elementi di interesse, e soprattutto innegabili elementi di continuità con il precedente immediato. Sulla strada di quell’apertura al paesaggio geografico e umano auspicata da De Santis e proprio in quegli anni percorsa più o meno consapevolmente da De Robertis e poi dalla classica triade preneorealista, Soldati dà infatti un contributo non piccolo, anche se non “partitico”, svelando al contempo tutta la faciloneria dell’etichetta calligrafica, che tende a rimuovere – almeno nel suo caso – la presenza di un’attenzione specifica al racconto del reale, pur dentro trame spesso “sottovetro” e al servizio delle routine di genere.
FOT. 15
Già Pietrangeli, recensendo il film su «Si gira» nel marzo del ’42, sottolineava (l’occhio teso in quella direzione) «la scelta, in verità assai felice, degli esterni e delle scenografie accuratissime, arredate con una disposizione di oggetti quanto mai attendibile e precisa». Certe gabbie per asciugare i panni sul fuoco, le pareti scrostate e tinteggiate male dello spaccio in cui lavorano e vivono Nanni e Armida, e poi tanti piccoli oggetti quotidiani (fot. 15) ma, soprattutto, il paesaggio “vero” dei Calanchi di Monte Oliveto Maggiore, nella campagna senese, e l’esattezza dialettale e “fisionomica” di chi lo abita, restituiscono «un sapore di verità così intenso da imprimersi nella memoria di ogni spettatore». Magari per contrasto con il mondo “moderno” di cui è testimone il conte, «scappato a gambe levate» dall’America perché «stava per cambiarmi», con la sua parlata borghese, le sue abitudini cittadine e quel doppiopetto che spicca come un vero e proprio costume tra le giacche da caccia e i fucili indossati dagli altri uomini. Certo, come già in Piccolo mondo antico e in molti altri film di Soldati, il dato reale è subito piegato a coefficiente cinematografico e “l’immagine-traccia” assottiglia i suoi legami con i referenti originali per farsi scenografia o personaggio o, al peggio, cornice o inserto autonomo, come nella sequenza dell’“idillio ruralista” della raccolta del riso, dal montaggio frenetico che già di per sé elogia l’efficienza del lavoro nei campi e la sua meccanizzazione: niente a che vedere, insomma, con quella logica dell’“attualità” che sarà tipica del Neorealismo. Ma appena prima di Ossessione – con cui Tragica notte condivide più di un aspetto, compresa l’americanità dei riferimenti, la fotografia cupa e minacciosa di Terzano e l’interpretazione burbera di Juan De Landa – Soldati dà uno dei melodrammi più foschi e intensi del periodo, per metà en plein air, impiegando lo spazio come cassa di risonanza e dato originario, con le passioni dei personaggi che si rispecchiano nello scabro e pungente paesaggio montagnoso e, viceversa, con la durezza e la fatica dell’ambiente che si prolunga nei loro gesti e sentimenti, inasprendoli. Il melodramma diventa così una specie di vortice “elementare” in cui l’essenzialità dei rapporti umani, privi di sfumature, disegna geometrie perfette: il codice di comportamento è la vendetta, l’amore si coniuga naturalmente in matrimonio e l’odio in morte. Non a caso, il film si apre con una curiosa panoramica a 360° gradi che, per quanto “nascosta” dai titoli di testa, anticipa il movimento vorticoso in cui saranno presi tutti i personaggi, e in cui ogni loro certezza si dileguerà per lasciare posto alle ombre (tra una Ombretta e una Malombra…) del sospetto e dell’incertezza, spremendo dalla realtà false storie e doppie identità che riportano dritte a quella retorica del falso e della dissimulazione (e qui, specificamente, della delazione e del sospetto), e a quell’incerta oscillazione tra vero e falso, che, come ricorda Zagarrio (in Cinema e fascismo, cit.), sono di molta cinematografia del periodo, prima di essere una cifra soldatiana.
FOT. 16
Gran cerimoniere di questo movimento che smuove l’apparente solidità di spazi e personaggi è Stefano, riscritto da Soldati e soci sul profilo di Iago, che Carlo Ninchi (l’ingegner Ferrari di Dora Nelson), proprio nel ’42, interpreta a teatro. Questo «minuzioso Iago rurale» che mente «peggio di Giuda» (Gromo) usa la parola, sempre a mezza voce, nascosta e fitta di sottintesi, per alimentare la gelosia di Nanni che, non diversamente da Otello, finirà per cercare soltanto una prova di colpevolezza. Con la mente ottenebrata e gli occhi offuscati, l’uomo, nella secca interpretazione di Andrea Cecchi, dà forma ai fantasmi evocati da Stefano (fot. 16), trasformandosi nel narratore di una storia potenziale che sospende ogni presunzione d’innocenza e mira dritta a un finale tragico: così, perfino il flashback di Armida, che ricorda il suo primo incontro con il conte, a Firenze, con lo spazio confuso e moltiplicato dal riflesso di un grande specchio – un frammento cubista che ben s’adatta al clima del ricordo –, viene spogliato agli occhi dello spettatore della sua verità “fattuale” per diventare una prova di colpevolezza. Perché il veleno del dubbio, somministrato con pazienza da Stefano, finisce per inquinare tutto e l’incantamento di Nanni arriva a sospendere ogni legame con la realtà: «Credevo di parlare a una persona e invece mi accorgo di averne davanti un’altra che non ho mai conosciuto», dice della moglie. Finché la realtà non torna a imporsi, in quella forma assoluta e primigenia che è del luogo e di chi lo abita. Con la morte, solo la morte, a fermare il vortice. Ma nel finale, che si oppone vistosamente alla prima inquadratura aerea, con Armida che, di spalle, chiude il pesante uscio di casa (fot. 17), lasciando cadere sulla vicenda una tristezza claustrofobica, il mélo, femminile per eccellenza, reclama un primo piano proprio sul personaggio di Armida, trascurato dal racconto tra una fantasticheria e l’altra; se la tragedia della gelosia è consumata e chiusa, gli unici veri fantasmi, quelli dell’indecisione amorosa della donna tra Nanni e Paolo, sopravvivono. E Armida, in quel gesto finale stanco e sconsolato, si denuncia per quello che è: la vittima di un mondo maschile, ferino e violento, impedita a combattere e libera soltanto di chiudersi alle spalle le “altre storie”, per sempre intrappolate in un flashback. Dopo Luisa e prima di Marina, di Eugenia, della Gemma di La provinciale e della Nives di La donna del fiume, Soldati consegna con Tragica notte uno dei suoi più delicati ritratti femminili, assecondando la docilità dell’interpretazione e la grazia della figura della Duranti e circondandole di ombre sottili, sospiri di dolore, rassegnazione e remissività. Perché, a ben vedere, Soldati è stato anche questo: un abile ritrattista di figure femminili (su tutte, quella letteraria di Veve in Le due città), nelle quali ha spesso sovrapposto il racconto dell’“eterno femminino” con la descrizione delle trasformazioni sociali e culturali cui la donna è andata incontro tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta.
FOT. 17
Nel caso della marchesina Marina, protagonista del successivo Malombra, tratto dal romanzo omonimo di Fogazzaro e realizzato nell’estate del 1942, è soprattutto il primo aspetto a imporsi, nel racconto di una follia che, invadendola lentamente, finisce per proiettare una galleria di ritratti che sono, di volta in volta, variazioni sul tema del femminile, dalla fanciulla remissiva della letteratura ottocentesca alla donna-padrona che reclama i suoi diritti sul mondo maschile, terrorizzando fino alla morte il suo aguzzino, il conte Cesare d’Ormengo (un bravissimo Gualtiero Tumiati, che in una parte simile tornerà in Eugenia Grandet), e sparando al suo innamorato, Corrado Silla (Andrea Cecchi). Isa Miranda restituisce bene il crescendo di pazzia che stravolge il personaggio, per quanto, com’è noto, Soldati avrebbe preferito Alida Valli (con cui, dopo la lavorazione di Piccolo mondo antico, ha un brevissima storia d’amore, rielaborata nella novella Il momento buono); e così, nel ricordo, la Miranda si trasforma nel capro espiatorio di tutti i difetti del film, che pure resta uno dei più amati da Soldati, il primo «girato credendo nel cinema». Che, beffardamente, ha parole d’ammirazione per l’attrice soltanto in relazione al provino: un episodio curioso e indicativo, ricostruito nell’intervista a Savio, in cui lo “scarto” diventa non soltanto il miglior saggio di recitazione della Miranda ma, addirittura, «come pezzo, come pagina di antologia, la cosa più bella che ho girato in vita mia» (FS, p. 1046). Marina di Malombra, rimasta orfana, riceve l’accoglienza dello zio materno, Cesare d’Ormengo, vecchio e burbero, che le impone una vera e propria prigionia presso il palazzo di famiglia, sul lago di Como: potrà uscirne soltanto dopo essersi sposata. Il tempo scorre lento e noioso, finché un giorno, aggirandosi per la villa, Marina entra nella “stanza maledetta”, che tutti pensano abitata dal fantasma della contessa, Cecilia Varrega, lì confinata per dodici anni da Cesare come punizione per una sua relazione con un giovane ufficiale, Renato. Suonando la spinetta sfiorata a suo tempo dalle dita di Cecilia, Marina scopre alcune lettere nascoste nello strumento: appartengono all’antenata e vi si trova descritta la storia del suo adulterio e soprattutto un invito pressante a vendicarne la memoria. A poco a poco Marina si lascia suggestionare da quelle parole, assumendo atteggiamenti che i dottori definiscono da “febbre cerebrale”. Ne ha una prova Corrado Silla, seduto al tavolo degli scacchi, dopo un solo giorno di permanenza alla villa, restandone sconvolto ma al tempo stesso affascinato. L’amore per Marina lo fa desistere dalla decisione di andarsene, benché permangano molti dubbi sul perché la madre, morendo, abbia chiesto al conte di prendersi cura di lui. Tutti, al palazzo, pensano che sia figlio naturale di Cesare d’Ormengo, ma questi nega risolutamente. La sera stessa Corrado e Marina hanno un nuovo incontro, durante il quale lui la chiama Cecilia e lei Renato: Silla ha infatti scoperto in Marina la Cecilia lettrice del suo romanzo anonimo Fantasmi del passato con cui ha avuto uno scambio epistolare, mentre lei vede in Corrado la reincarnazione dell’ufficiale a cui chiedere aiuto nella vendetta. La stranezza dell’episodio impressiona l’uomo, che decide di tornare a Milano e dimenticare Marina, la quale accetta nel frattempo, a malincuore, di sposare il cugino Nepo Salvador d’Ormengo, secondo il volere dello zio. Marina, tramite Edith, figlia di Andrea Steinegge, un amico di famiglia, recapita un messaggio a Corrado invitandolo al suo matrimonio. Ma quando Silla – che nel frattempo ha chiesto a Edith di sposarlo – non si fa vedere, Marina impazzisce di rabbia e dolore, e decide di vendicarsi da sola, terrorizzando a morte lo zio. Quando giunge un telegramma che lo informa delle gravi condizioni del conte, Silla è costretto a partire per la villa dove, intanto, la contessa Fosca, madre di Nepo, sta cercando di affrettare le nozze. L’arrivo di Corrado aggrava ulteriormente le condizioni di Marina, che lo chiama Renato e lo mette a conoscenza delle lettere di Cecilia. Mentre si trovano insieme, di nuovo innamorati, vengono avvertiti che il conte è in agonia. La sua morte, poco dopo, determina il fallimento del matrimonio e il delirio della nipote. Che pareggerà i conti con Silla l’indomani: sotto la loggia, fa imbandire un ricco pranzo e quando avvista Corrado gli si avvicina e gli spara un colpo mortale al cuore. Inseguita, scappa in barca, diretta all’orrido dove in passato è morta Cecilia.
FOT. 18
FOT. 19
In realtà, a proposito di “pagine da antologia”, anche il film finito ne contiene una rimasta celebre, tra le cose più belle del cinema di Soldati e della produzione italiana del tempo, da sistemare accanto alla morte di Ombretta in Piccolo mondo antico e a qualche “pezzo” di Eugenia Grandet e Daniele Cortis. Si tratta dell’ultima sequenza, quella del “pranzo funebre” tanto amata da Visconti (fot. 18): sfuggendo ogni consuetudine visiva da “dramma della follia”, Soldati racconta l’apice della perdizione di Marina ricorrendo soprattutto a elementi scenografici e fotografici, al vento sibilante, alla luce tremula delle candele, accese nonostante sia giorno, e a un impasto luministico dai toni lividi e realisti (la fotografia è del suo preferito, Terzano) (fot. 19); sembra uscita da un film di Stroheim e ricorda da vicino l’analoga scena della Malombra di Gallone (1917). L’analisi dei rapporti tra il precedente muto e la trasposizione di Soldati, segnalati per la prima volta in una recensione di Diego Calcagno («Film», 2 gennaio 1943), sono al centro di un prezioso lavoro di Antonio Costa, “Malombra sullo schermo” (compreso in I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni, Roma, 2002), da cui emerge chiaramente la prova di una diretta conoscenza del lavoro di Gallone da parte degli sceneggiatori del film di Soldati. Lo rivelano, per esempio, la comune decisione di far iniziare il racconto dall’arrivo di Marina presso la villa dello zio, anziché dal viaggio in treno di Silla, come accade nel romanzo e, di volta in volta, il confronto tra gli episodi salvati dalla complessa pagina di Fogazzaro, come nell’epilogo. Ma l’influsso è anche, e più in generale, stilistico: «Si ha l’impressione che Soldati abbia voluto imprimere al suo film una cifra arcaica, con un largo impiego di cartelli e inserti scritti. Una soluzione non puramente formale, in quanto funzionale a un découpage che tende più all’evocazione che alla rappresentazione». Di schegge di cinema muto, del resto, è intriso tutto il cinema in costume di Soldati, come rivelano anche Eugenia Grandet e Daniele Cortis: soluzioni formali o residui visivi che molto devono anche al gusto pittorico del regista e all’impostazione teatrale della sua messa in scena e che risultano valorizzati a contatto con l’ambiente ottocentesco. In più, nel caso di Malombra, questa patina arcaica interpreta perfettamente la follia di Marina, che lievita dal personaggio e travolge la messa in scena, introducendo un clima allucinato, misterico e onirico che ha due corrispettivi letterari in Le fleurs du mal di Baudelaire, sfogliato da Silla, e nel suo romanzo anonimo, Fantasmi del passato (Sogni nell’originale, Un sogno in Gallone). Così, ancora una volta, tutto un repertorio di segni perde a poco a poco il proprio valore scenografico per entrare in risonanza con il sentimentalismo del personaggio, di cui rappresentano tuttavia non soltanto l’estrinsecazione, come in Piccolo mondo antico, ma anche un’origine inquietante: il vento che soffia su tutto il film, cambiando di forma alle cose e donando loro un’esistenza provvisoria e fantasmatica, in particolare a contatto con gli abiti e i capelli della protagonista, dà voce alle parole scritte di Cecilia, rinnovando continuamente l’invito alla vendetta di cui Marina si fa esecutrice dopo averlo letto una prima volta nelle carte nascoste nella spinetta. Prima di Eugenia e della Elena del Cortis, che proiettano il racconto a partire dalla propria soggettività, rispettivamente in posizione di spettatrice e di narratrice, Soldati offre con Marina l’immagine di una donna che visse due volte e il cui progressivo sdoppiamento rimanda direttamente al meccanismo cinematografico. Da lettrice di un vero e proprio canovaccio di
sceneggiatura, la donna diventa a poco a poco attrice, traducendo in immagini gli ordini di Cecilia, che sono parola scritta, vento e musica, e raddoppiando la finzione di Malombra, il film, in questo secondo allestimento, a partire dalla confusione dei ruoli innescata dal perentorio ordine che legge tra le carte di Cecilia: «Ricordati! Tu sei me stessa! Prima di nascere tu sei stata Cecilia Varrega». Tutto il mondo di Malombra, del resto, risulta dominato dai “fantasmi del passato” (antecedente cinematografico compreso), come il ritratto femminile dipinto da Hayez che Corrado trova appeso nella sua camera presso la villa e in cui riconosce la madre (fot. 20). A poco a poco, sarà preso anche lui nel labirinto delle sovrapposizioni e degli scambi di ruolo: si innamora di Cecilia, lettrice del suo romanzo anonimo, ma si scontra, appena giunto presso la villa, con Marina (con cui gioca un’emblematica partita a scacchi, un altro “pezzo” di bravura del film, fot. 21), sperimentando una divisione netta tra l’amore per la prima e l’odio per la seconda. La “sintesi”, dolorosa e dall’esito tragico, avviene durante il loro primo incontro ravvicinato, commentato da una pioggia violenta e un vento sferzante, in cui la chiama Cecilia, trasformandosi automaticamente in Renato, l’uomo che, stando alla “seconda sceneggiatura”, ha il compito di salvarla.
FOT. 20
A modo suo, insomma, il film rappresenta l’ennesima incursione di Soldati nel meta-cinema: una specie di film nel film o, meglio, il remake di un racconto precedente, a cui Marina e Corrado si abbandonano, assumendo altri nomi e piegandosi al plot previsto da Cecilia. Il che, tra le altre cose, invita a rovesciare la consuetudine critica che vuole il dittico da Fogazzaro una specie di costola estranea e nobile della produzione di Soldati, lontana tanto dalla filmografia precedente, a cui si concede normalmente solo un valore di decoro, quanto da quella successiva, quasi imprendibile per varietà di generi e registri. Al contrario, il lavoro sulla parola di Fogazzaro suggerisce al regista non soltanto tecniche di scrittura e messa in scena destinate a durare a lungo (come rivela La provinciale), ma appare intelligentemente assorbito da una poetica già dotata di una forte coerenza tematica e stilistica e che nei film successivi si approfondirà in direzione dell’indagine psicologica del personaggio. E anche sotto il profilo stilistico Malombra possiede un analogo valore esemplare: se da un lato Soldati si adegua al “progetto” rivolgendosi a risorse stilistiche e figurative specifiche e occasionali, a partire da una vocazione “industriale” che concepisce ogni singolo film come una storia a sé (e del resto, con la sola eccezione di Le miserie del signor Travet, Soldati non sceglie ma “è scelto”), dall’altro lato rivela in azione alcune procedure caratteristiche, prima tra tutte la tendenza – questione di mestiere e cultura – alla riscrittura e alla contaminazione di materiali eterogenei, di memorie spettatoriali e di “mode” stilistiche, di stereotipi visivi (non solo cinematografici) e di archetipi narrativi, in una combinazione spesso felice di vecchio e nuovo, di “già visto” e originalità che si rivelerà essenziale nel confuso contesto produttivo ed estetico degli anni Cinquanta.
FOT. 21
Ma al momento della sua uscita Malombra, prodotto dalla Lux e girato per gli esterni sul lago di Como e di Lugano (dove Soldati scrive la sceneggiatura con Bonfantini, Castellani, Margadonna e Richelmy) e per gli interni a Roma, dove il “palazzo” è rifatto sul modello della villa Pliniana di Torno, incontra, com’è noto, la bocciatura unanime della critica militante. Malombra, anzi, è il film di Soldati che più ha sofferto della cortina ideologica che, in quegli anni, soprattutto su «Cinema», filtra la ricezione delle pellicole lontane dalla poetica realista e populista che si sta elaborando su quelle pagine, in cui, non senza ambiguità, si era finito per promuovere film dichiaratamente fascisti come Vecchia guardia (di Alessandro Blasetti, 1935) e stroncare tutto quanto in odore di “formalismo”. La polemica è molto nota e vi abbiamo già accennato altrove; «la cambiale di Piccolo mondo antico, firmata in bianco, in un bianco allucinante, stava per scadere», scrive Pietrangeli su «Bianco e Nero», e il secondo Fogazzaro non sembra un pagamento decoroso: «Malombra è arrivata, è arrivata fredda, annoiata, striminzita, presuntuosetta, untuosa, orpelli di qua e di là, gioielli di culo di bottiglia, dove si specchia un vento di tramontana». Questi e altri giudizi, simili nella sostanza, valgono oggi quasi esclusivamente come frammenti di storia della critica, aiutando poco la comprensione del film. E però, un po’ paradossalmente, contribuiscono a dotare Malombra di un valore ulteriore: nel momento in cui la nascente poetica realista sembra definirsi soprattutto in negativo, indicando con chiarezza quello che non vuole essere, Soldati offre infatti l’anti-testo per eccellenza, a cui oggi sembra utile tornare anche per cogliere la temperie di una stagione irripetibile della cultura cinematografica italiana, in cui il regista torinese passa come un sorvegliato speciale, insofferente ai corporativismi e indipendente tanto rispetto al dibattito realista quanto alla “linea lombarda” di stampo calligrafico. Realizzato tra l’aprile del 1943 e il giugno dell’anno successivo in sostituzione di Le miserie del signor Travet, bocciato in sceneggiatura dal Minculpop, Quartieri alti riprende il filo “pirandellista” delle commedie degli esordi portandolo alle estreme conseguenze: il gioco delle doppie verità, della recita e della (dis)simulazione abbandona infatti lo spazio tutto sommato “legittimo” dell’industria dello spettacolo per incontrare la realtà derelitta di un cicisbeo e della sua “banda” di parassiti (o “magnaccioni”, come li definisce la segretaria di donna Lina, la ricca ereditiera da cui dipendono). E così, privato della magica protezione della finzione cinematografica, il racconto finisce per sfiorare la tragedia nell’epilogo e, più in generale, per sfumare la commedia nel dramma. Non basta ad addolcirlo neppure l’ambientazione da Grand Hotel cosmopolita, con il suo viavai di ospiti senza volto (la prima inquadratura sembra omaggiare il capostipite “alberghiero” di Goulding) e con le sue lussuose stanze trasformate in fondali provvisori di recite perennemente minacciate dall’irruzione della verità e circondate di personaggi che spiano e origliano, sanno e fingono di non sapere, accusano a mezza voce e soffocano i sentimenti sotto le lusinghe del denaro. Giorgio Zanetti vive con la sua famiglia, la fidanzata Barbara e un amico, Roberto, in un grande albergo romano grazie al denaro di una ricca ereditiera di una fabbrica di formaggi, Lina Rigotti, di cui da anni finge di essere innamorato. Finché conosce Isabella: decide allora, nell’impossibilità di presentarle la sua vera famiglia, di allestire una messa in scena con cui conquistarla, scritturando alcuni attori nel ruolo di una madre e un padre ideali in una casa a qualche chilometro dalla capitale. Il piano sembrerebbe semplice ma le cose si complicano quando Barbara, l’unica a sapere dove si trova Giorgio (anche se ne ignora il motivo), gli
telefona pregandolo di tornare subito: Lina ha avuto una crisi di gelosia e vuole “licenziare” tutti per fidanzarsi con un tale Giandomenico. Ma quando Giorgio arriva in albergo, l’ereditiera è già uscita assieme al suo accompagnatore mentre i genitori e gli amici si stanno dirigendo alla villa dove, nel frattempo, è giunta Isabella. Giorgio raggiunge Lina presso un locale e, dopo essersi chiariti, rientrano in albergo, abbandonando Giandomenico. Ma, una volta in camera, hanno un nuovo litigio, concluso da uno sparo. Intanto, presso la villa, la messa in scena crolla e Isabella scopre tutto; quando arrivano i veri genitori di Giorgio, ogni cosa si chiarisce. Manca solo l’uomo, che arriva sconvolto, dicendo che tutto è sistemato, “per sempre”. Congeda tutti e ha un ultimo chiarimento con Isabella, alla quale confessa, in un lungo racconto autobiografico, speranze e desideri. La ragazza ne è dapprima sconvolta ma alla fine decide di restare con lui che, si scopre, è ferito e teme di aver ucciso Lina. Ma la situazione in albergo non è affatto grave: donna Lina è soltanto sconvolta ed è convinta che l’episodio sia stato in realtà una dimostrazione dell’amore da parte di Giorgio. Questi, però, decide infine di partire con Isabella: è tempo ormai di smetterla con le menzogne e tornare a vivere una vita “vera”.
Il “nero” che inquina la commedia, più che dal romanzo omonimo di Ercole Patti e da Le rendezvous de Senlis di Jean Anouilh a cui si ispira il film, sembra arrivare direttamente dal contesto politico che circonda la realizzazione. Quartieri alti viene infatti girato per metà prima del 25 luglio 1943 e per metà dopo il 4 giugno del 1944, con gli americani ormai a Roma. In mezzo, dopo il proclama di Badoglio, la fuga di Soldati dalla capitale (14 settembre) verso l’Italia libera e il periodo napoletano diviso con Gabriele Baldini, Dino De Laurentiis, Leo Longanesi (che in Quartieri alti è aiuto regia), Riccardo Freda e Steno (che del film è invece co-sceneggiatore assieme a Castellani, Patti e, non accreditato, Bonfantini).
FOT. 22
Soldati affiderà il racconto di quei mesi di viaggio, paure e peregrinazioni al diario Fuga in Italia del ’47, che ha una specie di controcampo in Parliamo dell’elefante, pubblicato nello stesso anno dal “ravveduto” fascista Longanesi (e si può anche vedere la rievocazione che ne ha fatto Gabriele Baldini in Notarella quasi filologica su Mario Soldati, «La fiera letteraria», 11 aprile 1948). Ma già Quartieri alti, pur eliminando ogni riferimento diretto alla realtà, chiuso negli interni delle camere d’albergo (fot. 22) e nelle stanze anonime di una casa in campagna (fot. 23) e sprofondato in una notte perenne, appare toccato profondamente dal mutare delle condizioni politiche e dall’epilogo della guerra, rivelando così tutta l’attualità e problematicità di quella poetica del falso e del doppio che, dietro il gioco, raccoglie – questa volta in modo più determinante rispetto a Due milioni per un sorriso e Dora Nelson – le inquietudini ideologiche e sociali del periodo. Lo sparo fuoricampo, introdotto poco dopo la metà del racconto durante un litigio tra Lina e Giorgio, e di cui lo spettatore ignorerà l’esito fino all’epilogo, sembra presentificare l’incertezza storica che in quel momento allontana gli eventi dalla loro conclusione e taglia in due la realizzazione del film.
FOT. 23
Per un “anti-verista” come Soldati, del resto, sono proprio la moltiplicazione strutturale dei regimi finzionali, l’acuirsi delle dissociazioni tra essere e apparire e l’inasprirsi della distanza tra immagine pubblica e desideri privati, i mezzi privilegiati per cogliere e rappresentare l’instabilità che contraddistingue il crollo della dittatura. Fino a toccare l’organizzazione stessa dei materiali, che già all’origine sono molti ed eterogenei: non vi è film, tra quelli di Soldati, meno controllato e più “schizofrenico” di questo Quartieri alti, «che ha più pezze di una giacca di Arlecchino» (G. Fink, “Sopra l’automobile, una carrozza”, in AA. VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, cit.) e, nella fattispecie due fonti letterarie variamente tradite (del romanzo di Patti non resta che il titolo), un referente presentissimo, Pirandello, più citato che omaggiato (in particolare i Sei personaggi in cerca d’autore) e un genere o, meglio, un repertorio di forme e figure con cui dialogare a distanza (quello dei telefoni bianchi). La vicenda, poi, procede a singhiozzo, imbastendo una classica macchinazione soldatiana che resta però bloccata troppo a lungo e in cui l’alternanza, con la sua logica della contemporaneità promossa a unico riferimento cronologico, ritarda l’incrocio dei doppi e la soluzione dei dubbi, producendo nello spettatore un vacillamento analogo a quello dei personaggi in scena, apparentemente bloccati nel presente eterno della finzione. Che, questa volta, duplicata, appare meno un gioco e più un progressivo disvelamento delle miserie che tenta di nascondere. La fuga dell’“attore” principale, Giorgio Zanetti (interpretato da Massimo Serato, già in Piccolo mondo antico e, come allora, ricorda Soldati, scortato dalla Magnani, «sempre lì, sempre a telefonare, sempre a venire»), e la sua trasformazione a dramaturg di una finzione supplementare offerta a Isabella (Adriana Benetti), contribuisce infatti a far emergere la minaccia della realtà: o perché, come nel caso dei parenti abbandonati in una camera d’albergo dove è un continuo vestirsi e truccarsi (fot. 24), la sospensione della finzione rischia di far crollare il castello di menzogne retto dall’omertà di tutti; o perché, come accade nella casa-set presa in affitto da Giorgio (con tanto di “trovarobe” che annota gli oggetti di scena), la finzione, nella sua azione cosmetica nei confronti di un vissuto abietto (e che in questo caso coincide con una recita quotidiana), non fa che illuminarlo dolorosamente nel momento esatto in cui tenta di oscurarlo. Così, per esempio, Roberto, che come tutti vive alle spalle della relazione tra Lina e Giorgio ed è stato descritto da quest’ultimo a Isabella come il suo miglior amico, una volta di fronte alla ragazza, nella casa in cui è stato composto – come il cadavere di un sogno – un immaginario famigliare idilliaco, e cioè fuori dalla recita in cui è impegnato a tempo pieno come compagno di Barbara, confesserà senza troppi giri di parole di odiare l’uomo.
FOT. 24
Film doppiamente in costume, Quartieri alti sembra inoltre sconfessare il sogno collettivo dello spettatore “fascista”, scrostando da un lato la patina del lusso cosmopolita del cinema dei telefoni bianchi – riconducendo il desiderio a una follia dalle tristi conseguenze – e, dall’altro, imbalsamando in un teatrino di poveracci l’immagine della famiglia borghese che Giorgio vorrebbe offrire a Isabella e a cui tanto cinema del ventennio ha cercato di conformare il ritratto dell’Italia. E così, coerentemente, in questa processione di bugie che generano altre bugie e di recite nella recita, anche i riferimenti cinematografici si mescolano e in un certo senso annullano nella convivenza, con
la commedia “bianca” compromessa da oggetti, tagli di luce e situazioni narrative debitori al noir americano. Tutto, del resto, sembra sempre pronto a rovesciarsi nel suo contrario, magari per piccoli cenni, come quando i figuranti riuniti da Giorgio, insospettiti dalla stranezza della situazione, cominciano a imbastire una trama gialla, riconfigurando il senso di ciò che li circonda e arrivando a ipotizzare che le intenzioni dell’uomo potrebbero essere quelle di un assassino. Nel finale, a modo suo, Quartieri alti sembra accogliere, almeno all’apparenza, l’invito neorealista. Perché dopo che la realtà di Giorgio (travestita dal desiderio dei genitori di vivere una vita altoborghese) ha incontrato la recita (in cui si inscena il suo desiderio di normalità) e la catena delle menzogne sembra interrotta per sempre, l’epilogo è incorniciato da un’alba che ancora non si era vista (fot. 25): fuori dai tanti set in cui è costretto a vivere, Giorgio, congedata Barbara, stringe a sé Isabella, a cui ha appena confessato il suo rimpianto per una vita semplice, ordinata, tradizionale. La commedia, nell’epilogo, riafferma insomma i suoi diritti, realizzandosi idealmente nell’abbraccio tra Giorgio e Isabella e nel loro sguardo lanciato verso l’incognita di una strada di campagna illuminata dal sole nascente. Incognito, del resto, è il futuro dei due innamorati, con Isabella che vorrebbe insegnare a Giorgio a essere felice e Giorgio deciso a vivere fino in fondo la realtà, nella convinzione che essa superi di gran lunga ogni “fantasia”. Un’idea che è anche di Soldati, che alla “fantasia” del cinema in costume tornerà fin dall’anno successivo, senza assecondare l’“apertura” (neo)realista del finale di Quartieri alti e anzi affinando e diversamente declinando la sua poetica del travestimento e il suo interesse per la metanarrazione. Perché, come ha più volte affermato, «tutta la realtà è misteriosa. Osservandola bene non si può fare a meno di andare oltre, e scoprire come ogni cosa è sempre più alta, eroica, assurda, inverosimile e nobile di quanto non appariva dall’esterno. Nel profondo la realtà è un groviglio di inverosimiglianze; e chi vuole tentare di rappresentarla non ha altri mezzi che il lirismo, l’assurdo, la fantasia».
FOT. 25
E sono proprio l’assurdo tragicomico o il patetismo melodrammatico spinto agli estremi limiti gli ingredienti principali delle pellicole dell’immediato dopoguerra, che segnano un deciso ritorno all’Ottocento: Le miserie del signor Travet, da una commedia di Bersezio, Eugenia Grandet, da Balzac, e Daniele Cortis, ancora da Fogazzaro, e come Malombra prodotto dalla Lux. Tre passi nell’Ottocento con cui il regista prende implicitamente posizione nei confronti del dibattito critico degli ultimi anni, da quello sul calligrafismo a quello, attualissimo, sul Neorealismo: reagendo al primo con la dimostrazione di una coerenza poetica che non soltanto respinge ogni sospetto di furbizia, ma reclama evidentemente una considerazione maggiore, se non altro come possibile alternativa al Neorealismo; e reagendo ai fautori di quest’ultimo con ciò che di più sgradito e reazionario poteva esservi all’epoca, ossia preferendo il letterario, il romanzesco e l’Ottocento al racconto in presa diretta del reale (nel momento in cui da De Sica e Blasetti si sostiene la necessità di «buoni soggettisti più che di buoni letterati»), il cinema in costume e l’estetica da studio al semidocumentarismo stilistico, all’“orizzontalità” dello sguardo e all’immediatezza della scrittura neorealisti. E se a chi lo accusa di calligrafismo risponderà esplicitamente soltanto nel 1979, in occasione della retrospettiva dedicatagli dal Centro Sperimentale, liquidando la polemica quasi fosse un pettegolezzo e autodefinendosi “neorealista borghese” (come dire: Flaubert c’est moi), le
distanze dal Neorealismo le prende, anche a parole, quasi subito: «L’equivoco del Neorealismo è di voler travasare direttamente la vita nel cinema, credendo con questo di cogliere la verità che sta oltre. I seguaci del Neorealismo, per un malinteso originario, cadono nel roseo, nel bozzettistico, nel convenzionale. Il vero non è nel verismo, è nella verità». Che per Soldati si regge, all’opposto, sull’“autentica trasfigurazione” dei materiali di partenza in un’opera segnata profondamente dall’autore e dal suo stile e negoziati di volta in volta in relazione al singolo “progetto” e alle logiche che lo sovradeterminano in quanto prodotto culturale. Senza per questo rinunciare automaticamente all’“ispirazione collettiva, religiosa” che qualifica il capolavoro (e di cui tanto si parla negli scritti di area neorealista). E nella sua polemica con il movimento del dopoguerra ma, più in generale, contro tutti i verismi e i naturalismi, Soldati finisce così, una volta tanto, per offrire una chiave di lettura non banale della sua predilezione nei confronti del cinema in costume, in cui al gusto e alla cultura personale si intrecciano idiosincrasie autoriali che svelano qualcosa di simile a un’idea del senso profondo dell’arte cinematografica e del suo linguaggio: all’osservazione di Savio, nell’intervista compresa in Cinecittà anni Trenta, che tutti i suoi migliori film sono film in costume, Soldati risponde che «si vede che avevo bisogno di questo allontanamento, perché può darsi che girando delle cose moderne sentivo troppo il peso della realtà, non avevo la forza di trasformarla. Mentre quando scrivo, anche quando scrivo una cosa moderna, io distacco l’aggettivo, non avevo la forza di staccare, coll’inquadratura, la cosa. Può darsi che sia questo. Il costume mi allontanava, mi aiutava ad allontanare questa maledetta realtà inerte che è procurata dalla fotografia, da quei corpi veri, e trattarli invece non come esseri umani, ma come fantasmi, come parole, come segni e non come oggetti. Un drappeggio, un costume, ecco che diventa un po’ un segno. Diventa, diciamo, un simbolo e non la cosa che è». Al di là del parallelo con la scrittura letteraria, la dichiarazione illustra bene l’idea – non priva di ascendenze romantiche e simboliste, più francesi che italiane – che Soldati ha dell’arte in genere, e le resistenze “ontologiche” che il cinema vi oppone. Bolzoni, il critico più feroce e a tratti ingiusto di Soldati, l’aveva già visto, e descritto acutamente, distinguendo tra una tendenza rappresentativa, ispirata al resoconto esauriente e fattuale, e una tendenza investigativa, che si pone “dietro i fatti” e volge lo sguardo verso le zone oscure, non rivelate o originarie del loro accadere, collocando naturalmente Soldati vicino a quest’ultima. La necessità della trasfigurazione si pone insomma come doppia: per afferrare la realtà contro l’inerzia delle cose e dei corpi (il “mito” della distanza), e per raccontarla in forme non date una volta per tutte ma aperte, a incrociare il passato e il presente, l’origine e la realtà oggettuale, lo spirito dei tempi e i vissuti soggettivi. Strategia generale e di dettaglio, che fa compiere a Soldati certe scelte (le “macchinerie” della commedia, l’Ottocento, il confronto serrato con le logiche di genere, ma anche la preminenza dell’intreccio e del “tipico”), e si realizza localmente, quando si realizza, in un potenziamento semantico della “cosa”, per metafora, simbolismo o astrazione, come nell’uso mai semplicemente descrittivo del paesaggio, nell’impronta teatrale della recitazione e del gesto, nella distorsione mimetica del gioco luministico e plastico. Mescolando un po’ di cinema, pittura, teatro e letteratura, per ritrovare il “collettivismo religioso” del cinema – di quello migliore – non nell’attualità del segno, come fanno i neorealisti, ma nel suo potere evocativo e archetipico. O, al contrario, nella sua esattezza materica, oggettuale e decorativa, tra l’uso e il museo. In realtà – ma è scoperta assai recente – tra Quartieri alti e Le miserie del signor Travet si colloca un episodio curioso, di sapore neorealista, di cui Soldati non ha mai parlato nelle tante interviste rilasciate. Si tratta della realizzazione del cortometraggio Chi è Dio?, ritrovato, restaurato e studiato dal Cinit-Cineforum Italiano, che al breve film (11 minuti) ha dedicato un numero monografico della sua rivista, «Ciemme» (n. 144, agosto 2003). Il lavoro, scritto da Soldati assieme a Cesare Zavattini e Diego Fabbri e prodotto dalla Orbis Film, si riteneva perduto e, d’altra parte, non ha giocato a favore l’indifferenza tributatagli dal regista.
Finché, per caso, Maria Carla Cassarini ha ritrovato nella «Revue International du Cinéma» uno stralcio della sceneggiatura e, di lì, una serie di riferimenti anche tra le riviste italiane, tutti databili al 1948. Sulle tracce del negativo si è messo Marco Vanelli, direttore responsabile di «Ciemme», che dopo un anno di ricerche ha identificato una copia infiammabile nei magazzini dell’Istituto Luce; restaurato da Cinecittà Studios, Chi è Dio? è stato presentato per la prima volta nel 2003, ad Assisi, all’interno di un convegno sulla religiosità di Cesare Zavattini. Le ricerche successive hanno contributo inoltre a datare con più esattezza il film che, quando presente nelle filmografie soldatiane (poco più che un titolo), porta la data del 1948; la realizzazione e la prima diffusione, anche se probabilmente limitata, di Chi è Dio? vanno invece anticipate di tre anni, al 1945, quando la Orbis Film, braccio produttivo del Vaticano, decide di varare un progetto, poi abortito, di catechismo cinematografico. E la testimonianza è anche diretta: nel luglio del 1945, ricorda Zavattini nel suo Diario Cinematografico, lui, Soldati e Fabbri si recano dai salesiani, verso Forte Boccea, per studiare la realizzazione di alcuni cortometraggi catechistici su testo di Fratel Leone, un piemontese «asciutto, dalla voce affettuosa». Ma il film, quasi subito, scompare, per essere diffuso soltanto nel 1952, all’interno di un progetto dedicato all’“illustrazione cinematografica della dottrina cristiana” – come si legge nei cartelli che precedono il film – “per la terza elementare”, organizzato a partire dalle undici questioni del catechismo di Pio X per la preparazione ai sacramenti. La Sampaolo Film riprende l’idea della Orbis e la completa con altri sette cortometraggi, facendo di Chi è Dio?, che risponde alla sesta e nona domanda (“Dio ha un corpo come noi?” e “Dio sa tutto?”), il primo capitolo della serie. Ma Soldati, a quel tempo, si divide tra un cappa e spada, un comico e un piratesco, e sembra ormai lontanissimo da quell’esperienza. Come, del resto, sembra esserlo nel 1945, e con lui, e più di lui, il “comunista” Zavattini: entrambi c’entrano poco con dottrina e catechismo, anche se il primo, un po’ per l’educazione ricevuta (di stampo gesuitico) e un po’ per un’esigenza personale spesso sofferta, non ha mai escluso completamente la religione dal proprio orizzonte spirituale, vivendola ed elaborandola letterariamente in forme magari eterodosse ed evocandola al cinema proprio grazie a Fogazzaro. Ma la scelta dei due scrittori accanto a quella, più prevedibile, del cattolico Fabbri, è anche il segno di un’apertura che, nota Mario Vanelli, si traduce poi, nel film, in una serie di «coraggiosi ribaltamenti pastorali», esemplificati dall’assenza di qualsiasi traccia di moralismo rispetto a «una mentalità ecclesiale che sapeva far leva soprattutto sulla minaccia dell’inferno», dall’ambientazione “neorealista”, priva di elementi devozionali, preteschi o misticheggianti, e dal riferimento inatteso, in tempi in cui il dialogo interreligioso era di là da venire, a un proverbio arabo per spiegare “gli occhi della mente” di Dio. Il film rappresenta insomma un unicum nel panorama della produzione didattica di stampo religioso e i suoi caratteri di diversità spiegano in parte il progressivo oblio a cui è andato incontro. E già l’Orbis, comunque, si era cautelata rispetto al risultato commissionando la realizzazione di un pilot gemello, ma dall’impostazione opposta, a Remo Branca e Vincenzo Sorelli; il primo, in un lungo saggio ritrovato dal Cinit e che riporta la sceneggiatura del lavoro, confuta anzi esplicitamente il risultato della collaborazione tra Soldati e Fabbri (senza citare Zavattini). Ma lasciando perdere il piano catechistico, Chi è Dio? sembra aver poco a che fare con Soldati (e invece, in questo caso, moltissimo con Zavattini) anche per le soluzioni classicamente neorealiste della messa in scena, della regia, della recitazione: potrebbe essere, tranquillamente, un episodio di Paisà (1946), e anzi, quanto a “morale religiosa”, supera di gran lunga l’extra ecclesia nulla salus del quinto segmento rosselliniano. Nella campagna assolata di una specie di baraccopoli che sorge ai limiti estremi di una città, un gruppo di bambini aspetta che l’anziano signor Pietro esca di casa per tentare il furto di una bottiglia contenente un veliero. Il più deciso è Ernesto, mentre altri, e in particolare Angiolino, sono assaliti dai dubbi: Dio ci vede. Ernesto riesce a entrare attraverso una grata, mentre sopraggiunge il postino, a cui Angiolino domanda se è vero che Dio vede tutto. Le risposte dell’uomo sono imprecise, e devono attendere il ritorno del signor Pietro
per ottenere una piccola ed efficace lezione di catechismo. L’uomo prosegue oltre, mentre Ernesto esce di casa con la bottiglia. Che però nessuno vuole toccare. Arriva a quel punto la madre di uno dei bambini che, oltre a completare la spiegazione, li lascia con l’immagine positiva di un Dio comprensivo e amico.
Girato in “tempo reale” – una tranche de vie tipicamente zavattiniana – Chi è Dio? rappresenta tra l’altro, curiosamente, il più grande successo di critica di Soldati: piace a tutti, cattolici e non, e da «Cinema» a «Bianco e Nero» a «La Rivista del Cinematografo» si sprecano gli elogi, in buona parte dovuti proprio al suo carattere neorealista. Il film comincia e finisce in un unico spazio assolato e povero ma “onesto” (fot. 26), che ha per protagonisti un gruppo di bambini “non professionisti” accanto a Giacinto Molteni (“lanciato” da Piccolo mondo antico), Laura Gore (che sarà nel Travet) e Lauro Gazzolo (volto cameriniano già nel cast di Due milioni per un sorriso), e che traduce in un lessico popolare e umano la parola di Dio, non ordine o legge ma semplice regola di vita, splendidamente descritta, tra un proverbio arabo e un’analogia con gli oggetti quotidiani, dal signor Pietro/Molteni, quasi un preludio dei vecchi di Miracolo a Milano (fot. 27). E in effetti il film sembra appartenere più a Zavattini – per lo stile – e a Fabbri – per l’impostazione – che non a Soldati, anche se lo firma con il dettaglio di una lettera dall’America. Chi è Dio? resta, in fondo, un episodio senza conseguenze: del neorealismo, accanto a quello che ne fu il principale maître à penser, Soldati assaggia i modi e l’estetica, dimostra di “saperlo fare” e poi torna, senza strappi, al suo Ottocento. Per lui, abituato a «raffreddare l’esuberanza autoriale in una serie di singoli progetti» (Ghezzi), anche il Neorealismo, in fondo, è una “merce”. E forse Chi è Dio? va ricordato soprattutto come la prima parodia (seria) del movimento.
FOT. 26
FOT. 27
Al di là dell’episodio, come anticipato, il dopoguerra di Soldati è quello di altri ex calligrafici, Lattuada in testa, in cui il passato culturale, certe attitudini linguistiche e strutturali e l’amore per la forma non vengono completamente meno, pur rinnovandosi a contatto con lo spirito dei tempi, annettendo nuovi territori al “dicibile” cinematografico e negoziando con estetiche e linguaggi rinnovati. Ed è emblematico che il primo vero film del dopoguerra – che assieme a Roma città aperta (1945) ha il compito di riaprire la stagione produttiva – sia una pellicola bocciata dalla censura di regime, Le miserie del signor Travet, sollecitato da problemi reali come il progressivo impoverimento e la proletarizzazione della piccola borghesia, che il regista denuncia, in chiave politica ed economica, anche sulle pagine dell’«Avanti» (Follia dei “travet”, 25 gennaio 1946) in un articolo contemporaneo all’uscita del film. A cui ben s’addice il titolo di “gobettiano” (Caldiron), per come riporta Soldati alle origini, alla Torino del «Baretti» e alle discussioni attorno al futuro
della borghesia, di cui, sul fronte letterario, avrebbe raccontato benissimo, tra l’altro, in Le due città del ’64. E questa volta il passo indietro cronologico all’Ottocento di Bersezio (uno di quei «vecchi torinesi progressisti» a cui pensa nostalgicamente il protagonista del romanzo dopo il suo trasferimento a Roma) offre un carattere e una vicenda consonanti sia con lo spirito del regista, sia con il suo approccio al racconto del reale: «Voi avete fatto della verità, e non di quello che si chiama realismo», sono le parole con cui Manzoni si rivolge a Bersezio dopo una messa in scena milanese del testo, congratulandosi con l’autore. Il tentativo, efficacemente, viene ripensato e riproposto da Soldati, tanto da fare di Travet un manifesto in piccolo da opporre alla poetica neorealista, a cui pure, idealmente, si allinea per la comune volontà di parlare del “presente” (il regista lo definisce un film sulla libertà), ma vestendo abiti tutti diversi e con toni da commedia, e rimuovendo il dato della guerra, allora culturalmente e visivamente centrale nel cinema dei nuovi e dei vecchi. Torino, 1860. Dopo trentadue anni di servizio, l’impiegato regio Ignazio Travet spera in una promozione, fortemente desiderata anche dalla moglie, Rosa, amante del lusso. Ma l’ennesimo episodio di negligenza involontaria (Carluccio, suo figlio, gli sottrae le carte di lavoro e ne fa delle “ochette di carta”) sembra compromettere il riconoscimento. Nel frattempo giunge un nuovo capodivisione, il commendator Francesco Battilocchio, che prende casa nello stesso palazzo di Travet, facendo l’immediata conoscenza di Rosa e cominciando a corteggiarla. Quando, nel pomeriggio, l’uomo è a prendere il caffè da lei (presente Ignazio), irrompe nell’abitazione Camillo Barbarotti, un giovane nullafacente a caccia di una raccomandazione che, presentatosi la mattina in ufficio, dove ha sentito dire, per scherzo, che Travet sarebbe un impiegato “influente”, decide di marcarlo stretto. Il giorno successivo il commendatore invita al teatro Regio i coniugi Travet: alla notizia Rosa si precipita dal marito allo scopo di ottenere del denaro per comprare un vestito nuovo e per andare dal parrucchiere. Incontra il commendator Battilocchio, che la riceve nel suo ufficio, generando dicerie e illazioni e suscitando l’ira del caposezione. Intanto, a casa Travet, mentre la domestica Brigida trama per favorire la relazione tra la figlia Marianin e Paolino, il figlio del panettiere Giachetta (troppo umile, secondo Ignazio, per imparentarsi alla sua famiglia), si ripresenta Barbarotti e decide, invaghito della cameriera, di aiutarla a sostenere la causa dei due. Così, la sera stessa, mentre i coniugi Travet sono a teatro, trascina Giachetta, Paolino e un notaio al cospetto della povera Marianin, per firmare un improbabile contratto di nozze. Ma i padroni di casa, a causa di un malore di Carluccio, tornano in anticipo e scoprono gli intrusi. Il giorno seguente, in ufficio, una brutta notizia accoglie Battilocchio e Travet: l’invidia dei colleghi e del caposezione per il loro rapporto di conoscenza e le maldicenze su una possibile tresca fra il commendatore e Rosa hanno indotto il ministro a richiamare il primo e a trasferire il secondo in Sicilia. L’impiegato è disperato e si avventa, percuotendolo, sul caposezione, decretando così la propria “destituzione”. Tornato a casa, è accolto dai rimproveri della moglie, che decide di intercedere presso Battilocchio. Ma prima giunge Barbarotti, questa volta in aiuto: sentendosi responsabile del clima di maldicenze che ha procurato il licenziamento, racconta a Rosa dell’eroismo del marito, fattosi licenziare per difendere l’onore suo e della famiglia, e poi trascina Giachetta, già informato dell’accaduto, a casa Travet affinché offra all’ex impiegato un posto da contabile nella sua panetteria. Pre-requisito, il fidanzamento tra i due giovani. Travet accetta e conferma la propria decisione anche davanti a Battilocchio, giunto nel frattempo per comunicare la riabilitazione dell’impiegato, la cacciata del caposezione e l’agognata promozione.
FOT. 28
Il film, tratto dalla commedia Le miserie ’d mönsù Travet (1863) e sceneggiato da Soldati assieme a Aldo De Benedetti, Tullio Pinelli e Carlo Musso, viene girato nell’autunno del 1945, subito dopo la Liberazione, ed esce nel gennaio dell’anno successivo, rivelandosi un grande successo al botteghino e ottenendo critiche perlopiù favorevoli, tanto da essere scelto per rappresentare l’Italia al Festival Internazionale che, nel marzo del ’46, celebra a Milano il cinquantenario del cinema. Lo stesso
Soldati lo ricorda come un’esperienza felice, in cui la riconquista “scenografica” della sua Torino (quando era capitale) e del suo Nord dove non torna da due anni (il film viene interamente girato a Roma, ricostruendo in studio un pezzetto di città) coincide con il recupero della libertà. Interviene personalmente nella progettazione del set e si circonda di attori torinesi, tra cui Carlo Campanini, straordinario protagonista, e Domenico Gambino (Giachetta), il Saetta del cinema muto (fot. 28), con le sole eccezioni di Sordi, che del resto interpreta un romano, e di Gino Cervi, bolognese («ma Bologna è sempre Nord»). Insomma, «un’orgia di Nord, di Piemonte, di Torino» patrocinata Lux, per un film che Soldati ha sempre segnalato come «il primo veramente scelto e voluto da me» (e resterà l’unico), visto che è lui a decidere il soggetto. Girato però pensando al cinema americano, e in particolare a Ford, da cui il regista, proprio allora, resta folgorato per l’uso calcolatissimo della macchina da presa, quasi sempre ferma, e per la “trasparenza” del racconto, caratteristiche che gli faranno amare, trent’anni dopo, Barry Lyndon (Stanley Kubrick, 1975). E l’infatuazione avrà effetti a lungo termine: se nel Travet i movimenti di camera sono pochissimi, tutto il cinema a venire metterà risolutamente da parte certi “svolazzi” degli esordi a favore di una scrittura sobria, in cui la neutralità fordiana si incontra con il gusto per la scena di Soldati, conducendo, nel caso dei film in costume, a una grammatica a tableaux che annulla il fuori campo e spinge verso l’analisi fotografica e plastica della scena. Accompagnato dalle bellissime musiche di Nino Rota, che comincia qui la sua collaborazione con Soldati destinata a continuare per altri otto film (il sodalizio darà vita anche a un’operina buffa, La scuola di guida, rappresentata una sola volta nel ’59 per la regia di Zeffirelli), Le miserie del signor Travet riprende idealmente l’Italia derelitta (ma romana) di Quartieri alti, togliendole la maschera e “incarnando” le tensioni che il precedente sublimava nella finzione. Ricchezza e povertà non si danno più come condizioni opposte e reciprocamente non comunicanti (a segnalare l’esistenza del sogno dentro una gerarchia ordinata), ma come condizioni compresenti, testimoni dell’instabilità economica, sociale e soprattutto morale che contraddistingue la piccola e media borghesia nel dopoguerra, e della discontinuità sempre più evidente tra rispetto dei valori e loro “spendibilità”, tra impegno personale e riconoscimento sociale. Ignazio Travet, progenitore del futuro Policarpo e, mutatis mutandis, di tutti i Fantozzi del cinema italiano, emerge a poco a poco come il residuo di un’Italia (“piccola” nel senso di invisibile e inattuale) che crede nel lavoro, nella famiglia, nel rispetto delle gerarchie e nel decoro (fot. 29), ma che nonostante questo (anzi, proprio per questo) è destinata a perire nel confronto con i carrieristi come Barbarotti (Alberto Sordi), con gli impiegatucci sfaccendati ma ossequiosi (tutti, o quasi, i colleghi) e con il fascino – questione di soldi e cultura – dei commendatori come Gino Cervi (fot. 30), al punto di dover rinunciare alla sua rispettabilità di impiegato regio e mettersi al servizio del fornaio a cui non riesce a pagare il conto pur di assecondare i capricci “modernisti” della seconda moglie e salvare l’onore.
FOT. 29
FOT. 30
Travet è un puro, una marionetta ingenua mossa dagli eventi, un personaggio in bilico, come rivela bene il suo appartamento umile, in cui si aprono angoli di lusso alto-borghese legati alle aspirazioni di Rosa, che in tutto, dall’abito al portamento, si stacca con decisione da lui. Un personaggio fuori dal tempo e dalla storia che, significativamente, è costretto a impegnare l’orologio donatogli dal padre per acquistare abiti e accessori alla moglie. E che non controlla neppure le trame da pochade che lo circondano e infine travolgono, ordite dalla cameriera Brigida, da Barbarotti e dalla figlia Marianin, innamorata del figlio del fornaio, Paolino, e costretta al segreto per le resistenze dei genitori, che trovano poco onorevole il fidanzamento a causa dell’estrazione sociale di Giachetta. E se pure il film indulge un po’ troppo a queste sottotrame farsesche, il ritratto che ne esce, assieme al divertimento, è vivido: il ritratto di un’Italia “in piccolo”, dove si ritrovano insieme, nella stessa inquadratura, servitori, garzoni, impiegati, funzionari, arrampicatori e commendatori (fot. 31), colti nel momento – più attuale che ottocentesco – di una separazione quasi definitiva, in cui, dopo il rimescolamento della guerra, l’ordine sociale sta per essere ridefinito su basi e valori nuovi, magari sotto l’urto degli intrighi passionali e carrieristici di uomini come Barbarotti.
FOT. 31
Il “nuovo ordine” su cui si chiude il film non manca dell’ottimismo che contraddistingue lo “spirito” di pellicole cronologicamente vicine, poco importa se direttamente testimoni degli eventi bellici, prima fra tutte Abbasso la miseria! di Righelli, anch’essa uscita dalla Lux nel 1945, e dove la povertà dei protagonisti trova comunque conforto nell’“umanesimo” senza classi dei sentimenti e nell’abbraccio di una famiglia che si ritrova infine più unita e ricca di prima, grazie all’arrivo inaspettato di un figlio. Ma il prezzo che Travet paga per tenere alto l’onore suo e della moglie, e per rispettare la parola data a Giachetta appena prima dell’offerta del commendatore di essere riassunto, non trova completo risarcimento nel ravvedimento della moglie e nel matrimonio, ormai accettato da tutti, tra Marianin e Paolino. Resta come un’ombra dietro i sorrisi con cui accoglie la rapida, e quasi “dovuta” sequenza dello scioglimento; per l’onore e la famiglia, ha sacrificato il suo impiego, ossia ciò in cui si identifica e grazie al quale si distingue. Escono così di scena il prestigio sociale, i commendatori, i ministeri. E la vita di Travet è destinata a consumarsi tra la casa e il retro del negozio di fronte, dove Giachetta lo vuole come contabile. Già piccolo (anche la fisicità di Campanini risulta perfetta), Travet rimpicciolisce ulteriormente. Resta l’onore, ma sempre più confinato e forse anche un po’ sciocco perché inattuale. Allo spirito di sacrificio, anche se con toni decisamente più mélo, Soldati dedica anche i due film successivi, passando per Eugenia Grandet dalla Lux alla Minerva-Excelsa di Mosco e Potzios,
specializzata in commedie musicali e film letterari. Per la riduzione da Balzac, girata negli stabilimenti Scalera nella primavera del ’46, si porta dietro De Benedetti (che firma anche il Cortis), a cui si aggiunge – non accreditato – Cecchi, già nei credits di Piccolo mondo antico. Di quel film ritrova anche Alida Valli, assieme alla coppia Medin-Sensani, mentre aggiunge il nome dell’ungherese Vaclav Vich all’elenco dei suoi amati operatori. Francia, 1819. Carlo, un giovane parigino, è in viaggio verso la casa di campagna del vecchio zio, il ricco Felix Grandet, uno dei più importanti vinai di Francia. Vi giunge a tarda sera, scoprendo con sorpresa che, a causa della sua avarizia, l’uomo costringe la sua famiglia a vivere miseramente. Durante le presentazioni, il giovane resta subito colpito dalla bellezza della figlia, Eugenia. Il mattino dopo, in occasione del compleanno della ragazza, il padre le regala, come sempre, una moneta d’oro, che va a rimpinguare il suo piccolo tesoro. Mentre Carlo si sveglia e viene calorosamente accolto per colazione dal resto della famiglia, Eugenia e il padre si incamminano per una passeggiata, durante la quale apprendono, per bocca del notaio del paese, che il fratello di Grandet, padre di Carlo, si è suicidato a causa dei debiti accumulati. Il rude zio è già a conoscenza del tragico evento, che il fratello gli ha preannunciato in una lettera sigillata consegnatagli dal nipote il giorno prima. Al ritorno nella tenuta, Grandet comunica la notizia a Carlo, dimostrandosi però preoccupato più per le sue prospettive economiche che per la scomparsa del fratello. Poco dopo, a pranzo, mentre il vecchio si rallegra per un ingente guadagno, Eugenia gli suggerisce di aiutare il nipote, suscitando la sua ira. E così, durante la notte, la ragazza si reca da Carlo e, dopo aver appreso della sua intenzione di partire per l’India, gli consegna le monete d’oro regalatele negli anni dal padre. I due si baciano. Partito Carlo, Felix Grandet viene a conoscenza del gesto della figlia e, infuriato, la chiude per settimane in camera sua, per liberarla solo alla morte della madre. C’è da firmare il testamento: e quando Eugenia accetta di donare al padre, su sua morbosa insistenza, la propria parte di eredità, il vecchio è talmente eccitato da sentirsi male. Dopo un lungo periodo di dolorosa immobilità, anch’egli morirà, lasciando Eugenia unica erede. Qualche anno più tardi Carlo fa ritorno dalle Indie, ma rifiuta il suo amore: vuole sposare una donna aristocratica per pura convenienza. Eugenia accetta la decisione e anzi decide di coprire i debiti del cugino per favorirne il matrimonio.
Il film si apre con una curiosa soluzione grafica, così come Travet si concludeva sulla parola “Fine” dipinta sui vetri di una finestra chiusa dalla servetta in faccia allo spettatore, a cui si era appena rivolta esclamando «A l’é finì, cereja!» (fot. 32): sulle pagine del “Capitolo I”, il più famoso parrucchiere di Tours, Lafleur, verifica la temperatura dell’arricciacapelli, per poi passare a occuparsi dell’acconciatura del suo cliente, «un giovane signore proveniente da Parigi» (fot. 33). Dettaglio secondario, e forse anche un po’ stucchevole, che però, assieme alla breve scenetta comica che si svolge nella bottega e agli esterni geometrizzanti, irreali e vagamente favolistici su cui esce il giovane, che è poi il cugino di Eugenia, Carlo, dà subito il tono generale del film, sicuramente la più asfittica, calligrafica, ricercata e letteraria delle ricostruzioni storiche e romanzesche di Soldati, tutte caratteristiche indirettamente denunciate da quell’iniziale pagina già scritta.
FOT. 32
Dopo l’“apertura” del Travet il regista sembra in effetti inasprire fino alla maniera il “soldatismo” degli anni precedenti, giocando consapevolmente a fare il calligrafico con, in più, un pizzico di decadenza dovuta all’inattualità dell’operazione. Che però, appunto, ha il sapore della scelta ponderata, un po’ spietata e un po’ ironica, costituendo una reazione non soltanto nei confronti del cinema ma, più in generale, dell’atteggiamento dominante nell’immediato dopoguerra, «della moda antitedesca e filo-alleata che trionfava a quel tempo assieme ai soggetti contemporanei portati alla
ribalta dai neorealisti… tutto questo mi disgustava tanto quanto il fascismo qualche anno prima. […] Io non sono diventato fascista ma ero disgustato dall’allineamento all’antifascismo» (JG, pp. 23-24).
FOT. 33
Ecco allora che, per la prima volta nella carriera di Soldati, il film in costume rappresenta una ritirata consapevole rispetto al presente, inattesa, forse, da parte di chi, nonostante e anzi proprio attraverso gli abiti ottocenteschi, aveva dimostrato di poter “fare politica”. Eugenia Grandet sembra compiere un passo indietro e affondare nella letteratura in cerca di qualcosa di bello, di vero e di eterno, contro l’entusiasmo assordante, e di “regime”, dell’antifascismo; e così Soldati dispiega nel film tutta la sua maestria artigianale, ben servito da un cast tecnico di prim’ordine, confezionando un esercizio di stile impeccabile, freddo e smaltato, completamente ritirato sui “sacri” valori della forma, senza timore di ricorrere a «riboboli, arzigogoli e bellurie stilistiche» (Pietrangeli) ai limiti dello stereotipo, come gli ornamenti “a frasca”, le inquadrature attraverso la fiamma del camino e le simmetrie forzate nel rapporto tra personaggi e sfondo (fot. 34 e 35). Posizione – cinematografica, politica e morale – a dir poco impopolare: va cercata qui, nella resistenza cocciuta di Soldati ad adeguarsi nei temi e nello stile alle richieste del cinema antifascista (e non semplicemente neorealista), la radice di quel sospetto, ai limiti del disprezzo, con cui la critica specialistica avrebbe accolto tutti i suoi film successivi, negandogli d’ora in poi attenzione e rispetto (con l’eccezione, anche se parziale, di La provinciale). E il fatto che Soldati fosse un bravo regista, di mestiere e talento, rende tutto un po’ più colpevole.
FOT. 34
La contrarietà ideologica che sembra essere all’origine del film spinge insomma verso una radicale sospensione dei rapporti con la realtà, di cui Soldati, semmai, recupera il racconto in negativo. Scompaiono perfino quei tocchi di sapiente realismo che contraddistinguevano Piccolo mondo antico, messi fuori gioco da una scenografia barocca e decadente, dove perfino la preferenza insistita per i primi e i primissimi piani e la quasi totale ambientazione in interni sembrano voler contraddire con puntiglio due principi fondamentali dello sguardo neorealista. Ma è soprattutto lo straordinario contributo di Vich a scongiurare ogni tentazione realistica, magari irriflessa, a favore di un’immagine che, memore del regista ceco Gustav Machatý, con cui aveva realizzato Seduzione (Erotikon, 1929) e, in Italia, Ballerine (1936), sembra contaminare l’attitudine alla deformazione di Welles con la compostezza di Ford. Ne risultano inquadrature sature di dettagli e personaggi, giocate ora in profondità di campo, ora su delicate variazioni di messa a fuoco, con una preferenza
per le angolazioni dal basso che contribuiscono a comprimere ulteriormente gli spazi, restituendo benissimo il clima soffocante e immobile della casa dell’avido Grandet, e la sproporzione che corre tra l’immensità delle sue proprietà e la miseria a cui condanna se stesso e la sua famiglia (fot. 36 e 37). Con inquadrature che sorprendono sempre, ognuna un piccolo quadro a sé, come in quel primissimo piano del crocefisso che benedice, illuminato fino a sparire, il volto del vecchio morente: una sintesi perfetta di luce, oro e divinità, che chiude un inferno per aprirne un altro.
FOT. 35
Il contrasto luministico di sapore espressionista non resta però un elemento isolato, trovando giustificazione nell’amore combattuto, silenzioso e paziente di Eugenia, il cui viso è spesso tagliato, con dolore quasi fisico, dall’opposizione netta tra zone di luce e d’ombra. Il primo piano e la microfisionomia dell’amata Valli (fot. 38), scrutati con sensibilità e insistenza da cinema muto, si trasformano così, a poco a poco, nei principali veicoli della progressione narrativa, come nella dissolvenza, aperta e chiusa sull’attrice, in cui si inabissano sette anni di vita. Un restringimento e una focalizzazione che promuovono il gioco delle soggettive-oggettive (di cui dà conto, in chiave psicanalitica, un illuminante saggio di Lucilla Albano) a strategia narrativa privilegiata, indicativa della condizione passiva, da spettatrice, di Eugenia: volontariamente all’angolo degli eventi, tutto le scorre davanti, imprimendosi nei suoi occhi e denunciandosi nelle pieghe del suo volto; impedita ad agire o decisa a non intralciare il corso della storia, vi partecipa con lo sguardo, esaltando il potere di un’appropriazione virtuale che confonde le soglie tra realtà, sogno e allucinazione, testimoniando al tempo stesso, grazie a questa percezione a distanza, una specie di “moralità” dipendente dal differimento del contatto. Stare a guardare, infatti, non è senza conseguenze; e non lo è per Soldati, che grazie al cannocchiale puntato su Eugenia rovescia nella scena la psicologia e i sentimenti del personaggio, in un’analisi potente e perfetta che ritroverà soltanto con La provinciale, rimandando al contempo lo spettacolo metacinematografico di uno sguardo perennemente frustrato (ma vittorioso) dal suo contatto impossibile con ciò che desidera e tenta di possedere. La retorica neorealista è dunque tradita e anzi contraddetta: partito dall’“illustrazione” in tempi di censura del reale, Soldati, nel momento in cui gli schermi italiani sono inondati dalla realtà non lavorata, colta nella sua immediatezza fenomenica, decide di aggirarla, sottoponendola come mai in passato alla lente deformante dello sguardo, per estrarne la verità “inattuale” dell’essere umano.
FOT. 36
FOT. 37
FOT. 38
Ma alla sua uscita il film, anche comprensibilmente, non viene capito: Barbaro, su «L’Unità» (29 marzo 1947), lo stronca senza appello per la sua eleganza, «questione di commercio e di moda e non di arte», e non diversamente fa Pietrangeli su «Fotogrammi» (25 settembre 1946). Un film “vecchio”, si scrive, ma è proprio su questo suo “ritardo” consapevolmente anti-modernista che, come s’è detto, vale la pena, oggi, riflettere, anche per comprendere come il formalismo soldatiano dei primi anni Quaranta si era evoluto, modificandosi profondamente tanto nelle premesse ideologiche, che nei risultati estetici, nelle opere del dopoguerra, a contatto con quello che non voleva e non poteva essere. E per scoprire magari, come rivela Eugenia Grandet, che l’inattualità di Soldati è, talvolta, questione di anticipo eccessivo. Al vero e proprio disprezzo con cui la critica italiana, soprattutto quella militante, accoglie Eugenia Grandet, Soldati risponde con un’ennesima trasposizione da Fogazzaro, la terza e ultima. Daniele Cortis è, senza mezzi termini, il film “d’appello”: lo dichiara esplicitamente Puccini su «La fiera letteraria» (10 ottobre 1946), ma il pensiero è comune: «A Venezia, com’è noto in occasione del Festival, con Eugenia Grandet Soldati ha lasciato a bocca amara tutti i critici; ma si può dire che ha soprattutto deluso l’aspettativa di coloro che, come noi, credevano ancora nelle sue possibilità. […] È possibile, per Soldati, una prova d’appello? Vorremmo saperlo: ma è indubitato che, oggi come oggi, dopo la mediocre Grandet, dopo un passo falso di questa portata, il regista di Fogazzaro è entrato ufficialmente in crisi. Intanto, tutti puntano gli occhi sulla sua odierna fatica, la terza riduzione fogazzariana che Soldati sta attualmente girando». Ma Soldati non sembra affatto in crisi. E nonostante gli occhi di tutti puntati su di lui – ma con i giudizi, forse, già pronti – fa il “solito” film. Che con le solite accuse viene bocciato: calligrafico, vecchio, superato. «Questa è una storia di molto tempo fa. La storia è vecchia e semplice. Io amo mio cugino Daniele e sono sposata a un altro uomo…». La voce narrante che apre e punteggia tutto il film è quella di Elena, moglie del barone Carmine di Santa Giulia, senatore, cui è andata in sposa per volere della madre, la contessa Tarquinia. Benché innamorata del cugino Daniele Cortis, che non vede da sei anni e che nel frattempo ha intrapreso la carriera politica (è candidato al Parlamento), ha scelto di sottostare a quella decisione, fonte di infelicità e precarietà economica. Il marito, infatti, ha sperperato al gioco la fortuna di entrambi, e adesso, giunti da Roma presso la famiglia di Elena, a Vicenza, minaccia di confinare la moglie a Cefalù se donna Tarquinia rifiuta di dargli altro denaro. Di questo la mette al corrente l’amato zio Lao, ma il discorso viene interrotto dall’arrivo di un messaggio di Daniele: l’uomo, che ha detto di essere già in viaggio per la Svizzera, ha in realtà ritardato la partenza pur di vedere la cugina. Durante l’incontro, Daniele confida a Elena di doversi recare a Lugano dove vive la madre, ritrovata solo di recente dopo averla creduta morta. Ma il poco tempo che trascorrono insieme è dedicato soprattutto a rivangare l’antico amore. Si lasciano decidendo di non vedersi mai più per non rinnovare a ogni incontro la sofferenza per ciò che non è stato. Ma dalla Svizzera, Daniele scrive a Elena, l’unica con cui può dividere la confusione seguita all’incontro con la madre, sola e senza soldi. Tuttavia, Elena decide di tener fede alla promessa e anticipa la partenza per Roma per non incontrare il cugino. Il suo progetto è di accettare l’esilio siciliano: per questo, mentendo al marito, ha deciso di non chiedere i soldi né alla madre né allo zio. Una volta a Roma, però, Carmine cambia idea: ha infatti vinto molti soldi al gioco, grazie ai quali può pagare l’ipoteca sul palazzo in cui vivono. Elena è comunque determinata a prendere il treno per Reggio Calabria l’indomani mattina; e tanto più adesso, con Daniele neoeletto al Parlamento e in arrivo a Roma. Al termine di una seduta della Camera, l’uomo viene a sapere che il barone ha compiuto un’illegalità, sottraendo soldi al Senato. Per evitare lo scandalo, telegrafa alla contessa Tarquinia di correre a Roma e onorare il pagamento; la donna accetta, ma prima si reca in Sicilia a recuperare la figlia. Quest’ultima, per far fronte allo scandalo e all’imminente arresto del marito, sceglie di restare a Roma. Elena si reca in Parlamento, dove Daniele deve tenere un discorso ma, presa la parola, sviene. Il troppo lavoro gli ha procurato un esaurimento. Nelle settimane di degenza i due cugini hanno modo di parlarsi a lungo. Carmine, nel frattempo, si è trasferito a vivere in una stanzetta ammobiliata, minacciando il suicidio. La donna si reca in visita al marito, che le rinfaccia di aver dedicato tutto il suo tempo ad assistere Daniele. Ma Carmine a poco a poco si addolcisce, e quando accenna alla necessità di fuggire in America, Elena accetta di seguirlo. È confuso; le chiede di attendere una sua lettera. Se non giungerà, sarà libera di ricominciare un’altra vita. Elena torna dunque a Villa Scura, assieme a Daniele convalescente, in attesa della lettera. Che non arriva, mentre da Roma torna zio Lao, con la notizia che la partenza del barone è prevista per l’indomani. La lettera
arriva: Carmine sta per imbarcarsi, ma non più alla disperata ricerca di un nuovo avvenire. Ha infatti ottenuto un ottimo impiego in America. Daniele e Elena hanno un ultimo incontro notturno, in cui si dicono addio.
Primo esempio di moderna co-produzione del dopoguerra, Daniele Cortis, distribuito nel maggio del ’47 dopo una lunga lavorazione iniziata nell’autunno dell’anno prima e conclusa in marzo, con riprese a Roma, nel Veneto (tra Vicenza, Castelfranco, Bassano, come guida l’amico Giovanni Comisso), Velo d’Astico, Lugano e Cefalù, riporta Soldati dalle parti del Vaticano. Il film infatti è prodotto dalla Universalia fondata proprio nel ’47 dal catanese Salvo D’Angelo e che, come il suo precedente diretto, la Orbis di Chi è Dio?, è un’emanazione del “cupolone”, senza che, per questo, ne escano soltanto film edificanti o da oratorio. D’Angelo, al contrario, promuove in quegli anni una politica della “qualità” coinvolgendo, al di là del loro orientamento religioso, alcuni dei maggiori autori italiani dell’epoca (Blasetti, Freda, Visconti), e muovendosi contemporaneamente in tutta Europa alla ricerca di partner produttivi e registi di fama (Bresson, Dreyer, L’Herbier, Carné). La “qualità” è in effetti il dato più appariscente del Cortis, quasi un sequel “stilistico”, più che tematico (anche se di Ottocento sempre si tratta), di Eugenia Grandet, per la presenza in sceneggiatura di De Benedetti (accanto a Comencini, Lazzarini, Richelmy e Bonfantini) e per il rinnovarsi della collaborazione con Vich, Rota e Sensani (per i costumi); ha invece nel cast i suoi punti deboli, almeno stando al regista: Clara Calamai – annunciata inizialmente come interprete di Elena – viene infatti sostituita da Sarah Churchill, «non abbastanza bella», mentre Cortis ha il volto di Vittorio Gassman, «non del tutto adatto al suo ruolo» (JG, p. 24). Sfacciatamente, come già nel precedente, Soldati realizza una specie di film museale e rétro – ma girato, più di altri, in esterni naturali – riconfermando il suo disagio da “antico moderno” nei confronti delle ipocrisie del consenso, già consapevole delle cecità del nuovo. Fugge – come spesso ha fatto, senza però scappare, vivendo, scrivendo e filmando – e trova rifugio nel lessico e nell’immaginazione di pagine più vitali, avanguardiste e moderne dei discorsi e delle azioni che lo circondano, riprendendo trasversalmente l’indagine del “carattere” nazionale iniziata col Travet, e che qui si sposta dagli uffici ministeriali al Parlamento per trovare nel contrasto tra l’idealismo di Cortis e la furfanteria di Carmine un elemento d’attualità. Nello scontro tra l’eroismo in odore di santità del primo, che discetta sulla differenza tra religione e clericalismo e si fa promotore di un “socialismo cattolico”, e la vigliaccheria parassitaria del secondo, si intravede infatti una “drammatizzazione” della politica che sconfina dalla pagina fogazzariana e che, senza colpire nessuno in particolare, ricade però, anche se la detonazione è silenziosa, sul presente, non diversamente da come Piccolo mondo antico seminava tra le righe (certo, erano altri tempi) stralci di contestazione. Ma nessuno sembra disposto a vedere oltre e a sfogliare i sottotesti, anche politici, o semplicemente morali, del Cortis, nel momento in cui ci si sta riappropriando della facoltà di dire e anzi gridare; ma anche prima e dopo, e un po’ paradossalmente, di Soldati si è visto spesso, o forse sempre e soltanto il cinema, fermi di fronte alla superficie scintillante e resistente di un’immagine levigata e smaltata. Così il destino del Cortis, che del romanzo tenta soprattutto di tradurre i contenuti “spirituali”, offrendo il ritratto di personalità certo ideali ma condotte sempre alla prova dei fatti, tra politica, affetti e denari, è quello di venire frettolosamente rubricato come tardo calligrafismo, senza nulla concedere neppure al piacere puramente visivo a cui conduce, ancora una volta, l’incontro tra il gusto soldatiano e i caratteri e gli scenari fogazzariani, mediato in questo caso dalla ricerca fotografica di Vich. E del resto, da parte sua, Soldati non fa davvero nulla per piacere alla critica e facilitare il dialogo, iniziando il film con un frammento romanticheggiante che deve aver suscitato un immediato rifiuto: una porta a vetri scossa dal vento e poi spalancata sul pronome (“me”) pronunciato dalla voce fuori campo di Elena (strategia narrativa usata qui per la prima volta); e poi, poco dopo, nel dialogo tra la donna e il marito, si ripete l’uso metaforico, da “correlato oggettivo”, delle condizioni atmosferiche e degli oggetti, con le finestre aperte e chiuse nell’attesa di Daniele, a sostanziare l’inquietudine
affettiva del personaggio, destinata a tradursi in una fuga sacrificale tra Vicenza, Roma e Cefalù. Porte e finestre e scale – immagini della soglia e del passaggio – assumono nel film connotazioni spesso antropomorfe, incarnando il sentimentalismo e scandendo il pellegrinaggio di Elena, donna “da ritratto” costretta a uscire dalla cornice per abitare case e stanze in cui è sempre a disagio, accanto all’uomo sbagliato o nel momento sbagliato, con gli occhi in fuga o in attesa (fot. 39 e 40). Elena, come Eugenia, è per lo più una spettatrice, una presenza muta che esiste in rapporto alle cose grazie allo sguardo e focalizza il racconto a partire dalla sua prospettiva affettiva, prima che cognitiva; ma, stilisticamente, ne è anche lo sviluppo: nella sua ricerca in controtendenza di un cinema psicologico, soggettivo e al singolare, Soldati allarga la portata della messa a fuoco di Eugenia Grandet, materializzandola nell’uso del flashback (di cui si servirà di nuovo, in chiave modernista, per La provinciale).
FOT. 39
FOT. 40
Daniele Cortis, come rivela l’incipit, è infatti un film rivissuto: tutto è già stato e viene adesso ripreso da un punto lontano nel tempo (sono passati “molti anni”) e nello spazio (Elena ha lasciato l’Italia per l’America assieme a Carmine). Allo sguardo della donna, che rivede, si aggiunge così la sua voce, che riconsidera: l’incontro tra i due si celebra, non senza dolore, nella prima sequenza, quando le parole di questa narratrice onnisciente ritrovano il corpo del passato, su cui già incombe la pena del melodramma. Le soggettive che punteggiano tutto il film fino all’epilogo, in cui Elena significativamente si copre il volto con un velo dopo aver detto addio, per sempre, a Daniele, posseggono dunque, questa volta, una specie di doppio oggettivo, esemplificato dalla voce che ha già visto e vissuto, e ritorna adesso a quell’esperienza contaminandola col senno di poi e rimontandola in una sequenza onirica e evanescente, in cui l’esattezza topografica e cronologica perde progressivamente d’importanza di fronte a una selezione molto personale degli eventi.
FOT. 41
Niente, del resto, in Daniele Cortis come già in Eugenia Grandet, esiste al di fuori della relazione che lega il personaggio a ciò che lo circonda: tutto assume senso e valore soltanto a partire dal suo punto di vista, dal valere e dal significare degli eventi in rapporto a lui. Di qui, la giustificazione profonda, e cinematografica, del gioco del rimando oggettuale, della deformazione plastica e figurativa e del simbolismo, che non funzionano più da “cassa di risonanza” di ascendenza romantica, come nei più distaccati e illustrativi Piccolo mondo antico e Malombra, ma si impongono come proiezioni del soggetto in posizione di narratore: di Eugenia, che non tocca e non vive ma guarda e, a distanza, si impossessa del mondo, contaminando realtà, sogni e desideri; di Elena, che ha già visto e adesso rivede, riconfigurando la rappresentazione dei fatti a partire dai loro effetti e dalla “febbre” che hanno prodotto in lei. Un sottile delirio che giustifica il variare repentino e quasi surreale delle condizioni climatiche anche all’interno della stessa scena, come durante il primo dialogo tra i cugini, letteralmente incorniciato dalla natura con una cura ornamentale che sfiora l’effetto tableaux (fot. 41), o come nel caso dell’incontro tra Daniele e la madre creduta morta, in cui il viraggio lugubre ed espressionista degli interni e la deformazione prospettiva del “tutto a fuoco”, con lo scontro dimensionale tra elementi in primo piano e sfondo, denuncia, prima della sua rivelazione, la natura finzionale dell’episodio (fot. 42). E così i temi del doppio, della divaricazione tra sentimenti contrastanti, dello spaesamento affettivo e dell’incertezza identitaria cari a Soldati si amplificano questa volta fino a “infettare” i materiali stessi del racconto (in cui il regista fa una brevissima incursione nei panni di Silverio), oltre a rappresentare il contenuto del film, grazie al melodramma perfetto della protagonista, in cui l’amore «è un amore senza fine che ha il suo premio in sé» e la felicità è sempre “disperata”.
FOT. 42
E se il film, prevedibilmente, viene accusato all’epoca di essere artificioso e formalista (leggi immorale), rivisto oggi sorprende non soltanto per la sua sottile intelligenza cinematografica ma anche per la sua sensualità e per la fisicità quasi tattile dell’immagine, più europea (Ophüls, Renoir, Carné…) che italiana, come rivela la sequenza dei fuochi d’artificio, da annoverare tra le più belle pagine del nostro cinema: lasciati sullo sfondo della stanza in cui Elena discorre con lo zio come la promessa di un altrove fiammeggiante, i fuochi ambientano tutto il successivo racconto in esterni e sono minacciosamente prolungati dalla fiamma con cui un servitore accompagna la partenza della carrozza (fot. 43), proiettando sui volti di Elena e Carmine una luce spettrale. Il mancato incontro, montato in alternanza, tra la donna che fugge e Daniele che, a bordo di un calesse, si reca a Villa Scura, trova perfetta traduzione nella consistenza fuggevole e incerta di questa scenografia di luci e ombre e nebbia e canti lontani, che polverizza i corpi per farli diventare, a loro volta, fuggevoli impressioni luminose. Così il volto di Elena, sottratto allo schiaffo del marito, a cui ha confessato di non aver chiesto il denaro ai parenti per arrendersi all’esilio siciliano (nell’“isola del fuoco”, Cefalù), ripensando le sue scelte svanisce nel riflesso di un vetro, mentre dalla notte, in una sorta di campo/controcampo fantasmatico, emerge all’improvviso il primo piano duro, deluso di Daniele, illuminato dal treno in corsa su cui viaggia la coppia. Una sequenza straordinaria (assieme all’ultima, un addio toccante e misurato), che non soltanto rivela tutta l’intelligenza del lavoro di (ri)scrittura di Soldati e la coerenza stilistica delle scelte operate nel film, ma contiene in sé, come
già molti passi di Eugenia Grandet, un annuncio del cinema a venire (Visconti in testa) e la prima elaborazione di quell’insistenza sull’analisi dello sguardo e del rapporto tra spettacolo e spettatore che sarà cruciale nel quadro della modernità cinematografica.
FOT. 43
Terzo tempo. Donne, briganti e ladri. E un intermezzo comico (1949-1951) I conti con il clima del dopoguerra, almeno in modo più diretto, Soldati li fa soltanto con Fuga in Francia, realizzato a metà del ’48 nella zona di Bardonecchia e distribuito nel febbraio dell’anno successivo. Produce la Lux, e a scriverlo si mettono in sei: oltre a Soldati, Flaiano e Musso e, accreditati come collaboratori alla sceneggiatura, gli amici Bonfantini e Cecchi, più una piccola partecipazione di Cesare Pavese. All’origine di tutto, una volta tanto, non c’è un libro ma un fatto di cronaca scovato da Ponti su un giornale e filtrato dalla memoria viva di chi, come Soldati, ha dovuto fuggire in tempo di guerra; esperienza che si mescola adesso, concluso il conflitto, alla cronaca di nuovi fuggiaschi costretti dalla povertà a espatriare oppure a diventare fuorilegge o contrabbandieri, passando in molti casi, senza soluzione di continuità, dalla resistenza partigiana al banditismo. Soldati, a modo suo, affronterà l’argomento, al centro di molti film postbellici, in Donne e briganti e Le avventure di Mandrin (1952), retrodatando l’azione ma non per questo narcotizzando i riferimenti al presente, e prolungandone idealmente l’analisi fino al Gino di La donna del fiume. E spesso, lungo gli stessi sentieri battuti dai partigiani in cerca di fortuna, fuggono gli ex gerarchi fascisti come “sua eccellenza” Riccardo Torre, interpretato dal vilain Folco Lulli, ingentilito nella sua spietatezza dalla presenza del figlio, il piccolo Fabrizio: la coppia ripropone la classica figura neorealista del “padre con bambino”, che però qui cambia radicalmente di segno, dentro un progetto in cui il repertorio tematico e stilistico del cinema del dopoguerra appare consapevolmente usato, piegato, tradito. Riccardo Torre, gerarca fascista e criminale di guerra, con la conclusione del conflitto si vede costretto a lasciare l’Italia. Chiede aiuto a un vecchio amico, prete presso il collegio in cui studia il figlio, Fabrizio, che si unisce inatteso al padre sulla corriera per Oulx. Giunti in paese a tarda sera, prendono alloggio presso una locanda dove riconoscono Pierina, ex cameriera del gerarca. Per paura di essere denunciato, Torre la uccide, dopo aver atteso tutta la notte fuori dalla stanza della ragazza, che ha dormito con Gino, conosciuto la sera stessa assieme ai suoi amici, il reduce Tembien e il Tunisino. È con questi che Torre riprende il suo viaggio l’indomani ma, presso un rifugio in cui il gruppo ha cercato riparo da una tormenta, viene riconosciuto grazie a un ritaglio di giornale. Torre è fatto prigioniero sotto gli occhi di Fabrizio, ma riesce a farsi liberare dal Tunisino, con cui fugge, lasciando il figlio. Inseguiti, vengono avvistati poco dopo presso una diga e durante la sparatoria che ne segue Torre, involontariamente, ferisce il piccolo. Ma, ancora una volta, riesce a scappare. In paese, mentre fa il pieno alla macchina, vede sopraggiungere un’ambulanza: avvicinatosi, vi trova il figlio, che finge di non conoscerlo, favorendone l’arresto. Con Fabrizio, verso l’ospedale, viaggia Tembien, deciso ad adottarlo.
Senza alcun rapporto con il racconto omonimo dello stesso Soldati e invece sotterraneamente imparentato a Fuga in Italia, il film, spesso descritto come una momentanea conversione del regista al Neorealismo, non rappresenta affatto un episodio isolato né, tanto meno, un atto dovuto a chi, dopo Daniele Cortis, sembra non poterne più del Soldati calligrafico, e soprattutto adesso, quando c’è l’Italia postbellica da raccontare e un nuovo linguaggio per farlo. Più che un’“opera neorealista”,
Fuga in Francia, ricordando la distinzione proposta da Farassino, è parte di quei “film del Neorealismo” «che, pur sostanzialmente estranei al suo mondo, ne sono stati toccati e variamente contaminati, dimostrando l’ampiezza e la forza della sua influenza sul cinema italiano del dopoguerra» ma, anche, la sua precoce volgarizzazione e industrializzazione, a cui proprio la Lux, a sospetta distanza dal fenomeno, contribuisce. E Aristarco non aveva tardato a segnalarlo, eleggendo Fuga in Francia a esempio degli equivoci del Neorealismo: «Il regista ha confuso, in buona o in cattiva fede, l’esigenza interna con la “formula” e “la etichetta”, una verità emotiva e artistica con una verità che si basa sull’autenticità dei luoghi e su una vicenda “ispirata” ai fatti accaduti» («Cinema», febbraio 1949). Così, se da un lato il film possiede un carattere apparentemente “corale” e cronachistico, e intercetta un gran numero di temi legati al clima postbellico, dall’insistenza sull’assenza di lavoro in Italia alle segrete speranze dei fascisti in rotta di riconquistare il potere («Un giorno, molto meno lontano di quello che pensi, ritornerò», dice Torre), dal mancato risarcimento ai reduci di guerra, a cui tutto è stato tolto e niente ridato, al più delicato problema della coscienza di chi, nel nome della politica e del contesto bellico, ha dovuto uccidere, dall’altro lato fa dell’attualità un semplice punto di partenza e assume lo “spontaneismo” del lessico neorealista già in forma di genere e retorica. Soldati dimostra in tal modo, ancora una volta, di non credere nella possibilità di scambiare la testimonianza, per quanto oggettiva, in fatto indiscutibilmente vero, denunciando al contempo tutto il suo scetticismo di fronte all’ipotesi di una realtà capace di “raccontarsi da sé”. E poi sembra molto consapevole del fatto che i film sul popolo, e particolarmente quelli neorealisti, con la loro vocazione all’immediatezza, si rivelano spesso incapaci di trasformarsi in film per il popolo: questione non di contenuti ma di strategie comunicative, lessico e “confezione”. Soldati, che viene da una scuola e da un’idea di cinema decisamente sbilanciate verso la seconda tipologia di pellicole e che in questo momento sente anche il bisogno di negare una matrice comune (filmando in controtendenza le fughe dall’Italia, anziché le liberazioni, le risalite e i ritorni), fa il neorealista “di riporto”: non racconta la realtà con sguardo realista ma si appropria dei suoi contenuti e li traduce, tradendoli quel tanto che basta per parlare “al cuore”. E se per un po’ la smette con l’Ottocento serio e romanzesco, è proprio per una questione di comprensibilità reciproca. Così, ricorrendo a modelli cinematografici ben definiti, dal gangster movie al realismo francese di Duvivier e Carné fino alla lezione di Ford e di Welles (come nella sequenza dell’uccisione di Pierina, che sembra uscita da Lo straniero, 1946, vicino a Fuga in Francia anche nel tema, fot. 44), Soldati sublima il dato reale dentro una narrazione “forte”, compiendo sul paesaggio innevato che fa da sfondo a buona parte del film quella stessa operazione, a metà tra aggettivazione letteraria e ritocco pittorico, che nelle riduzioni romanzesche trasforma puntualmente il reale in sfondo, cornice e “angolo”. E lungo questa strada Fuga in Francia perde in fretta i suoi caratteri testimoniali e documentari per trasformarsi nell’ennesima incursione soldatiana nei labirinti dell’individuo contemporaneo, sempre un po’ separato, in viaggio (fuga o pellegrinaggio), costretto a cambiare abiti, nomi e modi, a rimpiangere il passato e a temere per il futuro, e a consumare la vita nell’incertezza del presente.
FOT. 44
«La vita è un bluff» e «Il bello dei viaggi è che ogni tanto ci si perde», si dice nel film, e sembra il motto di tanto cinema di Soldati: ma questa volta, a contatto con un nuovo contesto storico, politico e culturale, il regista aggiorna la sua poetica dello sconfinamento identitario e dell’indeterminatezza soggettiva chiudendo su uno scambio di persona che se da un lato ricorda i tanti giochi di travestimento, duplicazione e sdoppiamento che attraversano la sua filmografia, dall’altro manifesta molto bene la coerenza del suo percorso e l’elasticità della sua poetica. Disteso e ferito su una barella, il piccolo Fabrizio disconosce il padre, artefice involontario del suo ferimento, e stringe la mano del reduce antifascista Tembien, interpretato da Pietro Germi (che si ricorderà del film per il suo Il cammino della speranza, 1950), di cui diventa simbolicamente figlio, prendendo il posto del bambino dell’uomo, morto a causa della guerra, e che ha lo stesso nome e la stessa età di Fabrizio, quasi fosse un suo sosia (fot. 45). Irreale e teatrale, l’happy end prende nettamente le distanze dai finali tragici e aperti dei monumenti neorealisti, in cui i bambini devono fare i conti con dei padri imperfetti (Ladri di biciclette, 1948), con la solitudine di un abbandono epocale (Sciuscià, 1946) o con l’impossibilità storica di continuare a vivere (Germania, anno zero, 1947). Così come il viaggio, segnato da una serie di soste in cui si misura la progressiva distanza dall’Italia (per cui il repertorio canoro del Tunisino passa dalle canzoni francesi, in Italia, a quelle napoletane in prossimità del confine), non ha nulla a che vedere con i percorsi vuoti e senza orientamento dei “regazzini” neorealisti ma si trasforma in una “picaresca” via crucis in cui, a poco a poco, i travestimenti cadono, le identità si svelano e la verità si impone. E significativamente il regista fa una brevissima comparsata, quasi tutta di spalle, nel ruolo di un commissario di polizia. Lontano dall’Italia e dai suoi neorealismi.
FOT. 45
Soldati realizza insomma, ancora una volta, un film in “costume”, travestendo il suo Ottocento con abiti moderni e alla moda: sguardo, spirito e ideologia sono d’altri tempi e d’altro cinema, e l’epilogo, con il suo patetismo acceso, sembra uscire direttamente da qualche romanziere minore dell’altro secolo. E quando “sembra vero”, Fuga in Francia lo è per una precisione di dettaglio, ambientale e psicologica, che sa di letteratura e di “bella scrittura”: al lavoro c’è la lente deformante e fotogenica del cinema, contro l’allargamento di campo e la vocazione testimoniale del Neorealismo. Il contributo, alla fine, non è piccolo: se Soldati scontenta – ma ne aveva tutta l’intenzione – i puristi dell’epoca, rivisto oggi Fuga in Francia, oltre ad anticipare il “Neorealismo da esportazione” delle co-produzioni degli anni Cinquanta (La mano dello straniero, 1954, e La donna del fiume), emerge come un bell’esempio dell’“impurità” a cui il Neorealismo va subito incontro, soprattutto nelle mani degli artigiani della regia, che non ne fanno una bandiera autoriale ma una risorsa “industriale” con cui aggiornare le loro poetiche internazionaliste che, come nel caso di Soldati, hanno già fatto i conti con il realismo. Se la canzone napoletana ritma la nostalgia dei protagonisti di Fuga in Francia nel loro progressivo allontanamento dal confine italiano, sui titoli di testa di Quel bandito sono io contribuisce invece a introdurre la città in cui si svolge il film, ancora una volta realizzato dalla Lux e sceneggiato da Steno e Monicelli a partire dalla commedia omonima di Peppino De Filippo (per il fratello Eduardo Soldati veste nello stesso anno i panni di attore in Napoli milionaria, e collaborerà, nel ’54, alla sceneggiatura di Questi fantasmi). In realtà, la Napoli di Quel bandito sono io ha ben pochi rapporti con l’immaginario partenopeo, e quasi non si vede, tanto che, subito dopo, allargato il campo, la macchina da presa svela, accanto al menestrello, un gruppo di gangster dalla faccia straniera, intenti ad analizzare alcuni biglietti da mille falsi (fot. 46). Basterebbe la prima sequenza a svelare l’anima divisa di questo curioso film, girato in Italia con attori inglesi (co-produce la Orlux di Londra), per metà commedia (un po’ cameriniana e un po’ hawksiana) e per metà gangster film, più francese che americano. Nelle ambientazioni, per il ruolo dei milioni (ancora due, ma questa volta per la vita) e soprattutto per il gioco spinto del doppio – rappresentato, come in Dora Nelson, da due sosia – il film ricorda il Soldati degli esordi, mentre anticipa le commedie ai limiti della parodia degli anni Cinquanta, È l’amor che mi rovina e O.K. Nerone in particolare, per il riutilizzo ironico di forme e figure di provenienza cinematografica nel pastiche prodotto dalla mescolanza tra fraseggio comico e stilemi noir. Un mezzo omaggio al cinema americano che, proprio allora, si accorge di Soldati: nel ’48 Selznick gli propone un contratto settennale con cui il regista dovrebbe trasferirsi a Hollywood e, mentre si trova a Torino per la post-produzione di Fuga in Francia, gli arriva anche la prima sceneggiatura, If This Be My Harvest. Ne sono protagonisti Robert Mitchum e l’amata Valli, che in America c’era già (Il caso Paradine, 1947); ma Soldati, alla fine, resta in Italia a causa del rifiuto del consolato americano di concedere il visto alla sua compagna Jucci (Giuliana Kellermann), che ha conosciuto nel ’41 e che gli resterà accanto per il resto della vita, dandogli tre figli. Egli, infatti, non si è ancora separato dalla “sposa americana”, Marion Rieckelman, sua allieva alla Columbia.
FOT. 46
Leo, un gangster a capo di una banda di falsari, recatosi presso una banca italiana per spacciare un biglietto falso, scopre che uno dei cassieri, Antonio Pellegrini, sposato a un’inglese, Dorothy e padre del piccolo Ciocio, gli somiglia in modo impressionante. I suoi seguaci gli suggeriscono di rapirlo e di sostituirsi a lui, ma Leo vorrebbe evitare un gesto tanto azzardato. I complici decidono allora di scavalcare il capo, inviando a Antonio una lettera firmata “Faccia d’Angelo”, rivale e nemico di Leo, in cui lo minacciano di uccidere lui e tutta la sua famiglia se non si presenta all’appuntamento stabilito. Ma Antonio, consigliato dall’eccentrico avvocato Catoni, corteggiatore di Dorothy, riesce a mettersi in salvo assieme ai suoi cari, a cui si sono aggiunti nel frattempo i suoceri inglesi in visita. Intanto Leo si è convinto a sostituirsi al bancario e, approfittando della somiglianza, si reca nottetempo presso la banca, svuotando la cassaforte e ferendo il custode. Si susseguono numerosi episodi dai risvolti comici, dovuti allo scambio di persona (Catoni si finge marito di Dorothy per proteggerla) e alla liberazione del vero Faccia d’Angelo. La resa dei conti, presente tutta la famiglia, i due sosia e la polizia, porta al commissariato l’innocente. Ma poco dopo Leo viene riconosciuto e catturato, e il bancario può tornare a casa. Anche se resta un’ombra di dubbio su chi sia stato effettivamente liberato…
La ricetta co-produttiva si riflette anche nella trama, sia nell’interscambiabilità del gangster americano con il cassiere napoletano (di una banca anglo-italiana), sia nel matrimonio di quest’ultimo con una ragazza londinese, Dorothy (Jean Kent), che sembra uscita da un film di Hitchcock (ma viene da pensare a La congiura degli innocenti, 1955, piuttosto che alla produzione thriller). Sostituzioni e unioni che facilitano il travaso di un genere nell’altro, con i gangster più simili a “soliti ignoti” all’italiana, non del tutto a loro agio dentro situazioni, dialoghi e scenari “inappropriati” e, al tempo stesso, costretti a confrontarsi con l’immaginario a cui appartengono, consumato avidamente dal piccolo Ciocio, che legge Nick Carter e prova a metterne in pratica le astuzie, e coltivato idealisticamente da Dorothy che, delusa dal marito, «passionale come la grammatica latina» anziché «impetuoso e dal sangue caldo» come credeva fossero i «latini», desidera una vita spericolata, ricca, avventurosa, magari al fianco di un bandito. Ed è proprio la passione della donna a generare la commedia degli equivoci, chiusa dalla richiesta di essere lasciata nell’“incertezza”: Dorothy traduce il “nero” in “rosa” e reagisce ai fatti ispirandosi alle trame e ai comportamenti del cinema e della letteratura gialla, e dunque tracciando un percorso contrario, dalla commedia al noir o, se si vuole, da Napoli a Chicago, come chiosa Catoni, lo strampalato avvocatogagà a cui la donna chiede consiglio, altrettanto affascinato dall’americanismo d’importazione e dalla “situation”. A complicare tutto Stellina, l’ex di Leo, vamp pentita e anima mélo, che parla di ritirarsi in convento e decide di riscattarsi nel ruolo di servetta. In questo gioco di scambi e rimandi tra vita e immaginario cinematografico e letterario, tra realtà da commedia e desiderio o minaccia gangster, Quel bandito sono io (che per il mercato internazionale diventa Her Favourite Husband) inanella una serie di riuscitissime parentesi comiche, magari ispirate al conflitto culturale su cui si regge il film, come quando, per sfuggire agli scagnozzi di Leo, la famiglia di Antonio esce di casa indossando i costumi di scena (tra Beati Paoli e Ku Klux Klan) dei Fratelli della Misericordia del Trovatore del “nostro amato” Verdi (fot. 47). A partire da qui, e per l’ennesima volta nella filmografia soldatiana, il travestimento e l’inversione dei ruoli assurgono a regola, trasformandosi in vera e propria messa in scena, come nella sequenza della festa nella casa sorrentina dell’avvocato, con Antonio nei panni del servitore e Catoni marito di Dorothy (fot. 48). Il contesto, d’altra parte, è una specie di carnevale dove, tra gli ospiti, si aggira un gangster rivale di
Leo, che dice di venire da Hollywood e di avere in mente una serie di co-produzioni italoamericane. E carnevalesco, a modo suo, è tutto il film, che sotto l’insegna del comico contamina universi cinematografici destinati in questi anni a incrociarsi in modo meno schizofrenico, e magari proprio a partire dall’influsso del cinema di genere d’oltreoceano, sotto l’insegna del noir, come nell’opera di Giuseppe De Santis. Ma qui Soldati, che il cinema “all’americana” l’ha frequentato soprattutto agli esordi, si diverte a verificare la ricaduta dei riferimenti culturali e di un certo immaginario d’oltreoceano nelle vite di personaggi “all’italiana”, incarnando nei due sosia i prototipi “eroici” della commedia (Antonio, un impiegato piccolo borghese vittima della moglie e dei suoceri) e del film gangster (Leo, spietato, affascinante, crudele), e chiudendo non sulla conciliazione e l’integrazione ma sull’incertezza. Accanto a Dorothy c’è adesso un uomo – un terzo uomo – che è un po’ Antonio e un po’ Leo, un po’ italiano e un po’ americano, un po’ vecchio e un po’ nuovo. Un po’ commedia e un po’ noir, proprio come il film, che soprattutto dal punto di vista scenografico e fotografico (alle luci e agli effetti speciali legati allo “sdoppiamento” di Robert Beatty c’è Mario Bava) preferisce giocare sul contrasto, alternando sequenze comiche ad altre perfettamente “nere”.
FOT. 47
FOT. 48
Soldati intercetta così uno dei più vistosi fenomeni del secondo dopoguerra italiano, in parte figlio dei tempi e in parte dovuto al riaprirsi del dialogo culturale con gli Usa dopo l’embargo degli anni di guerra. Ma anziché impegnarsi nella rielaborazione “seria” di generi e modelli stranieri (lo farà, ma più tardi, con il dittico salgariano e soprattutto con La mano dello straniero), si rivolge al comico, genere tritatutto e tendenzialmente “meta”, per mettere in scena i meccanismi stessi del rinnovarsi dei modelli culturali e l’emergenza di una realtà nuova fatta di intrecci e sovrapposizioni, travestitismo e camuffamenti, conflitti e omologazioni. Tenendosi al di qua della parodia, più vicino alle “riduzioni” di film, generi e immaginari che Totò sta elaborando in questi anni (Fifa e Arena, 1948), spesso accanto a Mattoli, che però, a differenza di Soldati, sembra volersi scontrare «con la cultura e con il cinema americano, contro quella sorta di piano Marshall che annienta il cinema nazionale medio» (Della Casa). E giustamente il regista coglie il processo a metà strada tra Napoli e Chicago, così come nel successivo Botta e risposta – uno dei principali esempi di film-rivista, “formato” assai in voga all’epoca – raduna una straordinaria varietà di artisti, offrendo uno spaccato significativo dell’industria dello spettacolo del tempo, dei suoi miti e dei suoi generi. Pasquale, commesso di una sartoria di Parigi, deve recarsi a Roma per portare all’attrice Suzy Delair un nuovo abito per il suo spettacolo. Ma nel vagone ristorante l’abito viene rubato da Cleo, un’affascinante ladra.
Giunto a Roma, ottiene l’aiuto del Mago di Napoli e di Silvio Gigli, alloggiati nel suo stesso albergo, per recuperare la toilette. Al Mago decide nel frattempo di rivolgersi la stessa Cleo, intenzionata a curare la sua cleptomania. E tra uno spettacolo e l’altro, Pasquale coinvolge nella ricerca anche la polizia, che irrompe nella stanza della ladra non trovandovi però la refurtiva. Ravveduta, Cleo ha infatti rimesso l’abito nella scatola e così Pasquale può consegnarlo alla sua legittima proprietaria. Nell’intrigo finisce coinvolto anche Filippo, un imbianchino vittima di un furto che viaggia sullo stesso treno di Pasquale e che ha l’incarico di tinteggiare la stanza del Mago. È lui che Cleo trova, scambiandolo per il vero prestigiatore.
FOT. 49
Il film-rivista, assieme al comico e al film a episodi, è il genere che, in questi anni, contribuisce a “tenere insieme”, nella sintassi di un ininterrotto spettacolo dal cast stellare (che in questo caso raduna Louis Armstrong, fot. 49, Katherine Dunham, Nino Taranto, Susy Delair, fot. 50, Carlo Dapporto, Silvio Gigli, Claudio Villa, Wanda Osiris, fot. 51, Renato Rascel, Fernandel, Enrico Viarisio, Isa Barzizza…), la complessità di un’Italia attraversata da forze contrastanti, “grammaticalizzando” l’incontro con il diverso e lo “straniero” nel momento in cui il Paese riscopre – mettendole in scena preferibilmente al cinema – le proprie sfaccettature linguistiche, culturali, folcloriche. Il contributo del cinema, nel suo rapporto con la rivista, è in effetti quasi esclusivamente “tecnico”: si limita a rimontare i quadri più famosi delle riviste dell’epoca, come nel prototipo del 1949 I pompieri di Viggiù di Mattoli (che presta la canzone omonima di Armando Fragna ai titoli di testa di Botta e risposta), aggiungendovi un tocco di esterofilia e soprattutto concedendo maggiore visibilità a una produzione popolare e di successo ma tradizionalmente confinata negli spazi del teatro. Più che film-rivista, come quelli prodotti in America con profusione di mezzi spettacolari, si tratta insomma di riviste filmate, spesso esportate dalle assi del palcoscenico senza variazioni, e dotate di esili trame come, in Botta e risposta, la storia del commesso di sartoria, interpretato da Nino Taranto, che deve consegnare l’abito a Suzy Delair. Ma a scriverla si mettono Garinei, Giovannini, Steno, Monicelli, Marchesi, Soldati, Amedeo Maiuri e Pierre Léaud, in una classica situazione da cinema comico degli anni Cinquanta, in cui il lavoro di sceneggiatura somiglia a un “divertimento di gruppo” e funziona come una fabbrica di gag.
FOT. 50
FOT. 51
Tratto dal programma radiofonico ideato da Silvio Gigli nel ’44 per Radio Firenze (direttamente omaggiato e “messo in scena”), Botta e risposta, come molti altri film del genere, rivisto oggi possiede soprattutto un interesse documentario, per come, da un lato, testimonia indirettamente gusti e preferenze dell’Italia di quegli anni e, dall’altro, ci mostra, “dal vero”, artisti rimasti celebri oppure dimenticati e le loro esibizioni normalmente destinate alla sola registrazione memoriale: vi compare, nei significativi panni dell’addetto agli oggetti smarriti, lo stesso Soldati. Di qui, come già notava in tono semiserio Flaiano, riflettendo su I pompieri di Viggiù, un fascino aggiunto tipico di questi prodotti, legato alla presenza di una macchina da presa che si limita, in molti casi, alla sola registrazione: «I comici, le ballerine, i cantanti sono ripresi allo stato naturale e mostrano un volto familiare, affettuoso, senza inganni. Ciò che il palcoscenico non rivela, lo schermo mette in evidenza. E cioè l’età degli attori, le loro lunghe lotte contro le rughe e i denti ribelli, la tenacia di certe comparse…» («Il Mondo», 30 aprile 1949). Una specie di spettacolo dentro lo spettacolo, che il cinema si sarebbe incaricato di rielaborare anche narrativamente, con toni spesso pseudoneorealistici, mettendo in luce la provvisorietà e la povertà di questo tipo di intrattenimento in una serie di film che vanno da Partenza ore sette di Mattoli (1945) a Dove sta Zazà di Simonelli (1947) fino a Viva la rivista! di Trapani (1953). Questa fase di transizione, dispersione e “assaggio”, in cui Soldati varia sensibilmente generi e registri, tornando un po’ al passato, guardando al cinema d’Oltralpe e d’Oltreoceano e prefigurando la conversione al comico che caratterizzerà la sua filmografia nei primi anni Cinquanta consentendogli di conciliare talento figurativo, tendenze popolari e ispirazione “industriale”, si chiude con un ennesimo film Lux, Donne e briganti (1951), a cui lavora tra la primavera e l’estate del ’50, scrivendo la sceneggiatura a Parigi e girando tra Roma e Caserta. Uscito nel maggio dell’anno seguente, il film, per l’ennesima volta, fa storcere il naso ai critici, anche se ormai i toni si sono abbassati e verso Soldati si sta sviluppando un sentimento misto di indifferenza e delusione, proprio nel momento in cui, sul fronte letterario, si registra il successo dei racconti di A cena col commendatore, accolti fin dalla loro prima apparizione “solitaria” e in rivista con grande successo di critica e pubblico. Nei due anni successivi la divaricazione tra regista e letterato toccherà il suo punto critico: e mentre il secondo guadagna in considerazione e vince premi, il primo colleziona una serie di pellicole “commerciali” che, per molti, rappresentano ancora oggi il punto più basso della sua produzione. Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo, fuggito per l’ennesima volta ai francesi che, guidati dal generale Hugo, marciano alla conquista di Napoli, organizza una squadra armata per respingere l’invasore. L’iniziativa ha la benedizione di Re Ferdinando di Borbone, costretto a fuggire in Sicilia quando le truppe sono alle porte della città. Intanto, Michele deve scontrarsi anche con gli intrighi orditi da Peppino: quest’ultimo ha saputo dal padre che la sorellastra, Marietta, innamorata riamata del bandito, è la figlia illegittima del sovrano, affidatagli dal cardinale Ruffo ancora in fasce (il Re è convinto che la bambina sia morta) in cambio di un vitalizio. Per tale motivo decide di unirsi al gruppo guidato da Michele per poi tradirlo recandosi da Ferdinando e spacciandosi per Fra’ Diavolo, contemporaneamente aiutando i francesi a catturare l’“originale”. Così, dopo l’incontro iniziale, Peppino cerca in tutti i modi di scontentare il sovrano, spingendolo a chiedere a Hugo la testa del bandito. Che gli verrà consegnata, ma sarà quella di Peppino: il vero Fra’ Diavolo, riconosciuto innocente, viene accolto a braccia aperte da Ferdinando che, ritrovata la figlia, decide di concedergliela in
sposa.
Il film rientra a pieno titolo nel filone del “banditismo” postbellico a cui si dedica in questi anni molta attenzione – la Lux per prima –, alternando il racconto di un presente popolato di malviventi e criminali di cui registra il “rinnovamento” tematico e figurativo (Il bandito, 1946, Caccia tragica e Gioventù perduta, entrambi del 1947, Senza pietà, 1948, ma anche Quel bandito sono io, con i suoi gangster americani in trasferta a Napoli), al recupero delle radici letterarie e folcloriche del fenomeno, dal prototipo Aquila nera di Freda (1946), in trasferta nel “selvaggio Caucaso” (lo stesso regista ne gira il sequel, La vendetta di Aquila nera, proprio nel 1951) a Il brigante Musolino di Camerini (1950), da Il passatore di Coletti (1947), protagonista il bandito ottocentesco Stefano Pelloni, a Il brigante di Tacca del Lupo di Germi (1952), ambientato nella Calabria postunitaria. Sulla scia di questi fenomeni di recupero i banditi guadagnano tutt’altra luce, e da criminali spietati e immorali si trasformano in eroi fascinosi, simpatici e spesso, nelle loro rivendicazioni, “giusti”, come lo sarà il Robin Hood francese protagonista di Le avventure di Mandrin e come lo è il Michele Pezza/Fra’ Diavolo di Donne e briganti, interpretato da Amedeo Nazzari, che del genere è quasi il simbolo e che vi introduce le tradizionali caratteristiche della virilità italiana, fatta di lealtà, senso del dovere e grandezza d’animo. E che verrà chiamato dal suo re, Ferdinando di Borbone, “paisà”. Realizzato in co-produzione con la consociata francese della Lux, Donne e briganti (Fra Diavolo per il pubblico d’oltralpe) ha un’anima “internazionale” anche per quanto riguarda la sceneggiatura, cui lavorano, accanto a Soldati, Nicola Manzari, Vittorio Nino Novarese e Pierre Lestringuez, che fornirà il modello per il protagonista di L’ombrello azzurro, una delle 55 novelle per l’inverno pubblicate nel 1971. Italo-francese, non da ultimo, è lo sfondo storico, con le truppe napoleoniche che marciano alla conquista del Regno di Napoli, e il cast mescola opportunamente le carte di identità, affiancando Maria Mauban a Nazzari e chiamando Jean Chevrier e Paolo Stoppa a ricoprire i ruoli antieroici del generale Hugo e di Peppino Luciani. Ma in controluce si legge una storia tutta italiana e assai più recente, con Fra’ Diavolo che organizza una banda di partigiani per resistere all’invasore, ormai alle porte di Napoli, e diffonde tra il popolo un sentimento di resistenza verso lo straniero. Del resto, nelle stanze del potere si gioca una doppia partita di cui perfino Ferdinando I di Borbone (Giuseppe Porelli), ritratto come un vecchio un po’ svitato ma umanissimo (fot. 52), è all’oscuro e finisce per sostenere inconsapevolmente, cedendo a malincuore alla “ragion di Stato”, come quando viene consigliato ad abbandonare il suo popolo per riparare in Sicilia: nelle sue parole, a compiere “una schifezza”.
FOT. 52
In primo piano ci sono tuttavia i risvolti avventurosi e amorosi della trama, e a farsi notare e apprezzare ancora oggi c’è l’alto artigianato di Soldati, a cui egli non ha mai rinunciato neppure di fronte a pellicole più o meno sciocche o “d’evasione” e che, anzi, proprio in queste ultime, a partire da una maggiore libertà progettuale e da un minor contegno estetico, conduce talvolta a soluzioni curiose, tra la sperimentazione e il divertimento, come nel primo incontro in convento tra Marietta e Michele (fot. 53), in cui l’intensità melodrammatica cede a un epilogo da commedia, tra un’ellissi peccaminosa e un’autocensura alla Lubitsch, o come in certe soluzioni fotografiche di Mario Montuori, realista negli esterni assolati, espressionista negli interni oscuri e opprimenti.
Impreziosiscono il film, accanto a qualche “numero” di rilievo (come la sparatoria iniziale, che sembra citare l’amato Ford anche per lo scenario brullo, fot. 54)), i tanti caratteristi scelti, come sempre, con grande intelligenza e impiegati come antidoto comico alla “serietà” della vicenda, da Porelli/Ferdinando, di cui s’è detto, a Ada Dondini, la marchesa di Piccolo mondo antico e la Fosca di Malombra, qui nei panni di una superiora smemorata e amante del vino rosso, da Enrico Viarisio, l’untuoso cardinale Ruffo, a Virgilio Riento, un aficionado di Soldati, in costume da frate pacioso.
FOT. 53
FOT. 54
In breve, uno «scanzonato film di cappa e spada» (Caldiron) con tutte le carte in regola, esempio perfetto di quel cinema “medio”, risorsa vitale del consumo cinematografico e chiave di volta nella formazione del gusto “popolare”, che Soldati, e qualche altro artigiano della regia, sapeva confezionare ottimizzando le condizioni produttive e reagendo alle richieste del pubblico in delicato equilibrio tra convenzione e innovazione. Nei due anni successivi, prima del ritorno al cinema “serio” con La provinciale, Soldati approfondirà il suo rapporto con questo versante della produzione, dichiarando implicitamente quel disagio nascente per il “cinema d’autore” destinato a crescere lungo gli anni Cinquanta, decennio nato nel segno di una felice convivenza tra vecchio e nuovo (complice il Neorealismo e soprattutto la sua volgarizzazione) e chiuso da una esasperazione delle differenze generazionali: il suo ritiro, nel ’59, avrà il sapore di una cesura epocale. Intermezzo. Sei film in due anni: una questione alimentare (1951-1953) È l’amor che mi rovina appartiene al gruppo – solidale se non altro per motivazioni e logiche produttive – dei film “alimentari” (ma in francese suona meglio: gagne-pain) che Soldati, senza troppa convinzione, gira nei primi anni Cinquanta, incorniciandoli tra la pubblicazione di A cena con il commendatore (1950) e Lettere da Capri (1954), al ritmo di due, tre l’anno, senza pause, rispondendo perfettamente alle nuove esigenze del mercato: che, com’è noto, tocca allora cifre record, sia sul fronte della produzione che su quello del consumo, alimentandosi di film “usa e getta”, leggeri e leggerissimi, disimpegnati e superficiali, sotto l’insegna di quel metagenere dominante che è il comico, straordinario tritatutto capace di riplasmare e unificare un vasto orizzonte di temi, formule e modi di produzione, nel momento in cui l’industria cinematografica sta (ri)costruendo, assieme alle proprie logiche produttive, un sistema di generi destinato a diventare di lì a poco il polmone della produzione nazionale, almeno fino alla metà degli anni Sessanta. È l’amor che mi rovina, più esattamente, rappresenta il primo dei quattro film – gli altri sono O.K. Nerone, Il sogno di Zorro e Le avventure di Mandrin – che Soldati gira a Roma in un solo anno, tra
il settembre del ’51 e l’ottobre del ’52, per conto delle Industrie Cinematografiche Sociali (Ics) del marchese Nicolò Theodoli, una delle tante case nate appositamente per approfittare del boom (i soldi sono della famiglia Agnelli) e specializzata in film “popolari”. Un ritmo garantito anche, e soprattutto, dalla presenza costante di alcuni fidati collaboratori, come Mario Montuori alla fotografia, Guido Fiorini alla scenografia, Mario Nascimbene alla musica, Roberto Cinquini al montaggio, Mario Bartolomei al sonoro: la troupe funziona come una piccola unità produttiva capace di sfornare in tempi brevissimi, passando da un progetto all’altro senza soluzione di continuità, discreti film dichiaratamente di serie B, intendendo la categoria più in senso industriale che estetico. A questo gruppo, benché realizzato per la Lux e prodotto dalla coppia Ponti-De Laurentiis, appartiene senza dubbio anche il dittico salgariano composto da I tre corsari e dal suo sequel, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, realizzati in condominio alla metà del ’52 sull’onda lunga del cappa e spada Le avventure di Mandrin. La serie – un quartetto più una coppia – rappresenta complessivamente uno spaccato emblematico del cinema di quegli anni, dei suoi modi di produzione e delle sue logiche comunicative, e dimostra una volta di più la capacità di Soldati di adeguarsi alle mutate esigenze dell’industria culturale, di cui è a quel tempo, assieme a Steno, Mattoli, Freda e pochi altri, uno dei più vitali “registiartigiani” (un «eclettico iperattivo», lo definisce Caldiron, aggiungendovi «cinico e nevrotico»), capace, accanto ad alcuni dei migliori sceneggiatori del cinema comico e della futura commedia all’italiana, di allinearsi al gusto del pubblico e al nuovo, complesso scenario massmediale. Il risultato è un gruppo di film apparentemente “semplici” e anonimi e in parte dimenticati o rimossi ma in realtà ricchi di stratificazioni intertestuali e di travasi mediatici, realizzati guardando contemporaneamente al romanzo popolare e alle oleografie, all’avanspettacolo e alla rivista, alla radio (che conta ormai più di 3 milioni di abbonati e a cui Soldati ha già fatto ricorso per Botta e risposta), al ballo e al mondo delle canzonette (caratterizzato nei primi anni Cinquanta dall’arrivo dei long play), in cui cultura alta e bassa, popolare e di massa, americana e italiana stanno disinvoltamente l’una accanto all’altra. Ed è in questi film onnivori che, dopo il cinema della “ricostruzione”, prima del rispecchiamento della commedia e, soprattutto, dell’avvento della televisione, si fa l’italiano, continuando sotto l’effige del comico quel processo di costruzione del “popolare nazionale” avviato dal cinema neorealista, in tensione tra tipizzazione (culturale, linguistica, sociale) e uniformazione, come rivela magistralmente l’incipit di Viva il cinema! di Trapani (1953), in cui si passa senza soluzione di continuità da O mia bela Madunina a La biondina in gondoleta, da La bella romanina a Le campane di San Giusto, o come si tenta tra una sfilata al commissariato e un giorno in pretura, articolando una grammatica dell’episodico con cui il cinema cerca di appropriarsi, riducendole all’unità, delle tante anime dell’Italia. A questo processo, che ha un preciso versante critico-teorico nel dibattito in rivista sul cinema popolare, Soldati dà un contributo non piccolo, aggiornando le sue fonti e i suoi mezzi d’espressione: “a fare l’italiano”, del resto, si dedica da tempo, tra Fogazzaro e Bersezio, e chiuderà la sua filmografia con un racconto corale (Italia piccola) e un ritratto (Policarpo) che sono prima di tutto due inchieste sul costume nazionale, come lo saranno poco più tardi i due viaggi televisivi e il progetto in sei volumi di Chi siamo. Album di famiglia degli italiani, una storia iconografica curata con Piovene e uscita per Mondadori tra il ’66 e il ’68. Dietro le tante pellicole di “sfruttamento” che invadono il mercato italiano negli anni Cinquanta, lanciate alla caccia di un’audience vasta, generica e stratificata, vi sono insomma processi e logiche non solo economici e che, nel caso di Soldati, incontrano felicemente una “attitudine” che anima, nel profondo, tutta la sua filmografia; il che spiega, tra le altre cose, non soltanto la disponibilità del regista a interagire con il mercato che si fa garante di questo processo di “italianizzazione” e di regesto del popolare, ma anche la sempre discreta, e a volte più che buona riuscita delle pellicole. Gli strumenti estetici su cui si regge tale fenomeno sono essenzialmente due, ben presenti nei
quattro film realizzati per la Ics: da un lato, la capacità di far convergere in un solo prodotto molteplici generi di intrattenimento, contemplando virtualmente tutte le forme di spettacolo e gli assetti della comunicazione mediale (O.K. Nerone ne è l’esempio più calzante); dall’altro lato, più classicamente, il divismo, in cui tuttavia, accanto ai valori tradizionali, ne emergono di originali, sollecitati dalla centralità del comico e del nazional-popolare dialettale, che impone una serie di volti nuovi rubati molto spesso alle assi del teatro di varietà (celebrato, non a caso, in due film del 1950, Vita da cani di Steno e Monicelli e Luci del varietà di Lattuada e Fellini), nella segreta speranza di replicare l’operazione-Totò, che in questo momento rende i suoi frutti massimi. Il quartetto Ics si caratterizza, al proposito, per la presenza del neo-divo Walter Chiari, che manca l’en-plein perché sostituito all’ultimo momento da Raf Vallone per il conclusivo Le avventure di Mandrin. Soldati si trova tra le mani un attore poco connotato in senso regionale (di origine pugliese, cresce a Milano) di cui era già stato saggiato il talento comico, subito fiutato dallo specialista Mattoli, ma che pure non si era sottratto al richiamo del cinema “impegnato” con Vanità di Pastìna (1947) e Bellissima di Visconti (1951). Portato al successo da una serie di produzioni avventurose e comicheggianti a volte lontane dalla soglia della sufficienza, Chiari, che viene dalla rivista e alternerà sempre cinema e teatro, trova con Soldati l’occasione di approfondire il suo “tipo”, interprete delle aspirazioni professionali e soprattutto sentimentali di una galleria di personaggi “medi” (commessi, sportivi, impiegati) che si porterà dietro a lungo e che devono molto al «faccendiere cinico e ipocrita interpretato in Bellissima» (Canova), virato in senso comico. Un personaggio ricco di sfumature, moderno e nevrotico, clownesco e goliardico, un po’ il De Sica cameriniano e un po’ Jerry Lewis, particolarmente amato da Soldati anche perché «lontano da quell’umorismo “terrone” che cominciava a dilagare» (M. D’Amico, La commedia italiana: il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Mondadori, Milano, 1985). Walter è ipocondriaco, soffre di vertigini e pensa continuamente alle donne; lavora come commesso di articoli sportivi, alle dipendenze di un “commendatore” severo e irascibile. Sperando di attirare l’attenzione di qualche ragazza, si reca dall’amico fotografo, Carlo, con cui è sempre in debito, per farsi ritrarre in abiti da sciatore. In quel mentre arriva Clara, di cui si innamora all’istante. La ragazza è maestra di sci in un albergo al Sestriere e lo invita a farle visita. Intanto tre malviventi, autori del furto di un micidiale liquido esplosivo che reagisce a contatto con l’acqua, scelgono proprio Walter come inconsapevole fattorino per trasportare l’arma al Sestriere, nascosta in un anello: presso la località sciistica si trova infatti un agente segreto, la contessa Woronovska, che ha il compito di prelevare il liquido e portarlo oltre frontiera. A Walter, licenziato dal lavoro dopo l’ennesimo guaio, sembra un compito semplice e un’occasione preziosa per stare con Clara, spesato di tutto. Al Sestriere, dopo una rovinosa gara di sci, mentre si trova a letto fasciato, sopraggiunge Carlo, che pretende di essere pagato e come ricompensa sottrae l’anello “atomico”. Alla reception, mentre deposita il gioiello, incontra la contessa Woronovska, che lo scambia per il “suo uomo”. Ma quando Carlo si rifiuta di darle l’anello, la donna si rivolge ai tre ladri, che in breve arrivano al Sestriere. Non senza problemi Walter, incalzato dai malviventi, riesce a recuperare il gioiello, ma subito lo dona a Clara, che lo prende per un impegno di fidanzamento. La sera stessa, nel corso di una festa, la Woronoska affronta la ragazza pretendendo il gioiello; la donna, offesa, glielo dà, pensando che si tratti di una fidanzata di Walter. Ma ormai i due sanno troppo: per questo, assieme a Carlo, vengono rapiti per essere uccisi. L’idea è quella di fingere un incidente sulla neve, ma vengono fortunosamente salvati dall’ennesimo scambio (questa volta di sacchi da montagna) e dai gettoni seminati da Clara lungo il percorso, abituata a giocare in questo modo con i bambini a cui dà lezione. Una volta liberi, non resta che dare la caccia ai malviventi. E alla taglia di un milione, che sarà guadagnata da Walter, “eroico sciatore”.
FOT. 55
L’effetto-Totò e la provenienza teatrale di Chiari agiscono in profondità sulla struttura narrativa, seccamente divisa, soprattutto nella prima parte, tra azione e dialogo: in primo piano ci sono soprattutto i duetti con Virgilio Riento (il “commendatore”), tutti di parola, fondati sul fraintendimento, lo scivolamento semantico e il doppio senso (fot. 55). Ma il gioco di parole, oltre che risorsa privilegiata della farsa, rimane per tutto il film il registro preferito del “disadattato” Walter, spesso fuori luogo, inconsapevole della realtà che lo circonda e costretto a interpretare un personaggio eccedente, tanto che i momenti di maggior debolezza si registrano quando, particolarmente nel secondo tempo, la necessità di far progredire una trama tanto sciocca quanto complessa sottrae spazio all’improvvisazione e alla recitazione. Decisamente soldatiano è invece il tema dello scambio di persona e del travestimento, con tanto di allestimento scenico ed effetti speciali (lo scenario alpino ricostruito in uno studio fotografico torinese, da cui prende le mosse il racconto, fot. 56); sintonizzati al clima culturale post-ricostruzione/pre-boom appaiono invece l’insistenza sull’importanza sociale dell’apparire e l’azione pressante del “mito”.
FOT. 56
Le gag più riuscite fanno naturalmente leva sulle capacità di Walter Chiari, sia comiche sia squisitamente attoriali, come rivela il monologo che anticipa il primo incontro con Clara, che lo sorprende mentre recita il “m’ama non m’ama” con un piumino per la polvere; più datato, invece, il “centone” di disavventure sciistiche, con Walter vittima delle proprie e delle altrui goffaggini. Ma a incuriosire e a divertire è soprattutto la commistione di generi, immaginari e situazioni, in cui si affrontano, da un lato, il giallo “alpino”, reso celebre, su tutti, da I 39 scalini, e che entra nel corpo del film già parodizzato, e, dall’altro, la commedia americana (Walter, tra l’altro, sembra anticipare il Rock Hudson di Lo sport preferito dell’uomo, 1964, e non soltanto per via dell’analoga professione); ma si avverte anche l’eco del realismo comico di René Clair, un regista molto amato da Soldati, nell’ambientazione borghese di città della prima parte, mentre un immaginario diffuso, internazionale e cosmopolita, lussuoso e gratuito, incornicia la seconda e riporta alla memoria l’albergo trentino di Tutto per la donna. È proprio l’anonimato di quest’ultimo fondale a sostenere il gioco farsesco in cui s’avvita progressivamente il film, antesignano delle future vacanze di Natale e dei film d’ambiente sciistico in cui la bella – qui un’impacciata Lucia Bosé, neoeletta star da Cronaca di un amore (1950) – si trova presa suo malgrado nell’intrigo prevedibile del fraintendimento, che è poi la versione senza suspense spremuta dalle premesse thriller e fantapolitiche. Smessi i panni del commesso pasticcione, Chiari torna a vestire la divisa dopo Che tempi! (Giorgio
Bianchi, 1947) e I cadetti di Guascogna (Mario Mattoli, 1950) per il successivo O.K. Nerone, opera emblematica del “romanismo risorgente” dei primi anni Cinquanta, che tra disimpegno comico (Tizio Caio Sempronio di Marchesi-Metz, 1951, e Nerone e Messalina di Primo Zeglio, 1953) e versioni di lusso (targate Lux: l’Ulisse di Camerini e l’Attila di Francisci, entrambi del 1953) o quasi (Messalina di Gallone, 1951), prepara l’esplosione, nella seconda metà del decennio, dei “sandaloni”. Soldati, del resto, è già di suo frequentatore senza complessi dei generi più popolari del periodo: nel recente passato il “brigantesco” Quel bandito sono io e il film-rivista Botta e risposta, nell’immediato futuro il cappa e spada, anticipato da Donne e briganti, e poco più tardi il noir verista La mano dello straniero e il melodramma La donna del fiume. L’incontro con il peplum, anche se mediato dal sogno, si rivela dunque felice, e O.K. Nerone emerge dalla produzione del periodo come uno dei film più godibili. Fiorello Capone e Jimmy Gargiulo, italo-americani, cucinieri su una nave della marina statunitense, si recano a Roma per una visita turistica. Dinanzi al Colosseo sognano di poter tornare ai tempi dei romani: basterebbe il tocco di una bacchetta magica… e invece, a intontirli e a immergerli nel passato, ci pensa il bastone di un malvivente. Duemila anni prima, ai tempi di Nerone: Fiorello e Jimmy si risvegliano su una scalinata e vengono arrestati e condotti dal prefetto Pannunzio, feroce esecutore della guerra contro i cristiani. Costretti a fuggire, si nascondono in una botte piena di vino, da dove riemergono ubriachi. Si trovano infatti nella cantina di un’osteria, dove vengono aiutati da Licia, cristiana, che li veste da gladiatori. Intanto anche Nerone, assieme a Tigellino, si traveste per mescolarsi al popolo e capire chi trama contro di lui; i più infedeli sono proprio i gladiatori. L’imperatore giunge presso l’osteria e siede a bere con Fiorello e Jimmy, che hanno ormai capito come funziona: parlar bene di Nerone con i pretoriani, male con i gladiatori. Ma in questo caso… svelato il travestimento, sono costretti a fuggire. Ancora una volta si salvano cambiando d’abito: abbigliati da schiave, finiscono in un mercato, dove ritrovano Licia in attesa di essere venduta. Se l’aggiudica Caio Marco, capo dei pretoriani, a cui la donna chiede di comprare anche le due “schiave negre”. Ma il travestimento dura poco: colto da gelosia, Nerone irrompe negli appartamenti di Poppea e chiede alle donne presenti di svestirsi. Riconosciuti i due gladiatori, li spedisce all’arena. Miracolosamente non solo sopravvivono ma si guadagnano la stima dell’imperatore, che li assume. Per Nerone aprono un Luna Parcus, distogliendone l’attenzione dalla persecuzione contro i cristiani. Licia continua infatti a essere in pericolo, ma non vuole lasciare il palazzo perché innamorata, non ricambiata, di Marco. Intanto Tigellino, perduto il favore dell’imperatore, si reca da Sofonisba per ottenere una pozione in grado di scatenare l’odio di Nerone contro i nuovi arrivati, che giungono dalla maga nello stesso momento, in cerca di un filtro per suscitare l’amore in Marco. Alla fine, per errore, Marco, Fiorello e Jimmy berranno quello dell’odio, riversando i loro sentimenti contro Nerone. Inseguiti dalle guardie, riescono a fuggire grazie a Licia.
Il film, come il Nerone (1930) di Blasetti/Petrolini – un semplice predecessore piuttosto che un antecedente – e come molte altre farse o parodie della romanità che preparano il recupero “serio” degli anni successivi, lavora quasi esclusivamente sull’anacronismo, trovando nel contrasto tra contesto romano e usi e costumi moderni il motore della risata. Per «Cinema Nuovo» (1° novembre 1953) la proliferazione dei titoli è preoccupante, e nasconde «la paura di non essere abbastanza italiani, senza essere nazionalisti, la paura di non essere abbastanza nazionalisti senza essere imperiali»; come «l’altro verso dei film Invernizio-Da Verona», queste pellicole parlano a tutti ma vengono intese soprattutto «da qualche borghese che cerca l’impero». In realtà, O.K. Nerone sembra funzionare esattamente al contrario: non nostalgia sotto mentite spoglie ma esplicita parodia – in forma di strizzatina d’occhio al pubblico postbellico – dell’universo mitico già recuperato dalla tentazione imperialista del fascismo (e quindi, semmai, critica al complesso psicologico indicato da «Cinema Nuovo»), come rivela quel mezzo saluto romano con cui Jimmy (Campanini) e Fiorello (Chiari) si presentano a Pannunzio, incorniciato dall’architettura neoclassica e razionalista della Casa della civiltà fascista (fot. 57). Per Soldati, insomma, il viaggio nella Roma antica si riferisce meno all’epoca neroniana e più al recentissimo passato dittatoriale, e il film somiglia in alcuni momenti a una visita guidata, impertinente e dissacratoria, nell’immaginario inconsapevolmente parodistico del fascismo, cinema compreso: alla vista delle masse in costume, Fiorello domanda se per caso non si tratta di «comparse del Quo Vadis» (quello del ’26, naturalmente).
FOT. 57
A questo universo monolitico e ideologicamente sospetto, il film oppone – anche grazie al profilo dei due interpreti, marinai italo-americani – un presente contaminato e moderno, in cui Oh Susanna diventa leitmotiv accanto alle canzonette italiane scritte per l’occasione, guardando in special modo alla cultura americana – portata fin nel titolo con quell’ok da yankee – già rimasticata dal cinema e dalla produzione popolare di casa nostra. Un americanismo da importazione che sarà perfettamente descritto – ma non integrato, con conseguente schizofrenia – dal Sordi di Un americano a Roma (1954), scritto e diretto da Steno (soggettista e sceneggiatore di O.K. Nerone) e ispirato a un personaggio di Un giorno in pretura dello stesso anno e dello stesso regista. Il “romanismo risorgente” finisce dunque per fornire soprattutto un décor attivo, grazie al quale sottolineare, per contrasto e comicamente, lo spirito dei tempi moderni, di cui il film offre un catalogo esaustivo quanto a generi di intrattenimento e forme di comunicazione. Si succedono così il balletto da rivista che accompagna il Canto di Poppea (interpretata da Silvana Pampanini), l’improvvisazione jazz in casa di Nerone, lo spot musicale inscenato da Jimmy e Fiorello che, travestiti da schiave nere, devono convincere Caio Marco a comprarle (fot. 58), un saggio di rugby nell’arena dei gladiatori e le attrazioni del Luna Parcus impiantato per il divertimento dell’imperatore (che ha il volto di Gino Cervi, destinato a ripetere il ruolo in Nerone e Messalina). A segnare la progressione narrativa, i travestimenti della coppia protagonista e, sotto il profilo attoriale, la prevalenza ora del gioco di parole, ora dell’azione, che spesso fa leva sulla gestualità sfrenata e marionettistica di Walter Chiari, costretto anche, dagli abiti femminili, a recitare in un falsetto gracchiante. Prima marinai scavezzacollo, poi gladiatori ubriachi, schiave nere, “attori” nel circo di Nerone e infine suoi clown di fiducia, Fiorello e Jimmy attraversano il museo animato dell’antica Roma contaminando audacemente presente e passato, sovvertendo contemporaneamente immaginario cinematografico, politico, artistico e letterario, e chiudendo sul più fortunato topos del genere, la corsa delle bighe. E, naturalmente, non mancano neppure i riferimenti agli altri film della “serie”, in particolare a È l’amor che mi rovina, con un terzetto di fanciulle giovani e attraenti che canticchia il brano omonimo, un po’ per l’effetto juke-box a cui questi film si prestano, con le canzoni al tempo stesso volàno pubblicitario e “para-testo” destinato a un’esistenza autonoma, un po’ per recuperare, del precedente, la “morale”, che è poi quella dell’amore rovinoso, ma comico, che alla fine trova pace e soddisfazione. Un’analoga complessità intertestuale, in cui il rimando è previsto fin dall’inizio non soltanto come strategia commerciale ma anche come procedura comunicativa (derivando inoltre, in modo più immediato, dai ridottissimi tempi di realizzazione, con i film fatti, se non concepiti, in serie), caratterizza poi il personaggio interpretato da Chiari, profondamente debitore dei ruoli che lo precedono, e rafforzato dal definirsi della sua collaborazione con Campanini, destinata a continuare tra cinema e televisione.
FOT. 58
Non però nel film successivo, Il sogno di Zorro, in cui, accanto a Walter Chiari, ci sono Vittorio Gassman e alcuni attori cari a Soldati come Carlo Ninchi, Gualtiero Tumiati e Juan De Landa, mentre la partner femminile, in attesa di ritrovare Silvana Pampanini per Le avventure di Mandrin, è Delia Scala: ma in un piccolissimo ruolo c’è la futura interprete di La donna del fiume, ancora Sophia Lazzaro. L’alternanza riguarda anche gli sceneggiatori, con Steno e Monicelli sostituiti da Mario Amendola, Sandro Continenza, Ruggero Maccari e Marcello Marchesi, mentre i tecnici restano più o meno gli stessi. Benché sia nipote di Zorro, Raimundo Alcazan non possiede, del nonno, alcuna dote; è mite, tonto e bigotto, o almeno lo è diventato improvvisamente a otto anni, a causa di una violenta botta in testa. Per questo il padre è costretto, nonostante l’età avanzata, a continuare la tradizione di famiglia, con risultati disastrosi. Finché un giorno si risolve a cacciare il figlio di casa, dopo che ha rifiutato la mano di Dolores. Raimundo decide allora di farsi frate ma, mentre si reca in convento, la carrozza su cui viaggia, di proprietà del duca Esteban Contrero, viene accerchiata. Durante il combattimento Raimundo, ferito alla testa, riacquista la forza e il coraggio di cui aveva dato segno in tenera età: il nipote di Zorro è tornato. In breve sconfigge tutti gli avversari, impressionando don Juan, al servizio del Governatore, che, da lontano, spia. Ben presto i due entrano in conflitto a causa di Estrelita Fernandez, figlia di don Garcia, anch’egli alle dipendenze del Governatore, che Juan vorrebbe sposare – ma solo per interesse – ed è invece promessa al duca Contrero. Quest’ultimo però, rimasto ferito nello scontro, non vuole presentarsi alla festa di fidanzamento e chiede a Raimundo di prendere il suo posto. In realtà, il fidanzamento è un tranello ordito dal Governatore per uccidere Contrero, capo dei congiurati e colpevole, a suo giudizio, di tradimento. Ma Raimundo/Esteban vince trappole e tranelli, e conquista l’amore di Estrelita. Don Juan decide allora di sfidarlo a duello, ma ha la peggio. Nel frattempo, il vecchio Governatore viene deposto a favore di don Esteban Contrero, ma nel corso della cerimonia che ne segue Raimundo è riconosciuto come impostore. Prima che tutto degeneri, giunge il vero Esteban. Don Juan, perduto l’appoggio di Garcia, rapisce Estrelita. Raimundo lo segue e i due si sfidano nuovamente. Juan ne esce sconfitto e il nipote di Zorro, alla fine, oltre all’amore di Estrelita riceverà anche l’abbraccio del padre, disposto a riaccoglierlo dopo una simile dimostrazione di coraggio, che lo rende finalmente degno della sua parentela.
Un po’ come O.K. Nerone, Il sogno di Zorro è un viaggio nel mito e nel suo immaginario diffuso e stereotipo, aperto da una botta in testa che innesca la contaminazione tra diversi livelli di realtà. Al film precedente ruba inoltre alcune trovate comiche, come il bagno nel vino da cui si riemerge ubriachi, il gusto per un travestitismo sfrenato (quasi da musical, come nel duello finale, con gli abiti di Walter Chiari e Vittorio Gassman che si colorano prima di nero e poi di bianco, per tornare infine puliti, fot. 59 e 60) e un paio di numeri d’inseguimento dove, al posto delle bighe, ci sono cavalli e carrozze. E proprio la mascherata e lo scambio di identità emergono definitivamente, dopo i primi due capitoli della “serie”, come i meccanismi comici e narrativi preferiti da Soldati nella scrittura di questi film: un adeguamento ai più classici schemi farseschi ma anche – benché in forma depotenziata e piegata a effetti puramente ludici – la continuazione del discorso più antico e resistente della sua filmografia, legato alla moltiplicazione identitaria, al gioco delle apparenze, al travestimento come “messa in scena” che doppia quella del cinema.
FOT. 59
Dall’altra parte, se pure il ricorso a Zorro, all’interno del film, è poco più che un dato “commerciale”, una specie di specchietto per le allodole ripagato allo spettatore con ambientazioni appropriate e qualche messicano d’arredamento, esso specifica una delle cifre caratteristiche del comico soldatiano, che non s’appoggia tanto alla caricatura e alla tipicizzazione delle particolarità locali e dialettali (anche grazie alla presenza di un attore “neutro” come Walter Chiari) ma si gioca tutto o quasi sulla dissacrazione di patrimoni visivi e romanzeschi. Soldati, insomma, anche in rapporto al comico più “basso” e facile, continua a essere, come rivelerà soprattutto il dittico salgariano, un autore “letterario”, intendendo con ciò un’attitudine specifica a travasare nel cinema tradizioni e immaginari libreschi, con variazioni certo sensibili, da film a film, riguardo alle fonti, ma a partire da operazioni concettualmente identiche. Nonostante ciò concede al cinema di fare, del patrimonio a cui attinge, quello che crede e deve: senza falsi pudori, senza riserve intellettuali.
FOT. 60
Nel caso di Il sogno di Zorro, il cinema, attraverso i modi violenti e deformanti del comico, si appropria dell’immaginario romanzesco e già ampiamente cinematografico del personaggio creato da Johnston McCulley e ricalcato su prototipi ottocenteschi familiari a Soldati, da Robin Hood (che è poi il modello dichiarato dell’epopea di Mandrin) al Conte di Montecristo e alla Primula Rossa, per darne una versione puramente farsesca, direttamente in dialogo, per contrasto, con la retorica dei “forzuti” – da Douglas Fairbanks a Tyrone Power – che ha segnato la rappresentazione di Zorro fin dagli anni Venti. Così, anticipando l’evoluzione parodistica del personaggio e l’allargamento del suo albero genealogico, racconta di un nipote e gli toglie la maschera, incarnando la doppiezza in una specie di schizofrenia incontrollabile ed eliminando di conseguenza ogni implicazione politica e ideologica, per fare dell’erede di Zorro una specie di burattino al servizio del caso: a decidere del “volto” di Raimundo (ora nipote coraggioso e “zorresco”, ora giovane bigotto e codardo) sono infatti le botte in testa che riceve più o meno accidentalmente. Del personaggio originale, già diluito dalla parentela di secondo grado, alla fine resta davvero poco e Il sogno di Zorro, a parte qualche omaggio “atmosferico” al prototipo – mediato da un’estetica raccogliticcia da studio – appare soprattutto, e più di ogni altro film realizzato da Soldati in questo periodo, una sequenza di sketch, alcuni più riusciti (come il duello finale, in cui perfino Gassman abbassa i toni della sua recitazione enfatica, o come la serenata in playback, che stravolge efficacemente il topos del Cyrano), altri meno (i duetti amorosi), intervallati da qualche “attrazione” come il combattimento dei galli e gli inseguimenti a cavallo. Ma se Il sogno di Zorro risulta essere, a conti fatti, uno dei punti più bassi della filmografia soldatiana, in cui fanno difetto perfino quei
valori di alto artigianato che sono un marchio di fabbrica del regista, è proprio per la scarsa tenuta del gioco del doppio, retto con difficoltà da Chiari e sceneggiato con scarsa fantasia. Decisamente più equilibrato il riutilizzo che Soldati, assieme a Bassani, Augusto Frassineti e Vittorio Nino Novarese, compie delle vicende di Mandrin per il film successivo, in cui Walter Chiari viene sostituito da Raf Vallone e il personaggio femminile ha di nuovo il volto, e soprattutto il corpo, di Silvana Pampanini. L’uscita di scena di Chiari, a favore di un attore drammatico e al massimo “brillante” come Vallone, sembra del resto inevitabile in presenza di un cappa e spada molto classico, e solo venato di toni comicheggianti. Questa volta, poi, le implicazioni “politiche” legate alla figura del Robin Hood francese, Louis Mandrin, vissuto al tempo di Luigi XV e morto nel 1775 a soli trent’anni, sembrano contare non poco, e la presenza di un coproduttore d’Oltralpe, la Cormoran Film di Parigi, deve aver giocato a favore di un adattamento particolarmente rispettoso nei confronti di un personaggio caro ai francesi. Luigi Mandrin, in fuga dal Quinto Reggimento di stanza a Grenoble, approfitta di un passaggio offertogli da un gruppo di tessitori in viaggio dalla Francia verso il Piemonte. Giunti al confine, i doganieri riservano alla combriccola un trattamento che suscita l’indignazione di Mandrin, grazie al cui intervento i tessitori possono fuggire. Rimasto solo, viene interrogato dal sergente e accusato dall’intendente Vernay di possedere tabacco di contrabbando che, in realtà, gli è stato infilato nella tasca a tradimento. Riesce a fuggire grazie all’aiuto di alcuni compagni e trova rifugio nel castello del nobile Guido Dalbon, avversario del Re di Francia. Mentre passa il confine entrando in Piemonte, assiste all’arresto di un altro disertore, Pierre Patou, da cui “eredita” una scimmietta, Sofia, subito riconosciuta dagli amici di Pierre – contrabbandieri e disertori come lui – riuniti presso l’osteria di Rosetta, dove Mandrin si ferma a cena. Insieme, si recano al confine per un appuntamento con un altro contrabbandiere, che li informa dell’inasprimento dei controlli sul commercio clandestino voluto da Vernay, che poi rivende la merce sequestrata. Insieme ai suoi nuovi compagni, Mandrin fa visita all’uomo e lo costringe a rivendere ai poveri, e a prezzi bassissimi, la merce. Nel giro di un mese ristabilisce l’ordine e la giustizia, radunando attorno a sé un piccolo esercito di contrabbandieri ben presto leggendario. Rispunta Patou e si unisce al gruppo. Da questo momento in poi, le avventure di Mandrin si susseguono rapide, facendolo diventare famoso in tutta la Francia, al punto da incuriosire la marchesa di Mauprivez, favorita del Re, che decide di lasciare Parigi per trascorrere un po’ di tempo in Savoia, sperando di incontrare il bandito. Intanto, con la complicità del decaduto marchese di Roquirolles, Mandrin si reca dal conte Dalbon, dicendo di essere in realtà il cavaliere di Narcy e di usare il nome di Mandrin come copertura. In nome del Re di Sardegna chiede collaborazione contro il malgoverno francese e, ottenutala, si installa con la banda nei sotterranei. Ma la proprietà viene reclamata da Vernay: Dalbon non paga le tasse da vent’anni. Alla notizia, il conte muore. Così, quando Vernay torna per prendere possesso del castello, Mandrin e i suoi gli tendono un tranello. Il bandito si sostituisce all’intendente della dogana e si presenta alla Mauprivez. Ma lo scambio viene scoperto e scatena le ire della marchesa, che a questo punto pretende la testa del bandito; nella ricerca è aiutata dal traditore Patou, che porta le truppe da Rosetta. Imprigionato presso le carceri della dogana, Mandrin riesce a fuggire grazie all’intervento dei suoi fedelissimi, a vendicarsi di Pierre e a ricongiungersi a Rosetta.
FOT. 61
«Nous étions vingt ou trente/Brigands dans une bande,/Tous habillés de blanc…»: così recita il compianto di Louis Mandrin, opera di un anonimo, scritto all’indomani della morte del bandito, e che Soldati sembra omaggiare nella prima sequenza del film, presentandoci il fuorilegge in abiti candidi tra quelli scuri dei doganieri che lo arrestano (fot. 61). La simpatia del regista, del resto, è tutta per questo furfante, erede del Fra’ Diavolo di Donne e briganti e ideale progenitore dei corsari
salgariani dei due film successivi: tutte figure in bilico sul filo sottile che separa la legalità dall’illegalità, anarchici che combattono le ingiustizie della legge a suon di furti, scorribande e tranelli, giustificando i mezzi col fine, che è normalmente quello di ristabilire, se non l’ordine sociale, almeno una più giusta distribuzione delle ricchezze. Le avventure di Mandrin anticipa i due film salgariani anche per il ritorno di una “compostezza” figurativa e di una cura nella regia che il registro comico dei tre lavori precedenti sembrava avere progressivamente inibito, senza per questo virare verso il “teatro filmato”. Soldati ritrova adesso il cinema in costume e con questo un’attenzione al dettaglio scenografico, all’impaginazione raffinata e alla ricerca plastica e fotografica che, con le dovute differenze d’esecuzione, riportano alla scrittura spesso maestosa, ma non per questo enfatica, dei precedenti storici degli anni Quaranta. Merito anche del lavoro di Mario Montuori, che costruisce intere sequenze sull’uso della profondità di campo, contaminando realismo e astrazione fotografica all’americana, raggiungendo in molti casi effetti barocchi che ben descrivono l’atmosfera sordida dei luoghi in cui s’amministra ingiustamente il potere e la fisicità “deforme” di chi li abita (fot. 62). Contemporaneamente, il plot concede poco alla battuta e al numero-attrazione, orchestrando il racconto attorno alla figura forte e carismatica di Mandrin, di cui il film racconta tutta, o quasi, la “carriera”, col finale tragico mutato in happy end.
FOT. 62
FOT. 63
Certo, questo Robin Hood alla francese non ha, nel film come nella tradizione che lo riguarda, alcuna sfumatura psicologica: è un eroe puro, senza cedimenti o incertezze, che Soldati sembra divertirsi a descrivere tra sacro («Tutta la Francia ne parla, e da questo momento anche gli Dei») e profano, fino a trasformalo in una specie di star cinematografica ante litteram, senza trascurare neppure l’aspetto “merceologico”, in un sottile gioco di scambi tra attore-divo e personaggio-mito. Mandrin incanta le donne, ha una “sigla” personale (che si leva ad annunciare il suo ingresso e a scandire il suo passaggio), viene portato in trionfo sotto una pioggia di fiori (fot. 63), gli vengono offerti i bambini da baciare e, come ogni divo che si rispetti, ha un “prezzo” (la taglia, esposta come un poster-trofeo nella bottega di Rosetta) che aumenta a ogni nuovo successo, e un seguito di quattromila fedelissimi. In Francia, a Parigi, è l’“uomo del giorno”, e finisce per prestare involontariamente il suo nome – trasformato in marchio – a profumi e cappelli per signora, balletti e nuove acconciature; non da ultimo, è un’attrattiva “turistica” che rende il Delfinato, il luogo che fa da sfondo alle sue azioni, ben più divertente della capitale, tanto da convincere la marchesa di Mauprivez a trasferirvisi per qualche tempo, sperando di vedere Mandrin. Il quale, come ogni eroe precinematografico, deve buona parte del suo fascino all’invisibilità del corpo, fondamento di ogni
vera regalità in odore di sacro (il desiderio della Mauprivez è «di vedere con i miei occhi come porta il cappello questo Mandrin»). Non più al servizio dello sketch comico cucito su trame esili, Soldati ritrova insomma il piacere dell’affabulazione e il divertimento del mestiere; gioca, e bene, con quello che gli offre il personaggio: ossia, a risarcimento di una certa piattezza caratteriale (peraltro perfettamente consonante al genere), una biografia avventurosa e soprattutto un corpo atletico, che il regista manipola con efficacia, lanciandolo in prove di forza, destrezza e agilità sempre nuove, che scandiscono il ritmo del racconto, costruito, in particolare nella prima parte, sul crescendo dei successi di Mandrin. Nella seconda, invece, in parallelo al definirsi del sottotesto mélo, prende il sopravvento il piacere del travestimento, che stavolta costringe questo cavaliere senza legge a indossare perfino i panni di uno dei suoi peggiori nemici, lo squallido Vernay, a ribadire più che altro lo statuto attorial-divistico del personaggio. E nel cortocircuito tra uomo e divo, attore e personaggio, si infiltra anche un pizzico di biografismo: quando tutto, dal rapporto con Rosetta a quello con i compagni, sembra compromesso e Mandrin non vede futuro nella “professione” di contrabbandiere, medita di cambiare vita e di partire per l’America… Chiuso il rapporto con la Ics di Theodoli nella primavera del ’52 (Le avventure di Mandrin si rivela, tra l’altro, un discreto successo commerciale), Soldati è di nuovo sul set in estate per un “doppio film”, I tre corsari e il suo sequel, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, girati quasi contemporaneamente (ma distribuiti uno nel ’52, l’altro nel ’53) secondo «il sistema del “Togli il tavolino e mettici il letto! Via l’attore X e Y, dentro l’attore Caio e Tizio! Cambia il ciak! Motore! Azione!”», in un gioco di scambi e sostituzioni dai risvolti comici che, ricorda Claudio Mancini, finiva a volte per confondere le idee agli attori: «C’era Celano che ogni tanto si sbagliava, diceva “Tirate la filibusta!” e subito qualcuno lo correggeva: “Guarda che questo è l’altro film!”». E anche quando l’azione è partita, la povertà del set e i ritmi di lavorazione pongono qualche problema: il vascello su cui si svolge buona parte dell’azione di entrambi i film, per esempio, «non si muoveva per niente, era fermo come un palazzo. Il vento lo facevamo con un aeroplano. I pirati erano tutti i pugili del momento, suonati e non. Non si potevano fare i controcampi perché la nave era solo costruita a metà. May Britt non sapeva recitare, non parlava italiano, non parlava nemmeno inglese, non parlava un cacchio. Dovettero prenderle un interprete dell’ambasciata, ma pure lui non doveva essere un genio, perché non riusciva a spiegarle quello che doveva fare, o almeno così pareva perché prima che il regista ottenesse quel poco che voleva ce ne passava di tempo! Insomma non si andava avanti, e noi eravamo costretti a lavorare anche quattordici ore al giorno». Ma, conclude Mancini, «fu una vera comica» (FF, p. 357). Gli fa eco Tonino Delli Colli, direttore della fotografia di entrambe le pellicole: «I tre corsari e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero li girammo in contemporanea. La mattina c’era chi non si ricordava di che film si trattava, perché si girava a incastro, nello stesso ambiente c’erano le scene di un film e quelle dell’altro e quindi era un po’ complicato orizzontarsi. Però Soldati […] era uno pratico del mestiere e quindi ci divertivamo anche. I film furono girati in contemporanea per risparmiare, perché così facendo approfittavamo dei costumi e della nave che era stata costruita a Palo. Oddio, nave per modo di dire perché prima di tutto era solo metà, e poi, per mia fortuna dato che soffro il mare, era inchiodata a terra. Così per dare la sensazione del beccheggiamento si muoveva la macchina da presa mentre la nave restava immobile» (FF, p. 357). Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, che descrivono bene la realtà del modo di produzione caratteristico di tanto cinema popolare di quel periodo, sospinto a “fare di necessità virtù” per sostenere il confronto con i prodotti americani, budget e modalità lavorative ben lontane da Hollywood, ne risultano sono due film “virtuosi”, visivamente potenti, che dissimulano con straordinaria nonchalance le loro difficoltà produttive. Due film gonfiati, o truccati bene, dalla dignità di un prodotto di serie B made in Usa: piccoli, poveri e belli. E che confermano una volta di
più il talento “all’americana” di Soldati, che sa destreggiarsi con bravura anche in presenza di produzioni povere (e, stando a lui, ulteriormente impoverite dalla gestione fumosa di Ponti e De Laurentiis) o variamente accidentate, estraendo dai materiali a disposizione film perfettamente corrispondenti agli standard qualitativi e alle logiche di genere dell’exploitation all’italiana, e che in questo caso non hanno nulla da invidiare ai pirateschi Usa di quegli anni, da Il corsaro dell’isola verde di Robert Siodmak (1951, girato in Italia, a Ischia) a Il pirata Barbanera di Raoul Walsh (1952). “Fare di necessità virtù”, per il cinema popolare degli anni Cinquanta, significa esattamente questo: da un lato, alto artigianato, inventiva e fantasia, che consentono, sul piano estetico, visivo e narrativo, di supplire al divario strutturale tra cinema italiano e cinema americano; dall’altro, sotto il profilo culturale, la capacità di intrecciare popolare e colto, rielaborando «un ampio repertorio testuale e visivo, prendendo spunto da elementi propri della cultura condivisa con il pubblico, attraverso la cultura scolastica e tutta la narrativa popolare, e successivamente trasformando in modo sostanziale i generi d’importazione» (S. Della Casa, “Cinema popolare italiano del dopoguerra”, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. 3, tomo I, p. 779). In I tre corsari e in Jolanda, in particolare, Soldati riprende le fonti salgariane a un “secondo grado”, già polverizzate culturalmente e visivamente, rifacendosi non tanto ai testi letterari – traditi senza rimorsi – quanto piuttosto all’immaginario che li circonda e che il pubblico conosce e condivide anche in assenza di un contatto diretto con le fonti. Come puntualizza Caldiron, il regista «si muove con assoluta disinvoltura e sovrano divertimento nell’affabulazione avventurosa dello scrittore, prendendosi tutte le libertà possibili, come un guastatore deciso a mandare all’aria i ricordi infantili dei lettorispettatori più devoti e meno disponibili all’irriverenza della sua decostruzione». E proprio per questo subisce l’ennesima bocciatura critica, come testimonia esemplarmente la recensione di «Rassegna del Film» (11 febbraio 1953): «Tratto da Il Corsaro Verde, [I tre corsari] ci ha offesi non tanto nel gusto, quanto nel ricordo delle affascinanti storie scritte da Emilio Salgari per i nostri teneri anni». Ma la ripresa di questo patrimonio risulta intelligentemente calcolata in rapporto alle logiche del genere di riferimento, il cappa e spada corsaro, e adeguata alle necessità spettacolari del cinema: Soldati riduce quindi la complessità morale e psicologica dei personaggi salgariani e ricostruisce l’andamento narrativo secondo una logica a “numeri”, infiltrando l’avventura con la commedia. Declinando inoltre il piacere per il travestitismo farsesco, che è già di Salgari, nella più personale attitudine a fare dell’individuo un attore e un personaggio, costretto a cambiare di nome, d’abito e maniere, in un via vai identitario sottilmente ironico che, nel caso del primo film, porta i tre corsari, nobili d’origine, a farsi battezzare pirati per poi riconquistare il proprio blasone soltanto alla fine. I tre corsari Assediato nella rocca dei suoi avi, il conte di Ventimiglia, con i tre figli Enrico, Carlo e Rolando, si batte contro gli spagnoli. A capo della guarnigione è il capitano di ventura Van Gould, amico più del denaro che dell’onore. La situazione è grave. Unica speranza i rinforzi che Rolando di Ventimiglia, sfidando il blocco, è andato a chiamare. Ma prima che le truppe del marchese di Ivrea possano arrivare, il conte viene tradito e ucciso da Van Gould, vendutosi agli spagnoli, e i suoi tre figli fatti prigionieri e trasportati su un vascello diretto a Panama, su cui viaggia anche la figlia del viceré delle Antille, Isabella. Prossimi ad attraccare, incrociano una zattera di naufraghi. Si tratta, in realtà, di un tranello e, una volta a bordo, i corsari, guidati da Mastro Inferno, liberano i prigionieri e prendono possesso del vascello. Sbarcati all’isola della Tortuga, i signori di Ventimiglia si uniscono alla banda di Mastro Inferno. Ma quando viene introdotta la figlia del viceré, Enrico è costretto a sfidare a duello uno dei corsari, che la vorrebbe come “bottino” personale. Uscito vittorioso, libera la donna e la imbarca per Maracaibo. Tra i due nasce l’amore. Ma Enrico e i suoi fratelli hanno in mente solo la vendetta. Intanto Isabella, ricongiuntasi al padre, viene presentata al nuovo comandante della flotta spagnola, che poi non è altri che l’ammiraglio Van Gould; i tre fratelli ne vengono subito informati, e decidono di entrare nella filibusta per vendicare la morte del genitore. Viene loro affidato un vascello e un equipaggio e, ribattezzati corsari (Rosso, Verde, Nero), salpano contro Van Gould. In breve mettono in ginocchio la flotta spagnola, per poi tentare il colpo più azzardato ma necessario: prendere d’assedio Maracaibo. I tre corsari,
facendosi spacciare per mercanti di vino, vi entrano a piedi, mentre i marinai la raggiungono per mare. Arrivati in città, si dividono: Enrico si reca da Isabella; Carlo perfeziona il piano; Rolando si ferma presso la locanda, attirato da una cameriera. Per difendere l’onore della ragazza è costretto a sfidare il suo amante, don Diego, a cui svela il proprio nobile lignaggio affinché accetti di battersi. Scoperto, viene arrestato. Isabella chiede aiuto al padre, che si reca da Van Gould, di cui ormai conosce i misfatti; ma è troppo tardi: Rolando è condannato a morte, mentre i pirati, come previsto, sbarcano a Maracaibo incrociando le armi con i soldati spagnoli. La vittoria finale, però, è di Enrico, che viene ripagato dal viceré con il riconoscimento ufficiale dei titoli e dei possedimenti di famiglia e con l’offerta della figlia in sposa.
Jolanda, la figlia del Corsaro Nero Quattro pirati trovano per caso un uomo e una bambina, e li caricano sulla loro carrozza. La piccola Jolanda, detta Jolly, viene allevata come un “corsaro” provetto e, raggiunti i vent’anni e “forte come un uomo”, condotta a Maracaibo, dove infuria la guerra tra inglesi e spagnoli. Nei pressi della città soccorre una carovana assalita dai banditi e fa la conoscenza di Consuelo, la figlia del Governatore, che la scambia per un cavaliere, innamorandosene all’istante. Nello scontro, il suo fedele compagno e vice-padre, lo zingaro Sam, viene ferito. Prima di morire, confessa a Jolanda la sua vera identità – è la figlia di Enrico di Ventimiglia, il Corsaro Nero – e le affida la mappa di un tesoro che le appartiene, nascosto a Maracaibo. Per saperne di più, le suggerisce di incontrare Van Stiller a Santa Fè. L’uomo, un fedele compagno del padre ritiratosi in convento, le confessa che a uccidere il Corsaro Nero fu il figlio di Van Gould, attualmente Governatore di Maracaibo col titolo di conte di Medina. Jolanda decide di vendicarsi e Van Stiller si unisce a lei. Insieme ricompongono il gruppo dei corsari fedeli a Enrico e, a bordo del Jolly Roger (battente bandiera inglese), si imbarcano per Maracaibo. Intanto, vengono a sapere della pace siglata tra Inghilterra e Francia: Jolanda vorrebbe sciogliere ogni giuramento con la corona, mentre Henry Morgan, proprietario della filibusta, decide di affrancarsi dalla pirateria e unirsi all’esercito regolare. Con la ragazza, alla fine, restano soltanto Van Stiller e Agonia. Tuttavia, Morgan viene subito tradito: giunto a Maracaibo per firmare la pace con la Spagna, scopre che tutta la sua ciurma – compreso il figlio, Ralph – è stata arrestata per ordine del conte di Medina. Jolanda escogita un piano per liberare i corsari, presentandosi come Enrico di Montenero presso la dimora del conte di Medina, dove si tiene una festa. Consuelo è felicissima di rivederlo e lo segue nelle segrete del palazzo. Jolanda usa la ragazza per chiedere il rilascio dei corsari, ma nel luogo e all’ora pattuita il conte di Medina giunge scortato dall’esercito. Ne nasce uno scontro a fuoco: i filibustieri trovano riparo in un convento, mentre Jolanda viene rapita e Medina ne scopre la vera identità. Van Stiller chiede aiuto a Morgan, che decide di intervenire proprio nel momento in cui l’esercito spagnolo irrompe nel convento. Alla fine, tutti sono salvi: Jolanda e Ralph possono riabbracciarsi nella stanza del tesoro, mentre il conte, tentando di fuggire, finisce su un’imbarcazione di lebbrosi.
FOT. 64
Fare di necessità virtù, come ben sapevano i Dwan e i Lewton, significa, in concreto, aguzzare l’ingegno, risolvendo gli ostacoli prodotti dalla povertà dei mezzi o i limiti imposti da condizioni realizzative seriali in risorse estetiche e narrative. Con la conseguenza che, spesso, se pure il “trucco” c’è, non solo non si vede ma porta con sé un risultato di tutto rispetto. Nel caso di I tre corsari e di Jolanda, un contributo essenziale alla riuscita dei film viene dallo straordinario lavoro di Tonino Delli Colli, che con la luce ambienta, arreda, descrive, suggerisce, servendo benissimo la calcolatissima regia di impianto “teatrale” di Soldati. La “scena” è spesso costruita in profondità di campo, dislocando la narrazione su più piani e incorniciandola di preziosismi descrittivi (fot. 64), sia negli interni che negli esterni, come rivelano per esempio le sequenze ambientate presso la rocca, in cui non è da escludere la lezione dell’Otello wellesiano, che proprio nel ’52 appariva sugli schermi, dopo aver concluso le sue vicissitudini realizzative a Roma. Il ricorso a un bianco e nero saturo, barocco e materico si rivela perfettamente strumentale a rappresentare la ferocia
granguignolesca dei pirati, fino a diventare vero e proprio principio narrativo, come nel duello finale di I tre corsari. Lo scontro tra Enrico e Van Gould è infatti interamente costruito su un gioco di luci e ombre, prima in movimento, grazie a una lanterna che il secondo regge nella mano destra, poi, caduta a terra la fonte luminosa, fisse e spettrali, proiettate su una quinta che allunga e raddoppia la scena reale (fot. 65). L’intensità dell’astrazione fotografica e la cura plastica e figurativa devono inoltre qualcosa all’immaginario letterario e visivo – da illustrazione a tratto pesante e cromaticamente violenta – che s’accompagna all’opera salgariana: chiudono il racconto in un tempo remoto e immaginifico, circondandolo di un’atmosfera avventurosa che restituisce sul piano visivo quello che nel libro è parola recitata o scritta.
FOT. 65
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Così, se è con animo da infedele che Soldati s’accosta al corpus salgariano, il risultato finale è più rispettoso del previsto. Merito anche del gran ritmo che sostiene le due pellicole, nell’alternanza calcolata tra momenti d’azione e distensione, tra un duello e un dialogo, una spiata e un bacio. Fallisce invece il tentativo di Ponti e De Laurentiis – iniziato proprio con Jolanda – di lanciare nel pantheon divistico la svedese May (ma talvolta Mai) Britt, una ritoccatrice di fotografie di Stoccolma da cui si erano recati in cerca di una nuova bellezza nordica (fot. 66). Soldati gioca a vestirla, svestirla (ne mostra perfino un seno) e travestirla, assegnandole una triplice identità – Jolanda, Jolly, Enrico di Montenero – e un triplice ruolo – damigella di nobili natali, corsaro, saltimbanco – ma il tentativo rimbalza contro un’imbarazzante monotonia recitativa. La Britt, del resto, «che sapeva poche parole d’italiano e forse le peggiori, imparate dalla gente del cinema […] ma era proprio una svedese modello, disciplinata, autonoma, seria» (Aldo Tonti), avrebbe chiuso la sua carriera già nel 1960, nell’anno del suo matrimonio con Sammy Davis Jr., dopo un discreto numero di pellicole italiane (tra cui La nave delle donne maledette di Matarazzo, 1953) e qualche produzione americana (l’infelice remake dell’Angelo azzurro di Dmytryk, 1959). A miglior fortuna sono destinati altri nomi coinvolti nella lavorazione dei due film, dall’aiuto regia Sergio Leone al giovane Renato Salvatori, che ha debuttato al cinema l’anno prima con Le ragazze di piazza di Spagna e che con la doppietta soldatiana si apre la strada al successo di Poveri ma belli (1956). E a migliori fortune (critiche) è destinato Soldati, che dopo pochi mesi torna sul set, ma questa volta per un film “impegnato”, La provinciale. Con cui riscatterà il recente passato, sfatando il luogo comune che lo vuole «uno dei migliori narratori» e «uno dei peggiori registi italiani» (Attilio Bertolucci). Quarto tempo. Ritorno al serio, nostalgie e conclusione (dal 1953)
Per il suo ritorno al cinema “serio” dopo la parentesi commerciale compresa tra O.K. Nerone e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, Soldati si rivolge a un amico d’infanzia divenuto nel frattempo uno dei massimi scrittori italiani, Alberto Moravia, adattandone un racconto del ’37, La provinciale. Nasce così uno dei migliori film di tutta la sua carriera – il migliore, stando a lui –, utile anche per riconquistare l’attenzione e la stima della critica, a cui pure Soldati non ha mai prestato grande ascolto, perfetto erede di Camerini, che era solito cambiare ristorante o lato del marciapiede quando avvistava qualche critico. È però uno di questi, e dei migliori, Pietro Bianchi, a capire che con La provinciale, prodotto nell’inverno del ’52 e distribuito dalla Warner Bros. all’inizio dell’anno successivo, il regista non torna semplicemente ai fasti del cinema in costume, alla riduzione colta e all’operazione sofisticata, metà popolare, metà intellettuale. Il film offre al contrario «un Soldati nuovo, e non – come verrebbe spontaneo dire – un Soldati che ha ritrovato se stesso. La provinciale è diversa tanto dai film composti “con la mano sinistra” […] quanto dalle opere del dignitoso esordio del regista, e da Piccolo mondo antico soprattutto». Il precedente, semmai, è da cercare in Quartieri alti, sofferto e diviso, che in tempo di guerra faceva i conti, tra commedia e noir, con il ventennio, il suo cinema e i suoi sogni, dando voce a «un mondo “minore” avviato alla decadenza». Ma del film, a distanza di quasi dieci anni, più che i temi sembra tornare sopratutto l’attitudine narrativa da “spettatore crudele”. E il risultato – la critica, ogni tanto, va d’accordo con gli autori – è «il film migliore di Soldati». Gemma, figlia di un’affittacamere, si innamora di Paolo Sartori, un giovane appartenente a una ricca e nobile famiglia romana, presso la quale la ragazza è solita trascorrere l’estate prima di tornare alla sua vita sonnolenta. Ricambiata nel sentimento, attende la dichiarazione di Paolo, ma prima che tutto si spinga troppo oltre, la madre le confida che il ragazzo è in realtà suo fratellastro: in gioventù ha infatti intrecciato una relazione adulterina con il conte Sartori, da cui è nata Gemma, mai riconosciuta dal padre anche se questo si è impegnato a provvedere alla sua dote. Gemma è distrutta e, un po’ spinta dalla madre, un po’ per consolarsi, comincia a frequentare il nuovo inquilino, il professor Franco Vagnuzzi, docente di fisica. Finirà per sposarlo, ma senza convinzione. Poco dopo, incontra una nobile espatriata, Elvira Coceanu, di cui diventa confidente. Le giornate trascorrono adesso più liete e quando Gemma incontra per caso una conoscenza di gioventù, Luciano Vittoni, incoraggiata dall’amica intreccia una relazione adulterina. A poco a poco si svela però una realtà squallida: la Coceanu affitta a pagamento la sua casa all’uomo affinché possa godere della compagnia di Gemma. La situazione degenera quando la donna si trasferisce, non invitata, a vivere a casa sua, spingendola a prostituirsi. Così, quando giunge la notizia che Vagnuzzi è stato chiamato all’università di Roma, la Coceanu intravede la possibilità di approfittare della giovane e attraente amica in ambienti che conosce molto bene. Ma per Gemma è troppo: a cena, mentre festeggiano la nomina, la accoltella e racconta tutto a Franco, ottenendo la cacciata della sua aguzzina lievemente ferita. Gemma e il marito sono adesso decisi a impegnarsi nel loro matrimonio.
Per il suo ritorno alla «civiltà espressiva» (Castello, «Cinema», 15 marzo 1953), Soldati ripensa le atmosfere chiuse, intriganti e polverose della provincia di alcuni film precedenti, da quella fuori dal tempo di Tragica notte, che anticipa La provinciale anche per l’uso del flashback, a quella ottocentesca e francese ma attualissima di Eugenia Grandet. Alla continuità figurativa (e tematica, come vedremo) oppone però un rinnovamento radicale dei mezzi espressivi, realizzando il suo film più cinefilo e “d’autore”, in cui la tristezza naturalista del romanzo di Moravia risulta frantumata in una narrazione mossa e “modernista”, e rimontata in una sequenza narrativa in cui il cinema e le sue risorse linguistiche comunicano, prima di ogni immagine e di ogni parola, il senso profondo del racconto. Un “nuovo Soldati”, insomma, come scrive Bianchi. Ma senza esagerare: perché l’operazione è programmatica e “industriale”, come sempre, e guardando dal fondo della filmografia, La provinciale – che non semina novità significative per il futuro – appare soprattutto, oltre che il riscatto dal biennio delle pellicole commerciali, il risultato della ricerca di un ennesimo compromesso tra vecchio e nuovo. Per realizzarlo, Soldati, non senza un pizzico di utilitarismo, ricorre agli stilemi del cinema d’autore, di ieri (Welles) e di oggi (Antonioni), assumendoli come forme esteriori, adatte al “progetto” in corso ma prive di significati o valori ulteriori. Comportandosi dunque, nei confronti del nascente cinema moderno (lo dimostreranno anche, di lì a
poco, La mano dello straniero e La donna del fiume) da volgarizzatore o “generalizzatore” di risorse e patrimoni visivi e stilistici, come già aveva fatto nel suo rapporto con il Neorealismo. Un ruolo vissuto beffardamente, nel privato di una poetica e di una polemica silenziose, ma non senza conseguenze sui processi di scambio, comunicazione e conversione tra cinema medio e d’arte, in quel momento cruciale che coincide con l’esaurimento dell’esperienza neorealista, il dilagare del cinema commerciale e l’annuncio di nuovi talenti e inediti fermenti critici. All’amato Welles, ma già disperso e di seconda mano, sembra ricorrere in particolare per la struttura del film, che ricorda quella di Quarto potere (1941) non tanto per la serie di flashback affidati a “testimoni” diversi, ma perché la protagonista, Gemma, interpretata da una Lollobrigida ancora in fase di rodaggio, è, come Kane, l’oggetto muto dei commenti, delle ricostruzioni e delle ipotesi altrui, ferma a letto e incapace di reagire (fot. 67). Morta, almeno temporaneamente, e dunque impossibilitata a rispondere alle domande che la riguardano e che si affollano lungo tutto il primo tempo, innescando e chiudendo i flashback di Paolo, della madre e del marito (un bravissimo Ferzetti, premiato col Nastro d’argento), che vegliano il suo corpo muto, inerte, steso a letto dopo il ferimento della Coceanu. E un po’ come accade in Quarto potere, i racconti dei testimoni e i loro interrogativi presentano il personaggio da latitudini diverse, offrendo immagini moltiplicate della stessa persona, alla ricerca di una spiegazione per comprendere il presente e in particolare quell’ultimo, traumatico gesto di violenza che “l’immagine” non sa spiegare. Il mistero è insomma lo stesso che avvolge Kane, riassunto da una domanda di Franco: «Ma lei chi era? Chi è?».
FOT. 67
FOT. 68
La provinciale, tuttavia, non ritarda troppo la risposta, né la confina nello spazio intimo che lega lo spettatore al film. Il secondo tempo ha infatti per protagonista quasi assoluta Gemma, che prende la parola e, ferma a letto, spegne la luce e in un’atmosfera da confessionale noir, con il sole che filtra dalle persiane chiuse e ombreggia delicatamente i corpi, ricostruisce per lo spettatore e il marito, inginocchiato di fronte a lei, il tempo che separa i flashback della prima parte dal presente, un tempo abitato segretamente da una “seconda Gemma” (fot. 68). Perché come il film, anche la sua protagonista possiede un’anima divisa: «È come se fossi diventata doppia – confessa in preda ai fumi dell’alcool, nel corso della sua prima scappatella che innesca il meccanismo tragico della perdizione – e la Gemma numero uno non è contenta della Gemma numero due». Seguendo l’invito dell’amico, futuro amante, e della sua “protettrice”, Gemma annegherà a poco a poco la numero uno, la moglie fedele del professore Vagnuzzi, per riscoprire le speranze della giovinezza, quando sognava Roma, la ricchezza, le feste e i vestiti. E in questa sottolineatura della
doppiezza del personaggio, che si amplifica nella discrepanza tra la memoria del passato e la realtà del presente, si ritrova tutto Soldati e la sua poetica “pirandellista”, aggiornata nei modi e nei contenuti e piegata in dramma ma sostanzialmente invariata rispetto a film come Due milioni per un sorriso o Dora Nelson, in cui si giocava – a riparare tutto l’happy end – a essere altro, un doppio perduto e rimpianto oppure desiderato; il ruolo del cinema, parallelamente, da galleria degli specchi e macchina del tempo, viene integrato nel racconto attraverso il flashback. Gemma, non diversamente da Dora, si trova a sperimentare una doppia esistenza, ma mentre per la seconda si tratta di una recita, presto assorbita dalla realtà (a cui comunque porta qualcosa, trasferendolo dal sogno), la prima incarna, ai limiti della schizofrenia, due diversi modelli esistenziali, riassunti nell’immagine di una prima e di una seconda Gemma, l’una successiva all’altra. Il conflitto non è dunque tra una vita presente e reale e una futuristica e potenziale, ma tra due esperienze contigue, l’una passata, l’altra presente. È così che Soldati, pur partendo da un libro di quasi vent’anni prima, intercetta questioni più ampie, direttamente riferite al contesto ribollente della ricostruzione e alle trasformazioni che stanno investendo la società italiana, prima fra tutte quella del conflitto tra vita di provincia, a cui Gemma è dolorosamente inchiodata, e di metropoli, con il richiamo potente di Roma e della “villa”, di cui la ragazza conserva una fotografia appesa a un muro di casa, tra un’immagine di Cristo e l’altra, e che contempla e accarezza con cura devozionale. Ma è forse verso la difficoltà di pareggiare i conti con il passato che Soldati sbilancia il racconto, facendosi idealmente carico del rimosso legato alla guerra e incarnandolo nella figura, sgradevole ma riuscitissima, della Coceanu (Alda Mangini), una contessa romena in fuga dai bolscevichi e amica di tutti i grandi nomi dell’aristocrazia italiana, un’avventuriera dal passato oscuro che anticipa il dottor Vivaldi di La mano dello straniero, anch’egli dirottato dalla Storia verso un presente incerto (fot. 69). È lei, nel finale, a incrinare la rispettabilità borghese della casa in cui vivono Gemma e Franco, al grido di «Siete tutti marci, tutta l’Italia è marcia!»: marcia di segreti (la relazione adulterina della madre), di indifferenza (quella di Vagnuzzi per tutto ciò che non è scienza), di miserie affettive (gli amici e l’amante di Gemma, dipinti come rapaci e superficiali). E marce sono le parole (qui è lo scrittore Soldati che parla): le parole negate o trattenute si trasformano infatti nella prima causa del dolore dei personaggi, come per Paolo Sartori, che rimpiange l’amore non confessato al momento giusto, e immagina che quell’atto mancato sia all’origine della tragedia di Gemma, o come nel caso della madre, che commenta il suo flashback osservando «che sarebbe bastata una parola e niente forse sarebbe accaduto». E di parole è avaro Franco, immerso nelle pagine dei suoi libri.
FOT. 69
Attraverso il romanzo psicologico di Gemma, Soldati mette dunque sotto analisi e interrogatorio il corpo sociale dell’Italia di quegli anni, muovendosi nella storia e nella geografia e abbracciando idealmente tutte le condizioni sociali e ambientali. E se in molti si ostinano a parlare, anche in questo caso, di tendenza neorealista, a uno sguardo più attento ci si rende conto che gli strumenti impiegati dal regista prendono di nuovo le distanze dal movimento: a livello narrativo, anzitutto, e non solo per la linearità spezzata del racconto ma in ragione di quel continuo interrogare, dubitare, ipotizzare delle voci fuoricampo nella loro analisi della realtà, in decisa controtendenza rispetto alla
moda della voce impersonale, autoritaria e assertiva di tante pellicole neorealiste, che incornicia i fatti testimoniandone la veridicità e spremendo una lezione morale. E poi, non meno vistosamente, per un simbolismo sfrenato che ne fa quasi un film viscontiano: con le finestre e le porte, continuamente aperte e chiuse, chiamate a tradurre significati e sussulti emotivi dei personaggi, come svelano per esempio il primo flashback di Sartori, in cui l’occasione perduta («Le parole che Gemma aspettava da me, non ho mai avuto abbastanza coraggio di dirgliele, allora, e nemmeno più tardi, purtroppo») trova un corrispondente visivo nelle tre finestre che, in punti diversi della facciata del palazzo di famiglia, si chiudono allo stesso tempo, o come nel finale, con Gemma e Franco finalmente “fuori”, sul balcone di casa, lo sguardo lontano (epilogo esattamente opposto a quello di Tragica notte, in cui Armida chiudeva l’uscio di casa, sconsolata, e curiosamente ricalcato su un disegno di Longanesi del ’43, riferito all’addio romano, in tempo di guerra, tra il regista e la compagna Jucci). Altrettanto insistito è il ricorso all’immagine riflessa, negli specchi ma anche sui vetri (fot. 70), a rafforzare l’evanescenza della realtà e la sua ambiguità ontologica, mentre le musiche di Mannino, moderne e jazzistiche, non si limitano ad accompagnare ma traducono, astraendoli, i sentimenti di Gemma, magari in continuità con il rumore delle cose, come nella scena in cui la ragazza attende la lettera di Paolo e la sveglia rintocca in modo assordante per poi sfumare in una melodia sincopata.
FOT. 70
Nell’anno in cui Senso accende la polemica sul realismo, questa “tragedia della vanità” («Cahiers du Cinéma», n. 37, 1954) è, in breve, un dono prezioso sulla strada che conduce definitivamente fuori dal cinema del dopoguerra, alla ricerca di un “ritorno alla finzione” che riabilita, tra le altre cose, il riutilizzo di romanzi e racconti, che si fa programmatico nel film successivo, “Il ventaglino”, compreso in Questa è la vita, prodotto dalla Fortunia Film e distribuito all’inizio del 1954, e significativamente introdotto da un prologo-manifesto (letto da Emilio Cigoli): «Il cinema, a una delle sue svolte più caratteristiche, prese dalla vita elementi veri per rappresentare delle finzioni. Avemmo così sullo schermo operai, pescatori, professori, eccetera, che seppero rendere a volte con notevole dignità e autorità i loro personaggi. Rappresentarono, cioè, se stessi. La Fortunia Film ha voluto invertire i termini e ha dato a registi e ad attori professionisti un autore che ha scritto della vita e per la vita, soprattutto forse per l’insegnamento che da essa può venire…». L’autore in questione è Luigi Pirandello, di cui vengono riprese quattro novelle, affidate ad altrettanti interpreti: “La giara” a Pàstina, “La patente” a Zampa, “Marsina stretta” a Fabrizi e, seconda nel montaggio definitivo, “Il ventaglino” a Soldati. Il regista ritrova così, a più di vent’anni da Acciaio, il “Maestro” e, assieme a Bassani, sceneggia con maestria questo «inno alla vita, che è fatta anche di adorabili, inutili, fatue cose», come si dice nel prologo, tutto en plein air e sbilanciato verso il ritratto d’ambiente. Una ragazza-madre, trasferitasi a Roma, senza casa e senza soldi, si aggira nel parco con il suo bambino, chiedendo l’elemosina. Riceve un pezzo di pane da un’anziana e poi due bajocchi da una ricca signora. Ma anziché comprare del cibo, li spende per un ventaglino di carta con cui attira l’attenzione di due corazzieri in libera uscita.
La vita nel parco, in cui si mescolano e specchiano ricchi e poveri (eloquente il controcampo che
oppone alla protagonista la donna borghese con il figlio), il passaggio della banda, la saggezza dei vecchi, le avance di un militare e un po’ di morale: Soldati approfitta di questa gradevole novella per un ritratto in piccolo dell’assunto dimostrativo del titolo, confezionando un divertissement (è l’episodio più breve dei quattro) diretto con grande economia di mezzi, complice la bellezza popolare e al tempo stesso sofisticata di Myriam Bru, che con gli occhi, a cui la miseria non ha sottratto malizia, risolve il finale (fot. 71). Ma più che altro “Il ventaglino” si segnala perché rappresenta l’incursione di Soldati, novelliere di razza, in un “genere” negletto (come denuncia, tra gli altri, «Cinema Nuovo» in un articolo del marzo ’54, significativamente intitolato Novellistica d’evasione) ma assai popolare all’epoca, inaugurato da Altri tempi di Blasetti (1951) e arricchitosi velocemente di titoli commerciali e “d’autore”, da Villa Borghese di Franciolini (1953) a L’oro di Napoli di De Sica (1954) alle “compilation” come Amori di mezzo secolo (1953, regia di Pellegrini, Pietrangeli, Germi, Chiari, Rossellini) e Destini di donne (1954, regia di Pagliero, Delannoy e Christian-Jacque). Per Soldati si tratta di un esperimento in un certo senso “inevitabile” che però, in rapporto alla sua filmografia, trova una giustificazione e una coerenza più profonde in quell’“inversione dei termini” – dalla realtà che si racconta come “se stessa” al “professionismo” della finzione – che presiede alla realizzazione del progetto e che riassume benissimo la poetica soldatiana: questo è il (suo) cinema, da sempre.
FOT. 71
Distribuito nell’estate del ’54, La mano dello straniero, in bilico tra noir e detection story, resta, almeno all’apparenza, un episodio isolato, soprattutto per quanto riguarda il genere, anche se di noir sono colorati sia Fuga in Francia che Quel bandito sono io. Il film, in effetti, arriva dall’esterno, progettato a tavolino dagli inglesi John Stafford e Peter Moore, che sperano di replicare il successo di Il terzo uomo (1949) riproponendo gli elementi più significativi del film di Reed, dallo sceneggiatore Graham Greene (qui anche produttore) agli interpreti Alida Valli (doppiata da Lidia Simoneschi) e Trevor Howard al fascino decadente di un’ambientazione europea. Ma la scelta di Soldati non sorprende, e anzi conferma indirettamente l’alto “mestiere”, la versatilità e l’intelligenza professionale che sono ormai il marchio più riconoscibile, nell’industria italiana e non, di questo regista che a quasi vent’anni dal suo debutto ha frequentato tutti o quasi i generi e alternato condizioni produttive che vanno dalla serie A alla B, dalla co-produzione internazionale al piccolo film “domestico”, senza per questo scendere mai al di sotto di una qualità media e dedicando lo stesso impegno e un’identica serietà professionale alla trasposizione colta come al film di cassetta. Qui in particolare, a proposito di generi e registri, Soldati vivifica il noir con un vigoroso tratto di “realismo poetico” (operazione simmetrica e opposta a quella di Fuga in Francia), celebrandone l’incontro grazie al suo tipico classicismo affabulatorio: omaggia De Sica e Rossellini – con tanto di “tempi morti” e inserti descrittivi – nella messa in scena della detection del piccolo Roger tra le strade di Venezia, e somiglia a Dassin nella rinuncia alla metafisica cromatica e ideologica del genere, per cui il sofisticato gioco di luci e ombre orchestrato dal direttore della fotografia di Antonioni, Enzo Serafin (reduce dagli sperimentali Le due verità di Leonviola (1951) e The Medium (1951) di Gian Carlo Menotti), contribuisce soprattutto a dotare il film di uno spiccato verismo descrittivo. Scelte che, alla fine, si rivelano perfettamente intonate allo spirito del plot di Greene,
uno scrittore abituato a confondere le carte tra fiction e non-fiction, su cui interviene Bassani. A Venezia, in una stanza del Grand Hotel, il piccolo Roger attende l’arrivo del padre, il maggiore Court, che non vede da tre anni. Ma l’attesa è vana: l’uomo, infatti, dopo aver incontrato in vaporetto un vecchio amico, Peskovitch, scortato da tre loschi individui dall’accento straniero, resta insospettito dal suo atteggiamento catatonico e decide di seguirlo. Finisce così in trappola e drogato nello strano laboratorio-ospedale del dottor Vivaldi. Intanto Roger, dopo aver denunciato la sparizione del padre, si mette a cercarlo, incappando per caso in Vivaldi, che gli offre un gelato. Triste e solo, egli viene consolato dalla segretaria dell’albergo, Roberta Gleukovitch, una profuga jugoslava che gli racconta del rapimento di Peskovitch, amico degli inglesi e figura di spicco nel suo Paese; Roberta ipotizza che suo padre possa essere stato catturato “perché sapeva troppo”. Intanto, Vivaldi dice al maggiore di aver incontrato Roger, per caso; e di nuovo lo incontrerà quando la polizia, ormai convinta (anche grazie a una falsa testimonianza) del rapimento del maggiore, condurrà il bambino nel laboratorio del dottore. Roger, tuttavia, non riconosce il padre, narcotizzato, pallido e con la barba lunga. Solo più tardi, e per caso, capisce di essersi sbagliato, ma Roberta non gli crede e a causa sua ha un litigio con il fidanzato, Joe, spedizioniere ed ex marinaio, che insiste per riportarlo al consolato. Roger non si arrende, e quando fa notte esce da solo per andare da Vivaldi. Ma il padre non c’è più, mentre vi trova Joe, che alla fine ha creduto alle sue parole. Scoprono che il dottore, assieme ai malati, ha lasciato la casa due ore prima. Roberta suggerisce che potrebbero trovarsi su una nave in partenza, battente bandiera straniera. Ma per ragioni politiche la polizia non può perquisirla. Joe vi appicca dunque un incendio, creando le condizioni perché vi si possa salire a bordo, arrestando i colpevoli e liberando Court.
Il film, co-prodotto per l’Italia da Rizzoli, si rivela un insuccesso al botteghino e subisce l’unanime stroncatura della critica. Pesa del resto, sulla sua riuscita, una produzione travagliata, le cui ferite restano visibili e che Soldati ricorda così: «Quanta fatica per portare in porto quel dannato film, con un produttore che già aveva impegnato i capitali ricevuti in un affare edilizio e mi pregava di accettare quel che passava il convento pur di non mandare a monte la produzione. Tanti anni dopo l’ho ritrovato a New York, era diventato il segretario di Dalì […] Io ci credevo, e tanto, nella sceneggiatura di Graham Greene […]. A ben guardare anticipava i tempi […] alludeva a fatti e misteri che la cronaca ha poi svelato […]» (Claudio Bertieri, “Conversando con Soldati”, in AA.VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, cit.). Il film esce inoltre in un momento di crisi e di trasformazione del mercato e dell’industria cinematografica italiana che Di Giammatteo definisce di vera e propria “decadenza”, causata in particolare dal moltiplicarsi impazzito di film che hanno il valore di una speculazione in borsa e l’aspetto di imprese commerciali pure e semplici. Soldati ne è uscito appena prima, tornando nel 1953 a un cinema più scritto e pensato; e La mano dello straniero, oltre a confermare le scelte del “terzo” Soldati annunciate da La provinciale (un progressivo abbandono del nazional-popolare a favore di un’italianità da esportazione), testimonia molto bene dei bivi e delle insicurezze del cinema del tempo, lanciato alla ricerca di nuove vie tra l’idillio moralizzato (Due soldi di speranza, di Renato Castellani, 1951) e la deformazione triviale del comico (Don Camillo) che, secondo Muscetta, rappresentano i poli estremi dell’estetica cinematografica dei primi anni Cinquanta, incerta sui passi da muovere all’indomani della certificazione di morte del Neorealismo. Soldati aderisce dunque entusiasticamente a un esperimento “impuro”, di scambio e mélange, che sotto il marchio di genere nasconde ombre d’attualità (la cortina di ferro e i rapporti tra Jugoslavia e Russia, modificatisi però in corso d’opera, con la firma del Patto Balcanico) e contamina i diktat del noir con una robusta ispirazione realistica, declinando il proprio internazionalismo produttivo in estetica. Gli effetti di realtà che attraversano La mano dello straniero, più esattamente, testimoniano di una incertezza “storica” che Soldati sa piegare in risorsa, libero com’è da purismi estetici e rigidità ideologiche, sulla strada di un restyling del “nazionale” in versione esportazione – strategica sia rispetto alla crisi di idee dell’industria, sia in relazione a quel processo di costruzione dell’identità di cui egli è stato uno dei maggiori officianti.
FOT. 72
Partecipe dunque di un momento di crisi, rinnovamento e ridefinizione degli equilibri dell’industria e dell’estetica cinematografica, La mano dello straniero finisce per essere non tanto un film incompiuto o sbilanciato, come la critica del tempo decretò, quanto, piuttosto, un esperimento sul piano del racconto, dove logiche ferree da giallo di ispirazione hitchcockiana finiscono per essere sporcate da un movimento inerziale di stampo neorealistico, come se la materia calda e porosa della Venezia caotica e popolare che fa da sfondo alla vicenda (fot. 72), tra interni umili e angoli misteriosi, bar, piazze, chiese e porticcioli, ponesse resistenza alla possibilità di un racconto lanciato verso la sua conclusione nel gioco specchiato delle cause e degli effetti. Tra un uomo che sa troppo – il maggiore Court – e suo figlio Roger, che non ricorda il padre (né lo riconosce vedendolo) e non sa dov’è la madre, sballottato dalla zia in giro per l’Europa, è quest’ultimo a guidare la ricerca, detective imperfetto che gironzola a vuoto accompagnato dalle musiche di Nino Rota, si lascia distrarre dalle meraviglie della città e dalla promessa di un gelato, vorrebbe agire e invece è costretto a reagire, a rispondere anziché a porre domande, a cercare aiuto anziché a prestarlo. E del resto il film, servito in questo da una città evanescente e provvisoria, cosmopolita e “di passaggio”, tra alberghi, consolati e navi in partenza, allenta rapidamente le corde della detection per fare di Roger lo specchio di rifrazione di un dramma dell’identità e dell’appartenenza di attualità storicopolitica. Esso coinvolge tutti i personaggi, stranieri a se stessi, ai luoghi che abitano e alle vite che vivono: il dottor Vivaldi, ormai solo, separato da un passato in cui è stato felice e adesso perennemente in movimento, tra la fuga e la peregrinazione; Roberta, profuga e segretaria in un albergo, amante sterile di un marinaio inglese convertitosi al contrabbando; il maggiore Court, senza più moglie, con un figlio che non vede da tre anni e impiegato nella frontaliera Trieste, che finisce nell’oblio dei sedativi. Attraverso Vivaldi, poi, che cita Norimberga, si definisce un profugo che ha tutta l’aria – per quanto ufficialmente “tecnico disoccupato” – di un medico-scienziato del Terzo Reich, il dramma identitario si allarga ulteriormente a comprendere le cesure storiche tra passato, presente e futuro lasciate in eredità dalla guerra (mai direttamente nominata ma presentissima). Trasformando così l’incertezza e il vacillamento di luoghi e individui in “filosofia”, con Venezia, ancora una volta, promossa da fondale a agente attivo del racconto, a partire da un’abilità tipicamente soldatiana di incastrare luoghi, trame e personaggi. Greene, da parte sua, inventore di personaggi coi piedi nella storia e la testa nella fiction, conferisce a Vivaldi, interpretato dall’italoamericano Eduardo Ciannelli, un’ambiguità solo in apparenza luciferina, attribuendogli un passato umano (che affiora per cenni e occhiate dolorose nel dialogo con Roger) e un presente indifferente, quasi fosse lo strumento volontario ma tutto sommato innocente di un disegno più grande cui sembra, se non impossibile, almeno vano sfuggire. E infatti, a un certo punto, il dottore – che Soldati avrebbe voluto vestire di bianco per accentuarne l’ambiguità – arriva a citare Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler a giustificazione del meschino traffico di politici e militari dall’Italia alla Jugoslavia in cui è coinvolto (fot. 73): «A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi».
FOT. 73
Sottratto allo stereotipo dello “scienziato pazzo” e connotato in senso filosofico, il personaggio di Vivaldi, come la Venezia a cui si rivolge per dimostrare la marcescenza a cui tutto è votato, tinge il racconto di sfumature ideologiche in cui sembrano affrontarsi, anche se forse un po’ ingenuamente, due atteggiamenti opposti sul futuro dell’umanità, polarizzati geograficamente (la vecchia Europa uscita sconfitta dalla guerra e quella vittoriosa dell’inglese Court) ma anche cinematograficamente (il [neo]realismo e il noir). Vivaldi, quasi ossessionato dalla lettura spengleriana, non vede che uno «sporco futuro», con l’Occidente lanciato verso la china discendente dell’evoluzione “organica” della Storia, a cui non resta che concedersi fatalisticamente («bisogna abbandonarsi alla corrente»). Dall’altra parte, l’ottimismo antropocentrico e liberale di Court, «che crede nella speranza» e nelle possibilità dell’uomo – della sua scienza e della sua tecnica – di approntare un diverso epilogo e farsi arbitro del destino dell’umanità. Ma Soldati, alla fine, sceglie di “stare basso”, rimandando idealmente la soluzione della disputa allo spettatore e aderendo al punto di vista di Roger, lanciato tra le calli strette e affollate di una Venezia senza cieli, osservata ad altezza di bambino, per metà guidato dal raziocinio (Roger è un boy-scout, conosce l’alfabeto Morse e organizza il suo percorso secondo una curiosa regola “del sette”), per metà manipolato dagli schemi labirintici della Laguna e travolto dal suo fascino misterioso, esemplificato da un altarino votivo in cui un Sant’Antonio sbozzato senza alcuna arte stringe un bambino privo della testa, come Roger eternamente separato dal padre (fot. 74). E se il finale è classicamente happy, con il figlio che riabbraccia il padre e il losco traffico di uomini tra un Paese e l’altro sgominato, la chiusura lascia volutamente irrisolte le inquietudini disseminate lungo il racconto dallo scontro tra una visione apocalittica e una ottimista del futuro dell’umanità. Con il film successivo, invece, le incertezze e doppiezze che attraversano stilisticamente La mano dello straniero, rendendolo più simile a un “lavoro in corso”, troveranno una soluzione perfettamente intonata ai tempi nuovi nell’esaltazione dei contrasti, nella citazione diffusa, nella stereotipia denunciata e nel riuso smaccato; tempi segnati, tra l’altro, e non senza conseguenze, dall’avvio di una regolare programmazione televisiva. Che s’inaugura il 3 gennaio 1954 con Le miserie del signor Travet trasmesso prima di L’osteria della posta di Goldoni.
FOT. 74
Se La mano dello straniero, come detto, sembra girato ad altezza bambino, La donna del fiume, realizzato tra il luglio e l’ottobre del ’54 e distribuito un anno dopo, mantiene con una certa continuità uno sguardo ad “altezza gambe”: quelle, bellissime e popolari, di Sophia Loren, che fin dalla sequenza d’apertura si impongono come l’attrazione principale del film, almeno nella prima
parte, che ha il tono della commedia e prepara l’irruzione del dramma nella seconda. Del resto, sotto il profilo industriale, La donna del fiume ha di mira soprattutto il definitivo ingresso della sua interprete nel pantheon divistico. E Soldati, chiamato a pochi giorni dall’inizio delle riprese in sostituzione di Basilio Franchina, vi partecipa «come uno dei tanti ingredienti che Ponti voleva mettere per lanciare la Loren», attorno al cui corpo il produttore, in coppia con De Laurentiis e in co-produzione con la francese Les Films du Centaure, imbastisce un progetto fondato sul sapiente (almeno in termini commerciali) riutilizzo di stereotipi figurativi, narrativi e drammaturgici rubati al cinema italiano e internazionale ma anche alle riviste di moda e al teatro popolare, e che, centrifugati, fanno di La donna del fiume un curioso film “vetrina”, in cui la Loren e il cinema stesso sono perennemente in mostra, esibiti più che narrati. Gino è un contrabbandiere invaghito della bella Nives, operaia presso l’Azienda Comunale delle Valli di Comacchio dove si effettua la marinatura delle anguille. Da quando ha perso i genitori, la ragazza vive in una casa isolata sul fiume e prova per Gino un sentimento misto di amore e odio. Durante una festa di paese viene importunata e, in breve, la situazione degenera; per fortuna, poco prima che giunga la polizia, Gino carica la ragazza in motocicletta e fugge con lei, vincendo ogni sua resistenza. L’uomo si trasferisce a vivere da Nives, iniziando una tenera storia d’amore di nascosto da tutti. Un giorno, però, senza dir nulla, Gino – che nel frattempo ha fatto capire di non volersi impegnare – parte per Trieste. Passano due mesi, e durante la sua assenza Cinti, il poliziotto del paese, comincia a frequentare assiduamente la casa di Nives, senza nascondere il desiderio di sposarla pur sapendo della sua relazione con il contrabbandiere. La relazione tra Nives e Gino si interrompe definitivamente quando lei scopre di aspettare un bambino che l’uomo, tornato da Trieste, non vuole, e per vendicarsi lo denuncia alla polizia. Passano poco più di due anni, e di Nives non si sa più nulla, ha cambiato lavoro e lasciato Comacchio. Cinti si mette a cercarla non appena apprende dell’evasione di Gino (che nutre propositi di vendetta), trovandola sulle rive del Po, sola con il bambino, a lavorare al taglio delle canne. Mentre discutono, il piccolo si perde: verrà trovato a tarda sera, annegato. Durante la veglia funebre arriva Gino che, impressionato dalla morte del figlio che aveva rifiutato, decide di consegnarsi alla polizia, non prima di essersi riappacificato con Nives.
Primo film a colori di Soldati (fotografato da Otello Martelli), La donna del fiume è anche uno dei più compromessi della sua carriera, sul quale pesano in modo quasi soffocante gli obiettivi e le decisioni del giovane produttore, già compagno della Loren. Il regista, che ha sempre avuto parole sprezzanti per la coppia Ponti-De Laurentiis (con qualche esagerazione: «Sono stato rovinato come artista dalla combutta fra la simpatica Lux e i simpatici Ponti e De Laurentiis»), paragona La donna del fiume a «una paella alla valenciana, dove il Ponti ha detto: “Voglio il film con Sophia Loren, ci dovete mettere la motocicletta, ci dovete mettere il ballo, ci dovete mettere il bambino che muore, ci dovete mettere la ricerca del bambino che muore, tutto deve finire male, però deve finire bene, lei deve essere madre, lei deve essere attrice, lei deve andare in bicicletta, lei deve…”. Il povero Bassani si è messo lì e abbiamo cercato di fare questo film che nonostante tutto è riuscito ad avere qualche tratto buono, qualche tratto autentico» (FF, p. 175). Con Bassani e Soldati partecipano alla sceneggiatura Pasolini, Altoviti, Vancini e Franchina, mentre il soggetto porta la firma di Flaiano e Moravia: un pool straordinario di letterati e “cinematografari” (raro non per numero, nel cinema italiano di quegli anni, ma per qualità) chiamati a dosare gli ingredienti suggeriti da Ponti sotto la guida di Soldati, che in quest’ultima fase della sua carriera, come dimostrano anche La provinciale e La mano dello straniero, e come confermerà Era di venerdì 17, sembra intenzionato a riscattare il periodo della comicità autarchica dei primi anni Cinquanta con pellicole a vocazione “internazionale”, capaci di rinegoziare il patrimonio visivo e culturale del più recente cinema italiano – neorealistico, rosa e mélo – nel confronto con la complessità mediale e l’immaginario consumistico, gettando contemporaneamente uno sguardo al cinema americano e uno all’italianità predigerita dei film da esportazione.
FOT. 75
Il risultato è un film nutrito del richiamo intertestuale ad altri titoli, personaggi, trame e scene, a metà tra stereotipo, citazione e allusione vaga ma persistente, incorniciato da una simbologia grezza e spicciola, prettamente melodrammatica, in cui si oppongono gli azzurri smaltati del privato di Nives – la cui casa (fot. 75) è isolata dall’acqua di un fiume che le dà la vita e la morte – e i rossi aranciati del fuoco delle fornaci, spazio pubblico e “bruciante” in cui il segreto del suo amore con Gino deve restare nascosto (fot. 76). Coerentemente, anche dal punto di vista stilistico La donna del fiume se ne sta in bilico tra finzione pop, con i suoi colori ipersaturi e caramellati, e sguardo documentaristico-verista, a comporre un mosaico in cui appaiono evocate, per via metonimica, le molte anime del cinema italiano di quegli anni, dal bozzettismo mélocomico al dramma mélotragico, lasciando però le contraddizioni aperte e i “numeri” irrelati, amalgamando quindi gli ingredienti un po’ frettolosamente. Conseguenza, anche, di una sceneggiatura non a dodici mani ma a sei teste relativamente indipendenti, a cui ciascun autore ha contribuito ideando o perfezionando singole parti del film sotto la supervisione di Bassani e Soldati.
FOT. 76
Il riferimento più immediato è a Riso amaro (e al modo di produzione Lux), nella caratterizzazione dei personaggi e nel sottotesto giallo, ma anche in quel mambo che ritma tutta la prima parte, suonato o canticchiato da Nives; l’omaggio più esplicito è invece a Paisà (proprio negli anni in cui, sulle pagine dell’«Avanti!», dell’«Unità» e di «Cinema Nuovo», si discute dell’eredità neorealista), dal quale La donna del fiume, idealmente, riparte, ambientando la vicenda sullo sfondo delle Valli di Comacchio dell’ultimo episodio rosselliniano, dove ai partigiani si sono nel frattempo sostituiti i contrabbandieri. In linea con la sua estetica citazionista e carnevalesca, poi, nella prima parte la scenografia alterna gli interni “veri” (ma virati Eastmancolor) della fabbrica in cui si lavorano le anguille e alcuni squarci bassaniani di città (fot. 77), alla casa di Nives, teatro iperrealista del melodramma, per lasciare in seguito spazio all’ambientazione semi-documentaristica, povera e dialettale della seconda, che sarebbe quasi pasoliniana, più che neorealista, se non finisse per ritirarsi alle spalle dei primi piani di dolore della Loren (fot. 78): tragedia tutta hollywoodiana, “messa in posa”, e per questo lontana sia dal riferimento immediato (la Valli di Piccolo mondo antico) che dal modello femminile evocato quasi plasticamente, ossia la Magnani di Roma città aperta.
FOT. 77
FOT. 78
Film-attrazione, smaltato ed episodico, con le diverse parti che quasi non comunicano, rivelandosi semplicemente funzionali all’esibizione delle doti attoriali della Loren nell’escalation femminina da giovane attraente a amante premurosa nonché madre coraggiosa, La donna del fiume possiede tuttavia un fascino “pop”, da classicismo “stracciato” tipico della Hollywood anni Cinquanta, dovuto proprio all’imporsi dei valori merceologici e alla sfacciataggine dell’immaginario radunato. La messa a morte del mezzo professata dal neorealismo è lontana, e Soldati, che a quella condanna non ha mai creduto, reagisce adesso con l’esibizione quasi virtuosistica degli apparati della finzione. La circolazione tra vero e falso è quindi incessante, e il punto d’arrivo è un finto cinefilo, intellettuale e iperrealista dai troppi gusti mescolati insieme ma nel complesso attraente, se non altro per la sua animazione pittoresca; “raffigurare”, anziché “rappresentare”, è del resto, in quegli anni, una delle parole chiave del dibattito critico-teorico sul realismo. E se il film è “sbagliato”, come osserva Vittorio Bonicelli recensendolo su «Il Tempo» (10 novembre ’55), lo è proprio per la sua anima divisa e il suo “industrialismo” progettuale, che finisce per raddoppiare lo sbaglio: «quando si sforza di essere peggiore di quanto sia lecito al gusto (questa è la strada su cui va il cinema italiano nella sua follia di autodistruzione) e quando riesce ad apparire migliore di quanto gli stessi autori del film avessero previsto e desiderato». Di certo, la regia “anatomica” a cui Soldati presta il fianco e che si prolunga e moltiplica idealmente negli sguardi dei tanti personaggi maschili che osservano, e qualche volta toccano, Nives (Gino soprattutto, che le parla d’amore con gli occhi fissi un po’ più in basso), evacua dal film ogni pretesa “sociale” o populista (l’eredità più ingestibile del Neorealismo), esibendo semmai, indirettamente, e soprattutto nella prima parte, un immaginario oggettuale e una scenografia sociale in cui si amministra la quotidianità – con accenti da idillio rosa – e al tempo stesso si comincia a elaborare il sogno capitalistico dell’Italia della ricostruzione, in attesa del boom economico, tra una festa di paese e una folle corsa in motocicletta. La tragedia individuale di Nives e il conflitto sociale e di classe, col triangolo appena accennato che sottintende anche una geometria “politica” nell’opposizione tra Gino e Cinti, tutore della legge ma più ambiguo del fuorilegge, risultano insomma sopraffatti dallo schematismo melodrammatico, e le lacrime del secondo tempo sono offerte, “già piante”, all’orizzonte d’attese del pubblico in ossequio alle regole di genere.
FOT. 79
Eppure non mancano alcuni spunti “contestatari” e l’eco di inquietudini nuove, a partire dal ruolo dei “maledeti schei” (l’evoluzione naturale dei milioni sorridenti delle commedie bianche) che ossessionano la vita di Gino, figura che non soltanto nel nome, ma anche nel desiderio di fuga e nell’instabilità sentimentale e ideologica, ricorda il protagonista maschile di Ossessione (anche nel film di Visconti del 1943 il paesaggio è quello del Po). L’uomo, interpretato da Rick Battaglia (fot. 79) e ricalcato sul Gassman di Riso amaro e Anna, finisce così per raccogliere su di sé contraddizioni e incompiutezze più generali, che lo individuano come figura perennemente in bilico tra legalità e illegalità, giorno e notte, femminile e maschile, vita dei sensi e ordine sociale. Ma la promettente complessità di Rick è il tratto che più di ogni altro finisce schiacciato dal perenne primo piano sulla Loren e dalla discontinuità della sceneggiatura, rendendo la sua “conversione” parareligiosa dell’epilogo un aggiustamento frettoloso. Allo stesso modo, l’altro “punto di crisi” sfiorato dal film – quello relativo all’istituzione familiare – resta solo accennato, bruciato dall’urgenza melodrammatica e dalla bidimensionalità della confezione: la discontinuità tra la devozione di Nives alla memoria dei genitori e alla casa in cui ha vissuto con loro, le sue resistenze amorose e l’improvviso desiderio di metter su famiglia resta così inesplorata, privando il personaggio di complessità psicologica e rimandando tutto al gesto e alla fisicità. Ma nonostante questo il film consegna – assieme alla diva Loren – un personaggio bello e moderno, figlio dell’Italia popolare e contadina e consapevole del proprio potere femminile. Un’immagine “positiva” di forza e fertilità la cui “morale” non sta nelle preghiere che accompagnano il funerale finale ma nell’allegria di un motivetto del Quartetto Cetra: «Non ti fidar, di un bacio a mezzanotte…», cantano le donne al lavoro coi piedi a mollo, che al ritmo di quella musica e al senso spicciolo di quelle parole affidano la cura del dolore e la celebrazione della gioia, legate a doppio filo ai capricci del loro fiume. Nel ’55, prima del trittico conclusivo che potrebbe essere radunato sotto il titolo comune di Italia piccola, Soldati, che nel ’48 aveva dovuto rescindere il contratto con Selznick a causa della mancata concessione del visto alla compagna Jucci, si trova sul set di un film (quasi) hollywoodiano, Guerra e pace, prodotto dalla coppia Ponti-De Laurentiis, girato prevalentemente a Roma e sceneggiato, oltre che dallo stesso Soldati e Irvin Shaw, da una truppa di italiani tra cui figurano Mario Camerini, Ennio De Concini e Ivo Perilli. Il regista è King Vidor, quasi a fine carriera, e a impreziosire l’operazione ci pensa un manipolo di star infilate in un classico cast da co-produzione (Audrey Hepburn, Mel Ferrer e Henry Fonda accanto a Vittorio Gassman, May Britt, Marisa Allasio…). Per qualcuno (Mereghetti) il contributo di Soldati, chiamato a dirigere la seconda unità nella sequenza del passaggio in ritirata della Beresina, ricostruita nei pressi di Valenza (ma, stando a lui, gira anche quello che concerne il generale Koutouzov e la casa del principe Andrea), è tra le poche cose salvabili di un film interminabile e fuori tempo massimo. In realtà, un po’ come accade di fronte alle “mezze regie” internazionali degli esordi, sembra difficile distinguere il lavoro dell’italiano da quello dell’americano, soprattutto perché la sceneggiatura, com’era abitudine di Vidor, viene disegnata inquadratura per inquadratura e ogni dettaglio previsto in anticipo, attraverso un minuzioso lavoro di pre-produzione che rende la fase delle riprese quasi puramente esecutiva.
Niente, invece, realizza Soldati per l’altro kolossal in cui è coinvolto in questi anni, Ben Hur (1959), chiamato sul set di Policarpo, ufficiale di scrittura prima di cominciare a dirigerne una delle seconde unità; ma l’incontro con Wyler, di cui diventa amico, non è senza conseguenze: resta infatti impressionato dal modo di lavorare del celebre regista, che procede lento, paziente, girando ogni scena più e più volte e da angolazioni diverse. Al punto da riconoscere che «se fossi stato l’aiuto regista di Wyler anziché di Camerini e Blasetti – che erano determinati e forti ma un po’ troppo agitati – avrei capito qualcosa in più. L’insegnamento di Wyler arrivò troppo tardi, […] tuttavia, ho fatto Policarpo pensando moltissimo a Wyler e, secondo me, questo si vede nel modo in cui è girato». Policarpo chiude infatti la carriera registica di Soldati, almeno per quanto riguarda il cinema, completando una trilogia piuttosto compatta aperta da Era di venerdì 17 e continuata con Italia piccola, girati nello stesso anno, il 1957. Nel futuro, anticipato dalle dodici puntate di Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, realizzate tra il ’55 e il ’56 e programmate dalla Rai l’anno successivo, ci saranno la televisione, il giornalismo e, soprattutto, la letteratura, dopo che il successo di Le lettere da Capri (1954), vincitore del premio Strega, la pubblicazione di La confessione (1955) e la ristampa di America primo amore (1956) hanno fatto di Soldati uno degli scrittori più popolari d’Italia (Mondadori, nel ’59, avvia la pubblicazione di tutte le sue opere nella collana Narratori Italiani). Il cinema si estingue così, a poco a poco, nel predominio della letteratura, assorbito dal prevalere di un’occupazione sull’altra ma anche a causa di fenomeni di scambio sempre più pronunciati tra i due “formati”, grazie ai quali Soldati sembra raggiungere finalmente un equilibrio creativo in cui la seconda, abituata da sempre a “vampirizzare” il primo, vi si sostituisce quasi insensibilmente. Di questo allentarsi della “separazione delle carriere” fanno fede i tre capitoli conclusivi, in cui si specchia in modo più diretto l’opera dello scrittore e, al tempo stesso, riemergono discorsi iniziati dal regista già nel dopoguerra e destinati a continuarsi nelle inchieste televisive. Progenitore diretto di quest’ultima fase tutta al maschile (dentro una filmografia dominata dal ritratto femminile) è il personaggio cinematografico di Ignazio Travet, a cui il Paolo di Era di venerdì 17, il Sandrin di Italia Piccola e soprattutto Policarpo devono qualcosa, e in cui si riflette con un’immediatezza assente dai film precedenti (ma siamo finalmente nel dopoguerra) l’interesse del Soldati regista per il mondo della piccola borghesia e del proletariato. In realtà, per ragioni co-produttive, Era di venerdì 17, realizzato da Giuseppe Amato con la Cité Film di Parigi, sposta l’azione del suo referente diretto, Quattro passi tra le nuvole di Blasetti (1942), dall’Italia alla Francia, dove esce col titolo di Sous le ciel de Provence. Ma l’esportazione è quasi inavvertibile, un po’ perché l’esattezza geografica cede il posto a una rappresentazione “generica” che ben s’adatta a entrambi i Paesi, e un po’ per il cast, in cui, accanto al francese Fernandel adottato nel frattempo dalla serie di Don Camillo, ci sono Alberto Sordi, Fosco Giachetti, Renato Salvatori, Tina Pica. Dell’antecedente blasettiano resta invariato anche il tema principale, ossia il conflitto fra tradizione e modernità, incarnato dall’opposizione tra città e campagna già al centro di La provinciale, anche se a partire da una polarità opposta: mentre Gemma avverte come una reclusione la propria appartenenza provinciale, facendo coincidere l’immagine di Roma e di villa Sartori con la conquista della felicità, il Paolo di Era di venerdì 17 scopre a poco a poco la bontà della vita contadina e paesana, genuina, antica e onesta, riportando alla memoria le nostalgie del Perotti di Due milioni per un sorriso. Il rimando alla commedia “bianca” non è accidentale, né dipende soltanto da una condizione di prevedibile intertestualità tra i capitoli della filmografia soldatiana, ma arriva dritto dal recupero rispettoso di Quattro passi tra le nuvole, idillio “ruralista” e zavattiniano, originale nella forma ma profondamente imparentato con gli schematismi ideologici del genere di regime per eccellenza.
Paolo, rappresentante di una ditta dolciaria, sposato con due figli, incontra una ragazza dal volto triste, Maria, sul treno che prende ogni mattina e poi, di nuovo, sulla corriera. E bastano poche parole perché gli confidi il suo segreto: aspetta un bambino da un uomo che l’ha tradita e adesso desidera tornare dai suoi genitori, in campagna, pur sapendo che il padre, Antonio, informato della situazione, la caccerà. Intenerito, Paolo accetta di recitare il ruolo di marito e padre, e quando arrivano al paesello dei genitori di Maria, vinte le prime resistenze, festeggiano fino a tarda sera, assieme a parenti e amici, il ritorno della ragazza, il matrimonio e la gravidanza. Per evitare l’imbarazzo di dividere la stanza con Maria, Paolo è costretto a dormire nel fienile, dopo aver giocato a scacchi con l’anziana zia Camilla. Ma l’indomani mattina la farsa viene scoperta: Antonio ha infatti trovato tra le cose di Paolo una foto che lo ritrae con la legittima moglie e i figli. Non resta che ripudiare Maria e cacciarla di casa. Ma a poco a poco le parole di Paolo calmano il genitore, che tacitamente accetta di fingere quello che Maria vorrebbe fargli credere. Così, almeno, la ragazza non sarà svergognata pubblicamente. A Paolo non resta che tornare alla sua vita di tutti i giorni a Marsiglia.
Il film, diretto con distacco, non aggiunge nulla all’originale, qualificandosi come un remake piuttosto sbiadito (colori a parte) di cui Soldati sembra approfittare per un (privato) ritorno alle origini: al suo secondo maestro, Blasetti, a un tema centrale nel cinema del ventennio e all’Italia piccola e provinciale che non aveva voluto o potuto affrontare direttamente in quegli anni e che adesso recupera per mezzo del canovaccio di Quattro passi tra le nuvole, liberato dalle sue zavorre politiche e ideologiche. Un remake che ha insomma il sapore dell’appropriazione tardiva, dell’autorisarcimento e, involontariamente, della beffa, perché la pellicola blasettiana, com’è noto, rappresenta, assieme a Ossessione e I bambini ci guardano (Vitorio De Sica, 1942), uno degli avantesti cruciali della poetica realista che si annuncia nei primi anni Quaranta sulle pagine di «Cinema» e a cui Soldati ha sempre guardato con sospetto (e viceversa). Ma, ancora una volta, l’apparente ritardo somiglia piuttosto alla coscienza di uno sguardo di ritorno da un viaggio in avanti nel tempo: nel momento in cui, alle soglie del boom, l’Italia (e di conseguenza il suo cinema) si sta definitivamente urbanizzando, entrando in una stagione di trasformazioni destinata a cambiarle radicalmente i connotati, il regista realizza una specie di idillio campagnolo contro i “tempi moderni” e la corruzione che essi introducono nei rapporti tra gli individui. Ne è testimone Paolo, che vive a Marsiglia con una moglie autoritaria e insoddisfatta, lavora come agente di commercio, si ritira quasi spaventato quando incrocia la dirimpettaia e traduce il tempo in denaro (fot. 80): bastano poche ore nel piccolo paesello di Maria – quattro case tra i campi e vicini cordiali, fot. 81) – perché riaffiori la memoria dei momenti vissuti da bambino in campagna («I più belli della mia vita») prima di stabilirsi definitivamente in città.
FOT. 80
FOT. 81
La differenza, lungo il film, resta profonda e gli spazi non comunicanti: due età antitetiche
dell’uomo moderno e della società, come potevano esserlo – anche a causa della cortina politica e ideologica che circonda l’opposizione – ai tempi dell’originale blasettiano. Ed è questo l’elemento che più allontana Era di venerdì 17 da analoghe indagini contemporanee, dall’incursione felliniana nella provincia di I vitelloni (1953) in cui, oltre a un ritratto meno idilliaco della vita “strapaesana”, lo spazio di demarcazione tra i due opposti si colora di tensioni destinate a restituire in modo più esatto la realtà del Pease, a Il medico e lo stregone di Mario Monicelli (1957), in cui l’arcaismo del piccolo paese di Pianetta, non proprio idilliaco e incarnato dal guaritore-truffatore De Sica, si scontra con la “modernità” del medico Mastroianni, destinato a vincere. Il film ha insomma il sapore della favoletta (e i colori pastello aiutano) che però, intelligentemente, sfugge lezioncine e morali, più simile a un ritratto veloce ma mai frettoloso di un piccolo mondo antico destinato non tanto a scomparire quanto a compromettere progressivamente la propria integrità, come sanno bene i contadini della campagna fuori Roma di Due milioni per un sorriso. L’“antico moderno” Soldati, che nel ’67 lascia la città per trasferirsi definitivamente nella casa di Tellaro (la si può vedere, assieme alla normalmente schiva Jucci, in Un’ora con Mario Soldati, trasmesso l’8 agosto 1975), realizza, rispettando il dettato “macchiaiolo” di Zavattini, un film nostalgico, privato e arcaico come la campagna di cui racconta. E che sembra uscito da un suo volume di novelle, per quell’attenzione al dettaglio ambientale e all’esattezza descrittiva e per la semplicità della costruzione (anch’essa d’altri tempi) che caratterizzano anche il successivo Italia piccola, uno dei più invisibili della produzione soldatiana, di nuovo in bilico tra bozzettismo e novellistica, quasi a suggerire una coerenza profonda tra forma e contenuto, contro gli sperimentalismi visivi e narrativi del cinema “cittadino” dei nuovi auteurs italiani. Giuliana, figlia del capostazione Vincenzo, è rimasta incinta di un ricco scavezzacollo, Alberto Cavalieri, in partenza per una spedizione in Mato Grosso. Vorrebbe seguirlo contro il parere del padre ma, alla fine, desiste, venendo a sapere da Sandrin, un manovale impiegato presso la ferrovia del paese, che Vincenzo ha già sofferto in passato per la fuga della moglie, con effetti disastrosi sulla sua vita privata e il suo lavoro (per questo è stato trasferito da una grande città al paesello di Arena Po). Così, per non dare un nuovo dolore al padre, Giuliana sceglie di restare. Ma per evitare lo scandalo, il piccolo Pierino, nato nel frattempo, viene affidato a Sandrin e alla moglie, e cresce come se fosse il loro, non senza sofferenza da parte della madre legittima e profondi conflitti tra il falso padre e il vero nonno, al punto che Sandrin chiede il trasferimento. Finché un giorno torna Alberto, raggiunto dalla notizia della morte del padre, e subito si reca da Giuliana. Si è ravveduto e vorrebbe sposarla ma lei, seccamente, rifiuta. Ad accelerare la conclusione e a chiarire la situazione ci pensa, involontariamente, lo stesso Pierino, fuggendo di casa. Ma il riconoscimento dell’oscura trama di “falsi in atto pubblico” conduce nonno, falso papà, mamma falsa e mamma autentica in prigione. Tutto però finisce bene, con la ricomposizione delle “vere” famiglie.
Prodotto dalla Fortunia Film di Questa è la vita, nato da un’idea di Andrea Marzoni e Fulvio Pazziloro e sceneggiato da Giuseppe Mangione, Domenico Meccoli e Gigliola Falluto, Italia piccola ha il suo elemento di maggior pregio nell’ambientazione provinciale, presso Arena Po, analoga a quella di La donna del fiume, film a cui rimanda anche la prima sequenza, ambientata in una balera simile a quella da “sabato del villaggio” in cui Nives cade tra le braccia di Gino. La rappresentazione di angoli appartati del Paese che punteggia la filmografia di Soldati si arricchisce così di un nuovo capitolo, anche se l’ambiente provinciale finisce a poco a poco sacrificato a vantaggio dell’intrico farsesco della trama, che ricorda piuttosto «gli analoghi intrecci dei film “napoletani”» (Ernesto G. Laura, «Bianco e Nero», gennaio 1958). Da Era di venerdì 17, di cui rappresenta un’ideale prosecuzione, Italia piccola eredita invece il conflitto tra città e campagna, incarnato in questo caso dalla relazione tra Alberto (Enzo Tortora), un ricco industriale del Nord che parte per il Brasile, e la “provinciale”, sedotta e abbandonata, Giuliana (Rita Giannuzzi). Ma Alberto, alla fine, si ravvede e ritorna, insoddisfatto delle avventure d’oltreoceano, e in questo somiglia un po’ al conte Martorelli di Tragica notte e un po’, come Paolo, al Perotti di Due milioni per un sorriso: il primo lascia infatti gli States per paura di esserne cambiato per sempre e per il desiderio di ricongiungersi ai suoi campi, non meno nostalgico
dell’industriale che torna in Italia dopo trent’anni di lavoro in America per rivedere la campagna in cui ha amato e vissuto. Ma al di là di questi inevitabili rimandi interni alla filmografia soldatiana, in cui il “mito americano” (questa volta spostato a Sud) figura come una scheggia autobiografica ricorrente, Italia piccola e i film citati (ma altri vi si potrebbero affiancare) testimoniano più in generale una particolare emergenza figurativa di quella poetica del “moto perpetuo”, inquieto e metamorfico, di cui si è a lungo discusso nelle pagine precedenti. Il viaggio, colto non tanto mentre si compie ma nei suoi arrivi e nelle sue partenze, si precisa come uno dei luoghi chiave dell’immaginario di Soldati (che un viaggiatore, per piacere e per professione, lo è stato per tutta la sua vita), indagato soprattutto negli effetti che introduce nella percezione della realtà e negli spostamenti di senso e valore che attribuisce alle cose e alle persone. In chiave positiva, quand’anche traumatica, il viaggio, fisico o psicologico che sia, ha il potere di coagulare un significato più aderente alla verità, come nel caso di Alberto, che torna ravveduto dopo sette anni di lontananza, deciso a farsi carico delle proprie responsabilità. E, a modo suo, viaggia anche Pierino, da una famiglia “vera” a una “falsa” (l’ennesimo gioco delle parti), mettendo contemporaneamente in movimento pensieri e affetti, lanciati così verso la loro chiarificazione. Viaggiare ordina i significati, illumina il profilo delle cose e tiene insieme la complessità: è, in fondo, una delle lezioni di tutta la filmografia e della televisione di Soldati, spirito inquieto che in vent’anni di cinema ha viaggiato nel tempo, nella storia, nei generi e negli stili, componendo un mosaico tra il cubista e il surreale che però, considerato a distanza, dal punto terminale della sua parabola, somiglia a un affresco perfettamente coerente e compiuto di un quarto di secolo di storia, cultura e passioni italiane. Ma al di là dell’inquietudine di Alberto e dello scambio di Pierino, anche dal punto di vista cinematografico Italia piccola, erede della semplificazione dell’eredità neorealista, come già l’idillio di Era di venerdì 17, somiglia a un viaggio nel tempo, innescato dalle nostalgie dell’autore. Un viaggio che, per qualcuno, come Sacchi su «Epoca» (22 dicembre 1957), finisce però per sembrare un po’ fuori dal tempo: il gioco del tipico e l’indagine minuta del vivere quotidiano, in attesa di essere rimasticati dalla “commedia all’italiana”, mancano infatti l’appuntamento “documentario”, per cui i personaggi «sono piccoli non perché sono uomini ordinari presi dalla vita locale […] ma perché non c’è nessun tentativo serio di approfondirli psicologicamente». La patina nostalgica sottrae verità alla rappresentazione, spingendo verso la farsa e facendo di Italia piccola un saggio forse imperfetto ma sincero di cinema d’altri tempi (anche questo, in fondo, è viaggiare), come rivela inoltre la scelta dei due attori protagonisti, Nino Taranto (Vincenzo) e soprattutto Erminio Macario (Sandrin), i cui esordi risalgono alla fine degli anni Trenta, quando Soldati debutta alla regia (fot. 82).
FOT. 82
Conoscendo il regista, non sorprende che, abbandonata la contemporaneità, per quanto appartata, di Era di venerdì 17 e Italia piccola, egli realizzi il suo film più aderente all’attualità tuffandosi nel passato per Policarpo, ufficiale di scrittura (1959), co-produzione italo-fracese-spagnola targata Titanus, diretto alla fine del ’58, tratto dal romanzo La famiglia De Tappetti di Gandolin, sceneggiato con Age e Scarpelli e fotografato, a colori, da Rotunno. «Un film perfetto», ricorda
Soldati, una farsa sul mondo degli impiegati che riporta direttamente a Le miserie del signor Travet e utilizza il genere della commedia per elaborare e risolvere il conflitto tra vecchio e nuovo già al centro di Era di venerdì 17. Ma questa volta, dallo scontro tra tentazioni metropolitane e genuinità provinciale, si passa al più attuale problema delle trasformazioni prodotte dalla meccanizzazione, esemplificato dall’avvento della macchina da scrivere, che rende obsoleta l’abilità artigianale (la “bella scrittura”) dei calligrafi come Policarpo. Problema di cui si farà carico, di lì a poco, la nascente commedia all’italiana, in modo ben più aggressivo e spesso deformante se confrontato allo stile di Policarpo, ufficiale di scrittura. Che infatti, non senza consapevolezza, finisce anche per testimoniare del passaggio dal vecchio al nuovo del cinema, attraverso i volti di quattro attori emblematici, coinvolti in brevissimi camei: da una parte, Vittorio De Sica, prestigiatore, e Amedeo Nazzari (nella scena finale, uscita dritta da Cavalleria di Alessandrini), dall’altra Alberto Sordi, nei panni di un coccolinaro sfaccendato, e un surreale Ugo Tognazzi che si lamenta con la lavanderia per le mutande inamidate. Policarpo De Tappetti è un impiegato ministeriale nella Roma del primo Novecento, sposato e padre di due figli, in attesa del tanto agognato “scatto” che accrescerebbe il suo stipendio mensile di nove lire. Egli, infatti, fatica a far quadrare i conti ma, al tempo stesso, non vuole che altri, in famiglia, lavorino. La figlia Celeste, giovane e attraente, decide comunque di rispondere a un annuncio pubblicato dalla ditta Franquinet, che cerca lavoratrici da inserire nella produzione di macchine da scrivere. Tutto si svolge in segreto, come pure la relazione che a poco a poco stringe con Mario, un operaio della fabbrica, che si offre di insegnarle a battere a macchina. Policarpo, infatti, trama con poco successo affinché sposi Gegé, il figlio donnaiolo e nullafacente di Cesare Pancarano, il suo nuovo capoufficio. Fa dunque in modo – non senza risvolti comici – che i due giovani si frequentino il più possibile, accrescendo l’insofferenza del cavalier Pancarano (che però si fa chiamare conte, convinto del suo nobile lignaggio) nei suoi confronti. Il superiore contrattacca “arruolando” l’ex fidanzata del figlio, una ballerina a cui dà appuntamento sulla spiaggia dove le due famiglie hanno deciso di trascorrere la domenica. E, come previsto, lo stupido Gegé cede, stanco, tra l’altro, delle resistenze di Celeste, di cui Policarpo scoprirà di lì a poco la ragione. Infatti, incrociando per caso la figlia, la segue alla Franquinet, e la vede baciare Mario. Prima, però, passando di fronte alle finestre aperte sull’ufficio del direttore della fabbrica, vede il suo caposervizio Laurenzi che riscuote una tangente: in cambio, avvantaggerà la fabbrica nell’appalto per la fornitura di macchine da scrivere al ministero. Così, oltre a ricevere l’amara notizia del fidanzamento della figlia con l’umile Mario, Policarpo, ufficiale di scrittura innamorato dei suoi pennini, deve vedersela con l’arrivo di strumenti che rendono obsoleta la sua professione. Ma, alla fine, accetterà entrambe le cose, scoprendo che in realtà la famiglia di Mario è composta di ottime persone. E otterrà il fantomatico scatto, poiché Laurenzi è convinto che sappia dei suoi loschi traffici con la Franquinet.
Policarpo, ufficiale di scrittura rappresenta senza dubbio la migliore commedia di Soldati ed è premiata a Cannes nel ’59. Merito, in primo luogo, dei duetti, spesso divertentissimi, tra Peppino De Filippo e Renato Rascel, che torna a vestire i panni del travet a pochi anni di distanza da Il cappotto di Lattuada (1952), e merito di una sceneggiatura che, pur rielaborando molto liberamente il romanzo di Gandolin, riesce a conservarne la freschezza popolare e le perfette simmetrie tra ambienti, costumi e personaggi, contemporaneamente sottraendolo al suo referente storico e soprattutto geografico e donandogli così l’aspetto di un apologo fuori dal tempo. Roma si vede pochissimo e gli esterni macchiaioli somigliano alle illustrazioni esemplari di un vecchio libro senza data (fot. 83). Rotunno, da parte sua, fa un gran lavoro: senza smarrire una specifica vocazione mimetica, il colore dona all’immagine una patina antica e un sottile viraggio da cartolina.
FOT. 83
L’epoca è semplicemente quella delle “città che si espandono”, come osserva Pancarano (De Filippo): quella della prima rivoluzione industriale come dell’Italia del boom, un momento di passaggio in cui vecchio e nuovo e tradizione e innovazione si trovano a convivere tra la resistenza di qualcuno e la disponibilità al cambiamento di qualcun altro. La questione è anche, inevitabilmente, generazionale (e famigliare): così, accanto a Policarpo che cerca di resistere fino all’ultimo prima di posare le sue mani esperte su “quella roba nera”, c’è la figlia Celeste, una Carla Gravina quasi al debutto, che di nascosto prende lezioni di dattilografia da Mario (Renato Salvatori), un operaio della fabbrica Franquinet in cui si costruiscono le macchine da scrivere destinate alle scrivanie della sezione di Policarpo. Ma il conflitto tra padre e figlia si arricchisce di ulteriori significati proprio in merito alla questione del lavoro: Soldati, che delle trasformazioni del costume femminile è stato un abilissimo narratore, dalla Mariuccia di Due milioni per un sorriso (dattilografa anche lei), che sogna il cinema e la città ma alla fine torna in campagna con il suo Martino, alla Nives di La donna del fiume, operaia, che cresce un figlio da sola pur di non rinunciare alla propria integrità di donna e al diritto di essere madre, realizza con Celeste un’ideale progenitrice della “donna moderna”, interprete di un deciso rinnovamento sia per quanto riguarda la vita affettiva, sia relativamente al suo ruolo sociale, con l’affacciarsi del problema della parità. Così, per non cedere al solito matrimonio d’interessi (di cui la Elena del Cortis sa qualcosa) e per contribuire alle magre entrate mensili della famiglia (il cui motto è «ci pensa papà»), rifiuta il corteggiamento del (forse) nobile figlio di Pancarano e risponde a un annuncio della Franquinet che cerca “giovani lavoratrici”, in un momento in cui la presenza delle donne in ambienti prevalentemente maschili è ancora impensabile (e infatti ne nasce una curiosa battaglia di ortaggi tra gli operai, che difendono i loro diritti “virili”, e le donne in attesa fuori dai cancelli della fabbrica, fot. 84).
FOT. 84
Non diversamente, il personaggio di Pancarano tratteggiato da Peppino De Filippo è una curiosa commistione di tensioni storiche e sociali: porta un santino di San Crispino nel portafogli ma si professa anticlericale, è il classico funzionario di medio livello, forte coi deboli e debole coi forti, in bilico tra agiatezza e regime di sopravvivenza, è cavaliere ma aspira a diventare nobile, commissionando ricerche sul suo albero genealogico e pretendendo comunque, nell’attesa di una risposta, l’appellativo di conte (la farsa del titolo si riflette nel travestimento da re con cui partecipa a una partita di scacchi “umana”, in cui Policarpo è una sua pedina che ne determina lo “scacco”). Alla fine, dopo aver scoperto che i Biancamano da cui discende non sono aristocratici ma devono il loro appellativo a un’antica tradizione di imbianchini, accetterà di riconoscere in Policarpo qualcosa di simile a un pari. Entrambi, del resto, condividono le preoccupazioni per i recenti aumenti del prezzo del latte, dello zucchero, del pane, del gas, della luce e delle ferrovie voluti dal ministero e di cui discutono nella sequenza finale del film. Il che vanifica il fantomatico “scatto” di nove lire appena ottenuto da entrambi. Policarpo lo aspetta da anni, e alla fine gli viene concesso, già svalutato, non per merito ma perché il gioco della farsa costringe il capo della divisione Laurenzi a concederglielo. La situazione non è molto diversa da quella di Travet, in attesa di un aumento che riconosca l’onorato servizio di
decenni, e i due personaggi – ma anche i due attori, entrambi piccoli e comici, anche se Rascel ha un temperamento meno remissivo di Campanini – finiscono per sovrapporsi quasi completamente, identici rappresentanti di quell’Italia piccolo borghese che, lungo tutto il Novecento, ha fatto da colonna vertebrale alla società e in cui, per questo, si incidono con maggiore evidenza i segni del cambiamento (saranno, non a caso, i soggetti preferiti della commedia all’italiana). Travet e Policarpo condividono la preoccupazione per i soldi (entrambi i film si aprono con il problema dei conti da pagare) e vivono analoghi conflitti con la famiglia e le figlie femmine, invaghite degli uomini sbagliati perché, a differenza dei padri, decise a preservare l’amore dalla corruzione dei denaro; ma, soprattutto, sono simili nell’orgoglio un po’ sciocco ma comprensibile per il loro piccolo ma onesto prestigio sociale (Travet disprezza il fornaio Giachetta, come Policarpo il suo vicino, un venditore di stoffe). Entrambi, per questa ragione, e anche perché rispettosi delle regole, onesti e lavoratori – attorno a loro solo colleghi sfaccendati –, risultano un po’ fuori dal tempo: Travet, non a caso, deve impegnare l’orologio per soddisfare i capricci della moglie, mentre Policarpo l’ha già fatto prima dell’inizio del film, e al posto della cipolla ha una scatola di pastiglie Valda. I tempi nuovi sono dominati da pescecani, parassiti e adulatori; e se la corruzione, in Travet, è solo accennata, qui si precisa nella doppia bustarella con cui si cerca di oliare il corso degli eventi, significativamente invadendo sia lo spazio affettivo (Pancarano paga l’ex fidanzata del figlio affinché lo riconquisti, allontanandolo così da Celeste), sia lo spazio lavorativo (Laurenzi chiede o, meglio, accetta una tangente per favorire la Franquinet).
FOT. 85
E così, quando arriva lo “scatto”, è come se nulla fosse accaduto, perché nel frattempo, a scattare più veloci, sono stati i tempi. Entrambi i film si chiudono secondo le regole della commedia, con ricomposizioni, agnizioni (significativamente di ordine sociale: Travet si riconosce simile a Giachetta, Pancarano a Policarpo), ravvedimenti e matrimoni (in questo caso due), ma non senza una vena amara. Policarpo, che pure si è convertito alla “cosa nera”, dopo essersi esibito pubblicamente in un saggio di battitura sputa alla macchina e bacia il pennino (fot. 85). Il film, tuttavia, differisce dal precedente – addolcendo così l’amarezza – perché non estingue il vecchio nel nuovo ma, secondo il funzionamento classico dell’ideologia della commedia, integra il secondo nel primo, ricomponendo un equilibrio dalla faccia solida: il doppio matrimonio livella le differenze, ponendo sullo stesso piano operai (Mario), artigiani (la sua famiglia, proprietaria di una lavanderia), impiegati statali, funzionari, ballerine. Non si tratta insomma di una resa del passato sotto l’urto del presente ma di un incontro delle differenze, di una contaminazione – sotto l’effige del “popolare” – di elementi appartenenti a latitudini culturali, storiche e generazionali diverse. Anche se, certo, essi cambiano di segno e sopravvivono con valori molto diversi a seconda di chi se ne appropria, come rivela la toccante sequenza della cena in lavanderia trasformata in osteria, in cui giovani e vecchi si uniscono nel canto (fot. 86). Per qualcuno, come Policarpo, il motivetto (scritto da Rascel) è quasi un manifesto; per altri, come Mario e Celeste, una semplice canzonetta, di cui scandiscono le parole con indifferenza: «Il mondo cambia così, un po’ per volta ogni dì, e ogni cosa che scompare e che passa, si porta via un pezzetto di cuor. Vecchie canzoni d’allor, nate coi miei primi amori, quando più nessuno allora vi canterà, la mia vita triste e muta sarà. Mutan con la moda gli usi e le tradizion
e si cambia ad occhi chiusi opinion, quello che non cambia ancora, non so perché, è il mio vecchio cuore un po’ demodé…».
FOT. 86
Policarpo chiude dunque la carriera cinematografica di Soldati, e il fatto che vi si narri dell’estinguersi dei “calligrafi professionisti” sotto l’urto del nuovo assume un valore emblematico in rapporto al ruolo del regista nel quadro del cinema italiano. Gli anni Cinquanta, che per molti versi si sviluppano, per continuità o contrasto, a partire dai fermenti neorealisti a loro volta anticipati durante il ventennio dal dibattito critico e dall’infiltrazione di fermenti inediti nella produzione di regime, e che, complessivamente, costituiscono il momento di maggior coabitazione di vecchio e nuovo nella storia del cinema italiano, si chiudono in modo piuttosto netto con il precisarsi, da un lato, delle poetiche d’autore e, dall’altro, con lo specializzarsi dell’exploitation. Il cinema medio, certo, non scompare, ma i registi come Soldati, che lo praticano perlopiù come compromesso tra alto e basso, in questa netta divisione di ruoli e pratiche si trovano sempre più a disagio, col rischio di sembrare doppiamente demodé. O di essere inchiodati agli stereotipi che sono sempre stati molto abili a sfuggire: non a caso, l’offerta successiva a Policarpo è la riduzione di Il Gattopardo, con cui la Titanus pensa forse di rilanciare il Soldati calligrafico dei tempi antichi. Per fortuna sua e dell’amico Visconti (a cui suggerirà nel ’65 il titolo leopardiano di Vaghe stelle dell’Orsa…) rifiuta: la “bella scrittura”, anche al cinema, si pratica ormai in modo diverso. Ma Soldati, nostalgico quanto si vuole, non è mai stato “vecchio”; e così, dopo averla assaggiata nel ’57 con Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, negli anni Sessanta e Settanta si interessa alla televisione, collaborandovi in modo sporadico ma non superficiale, realizzando in particolare una seconda inchiesta, Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno, e teorizzando intelligentemente su questioni essenziali come la diretta e, in anticipo sui tempi, sull’intreccio tra spettacolo e informazione. Al tempo stesso, chiude col cinema anche dal punto di vista geografico (mentre infittisce l’attività giornalistica, abbandonando il «Corriere della Sera» per «il Giorno», a cui collaborerà fino al ’71: nel ’60 lascia definitivamente Roma, preferendo all’ennesima proposta (un film francese con Delon tratto da un racconto comico di Moravia) la direzione della sezione delle Regioni nell’esposizione internazionale per il Centenario dell’Unità d’Italia, impegno che lo riporta al suo amato Nord, prima a Torino e poi, l’anno dopo, a Milano, dove risiederà per qualche tempo. E quando tornerà dietro la macchina da presa (nell’89), lo farà proprio per omaggiare la sua città natale nella compilation prodotta dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo in occasione dei mondiali di calcio del ’90. In 12 registi per 12 città, accanto – tra gli altri – ad Antonioni (Roma), i fratelli Bertolucci (Bologna) e Bolognini (Palermo), Soldati ritrae Torino mettendosi direttamente in scena – è l’unico dei registi coinvolti a farlo – e misurando sulla sua memoria personale le trasformazioni cui essa è andata incontro, in una coincidenza più che mai rivelatrice tra luogo e personaggio. La partecipazione di Soldati all’ideazione di programmi per la Rai, dunque, non sorprende; appare anzi inscritta, fin dall’origine, nel suo profilo di “professionista” dell’immagine, nella sua curiosità popolare, nella sua attitudine alla sperimentazione e, non da ultimo, come osserva Garboli, nel suo narcisismo, in quell’“io della notorietà” che lo conduce spesso, nelle due inchieste, a usare il mezzo
come ribalta e specchio. E nel caso della prima interviene anche – dato non trascurabile – il suo amore per il buon cibo e i vini, ai quali ha dedicato moltissime pagine (un interessante florilegio lo si trova nel recente Da leccarsi i baffi, a cura di Silverio Novelli, Derive/Approdi, Roma, 2005. Attraverso la televisione egli ha inoltre modo di prolungare in forma nuova il racconto dell’Italia provinciale, tradizionale e contadina che punteggia tutto il suo cinema, e di approfondire l’osservazione ravvicinata della “gente”, al tempo stesso popolo e individuo, che gli ha sempre fatto preferire il ritratto “al singolare” al racconto corale, gli interni agli esterni, le case alle strade. E dall’interesse per quello che mangiano gli italiani e per il modo in cui preparano i cibi – a partire dal quale sarebbe più che una curiosità ripassare tutta la filmografia di Soldati, piena di cucine e tavole imbandite –, nasce Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini. «Viaggiare – vi si dice – è conoscere e il modo più facile, più diretto di arrivare a conoscere un paese è praticare la cucina della gente che lo abita. Nei cibi e nella maniera di cucinarli c’è tutto». Così, nelle dodici puntate che compongono l’inchiesta, alla cui ideazione partecipano Carlo Musso, Lorenzo Rocchi e Tino Richelmy, mentre il fidato Rota scrive le musiche, Soldati – per guida il corso del Po, dalla forma di un “pastorale” – visita caseifici, industrie vinicole, fabbriche di salumi e panettoni, documentando il lavoro di trasformazione delle materie prime in cibo e bevande e intervistando dirigenti e semplici operai, curioso allo stesso modo delle “politiche aziendali” e dei piccoli gesti automatici e ripetitivi, dei luoghi e dei mestieri, delle memorie e dei sogni (fot. 87).
FOT. 87
L’inchiesta, «un raro documento di antropologia culturale» (Grasso), fa di Soldati una vera e propria star, il primo letterato trasformato in divo televisivo, il cui successo viene indirettamente riconosciuto da una memorabile imitazione di Tognazzi e Vianello in Un, due, tre. I modi, del resto, si offrono spontaneamente alla parodia: egli sembra prolungare sullo schermo lo stile secco e nervoso della sua prosa, procedendo nelle inchieste, e soprattutto nella seconda, «per saltuari scossoni, per sbalzi, per urli, per irregolarità, stravolgendo i canoni tradizionali del reportage televisivo» (Grasso). La messa in scena del sé è fortissima, e l’importanza di questi documenti è anche, non secondariamente, biografica, per l’imporsi di quell’“io” che si denuncia nell’onnipresenza del regista all’interno dell’inquadratura e per il costante riferimento alla memoria e alle conoscenze personali. Protagonismo ma, anche, sofisticata strategia comunicativa: perché Soldati domanda, risponde, interviene, interrompe, introduce e completa, e finisce per assumere spesso il doppio ruolo di intervistatore curioso e “ignorante” e di voce off che riassume e sintetizza e “insegna”, senza mai sconfinare nel pedagogismo. Nel corso della sua inchiesta nelle valli del Po, e poi a Sud, risalendo dalla Sicilia alla Maremma per il successivo Chi Legge? Viaggio lungo il Tirreno, colpisce inoltre l’attenzione costante per le piccole cose, i dettagli apparentemente insignificanti e i personaggi di contorno, la stessa che contraddistingue molto suo cinema; col quale, inoltre, i due lavori Rai possiedono un’evidente continuità tematica. Da un lato, come accennato, essi proseguono, grazie a nuove perlustrazioni geografiche e antropologiche, il racconto dell’Italia e dei suoi abitanti, consentendo un’inedita messa a fuoco della predilezione soldatiana per le cose “piccole”, minori, marginali e, non senza tentazioni “epiche”, per le classi subalterne, la cultura locale, gli arcaismi e il folclore. Dall’altro
lato, e a partire da qui, si accentua il sentimento nostalgico degli ultimi film: dalle industrie vinicole del Piemonte alle coste della Sicilia, Soldati non perde occasione per rimarcare la fragilità degli scenari che attraversa, restituendo nel contrasto tra il presente e la memoria ancora viva di un recente passato la sensazione di muoversi in un tempo sospeso tra fantasmi e ultime cose. Ad accentuare questo sentimento, nell’inchiesta del ’60, ideata da Zavattini e scritta da Musso e Richelmy, ci pensano i libri, tesori di parole che il regista porta in viaggio con sé, quale introduzione poetica ai luoghi che ripercorre nelle sette puntate trasmesse dal 18 dicembre, partendo da Marsala, nel centenario garibaldino, e chiudendo a Quarto. Novello Garibaldi in cerca dell’Italia e degli italiani, Soldati accentua questa volta l’invasività dei modi e della forma, a contatto con una realtà talvolta sconosciuta: ferma le macchine per strada (fot. 88), curiosa nei cortili e si mescola alla gente per capire quanto e cosa leggono i suoi connazionali, condividere con loro le sue preferenze e celebrare i massimi autori attraverso i luoghi in cui hanno scritto e vissuto (bellissima la “ricerca” siciliana di Tomasi di Lampedusa); microfoni e macchine da presa entrano di conseguenza nell’inquadratura e l’improvvisazione della “diretta” si trasforma nella strategia privilegiata, con effetti curiosi e involontariamente comici, simpaticamente denunciati da Achille Campanile sull’«Europeo» (per il resto, la critica reagisce con entusiasmo ai due lavori).
FOT. 88
Più eccentrico e zavattiniano del precedente, Chi legge? possiede tuttavia una maggiore qualità cinematografica, evidente nel preziosismo descrittivo, con cui contempla un paesaggio meno familiare rispetto a quello piemontese (la Calabria, per esempio, è una “terra incognita” per Soldati), e nella grammatica che cuce vedutismo, interviste e letture di poesie e pagine di romanzo. Al tempo stesso, in contrasto con le indicazioni zavattiniane, Soldati vi si mette in scena in modo più autoritario rispetto al precedente, ormai consapevole del proprio ruolo di personaggio e continuamente tentato dalla recitazione; talvolta sembra di assistere al filmino privato di un viaggio turistico, altre volte alla ricerca pubblica di un’affinità libresca con un’Italia che, dicono le statistiche, legge sempre meno e peggio. Ma ciò che più balza all’occhio, per contrasto con la precedente, e che in un certo senso giustifica le scelte comunicative di questa seconda inchiesta, è proprio l’estraneità di Soldati a molti dei luoghi che attraversa e la straordinaria varietà di usi, lingue e costumi con cui si confronta (l’Italia è ancora tutta da fare, e la televisione delle origini raccoglierà l’invito): se Viaggio lungo la valle del Po lo impastava a poco a poco alla sua terra, ritrovata a ogni puntata con stupore e affetto, Chi legge?, con il suo spostamento a Sud, ne restituisce un ritratto di vecchio eccentrico, isolato nella sua cultura libresca e nella sua curiosità etnografica. È proprio questo «palese smarrimento nell’attraversare regioni d’Italia e nell’avvicinare persone di un ceto e di una cultura che, fino allora, mi erano ignoti o quasi ignote» (il rifiuto della trasposizione di Il gattopardo trova in questa distanza la sua principale motivazione) a produrre, come ricorda l’autore, una specie di costola letteraria all’inchiesta, vale a dire le ventiquattro liriche di Viaggio televisivo, pubblicate assieme alle Canzonette nel 1962. I titoli progressivi dei componimenti seguono l’andamento del programma televisivo, da Marsala a Napoli, dal Raccordo anulare a Civitavecchia, da Piombino a La Spezia, e rappresentano alcune delle migliori prove
poetiche di Soldati, che tra un film e un romanzo ha prodotto un piccolo corpus di liriche come reazione a sentimenti di dolore e angoscia, perché «la poesia lirica è, sempre, il canto di un prigioniero». La più impertinente, riportata in alcune straordinarie pagine diaristiche di Cesare Garboli (Com’è nata un’amicizia), resta invece quella improvvisata nello stesso anno mentre è ospite di Gian Giacomo Feltrinelli a Villadeati di Monferrato, assieme a Bassani: «Ingenui villici di Villadeati/I feudatari son tornati./Tergete il ciglio, slungate il passo/Che parla bene/Chi parla basso». Soldati la recita a colazione, «tra una sorsata e l’altra di vino», mentre il volto di Feltrinelli si oscura e irrigidisce. Chiuse le inchieste, l’impegno televisivo prosegue, anche se in modo sempre più occasionale: nel 1962 collabora a due brevi sceneggiati per Il giornalaccio di Daniele D’Anza, La finestra (31 ottobre, parte della serie Racconti dell’Italia di oggi) e Il colpo grosso (28 novembre), mentre nel ’72 realizza con Cesare Garboli due special di un’ora ciascuno dal titolo A carte scoperte: nel primo, girato in Giappone, Soldati conversa con Soichiro Honda, riflettendo sul boom economico del Paese, mentre nel secondo dialoga con Hailé Selassié a proposito della fine degli antichi regimi in Africa. Per la stessa serie, nel ’74, cura un servizio su Mishima. Intanto, nel ’68, vengono realizzate dalla Rai le prime opere da Soldati: si tratta di I racconti del maresciallo, sei telefilm diretti da Marco Landi, con Turi Ferro nei panni del celebre carabiniere Arnaudi, tratti da nove dei quindici racconti pubblicati prima su «il Giorno» e poi in volume, da Mondadori, nel ’67. Nell’84 sarà invece il figlio Giovanni a portare sullo schermo di Rai Due (dal 28 marzo) una seconda serie di inchieste del carabiniere in pensione (che questa volta ha il volto di Arnoldo Foà), i Nuovi racconti del maresciallo, pubblicati poco prima. Dagli anni Ottanta, e fino alla morte (1999), Soldati si dedica quasi esclusivamente alla letteratura, avendo chiuso nel frattempo anche con la critica cinematografica, esercitata principalmente sull’«Europeo» e documentata dal volume Da spettatore pubblicato nel ’73. Un’esperienza vissuta con divertimento e con un certo gusto per la parodia del ruolo, non dissimile da quello con cui veste i panni del regista, evidente non soltanto nell’odio per i cinéphiles ma anche per quel criterio banalizzante ma in fondo corrispondente alla sua idea di cinema come “arte minore” con cui è solito dividere i film in quattro categorie: belli e divertenti, belli e noiosi, brutti e divertenti, brutti e noiosi. Il cinema, lontano nel tempo, non scompare però completamente dalla sua vita. Anzitutto perché continua ad alimentare di storie, immagini e personaggi i suoi libri (fino a intaccarne le strategie narrative, come denuncia, in chiave di critica affettuosa, Bassani in Emilio e Piero, 1964), primo tra tutti L’attore (1970), che con toni non meno sprezzanti di quelli con cui si racconta l’industria cinematografica romana in Le due città (1964), offre un’immagine sconsolante della “settima arte” attraverso il ritratto di un attore finito, non risparmiando critiche neppure alla televisione. E poi perché il cinema – anche se fatto da altri – incontra finalmente, in modo diretto, la letteratura, grazie ai film tratti dai suoi testi narrativi, da “Il serpente” di Alberto Bonucci, l’ultimo dei quattro episodi di L’amore difficile (1962), a La giacca verde di Franco Giraldi (1979), da La sposa americana di Giovanni Soldati (1986) a Capriccio (1987) di Tinto Brass ispirato, senza che venga citato, a Le lettere da Capri, fino a Il Maestro (1988) di Marion Hänsel, anch’esso tratto da La giacca verde. Ma il cinema rientra nella vita di Soldati anche perché, tra un omaggio e l’altro, da quello pavese del novembre dell’86, curato da Giuliana Callegari e Nuccio Lodato, a quelli del Museo del Cinema di Torino nel ’91 e di San Salvatore Monferrato nel ’97 (il regista presenzia a tutti e tre), si tornano a guardare e a studiare i suoi film, i maggiori come i minori, sottraendoli con non poca fatica dall’oblio in cui la critica e lo stesso Soldati e il suo successo letterario li hanno progressivamente confinati. Restituendo, nel loro rinnovato intreccio con la narrativa, la televisione e il giornalismo, il ritratto – o, meglio, i molti, diversi ritratti – di uno dei maggiori protagonisti del Novecento, ancora presentissimo, come il suono persistente di “una voce poco fa”, il titolo sotto il quale avrebbe voluto
raccogliere le sue memorie.
1938 | La principessa Tarakanova
Regia: Fedor Ozep, Mario Soldati; soggetto: André Lang, Ladislao Vajda; sceneggiatura: Mario Soldati, Evelina Levi; dialoghi: Henri Jeanson; aiuto regia: Gianni Franciolini; assistente regia: Ferdinando Maria Poggioli; fotografia: Curt Courant, Renato Del Frate, Massimo Terzano; operatore: Alberto Fusi; scenografia: Andrej Andreieff, Guido Fiorini; costumi: George Annenkoff, Gian Paolo Bigazzi; montaggio: Ferdinando Maria Poggioli; fonico: Ovidio Del Grande; musica: Riccardo Zandonai, Renzo Rossellini; interpreti: Annie Vernay (Elisabetta Tarakanova), Pierre Richard Willm (Conte Alessio Orloff), Anna Magnani (Marietta), Suzy Prim (Caterina II), Antonio Centa (capitano Sleptozow), Roger Karl (principe Radzwill), Abel Jacquin (capitano Nikosky) Memo Benassi (ambasciatore russo), Enrico Glori (mercante), Guglielmo Sinaz (giudice), Alberto Sordi (Ciaruskin, emissario segreto), Amedeo Trilli (Ravic, emissario segreto), Cesare Zoppetti, Rolando Costantino, Mario Mari, Vasco Cataldo, Enrico Gozzo, Gennaro Sabatano; segretario e ispettore di produzione: Giuseppe Mari; produzione: Roberto Dandi per S.A. Film Internazionali; distribuzione: EIA; durata: 96’. 1938 | La signora di Montecarlo
Regia: André Berthomieu, Mario Soldati; soggetto: Toni Huppertz; sceneggiatura: Mario Soldati, Renato
Castellani, Jacques Constant; aiuto regia: Gianni Franciolini; fotografia: Fred Langenfeld, François Franchi; operatore: Francesco Izzarelli, Enzo Riccioni; scenografia: Corrado Marchi, Athos Rogerio Natali, Corrado Marchi su bozzetti di Virgilio Marchi; arredamento: Vincenzo Brosio; montaggio: Mario Bonotti; fonico: Raoul Magni; musica: Joe Hajos, Amedeo Escobar; interpreti: Dita Parlo (Vera), Fosco Giachetti [versione francese, Albert Préjean] (Giorgio Duclos), Jules Berry (conte Messirian), Claude Lehmann (Andrea Duclos), Danilo Calamai (detective), Umberto Melnati (banchiere), Enrico Glori, Celio Bucchi, Osvaldo Valenti; direttore di produzione: Leo Bomba; ispettore di produzione: Rolando Costantino; produzione: Continentalcine; distribuzione: ENIC; durata: 85’. 1939 | Due milioni per un sorriso
Regia: Carlo Borghesio, Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Carlo Borghesio, Mario Soldati; collaboratore alla sceneggiatura: Renato Castellani; fotografia: Mario Albertelli; operatore: Giuseppe Latorre; scenografia: Gino Brosio; arredamento: Gino Franzi; costruzioni: Umberto Torri; montaggio: Mario Bonotti; fonico: Emanuele Weiss; musica: Felice Montagnini; canzoni: Valzer dell’organino di Cesare Andrea Bixio; segretaria di edizione: Maria Cacace; interpreti: Enrico Viarisio (Giacomo Perotti/Martino Bo), Giuseppe Porelli (Spinelli), Elsa De Giorgi (Mariuccia), Sandra Ravel (Lisetta), Romolo Costa (barista), Pina Renzi (guardarobiera), Ermanno Roveri (banchista/regista), Guido Barbarisi (elettricista/capo cameriere), Giuseppe Pierozzi (cuoco/trucco), Dhia Cristiani (Piera), Lauro Gazzolo (ufficiale giudiziario), Vasco Creti (capotreno), Carlo Ranieri (cameriere/operatore), Livia Minelli (attrice), Raimondo Van Riel (oste), Carlo Bressan (autista del furgoncino), Emilia Gentilini, Walter Grant, Gianna Caria, Antonietta Vitella, Rosanna Schettina; direttore di produzione: Valentino Brosio; ispettore di produzione: Luigi Martini; produzione: Compagnia Cinematografica Italiana Lux; distribuzione: Lux; durata: 75’. 1939 | Dora Nelson
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Mario Soldati, Luigi Zampa (dal film omonimo di René Guissart, basato sulla commedia di Louis Verneuil); dialoghi: Luigi Zampa; aiuto regia: Marcello Caccialupi; assistenti regia: Giulio Morelli, Gino Fracassi; fotografia: Anchise Brizzi; operatore: Romolo Garroni; scenografia: Pino Viola; costumi: Casa d’arte Caramba, Casa Federici, Viscardi; montaggio: Giovanna Del Bosco; fonico: Otto Untersalmberger; musica: Felice Montagnini; interpreti: Assia Noris (Dora Nelson/Pierina Costa), Carlo Ninchi (ing. Giovanni Ferrari), Miretta Mauri (Renata Ferrari), Luigi Cimara (Alberto), Carlo Campanini (Emilio), Nino Crisman (il falso principe), Massimo Girotti (Enrico Cabardo, voce: Giulio Panicali), Evelina Paoli (sorella di Giovanni), Fernando Bruno (Gigetto), Laura Farina Meschini (Gina), Gildo Bocci (Pasquale), Adele Mosso (Celestina), Federico Collino (il segretario Blasco), Clelia Bernacchi (Ernestina), Emilio Cigoli (tesoriere), Livia Minelli (collega di Pierina), Nino Marchetti (produttore), Franca Volpini (collega di Pierina), Mario Molfesi (Carlo), Lia Rialto (collega di Pierina), Alfredo Morati (Giordani), Olinto Cristina (Alfredo), Michele Riccardini, Alfredo Menichelli, Gaetanone Pappalardo (usciere), Amilcare Pettinelli, Giacomo Almirante, il cane Picki; direttore di produzione: Giuseppe Vittorio Sampietri; ispettore di produzione: Giuseppe Mari; segretario di produzione: Luciano Chili; produzione: Urbe Film, Industrie Cinematografiche Italiane (Ici).; distribuzione: Ici; durata: 79’. 1940 | Tutto per la donna
Regia: Mario Soldati; soggetto: dalla commedia omonima di Nicola Manzari; adattamento: Aldo De Benedetti; sceneggiatura: Mario Soldati, Luigi Zampa, Carlo Borghesio; dialoghi: Luigi Zampa; aiuto regia: Gianni Franciolini; fotografia: Carlo Montuori, Arturo Gallea; scenografia: Gastone Medin, Pino Viola; montaggio: Giovanna Del Bosco; fonico: Carlo Passerini; musica: Danilowski; interpreti: Junie Astor (Elsa Ducrò), Antonio Centa (Gianni), Miretta Mauri (Maria), Carlo Campanini (Carmelo), Iole Valeri (Julci), Greta Gonda (cliente elegante), Enzo Biliotti (prof. Panardi), Maria Vivaldi (segretaria), Gemma Bolognesi, Pina Gallini, Carlo Mariotti, Livia Minelli, Giacomo Moschini, Satia Benni, Daria Cledi, Armando Furlai, Emi Garis; direttore di produzione: Marcello Caccialupi; produzione: Mario Giovannini per Urbe Cinematografica; distribuzione: Ici; durata: 71’. 1941 | Piccolo mondo antico
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo omonimo (1895) di Antonio Fogazzaro; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Emilio Cecchi, Alberto Lattuada, Mario Soldati; aiuto regia: Alberto Lattuada; assistente regia: Dino Risi, Lucio De Caro; fotografia: Arturo Gallea, Carlo Montuori; operatore: Carlo Nebiolo; scenografia: Gastone Medin; arredamento: Ascanio Coccè; costumi: Gino Carlo Sensani, Maria De Matteis;
montaggio: Gisa Radicchi Levi; musica: Enzo Masetti; interpreti: Alida Valli (Luisa Rigey), Massimo Serato (Franco Maironi), Mariù Pascoli (Ombretta), Annibale Betrone (Piero Ribera), Ada Rondini (la marchesa Orsola Maironi), Giacinto Molteni (prof. Beniamino Gilardoni), Enzo Biliotti (Pasotti), Renato Cialente (cav. Greisberg), Adele Garavaglia (Teresa Rigey), Carlo Tamberlani (Don Costa), Giovanni Barrella (curato di Puria), Emilio Baldanello (dottore), Elvira Bonecchi (signora Barborin), Anna Carena (Carlotta), Giorgio Costantini (avvocato di Varenna), Attilio Dottesio (compagno di Franco), Nino Marchetta (Pedraglio), Jone Morino (donna Eugenia), Anna Mari (Carolina), Felice Mintoti (proprietario dell’albergo “Il delfino”), Mario Soldati (soldato austriaco), Domenico Viglione Borghese (Dino), Franco Vitrotti (compagno di Franco); direttore di produzione: Giulio Niderkorn; ispettore di produzione: Marcello Caccialupi; produzione: Carlo Ponti (non accreditato) per Artisti Tecnici Associati (Ata); distribuzione: Ici; durata: 106’. 1942 | Tragica notte
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo La trappola (1928) di Delfino Cinelli; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Emilio Cecchi, Delfino Cinelli, Enzo Giachino, Lucio De Caro, Mario Soldati; assistente regia: Jone Tuzi; fotografia: Massimo Terzano, Otello Martelli; scenografia: Gustavo Abel, Amleto Bonetti; arredamento: Paolo Reni; consulenza artistica: Gino Carlo Sensani; costumi: Rosi Gori; montaggio: Marcella Benvenuti; fonico: Tullio Parmegiani; musica: Giuseppe Rosati; interpreti: Doris Duranti (Armida), Carlo Ninchi (Stefano), Andrea Cecchi (Nanni), Adriano Rimoldi (conte Paolo Martorelli), Juan De Landa (Faille), Amelia Chellini (madre di Armida), Giulio Battiferri (Gino), Daniele Danielli, Carlo Mariotti, Dora Bini, Marco Monari Rocca; direttore di produzione: Eugenio Fontana; ispettore di produzione: Franco Magli; produzione: Scalera Film; distribuzione: Scalera Film; durata: 85’. 1942 | Malombra
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo omonimo (1881) di Antonio Fogazzaro; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Renato Castellani, Ettore Maria Margadonna, Tino Richelmy, Mario Soldati; assistente regia: Jone Tuzi; fotografia: Massimo Terzano; scenografia: Gastone Medin; arredamento: Gino Brosio; costumi: Maria De Matteis; trucco: Otello Fava; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Gisa Radicchi Levi, Giovanni Paolucci; fonico: Bruno Brunacci; musica: Giuseppe Rosati; interpreti: Isa Miranda (marchesina Maria Vittoria di Malombra), Andrea Cecchi (Corrado Silla), Irasema Dilian (Edith Steinegge), Gualtiero Tumiati (conte Cesare di Ormengo), Nino Crisman (conte Nepomuceno Salvador di Ormengo), Ada Dondini (contessa Fosca Salvador), Giacinto Molteni (Andrea Stefano Steinegge), Enzo Biliotti (Vezza), Corrado Racca (padre Tosi), Nando Tamberlani (don Innocenzo), Doretta Sestan (Fanny), Paolo Bonecchi (dottor Zorzi), Elvira Bonecchi (Giovanna), Giovanni Barella (Giuseppe), Anna Huala (governante di Fosca), Renato Malavasi (fotografo), Giacomo Moschini (ingegner Ferrieri), Luigi Pavese e Filippo Scelzo (medici), Lia di Lorenzo Biliotti, Mario Soldati; direttore di produzione: Dino De Laurentiis; ispettore di produzione: Umberto Bompani; organizzazione generale: Valentino Brosio; produzione: Lux Film; distribuzione: Lux Film; durata: 132’. 1945 | Chi è Dio
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Diego Fabbri, Mario Soldati, Cesare Zavattini; interpreti: Lauro Gazzolo (postino), Giacinto Molteni (signor Pietro), Laura Gore (signora); produzione: Centro Cattolico Cinematografico e Orbis Film; durata: 11’. 1945 | Quartieri alti
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo omonimo (1940) di Ercole Patti e dalla commedia Le rendezvous de Senlis di Jean Anouilh; sceneggiatura: Renato Castellani, Ercole Patti, Mario Soldati, Steno, Mario Bonfantini (non accreditato); collaborazione regia: Leo Longanesi; aiuto regia: Marino Girolami; assistente regia: Jone Tuzzi; fotografia: Otello Martelli, Aldo Tonti; scenografia: Roberto Quintavalle con la supervisione di Gastone Medin; arredamento: Ivo Battelli; montaggio: Gisa Radicchi Levi; musica: Giuseppe Rosati; interpreti: Massimo Serato (Giorgio Zanetti, voce: Giulio Panicali), Adriana Benetti (Isabella), Giulio Stival (falso padre di Giorgio), Gina Sammarco (falsa madre di Giorgio), Nerio Bernardi (Emilio Buscaglione, voce: Sandro Ruffini), Enzo Biliotti (Febo Marcantoni), Maria Melato (Maria Letizia Bruneschi, voce: Giovanna Scotto), Alfredo Del Pelo (il chitarrista alla taverna), Jucci Kellermann (Barbara), Fanny Marchiò (donna Lina Rigotti, voce: Lidia Simoneschi), Vittorio Sanipoli (Roberto, voce: Carlo Romano); direttore di produzione: Carlo Prestipini; ispettore di produzione: Franco Magli; produzione: Ici; distribuzione: Ici; durata: 88’.
1946 | Le miserie del signor Travet
Regia: Mario Soldati; soggetto: dalla commedia Le miserie ’d mönsù Travet (1863) di Vittorio Bersezio; sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Tullio Pinelli; collaboratore alla sceneggiatura: Carlo Musso; aiuto regia: Marino Girolami; assistente regia: Jone Tuzi; fotografia: Massimo Terzano; scenografia: Piero Filippone; arredamento: Gino Brosio; costumi: Vittorio Nino Novarese; assistente costumista: Anna Maria Fea; trucco: Gustavo Edlicca; montaggio: Gisa Radicchi Levi; musica: Nino Rota; fonico: Mario Amari; interpreti: Carlo Campanini (Ignazio Travet), Vera Carmi (Rosa), Paola Veneroni (Marianin), Gino Cervi (commendator Francesco Battilocchio); Pierluigi Verando (Carluccio), Laura Gore (Brigida), Luigi Pavese (caposezione), Mario Siletti (Montoni, detto Môtôn), Michele Malaspina (Rusca), Gianni Agus (Vellano, detto Velàn), Domenico Gambino (Umberto Giachetta), Enrico Effernelli (Paolin Giachetta), Alberto Sordi (Camillo Barbarotti), Carlo Mazzarella (notaio Paglieri), Felice Minotti e Ernesto Collo (uscieri), Mario Soldati; ispettore di produzione: Umberto Bompani; produzione: Dino De Laurentiis per la Pan Film; distribuzione: Lux Film; durata: 100’. 1946 | Eugenia Grandet
Regia: Mario Soldati; soggetto: dall’omonimo romanzo (1833) di Honoré de Balzac; sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Mario Soldati, Emilio Cecchi (non accreditato); aiuto regia: Marino Girolami; fotografia: Vaclav Vich; operatore: Renato Del Frate; scenografia: Maurice Colasson, Gastone Medin; costumi: Gino Carlo Sensani; trucco: Alberto De Rossi; arredamento: Piero Gherardi; montaggio: Eraldo da Roma; musica: Renzo Rossellini; fonico: Gino Fiorelli; interpreti: Alida Valli (Eugenia Grandet), Gualtiero Tumiati (Felix Grandet), Giorgio De Lullo (Carlo Grandet), Giuditta Rissone (signora Grandet), Pina Gallini (Nanon) Enrico Luzi (de Grassin), Lina Gennari (marchesa D’Aubrion), Enzo Biliotti (notaio Cruchet), Mario Siletti (Corneiller), Egisto Olivieri (marchese D’Aubrion), Cesare Olivieri (presidente Cruchet), Lando Sguazzini (abate Cruchet), Giuseppe Varni (banchiere De Grassis), Maria Rodi (signora De Grassis), Gabriella Bonura (Clorinda D’Aubrion), Vittorio Blasi, Enrico Luzi, Tullio Galvani, Mario Soldati; direttore di produzione: Ferruccio De Martino; organizzazione generale: Livio Pavanelli; produzione: Excelsa Film; distribuzione: Minerva Film; durata: 95’. 1947 | Daniele Cortis
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo omonimo (1886) di Antonio Fogazzaro; sceneggiatura: Mario Bonfantini, Luigi Comencini, Aldo De Benedetti, Diego Fabbri, Ugo Lazzarini, Tino Richelmy; aiuto regia: Marino Girolami; assistente regia: Cesare Olivieri, Amleto Pannocchia; fotografia: Domenico Sala, Vaclav Vich; scenografia: Piero Gherardi; costumi: Gino Carlo Sensani; consulenza artistica: Giuseppe Dalla Torre; trucco: Otello Fava; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Nino Rota; fonico: Vittorio Trentino; interpreti: Vittorio Gassman (Daniele Cortis), Sarah Churchill (baronessa Elena Carrer di Santa Giulia), Gino Cervi (barone di Santa Giulia), Gualtiero Tumiati (Lao Carrer), Rubi D’Alma (contessa Tarquinia Carrer), Evi Maltagliati (madre di Elena), Adriana De Roberto (cameriera), Maria Letizia Celli (Fiamma), Massimo Pianforini (Clenezzi), Gaetano Verna (Farini), Lando Sguazzini, Olga Capri, Diego Calcagno, Italo Pirani, Stefano Ceccarelli, Gianni Barrella, Ugo Mari, Giulio Alfieri, Carlo Musso, Mario Soldati; direttore di produzione: Ferruccio De Martino, Attilio Fattori; ispettore di produzione: Orlando Orsini; organizzazione generale: Renato Silvestri; produzione: Salvo D’Angelo per Universalia; distribuzione: Minerva Film; durata: 89’. 1949 | Fuga in Francia
Regia: Mario Soldati; soggetto: Carlo Musso, Mario Soldati; sceneggiatura: Carlo Musso, Ennio Flaiano, Mario Soldati; collaborazione alla sceneggiatura: Mario Bonfantini, Emilio Cecchi, Cesare Pavese, Tino Richelmy; aiuto regia: Marino Girolami, Tino Richelmy, Lauro Venturi; fotografia: Domenico Scala; operatore: Armando Nannuzzi; scenografia e costumi: Piero Gherardi; trucco: Giuliano Laurenti; montaggio: Mario Bonotti; musica: Nino Rota; fonico: Mario Amari, Raffaele Del Monte; interpreti: Folco Lulli (Riccardo Torre), Enrico Olivieri (Fabrizio Torre), Rosina Mirafiore (Pierina), Pietro Germi (Tembien), Mario Vercellone (Gino), Giovanni Dufour (il Tunisino), Gianni Luda (contrabbandiere), Cesare Olivieri (padre Giacomo), Gino Apostolo (brigadiere), Mario Soldati (dottor Stiffi); direttore di produzione: Clemente Fracassi; ispettore di produzione: Silvio Clementelli; organizzazione generale: Bruno Todini; produzione: Carlo Ponti per Lux Film; distribuzione: Lux Film; durata: 104’. 1950 | Quel bandito sono io (titolo inglese: Her Favourite Husband)
Regia: Mario Soldati; soggetto: dall’omonima commedia (1947) di Peppino De Filippo; sceneggiatura: Steno, Mario Monicelli, Mario Soldati; aiuto regia: Marino Girolami; fotografia-effetti speciali: Mario Bava; operatore: Corrado Bartoloni, Ubaldo Terzano; scenografia e costumi: Piero Gherardi; trucco: Otello Fava; montaggio: Douglas Robertson; musica: Nino Rota; fonico: Aldo Calpini; interpreti: Robert Beatty (Antonio Pellegrini/Leo), Jean Kent (Dorothy), Gordon Harker (papà di Dorothy), Margaret Rutherford (mamma di Dorothy), Rona Anderson (Stellina), Norman Shelley (Mr. Dobson), Tamara Lees (Rosana), Max Adrian (Catoni), Christopher Kennard (Nelson O’Hara), Michael Balfour (Pietro), Jack McNaughton (il Greco), Peter Hilling (commissario), Walter Chrisham (Caradotti), Joss Ambler (Mr. Wilson), Mary Hinton (Mrs. Wilson), Danny Green (“Faccia d’Angelo”), Giulio Marchetti (guardiano notturno), Jimmy Ventola (Ciocio Pellegrini); direttore di produzione: Bruno Todini; ispettore di produzione: Nicolò Pomilia; produttori associati: Colin Leslie e John Sutro per Renown (Londra); produzione: Carlo Ponti per la Lux Film; distribuzione: Lux Film; durata: 83’. 1950 | Botta e risposta
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Pietro Garinei, Sandro Giovannini, Amedeo Maiuri, Steno, Mario Monicelli, Pierre Léaud, Marcello Marchesi (non accreditato), Mario Soldati (non accreditato); aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Aldo Tonti; operatore: Luciano Tonti; scenografia: Piero Filippone; arredamento: Mario Garbuglia; costumi: John Pratt; montaggio: Douglas Robertson; musica: Pippo Barzizza; canzoni: Louis Armstrong, Pippo Barzizza, Pasquale Frustaci, V. Mascheroni, Francis Lopez, Renato Rascel, Giovanni D’Anzi, Cesare Andrea Bixio; fonico: Gino Fiorelli; interpreti: Nino Taranto (Pasquale), Isa Barzizza (Cleo), Irasema Dilian (Louise), Dante Maggio (portiere), Fernandel (imbianchino), Ernesto Almirante (colonnello Giuseppe), Enrico Viarisio (Paquito), Ferval (Felipe), Aldo Tonti (direttore di scena), Mario Soldati (addetto oggetti smarriti) e, nel ruolo di se stessi, il Mago di Napoli, Jean London, Raoul Marco, Suzy Delair, Silvio Gigli, Wanda Osiris, Renato Rascel, Andreina Paul, Carlo Dapporto, Nyta Dover, Claudio Villa, Louis Armstrong Orchestra, Katherine Dunham & Boys, Nicholas Brothers, Borrah Minevitch Rascals, Ella Fitzgerald, Barney Bigard, Kay Matthews; ispettore di produzione: Alfredo De Laurentiis; produzione: Dino De Laurentiis per Teatri della Farnesina; distribuzione: Lux Film; durata: 100’. 1951 | Donne e briganti
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Pierre Lestringuez, Vittorio Nino Novarese, Mario Soldati, Nicola Manzari; aiuto regista: Cesare Olivieri; fotografia: Mario Montuori; scenografia: Ottavio Scotti; arredamento: Gino Brosio; costumi: Vittorio Nino Novarese; trucco: Amato Garbini; montaggio: Mario Serandrei; musica: Nino Rota; fonico: Umberto Piscistrelli; interpreti: Amedeo Nazzari (Michele Pezza/Fra’ Diavolo), Maria Mauban (Marietta Luciani), Jean Chevrier (generale Hugo, voce: Mario Pisu), Nando Bruno (albergatore Beato Luciani), Jacqueline Pierreux (Flora), Guido Celano (sergente borbonico), Paolo Stoppa (Peppino Luciani), Enrico Viarisio (cardinale Ruffo), Ada Dondini (madre superiora), Virgilio Riento (Fra’ Marco), Giuseppe Porelli (re Ferdinando I), Enrico Luzi (sentinella), Rina Franchetti (suor Emilia), Felice Minotti (furiere Dupont), Gianni Luda (brigante), Nino Vingelli (Ciccillo), Augusto Di Giovanni (guardia), Giulio Tomasini (Michele bambino), Anna Canali (Marietta bambina); direttore di produzione: Giuseppe Bordogni; ispettore di produzione: Anna Davini; produzione: Valentino Brosio per la Lux Film e Lux Compagnie Cinématographique de France; distribuzione: Lux Film; durata: 91’. 1951 | È l’amor che mi rovina
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Silverio Blasi, Mario Monicelli, Steno, Bernardino Zapponi; aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Mario Montuori; scenografia: Guido Fiorini; scenografia: Guido Fiorini; trucco: Amato Garbini; parrucchiere: Teresa Petitti; montaggio: Roberto Cinquini; fonico: Mario Bartolomei; musica: Mario Nascimbene; canzoni: È l’amor che mi rovina, La mia felicità; interpreti: Walter Chiari (Walter Panaccioni), Lucia Bosé (Clara Montesi), Aroldo Tieri (Carlo), Eduardo Ciannelli (capo delle spie), Jackie Frost (contessa Olga Woronovska), Virgilio Riento (commendatore), Amedeo Deiana, Eugenio Cancelli, Enrico Leurini, “con la partecipazione dei Maestri della Scuola di Sci del Sestriere”; ispettore di produzione: Fernando Cinquini, Anna Davini; produzione: Nicolò Theodoli per Industrie Cinematografiche Sociali (Ics); distribuzione: Ics; durata: 98’. 1951 | O.K. Nerone
Regia: Mario Soldati; soggetto: Steno e Mario Monicelli; sceneggiatura: Age, Sandro Continenza, Mario Monicelli, Fulvio Scarpelli, Steno; aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Mario Montuori; operatore:
Amerigo Paiolo; scenografia: Guido Fiorini; costumista: Dario Cecchi; trucco: Amato Garbini; coreografie: Dino Cavallo Solari, balletto esistenzialista di Parigi del Big Ben Star’s (prima ballerina: Alba Arnova); parrucchiere: Teresa Petitti; montaggio: Roberto Cinquini; musica: Mario Nascimbene; esecuzioni jazzistiche: New Orleans Jazz Band; canzoni: Canto di Poppea, O.K. Nerone e Chi ci vuole; fonico: Mario Bartolomei; interpreti: Walter Chiari (Fiorello Capone), Carlo Campanini (Jimmy Gargiulo), Jackie Frost (Licia), Gino Cervi (Nerone), Silvana Pampanini (Poppea), Rocco D’Assunta (Pannunzio), Gildo Bocci (oste burbero), Giulio Donnini (Tigellino), Enzo Fiermonte (gladiatore), Alda Mangini (Sofonisba), Piero Palermini (Caio Marco), Umberto Sacripante (venditore di ricordi), Ugo Sasso (Muzio), Mario Siletti (Seneca), Bruno Smith (mercante di schiave), Michael Tor (un console), Pietro Tordi (Gladiatore della Gallia), Harry Weedon, Richard Mc Namara, John Myhers, Sandro Bianchi, Pietro Capanna; ispettore di produzione: Fernando Cinquini, Anna Davini; segretario di produzione: Augusto Vivani; produzione e distribuzione: Nicolò Theodoli per Ics; distribuzione: Ics; durata: 86’. 1952 | Il sogno di Zorro
Regia: Mario Soldati; soggetto: Mario Amendola, Ruggero Maccari, Marcello Marchesi; sceneggiatura: Mario Amendola, Ruggero Maccari, Marcello Marchesi, Sandro Continenza; aiuto regia: Cesare Olivieri; assistente regia: Renato Cinquini; fotografia: Mario Montuori; operatore: Amerigo Paiolo; scenografia: Guido Fiorini; costumista: Vittorio Nino Novarese; trucco: Amato Garbini; parrucchiere: Teresa Petitti; montaggio: Roberto Cinquini; fonico: Mario Bartolomei; musica: Mario Nascimbene; interpreti: Walter Chiari (Raimundo), Delia Scala (Estrelita Fernandez), Vittorio Gassman (Juan), Michèle Philippe (Marzia), Carlo Ninchi (Esteban Contrero), Luigi Pavese (Garcia Fernandez), Gualtiero Tumiati (Cesare Alcazan), Riccardo Rioli (notaio), Augusto di Giovanni (Formoso), Gisella Monaldi (Consuelo), Nietta Zocchi (Hermosa Halcazar), Juan De Landa (Pedro), Anna Arena (locandiera), Giacomo Furia (Pancho), Michele Malaspina (dottor Perez), Claudio Ermelli (maestro di musica), Guido Morisi (Ignacio), Costantini (capitano), Sofia Lazzaro (Conchita), Sandro Bianchi (Ramon), Pietro Capanna, Umberto Acquilino; direttore di produzione: Fernando Cinquini; ispettore di produzione: Elio Scardamaglia; produzione: Nicolò Theodoli per Ics; distribuzione: Ics; durata: 86’. 1952 | Le avventure di Mandrin
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Giorgio Bassani, Augusto Frassineti, Vittorio Nino Novarese, Mario Soldati; aiuto regia: Cesare Olivieri, Tino Richelmy; assistente regia: Renato Cinquini; fotografia: Mario Montuori; operatore: Amerigo Paiolo; scenografia: Guido Fiorini; costumi: Vittorio Nino Novarese; trucco: Amato Garbini; montaggio: Roberto Cinquini; musica: Mario Nascimbeni; fonico: Mario Bartolomei; interpreti: Raf Vallone (Luigi Mandrin), Silvana Pampanini (Rosetta), Michele Philippe (marchesa di Mauprivez), Gualtiero Tumiati (Guido Dalbon), Jacques Castelot (marchese di Mauprivez), Vinicio Sofia (intendente Vernay), Roland Armontel (marchese di Roquirolles), Guido Donnini (Patou), Michele Malaspina, Nietta Zocchi, Alberto Rabagliati, Pina Piovani, Riccardo Rioli, Sandro Bianchi; direttore di produzione: Fernando Cinquini; ispettore di produzione: Anna Davini; organizzazione generale: Elio Scardamaglia; produzione: Nicolò Theodoli per Ics e Cormoran Film (Parigi); distribuzione: Ics; durata: 95’. 1952 | I tre corsari
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo Il corsaro verde (1900) di Emilio Salgari; sceneggiatura: Ennio De Concini, Age e Scarpelli, Franco Brusati (non accreditato); aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Tonino Delli Colli; operatore: Sergio Bergamini; scenografia: Flavio Mogherini; arredamento: Piero Gherardi; costumi: Dario Cecchi; trucco: Amato Garbini; montaggio: Leo Catozzo; musica: Nino Rota; fonico: Biagio Fiorelli, Mario Amari; interpreti: Ettore Manni (Corsaro Nero, Enrico di Ventimiglia, voce: Gualtiero De Angelis), Renato Salvatori (Corsaro Rosso, Rolando, voce: Giuseppe Rinaldi), Cesare Danoca (Corsaro Verde, Carlo di Ventimiglia, voce: Giulio Panicali), Marc Lawrence (Van Gould, voce: Emilio Cigoli), Barbara Florian (Isabella), Alberto Sorrentino (Agonia, voce: Lauro Gazzolo), Gualtiero Tumiati (conte di Ventimiglia), Ignazio Balsamo (Van Stiller), Ubaldo Lay (Alvaro), Joop Van Hulzen (viceré di Maracaibo), Marga Cella (Manuela), Amedeo Deiana (Mastro Inferno), Giorgio Costantini (capitano spagnolo), Fernando Iannilli (Sharp), Gianni Luda (aiutante di Van Gould), Ettore Iannetti (Ruben), Gianni De Montero (Pietro), Mimmo Billi (oste), Pina Piovani, Mario Glori, Manuel Serrano, Enzo Musumeci; direttore di produzione: Bruno Todini; ispettore di produzione: Fernando Cinquini; segretario di produzione:
Pio Angeletti, Angelo Binarelli; produzione: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Lux Film; distribuzione: Lux Film; durata: 80’. 1952 | Jolanda, la figlia del Corsaro Nero
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo omonimo (1905) di Emilio Salgari; sceneggiatura: Ennio De Concini, Ivo Perilli e, non accreditati, Franco Brusati, Mario Soldati, Age e Scarpelli; aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Tonino Delli Colli; operatore: Sergio Bergamini; scenografia: Flavio Mogherini; arredamento: Piero Gherardi; costumista: Dario Cecchi; trucco: Amato Garbini; montaggio: Leo Catozzo; musica: Nino Rota; fonico: Biagio Fiorelli, Mario Amari; interpreti: May Britt (Jolanda), Marc Lawrence (conte di Medina), Renato Salvatori (Ralph Morgan), Ignazio Balsamo (Van Stiller), Barbara Florian (Consuelo), Guido Celano (Henry Morgan), Alberto Sorrentino (Agonia), Joop Van Hulzen (Sir Benedix), Domenico Serra (Ramon), Marga Cella (Maria), Amedeo Deiana (Mastro Inferno), Tiberio Mitri (Jordan), Pina Piovani (madre superiora), Felice Minotti (vecchio deportato), Gianni De Montero (tenente spagnolo), Gianni Luda (tenente spagnolo), Ettore Jannetti (capitano Spagnolo), Umberto Spadaro (Sam, padre putativo di Jolanda), Cesare Danova, Fausto Vergal, Umberto Aquilino, Silvio Bagolini; direttore di produzione: Bruno Todini; ispettore di produzione: Fernando Cinquini; segretario di produzione: Pio Angeletti, Angelo Binarelli; produzione: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Lux Film; distribuzione: Lux Film; durata: 89’. 1953 | La provinciale
Regia: Mario Soldati; soggetto: dall’omonimo racconto (1937) di Alberto Moravia; sceneggiatura: Giorgio Bassani, Sandro De Feo, Jean Ferry, Mario Soldati, Jacques Remy (non accreditato); aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: G.R. Aldo [Aldo Graziati], Domenico Scala; operatore: Giuseppe Rotunno; scenografia: Flavio Mogherini; arredamento e costumi: Veniero Colasanti; ambientazione: Piero Gherardi; abiti: [di G. Lollobrigida] Creazioni Fontana; trucco: Euclide Santoli; montaggio: Leo Catozzo; musica: Franco Mannino; fonico: Eraldo Giordani; interpreti: Gina Lollobrigida (Gemma Foresi), Gabriele Ferzetti (prof. Franco Vagnuzzi), Franco Interlenghi (Paolo Sartori), Nanda Primavera (madre di Gemma), Alda Mangini (contessa Elvira Coceanu), Marilyn Buferd (Anna Letizia Sartori), Barbara Berg (Vannina), Renato Baldini (Luciano Vittoni, voce: Gualterio De Angelis), Alfredo Carpegna (conte Sartori), Rina Franchetti, Vernon Jarratt, Anna Maria Sandri, Gianni Luda, Milko Skofic, Denise Grey, Armando Migliari, Massimo Serato, Franca Valeri; direttore di produzione: Antonio Altoviti; ispettore di produzione: Tommaso Sagone, Angelo Binarelli; segretario di produzione: Nello Meniconi; produzione: Attilio Riccio per Electra Compagnia Cinematografica; distribuzione: Warner Bros.; durata: 110’. 1954 | “Il ventaglino” (2° episodio di Questa è la vita)
Regia: Mario Soldati; soggetto: dalla novella omonima di Luigi Pirandello; sceneggiatura: Giorgio Bassani, Mario Soldati; aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Giuseppe La Torre; operatore: Franco La Torre; scenografia: Peppino Piccolo; arredamento: Franco Laurenti; costumi: Maria De Mattesi; trucco: Amato Garbini; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Carlo Innocenzi; fonico: Alberto Bartolomei, Giovanni Rossi; interpreti: Myriam Bru (ragazza madre), Giorgio Costantini (corazziere), Andreina Paul (signora), Pina Piovani (popolana), Mario Corte (il bambino), Antonio La Raina (il venditore ambulante); direttore di produzione: Armando Grottini; ispettore di produzione: Aristodemo Petri; organizzazione generale: Ignazio Balsamo; produzione: Felice Zappulla per Fortunia Film; durata: 13’. 1954 | La mano dello straniero
Regia: Mario Soldati; soggetto: da un racconto originale di Graham Greene; sceneggiatura: Giorgio Bassani, Guy Elmes, Mario Soldati (non accreditato); aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia: Enzo Serafin; operatore: Aldo Scavarda; segretaria di edizione: Betty Forster; scenografo: Luigi Scaccianoce; costumista: Rosy Gori; trucco: Otello Fava; montaggio: Tom Simpson, Leslie Hodgson, Leo Catozzo; musica: Nino Rota; fonico: Charlie G. Knott, C. H. Saunders, Vincenzo Masironi; interpreti: Trevor Howard (maggiore Court, voce: Emilio Cigoli), Richard Basehart (Joe Hamstringer), Richard O’Sullivan (Roger Court), Alida Valli (Roberta Gleukovitch, voce: Lidia Simoneschi), Eduardo Ciannelli (dottor Vivaldi), Arnoldo Foà (Commissario), Guido Celano (questore), Joanne Murray (Signora Harrington), Nerio Bernardi (direttore dell’albergo), Alessandro Paulon (Morgan), Jacopo Tecchio (Giorgio Luzzi), Guido Costantini (Peskovitch), Stephen Murray (console britannico), Olmsted Remington (maître), Angelo Cecchelin (Luza), Nino Vecchina, Armando Papetti e Giovanni Kanz (sicari); direttore di produzione: Franco Magli; ispettore di produzione: Romano Dandi; produzione: Peter Moore e John Stafford per Rizzoli Film e Milo Film;
distribuzione: British Lion; durata: 84’. 1955 | La donna del fiume (titolo francese: La fille du fleuve)
Regia: Mario Soldati; soggetto: Ennio Flaiano, Alberto Moravia; sceneggiatura: Basilio Franchina, Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini, Florestano Vancini, Antonio Altoviti, Mario Soldati; dialoghi: Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini; aiuto regia: Cesare Olivieri; assistente regia: Florestano Vancini; fotografia (Eastmancolor): Otello Martelli; operatore: Roberto Gerardi; scenografia: Flavio Mogherini; arredamento: Arrigo Breschi; costumi: Anna Gobbi; trucco: Goffredo Rocchetti; coreografie: Leo Coleman; montaggio: Leo Catozzo; musica: Angelo Franco Lavagnino, Armando Trovajoli; fonico: Paolo Uccello, Bruno Moreal, Aldo Calpini; interpreti: Sophia Loren (Nives), Rick Battaglia (Gino Lodi), Gérard Oury (Enzo Cinti), Lise Bourdin (Tosca), Enrico Olivieri (Oscar, fratello di Gino), Maria Conventi (Ivana), Ed Fleming (calciatore), Franco Pelegatti (“Chioggia”), Nino Marchetti (maresciallo), Nicola Courcel, Guido Celano, Mimmo Palmara; direttore di produzione: Giorgio Adriani; realizzazione: Basilio Franchina; organizzazione generale: Antonio Altoviti; segretario di produzione: Spartaco Conversi, Piano di Biase; produzione: Dino De Laurentiis e Carlo Ponti per Excelsa Film, Les films du Centaure (Parigi); distribuzione: Minerva Film; durata: 104’. 1957 | Era di venerdì 17 (titolo francese: Sous le ciel de Provence)
Regia: Mario Soldati; soggetto: Piero Tellini, Cesare Zavattini (remake di Quattro passi tra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti); sceneggiatura: Aldo De Benedetti, Marc-Gilbert Sauvajon; aiuto regia: Cesare Olivieri; fotografia (Eastmancolor): Nicholas Hayer; scenografia: Robert Giordani, Jean Mandaroux; montaggio: Christian Gaudin; musica: Paul Misraki; fonico: Pierre Calvet; interpreti: Fernandel (Paolo Verdier), Giulia Rubini (Maria), Alberto Sordi (Mario), Fosco Giachetti (Antonio), Tina Pica (zia Camilla), Leda Gloria (Lucia), Renato Salvatori (Gino), Andrex (Frédéric), Arius (capostazione), Raymonne (maestro), Suzet Maïs (moglie di Paolo), Jean Brochard (negoaziante), Georges Cusin, Dany Carron, Matial Rêbe, Max Mouron; direttore di produzione: Walter Rupp; produzione: Giuseppe Amato e Cité Film (Parigi); distribuzione: Columbia; durata: 97’. 1957 | Italia piccola
Regia: Mario Soldati; soggetto: Andrea Marroni, Fulvio Pazziloro; sceneggiatura: Gigliola Falluto, Domenico Meccoli, Giuseppe Mangione, Mario Soldati; aiuto regia: Cesare Olivieri; assistente regia: Raniero Mangione; fotografia (Totalscope-Ferraniacolor): Tino Santoni; operatore: Enrico Cignitti; scenografia: Peppino Piccoli; trucco: Mario van Riel; montaggio: Nella Nannuzzi; musica: Nino Rota; fonico: Pietro Ortolani; interpreti: Nino Taranto (Vincenzo), Erminio Macario (Sandrin), Enzo Tortora (Alberto), Rita Giannuzzi (Giuliana), Betty Foà, Emilio Rinaldi, Natale Cirino, Peo Giachino, Roy Cicolini; direttore di produzione: Armando Grottini; ispettore di produzione: Enrico Bologna; segretario di produzione: Raimondo Seripa, Franco Di Mauro; produzione: Felice Zappulla per Fortunia Film; distribuzione: RKO; durata: 97’. 1959 | Policarpo, ufficiale di scrittura
Regia: Mario Soldati; soggetto: dal romanzo La famiglia De Tappetti (1903) di Luigi Arnaldo Vassallo (Gandolin); sceneggiatura: Age e Scarpelli; aiuto regia: Cesare Olivieri; assistente regia: Grazia Campori; fotografia (Eastmancolor): Giuseppe Rotunno; operatore: Nino Cristiani; scenografia: Flavio Mogherini; arredamento: Gino Brosio; costumi: Piero Tosi; trucco: Eligio Trani; montaggio: Mario Serandrei; musica: Angelo Francesco Lavagnino; canzone: Il mondo cambia di Renato Rascel; montaggio: Mario Serandrei; fonico: Giovanni Bianchi; interpreti: Renato Rascel (Policarpo De Tappetti), Peppino De Filippo (Cesare Pancarano), Carla Gravina (Celeste), Renato Salvatori (Mario), Luigi De Filippo (Gegé), Lidia Martora Maresca (Amelia Pancarano), Massimo Pianforini (ministro), Trini(dad) Montero (Eufemia); Romolo Valli (commendator Laurenzi), Ernesto Calindri (Ettore Tiburzi), Checco Durante, Anita Durante (genitori di Mario), Toni Soler (Franquinet), José Isbert (maresciallo), Rodriguez Elias (Edelweiss), Roberto Rey (Agenore), Maurizio Arena (fattorino), Memmo Carotenuto (venditore di castagnaccio), Mario Riva (militare), Vittorio De Sica (mago), Amedeo Nazzari (carabiniere), Alberto Sordi (coccolinaro), Ugo Tognazzi (professore); direttore di produzione: Francisco Pineda; ispettore di produzione: Anna Davini, Lucio Bompani; segretario di produzione: Anna Maria Campanile; produzione: Silvio Clementelli per Titanus, Société Générale de Cinématographie (Parigi), Hispamer Film (Madrid); distribuzione: Titanus; durata: 103’.
1990 | Torino (in 12 registi per 12 città)
Regia: Mario Soldati; sceneggiatura: Mario Soldati; aiuto regia: Giovanni Soldati; assistente regia: Massimo Tradori; montaggio: Pierluigi Leonardi; musiche e canzoni: Italo Greco; organizzazione: Luigi Millozza; produzione: Ettore Pasculli per Istituto Luce e Ministero del Turismo e dello Spettacolo; distribuzione: Istituto Luce; durata: ‘8. COLLABORAZIONI 1931 | Figaro e la sua gran giornata
Regia: Mario Camerini; (aiuto regia) 1932 | La cantante dell’opera
Regia: Nunzio Malasomma; (sceneggiatore) 1932 | Gli uomini, che mascalzoni...
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1932 | La tavola dei poveri
Regia: Alessandro Blasetti; (sceneggiatore) 1933 | Acciaio
Regia: Walter Ruttmann; (sceneggiatore e, non accreditato, aiuto regia) 1933 | Cento di questi giorni
Regia: Augusto e Mario Camerini; (sceneggiatore) 1934 | Giallo
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1934 | Il cappello a tre punte
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1936 | Ma non è una cosa seria
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1936 | Il grande appello
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1937 | Contessa di Parma
Regia: Alessandro Blasetti; (sceneggiatore e aiuto regia) 1937 | Il signor Max
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore e aiuto regia) 1937 | Stasera alle undici
Regia: Oreste Biancoli; (sceneggiatore) 1938 | Voglio vivere con Letizia
Regia: Camillo Mastrocinque; (sceneggiatore) 1938 | L’orologio a cucù
Regia: Camillo Mastrocinque; (sceneggiatore) 1939 | Castelli in aria
Regia: Augusto Genina; (sceneggiatore) 1939 | Il documento
Regia: Mario Camerini; (sceneggiatore) 1940 | Il peccato di Rogelia Sanchez Regia: Carlo Borghesio; (sceneggiatore) 1942 | Un colpo di pistola
Regia: Renato Castellani; (sceneggiatore) 1946 | Mio figlio professore
Regia: Renato Castellani; (attore) 1950 | Napoli milionaria
Regia: Eduardo De Filippo; (attore) 1954 | Questi fantasmi
Regia: Eduardo De Filippo; (sceneggiatore) 1956 | Guerra e pace
Regia: King Vidor; (sceneggiatore e regia della seconda unità) 1959 | Ben Hur
Regia: William Wyler; (regia della seconda unità)
TELEVISIONE 1957 | Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini
(regia e sceneggiatura in collaborazione con Carlo Musso, Lorenzo Rocchi, Tino Richelmy; dodici puntate) 1960 | Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno
(regia e sceneggiatura in collaborazione con Cesare Zavattini, Carlo Musso, Tino Richelmy; sette puntate) 1974 | A carte scoperte
(ideazione, con Cesare Garboli, conduzione e regia)
LIBRI MONOGRAFICI
AA.VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino, 1991. Bolzoni F., Mario Soldati, «Centrofilm» [Quaderni di documentazione cinematografica Università di Torino], n. 20, aprile 1961. Caldiron O. (a cura di), Letterato al cinema: Mario Soldati anni ’40, Quaderni di documentazione della Cineteca Nazionale, Roma, 1979. Gili J.A. (a cura di), Mario Soldati, Edizioni Cinecittà International, Roma, 1992. PRINCIPALI SCRITTI DI SOLDATI SUL CINEMA
America primo amore, Bemporad, Firenze 1935 [in particolare il capitolo Cinematografo; l’edizione più recente è Sellerio, Palermo, 2003]; F. Pallavera, 24 ore in uno studio cinematografico, Corticelli, Milano 1935 [nuova edizione firmata in chiaro, Sellerio, Palermo 1986]; Il grande appello, «Lo schermo», novembre 1936; Colloquio con Charles Laughton, «Cinema», n. 7, ottobre 1936; “Libri famosi come trama”, in AA.VV., Stile italiano nel cinema, D. Guarnati, Milano, 1941; Lettera su Tragica notte, «Film», 25 luglio 1942; Preparando Malombra, brochure pubblicitaria del film, 1942 [ora in AA.VV., Mario Soldati. La
scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino, 1991]; L’operatore, «Film», n. 35, 1943 [ripubblicato con alcune variazioni e con il titolo di Elogio dell’operatore in «Cinema Nuovo», n. 142, 1959, e ora in AA.VV., Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, cit.]; Di alcune forme di empietà dell’arte moderna, «Lo spettatore italiano», n. 1, gennaio 1949; È arte il cinema, «Epoca», 11 novembre 1950; Come si può risolvere il problema degli attori, «Cinema Nuovo», n. 8, aprile 1953; Domande e risposte, «Bollettino del Neorealismo», n. 2, allegato a «Cinema Nuovo», n. 57, aprile 1955; “Cinema e letteratura”, in Cinema d’oggi, Vallecchi, Firenze, 1958; Prefazione a F. M. De Sanctis, Alberto Lattuada, Guanda, Parma, 1961; Da spettatore (Un regista al cinema), Mondadori, Milano, 1973; “Tre film scritti con Mario Bonfantini”, in AA.VV., Mario Bonfantini. Saggi e ricordi, La Strona, Novara, 1983; Ricordo di Nino Rota in Comuzio Ermanno, Vecchi Paolo (a cura di), I film di Nino Rota, Tecnostampa, Reggio Emilia, 1987; Cinematografo, Sellerio, Palermo, 2006 [raccolta di racconti di argomento cinematografico, ritratti di registi e attori, scritti sul cinema e recensioni dal volume Da spettatore]. SELEZIONE DI SAGGI E PAGINE IN VOLUME
Albano L., “L’illusione. A profitto dell’immaginario: Eugenia Grandet, Bellissima”, in Id., Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio, Venezia, 2004 [originariamente pubblicato col titolo Da Balzac a Soldati: da Eugénie a Eugenia in «La scena e lo schermo», n. 3, dicembre 1994]. Bianchi P., “Mario Soldati”, in Id., Maestri del cinema, Garzanti, Milano, 1972 [ma il breve ritratto è datato 1953: cfr. Materiali sui singoli film – La provinciale]. Caldiron O., “Mario Soldati, primo tempo”, in Id., Il paradosso dell’autore, Bulzoni, Roma, 1999. Costa A., “«Risotti con tartufi»: Soldati, Fogazzaro e il calligrafismo”, in Martini A. (a cura di), La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Marsilio, Venezia, 1992. Costa A., “Malombra sullo schermo”, in Id., I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni, Roma, 2002. Gromo M., Cinema italiano (1903-1953), Mondadori, Milano 1954. Farassino A., “I nipotini di Mattia Pascal. Pirandello e il pirandellismo nel cinema italiano degli anni Trenta e Quaranta”, in M.A. Grignani (a cura di), Il cinema e Pirandello, La Nuova Italia, Firenze, 1992. Frank N., Cinema dell’arte, Bonne, Parigi, 1951. Lizzani C., Il cinema italiano, Parenti, Firenze, 1953 ed edizioni successive. Lodato N., “«Il cinema, io non ho mai voluto farlo»”, in Ioli G. (a cura di), Mario Soldati: lo specchio inclinato, Atti del Convegno Internazionale di San Salvatore Monferrato (8-9-10 maggio 1997), Edizioni della Biennale “Piemonte e Letteratura”, San Salvatore Monferrato, 1999. Martini A., “Soldati – Poggioli – Chiarini. Una questione di spazio, simmetrie, artificio”, in Id. (a cura di), La bella forma, cit. Morabito L., “Dalle ambiguità drammatiche di Fogazzaro ai dagherrotipi parlanti di Soldati”, in J. P. Welle (a cura di), Film and Literature, «Annali di Italianistica», vol. 6, University of Notre Dame, Notre Dame, 1988. Pellizzari L., Valentinetti C. M., Il romanzo di Alida Valli, Garzanti, Milano, 1995. Sadoul G., Le cinéma pendant la guerre, Denoël, Parigi, 1954. SAGGI E ARTICOLI IN RIVISTA
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Doletti M., «Film», n. 9, marzo 1938. Sabatello D., Filtro giallo. Figure obbligate dello schermo, «Cinema Illustrazione», n. 14, aprile 1938. Sabatello D., «Cinema Illustrazione», n. 43, ottobre 1937. Samperi G.V., Una principessa nella Torre di Babele, «Star», n. 1, gennaio 1938. La signora di Montecarlo
Gherardi G., «Film», n. 47, dicembre 1938. Sacchi F., «Corriere della sera», 15 dicembre 1938. Vice, «Cinema Illustrazione», n. 36, settembre 1938. Vice, «Rivista del Cinematografo», n. 1, gennaio 1939. Vittorio G., Una principessa nella torre di Babele, «Cinema Illustrazione», n. 1, gennaio 1938. Due milioni per un sorriso
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Santarelli G., «Rivista del Cinematografo», n. 9, settembre 1950. Vice, «Rivista del Cinematografo», n. 5, maggio 1950. Botta e risposta
Aristarco G., «Cinema», n. 34, marzo 1950. Santarelli G., «Rivista del Cinematografo», n. 4, aprile 1950. Donne e briganti
Vice, «Cinema», n. 66, luglio 1951. È l’amor che mi rovina
Gabella F., «Intermezzo», nn. 20-21, novembre 1951. O.K. Nerone
Aristarco G., «Cinema», n. 77, dicembre 1951. Vice, «Rivista del Cinematografo», n. 2, febbraio 1952. Le avventure di Mandrin
Vice, «Cinema Nuovo», n. 4, febbraio 1953. Il sogno di Zorro
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Grazie a Luisella Farinotti, Jean Gili, Luisa Giordano, Giovanni Tesio, Giorgio Bacchiega, Gloria Della Gatta, Francesca Alice Guidali, Mariapia Pagani. Per la foto di copertina, proveniente dal Fondo Peroni, si ringrazia il Collegio Ghislieri di Pavia, e in particolare Francesca Betteni-Barnes, responsabile della collezione, e Alessandra Miracca. Grazie a Marco Vanelli, direttore di «Ciemme», per la generosa condivisione di materiali e informazioni. Grazie a Simone Spoladori per la “compostezza” intellettuale con cui ha risposto alle più diverse e tardive richieste di aiuto, e a Patrizia Pinotti, perché c’è sempre e riesce a farmi ridere, nonostante tutto. Questo libro non sarebbe nato senza l’entusiasmo, la generosità e l’incoraggiamento di Nuccio Lodato, che ne ha seguito a distanza ravvicinata l’elaborazione e la scrittura. Lo voglio ringraziare per i consigli, le letture e i tanti “tocchi di classe” suggeriti tra una riga e l’altra, ma anche perché la sua lezione di metodo e vita, ancora una volta, ha saputo rinnovare quella di Alberto Farassino, amico e maestro mai dimenticato. Alla mia nonna materna e al suo “piccolo mondo antico”.
Indice
Dottore, cinematografaro, regista Mario Soldati Introduzione Prologo. Soggetti, sceneggiature e mezzi film (1931-1938) Primo tempo. Commedie, milioni, cinema (1939-1940) Secondo tempo. Letteratura: Fogazzaro, Patti, Cinelli, Balzac (1941-1947) Terzo tempo. Donne, briganti e ladri. E un intermezzo comico (1949-1951) Intermezzo. Sei film in due anni: una questione alimentare (1951-1953) Quarto tempo. Ritorno al serio, nostalgie e conclusione (dal 1953)
Filmografia Nota bibliografica