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Italian Pages 300 [308] Year 1994
Norberto Robbio
Maestri e compagni
Piero Calamandrei, Aldo Capitini Eugenio Colorni, Leone Ginzburg Antonio Giuriolo,Rodolfo Mondolfo Augusto Monti, Gaetano Salvemini
Passigli Editori
© 1984, 1994 Passigli Editori, via Doccia 5, Firenze
PREFAZIONE
Devo a Stefano Passigli l'idea di raccogliere alcuni miei scritti su personaggi contemporanei in un volume che può essere considerato una prosecuzione e un ampliamento di una delle mie opere più fortunate, Italia civile, pubblicata dall'Editore Lacaita di Manduria nel 1964. Anche questa è composta, come la precedente, di « ritratti e testii:nonianze ». Il titolo rispecchia fedelmente la divisione del libro in due parti. Dei dieci ritratti qui contenuti, cinque sono dedicati a persone della generazione precedente cui sono stato legato, in alcuni casi da affettuosa amicizia, sempre da un senti.mento di riconoscenza per l'opera da loro compiuta in difesa della dignità umana in tempi di umiliazione e di servitù, e per i quali la parola « maestri » non è retorica celebrativa: Salvemini, di cui espongo in due saggi la concezione generale della vita e della democrazia; Piero Cala.mandrei, che ho sempre awto innanzi alla mia mente come un inimitabile esempio di chiarezza intellettuale e di passione civile; Mandolfo, col quale ebbi una lunga e cordiale corrispondenza durante la preparazione della raccolta dei suoi scritti marxistici (uscita da Einaudi nel 1968); Augusto Monti, che rappresentò per me e per gli amici di allora il continuatore dell'opera di educazione civile di Piero
Gobetti. Gli altri cinque scritti sono dedicati a miei coetanei: di questi, tre, Leone Ginzburg, mio compagno di liceo, Antonio
Giuriolo, amico degli anni padovani tra cospirazione e lotta armata, Eugenio Colorni, che non conobbi personalmente ma al quale mi legò l'assidua comune collaborazione alla « Rivista di Filosofia», diretta da Piero Martinetti, furono uccisi dai fascisti nell'età della raggiunta vigorosa maturità. Il quarto, Aldo Capitini (qui rappresentato, come Salvemini, con due saggi che chiudono il volume come quelli su Salvemini lo aprono), fu, insieme con Guido Calogero, uno degli ispiratori del movimento liberal-socialista, e il primo fermo assertore, in Italia, della teoria e della pratica della non violenza. Sono saggi nati da occasioni esterne, e ne serbano le tracce, ma li ho pubblicati cosl come sono stati scritti salvo qualche piccolo taglio e qualche ritocco formale. Non sono però frutto di improvvisazione. Ho colto l'occasione che li ha provocati per esprimere idee radicate, ricordi sempre vivi nel mio animo, convinzioni cosl profonde da poter essere considerate quasi una seconda natura. Occasioni, come convegni (i due saggi su Salvemini, quello su Mondolfo e uno dei due su Capitini); commemorazioni (i saggi su Augusto Monti e su Antonio Giuriolo); introduzioni a raccolte di scritti (Ginzburg, Calamandrei, Colomi e il secondo saggio su Capitini). Sono anche diversi per il modo con cui il tema è stato trattato: in alcuni prevalgono la rievocazione, il ricordo, la testimonianza, e non nascondono lo stato d'animo di profonda e talora commossa partecipazione con cui li ho scritti (e sono in parte anche autobiografici, se non altro di riflesso); in altri prevale l'esposizione e la discussione di idee. Ma anche nei primi (si vedano i due saggi su Monti e su Ginzburg) non manca il tentativo di riassumere gli ideali che hanno guidato l'azione. In nessuno la ricostruzione del pensiero è del tutto distaccata, compassata, freddamente obiettiva (si veda il saggio su Colomi, pure eminentemente filosofico). I due scritti in cui la fusione della rievocazione e della ricostruzione è più perfetta sono quelli dedicati a Calamandrei e a Capitini. Ad ogni modo non ce n'è uno che sia meramente biografico, pur contenendo tutti o quasi tutti elementi di biografia. I personaggi di questa raccolta si muovono nell'area poli-
tica che sta tra liberalismo e socialismo, con qualche interesse anche per il marxismo ma sempre per un marxismo non dogmatico. Rappresentano l'area che si suole chiamare di democrazia laica, in cui il solo Capitini con la sua vocazione religiosa non può essere fatto rientrare, anche se il suo ideale di una democrazia integrale non lo rende, politicamente, diverso dagli altri. In tutti è stata più forte la passione etica e teorica che quella pratica e politica, e una collocazione soltanto politica potrebbe apparire troppo limitativa e persino fuorviante. Ho cercato quasi sempre di collegare l'opera dei singoli autori alla vita culturale italiana di quegli anni. Quando mi si è offerta l'occasione (Salvemini, Colorni, Capitini) ho cercato pure di ricostruire il clima filosofico dell'età che sta tra il tramonto dell'idealismo, i conati esistenzialistici, e la nascita di un effimero, spaesato, nuovo illuminismo. Ho premesso alla raccolta un articolo in cui, prendendo lo spunto da un libro di Eugenio Garin che presentai a Firenze al momento della sua uscita, affronto ancora una volta il tema degli intellettuali, su cui sono tòrnato spesso quasi ad ogni stagione, a cominciare dagli scritti del primo decennio dopo la Liberazione raccolti nel volume Politica e Cultura (1955), e mi pongo il problema della cultura fascista, su cui sono stato spesso in dissenso con gli storici della nuova generazione. Ogni discorso sulla funzione degli intellettuali mi è sempre sembrato generico e sterile; non esiste una categoria di intellettuali di cui si possa dire che abbiano un compito specifico nella società. Sono, sl, i trasmettitori, gli elaboratori e i propagatori di idee, di dottrine e talora anche di interi sistemi filosofici; ma fra loro vi sono differenze profonde. Vi sono gli utopisti e i realisti, i fanatici e i cinici, gli amici e i nemici del potere costituito; rispetto alla politica, gli impegnati e gli indifferenti; rispetto alle religioni costituite, i credenti e i non credenti; rispetto alla storia passata i tradizionalisti e gli innovatori; rispetto alla storia futura i pessimisti e gli ottimisti. I personaggi qui presentati - non a caso perché sono coloro cui va la mia simpatia - appartengono tutti a quella sparuta minoranza di nobili spiriti che hanno difeso strenua-
mente, alcuni sino al sacrificio della vita, in anni durissimi, la libertà contro la tirannia, la tolleranza contro la sopraffazione, l'unità degli uomini al di là delle razze, delle classi e delle patrie contro la divisione tra eletti e reprobi. Non hanno mai svolto azione politica se non in rare circostanze pur avendo avuto un vivo e continuo interesse per le cose della politica. Rappresentano non solo un'altra Italia, ma anche un'altra Storia: una Storia che sinora non ha mai avuto piena attuazione, se non in rarissimi momenti tanto felici quanto di breve durata. Del cui avvento, pur dopo due lunghe guerre mondiali, che alla loro fine avevano acceso tante speranze, non riesco a cogliere nel prossimo futuro alcun visibile segno.
Aprile 1984
Norberto Bobbio
CAPITOLO I
Le colpe dei padri
Delle cose che posso avere in comune con l'amico Garin non tocca a me parlare. Ma consentitemi di dirvene solo una, che non è un segreto e non comporta alcun giudizio di valore, perché è un dato obiettivo: l'età. Siamo nati entrambi nd 1909. Una data che in questa storia degl'intellettuali cui Garin ha dedicato tante pagine importanti ha un certo rilievo. Essere nati nel 1909 vuol dire che quando cadde il fascismo avevamo trentacinque anni, eravamo cioè giunti a metà della nostra strada, e che, essendo passati da allora altri trent'anni, abbiamo trascorso nel dopo-fascismo l'altra metà. Vuol dire insomma che la fine del fascismo ha spaccato in due parti presso che eguali la nostra vita. Per quel che di personale, di autobiografico, hanno i bilanci di una generazione, non si può non tenere nel debito conto questo dato anagrafico. Ognuno si porta dietro le sue memotj.e (quando ne ha), anche se poi scambia le proprie memorie con la Storia (cioè con la Memoria universale). A chi vede la propria vita divisa da una profonda frattura tra un prima e un dopo, e considera il momento della frattura come il momento della rinascita, dell'emergere di un mondo nuovo - dalla guerra (e quale guerra!) alla pace, da un mondo di terrore a un mondo di sperame e di progetti per l'avvenire - , è difficile, molto d.iflicile, quasi repugnante, accettare la tesi, cara a molti storici e critici più giovani, della « continui-
tà ». Il tema della continuità è all'ordine del giorno. E non per nulla vi accenna sin dalle prime pagine Garin, parlando di « una generica affermazione di una continuità fra cultura pre-
fascista, fascista e postfascista » che avrebbe « alimentato in forme ingenue, e di nuovo pura.mente retoriche i rifiuti globali, e immediati, di tradizioni culturali, istituti e scuole: rifiuti simmetrici alle più stupefacenti rivalutazioni indiscriminate di posizioni indissolubilmente intrecciate, almeno nella storia italiana, all'avvento del fascismo » 1 • Tema, dicevo, all'ordine del giorno. Conviene dunque affrontarlo, ben s'intende nei limiti in cui possono essere tratti argomenti, spunti, illuminazioni dal libro di cui ci stiamo occupando. Ma è necessaria una premessa, anche se sarà un po' lunga. Il discorso sugli intellettuali è sempre un discorso molto difficile. Per varie ragioni. Prima di tutto perché il discorso sugli intellettuali lo fanno, e non possono non farlo, gli stessi intellettuali (chiunque si ponga questo problema diventa per il fatto stesso di porselo un intellettuale, anche se dice peste e corna degli intellettuali alla cui congrega ritiene di non appanenere). E: un discorso che gl'intellettuali, che sono i tecnici del « discorso», fanno su se stessi: un discorso insomma in cui sono parte in causa e che li induce a una certa indulgenza verso se stessi, lungo un processo che comincia dall'auto-commiserazione (il tema cosl frequente della incomprensione da parte della massa, dei politicanti, o in genere dei non-intellettuali), passa attraverso l'auto-giustificazione (il tema dei tempi duri, e la necessità di nascondersi, di mimetizzarsi, di non dare nell'occhio), e finisce, a cose fatte, nell'auto-apologia (il tema delle idee che trasformano il mondo). A questo punto può accadere che l'auto-apologia si converta per reazione nell'auto-denigrazione, nell'invito, che abbiamo sentito venire da varie parti, di scomparire, di cancellarsi, di mettersi al servizio della massa, del partito, della classe, o peggio di qualche dio terribile e ignoto, come la nazione (un atteggiamento di questo genere una volta si chiamava « tradimento dei chierici »), lungo un processo simmetrico e inverso, che comincia dall'auto-svelamento della propria impotenza (il tema delle idee che non contano niente, proprio
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del materialismo volgare), passa attraverso l'auto-flagellazione (il tema dell'« abbiamo sbagliato tutto, ci siamo creduti chi sa chi e la storia è passata oltre senza accorgersi di noi »). per finire nell'auto-distruzione (il tema, che io non esito a definire sinistro, del suicidio dell'intellettuale). Discorso difficile, ripeto, quello degli intellettuali su se stessi, perché tanto l'auto-difesa quanto l'auto-condanna sono l'espressione non già di un esame critico, di una spassionata ricerca storica - e qui intendo «spassionato» non come l'antitesi di «impegnato» ma come l'antitesi di «tendenzioso» - , bensl di una coscienza distorta (buona o cattiva che sia) del proprio ruolo. Difficile anche, questo discorso, perché attraverso questa coscienza distorta l'immagine che gl'intellettuali presentano di se stessi è spesso falsa, non coincide con la realtà storica, con la loro funzione reale, e pertanto per fare un discorso serio sugl'intellettuali bisognerebbe prima di tutto fare un repertorio di queste immagini e metterle alla prova dei fatti. Ci si accorgerebbe subito che è un repertorio molto vasto e vario, dal quale si dovrebbe trarre l'avvertimento a non considerare gli intellettuali come una categoria omogenea, o peggio una corporazione come quella dei medici o una casta come quella dei generali. Ne cito a caso alcune: interprete e portavoce dello Spirito, missionario e funzionario dell'umanità, custode delle verità eterne, difensore dei valori ultimi, mentore e pedagogo della nazione, consigliere privilegiato del principe o al contrario critico e antagonista del Potere, avanguardia della classe rivoluzionaria o guardiano integerrimo dell'ideologia del Partito-guida, indispensabile mediatore, elaboratore delle grandi sintesi storiche, provocatore d'idee, « franco tiratore», ascetico predicatore nel deserto, disinteressato scrutatore di fatti e soltanto di fatti, cavaliere errante che combatte per la giusta causa anche se è perfettamente consapevole che è perduta, ideologo della classe dominante o della classe che dovrebbe rovesciarla, mistagogo o demistificatore, ora solenne come un sacerdote, ora pedante come un erudito, oppure ardente come un profeta freddo e compassato come un burocrate, imparziale come un giudice, parzialissimO come chi combatte da una parte per ab11
battere l'altra, di volta in volta, secondo le circostanze, impegnato o indifferente, imperturbabile o fanatico, esaltante la virtù dell'appassionamento o quella diametralmente opposta del distacco, e via enumerando. Mi fermo qui per non tediarvi. Ma potrei continuare. Ho voluto soltanto darvi un esempio della molteplicità e della contraddittorietà degli atteggiamenti che possono essere compresi nel concetto estremamente semplificante e semplicistico dell'intellettuale. Sono tutti atteggiamenti che hanno un qualche nesso con ciò che si può fare con le idee, cioè con quei mezzi di formazione del consenso e del dissenso di cui sono dispensatori appunto gl'intellettuali (e che costituisce la loro funzione specifica): incitare, eccitare, fomentare, persuadere e dissuadere, consigliare, convincere, minacciare e terrorizzare, educare e diseducare, elevare e deprimere, incoraggiare e scoraggiare, sedurre, lusingare, suggestionare, e naturalmente anche, qualche volta, far riflettere. Credo che un buon criterio per abbozzare una tipologia di questi atteggiamenti e quindi delle diverse figure d'intellettuale, sarebbe quello che tenesse conto del diverso modo di concepire il rapporto col potere e in genere con la politica. Anzitutto quale potere? Il potere costituito o il potere costituendo? Il potere effettivo o il potere in fieri? E poi, la funzione dell'intellettuale è quella di mettersi al servizio del potere, quale che esso sia, stabilito o da stabilire, o di guidarlo, oppure di fare in modo come se il potere non esistesse? Se il problema, ripeto, è difficile, dipende proprio dal fatto che la posizione dell'intellettuale in una determinata società è relativa al rapporto che egli ritiene di dover instaurare con la politica, e questo rapporto può essere diversissimo. Le ragioni del contendere degli intellettuali fra loro sono astrattamente connesse al diverso modo d'intendere questo rapporto, cioè col fatto che ognuno l'intende a suo modo e ritiene il proprio modo il solo giusto. Scusate se insisto, ma desidero mostrare la rozzezza di tutti i discorsi generici su questi creatori, fabbricatori, manipolatori, organizzatori, combinatori d'idee, che pur continuano ad avere un'attrattiva incredibile nella pubblicistica, e anche nella storiografia corrente. 12
Anche per questo ritengo salutare la lettura di un libro come quello di Garin, che non ha alcuna tesi precostituita da dimostrare, se non che il terreno su cui ci si muove quando si fa storia di intellettuali (si badi non degli intellettuali) è un terreno su cui bisogna camminare coi piedi di piombo, e che dopo aver percorso e scavato pezzo per pezzo, e non essersi limitati a guardare di sfuggita e dall'alto, ci si accorge essere un terreno molto più accidentato di quel che si vada dicendo. Nell'introduzione Garin parla di una c.ultura italiana « né monocorde né isolata» .6no allo scoppio della guerra 1915-1918; di quanto « fu agitato di continuo ,.. lo schieramento degl'intcllettuali all'epoca della «Voce»; dei « contrasti profondi» che agitarono l'I talla in quegli anni e si ri.Bettevano nel mondo delle idee; di « molteplicità di linee » della nostra cultura in questo secolo. Nessuno più dubita che vi sia un nesso fra cultura e società, che le idee siano il ri.Besso della società in cui si formano, etc. etc. Ma guai a dimenticare che questo nesso non è mai immediato, che le spiegazioni cosiddette strutturali delle ideologie debbono essere condotte con la stessa sottigliezza e con la stessa cautela con cui i malfamati storici tradizionali delle idee connettono fra loro le idee, deducendo le une dalle altre. Anche su questo punto desidero dichiarare il mio consenso e il mio debito ai saggi di Garin, in cui si legge che « pretese spiegazioni profonde, strutturali, di mutamenti di idee morali, filosofiche, religiose, politiche, fanno pensare solo alla chiamata in causa di un dio ascoso, inconoscibile, e perciò sconosciuto » 1 • La lettura del libro, delle singole storie d 'intellettuali di cui è composto, conferma la tesi su cui sto insistendo della complessità di tutta questa storia e della sua irriducibilità all'unico principio e all'unico fine. Tra Croce e Gramsci, i due pilastri, c'è posto per personalità diversissime fra loro, come Vailati e Ban.6, come Cantimori e Curiel, per non parlare di Serra o di Michelstaed.ter. Analizzandoli a uno a uno, questi « intellettuali del XX secolo », ci si accorge quanto siano pericolose e sbagliate le generalizzazioni troppo facili rui ci si lascia andare troppo spesso per amore di polemica. L'unica cauta generalizzazione che mi sentirei di fare è che le grandi meta-
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morfosi sono avvenute non durante la prima crisi, all'avvento del fascismo, ma durante la seconda, all'estenuazione e alla caduta del fascismo. Il che mi consente di dire, anzi di ripetere (perché l'ho già sostenuto altre volte, se pure senza successo), che l'evento che ha inciso profondamente sulla cultura italiana non è stato il fascismo - culturalmente povero e incondito ma, attraverso la crisi e la caduta del fascismo, il passaggio all'età della restaurazione post-fascista o della ricostruzione nazionale. Ed eccoci arrivati al problema della continuità. Comincio a distinguere la continuità prefascismo-fascismo dalla continuità fascismo-postfascismo. Mi occupo soltanto della seconda, cui si riferiscono le mie esperienze personali. Intanto si deve distinguere la continuità in senso negativo da quella in senso positivo. I giovani critici ne parlano naturalmente nel primo senso e per parlarne in questo senso debbono sostenere due tesi: primo, che sia esistita una vera e propria cultura fascista (che peraltro riconoscono quasi esclusivamente in quello che vien chiamato « fascismo di sinistra », e ciò per quella deformazione ideologica per cui non ci sarebbe cultura se non a sinistra); secondo, che gran parte della cultura post-fascista discende da quella fascista, o, se cambiamento c'è stato, è stato un cambiamento apparente, a fior di pelle, non per convinzione ma per quello spirito di adattamento al mutar di regime che sarebbe stato proprio nei secoli del « letterato » italiano: il che è stato chiamato sprezzantemente «trasformismo». Per una certa parte della giovane critica il trasformismo è diventato una specie di chiave universale per la comprensione della essenza dell'intellettuale italiano. Ho molte ragioni di dubitare sia della prima sia della seconda tesi. Capisco bene che mi si può rimproverare di cadere in quell'autodifesa dell'intellettuale in angustie, di cui ho parlato testé. Non lo escludo. Ma ho un'attenuante. Per capire quel che è successo negli anni infernali bisogna essere discesi agli inferi. Non solo esserci discesi, ma essere stati costretti a restarci tutti gli anni della propria formazione intellettuale e 14
morale. Anni infernali, chi può dubitarne? Guerra di Etiopia, guerra di Spagna, l'impero di sangue, l'« amicizia brutale )), le leggi razziali, la guerra, il terrore (non immaginario, ma reale, vissuto giorno per giorno) del dominio di Hitler nel mondo. Mi rendo perfettamente conto che è difficile parlare delle stesse cose (piuttosto oscure come sono le idee, le loro varie e ambigue espressioni, i loro intricati conflitti), partendo da esperienze tanto diverse; e non auguro a nessuno anni infernali per il solo piacere di discutere con un avversario passato attraverso gli stessi orrori. Certo, è difficile, nonostante l'abitudine professionale al distacco dello storico, far tacere in una materia come questa i propri sentimenti e risentimenti. Non esito a dire che quelle due tesi - l'esistenza di una cultura fascista e la sua continuità o persistenza anche oggi - suscitano in me una ripugnanza istintiva, la prima perché dà un appoggio insperato e insospettato alle vanterie fasciste di allora e alle tristi riesumazioni di oggi; la seconda, perché risolve la crisi di coscienza di una generazione devastata nelle solite riverenze dell'italico cortigiano o peggio nelle furberie- del più volgare ma non meno italico Arlecchino servo di tutti i padroni. Ma quando nego che vi sia stata una cultura fascista o contesto che la cultura post-fascista sia stata soltanto un travestimento, cerco di far tacere la passione e di far parlare la ragione. Se c'è stata una cultura fascista nel secondo decennio tra il 1935 e il 1945 (nel primo decennio sono tutti d'accordo nel dire che se cultura fascista ci fu, questa fu di derivazione idealistica, il che ci porterebbe a parlare di continuità, se mai, sull'altro versante, cioè tra prefascismo e fascismo), noi che ci siamo vissuti dentro non ce ne siamo accorti. A ogni modo, fuori i nomi: il nome di un solo libro che conti, di un solo autore che abbia lasciato il segno, cui si possa attribuire il titolo o l'epiteto di fascista. Nicola Tranfaglia, col quale ci siamo scambiati alcune battute polemiche, condannando come moralistica la mia tesi, non ha addotto sino ad ora un solo argomento che permetta di escludere il moralismo eguale e contrario della tesi da lui sostenuta. Non a caso ha dato al suo saggio, Intellettuali e fascismo, il sottotitolo Appunti per una
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storia da scrivere. Ebbene, scrivetela questa storia, e poi vedremo. Fuori i nomi, dicevo. Alcuni nomi di autori e di opere degli anni Trenta e Quaranta io li ho fatti e ripetuti più volte. Attendo una smentita, attendo che mi si dimostri che le opere che contarono e che contano di quel decennio, dalla Storia come pensiero e come azione di Croce agli Elementi di una esperienza religiosa di Aldo Capitini, da Lavorare stanca di Pavese a Conversazione in Sicilia di Vittorini, dal Cavour di Omodeo alle storie di Salvatorelli, siano opere fasciste; oppure che vi siano opere da riesumare, da rileggere, che io abbia dimenticate. Tutti coloro che hanno fatto lunghi viaggi (per ripetere un'espressione che Garin ha accolto), hanno fatto un viaggio dalla rozzezza e dal conformismo mentale propri dell'adolescenza, magari di un'adolescenza prolungata com'è quella che viene vissuta in un regime di soffoca.mento delle idee, di censure capricciose, di propaganda ossessiva ed esclusiva, all'intelligenza, alla consapevolezza di sé, alla chiarezza razionale, dalla presunzione dell'ignoranza alla modestia di chi comincia a capire qualche cosa del mondo che lo circonda, dall'e1Iervescenza non saprei dire se più ingenua o più stolta alla serietà. Non hanno fatto viaggi né lunghi né brevi dalla cultura fascista che non è mai esistita, alla cultura antifascista, che non si saprebbe poi neppure ben definire, perché alcuni approdarono al marxismo, altri al radicalismo democratico, altri ancora al socialismo liberale, etc. La crisi dell'idealismo ci fu; ma fu la crisi dell'idealismo, non della cultura fascista: se mai il colpo di grazia all'idealismo lo diedero i clericali di padre Gemelli o gli esaltati di mistica fascista. Nell'ultimo decennio il fascismo non ebbe neppur più una sua filosofia. Ebbe dei filosofi, o meglio dei professori di filosofia, di cui non resta traccia se non nelle pungenti Cronache dello stesso Garin, e che fecero professione di fede fascista continuando a fare la filosofia, buona o cattiva che fosse, che avevano sempre fatta. È altrettanto poco concludente il dire, come disse Zangrandi, che « la massa dei giovani fu fascista in quanto credette che il fascismo fosse un'altra cosa da quello che era», quanto il dire, come dicono i teorici della continuità in malam partem, che la massa dei non più giovani 16
fu antifascista perché non si accorse che il suo fascismo di oggi era la copia esatta del suo fascismo di ieri. Sinora, ch'io sappia, l'unica prova della continuità ideologica è stata la tesi del populismo che sarebbe passato senza sostanziali mutamenti dal fascismo di sinistra a una certa sinistra antifascista che si è creduta marxista senza esserlo. Ma a parte il fatto che una tesi di questo genere riguarda una parte molto piccola della politica degli intellettuali italiani del dopoguerra, ed è un bell'esempio delle battaglie dentro casa che hanno travagliato in questi ultimi anni la nostra sinistra, trovare un tratto di ideologia fascista nel populismo a me pare storicamente fuorviante. Basta aver letto il libro di Asor Rosa, il rivelatore di questa piaga, per sapere che il populismo viene di lontano, è un elemento costante della nostra letteratura (di tutte le letterature europee). Uno degli argomenti preferiti è una certa analogia fra « Primato » e « Politecnico», che fa dire a Romano Luperini che « questo legame non fu comunque casuale, e va ben al cli là dei comuni nomi dei collaboratori », e « mostra in un altro dei suoi aspetti la continuità fra là cultura del periodo fascista e quella post-fascista». È sin troppo facile ribattere che « Politecnico» assomiglia a «Primato» (posto che ci assomigli), perché « Primato » non era più una rivista fascista fuor che nell'etichetta e in qualche svolazzo obbligato. Sino a pochi anni fa, quando non era cominciato il processo all'antifascismo, « Primato » era stato la prova, da un lato, di una certa sopravvivenza di cultura non fascista sotto il fascismo, dall'altro lato, dell'emergere, nella giovane generazione, di una coscienza morale e politica che si liberava da tutto il ciarpame di retorica fascista di cui era stata imbottita. Nel passo che vi ho letto, al contrario, quella stessa rivista viene addotta a prova che fra cultura antifascista e cultura fascista non ci fu rottura. Non viene neppure il sospetto che la rottura fosse avvenuta prima, sia per la inconsistenza culturale del fascismo, sia perché, nonostante l'imperativo di credere-obbedire-combattere, c'erano stati uomini che avevano continuato a pensare con la propria testa. Eppure, continua il critico, Ferrata pubblicò su « Politecnico » con le stesse parole e quasi del tutto inalterato l'arti17
colo su Cattaneo « che era apparso esattamente sei anni prima nel numero iniziale di ' Primato ' ». Ho illustrato altrove la reviviscenza di studi cattaneani avvenuta attorno al 1940, per opera di scrittori non certo sospetti di fascismo, come Salvatorelli, Einaudi, Spellanzon, Mario Fubini, Perticone 1 • Cattaneo era stato uno dei pochi grandi della nostra storia che il fascismo non aveva avuto il coraggio di metter sull'altare dei santi patroni. La riscoperta di Cattaneo in quegli anni ebbe un significato chiaramente se non dichiaratamente polemico: almeno sino ad ora questo episodio della nostra vita culturale era stato interpretato cosl. E chi ricorda l'entusiasmo con cui furono lette le Considerazioni sulle cose d'Italia, pubblicate da Giulio Einaudi nel 1942, crede di poter aggiungere una testimonianza a favore dell'interpretazione corrente. E invece no: il fatto che all'insegna di Cattaneo fosse uscita una delle più combattive riviste del dopo fascismo sarebbe una prova, non già, come si è sempre creduto, che l'antifascismo fosse cominciato prima, ma, al contrario, che il fascismo fosse continuato anche dopo. Se una qualche tesi si può ricavare da un episodio come quello della fortuna di Cattaneo negli ultimi anni del fascismo, è, se mai, che continuità c'è stata non fra cultura fascista e cultura antifascista, ma di una certa cultura dominante di matrice liberale e democratica attraverso e sotto il fascismo (come ho avuto occasione di dire altrove 4 ). Ammetto che questo filone della nostra cultura abbia potuto sopravvivere tanto da riapparire, caduto il fascismo, intatto, perché era più innocuo, soprattutto se lo si confronta con la tradizione di pensiero socialista, e in specie marxista, che scomparve quasi del tutto. Ma fare questa ammissione vuol dire ancora una volta fornire un argomento in favore della tesi, che io credo più giusta, che se continuità c'è stata, questa è avvenuta fra prefascismo e postfascismo, che è poi la tesi della « restaurazione ». Quanto poi al marxismo, che fosse morto non vuol dire fosse stato ucciso soltanto dal fascismo. Il marxismo in quegli anni si era sempre più venuto identificando con lo stalinismo, e aveva cessato dall'esercitare quell'attrattiva sugl'intellettuali che ha esercitato sinora nei tempi eroici (inutile dire quanto la 18
rinascita del marxismo in questi ultimi anni debba alla rivoluzione cinese e alle rivoluzioni del terzo mondo, negli anni Venti alla rivoluzione russa, o alla 6ne del secolo al rapido formarsi e al successo dei partiti socialisti che sconvolgevano o si credeva avrebbero sconvolto il quadro tradizionale del sistema parlamentare). La storia del marxismo in Italia durante il fascismo è ancora da scrivere, ma è difficile da scrivere perché è una storia sotterranea. Per non parlare di Gramsci, che scrive alcune fra le pagine più importanti nella storia del marxismo italiano in carcere, Morandi scrive, come ricorda Garin, Dall'idealismo al marxismo nel carcere di Saluzzo, e Curiel scrive Materialismo dialettico e scientismo al confino di Ventotene. Sono indicazioni preziose. Ma sarà bene non dimenticare questa contro-indicazione: il più autorevole teorico del marxismo del dopoguerra, Galvano Della Volpe, non proviene dalle file dell'antifascismo militante; e Antonio Banfi giunge al marxismo - a un marxismo tutto di testa come quello di Antonio Labriola - a conclusione di un lungo itinerario filosofico quando il fascismo è ormai crollato. Non vorrei sbagliàre, ma ho l'impressione che Garin veda l'importanza di Banfi più nel momento della crisi del fascismo, ovvero tra il 1940 e il 1945, negli anni della prima serie della rivista « Studi filosofici », che non negli anni successivi, ovvero negli anni del marxismo dichiarato, e nota di sfuggita, ma la nota è importante, « quale difficoltà dovesse incontrare lo sforzo banfiano di presentare il marxismo come un umanesimo e uno storicismo radicale che veniva ad incontrarsi col risultato del razionalismo critico, in cui lo sviluppo del pensiero moderno si eleva a piena coscienza » 5 • Per un'altra contro-indicazione mi offre lo spunto una nota, completa pur nella sua stringatezza, su Eugenio Colorni 6 e l'accenno a « una raccolta dei suoi lavori rimasti inediti », che sembra « non abbia avuto attuazione ». Non svelo un segreto dicendo che la raccolta è stata condotta a compimento da chi vi parla con un'introduzione che dovrebbe mostrare, per riprendere le parole della nota citata, quanto « interessante» sia questo documento « per comprendere la crisi sotterranea della cultura filosofica italiana, parallela alla crisi politica» 7• Ebbene, Color19
ni, amico di Morandi e di Curiel, collaboratore attivissimo del Centro interno socialista, specie dopo gli arresti di Morandi e Luzzatto, arrestato lui pure nel settembre 1938, non compie affatto il passaggio ' morandiano ' dall'idealismo al marxismo, bensl, dopo essersi liberato da un crocianesimo giovanile, vissuto del resto criticamente, si butta a capofitto nella filosofia della scienza e nella psicanalisi. Di marxismo neppure il più pallido segno. Non lo respinge perché semplicemente lo ignora. Bisognerà giungere alla scoperta dei Quaderni di Gramsci per accorgersi che il marxismo è un'arma di lotta politica e non, com'è sempre stato in Italia, un prodotto libresco, un'occasione di dibattito fra professori di filosofia. A questo punto siamo entrati ormai nel terreno della seconda tesi, che non vi sia stato alcun cambiamento sostanziale fra il prima e il dopo, che non ci furono crisi di coscienza, ma accomodamenti, non lotte reali, ma tempeste in un bicchier d'acqua. Per quel che valga, accampo la mia esperienza. Dico -« per quel che valga», perché so benissimo che un'esperienza personale è un'esperienza da un certo punto cli vista, quindi unilaterale, che deve essere messa a confronto con altre esperienze, e accolta, se mai possa essere accolta, come una testimonianza e niente di più. (La parola -« testimonianza » non è detta a caso, dal momento che il discorso sugl'intellettuali assomiglia spesso, specie di questi tempi, a un processo). Ad ogni modo, ciò su cui voglio richiamare la vostra attenzione è la scomparsa della figura - cosl tipica in tutta la nostra storia risorgimentale e post-risorgimentale sino al fascismo incluso dell'intellettuale mentore o pedagogo, il cui compito principale che lo eleva al di sopra della massa è quello nobilissimo, solenne, sublime, dell'educazione nazionale, quel compito che trae alimento dall'idea che l'Italia è fatta e bisogna fare gli itali~. Naturalmente un compito siffatto è collegato a un concetto purchessia del primato d'Italia, sia poi questo primato dipendente dall'essere stato il nostro paese la sede della prima o della seconda Roma, o il centro del cattolicesimo o al contrario la culla del pensiero immanentistico moderno, o addirittura 20
l'origine oscura di tutta la filosofia europea, di quella antiquissima Italorum sapientia, inventata da Vico, riesumata da Gioberti e poi ricantata in mille modi dagli epigoni del giobertismo, oppure il campo fecondo dove germogliò la libertà moderna, attraverso la creazione della civiltà cittadina, e via discorrendo. Per trovare argomenti a favore del nostro primato non ci fu, per i maestri della nuova Italia, che l'imbarazzo della scelta: vi erano buoni argomenti tanto per i reazionari quanto per i liberali. Sembrava che i soli a doversi trovare in qualche difficoltà fossero i rivoluzionari. Ma a costoro venne in soccorso Giuseppe Ferraci che nella sua Histoire des révolutions d'Italie dimostrò che l'Italia aveva avuto nella sua lunga storia non meno di settemila (diconsi settemila!) rivoluzioni. È stupefacente la costanza in questo caso bisogna proprio parlare di continuità - dell'ideale del « mentore della nazione », l'auto-designazione dell'intellettuale a protagonista dell'educazione nazionale, che è prima di tutto educazione spirituale e morale, iniziazione, da un lato, di un popolo, anzi di una plebe, da secoli corrotta, ai Valori di una più alta vita morale e civile, e contrapposizione, dall'altro, alla classe dei politicanti che continuano a fare la parte dei corruttori con l'elevazione del compromesso, del «trasformismo», dello scambio di favori fra classi dominanti a regola fondamentale del gioco politico. Ai giovani di « Hennes », che volevano « rialzare il valore della vita, della razza, del lavoro e dell'ingegno» risposero i due direttori di «Leonardo», dichiarando di mirare « a svegliare e trasformare anime». Pubblicando «Il Regno», Corradini annunzia che avrebbe aiutato a « rialzare le statue degli alti valori dell'uomo e della nazione dinanzi agli occhi di quelli che risorgono». Dalle pagine della «Voce» Giovanni Amendola esalta coloro che « fra il 1900 e il 1910 hanno tentato in vario modo di richiamare l'attenzione degli Italiani sull'importanza della vita dello spirito». Uno scrittore severo con se stesso, che ci è stato additato ad esempio come simbolo dell'antiretorica, Renato Serra, si abbandona all'oratoria altisonante quando parla del « suo )I, Carducci, «il gran vecchio», che era stato « oltre che un poeta e un letterato, una 21
guida e un maestro degli Italiani». Per restare nel clima della «Voce», Boine scrive a Prezzolini una lunga lettera il 10 agosto 191 O per respingere gli inni di guerra dei nazionalisti ma nello stesso tempo per sostenere la necessità di un'unità morale degli italiani e conclude: « Perché tant'altre cose bisognerà pur fare perché questa nazione s'avvivi, ma urge anzitutto di darle coscienza e certezza della sua solida e ben orientata nei secoli travatura morale, affinché sulla robustezza di essa si attenti a costruire e sulla sua disposizione si regoli. Con questo, che è soprattutto opera di ampia e profonda cura, saremo, sl, veramente sulla strada di una robusta e duratura educazione nazionale» (dove non si capisce mai chi siano questi italiani non mai ben definiti, cui dovrebbe rivolgersi l'attenzione degli educatori). Si potrebbe continuare, ma vale per tutte la battuta di Prezzolini (nell'articolo Parole di un uomo moderno, 1913): « E un poeta, con quel lirismo il cui moto è quasi un preannunzio di vita religiosa, e un filosofo, la cui dialettica è una constatazione di vita religiosa, val più per un popolo di un sociologo ». In questa immagine cosl persistente dell'intellettuale educatore confluiscono due tradizioni risorgimentali, l'una che alimenta il programma nazionale dei moderati, l'altra che alimenta il programma dei democratici: giobertismo e mazzinianesimo. Nella storia della cultura italiana si è posto mente più al secondo che al primo. Ma il primo non è meno importante del secondo per ricostruire la storia degli intellettuali italiani sino al fascismo. A proposito di un brano di un'opera di Ernesto Codignola che si richiama a Gioberti, Garin annota: « Il discorso su Gioberti e il giobertismo - e poi su Gentile e il gentilianesimo - sarebbe lungo e complesso » 8 • (Ma bisognerebbe riprendere alcune pagine dello stesso Garin su questo tema nella Introduzione alla Storia della filosofia italiana di Gentile, del 1969). Gioberti e Gentile: il programma di educazione nazionale dei moderati trova la sua più alta e ultima espressione in Gentile, e via via nei gentiliani in forme sempre più staccate dalla realtà del paese. E si salda e si perde nel fascismo. (Sul nesso Gentile-Gioberti, cioè sulla continuazione 22
della riforma religiosa e politica di Gioberti in Gentile ha scritto qualche anno fa pagine illuminanti, e pour cause, Augusto Del Noce). In uno dei momenti più drammatici della storia d'Italia, Gentile scrive il saggio su Gioberti per additare nella filosofia dell'autore del Primato « il catechismo della religione civile ed umana degli Italiani ». Tutta l'attività di storico della filosofia di Gentile è rivolta a riscoprire, sulle ttacce della « circolazione » spaventiana, una genuina filosofia italiana, dal Rinascimento al Risorgimento, dal Risorgimento all'età contemporanea, cioè all'idealismo attuale. Un programma di ricostruzione storica che accompagna ed è destinato a giustificare e a rinsaldare il programma, ancora una volta, di rieducazione nazionale. Non per nulla Gentile vede nel fascismo la continuazione del Risorgimento, di un Risorgimento interpretato secondo lo spirito della filosofia giobertiana, al di là della degenerazione democratica e positivistica che il fascismo avrebbe definitivamente debellato. Se c'è una continuità tra una parte della cultura prefascista e la cultura fascista (del fascismo di destra) non mi par dubbio vada ricercata ìn questo permanente, più o meno consapevole, giobertismo, inteso il « giobertismo » come l'idea che l'Italia ha avuto la sua unità politica ma non ha ancora fatto la sua rivoluzione dello Spirito. Ancora una interpretazione del Risorgimento incompiuto, ma incompiuto non già perché sia mancata una rivoluzione sociale, ma nel senso opposto di un riscatto nazionale politico, cioè senza riforma religiosa. Ebbene, con la fine del fascismo, il giobertismo, e tutto quello che esso ha rappresentato, spiritualismo, nazionalismo, pedagogismo che cade dall'alto, è morto per sempre. Chi oggi ripeterebbe quello che Giuseppe Saitta, facendo eco al suo maestro, scriveva nella prefazione alla seconda edizione del suo Gioberti (gennaio 1927): « I nemici di Gioberti furono e sono immutabilmente i nemici d'Italia»? E perché non i nemici di Cavour o di Garibaldi? Chi non si avvede di questa svolta, temo non si sia reso conto quanto peso avesse nella cultura prefascista la glorificazione della storia nazionale, quanto vivi, attuali, fossero sentiti i problemi lasciati aperti dal Risorgimen23
to, quanto il presente fosse considerato come la continuazione di una storia tutta italiana, che avrebbe dovuto trovare dentro se stessa il proprio svolgimento, quanto profondo sia stato il magistero di una filosofia come quella di Gentile, che ora appare non solo cosa morta ma addirittura incomprensibile (e incomprensibile ora ci appare che fosse allora cosl facilmente compresa, ed esaltata). Una cultura che si riconobbe in una filosofia come quella di Gentile - e si badi che all'insegna dell'idealismo attuale ebbe corso e successo la seconda « Voce»; e non vi fu nessuno dei maggiori intellettuali italiani, da Croce a Salvemini, da Gramsci a Gobetti (e potrei citare una testimonianza anche di Aldo Capitini), che non abbia riconosciuto in Gentile un maestro - , una cultura per cui Gentile fu il filosofo per eccellenza, è certamente una cultura diversa da quella di questi ultimi trent'anni, in cui non dico Gentile ma tutto quello che il gentilianesimo ha rappresentato, non ha trovato più nessuna eco. Qualcosa deve pur essere cambiato. Ma che cosa? Rispondo: è avvenuto l'esaurimento di una certa immagine dell'intellettuale, e insieme l'esaurimento dello sforzo di cercarne i titoli di nobiltà in una tradizione nazionale che non interessa più a nessuno. La prima guerra mondiale era stata ancora per l'Italia una guerra nazionale; la seconda guerra mondiale rappresenta per l'Italia la catastrofe di una politica nazionale e imperiale anacronistica che cancella il nostro paese dal novero delle potenze egemoniche. Non si tratta più di fare gli italiani (che attraverso la lotta di liberazione avevano avuto insieme la loro espiazione e il loro riscatto), ma di rifare l'Italia, attraverso una azione che non è più di educazione nazionale ma di ricostruzione prima di tutto materiale. So bene che il « Politecnico » di Vittorini non fu il « Politecnico » di Cattaneo. Ma chi ricorda le discussioni che lo prepararono (e io le ricordo benissimo) non può aver dimenticato il significato di quel titolo. Si riesumava il gobettiano: « Se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti; Marx invece di Mazzini ». E come non ricordare che Gioberti era stato una delle bestie nere, insieme con Rosmini, del giovane collaboratore degli « Annali di statistica », fedele allievo di 24
Romagnosi, che un giorno scriverà a Ferrati: indacale di Formentini e il federalismo di Monti. Che cosa intenda per federalismo risulta da quello che ha scritto poco prima circa la lotta antiburocratica. Federalismo nel senso cattaneano della parola passato attraverso Salvemini, riscopritore sin dai suoi anni giovanili di Cattaneo, e del quale tanto Gobetti quanto Monti si considerano direttamente discepoli. Ma al di là del significato che si voglia attribuire alla parola, quel che conta è il rilievo davvero singolare che Gobetti dà all'apporto di Monti all'indirizzo politico della rivista. Le affinità fra il pensiero di Monti e quello di Gobetti sono molteplici tanto che sarei tentato di parlare di un certo gobettismo di Monti. Identica interpretazione del Risorgi.mento come rivoluzione incompiuta o abortita (Monti scrisse una volta che l'Italia era nata di sette mesi), e dell'Italia post-unitaria che non era stata uno stato liberale come i suoi difensori (da ultimo anche Croce) l'avevano presentata. Identico atteggiamento critico nei riguardi del Partito Socialista, responsabile del 156
progressivo processo di burocratizzazione, e incipienti simpatie per i comunisti torinesi che avevano imposto sin dall'inizio una battaglia nuova nel movimento operaio in favore di una democrazia dei consigli (Monti nel secondo dopoguerra pur continuando a definirsi un liberale scriverà sull'« Unità )j, e riporrà la sua fiducia nel Partito Comunista di cui apprezza alcune virtù morali, lo spirito di disciplina, il coraggio, l'intransigenza antifascista). Rispetto al fascismo, entrambi antifascisti della prima ora, entrambi convinti che il fascismo non sia un incidente ma affondi le radici nella storia d'Italia. Entrambi hanno una concezione eminentemente etica della politica: la politica è una cosa seria, è l'attività che mira alla instaurazione della città terrena intesa come comunità di liberi ed eguali. La politica è missione, educazione civile, e come tale è fatta da piccoli gruppi di intellettuali che si atteggiano a mentori della nazione o del popolo o della classe. Gobetti si batte per la formazione di un gruppo dirigente e disdegna i partiti presenti. Monti converte i suoi interessi per la politica scolastica nell'idea di una grande scuola di politica, i cui adepti saranno principahnente i suoi scolari. Gobetti significa infine rivoluzione liberale. Una formula che comprende tre idee fondamentali: l'idea che una rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma inevitabilmente nel suo contrario; l'idea che la trasformazione dello stato italiano non potrà avvenire se non attraverso un processo rivoluzionario, un processo che altri paesi hanno avuto con la riforma o con la rivoluzione mentre l'Italia ha avuto la controriforma invece della riforma, e il Risorgimento che invece di una rivoluzione è stato una conquista militare compiuta dall'alto; l'idea che nell'età dell'avvento del quarto stato, la rivoluzione non potrà essere fatta se non dal movimento operaio, non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha dimostrato di aver esaurito il suo compito storico. Se si rileggono i suoi scritti politici di questo periodo alla luce di queste tesi, mi pare di poter dire che Monti è stato uno degli interpreti più rigorosi e più convinti del messaggio gobettiano. Chi voglia una prova decisiva si vada a rileggere quel curioso libretto che egli pubblicò subito dopo la liberazione,
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intitolato Realtà del Partito d'Azione. 'f.: una summula di principi gobettiani. Basti una sola citazione: Ex-socialisti, sindacalisti, ex-radicali, ex-nazionalisti, indipendenti e i selvaggi di varie fogge, coloro che s'eran domandati per anni prima della guerra - e durante - « Chi siamo? Che cosa siamo? » e finita la guerra accennavano a riprendere la lagna. Quando quel ragazzo trovò per essi la risposta: « Ve lo dico io chi siete» e, come quelli guardavano stupefatti, egli soggiungeva, o per illuminarli o per confonderli ancor più: « dei liberali rivoluzionari».
Il padre che si fa scolaro con lo scolaro e lo scolaro maestro, il « papà » di Carlfn e il « mirabile ragazzo» di Monti diventato adulto. I due punti fermi della sua vita. Le due ragioni per esser fedeli, per considerare la fedeltà una virtù, la virtù dell'uomo di fermi principi. Ma la seconda non ebbe bisogno di passare, quasi di fortificarsi, attraverso il tradimento. Monti anche dopo la liberazione non smenti mai questa sua vocazione all'eresia, e per questo rimase, rispettato ma inascoltato, un isolato che combatte solo anche quando scrive sul1'« Unità». Resta da domandarsi come abbiano potuto convivere insieme nel suo mondo fantastico e morale questi due modelli di vita cosi diversi, scambiarsi le parti a un certo punto della sua fonnazione intellettuale e politica questi due personaggi che sembrano appartenere a due mondi lontani non soltanto cronologicamente. Perché non bisogna dimenticare che il padre, che aveva lasciato avventurosamente il paese senza un soldo per venire in città a cercar fortuna con tre bambini sulle spalle, viene tramandato alla storia come appartenente alla razza dei « sanssOssf », cioè degli spensierati. Vi figurate « sanssOssf » detto di Gobetti! Però occorre intendersi anche su questa strana genia che dà il titolo al primo libro della storia. C,e lo spiega del resto lo stesso Monti in alcune pagine decisive del libro: il « sanssOssi » piemontese non è soltanto il rans-souci francese, che vuol dire gaio, spensierato, ma è qualche cosa di più (e di peggio), perché significa anche « sventato, incosciente, irresponsabile». Però c'è anche l'altro lato della medaglia, l'aspetto positivo, e sentite come Monti lo presenta:
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Sam6ssi: il fanciullo incolpevole che scherza col fuoco e ride del pericolo, la vita raccomandata a un filo: e sempre gli va bene, ché il filo tiene, ed esso attraversa libero, illeso, la fiamma e approda incolume al lido, e scala la muraglia vertiginosa, e corre ridendo sull'orlo del tetto a dieci metri da terra, e ridiscende leggero tra i grandi - che stavan a guardarlo dal basso, inchiodati dal terrore - e stupisce della loro trepidazione e delle loro rampogne; e sarebbe un eroe se avesse avuto coscienza, ma se avesse avuto coscienza un attimo, mentre si trovava lassù, sarebbe bastato quell'attimo per farlo morire.
SanssOssi è dunque anche l'eterno fanciullo, l'innocente, in cui tante volte è stato raffigurato il poeta in contrasto con il sapiente, E il severissimo professore che incute timor reverenziale (mai però timore senza reverenza) ai suoi allievi non lo ha mai dimenticato. In un'altra pagina scrive: Sl, sventato, impetuoso, sans&sf, tutto quel che si vuole; ma il sansòss[ è pur cosl caro, diciamolo una buona volta, cosl comodo, cosl poetico! E quella sua sventatezza non è essa fatta d'innocenza? E quella sua impetuosa subitaneità non è forse fatta di amore? E dunque come non rimettere ogni debito, come non perdonare ogni uascorso a chi ha tanto amato? E come non preferire a chisissia queste amabili e innocenti creature?
Dunque un vero e proprio contrasto fra il sansséissf che l'ha condotto per mano nei primi passi e il mirabile ragazzo che metteva in riga anche i suoi maestri non c'è. Una virtù etica di fondo li accomuna: il disinteresse e il buttarsi allo sbaraglio senz'altra guida che i propri fermi principi, senz'altra speranza che quella che arride agli audaci, sl, anche ai temerari, sl, anche agli spensierati. Se il primo ci fa venire in mente un piccolo donchisciotte, il secondo ci ricorda il poeta adolescente che esclama « L'armi, qua l'armi, io solo ... ». Bisogna dire ancora che non si possono capire le due fedeltà e la loro concordia discors se non ci si rende conto che con l'una e con l'altra restiamo ben radicati nella storia del Piemonte, o per lo meno di un'idea del Piemonte che ha dato origine al cosiddetto piemontesismo (un fenomeno che meriterebbe di essere meglio esplorato, seguito età per età, autore per autore, opera per opera, a cominciare almeno da Alfieri, e,
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dando ascolto a Gobetti, da Giuseppe Baretti). Monti fu, nel senso più schietto della parola, come del resto Gobetti, un piemontesista. (Che non vuol dire, si badi, un piemontese regionalista o peggio razzista; basterebbe ricordare all'inizio della sua carriera di professore la domanda esaudita di andare a insegnare nel Sud per portare la propria piccola pietra alla formazione della nuova Italia, e l'interesse di Gobetti per la questione meridionale, sl che « La rivoluzione liberale » divenne a un certo punto la voce più autorevole dei giovani meridionalisti, da Dorso a Fiore). Non parlo delle molte e belle pagine scritte da Monti su Torino « falsa magra », « città cartesiana di avanti la lettera », che ognuno può leggere amorevolmente raccolte da Giovanni Tesio nel volume Viaggio nella città, pubblicato dalla Famija turineisa nel 1977. Mi rifaccio al saggio sul Piemonte pubblicato nel 1949 su« Il Ponte»: un piccolo preziosissimo breviario del piemontese perfetto. Rappresentato bene da questo episodio tratto non a caso dalla vita di A16.eri: « La loro virtù: saper obbedire per saper comandare, lavorare e far lavorare; il loro ideale 'impiegarsi da sé - è l'Alfieri sempre che parla - sotto gli auspici della beatissima indipendenza'». Il conte A16.eri e il fedelissimo suo servo Elia, e la scenataccia scoppiata fra i due a Madrid: il padrone che tira il candeliere in testa al servo, il servo che piglia per il collo il padrone; e la morale che ne trae A16.eri: del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non come avrei fatto con un eguale [ ... ] e nelle pochissime volte che una tal cosa mi avvenne avrei sempre approvato e stimato quei servi che m'avessero risalutato con lo stesso picchiare: atteso che io non intendevo mai di battere un servo come padrone, ma di altercare da uomo a uomo.
Ma poi lo stesso Al.6eri sosteneva che il Piemonte è un paese anfibio, dove stanno insieme il gigante e il nano, e Monti spiega chi vi sono due Piemonti, quello del monte e quello della pianura, onde il detto « Loda il brich e tente a la piana », e due morali diverse: quella del gigante o del monte, « Fa 'l to dover e cherpa », e quella del nano o della pianura, « Pero, Pero, lassa le cose come ch'a j'ero ». Quale sia il Piemonte del 160
figlio di un padre che ha sfidato l'avverso destino per tentare la fortuna e la gloria, e dell'amico di quel disperato sacerdote dell'intransigenza che fu Gobetti, avete capito. Ma il più bel commento è ancora una volta quello che possiamo trarre dalle parole di lui: Il brich e la piana: il brich, il Piemonte; la piana l'Italia? Quell'Italia per roi già il nostro padre Alfieri s'era spiemontizzato (e disvassallato)? Quell'Italia di cui tanti Gianduja, alti e bassi, cent'anni fa non volevan sapere [ ... J Forse è cosl; ma quella cosa fu il Piemonte brich che la fece, il Piemonte che fa il dovere suo anche a costo di crepare; e i Geremia erano la piana, i Pero che volevano lasciare le cose com'erano e credevano d'esser furbi - come il loro tipico paysan - e invece come il payran - non erano che dei termo, termini, sacri magari, ma di pietra.
Ho citato molti brani testuali di Monti. In fondo questo mio discorso altro non è stato che un tessuto di citazioni. L'ho fatto di proposito perché Monti è uno degli autori che vanno letti ad alta voce e lui stesso lo sapeva tanto bene da leggere ai suoi ragazzi i capitoli dei romanzi che andava scrivendo. Non sono stato allievo di Monti, come Pavese e Mila, ma essendo diventato ben presto appena entrato all'università membro della confraternita, come l'ha chiamata Mila nella sua inimitabile e irripetibile rievocazione del maestro, o della « banda » come la chiamavamo noi, assistetti alle sue letture, che egli faceva in casa di uno di noi, una casa signorile, una villa, che dava su uno dei nostri corsi, nel quartiere in cui abitavano la maggior parte degli allievi del D'Azeglio. Le letture di quei capitoli mi sono rimaste impresse nella memoria cosl profondamente che risento ancora oggi il timbro della voce, le pause, le cadenze dei brevi dialoghi, fra il papà e il piccinerro. Ricordo ancora benissimo lui, seduto in fondo alla sala su una poltrona che legge il capitolo di una storia di papà. :e il racconto di papà che conduce il figlio bambino nelle lunghe passeggiate sulla collina torinese e per distrarlo quando è stanco gli racconta delle favole, interrotto ogni tanto da Carlin che gli fa delle domande. Mi pare di risentirlo con la sua voce ferma, forte, 161
lenta, che scandisce bene le parole, e frena ma non nasconde la commozione: E papà a raccontare pazientemente, ancora una volta, l'antica storia, che è sempre quella, ma che al bimbo piace cosl com'è, perché un poco gli scema l'uggia del ritorno stracco fra le case, e per un attimo
lo riporta lassù. Ricordo queste letture non solo perché mi hanno lasciato un'impressione che non mi si è più cancellata negli anni (e ne sono passati quasi cinquanta!), ma perché quando leggo i suoi romanzi o, come mi è già accaduto di dire, presentando le Lettere a Luisotta (le lettere dal carcere alla figlia), qualsiasi cosa scritta da lui, è come se la sentissi recitare da lui medesimo, bravissimo interprete di se stesso, anzi dei due principali personaggi, il papà e Carlin. Com'è già stato osservato più volte da Mila, questo straordinario effetto di quelle letture dipendeva anche dal fatto che Monti scriveva come parlava o meglio aveva cercato nello stile dei suoi racconti di essere quanto più possibile fedele all'immagine che egli si era fatta del linguaggio parlato, non solo per l'uso frequente di parole dialettali, ma anche per le spezzature, gli anacoluti intenzionali, i periodi brevi, senza verbo, nomi allineati uno dietro l'altro per accelerare il ritmo del racconto e giungere presto alla conclusione. Quando leggo Monti è come se continuassi ad ascoltarlo. Dietro ogni parola c'è il personaggio vivo dalla cui voce eravamo stati incantati tante volte, severo, tollerante ma non accomodante, che pareva tetro e sapeva anche essere ilare, e aveva il gusto di raccontare con aria scanzonata, talora quasi sbarazzina, i fatti quotidiani e insieme di dare senza parere la lezione che se ne doveva trarre, ed era sempre una lezione di serietà, di rispetto degli altri attraverso il rispetto di se stessi, di fermezza, di dignità. Una lezione da non dimenticare, e rivolgendomi ai più giovani vorrei aggiungere da non perdere, come facevano i suoi allievi del liceo di cui Mila racconta che c'era davvero chi, malato, si alzava dal letto per non perdere l'ora in cui Monti spiegava e leggeva il settimanale canto di Dante. Una lezione di 162
cui uno dei suoi allievi che non l'ha mai dimenticato, Carlo Mussa Ivaldi, domandandosi qual ne fosse il segreto, risponde che era, questo segreto, il saper tradurre i valori letterari in valori interiori e civili. E ricorda questo episodio. Monti viene arrestato. Il funzionario dell'Ovra, alludendo agli altri arrestati, quasi tutti suoi allievi, gli chiede: « Ma cosa insegnate a scuola?». E Monti: « A rispettare le idee». « Ma quali idee? ». E Monti lapidario: « Le loro idee ».
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CAPITOLO VII
Ritratto di Leone Ginzburg
Sono raccolti in questo volume* tutti i saggi e gli articoli che Leone Ginzburg pubblicò o scrisse per pubblicare: oltre ai saggi di letteratura russa, già ristampati nel 1948, ora arricchiti delle note e recensioni, i saggi storici e letterari, gli articoli politici apparsi sui « Quaderni di Giustizia e Libertà » (1932-34) e sull'« Italia libera» (1943). Non è rimasto altro. Negli anni dell'adolescenza, Ginzburg aveva scritto, su quaderni di scuola, romanzi brevi, racconti, novelle, che leggeva agli amici; ma la vena si era presto esaurita. Non scrisse mai poesie. Fece ampia opera di traduttore dal russo: T aras Bul'ba di Gogol (1927); Anna Karenina di Tolstoj (1928-29); Nido di nobili di Turgenev (1932); La sonata a Kreutzer di Tolstoj {pubblicata nel 1942); La donna di picche di Puskin (pubblicata nel 1949). Sono, in complesso, poche cose paragonate alla precocità, alla maturità pienamente raggiunta negli anni degli studi universitari, alla laboriosità scrupolosa e perseverante, alla vastissima cultura, a tutto ciò che amici e maestri si erano attesi da lui, sin da quando, a diciott'anni, aveva pubblicato il suo primo articolo su « Il Baretti ». Ma non si dimentichi che la maggior parte degli scritti furono composti tra il 1927, anno della licenza liceale, e il 1934, anno del primo arresto, ossia tta i diciotto e i venticinque anni: la sua carriera di studioso fu stroncata all'età in cui in genere quella degli altri incomincia • L. GINZBuaç, Scritti, Torino, Einaudi, 1964, dd quale questo capitolo costituiva la prdazi.onc.
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(io, suo coetaneo, pubblicai il primo articolo proprio nel 1934). Uscito di prigione nel 1936, l'intensissimo lavoro editoriale per la casa editrice Einaudi negli anni della sua fondazione e del suo primo sviluppo, il continuo interessamento per le cose della politica, l'inquietudine, il turbamento per il tragico corso della storia europea dalla guerra di Spagna alla seconda guerra mondiale, il confino dal 1940 in poi, lo distolsero dagli studi; o per lo meno non gli permisero la concentrazione necessaria per un'opera di lunga lena, cui, dopo l'attività giovanile di saggista, frammentaria e spesso occasionale, profondamente aspirava. Tra il 1934 e il 1940 l'opera di maggiore impegno fu l'edizione critica dei Canti di Leopardi per gli « Scrittori d'Italia» di Laterza: ma anche questo fu un lavoro in parte occasionale, un saggio di addestramento filologico, una specie di tirocinio obbligato per impadronirsi del mestiere. Nei primi mesi del 194 3 concepl il disegno di una serie di riflessioni sul Risorgimento, ma al momento della morte (febbraio 1944) non se ne trovò che un capitolo. La non comune versatilità, che gli permetteva di curare un'edizione critica dei Canti con la stessa sicurezza con cui aveva trattato argomenti vari di letteratura russa, ove la sua competenza era da specialista, o di elaborare sempre nuovi progetti di libri, passando dalla storia alla lette-rattna, dalla letteratura russa a quella italiana o francese, incoraggiò, credo, una certa dissipazione, di cui egli stesso si rendeva perfettamente conto; sicuramente non favorl, negli anni della maturità, lo studio in una sola direzione. La severità del giudizio riferita prima che agli altri a se stesso, fece da freno, e contribui anch'essa a inaridire un campo che negli anni della prima aratura era stato rigoglioso. Si aggiungano l'immensa energia ed intelligenza e capacità critica ch'egli prodigò, come editore, per gli altri, correggendo o rivedendo da cima a fondo traduzioni, testi, prefazioni, commenti: lavoro anonimo, di cui non resta traccia che nel ricordo degli amici (quanto deve, ad esempio, la mia edizione della Città del Sole ai suoi suggerimenti, ai suoi incitamenti, alle sue lezioni di correttezza filologica?) e nel robusto e unitario impianto delle collane editoriali che ideò, promosse e diresse. 166
Quando entrò in liceo, alla fine del 1924, pur avendo poco più di quindici anni, non era un ragazzo come tutti gli altri, neppure all'aspetto: capelli neri, duri, tagliati a spazzola, barba rasa già fitta e ricoprente tutto il volto, occhi bruni e incavati, resi ancor più profondi da due sopracciglia foltissime, sguardo calmo, sicuro, che metteva soggezione e incuteva rispetto; lineamenti marcati, volto pallido, scuro, quasi tenebrer so, testa grossa rispetto al tronco, fragile, le gambe leggermente inarcate, quasi dovessero reggere un peso troppo grave. Di famiglia russa, proveniente allora da Berlino, aveva trascorso gran parte della sua vita a Viareggio. Aveva una buona pronuncia, assai migliore della nostra, come aveva subito osservato l'insegnante d'italiano, Umberto Cosmo, che era veneto e non pronunciava le doppie ma toscaneggiava nell'uso delle vocali aperte e chiuse. Leone parlava lentamente, pacatamente, con un certo sforzo, quasi dovesse cercare le parole, ma trovava sempre quella esatta; le sue frasi erano composte, compiute, lunghe ma non mai tortuose; non perdeva il filo anche nei discorsi più difficili; parlava adagio, ma era come se scrivesse; parlava insomma, noi dicevamo, come un libro stampato. Quando Cosmo, che lo rivelò e ne fece il capoclasse, rivolgeva qualche domanda a tutta la scolaresca, sapevamo benissimo che Leone ci avrebbe tolto d'imbarazzo: alzava la mano, e rispondeva per tutti, quasi sempre con una precisione che suscitava il compiaciuto consenso del professore e l'ammirato stupore dei compagni. Componeva con estrema facilità: appena dettato il tema, si chinava sul foglio e cominciava a scrivere, una riga dopo l'altra, quasi senza pentimenti, con una scrittura nitida, ben disegnata, regolare, piccola e larga, che rimase, passando gli anni, sempre eguale (mentre scrivo, ho sott'occhio una sua cartolina postale del luglio 1925) *. Ricordo ancora la nostra impressione alla lettura, cui Cosmo lo aveva invitato, del primo tema sulle Ricordanze del Settembrini che cominciava con una minuta affettuosa descrizione della fisionomia del Settembrini,
~:~:.urg,
* Ho pubblicato brani di lettere a me indirizzate in Dialogo con Uon~ «Resistenza•, XXXIII, n. 4, aprile 1969, nel 25° anniversario della
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quale appariva dal ritratto apposto all'edizione scolastica del Morano: un vero e proprio piccolo brano letterario. La cultura di Ginzburg era nutrita di tutte quelle letture che in liceo vengono di solito ignorate: era una cultura viva, attuale, militante. Aveva letto D'Annunzio e Pascoli, Verga e Pirandello. Ammirava i classici, ma preferiva i moderni: il romanzo francese, soprattutto, da Stendhal a Anatole France (Le rouge et le noir era uno dei suoi libri prediletti). Leggeva con avidità ma con discernimento, con gusto di lettore raffinato e curioso, che non rinuncia al proprio giudizio critico, i romanzi del tempo, Rubé e I vivi e i morti di Borgese, Angela di Fracchia, Moscardino di Pea. Essendo vissuto per molti anni a Viareggio, si era accostato all'ambiente letterario che anche allora vi si riuniva d'estate: sapeva vita, morte e miracoli di tutti i letterati italiani, Ne aveva conosciuti personalmente parecchi, da Enrico Pea ad Achille Campanile. Era stato accolto come un amico nella casa di Gioacchino Forzano. Frequentava i teatri e i concerti, non come uno qualunque del pubblico, ma come chi è addentro alle segrete cose: a Viareggio aveva stretto amicizia con Cele Abba, sorella di Marta; a Torino, durante la felice stagione del Teatro di Gualino, frequentava Vittorio Gui. Leggeva con molta compunzione i quotidiani, « La Stampa », il « Corriere della Sera». Accadeva d'incontrarlo per la strada col volto immerso nelle ampie pagine di un giornale, immobile sul marciapiede o procedente a passi lentissimi. Imparai da lui a conoscere i nomi dei più noti giornalisti, chi teneva la rubrica del teatro sul «Corriere», chi quella dei concerti sulla « Stampa». Aveva una memoria di ferro, e una prodigiosa facilità di assimilare cose udite o lette. Ma non era mai un ripetitore. I suoi giudizi erano genuini; i suoi commenti contenevano sempre qualcosa d'inedito. Ciò che diceva portava l'impronta di una personalità ormai formata che non si lasciava guidare dall'opinione corrente. Esprimeva le proprie convinzioni letterarie con sicurezza, da uomo del mestiere, mostrando un fiuto infallibile nel discernere il buono dal cattivo, il durevole dall'effimero, lo scrittore serio dal superficiale o dal ciarlatano. Per i brillanti, i beniamini del pubblico, non aveva alcuna indulgen-
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za; li giudicava con una severità cosl spietata che noi, che non andavamo tanto per il sottile, lo accusavamo talvolta di partito preso o di presunzione o di eccessivo rigore prodotto dall'inizio di una deformazione professionale. I due poli estremi erano rappresentati da Croce e da Papini. Croce veniva allora pubblicando gli Elementi di politica e gli studi sull'età barocca. Papini aveva concluso in quegli anni la serie delle sue capriole, convertendosi al cattolicesimo (dal nazionalismo del « Regno», dal futurismo e dall'immoralismo del tempo di « Lacerba », al cattolicesimo era stato un triplice salto mortale): la Storia di Cristo, uscita nel 1921, era ancora un libro del giorno. Leone era crociano ardentissimo, e rimarrà crociano devoto, fedele, riconoscente fino alla fine. Fu lui che negli anni del liceo mi pose tra le mani i primi libri di Croce. Ma il nostro Croce era allora l'autore dell'estetica e il critico letterario: la Storia d'Italia uscirà nel 1928, quando ormai saremo all'università. Nell'aprile dello stesso anno Leone conoscerà personalmente Croce, a Torino, in casa dei cognati di lui, e inizierà col filosofo un'afièttuosa relazione durata poi tutta la vita. Nel maggio del 1925, l'anno della nostra prima liceo, Croce aveva abbandonato il suo atteggiamento di neutralità nei riguardi del fascismo, e si era messo, con la risposta al Manifesto di Gentile, alla testa degli intellettuali antifascisti. La familiarità coi libri di Croce, era, allora, per un giovane che si avviava agli studi, la vera prova di maturità. L'iniziazione a Croce offriva un criterio indiscutibile per distinguere in modo alquanto settario (non posso negarlo) gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati, i liberati dai vari sonni dogmatici, da coloro che erano ancora avviluppati nelle ragnatele del conformismo religioso, del positivismo, dello scientismo, del filologismo, e via dicendo. Più che una dottrina - l'unica teoria crociana allora a noi nota era quella dell'arte come intuizione - il crocianesimo era un metodo, nel senso pregnante di via regia della vera conoscenza. Esso permetteva di identificare le differenze essenziali che dovevano essere tratte alla luce e quelle inessenziali che dovevano essere ripudiate: la differenza tra arte e moralità,
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ad esempio, era essenziale, quella tra lirica e dramma era inessenziale. E ciò permetteva di dar la caccia a tutte le cosiddette questioni mal poste, che trovavamo con soverchia facilità un po' dappertutto. Era una via verso l'unità piuttosto che verso la distinzione, verso la sintesi più che verso l'analisi: uno strumento che ci serviva a sgombrare il terreno da molto ciarpame (di qua il senso di liberazione e di conquista), ma aveva l'inconveniente di lasciarci troppo spesso a mani vuote (di qui la sterilità di quegli studi estetici o storici o di storia della filosofia, estremamente rarefatti, poco sostanziosi, in cui la citazione tesruale sostituiva la ricerca o la riflessione critica). L'autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri, che non li avevano accolti o li avevano sdegnosamente rifiutati. Croce era la voce del tempo: stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella corrente della storia. L'adesione a Croce dava sicurezza, infondeva fiducia, apriva nuovi orizzonti di ricerca, permetteva di assumere una posizione polemica contro molta parte della cultura scolastica e accademica, scioglieva dai vincoli della fede tradizionale, ci faceva sentire estranei alle convenzioni, ai pregiudizi correnti, invitava a mettere in questione tutto quello che avevamo appreso, e a ricominciare da capo. Ancor oggi, passata molt'acqua sotto i ponti della filosofia, a poche letture filosofiche son disposto a riconoscere la funzione stimolatrice della pagina crociana, sia nota critica o schermaglia o recensione o saggio sistematico, anche se la semplicità possa apparirmi talora semplificazione, la chiarezza svuotamento, la sintesi suggestiva una formula impaziente, la forza del ragionamento dipendente più dall'abilità dello scrittore che dalla bontà degli argomenti. Ma allora non avevamo termini di raffronto (e anche se li avessimo cercati, non li avremmo trovati salvo a cadere sulla china sdrucciolevole che finiva in Gentile). Oltretutto, Croce era, personalmente, un esempio di libertà intellettuale, di saggezza, di dignità, di operosità, di serietà negli studi: adunava in sé tutte le qualità dell'educatore, che gli altri autori o maestri possedevano solo parzialmente. Non posso oggi dissociare questa lezione di Croce da quella di Leone, che ne fu l'appassiona-
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to e autentico interprete. Negli scaffali della sua biblioteca, eravamo abituati a veder spiccare, tra le opere complete in russo di Tolstoj e Dostoevskij, i celebri «mattoni» dell'edizione laterziana. Ricordo che la prima opera di Croce da me posseduta, i Nuovi saggi di estetica, di cui era uscita un'edizione nel 1926, mi fu donata da lui. Non aveva ancora terminato il liceo che già aveva iniziato la sua rapida carriera di letterato: nel 1927, la traduzione di Taras Bul'ba; nel 1928, la traduzione di Anna Karenina, i primi articoli di letteratura russa, auspice Augusto Monti, su « Il Baretti». Iscrittosi a legge per una specie di gesto polemico contro il letterato puro, in parte anche per non contrastare i desideri paterni, dopo un anno di puro mestiere letterario, riconosciuto l'errore, si era iscritto al secondo anno di lettere, per coltivare, con più severa e regolare disciplina, gli studi filologici. I professori con cui ebbe maggior dimestichezza furono, se ben ricordo, Augusto Rostagni, Arturo Farinelli, Ferdinando Neri, cui si rivolse per la tesi di laurea sul Maupassant, Matteo Bartoli e Santorre Debenedetti, del quale diventò più tardi amico, confidente e collaboratore, quando ideò la « Nuova Raccolta » per Giulio Einaudi. Accanto alla scuola dei maestri, c'era la scuola dei compagni, più spontanea e immediata, forse anche più eccitante, che si svolgeva, senza orario prestabilito, sotto le arcate del cortile del palazzo universitario. Il gruppo dei più affiatati era composto, oltre che da Ginzburg, da Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Carlo Argan, Carlo Dionisotti, Enzo Monferini, il filosofo della compagnia, Adolfo Ruata, e, qualche anno più tardi, Renzo Giua. C'era sl un altro :filosofo, Ludovico Geymonat, ma faceva parte per se stesso, positivo e positivista, in continua polemica coi crociani, salvo a farsi arrestare, anche lui nel 1929, come firmatario d'una lettera d'omaggio a Croce per il discorso in Senato contro i Patti Lateranensi. Tra i compagni, Ginzburg godeva di particolare prestigio non solo culturale ma anche morale. La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e solida, più agguerrita di fronte alle tentazioni della buona figura a buon mercato, ma
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anche di una consapevolezza del proprio compito, già pienamente conquistata nell'età dei conflitti, delle lacerazioni, dei cedimenti. Se gli scritti da lui pubblicati non danno la piena misura della sua capacità di critico e di scrittore, sono ancor più inadeguati a rappresentare la sua personalità morale. La nostra meraviglia, mescolata talora all'affettuosa parodia, per la varietà dei suoi interessi culturali e la vastità delle sue informazioni, cedeva all'ammirazione incondizionata per il vigore delle sue convinzioni. Sui diciott'anni, la sua personalità era ormai pienamente formata. Leone era prima di tutto un uomo di carattere: sapeva quel che voleva. Sulle questioni di principio non aveva tentennamenti, e non c'era lusinga che riuscisse a smuoverlo da una decisione presa. In etica era un rigorista: non era disposto a concessioni per motivi di opportunità. Tra la morale della legge o della giusti.zia e quella dell'equità, egli propendeva certamente per la prima, ma la legge, ch'egli seguiva, era una legge interiore, intimamente creduta e sofferta, di cui egli stesso era stato con sforzo certamente doloroso, ma con mente lucidissima, legislatore. La sua moralità non aveva fondamenti oltremondani: per quanto rispettoso, da buon liberale, delle fedi altrui, non praticava alcuna religione, e non credo avesse mai avuto un'educazione religiosa. Del resto, il problema religioso non era un problema su cui ci si soffermasse volentieri, un po' per pudore di scoprire i propri sentimenti o le proprie inquietudini, un po' perché, uscendo dall'adolescenza, la crisi dei valori tramandati e familiari, accompagnata dal desiderio di farne tabula rasa e di costruire con le proprie mani il proprio edificio, coinvolgeva prima d'ogni altra cosa le credenze religiose. Non saprei meglio definire il carattere della moralità del nostro amico se non chiamandola kantiana: certamente le leggi che egli osservava gli si presentavano sotto forma di imperativi categorici, ovvero di leggi che debbono essere ubbidite incondizionatamente, senza ala.ma considerazione delle circostanze in cui la legge viene di volta in volta applicata; al di sopra delle singole massime adatte ai vari casi della vita, egli aveva posto una massima fondamentale, la legge delle leggi, secondo la quale bisogna fare in ogni caso il pro-
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prio dovere per nessun'altra ragione che è il nostro dovere, indipendentemente da ogni considerazione di fini prossimi o lontani. La fonte di questa legge suprema era la coscienza morale, la propria coscienza morale, qud principio per cui ciascuno è legislatore di se stesso e da cui nasce l'autonomia della legislazione morale contrapposta all'eteronomia delle morali religiose o sociali. Fondato su quest'etica della legge autonoma e razionale, il mondo morale di Leone aveva alcuni tratti caratteristici: la sicurezza incrollabile dei principi, che lo faceva apparire ardito nel concepimento dei programmi, saldo nelle decisioni, fiducioso nei risultati delle proprie azioni, spesso nella veste del consigliere o del mentore cui si ricorre volentieri nei momenti difficili, certi di trame uno stimolo, un insegnamento, e magari un incoraggiamento o un'approvazione; l'intransigenza nella fedeltà ai principi posti e accettati, che imprimeva ad ogni suo gesto, sguardo, affermazione, il carattere della serietà, del rifiuto di ogni frivolezza e di ogni concessione all'edonismo, e gli faceva assumere talora quel tono pedagogico, che metteva soggezione e non mancava di suscitare anche qualche animosità tra i più scanzonati; la coerenza, ovvero la costanza nelle conclusioni che debbono essere tratte dai principi, dalla quale discendevano il bando di ogni compromesso, di ogni doppiezza o sdoppiamento, la dirittura della condotta, il tener fermi gli impegni, la dedizione assoluta alle idee professate. Il mondo morale di Leone dava l'impressione di un porto tranquillo, ove si cerca un rifugio e magari una riparazione, oppure di una fortezza inespugnabile, cui si chiede protezione. Per quanto possa sembrare temerario penetrare nel segreto di una coscienza, oserei dire che gli fosse estranea l'angoscia (intendo l'angoscia nel senso filosofico della parola, cosl come se ne cominciò a parlare negli anni Quaranta); non che egli non conoscesse il turbamento di fronte alla responsabilità di una scelta, ma, appunto, era turbamento, inquietudine, dolorosa determinazione, non « timore e tremore » di fronte al Dio ascoso, o smarrimento di fronte alla perversità irrimediabile del destino. Tra i due poli opposti della olimpicità, propria della tradizione urna173
nistica, e della insecuritas, propria della tradizione cristiana, il suo sentire morale era attratto piuttosto dal primo che dal secondo. Pur nelle avversità, da cui la sua vita fu segnata e provata, non perdette, o per lo meno non diede mai a divedere di aver perso, la serenità, la calma interiore, quella imperturbabilità, che è segno di forza d'animo, di chiarezza conquistata e tenuta ben ferma, come se, crociana.mente, non la persona, l'individuo, fosse in gioco, ma l'opera, quella che conta nel corso storico. Sdegnato di fronte al male, non mai sdegnoso; corrucciato per le debolezze e gli errori, non mai « irato ai sacri numi », giudicava gli uomini, grandi e piccoli, con un metro severo. Aveva un particolare intuito nel cogliere le piccole debolezze, le meschinità, gli accomodamenti, le leggerezze commesse per soddisfare vanità e ambizioni sbagliate. Non si sfuggiva al suo sguardo scrutatore, che inchiodava, talora faceva venir voglia di sottrarsi al giogo, irritava, ma si finiva di riconoscere che aveva ragione. Penso che molti amici, che gli furono vicini negli anni della propria formazione, debbano a lui la scoperta della vita morale: intendo per « vita morale» una disciplina ragionata e consapevole degli istinti, la sottomissione degli interessi particolari ad alcuni valori universali, che sono i valori per cui gli uomini hanno creato i beni che durano e non sono consumati dal tempo, e che vengono riproposti continuaDlente come ideali per il futuro, la convinzione che la vita è una cosa terribilmente seria, e ogni distrazione, ogni abbandono, sono una perdita che deve essere recuperata con rinnovato rigore. Leone era un esempio di vita moralmente impegnata. Ci faceva l'impressione di un uomo che uscisse da un altro mondo: e questo mondo, per cui ci pareva talora faticosa e scomoda la sua amicizia, troppo duro il suo sguardo, troppo teso e rigido il dito puntato, accompagnato dal solenne: « tu non devi », era il mondo della coscienza morale. Imparammo da lui a non tradire? Avremmo dovuto, tanta assidua e generosa fu la scuola cui fummo quotidianamente presenti. Imparammo comunque a capire il prezzo degli ideali traditi. Leone aveva il culto dell'amicizia. La sanità della sua na-
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tura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al perfezionamento di se stessi solo come via al miglioramento dei rapporti con gli altri. L'abituale scrupolosità nell'adempimento dei propri doveri poteva far credere che egli seguisse un'etica della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più vasto, più comprensivo, più umano, vorrei dire, una etica della comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo: era anche un uomo di società. Non era un solitario: anzi aveva bisogno di espandersi, di comunicare, di conoscere molta gente per scambiare idee, impressioni su fatti, libri, persone, per dare e ricevere notizie del giorno (e per questo era sempre informatissimo d'ogni cosa). La rete delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva piacere conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava, soppesava, catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le cose di cui era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini vivi, con le loro virtù, vizi e stranezze (la sua segreta ambizione fu sempre quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava la compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere lo ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua assennatezza, dell'equilibrio dei suoi giudizi e delle sue opinioni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne di scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza complessi di inferiorità né spirito di conquista; si con.fidava con loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro grazia e gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose del cuore, che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita di un adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica continua dell'amicizia rappresentò una parte importante della sua vita. Quando c'incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa (per alcuni anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l'ospite inviato dagli dèi: la mamma o la sorella preparavano una taua
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di tè, alla maniera russa, squisita. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi: Leone non si scomponeva, e se non c'era una seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non chiudeva la porta in faccia a nessuno: anzi, alla festosità un po' rumorosa dell'invasione, rispondeva con la cordialità più discreta, ma non meno festosa, di una lieta accoglienza. Quante ore della nostra vita - ore che hanno contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria, intense, piene di propositi futuri e di affetti presenti, godute minuto per minuto - abbiamo trascorso accanto a quella scrivania ricoperta da una spessa carta assorbente verde, con gli occhi rivolti alla libreria di cui mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi dei volumi? Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la nostra Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l'educazione formatrice, da cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e saldi: lunghi colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell'anima, li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta irreparabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più spesso ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma era un turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi nel chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura realtà (la realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e perciò inclinavo negli anni dell'adolescenza al solipsismo). Leone mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quand'ero sfiduciato; soprattutto mi diede il conforto di un'indomita forza accompagnata da una accattivante dolcezza, un esempio corroborante di coraggio verso gli eventi e di pazienza verso gli uomini, di rigidezza nelle idee temperate da una pudica delicatezza nei sentimenti. Era l'esempio di cui avevo bisogno per non sentirmi continuamente in balia delle mie inquietudini, inibito dal timore che avevo del mio prossimo, diviso dal conflitto che in me si combatteva tra l'attrazione 176
degli ideali superiori e l'urto con la realtà che sentivo ingrata, ostile, soverchiante. Leone, il grande mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al « lungo viaggio», che si sarebbe concluso nel « sangue d'Europa », e abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui. Agli amici Leone diede tutto se stesso; ma era, d'altra parte, esigentissirno. Guai a non farsi vivi con lui per qualche tempo, a non telefonargli, a non scrivergli quando si andava in vacanza. L'amicizia era un fuoco sacro, che doveva essere alimentato giorno per giorno perché non si spegnesse. Soprattutto rappresentava, come l'amore, forse più che l'amore, l'esempio genuino di un rapporto umano disinteressato, da cui esula ogni motivo egoistico ed è dominato soltanto dal desiderio di stare insieme con nessun altro scopo che quello di godere del reciproco beneficio derivante dallo scambio dei doni dell'intelligenza e del cuore. La società di amici è la società etica per eccellenza, fondata su regole non scritte, cui si ubbidisce spontaneamente, non per timore di una qualsiasi sanzione, e neppure per supina reverenza ad un'autorità superiore, ma per il piacere che si trae dalla loro osservanza: un frammento reale dell'ideale regno dei fini, ove gli uomini per convivere non avranno bisogno che di leggi liberamente consentite. Ma, appunto, non vi è amicizia al di fuori di una vita morale intensamente vissuta, della pratica di alcune virtù etiche tradizionali, che nessun codice morale può ignorare. La virtù per eccellenza, che Leone metteva in pratica esigendone l'osservanza, e contrassegnò i rapporti d'amicizia con lui, fu la sincerità. Tra i racconti giovanili, ve n'era uno intitolato Sincerità, e rappresentava benf: il suo umore. Se avessi scritto un saggio sull'esperienza di quegli anni, lo avrei intitolato: Leone o della sincerità. Delle lezioni di umana comprensione che traemmo, in quegli anni, quella della sincerità assoluta, come fondamento della vita morale, fu, per me, la più costruttiva. Il codice della sincerità, di cui Leone era, di volta in volta, legislatore, giudice ed esecutore, comprendeva sostanzialmente due articoli fondamentali: 1) gli amici non debbono
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avere segreti fra loro; 2) ciascuno, per non aver segreti di fronte agli altri, non deve aver segreti di fronte a se stesso. Il patto dell'amicizia comprendeva la promessa tacita di mantener fede a queste due regole fondamentali: chi le violava, si metteva al di fuori dd sodalizio. La prima regola esigeva l'esercizio della franchezza; la seconda, della chiarezza interiore. L'osservanza di entrambe implicava una guerra aperta a ogni forma di simulazione e di dissimulazione, una caccia senza tregua all'ipocrisia (verso gli altri). ai comodi pretesti (verso se stessi). Leone era un inquisitore infallibile, anche se poi come giudice inclinasse all'indulgenza. Di fronte a lui ogni menzogna era bandita, perché era sentita come un'onta, una violazione dd patto, una rottura della solidarietà, una perdita di quella fiducia, da cui ci sentivamo sorretti e di cui avevamo bisogno. Ma per non cadere nella menzogna, magari inavvertita, nell'infingimento accomodante, occotteva conoscere a fondo se stessi, fare il quotidiano esame di coscienza, esaminare i motivi delle proprie azioni. Ricordo le lunghe disquisizioni, cui amavamo dedicarci, mettendo innanzi argomenti pro e contro un certo modo di comportarci, e gli interrogatori, cui ci sottoponevamo, per giungere a un chiarimento e a un accordo, anche se dovevamo concludere constatando il disaccordo. Ma se qualche volta mi ribellavo, me ne pentivo, interpretando quella mia reazione come una forma di pigrizia spirituale, di rivolta interessata contro la voce del dovere, e finivo per convincermi che il suo giudizio, nonostante appelli e contrappelli, era quasi sempre infallibile. Mi accorsi a poco a poco che mi accadeva di vergognarmi dinnanzi a Leone di azioni di cui non mi ero mai vergognato di fronte a me stesso. I suoi convincimenti diventarono negli anni della maturazione il metro per misurare il bene e il male, la voce della coscienza. Che cosa avrebbe detto Leone? Che cosa avrebbe fatto Leone? Non dico che questo continuo raffronto non fosse imbarazzante, e talora addirittura penoso. Ma costitul una grande forza, e un ineguagliabile incitamento all'analisi dei propri sentimenti e dei motivi reali delle proprie azioni. L'antifascismo di Ginzburg fu sin dall'inizio una manife178
stazione spontanea e conseguente delle sue convinzioni morali. Quando ci conoscemmo, tra i quindici e i sedici anni, egli era già antifascista convinto e irriducibile. Ricordo una delle prime volte che venne a casa mia, nell'inverno del 1925: gettando lo sguardo su una rivista illustrata ove era riprodotto un ritratto di Mussolini, pronunciò una frase sprezzante. Rimasi colpito per la sicurezza e la decisione con cui furono pronunciate quelle parole: a quel tempo io non avevo idee politiche precise; in una famiglia borghese e poco educata politicamente come la mia c'era, se mai, una propensione per il fascismo. Cominciarono presto le discussioni all'uscita di scuola (erano anni decisivi per la sconfitta delle opposizioni e per l'instaurazione del regime): Leone teneva testa ai filo-fascisti che andavano crescendo di numero e di faccia tosta, e lo poteva fare con una certa facilità perché, come ho già detto, era molto più informato degli altri, leggeva i giornali, si teneva al corrente e aveva un'idea personale degli avvenimenti, mentre noi generalmente ripetevamo cose sentite dire in famiglia o da compagni più anziani. Anche in queste schermaglie dimostrava la sua superiorità, cui tutti finivano per inchinarsi; nessuno osava rintuzzare con acrimonia le sue buone ragioni e tanto meno compiere gesti d'intolleranza. Non saprei dire quale fosse stato il primo ambiente in cui era maturata la sua passione antifascista: certamente, quando venne a Torino, il suo giudizio sul regime era già dato e scontato. L'ambiente torinese, in cui si trovò a vivere e con cui prese a poco a poco contatto, contribui a rafforzarlo o a precisarlo. Tra i nostri professori di liceo, i due più autorevoli nel campo degli studi, Umberto Cosmo e Zino Zini, erano stati politicamente impegnati o addirittura militanti. Cosmo apparteneva al gruppo politico giolittiano; come neutralista aveva passato qualche brutto quarto d'ora per istigazione dei nazionalisti arrabbiati nel periodo di Caporetto; era stato addetto culturale all'Ambasciata di Berlino con Frassati nei primi anni del dopoguerra ed era assiduo collaboratore di « La Stampa». Zini, che proveniva dal socialismo positivistico della fin di secolo, si era schierato, essendo consigliere comunale a Torino, col gru~ 179
po dei comunisti, e aveva collaborato a « L'Ordine Nuovo»: un suo opuscolo filosofico del 1921, Il Congresso dei morti, in cui levava un grido di protesta contro l'inutilità delle guerre, gli aveva dato fama di disfattista, traditore della patria, sovversivo vitando. Era invece un uomo mite, distintissimo, con l'aria del gentiluomo colto e raffinato, un po' assente, atteggiato a dignitoso distacco, disilluso: amava ragionare fra sé e sé, talché pochi lo seguivano con attenzione. Rimase nostro professore per tutti e tre gli anni del liceo, mentre Cosmo, destituito nel 1926, fu sostituito da un giovanissimo supplente: Franco Antonicelli. Né Cosmo né Zini ci parlavano di politica (del resto, neppure i professori filo-fascisti); ma la loro presenza era di per se stessa un ammonimento, una vivente smentita alle insolenze che venivano vomitate ogni giorno sugli oppositori (strano, ma i due professori migliori erano antifascisti), e un invito a non indugiare nel conformismo, a non lasciarci adescare dalla propaganda. Solo una volta - e fu nei primi mesi di scuola Cosmo, entrando in classe col giornale spiegato, ci disse con voce accorata di aver appreso la notizia della morte di uno dei suoi migliori allievi, Piero Gobetti: un'impressione che non mi si è più cancellata dalla memoria. Eppure, allora non sapevo chi fosse Gobetti, forse non l'avevo mai sentito nominare. Solo Ginzburg lo sapeva e alla fine della lezione ce ne parlò. Leone era venuto in contatto con la tradizione gobettiana attraverso Augusto Monti, che insegnava italiano nella B. Monti aveva scoperto Ginzburg durante gli esami di ammissione al liceo, e non essendo poi diventato nostro professore (noi eravamo nella sezione A), aveva avuto con Leone contatti personali più diretti (all'inizio attraverso la biblioteca del d'Azeglio). Monti era stato amico di Gobetti e collaboratore di « La Rivoluzione Liberale»; aveva pubblicato pochi anni prima (1923), nelle edizioni di Gobetti, un libro, Scuola classica e vita moderna, che Ginzburg citava con ammirazione e ci incitava a leggere. In un passo, che io leggerò molti anni più tardi, Gobetti aveva scritto che « la rivoluzione liberale era sorta dall'incontro di quattro pensieri: il federalismo di Monti, il tradizionalismo di Ansaldo, la critica sindacale di Form.entini e il libe-
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ralismo rivoluzionario di chi scrive». Quando arrivammo all'università, il gruppo gobettiano era ormai disperso: tra la nostra generazione e quella dei gobettiani c'erano sette o otto anni di distacco, tanti da rendere estremamente difficili e rari i contatti. Di quella generazione solo Franco Antonicelli, che avevamo conosciuto come supplente d'italiano in seconda liceo, si unl stabilmente a noi (anche lui abitava, come quasi tutti noi, nel rione della Crocetta), prese parte alle nostre riunioni, strinse saldissima affettuosa amicizia con Leone. Il nuovo gruppo che Monti raccolse nel 1928, e tenne riunito per qualche anno, comprendeva alcuni suoi ex allievi della B, come Pavese, Mila, Monferini, Tullio Pinelli, Remo Giachero, Vaudagna; Leone e me della A; compagni d'università come Argan; vecchi amici come Sturani; e in più Antonicelli, Ci si riuniva, una volta alla settimana, nelle prime ore del pomeriggio, al caffè Rattazzi, un locale piuttosto squallido, con pochi avventori, nella via omoni.ma, allora morta. Monti ordinava regolarmente un capillaire e muoveva i 6.li della conversazione, che non era necessariamente politica. Il rigidissimo professore d'Ìtaliano era diventato ormai un compagno più anziano, fra tutti il più estroso e brioso: gli occhi, dietro lenti spessissime, che in classe, a sentir i suoi allievi, agghiacciavano come quelli del basilisco, erano vispi, sbarazzini, ammiccanti; il volto pallido, magro, scavato, immagine della severità, si distendeva ed animava, e il famoso cipiglio si apriva nella risata sbottante che accompagnava la conclusione di un aneddoto, di una storiella paesana, più che raccontata, recitata con gesti, frasi dialettali, qualche brano, quando occorreva, cantato con voce stentorea. La lezione del Rattazzi consistette, almeno per me, nel farmi toccare con mano il distacco tra la cultura accademica, che si fucina nelle scuole, e quella militante, che si forma tra compagni e maestri scesi dalla cattedra, intorno ai problemi vivi la cui soluzione richiede anche un impegno personale, e nel premunirci, tutti quanti, contro la malattia del sussiego. L'eredità gobettiana non ci appariva soltanto, attraverso Monti, un ideale da tramandare: era ancor viva, allora, l'ultima rivista che Gobetti aveva fondato alla fine del 1924, « Il Baret181
ti». Monti, che ne era diventato di fatto l'animatore e il responsabile, era ben deciso a non lasciarla morire. Il gruppetto del Rattazzi servl anche a questo scopo con qualche abbonamento racimolato e soprattutto con la nuova leva di collaboratori giovan.issimi - Ginzburg, Mila - che esso offrl alle pagine della rivista, via via sempre più abbandonate dai vecchi collaboratori e dai grossi nomi. Quando usci l'articolo di Ginzburg su Anna Karenina fu un avvenimento. Gobetti aveva fondato, accanto a « La Rivoluzione Liberale », un foglio letterario come « Il Baretti», perché, destinato forse ad avere più lunga vita, avrebbe permesso al gruppo di collaboratori di non disperdersi e di accrescersi. Questa previsione non fu smentita dai fatti. Proprio nei suoi ultimi numeri, esso raccolse i primi scritti dei migliori rappresentanti della nuova generazione torinese, che si affacciavano alla vita culturale e politica, e fece da ponte tra due gruppi di persone che non si erano mai conosciute personalmente. Morto « Il Baretti», e non essendo più tempo da riviste di polemica politica, l'idea di una rivista culturale, scritta da antifascisti, non venne mai meno. Monti ha ricordato in un articolo, Einaudiana (su «L'Unità» del 2 gennaio 1959), il progetto di una rivista che avrebbe dovuto essere intitolata « La tavola rotonda». Ma non si andò molto al di là del titolo: chi l'aveva chiara in testa era solo Leone, che l'aveva ideata e ne andava parlando come se avesse già in tasca il primo numero. Dovevano passare alcuni anni, e maturare, insieme con gli eventi, i giovani del Rattazzi, perché il progetto lungamente accarezzato potesse diventare realtà. Solo nel 1934 uscirà, coi tipi della casa editrice Einaudi, allora allora fondata, « La Cultura», che ereditava della vecchia rivista di De Lollis - di cui Leone nel frattempo era diventato uno dei più ricercati collaboratori - null'altro che la testata, mutati quasi tutti i collaboratori e la redazione, diverso il formato non più di rivista universitaria ma di giornale a più fogli, agile, senza copertina, la periodicità diventata mensile da trimestrale, altro l'indirizzo, altri gli interessi, meno letteratura e più storia, meno erudizione e più attualità: una rivista militante per quel tanto di mili182
zia che si poteva ancora esercitare sgusciando tra i reticolati della censura senza saltare in aria al primo passo (in aria, naturalmente, si saltò dopo un annetto, e i redattori andarono a finire quasi rutti in prigione). Era quel tipo di milizia che lo stesso Gobetti si era proposto quando aveva detto, nell'introduzione a La rivoluzione liberale, che la nuova generazione avrebbe dovuto essere una generazione di storici. Non credo che allora pensassimo alla frase di Gobctti. Ma Ginzburg, che sapeva quel che voleva, ebbe sempre chiara l'idea che il primo dovere dell'intellettuale antifascista fosse quello di coltivare seriamente gli studi umanistici per non lasciare il vuoto tra il passato che stava per essere seppellito e la rinascita furura (che a noi non sembrava più cosl imminente come a coloro che avevano combattuto a viso aperto), e di dare, tra gli studi umanistici, la preferenza alla ricerca e alla riflessione storica che sola avrebbe permesso di rendersi conto degli errori del passato, della decadenza del presente e dei rimedi necessari per uscire da questa senza ricadere nei primi. Ginzburg impersonò molto bene l'ideale della generazioiie di storici, il cui avvento Gobetti aveva pronosticato. Non a caso, nel momento in cui fu più libero dalle cure editoriali, sentendo avvicinarsi il momento della catastrofe, pensò di esercitarsi in una serie di riflessioni sul Risorgimento, proprio come aveva fatto Gobetti, se pur con una preparazione accademicamente più ortodossa. In fondo, non tanto Gobetti, impegnato fino all'ultimo respiro nella lotta politica diretta, polemista acceso, più abile a impugnar la frusta che a maneggiar la bilancia, amante dei giudizi taglienti, delle sintesi rapide, storico per necessità, moralista per vocazione, quanto lui, Leone, sarebbe poruto essere lo storico preannunciato, lui che si era fatto le ossa sui classici, aveva letto Croce e Omodeo, e procedeva sul difficile terreno della ricerca protetto da una buona armatura di snidi filologici. La continuità dell'ispirazione e del pensiero politico gobettiano in Ginzburg sarà evidente a chi leggerà i pochi scritti politici che di lui ci sono rimasti. A parte il fatto che uno di questi scritti è dedicato ad una analisi del Paradosso dello spirito russo, che rivela, tra l'altro, la comune ammirazione per 183
Trockij (di cui Leone tradurrà gran parte della Storia della rivoluzione russa), Ginzburg fece sua, come Gobetti, la concezione etica del liberalismo, quella concezione che sarà poi esposta e canonizzata dal Croce col nome di « religione della libertà ». Era ormai illanguidita la concezione giuridica del liberalismo come teoria dei limiti del potere dello stato, o per lo meno messa in disparte dal sopravvivere delle ideologie democratiche per le quali, una volta che il potere fosse stato distribuito a tutti, non ci sarebbe più stato bisogno di limitarlo. Il lievito perenne del liberalismo si manifestava nell'idea che la caratteristica dell'etica moderna, contrapposta all'antica, consistesse, com'è stato detto recentemente con felice espressione, nell'essere un'etica agonistica, ovvero un'etica fondata sul principio che progresso morale e civile si dia soltanto là dove la massima libertà di espansione dell'individuo, consentita dagli obblighi della pacifica convivenza, rende possibile l'antagonismo in tutte le forme, politico, economico, sociale, religioso, culturale. Se non si riesce a cogliere questo particolare aspetto dell'idea liberale, elevata a concezione del mondo e della storia, non si può comprendere l'insistente fedeltà a questa tradizione di uomini come Gobetti e Ginzburg, che avevano rotto ogni rapporto col liberalismo politico dell'Italia postrisorgimentale, né la influenza di Croce sui gruppi antifascisti delle più giovani generazioni, che non ne condividevano affatto il conservatorismo politico, insomma su uomini che erano, in politica, non liberali, ma democratici. Di fronte a un fascismo che aveva soffocato nella violenza la lotta politica, questa concezione etica del liberalismo diventava l'antitesi più diretta ed evidente di ogni forma di dispotismo, l'espressione più nobile della resistenza alla tirannia. Si può dire che non si poteva essere conseguentemente, radicalmente, antifascisti senza essere in questo senso liberali. Nel campo più strettamente politico e istituzionale, Ginzburg raccolse di Gobetti, attraverso Cattaneo, l'amore per le autonomie locali, per la cosiddetta sovranità dal basso, per quella libertà minuta, popolaresca, che non può essere conservata se la gente, come diceva Cattaneo, non ci tiene sopra le 184
mani. Di qua Ia critica ai vecchi partiti diventati macchine troppo pesanti, manovrate da oligarchie ristrette, Ia preferenza data ai sindacati come strumenti di lotta politica, e la speranza riposta nei consigli operai. L'idea del decentramento era stata un motivo costante del radicalismo politico, e in definitiva l'espressione della prevalenza del politico sull'economico, con cui il radicalismo, per quante concessioni facesse sul terreno della questione sociale al socialismo, non sarebbe mai potuto confluire stabilmente nel movimento socialista. Anche in questo atteggiamento di sospetto verso il socialismo Ginzburg percorreva la strada aperta da Gobetti, in una direzione che sarà una delle componenti storiche del Partito d'Azione. Infine, gobettiana fu l'intransigenza antifascista, la resistenza al fascismo come fatto morale prima che politico, come valore culturale oltre che politico. Coi fascisti non era possibile alcun compromesso: la lotta era lotta, e non si poteva essere che vincitori o vinti. Era un antifascismo fatto di disdegno, di fierezza d'essere dalla parte giusta, senza risentimenti o acredine per fatti personali (la nuova generazione non si Sentiva sconfitta per la semplice ragione che non aveva combattuto e aveva trovato il fascismo già installato nei posti di comando), ricco della tradizione risorgimentale e della lunga pratica delle civili libertà che al Risorgimento era seguita, senza infatuazione per il recente passato che era passato ed era stato sommerso anche a causa dei propri errori, nutrito di quella cultura storica, umana e umanistica che permetteva di distinguere, senza possibilità di sbagliarsi, la civiltà dalla barbarie, i germi di progresso da quelli di decadenza, la durevole conquista dall'avventura, il pensiero dalla retorica. Gobetti rappresentò la fase di rottura, con più entusiasmo che speranze, Ginzburg quella della preparazione lenta, circospetta, paziente, ma alimentata da una speranza ostinata; il primo, il momento della lotta rapida, disperata, che brucia in due anni tutte le energie di una vita, il secondo, il momento dell'organizzazione meticolosa, a lunga scadenza, ogni giomo un esile filo, salvo a ricominciare il giorno dopo con un filo ancor più esile, se il primo di spezza; l'uno, lo spirito delle crociate,
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l'alto, delle catacombe. Furono entrambi risvegliatori di coscienze, stimolatori di energie, animatori instancabili ed ascoltatori, maestri di vita fra i diciotto e i venticinque anni, scrutatori di anime, moralisti senza debolezze, letterati sino al midollo, ma insieme uomini vivi a contatto con altri uomini vivi. Eppure furono, per temperamento, diversissimi: Gobetti incandescente, Ginzburg rigido e pacato; tanto l'uno fu agile nella concezione e nell'esecuzione, tanto l'altro era lento e circospetto. Certo, non si può paragonare l'opera scritta di Gobetti a quella di Ginzburg, non soltanto per il timbro diverso - la prima è quella di un politico letterato, la seconda di un letterato politico - , ma anche, e soprattutto, per la diversa importanza storica: la prima dà l'impressione di una fioritura meravigliosa, di un progetto pienamente realizzato, l'altra è rimasta un abbozzo, un progetto incompiuto. Chi legge le opere di Gobetti, non ha bisogno d'altro, tanto esse sono rivelatrici del suo ingegno; i pochi scritti di Ginzburg, invece, sono una trama leggera e rada, che dev'essere riempita dalle tracce lasciate dall'opera non scritta, dai ricordi sull'uomo, sulla sua figura morale e intellettuale, sul vuoto che lasciò attorno a sé, in breve da una orditura di eventi che non si sono trasformati in parole stampate. Di fronte a chi muore di morte prematura e violenta si suol dire, a guisa di consolazione, che la vita aveva concluso ormai il suo ciclo e il destino era compiuto. Ma dinnanzi alla morte di Ginzburg, una simile consolazione non è possibile: sarebbe una stoltezza o una viltà. L'ultima lettera di Giaime Pintor è una conclusione; anche l'ultima poesia di Pavese. Ma l'opera di Leone è rimasta tragicamente incompiuta, e nessuno ha udito le sue ultime parole. Spesso tra amici ci sorprendiamo a domandarci: « Quale atteggiamento avrebbe assunto Leone?», oppure, con un senso di trepidazione: « Che cosa sarebbe diventato Leone? ». Questo è il segno che la sua morte ha lasciato un vuoto, che questo vuoto non è stato più colmato e, dopo, non siamo stati più come prima. Sappiamo anche che il prezzo pagato è stato troppo alto, e non ci sarà restituito. La sua morte ci ha fatto apparire ancor più forsennato il furore 186
degli uomini, ancor più abiette le ideologie di sangue e di strage che l'hanno scatenato, ancor più truci i volti dei fanatici incontrati sulla nostra strada, ancor più orrendi e inespiabili i massacri senza fine e senza scopo. E nulla, nulla abbiamo fatto di fronte al male che è stato compiuto. I gesti stupendi, come quello di Giaime, le nobili vite, come quella di Leone, sono stati inghiottiti dal mare della storia, sempre in burrasca; un relitto si erge per un attimo sulla cresta dell'onda, e poi è sommerso; ricomparirà per un altro attimo più avanti, ma tra un'onda e l'altra c'è solo furia, squallore, paura e impotenza. E non possiamo chiedere conto a nessuno. A chi chiedere conto della morte di Leone? Parole grandi come Dio, Storia, Spirito del mondo, o Natura (la Natura di Leopardi, che egli amava), ci sembrano parole troppo grosse per un fatto in fondo cosl piccolo, quotidiano, come la morte di un uomo; concetti troppo alti, astratti e astrusi, per un evento cosl terra terra, che si ripete ogni giorno tra l'indifferenza o il fastidio degli spettatori. Ma Leone è morto senza dire fa sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perd~ nare. È morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato. Gli siamo grati della lezione di umanità, di nobiltà, di coraggio, di serenità, di fiducia nella vita, di fermezza nella tragedia, che egli ci ha lasciata. Ma avremmo voluto averlo ancora con noi. Son passati ormai molti anni, ma il timbro della sua voce, il suo sguardo, il suo modo di parlare e di ridere sono rimasti vivi nella mia memoria, come se l'avessi salutato ieri per l'ultima volta. Se lo richiamo alla mente, mi sorprendo di sentirlo cosl vicino, cosl presente, cosl accanto a me, dentro di me, come se fosse diventato parte di me stesso. Lo ritrovo in ogni passo della mia vita, nella mia continua sorpresa di essere ancora vivo e di aver fatto tante cose, buone e cattive, dopo di lui e senza di lui. La vita mi è apparsa sempre non come un tutto continuo, ma come un insieme di attimi staccati, emergenti dallo spessore opaco e indifferente del tempo: non so come dire, scintille che nascono, sl, dallo stesso ceppo, ma 187
indipendenti le une dalle altre, senza alcun rapporto tra loro, ciascuna colla sua luce, più o meno fioca. La mia vita non è altro che tre o quattro di queste scintille: una di queste è stata accesa da Leone, e, per quel poco lume che ha dato, la luce era anche la sua.
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CAPITOLO VIII
Discorso su Antonio Giuriolo
Dalla prima volta che parlai di Giuriolo, a Vicenza, sua città natale, sono passati sedici anni, quasi lo spazio di una generazione 1 • Dicevo allora: dobbiamo fare in modo che la sua testimonianza non vada perduta; noi sopravvissuti abbiamo il dovere di essere i testimoni dei testimoni. Da allora sono avvenuti tanti rivolgimenti nel mondo, e in ciascuno di noi. Stentiamo a riconoscere le cose com'erano, a riconoscerci. Ma voi avete mantenuto la promessa: siete rimasti fedeli. Ogni anno il 12 dicembre gli antichi compagni si ritrovano spontaneamente intorno al cippo di Corona al Monte Belvedere, dove Toni fu ucciso, e rievocano parole e gesta del loro capitano. Parlando e ragionando di lui, tenendo viva la sua ispirazione, predicando il suo esempio, non l'avete lasciato morire. Anzi da questo ritrovarsi insieme nel suo nome, da questo fiorire di ricordi ogni volta che ci si incontra, è nata a poco a poco, come in una tradizione epica, la vera storia del capitano Toni, che è opera vostra. Il mio compito oggi è quello di cercare di registrare e di trascrivere questa storia con le frasi più semplici e il tono più discreto, come a lui sarebbe piaciuto, perché ne resti una traccia meno labile delle nostre parole. Nel 1943, quando venne l'ora delle grandi decisioni, Toni era già, da sempre, un antifascista militante, legato strettamente, attraverso una fitta rete cospirativa, al movimento liberalsocialista, prima, ai gruppi veneti del Partito d'Azione, poi. Ma 189
non era un politico: il suo antifascismo nasceva da un atto di rivolta morale contro le soverchierie dei potenti, contro la ribalderia dei piccoli despoti, contro la stupida guerra fascista e contro l'atroce guerra tedesca. Impersonava molto bene la figura del credente nella religione della libertà. Aveva radunato attorno a sé un gruppetto di amici, cui faceva da maestro, socraticamente, senza cattedra e senza testi, passeggiando per le strade e le colline della sua città. Di mestiere era letterato: si era laureato in lettere a Padova nel 1934 con una tesi di laurea polemica su Antonio Fogazzaro. Poi si era occupato di teatro francese, in ispecie di Henry Becque, su cui scrisse un saggio pubblicato postumo. Si era formato filosoficamente su Croce e politicamente sulla tradizione liberale del nostro risorgimento da Cavour a Omodeo. Era un ammiratore di Tocqueville; e mi dicono, ma non ricordo, anche di Rousseau. Ma non era un liberale nel senso politico della parola: liberalsocialismo e Partito d'Azione erano formule di rinnovamento, partendo dal basso, e per un giovane di ceto borghese, già un modo di mettersi dall'altra parte. Scrisse poco per il pubblico. Raccolse i suoi pensieri più intimi in un diario che tenne negli anni della formazione: gli unici sermoni di cui riconosceva la legittimità e l'utilità erano quelli rivolti a se stesso. Era un taciturno. I lunghi discorsi gli costavano molta fatica: sapeva del resto che basta una parola, un gesto, uno sguardo per comunicare il proprio pensiero quando il pensiero è intenso e l'interlocutore è disposto ad ascoltare. Semplicissimo nei modi, nel tratto, nel vestire. Il suo bel volto illuminato da due occhi chiarissimi era lo specchio di questo candore. Candido ma non debole o impacciato; anzi, sicuro di sé, diritto, fisicamente robusto, dava subito l'impressione di un uomo solido, volitivo, che non si perde in pensieri vaghi, in progetti velleitari, in programmi confusi. Aveva il culto della chiarezza morale e intelletruale. Questa chiarezza, che gli aveva fatto trovare subito la strada giusta tra le due opposte tentazioni della rinuncia e ddla faziosità, era sostenuta da un indomito coraggio. Era il coraggio dell'uomo insieme semplice e forte, che si accompagnava ad uno stato d'animo 190
costante di suprema pacatezza. Toni era un uomo tranquillo, lui nato nella città delle « furie »: tranquillo, non dico sereno, più forse per la sicureua ragionata delle proprie convinzioni che per natura; coi nervi a posto e con un severo dominio delle proprie passioni. Passò attraverso le tempeste della giovinezza: ne usd ogni volta profondamente rinnovato. La maturità rappresentò per lui il momento in cui si va incontro alle grandi decisioni con la coscienza in pace. Non subl il proprio destino, lo accettò; e non vi si sottrasse, una volta che l'ebbe riconosciuto. La grande decisione dopo 1'8 settembre fu presa subito: andare in montagna. Vi erano due possibilità per chi non voleva rinunciare alla lotta: continuare in città il lavoro politico clandestino o darsi alla macchia per addestrarsi alla resistenza armata. Toni scelse senza esitazione la seconda. Passò i primi mesi, dal settembre al novembre, in Friuli, presso il confine jugoslavo. Poi accorse nei monti del bellunese, dove nel marzo lo raggiunse la piccola pattuglia degli amici vicentini. Ma continuò a mantenere gli antichi legami con la città, in modo particolare con Padova, nella cui università si era stabilita durante il rettorato di Concetto Marchesi, sino ai primi di dicembre del 1943, una delle roccaforti della resistenza. Lo vidi l'ultima volta pochi giorni prima del mio arresto (7 dicembre 194 3): era venuto a portarmi una prima relazione militare della zona in cui operava e io avrei dovuto trasmetterla al Comitato di Liberazione. Poi le nostre sorti si divisero. Il primo inverno in montagna di Toni fu un periodo di tirocinio, di preparazione, di allenamento alla fame, al freddo, alla guerriglia improvvisata, fatta di colpi di mano e di mortali trabocchetti: dai monti del bellunese si spostò, dopo i rastrellamenti d'aprile, coi suoi uomini, alcuni inglesi, un russo, sull'Altopiano di Asiago. Ebbe sempre attorno a sé i suoi amici. Ma fu sin dal primo momento il comandante. I suoi commilitoni erano uomini nuovi: lui solo era in grado di stabilire un legame tra la lotta politica di ieri e la lotta militare di oggi. Uno di loro ha descritto l'arrivo di Toni sull'Altopiano con queste parole: 191
Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un'altra cosa. Per quest'uomo passava la sola tradizione alla quale si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani 2.
Ai primi di giugno quando venne il grande rastrellamento tedesco sull'Altopiano, i vari nuclei che vi avevano trovato rifugio nei primi mesi della guerra, si sbandarono: e quelli che riuscirono a salvarsi, scesero in pianura. Toni si era ferito incidentalmente ad una mano. A Campogrosso, dove aveva ripiegato, fu raggiunto dal fratello, che lo indusse, nonostante il suo pianto disperato, ad abbandonare momentaneamente la montagna. Tornato a casa, fu accompagnato a Bologna, dove aveva dei parenti, per curarsi. Qui riprese contatto coi vecchi amici antifascisti degli anni della cospirazione: e in questi incontri si decise il suo destino di comandante partigiano. Nell'Appennino bolognese, nei pressi di Lizzano, alle pendici del Monte Belvedere, si era formata, nel giugno del 1944, una banda partigiana, composta in gran parte di renitenti alla leva, già in collegamento col Comitato di Liberazione di Bologna, che vi aveva inviato altri giovani dalla città e dalla pianura. Alla fine di giugno e ai primi di luglio questo gruppo di armati aveva avuto i primi scontri con i tedeschi e aveva cominciato a contare i propri morti. Il 10 luglio la banda si trasferl ad Orsigna. Qui arrivò Giuriolo, inviato da Bologna per assumerne il comando. Dopo la liberazione di Roma, vicina ormai la liberazione di Firenze, il movimento partigiano del nord si stava estendendo, rafforzando, acquistando piena consapevolezza dei propri compiti e delle proprie possibilità. Il giugno e il luglio del 1944 sono mesi decisivi per la formazione di una nuova ossatura della Resistenza. Dov'era una banda ancora informe si costitul all'arrivo di Toni una brigata Matteotti, che agirà d'ora innanzi, in un primo tempo autonoma, in 192
un secondo tempo in collegamento con reparti della V Armata alleata, sul crinale appenninico nella zona del Monte Belvedere. Giuriolo era stato ufficiale degli alpini. Doveva aver fatto, bene o male, il suo esercizio di comando di uomini. Ma la guerra partigiana era una guerra nuova, una guerra popolare. Bisognava dimenticare quel che si era appreso nelle scuole militari e cominciare daccapo. Toni fu un comandante di tipo nuovo. Il migliore elogio di lui fu scritto da un suo compagno d'arme: « Capitano senza galloni e senza stellette». Ancora oggi i suoi compagni lo chiamano maestro, comandante-maestro. Per capire che cosa abbia rappresentato per i suoi uomini, bisogna liberarsi dall'abitudine di considerare la caserma e la scuola come due termini antitetici. Egli fu insieme comandante e maestro, e comandante solo perché insieme maestro. La sua banda fu una scuola di uomini, non di soldati, di soldati in quanto, prima di tutto, uomini. Dicono ancora i suoi compagni: « Con Toni abbiamo imparato a capire che cosa significa vivere una vita degna di uomini ». « Quello che abbiamo imparato in quei pochi mesi non l'abbiamo più dimenticato ». « :8 stata una lezione per tutta la vita: l'unica vera lezione della nostra vita ». « Ci ha insegnato a vivere » (il che è lo stesso, a morire). Quando dovettero scegliere la parola giusta da mettere sul cippo, trovarono l'unica parola che era capace di esprimere insieme la loro ammirazione e il significato della sua missione: « apostolo». Sul cippo sta scritto: « Al capitano Giuriolo apostolo della libertà ». Toni comandava non con ordini perentori, che si devono ubbidire per forza, ma con l'esempio dell'uomo giusto e ragionevole, che scuote dal di dentro anche l'anima più indurita. I suoi compagni lo ubbidivano non per timore ma per rispetto, perché era giusto cosl come diceva, perché gli volevano bene. Poiché era un'anima cristallina gli leggevano dentro anche i pensieri più segreti. E non avevano bisogno per intendersi di molti discorsi: si capivano per cenni. Chi aveva dimestichezza con lui sapeva quel che il capitano riteneva giusto e ingiusto: la legge del comandante era puramente e semplicemente la legge della giustizia, non quella della vendetta o dell'odio o del 193
risentimento, della giustizia fondata sul concetto della suprema e intoccabile dignità di ogni uomo, anche del nemico. Se non era la legge della giustizia, era quella della pietà. La guerra era la guerra; ma gli uomini erano pur sempre uomini. Rispettò sempre i prigionieri tedeschi, anche quando gli orrori cui si trovò dinnanzi lo fecero vacillare e tremare. Ma non bisognava cedere all'impeto della passione esacerbata: virtù contro furore. La guerra pattigiana era una guerra diversa da tutte le altre, non solo perché era una guerra di volontari ma anche perché era una guerra redentrice. La redenzione comincia prima di tutto da noi stessi, anche nelle più piccole cose. Un giorno, capitati in una cascina abbandonata, vi trovarono una cassa piena di calze e calzettoni di lana: « Queste almeno ce le lascerai prendere. A chi serviranno domani?». Disse che non dovevano: era roba d'altri e bisognava rispettarla. Fece capire che impossessandosi di quella misera roba avrebbero offeso prima di tutto lui, che era responsabile delle loro azioni. La roba non fu toccata. Uno di loro, uscendo dalla cascina, commentò in dialetto, scuotendo il capo come se fosse immerso in profondi pensieri: « Guarda che cosa mi ha insegnato quest'uomo: a star coi piedi fradici per rispettare un paio di calze di gente che non abbiamo mai conosciuto». Il caposaldo della concezione politica di Toni era la democrazia integrale come autonomia, governo dal basso, abolizione di gerarchie fittizie, fondate su privilegi di casta, o di censo, eliminazione di ogni differenza tra governanti e governati. C'era nel suo modo d'intendere la democrazia come discutere insieme e decidere insieme, una venatura capitiniana. Del resto, partigiano per convinzione ma combattente per necessità, egli era afiascinato, sulle orme di Aldo Capitini, dall'etica della non-violenza. Cercò di attuare questa sua concezione della democrazia integrale nella piccola comunità della brigata Matteotti che fu per cinque mesi, sino alla morte, il suo asilo, il suo mondo, e insieme la sua difesa dal mondo. Le azioni da compiere venivano discusse da tutti e i compiti distribuiti secondo una concorde volontà. Alla sera, tutti attorno a lui, seduti per terra nel bosco o sul pavimento dei casolari che provvisoria194
mente li ospitavano (ma gli spostamenti da luogo a luogo furono rapidi e continui), i partigiani dibattevano i loro casi personali, ponevano problemi, prendevano le deliberazioni necessarie. Si ricordano ancora i suoi motti, le sue massime, le sue alzate di spalle, le sue risposte brevi, secche, a guisa di apologo. Aveva in gran fastidio i chiacchieroni. Pierino, il ragazzo dai calzoni corti e dalla maglietta « sdrucita e pidocchiosa », come leggo in una testimonianza del tempo, paffuto e spettinato, che aveva diviso la sorte della brigata e sarebbe morto accanto al suo comandante, un giorno lesse il proprio diario. Alla fine Toni, severo e bonario insieme, commentò: « Troppe parole per cosl poche cose ». Il ragazzo capl a modo suo il commento e rispose: « Le cose come le intendete voi vanno meglio fatte che dette». Questa parsimonia di parole esprimeva una radicata abitudine alla riflessione, e anche un bisogno di sincerità: le parole spesso nascondono e tradiscono il pensiero genuino. Chi parla troppo, ragiona poco. Per resistere alla vita dura, quasi selvaggia dei partigiani, bisogna saper ragionare, ponderare il pro e il contro, se no si correva continuamente il rischio di inselvatichire, di intristire nella sfiducia e di inasprirsi nelle inutili querimonie. Ancora Pierino, tornato un giorno da una città ormai liberata, esplose in una invettiva contro quelli che comandavano, perché erano sempre gli stessi e il popolo, come sempre, non contava nulla. Toni, calmissimo: « La strada è più lunga e difficile di quanto pensavi, ma non è sbagliata». Toni non era uomo da fare molte concessioni alla debolezza professionale di esibire la propria c.ultura storica e letteraria, di svelare la propria segreta aspirazione a diventare uno scrittore. Ma non mancarono, nelle ore perdute, discussioni anche sui problemi della cultura: Toni credeva nel valore civile della poesia, non in quanto civile ma in quanto buona poesia. Mi dicono che il suo libro preferito in quei mesi fosse L'armata a cavallo di Babcl, epopea scabra e dura di una guerra partigiana violenta, aspra, combattuta senza pietà, nell'orrore, ma da uomini schietti. La leggevano insieme, e la faceva leggere. Non scrisse diari. Non lasciò traccia scritta della sua vita di parti-
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giano. Non ne ebbe né il tempo né l'occasione. Forse non volle rompere la grande quiete della montagna, turbare il raccoglimento, le ore di meditazione solitaria che trascorrevano tra quei monti desolati, deserti, devastati dalla guena e dalla guerriglia, dove le poche, pochissime case di contadini, semidistrutte, davano il senso di una miseria senza rimedio, ma accendevano, quanto più erano miserabili, il fuoco della speranza, la volontà del rinnovamento. Non scrisse più nulla, e morl senza poter dire neppure una parola. Quando Toni assunse il comando della brigata nel luglio del 1944, l'Appennino tosco-emiliano era diventato, e lo sarà ancor più dopo la liberazione di Firenze, la linea più avanzata dello schieramento tedesco. Dal luglio al dicembre l'azione della brigata si svolse in tre tempi. Primo tempo: il compito principale dei partigiani era di molestare i presldi nemici che si andavano attestando sulle posizioni strategiche per far fronte all'offensiva alleata, di tenere sgombri i valichi per facilitare l'avanzata delle truppe alleate, e di creare eventuali zone libere alle spalle dei tedeschi per aiutare gli alleati ad aprirsi un varco tra le file del nemico accerchiato, come accadde nella ormai leggendaria battaglia di Montefiorino, alla fine di luglio, cui la brigata partecipò a fianco della brigata Garibaldi di Modena, subendo un duro rastrellamento tedesco. Sotto la pressione della V Armata, le truppe tedesche intanto si venivano attestando nel settore sulla cosiddetta « linea verde » che correva da sudovest verso nord-est, dal passo dell'Abetone al Monte Belvedere. Secondo tempo: la brigata di Toni ebbe il compito di occupare permanentemente la zona compresa tra la « linea verde » e i posti più avanzati della V Armata. Furono occupati Castelluccio, Boschi, Molino del Pallone, Granaglione, Lustrola, Borgo Capanne, nei pressi della Porretta. Il crinale Castelluccio-Porretta cadde quasi totalmente in mano dei partigiani. I tedeschi battono ormai ovunque in ritirata. Alla fine di settembre le avanguardie della formazione di Toni prendono contatto in Ponetta con le avanguardie della formazione « Sambuca pistoiese », e avvengono anche i primi contatti con le pattuglie alleate, seguiti dalla consegna dei prigionieri tedeschi. Terzo tempo: entro
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la metà di ottobre le truppe anglo-americane occupano la zona già liberata dalla brigata Matteotti, ma questa ed altre brigate Umitrofe non vengono, come di solito accade, disarmate, bensl inviate ad operare come pattugUe di punta che dovranno essere impiegate insieme con i soldati alleati, frammiste ad essi. La brigata di Toni accetta le condizioni e d'ora innanzi sarà integrata, pur mantenendo la propria autonomia, nell'esercito alleato che avanza. Il 4 novembre alcuni volontari della Matteotti, collaborando con truppe americane, occupano AHrico (Gaggio Montano). Quindi comincia l'offensiva della V Armata contro il Monte Belvedere (quota 140), dove i tedeschi hanno stabilito una piazzaforte munitissima. Ad essa cooperano i partigiani di una brigata Garibaldi che occupano il passo di Corona {quota 94 3), da un lato, e quelli della Matteotti, che occupano Calcinara (quota 945), dall'altro; ma l'accerchiamento fallisce. I tedeschi, resi audaci anche dal proclama Alexander del 10 novembre, che metteva in quarantena il movimento partigiano, contrattaccano su tutto il fronte. Nella zona della· brigata Matteotti, il violento contrattacco avviene il 27 novembre: Corona deve essere abbandonata. Calcinata, pur resistendo sino a notte inoltrata, viene abbandonata all'alba del 28 novembre per ordine del U> mando alleato. Ma Toni non si dà per vinto: il giorno dopo, al comando di una pattuglia di nove partigiani e due americani, si spinge nella zona di Montilocco (quota 915) ad est del Monte Belvedere. Si scontra con i tedeschi. Quando non ha più munizioni, invece di ritirarsi, con un gesto che è insieme di spavalderia e di disarmata innocenza, intima la resa ai munitissimi avversari: e questi si arrendono. Prende otto prigionieri e li consegna senza torcere loro un capello agli alleati. Tra 1'11 e il 12 dicembre, il Comando alleato chiese ai partigiani di Toni di prendere parte a una nuova azione contro la piazzaforte tedesca di Monte Belvedere. 41 I partigiani emiliani - scrive il Battaglia - non stanno dunque mai fermi sul terreno, ma sono sospinti, come da un istinto irrefrenabile, al contrattacco o all'attacco che coglie di sorpresa l'avversario» 3• Approfittando della lunga notte invernale, si misero in cammi197
no, l'ala sinistra americana verso Polla, l'ala destra guidata da Toni, verso Corona. Ma la strada verso Corona è minata; i mezzi corazzati non possono proseguire; e gli uomini di Toni sono costretti a compiere una deviazione a monte della strada. Ciononostante arrivano alle prime luci del mattino al passo, l'espugnano, mentre i tedeschi occupanti lasciano sul terreno alcuni morti e ingente bottino. Poi improvvisamente ricomincia il fuoco dalle falde del Monte Belvedere e dal crinale di Polla. La posizione della brigata, vulnerabilissima, quasi accerchiata e in posizione sfavorevole, non può più essere mantenuta. Occorre sganciarsi e ripiegare. Ma Toni non può abbandonare i feriti tra cui Pierino, il compagno adolescente. i! deciso a non abbandonare il posto sino a che non avrà visto raccogliere i feriti e al sicuro i superstiti. Si muove in mezzo alle raffiche. Riuscirà a mettersi in salvo? Non pensò certamente in quel momento alla sua salvezza: se poté formulare qualche pensiero, forse, si diede a riflettere serenamente sul suo destino, che era un destino di morte. Fu colpito improvvisamente al cuore e cadde senza un grido, bocconi, per terra, schiacciando col peso del corpo stramazzato il fucile a tracolla che gli attraversava il petto (il fucile, in sicura, che non aveva mai sparato). Erano le dieci di mattina del 12 dicembre. Toni aveva trentadue anni. Era morto da uomo forte e libero, come era vissuto, con quella calma sovrana che l'aveva sostenuto nei momenti difficili. Senza un gesto di più. Morto da partigiano dopo aver sognato, forse, di diventare uno scrittore. In realtà non aveva mai cambiato mestiere, l'unico mestiere che valesse la pena di fare e che conosceva cosl bene: il mestiere dell'uomo libero. Quella notte cadde la prima neve, una nevicata abbondante: il suo corpo abbandonato ne fu ricoperto, e non fu poi rintracciato il giorno dopo dalla pietà dei compagni accorsi. Riaffiorò in primavera col disgelo, intatto; ma i tedeschi lo avevano collegato - consueto gesto di dispregio per i cadaveri - con una mina. Fu quindi liberato e sepolto, e là dove cadde, vi è ora il cippo solitario e spoglio come era lui, ma dritto e saldo all'ombra di alcuni alberelli, allora scheletriti
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dall'imperversare della guerra, ora di nuovo frondosi, nel silenzio della montagna: il nome scritto su due pagine di un libro aperto. Il governatore di Lizzano propose la medaglia d'oro che gli fu concessa con una motivazione in cui lo si addita, fra l'altro, come (( esempio luminoso di eccezionale ardimento e di generoso altruismo ». La sua brigata continuò valorosamente nel suo nome la lotta sino alla fine senza darsi altro capo: bastavano il suo ricordo, il suo esempio, una presenza al di là della morte. E qui siano ricordati i suoi caduti dal giugno 1944 al febbraio 1945: Angelo Abbona, Ivo Agostini, Angelo Agostini, Amedeo Binacchi, Paolo Bichecchi, Lino Degli Esposti, Pierino Galiani, Cesare Gianni, Jele Lorenzini, Ettore Gubellini, Edmo Guccini, Silvio Guidetti, Gino Guidetti, Cirillo Masotti, Giuseppe Morganti, Amos Mezzani, Elio Pozzi, Germano Sabbatini, Alfiero Tomesani, Armando Taruffi, Pietro Torlaini, Nino Venturi, Attilio Vivarelli. Toni fu un eroe senza gesti. Il suo eroismo era dentro, non fuori, nell'animo incorrotto,·non nelle parole, nelle frasi solenni. E proprio perché fu un eroe senza gesti rappresentò bene la figura del combattente di questa guerra straordinaria, quale fu la guerra di liberazione, che trascendeva i confini di una patria, gli odi di parte, la politica delle fazioni. A guerre eccezionali occorrono, per giustificarle di fronte a noi stessi, uomini eccezionali. Giuriolo è stato uno di questi. Per lui, anche per lui, la Resistenza è rimasta nel nostro cuore come una feconda stagione dell'Italia e dell'Europa, nonostante le rovine, le stragi, le sofferenze di tutti. Nel commento a Becque si legge, tra parentesi, questo passo, che è certamente una annotazione autobiografica. Parlando dei doveri dello scrittore verso la patria, avverte che lo scrittore deve partecipare alla vita politica ma non sostituirsi ai politici. E subito dopo aggiunge in un inciso: Anche questo però può rendersi talvolta necessario, in certe situazioni estreme, quando cioè si verifica un'insanabile frattura tra lo stato d'animo di una nazione e la classe dirigente e quest'ultima si chiude in caste e monopolizza e sfrutta il potere, al solo fine di coglierne privati vantaggi: l'iniziativa passa allora sempre alle forze morali che si levano
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compatte a ristabilire le basi della vita sociale su un nuovo e migliore equilibrio'.
Toni apparteneva a queste forze morali e forse non si sarebbe mai sostituito ai politici. Se fosse sopravvissuto, si sarebbe a guerra finita tirato in disparte con la stessa silenziosa semplicità con cui si era buttato nella mischia. Il carattere fondamentale di Toni, quello per cui noi amici lo ricordiamo con gratitudine, fu la piena sanità morale. La vita morale era per lui un compito quotidiano: non un'esigenza, non il risultato incerto di uno sforzo doloroso, ma una realtà perennemente vissuta; non già che non avesse avuto le sue inquietudini, i suoi dubbi - i diari dell'adolescenza ne serbano traccia - ma li aveva superati da sé attraverso un ininterrotto colloquio interiore in cui la chiarezza della ragione aveva vinto l'oscurità dell'istinto. Del resto bastava guardarlo negli occhi: la limpidezza dello sguardo rispecchiava la limpidezza dell'anima. Dava l'impressione di un uomo che camminasse sempre sicuro sulla strada giusta, e nulla più potesse farlo deviare dal cammino intrapreso. Su questa strada trovò la Resistenza, la guerra spietata e crudele che avrebbe dovuto liberare l'Europa dalla violenza nazista, trovò i suoi migliori compagni, quelli che gli sarebbero stati fedeli sino alla morte, riusci ad adeguare pienamente l'ideale e il reale, il fine e i mezzi, la meta e lo sforzo: trovò le buone e sante ragioni per vivere e per morire. Quando lo ricordai l'ultima volta a quattro anni dalla morte dicevo alla fine che non bisognava chiedere il perché: avevamo la vista troppo corta e troppo annebbiata per guardare lontano. Oggi, dopo sedici anni, quante cose sono cambiate: la resistenza europea si è prolungata nella lotta dei popoli coloniali per la loro liberazione nazionale. Antichi imperi sono crollati, nuovi stati sono sorti, il mondo non è più quello di prima; e mai trasformazione cosl radicale e cosl gravida di eventi futuri è stata tanto rapida. Credevamo allora che la Resistenza fosse una conclusione e invece era soltanto un inizio. S'intende che tutto ciò non è avvenuto e non avviene senza 200
lacrime e sangue. Ma di lacrime e sangue è fatta la storia umana. Sino a quando? Sino a quando? Forse non c'è che una risposta. Sino a quando tutti gli uomini non saranno diventati giusti di quella giustizia che condusse Toni Giuriolo, il nostro amico, il vostro comandante, a morire il 12 dicembre 1944, vent'anni or sono, senza ira né odio, in una guerra che l'ira aveva scatenata e l'odio resa implacabile. Antonio Barolini, il poeta della sua Vicenza, scrisse alla sua memoria questi mesti versi profetici:
Il mio eroico lamento svanisce ancora una volta senza eco terrestre 5 • Ma qui siamo ancora una volta convenuti per riascoltare e trasmettere questo « eroico lamento»-, che non ha mai cessato in questi anni di risuonare nel nostro animo come una voce di rimorso e una invocazione di pi~tà 6•
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NOTE
I Antonio Giuriolo, Commemorazione: letta nc:lla Biblioteca di Vicenza, il 26 sc:ttcmb.tc: 1948, ooi in Italia civile, Manduria, Lacaita, 1%4, pp. Jll-J2J. l L. MENEGHEuo, I piccoli mustri, Milano, Fdtrinc:lli, 1964, pp. 128-129. 3 R. BATTAGLIA, Storia della &sistetml italiana, Torino, Einaudi, 1953,
p. 470.
4 H. BECQUE, La Parigina e La vedova, con un saggio di A. Giuriolo,
Venezia, Neri Pozza, 1952, pp. 69-70.
! t r:~L~rfncfpak"dlio:~t1~J~~i' r!:i:• /~!::1•zf~l1 5delle
principali operazioni di guerra, del/4 Brigata Giacomo Matteotti di montagna, Bologna, Tipognifia Luigi Parma, 1964.
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CAPITOLO IX
Eugenio Colomi
Eugenio Colorni nacque a Milano il 22 aprile 1909, secondogenito di Alberto, industriale, appartenente a famiglia ebraica d'origine mantovana, e di Clara Pontecorvo, proveniente da Pisa. Come appare dalle note autobiografiche, contenute nella prima parte del frammento La malattia filosofica, scritto a1 confino di Ventotene, Eugenio è- un ragazzo d'intelligenza precoce, studioso, scrupoloso sino all'ossessione nell'adempimento dei propri doveri, convinto per effetto di un'educazione familiare rigida e severa, che serba l'impronta del carattere forte della madre, « di essere partecipe di un mondo più alto e più morale e più pulito, di cui i condiscepoli non hanno idea »-. Temperamento più ri8essivo che volitivo, comincia presto ad osservarsi, a scrutarsi, e viene costruendo la propria personalità con la testa più che abbandonandosi agli impeti del cuore o lasciandosi plasmare dagli eventi. Non vive mai alla giornata; fa e rifà programmi come se l'unica vita degna di essere vissuta fosse quella che si adegua ad una regola che l'anticipa. Sin dall'adolescenza contrappone alle forze vitali, oscure, da cui bisogna guardarsi, l'intelligenza che illumina, la ragione che guida e protegge chi la sa usare con discernimento. Essendo in lui più forte la mente che non la volontà ha bisogno di sicurezza perché si sente insicuro; e questa sicurezza trova nel riconoscimento e nell'accettazione di un mondo morale inaccessibile a1 giudizio critico, di cui non cerca neppure di 203
rendersi ragione: è il mondo dell'imperativo categorico, cioè di un comando che deve essere ubbidito non per piacere ma per dovere, anzi con sofferenza, e col senso di non averlo mai compiuto sino in fondo, perché l'ideale è per sua natura sempre al di là e la perfezione morale è irraggiungibile (ma guai a colui che non si sfona di raggiungerla). L'ideale della perfezione è sempre accompagnato da un forte complesso di colpa: non è da escludere che alla base dell'interesse per la psicanalisi degli anni della maturità sia un'adolescenza quale si rivela in alcune pagine autobiografiche e attraverso lo stesso gusto all'autobiografismo, non comune in un giovane, dominata da un fortissimo super-ego, implacabile, che ha bisogno per placarsi di vittime (il compimento del dovere è sempre un sacrificio di sé). A temprare e a definire il carattere dell'adolescente contribuisce il contatto, anzi l'urto, coi cugini Sereni, Enrico, Enzo, Emilio, di alcuni anni più vecchi di lui, ma, come egli ce li descrive, dando un significato profondo a questo episodio, più maturi ed emancipati, tanto sicuri di sé quanto lui è indeciso, problematico, sempre in cerca di se stesso, desideroso di farsi comprendere e stimare piuttosto che d'imporsi e ferire. Ne subisce il fascino, pur cercando continuamente di sottrarvisi. Sebbene li senta superiori per forza, per conoscenza delle cose del mondo, per libertà di giudizio, è verso di loro in continuo atteggiamento di confronto e di sfida. Dipenderà dal modo come andrà a finire questa sfida il successo di quella difficile impresa che è la fonnazione della propria personalità. Quando ha quattordici anni, per influenza di Enzo, diventato sionista fervente, religiosissimo, volge anch'egli la propria mente al sionismo, si mette a studiare l'ebraico, si prepara ad andare in Palestina, come Enzo che vi si reca da pioniere nel 1927 (e morirà in un lager, dopo essersi fatto paracadutare in Italia durante la guerra). Il sionismo è soltanto una fiammata giovanile. Se ne allontana senza rimpianti quando il consolidamento del fascismo fa apparire più urgente e più drammatico il problema italiano, e lo induce a mettersi in contatto coi primi gruppi clandestini di antifascisti militanti che si vengono formando tra giovani intellettuali dopo le leggi eccezionali. Proba204
bilmente non è stata estranea a questo volgere le spalle ad un'esperienza che più che politica è religiosa, la decisione maturata ben presto, sin dagli anni del liceo - racconta egli stesso di aver letto con entusiasmo in quegli anni il Breviario di estetica di Croce - di darsi agli studi filosofici. Compiuti gli studi classici al liceo Manzoni, si iscrive alla Facoltà di lettere e filosofia di Milano nel 1926, dove, al ricordo dei compagni, i maestri cui si sente più legato sono Borgese e Maninetti. Si laurea nel 19 30 con Martinetti, presentando una tesi su Leibniz, che peraltro non è un autore martinettiano (ma in quegli anni svolge un corso libero su Leibniz Giovanni Emanuele Barié, allievo di Martinetti). Per chi cerca di liberarsi da Croce, non dando una scrollata di spalle alla filosofia né buttandosi a capofitto negli studi specialistici, ma continuando a fare il filosofo con la propria testa, e ha cominciato a capire che fare filosofia senza un qualche rudimento di cultura scientifica significa parlare a vuoto, la filosofia di Leibniz costituisce un ottimo campo di esplorazione. « Si butta sui pluralisti egli cosl descrive la svolta - , sugli individualisti, sugli empiriocriticisti: si addentra nel labirinto di Leibniz ». Ormai cerca nella filosofia non tanto una concezione del mondo quanto un metodo, una emendatio intellectus, una istruzione per l'uso rigoroso della ragione. E Leibniz può servire egregiamente allo scopo: per impadronirsene approfondisce lo studio della matematica, per cui ha mostrato sin dal liceo una inclinazione spiccatissima. Nel 1931 e 1932 collabora con assiduità alla rivista milanese « Il convegno», diretta da Enzo Ferrieri: nel 1931 la rivista entra nel dodicesimo anno di vita con propositi di rinnovamento. Già vi collaborano alcuni suoi compagni di università come Guido Piovene e Guido Morpurgo Tagliabue, il quale recensisce il saggio sull'estetica di Benedetto Croce parlando dell'autore come di « spirito limpido, ricchissimo d'umanità » 1 • Eugenio vi scrive recensioni di libri che gli offrano occasione di porre quesiti di estetica (che è negli anni universitari il suo tema prediletto). Nel 1931 pubblica sulla « Rivista di filosofia », che dal 1927 è diventata la rivista di Martinetti, una 205
nota critica al libro, allora uscito, di Paolo Treves (che insieme al fratello Piero appartiene alla cerchia degli amici) sulla filosofia politica di Tommaso Campanella. Nel 1932 su « La cultura» di Cesare De Lollis il saggio, già ricordato, sull'estetica di
Croce. Nello stesso periodo entra in contatto coi primi gruppi antifascisti che dopo il 1925 cominciano a riorganizzarsi nella clandestinità attorno a riviste tra il letterario e il politico e che dopo l'emanazione delle leggi eccezionali hanno la vita contata. Con lo pseudonimo G. Rosenberg pubblica il suo primo articolo, peraltro non politico, L'estetica di Roberto Ardigò e del positivismo italiano nella seconda metà dell'Ottocento, nel 1928, su «Pietre», la rivista nata a Genova nel 1926 all'annunzio della morte di Piero Gobetti, diventata milanese nel dicembre 1927 per iniziativa di Lelio Basso, che ne fa un luogo d'incontro di giovani avversi al regime 2 • Secondo la testimonianza di Lucio Luzzatto, partecipa in un primo tempo all'attività del gruppo milanese di « Giustizia e Libertà », e mantiene contatti col nucleo torinese che fa capo prima a Leone Ginzburg, arrestato nel 1934, e poi a Vittorio Foa, arrestato nel 1935. Ne è una prova tra l'altro la sua collaborazione alla nuova serie di « La cultura », ideata e di fatto diretta da Ginzburg, primo tentativo di uscire allo scoperto da parte del gru)>po che si era formato attorno all'appena nata casa editrice ,li Ciulio Einaudi: vi scrisse un breve saggio-recensione di argomento leibniziano. Con frequenti viaggi all'estero collabora alla diffusione dei « Quaderni di Giustizia e Libertà », una delle attività più rischiose del gruppo (che non svolge e non può svolgere che opera di proselitismo). Quando con gli arresti torinesi del maggio 1935 il gruppo giellista è sgominato, prende contatto con il Centro interno socialista, che era stato istituito nell'estate del 1934 a Milano, per opera di Morandi, Basso, Lucio Luzzatto ed altri, allo scopo di riannodare le fila del Partito Socialista in Italia in connessione con il partito dell'emigrazione: questa svolta è determinata, oltre che da vecchie amicizie come quella di Basso, da una scelta politica che, orientando l'impegno del militante verso un partito di classe, gli 206
appare più rigorosa. Già nel numero del primo agosto del 1935 scrive su « Politica socialista » il primo articolo, con Io pseudonimo di Agostini. Dopo gli arresti di Luzzatto e di Morandi, avvenuti nell'aprile del 1937, diventa uno dei maggiori responsabili dell'attività del Centro, che intanto si è diffuso in varie città della Lombardia e del Veneto 3 • Prosegue instancabilmente gli studi filosofici. Subito dopo la laurea compie un viaggio di studi a Berlino, donde fuma con la data del novembre 1931 un suo contributo apparso su « Il convegno » e v'incontra Croce, come Io stesso Croce ricorderà molti anni più tardi 4; e dove conosce Ursula Hirschmann, che sposa alla fine del 1935 e da cui ha tre figlie, Silvia, Renata, Eva. Nel 1932-33 è lettore d'italiano all'Università di Marburgo. Con l'avvento al potere di Hitler ritorna in Italia; avendo nel frattempo vinto un concorso per l'insegnamento della filosofia nei licei, viene destinato a una cattedra di filosofia e pedagogia prima a Voghera, poi all'Istituto magistrale « Giosuè Carducci» di Trieste, ove rimane dal 1934 sino all'arresto avvenuto nel 1938. Sono forse gli anni più intensi della sua vita, divisi tra lo studio e la milizia politica. Mantiene il collegamento tra il gruppo triestino del Centro e il gruppo milanese. Nel 1937 va a Parigi per prendere parte al congresso cartesiano e vi conosce Carlo Rosselli. Dopo gli arresti milanesi di Luzzatto e Morandi è ormai segnato sul libro nero della polizia politica cui non sfugge neppure il minimo passo delle persone sospette che si recano all'estero. Mentre va in questura per chledere il rinnovo del passaporto col pretesto di un nuovo viaggio a Parigi, dove dovrebbe incontrare l'editore Hermann per la pubblicazione del libro su Leibniz, è arrestato l'otto settembre 1938. Scatenata da alcuni mesi la campagna razziale, l'arresto di Colami a Trieste, che coinckle con l'arresto di un altro ebreo antifascista, Dino Philipson, a Firenze, provoca un violento attacco da parte della stampa fascista contro un presunto complotto ebraico: è una delle prime occasioni per il regime di denunciare a tinte fosche e con spudorate menzogne la cospirazione antifascista e antinazionale dell'ebraismo internazionale. Il « Piccolo di Trieste» esce il 17 ottobre con un 207
articolo dal titolo La tenebrosa figura dell'antifascista ebreo pro/. Colorni e un pezzo di colore su La doppia vita del prof. Colorni. « Il Corriere della Sera» del 18 ottobre, sotto il titolo ad effetto La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia, parla dell' « ambigua figura del prof. Colorni » 5. In seguito all'arresto e al trasferimento dell'istruttoria a Milano, viene rinchiuso nel carcere di Varese, dove resta alcuni mesi, in attesa del processo che non avrà mai luogo, sino al gennaio 1939. Quindi è assegnato al confino di Ventotene per cinque anni. Vi rimane meno di tre anni perché alla fine del 1941 in seguito a sua domanda viene trasferito sul continente, a
Melfi. Gli anni del confino sono anni decisivi per la sua formazione intellettuale e politica. Stringe amicizia con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e aderisce alle idee federalistiche pur restando socialista. Approfondisce gli studi filosofici e le riflessioni sulla struttura della scienza, come risulta dai Dialoghi di Commodo, che riproducono disrussioni avvenute fra lui e i suoi amici più intimi (oltre Spinelli e Rossi, anche Manlio Rossi-Daria) nell'isola di Ventotene e a Melfi. Da Melfi riesce a scappare nel maggio 194 3 avendo ottenuto un permesso di recarsi a Potenza per una visita medica. Va a Roma dove vive clandestina.mente e riprende il collegamento coi gruppi socialisti che si vanno in quegli ultimi mesi del regime organizzando intorno al ricostiruito Partito Socialista di Unità Proletaria, che risulta dalla fusione del gruppo giovanile del Movimento di unità proletaria (MUP) e del Partito Socialista Italiano (PSI). Dopo il 25 luglio partecipa al convegno che si svolge a Milano in casa di Mario Alberto Rollier il 27 e 28 agosto e da cui nasce il Movimento federalista europeo. Dopo l'B settembre è di nuovo a Roma: la sua attività diventa, secondo la concorde testimonianza dei compagni di lotta, febbrile. ~ capo-redattore dell'« Avanti! » clandestino e uno degli organizzatori del centro militare del Partito Socialista; nello stesso tempo cura l'edizione del Manifesto di Ventotene e ne scrive la prefazione. Partecipa a gruppi di azio208
ne partigiana in città. A pochi giorni dalla liberazione di Roma,
il 28 maggio, fermato da una pattuglia in via Livorno (presso Piazza Bologna), tenta di fuggire, si rifugia nell'androne di un portone, ma è crivellato di colpi. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore il 30 maggio. Colorni aveva letto in liceo il Breviario di estetica di Croce e se ne era entusiasmato. La lettura non solo gli aveva permesso di diventare il migliore della classe in componimento ma gli aveva rivelato la sua vocazione filosofica. Molti anni più tardi racconterà questa esperienza giovanile con accenti ironici: L'Universale! Pierino ha capito che qui è il punto, la pietra di paragone. E vero filosofo, e appartiene alla casta degli iniziati solo chi ha capito l'Universale. Gli altri sono volgari empirici. Capire l'Univetsa· le non è cosa da tutti, e non è cosa che s'impari.
La conclusione non poteva essere che questa: Ormai è deciso: studierà filosofia. Non ha letto che qualche libro, ma la sua determinazione è incrollabile. La filosofia è per lui la più concreta delle scienze, quella di cui non può più fare a meno per vivere, che lo accompagnerà e guiderà in ogni azione.
Anche per Colorni vale in quegli anni quello che mi è accaduto di scrivere nella intoduzione agli scritti di Leone Ginzburg (e in cui riportavo, nato anch'io, come Leone e come Eugenio, nello stesso anno 1909, un'esperienza personale): i compagni e gli stessi docenti venivano salvati o dannati secon· do che avessero o non avessero letto Croce. Più Croce, almeno per Colorni, che non Gentile: il quale viene raramente nominato e di cui si avvertono negli scritti giovanili debolissime tracce; checché ne dicesse il Croce, che, ricordando l'incontro con Colorai a Berlino nel 1931, molti anni più tardi, dirà che egli « era lontano dalla politica e molto legato al cosiddetto idealismo attuale e ai suoi rappresentanti)) 6 • In uno scritto della maturità vi è un accenno al gentilia· nesimo che viene addotto come esempio di cattivo filosofare: 209
Ma tu hai preferito rifugiarti, gentilianamente, rimprovera Commodo a Severo - nell'autocreatività dello spirito, e nel processo di autofonnazione; parole magiche, tali che se si cerca di chiarirne con tranquillità il significato, si diventa maniaci della scienza[ ... ]. E dopo aver fatto una mezza dozzina di altrettanti giochetti, sentirai con supremo sprezzo che questo è un discutere a vuoto.
Per tutta una generazone i « conti con l'idealismo attuale» li aveva fatti Piero Gobetti, con una severità e un rigore che non ammettevano ripensamenti, né giudizi di appello: « Non da oggi noi pensiamo - aveva scritto all'indomani del primo governo Mussolini - che Gentile appartenga all'altra Italia» 7 • Mentre l'influenza di Gentile andava sempre più restringendosi all'interno della scuola, ai suoi discepoli diretti, specie dopo l'adesione al fascismo, l'influenza di Croce era estesa, diffusa, e ancora fortissima: la filosofia crociana continuava a essere il punto di riferimento per ogni discussione filosofica, e il punto di partenza obbligato per ogni preteso avanzamento, non già verso l'anti-Croce, come si sarebbe detto molti anni più tardi, ma verso l'oltre-Croce. Quando all'università si accende la battaglia pro o contro Croce, egli è ancora considerato un crociano. Per quanto si renda perfettamente conto che il sistema della filosofia dello spirito, come ogni altro sistema file> sofico che sia stato mai concepito con quel fioco lumicino cui Locke aveva paragonato la mente umana, può essere smontato pezzo per pezzo e una volta smontato « va in frantumi», egli è ancora affascinato dal problema, crociano per eccellenza, della distinzione e collocazione delle varie attività dello spirito, cioè di ritrovare, distrutto un certo ordine, un altro ordine. Il suo stato d'animo si riflette in queste righe con cui ha inizio il primo scritto filosofico pubblico, una recensione a La giustizia di Max Ascoli, apparsa sulla « O viltà moderna »: In un'epoca in cui le lotte filosofiche e le polemiche sono cosl accese e violente, e in cui pare indispensabile ad ogni giovane di entrare subito a far parte di una •scuola», l'Ascoli riesce a salvarsi da quelle dipendenze che pesano sempre, in maggiore o minor misura, sulla autonomia del pensiero; e, pur riconoscendo il grande impulso che il n~
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idealismo ha dato alla sua speculazione, è libero da ogni impegno verso l'una o l'altra delle dottrine che ad esso si riconducono'.
Si rende conto che bisogna prendere le distanze dall'idealismo, ma è convinto che occorra prima di tutto una critica dall'interno che, dissolvendo il sistema, salvi il problema o meglio i problemi, i contributi concreti che Croce ha recato nei vari campi in cui il suo pensiero si è esercitato in una continua e feconda opera di dissodamento. Da questo atteggiamento nasce il saggio sull'estetica crociana, il cui interesse sta nella documentazione che ci fornisce del passaggio dal crocianesimo iniziale al libero filosofare. Colorni si comporta con Croce come questi (ed è lo stesso Croce che lo annota acutamente) si era comportato con Hegel: distingtte ciò che è vivo da ciò che è morto, dopo aver identificato il morto con il sistema, il vivo con alcune scoperte originali, di cui il pensiero posteriormente non ha potuto e non potrà non tener conto, e che non sono affatto deducibili, né sono state di fatto dedotte, dal sistema., ma son derivate dall'osservazione della realtà, come sarebbe accaduto a un qualsiasi filosofo empirista, e poi costrette, per ragioni discutibili di coerenza, nelle maglie del sistema precostituito e immodificabile. Si potrebbe dire cosl che un punto debole del Croce sia proprio nel contrasto fra il suo spirito di sperimentatore indefesso e la necessità di deduzione a priori che egli ha ereditato dalla filosofia idealistica assoluta 9.
Nondimeno, mentre la sinistra hegeliana aveva, nei confronti del maestro, buttato a mare il sistema e salvato il metodo (la dialettica), Colami rifiuta tanto il sistema quanto il metodo, e salva soltanto quel che egli chiama l'individualismo crociane, cioè, la tendenza a studiare il particolare e il concreto, il « concretismo ». Ne viene che cosl esposto e interpretato, sciolto dall'inquadratura della sua dialettica dei distinti, il sistema estetico di Croce appare una raccolta di notizie e di osservazioni universali che si può dire completa [. .. ] per l'acume della ricerca, la varietà degli aspetti considerati e delle esigenze soddisfatte 1°.
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In questo modo di servirsi di Croce contro Croce, Colorni mostra ormai qualche cosa di più che un atteggiamento d'insoddisfazione verso l'idealismo: lascia intravedere verso quale direzione si muovono le sue preferenze filosofiche, soprattutto là dove crede di poter cogliere l'elemento positivo della filosofia crociana nell'essere non già un idealismo come Io stesso Croce ritiene che sia, ma un empirismo trascendentale, le cui premesse gnoseologiche dovrebbero essere ricercate nell'empirismo idealistico inglese del Settecento, e di cui si può vedere una certa parentela con alcune forme di contingentismo e di empiriocriticismo contemporanei. Ormai si era buttato, come si può leggere in un brano autobiografico, sugli empiriocriticisti e su Leibniz: ed ora ritrovava in Croce per difenderlo contro lui stesso gli autori cui si andava avvicinando. Sin da questo primo scritto si ha l'impressione che Colorni, dissolvendo il sistema crociano, tenda a dissolvere il concetto stesso di sistema, la concezione sistematica della filosofia, e, attraverso la critica alla filosofia di Croce, metta in discussione, se non proprio la filosofia, un certo modo di fare filosofia che non lo soddisfa più, la filosofia come concezione del mondo. In una delle pagine autobiografiche più volte citate, ricordando i suoi primi ardori filosofici, commenta ironicamente: Egli usa oramai correntemente le parole grosse, Io, Spirito, Pensiero, Pensiero di chi? Degli uomini naturalmente. Eppure, se dici « il pensiero umano», anziché « il Pensiero», ti sembra di aver peI$0 tutto [. .. ] Filosofia è sentire, compenetrarsi, vivere di una maiuscola a capo di una parola.
Scritto nel luglio del 1937, e quindi alcuni anni dopo l'approdo oltre Croce, il passo che segue esprime meglio di ogni altro il punto di arrivo di questo implacabile processo di demolizione: « Egli considera la filosofia come una scienza, non la semplice ricerca di un 'punto di vista'». E ancora: « Egli disprezza coloro che chiamano filosofia l'aver trovato una formula per interpretare il mondo ». Non si sa bene se questo disprezzo per un certo modo di fare filosofia rappresenti nello stesso tempo anche la fine della filosofia in quanto tale. Da un 212
lato, egli continuerà a dire che « la sua professione è il filosofo » e che la più alta speranza della sua vita è « il riuscire a veder chiaro nel campo filosofico ». Dall'altro, in un brano scritto due anni dopo (nel 1939) ma riferentesi a un episodio accaduto su per giù nel periodo dei passi appena citati, narrando gl'incontri e le discussioni col « Poeta » (Umberto Saba), scrive: « Un giorno mi domandò a bruciapelo: ' ! cosl sicuro, lei, di essere sano? E perché fa filosofia? '. Da quel giorno, io non faccio più filosofia ». Da allora - egli spiega ha cambiato mestiere, e avendo cambiato mestiere si sente più libero. Non ha più orrore per le scienze naturali né il bisogno di scrivere difficile: « La parola ' empirico ' non è più per me un insulto. E da quel giorno non mi entra più in testa che cosa significhi l'Universale». Forse si tratta soltanto di una questione di parole e di diversità di accento: tra la filosofia che intende professare dopo essersi liberato dalla filosofia dei filosofi e la non filosofia cui giunge, messo a nudo dalla domanda del poeta, c'è una certa parentela, forse sono la stessa cosa. :f: comunque un modo di pensare in cui « empirico » non è più un insulto. La vecchia lezione degli empiriocriticisti, che è poi la lezione, si badi bene, donde sono nati il neo-empirismo del Circolo di Vienna e il radicalismo contemporaneo, che non si sa più se dire ami-metafisico o ad.dirittura anti-filosofico, ha dato i suoi frutti. Tornando un poco indietro, alla critica di Croce, l'insoddisfazione nasceva, si è detto, non dai singoli concetti ma dall'ordine in cui erano stati collocati. Andando alla ricerca di un nuovo ordine dovette balenargli l'idea che il problema stesso dell'ordine fosse un problema mal posto. Esiste davvero un ordine? Prima di escogitare un nuovo ordine, come hanno di solito fatto i filosofi, non sarebbe il caso di domandarsi se un ordine qualunque esista? O se, al contrario, questi elementi che il filosofo cerca invano di comporre in un ordine « possano vivere cosl separati, paralleli, autonomi, senza svilupparsi necessariamente l'uno nell'altro, senza gerarchie e precedenze?». Per rispondere a queste domande non vi era forse miglior banco di prova dell'opera del filosofo che più di ogni altro
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aveva con maggior rigore scomposto l'universo sin nelle sue più piccole parti e poi lo aveva ricomposto nell'ordine più perfetto: il filosofo della monade e dell'armonia prestabilita. L'idealismo italiano non aveva mai incontrato Leibniz sulla sua strada; lo aveva soltanto sfiorato di passaggio o di scorcio, come il grande contemporaneo e antagonista di Vico. Ma intorno al 1930, in poco meno di dieci anni, da un lato, per opera dei cattolici che reagivano all'ostracismo dato loro dagli idealisti, dall'altro nel tentativo di parte idealistica di trovare precursori un po' dappertutto, specie prima di Kant, vi fu una vera e propria fioritura di studi leibniziani insolita, e non più ripetuta dopo d'allora: Il significato storico di Leibniz (1929) di monsignor Francesco Olgiati; La spiritualità dell'essere e Leibniz (1933) di Giovanni Emanuele Barié; Il sistema di Leibniz (1933) di F. Carlotti; Finalismo e necessità in Leibniz (1936) di Susanna Del Boca. I classici ognuno li legge a suo modo: il modo con cui Colorni legge Leibniz non è né quello del teista o del teologo che cerca una rivincita contro l'immanentismo né quello dell'idea.lista che vuole estendere il proprio dominio. Egli cerca in Leibniz, come si è detto, una lezione di metodo, un uso rigoroso della ragione, lezione che solo può dare, contro il verbalismo e il nullismo concettuale degli epigoni dell'idealismo, una filosofia che nasce dal cervello di uno dei più grandi logici e matematici di tutti i tempi. Non intende dare del suo autore né una interpretazione polemica per partito preso, anche se l'immergersi nello studio di Leibniz gli serva per guarire definitivamente dal crocianesimo e per dimostrare che l'idealismo non è affatto il naturale sbocco e la conclusione della filosofia moderna; né un'interpretazione forzatamente attualizzante, anche se sia convinto che da Leibniz si diparta lo sviluppo della logica moderna, e anche se, per chi guarda alla storia della filosofia come alla storia del fecondo connubio tra sapere filosofico e progresso scientifico, Leibniz debba essere considerato più attuale di HegeI. Contro questa seconda interpretazione è diretta esplicitamente la recensione al libro di Barié, il quale, 214
prendendo lo spunto da un'annotazione di Gentile, isolando e ingigantendo il tema della spiritualità dell'essere, aveva fatto di Leibniz un idealista avanti lettera. Dopo aver osservato che nella parte dedicata a Leibniz si trovano continui riferimenti al pensiero di Barié e in quella in cui Barié espone il proprio pensiero si ritrovano continui riferimenti a Leibniz, conclude: (( Per dir subito il nostro appunto principale, avremmo preferito nella parte storica meno Barié, nella teoretica meno Leibniz ». Contro la prima interpretazione, quella teologica e teistica, più che le intenzioni o le dichiarazioni contano i fatti, cioè il tipo di lavoro che egli conduce su un autore « difficilissimo » ed « enigmatico », e che consiste prima di tutto in un esame quanto più ampio possibile delle fonti (più delle fonti che della letteratura sull'argomento) allo scopo di capire Leibniz attraverso Leibniz e non attraverso Gentile o Barié o Vico. Beninteso, anch'egli ha in mente, e non può non averla, la sua interpretazione, la quale, per 4irla in breve, non è quella idealistica ma non è neppure quella che per reazione all'idealismo e all'immanentismo risuscita e rivaluta il pensiero re.ligi~ so e metafisico del grande avversario di Locke. È un'interpretazione che tende a mettere in rilievo l'intellettualismo radicale di Leibniz e attraverso questo radicalismo dell'intelletto il suo anti-misticismo e l'assenza di un autentico spirito religioso. Una interpretazione che ben si addice a uno studioso, che anche esistenzialmente ha sempre fatto prevalere i diritti della ragione su quelli della volontà, e che debutta con un saggio, Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà (1935), volto a respingere il primato della pratica, in cui va a finire ogni filosofia idealistica da Fichte a Gentile correndo a precipizio verso l'irrazionalismo: uno studioso che insiste sulla non autonomia della volontà rispetto alla conoscenza, e conclude, non a caso, con una sorta di richiesta di soccorso alla monade di Leibniz. Importante a questo proposito è la prima pagina del primo saggio leibniziano che affronta subito il problema del cosiddetto misticismo dell'autore della Monadologia. Vi sono personalità mistiche e personalità intellettualistiche. A differenza di Cartesio 215
Leibniz è, nel fondo del suo carattere, l'intellettualista più puro, l'antimistico per eccellenza. Benché i problemi religiosi costituiscano uno dei suoi interessi preponderanti, non è possibile parlare di una religiosità leibniziana.
Nella storia più recente della fortuna di Leibniz, alle interpretazioni che avevano messo in rilievo il contributo dato da Leibniz alla logica ,e alla scienza moderne a cominciare da Bertrand Russell (1900), per proseguire con Couturat (1901) e con Ernst Cassirer (1902), erano seguite interpretazioni religiose, di cui la più importante era certamente quella di Jean Baruzi (Leibniz et l'organisation religieuse de la terre, 1907). In polemica diretta con l'interpretazione di Baruzi, Colami difende la sua interpretazione intellettualistica e anti-mistica, mostrando, con lettere e fatti alla mano, l'insofferenza di Leibniz per ogni manifestazione di religiosità mistica, settaria e in definitiva irrazionale. Onde la ribadita affermazione, che è il motivo conduttore dei vari saggi:« In Leibniz[ ... ] l'anteriorità della conoscenza sulla volontà è un principio continuamente affermato». Per quanto della progettata e lungamente curata monografia leibniziana non siano rimasti che alcuni capitoli, se ne può intendere il disegno generale, sol che si consideri che la critica del misticismo leibniziano può benissimo essere interpretata come il punto di partenza di un'interpretazione che intende andare nel senso perfettamente opposto, mentre i capitoli seguenti, sull'estetica, su conoscenza e volontà, sul libero arbitrio e sulla grazia, sono la riprova della correttezza della interpretazione assunta attraverso l'esame di alcuni temi - si pensi in modo particolare al tema del bello e della grazia - in cui parrebbe che l'assunto fosse più difficile da dimostrare: la bellezza del cosmo consiste nella sua razionalità; la moralità si dispiega nella lotta della ragione contro le passioni; l'errore ha natura teoretica; non esiste la libertà come libero arbitrio perché la volontà che sceglie è sempre determinata da una ragione; e via enumerando. Il tema della grazia è forse quello in cui l'intendimento dell'autore è più chiaro: perché proprio qui, di fronte a un tema scabroso, e aperto più di ogni altro a soluzio216
ni irrazionalistiche, egli trae la conferma « del carattere intellet· tualistico della morale leibniziana e della sua lontananza da ogni atteggiamento irrazionalistico ». Contrariamente a Paolo e ad Agostino, Leibniz intende la grazia come la disposizione dell'intelletto umano a conoscere e a godere della bontà di Dio e ad agire in conseguenza. Non è nulla di soprannarurale e soprarazionale; è la ragione stessa nella sua purezza e nella sua armonicid. {. .. ] Non è una forza che trascini di là da ogni pensiero o convinzione intellettuale: è invece appunto il pensiero e la convinzione intellettuale, e lo sforzo di conoscere la realtà.
Insomma, dal momento che la grazia non produce sull'a. nimo dell'uomo nulla che si differenzi, se non per grado, dalla normale attività conoscitivo-volitiva, si deve concludere che « Leibniz accetta anche qui d'introdurre l'opera soprannaturale di Dio, a patto di ridurre questa ad un'estensione indefinita della legge naturale ». Un'interpretazione, si diceva; non un'attualizzazione e neppure una critica, se mai una ricostruzione con un obiettivo ben chiaro in mente. Un accenno di critica si trova proprio in una delle ultime pagine, dove si legge che Leibniz non sospetta essere la continuità « più che una legge della natura, un'esigen· za dello spirito nella considerazione della natura stessa~. :E: solo un accenno: ma a chi conosca l'esito di una riflessione sul destino della filosofia, di cui lo studio del pensiero leibniziano non è che un punto di partenza - esito quale si manifesta negli scritti teorici che esamineremo tra poco - , tutt'111.tro che casuale. Tra il 1930 e il 1940 avviene la crisi dell'idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di Colami. Mentre l'idealismo, come era accaduto del resto alla filosofia di Hegel, si scinde in una destra e in una sinistra, le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenu· te in seno al sapere scientifico e dà origine a una filosofia 217
scientifica., risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada in Italia gli studi di Ludovico Geymonat; e quella che passa attraverso l'esistenzialismo (Abbagnano, Pareyson, il primo Luporini), che a sua volta, risalendo direttamente o indirettamente a Kierkegaard (cui nel 1936 Franco Lombardi dedica un libro rivelatore), si riallaccia anch'essa, come il positivismo, ad uno dei punti di rottura del sistema hegeliano. La via di Colami è la prima, anche se a differenza di Geymonat egli la percorre non tanto facendosi guidare dai filosofi del Circolo di Vienna quanto attraverso uno studio diretto delle opere di scienziati che hanno rivoluzionato o stanno rivoluzionando il modo stesso d'intendere la scienza e la visione scientifica del mondo, rivolgendo una particolare attenzione alla fisica, alla teoria della relatività, e in un secondo tempo anche alla psicanalisi. Consapevole della gravità della crisi, egli stesso cerca di darsene ragione, ricostruendo le varie direzioni prese dal sapere filosofico e dal sapere scientifico dopo Kant e indicando quale debba essere, a suo giudizio, l'unica direzione giusta. Questa ricostruzione viene compiuta sotto forma di apologo, tanto nell'Apologo su quattro modi di filosofare quanto nel frammento intitolato Programma, di cui occorre cercare la chiave. Il punto di partenza del pensiero moderno è Kant, il quale ha fatto accettare alla filosofia la rivoluzione copernicana, che già la scienza aveva compiuto all'inizio dell'età moderna, cosl vincendo « l'idolo dell'antropomorfismo », e ponendo limiti rigorosi alla ragione. Nell'Apologo Kant è il vecchio padre, che ha lasciato ai quattro figli una casa confortevole, sufficiente alla soddisfazione dei bisogni della vita (il mondo dell'esperienza), ma ha nello stesso tempo loro ingiunto di non uscire dalle mura se non vogliono smarrirsi in una via senza uscita dalla quale rischierebbero di non tornare più indietro. I quattro figli rappresentano i quattro modi con cui rispettivamente la filosofia e la scienza successive hanno osservato o trasgredito il divieto del padre. Dei due figli che hanno obbedito, e non hanno mai avuto la tentazione di guardare al di là delle pareti domestiche, l'uno è il positivista (scienziato più che :filosofo), 218
che ha continuato a lavorare all'interno della casa per arricchirla ed abbellirla e non sente il bisogno di uscire perché ne è soddisfatto e non chiede nulla oltre quello che la casa, il mondo fenomenico, che egli scambia per il mondo reale, gli offre. Il secondo è il filosofo idealista, che resta, sl, dentro la casa, come il positivista, ma, a differenza del positivista che è pago di quel che vi trova e altro non chiede, costruisce una bella teoria filosofica per sostenere che la casa è tutta la realtà e che al di fuori della casa non c'è assolutamente nulla, trasformando in tal modo una saggia regola di comportamento (il comando di non uscire) in una fantastica visione del mondo, un metodo in una nuova metafisica (l'immanentismo). Entrambi hanno obbedito al padre, ma proprio perché hanno obbedito non hanno fatto fare un passo avanti al pensiero umano. Ormai la loro strada è bloccata. I figli prediletti sono quelli che hanno disobbedito. Di questi, l'uno è l'irrazionalista, cui il divieto di non uscire è uno stimolo per infrangerlo: fa una breccia nel muro, scompare per qualche tempo e quando torna proclama che il mondo è dei forti, dei temerari, & coloro che sono disposti a mettere tutto in gioco (qui l'allusione a Nietzsche è trasparente), anche se poi rimane nei fratelli il dubbio se sia riuscito veramente nel suo intento o non scambi in buona o mala fede le proprie immaginazioni per una realtà che non esiste. L'altro è il neo-positivista che ha del positivista l'amore per la ricerca delle cose concrete ma insieme ha dell'irrazionalista un'insaziabile curiosità per il nuovo, con la differenza che ha capito che il nuovo non si conquista buttandosi all'avventura fuori dal muro ma studiando attentamente come il muro sia fatto per vedere se non sia possibile demolirlo e costruirne uno nuovo. Quest'ultimo soltanto è quegli che ha imparato la lezione di Kant, e che, proprio perché non gli ubbidisce passivamente, fa avanzare il pensiero umano, Colorni aveva letto la Critica della ragion pura, com'egli stesso racconta, all'inizio della sua passione filosofica, e se n'era compenetrato tanto da non soffrire un filosofo come Nietzsche. Solo dopo qualche anno avrebbe cominciato ad ammirare anche il profeta di Zarathustra. 219
Non parla mai di Hegel: la 6loso6a di Hegel gli è estranea, come quella che non permette sortite. Se si può identificare la filosofia cl.i Hegel con l'atteggiamento del secondo figlio, è certamente quella che gli è più lontana: non è né l'umile lavoro dell'artigiano né la folle avventura di chi tenta nuove strade. L'atteggiamento verso il quale vanno le sue preferenze è una combinazione di positivismo e di irrazionalismo. All'università aveva avuto tra i suoi maestri un kantiano come Martinetti. Fu attratto dai due caratteri fondamentali della filosofia kantiana: la critica della metafisica e il rigorismo morale, in altre parole il relativismo in teoretica e l'assolutismo in etica. Tanto da considerarsi, tenuto conto dei tempi e delle nuove condizioni del sapere, un kantiano. Assumere come punto di partenza la .filosofia di Kant voleva dire porsi in una prospettiva storica completamente diversa da quella consueta allora (ed anche oggi) in Italia, che posticipa il momento della svolta a Hegel, il quale avrebbe compiuto quella rivoluzione dalla trascendenza all'immanenza che Kant aveva preannunciata ma lasciata a metà strada. Secondo questa prospettiva, le varie direzioni della 6loso6a contemporanea sorgono non già dalla continuazione del kantismo ma dalla dissoluzione dell'hegelismo (si pensi alla fortuna che ha avuto in Italia il testo canonico di questa interpretazione, Von Hegel bis Nietzsche di Karl Lowith, apparso nel 1947). Mentre nella prospettiva hegeliana tutto il corso successivo della filosofia viene interpretato come una rivolta contro Hegel, come la conclusione della filosofia classica giunta al suo compimento, e le varie correnti cl.i pensiero, positivismo, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, come i vari modi in cui la filosofia, l'ultima filosofia, si può convertire in non-filosofia, nella prospettiva kantiana, adottata da Colorni, l'idealismo e la filosofia classica tedesca, anziché essere il momento culminante della storia della filosofia, sono una delle possibili strade che si erano aperte dopo la critica kantiana, e fra tutte una delle più infeconde, se non la più infeconda, perché cl.i tutte è quella più chiusa ad ogni ulteriore sviluppo. Ancora: a differenza di quel che accade nella prospettiva hegeliana, in cui viene assunto come punto cl.i riferimento non il momento della svolta e quin220
di del cominciamento di un nuovo processo, ma il momento della conclusione, non la rivoluzione, si direbbe in linguaggio politico, ma la restaurazione, i personaggi positivi della prospettiva kantiana sono coloro che hanno disobbedito e disobbedendo hanno dato origine ad altre rotture, non gli obbedienti che con la loro osservanza hanno arrestato lo sviluppo del pensiero: insomma, in un'atmosfera satura di conformismo idealistico, com'era quella in cui Colorni cominciava a scrivere, l'apologo del padre e dei quattro figli è un elogio dell'anticonformismo, un omaggio all'illuministico e kantiano sapere
aude. Infine, anche rispetto alla collocazione e alla valutazione delle diverse correnti della filosofia contemporanea, le due prospettive non potrebbero essere più diverse. Si osservino le due coppie: positivismo-idealismo da un Iato, irrazionalismo e neo-positivismo dall'altro. L'idealismo non è più, come nella vulgata idealistica dominante allora in Italia, l'opposto del positivismo, ma ne è l'irrigidimento e la deformazione speculativa. L'irrazionalismo non è l'antagònista del sapere scientifico, ma è soltanto l'ipertrofizzazione filosofica, e quindi una falsa assolutizzazione, di quell'atteggiamento iconoclastico di fronte alle verità ricevute senza il quale non vi è progresso scientifico (non ci sarebbe stata la più sconvolgente delle scoperte scientifiche, quella della psicanalisi, senza il nietzschiano rovesciamento di tutti i valori). Balza agli occhi che in questa interpretazione che Colorni dà dello sviluppo del pensiero filosofico dopo Kant non c'è posto per il marxismo (mentre nella prospettiva hegeliana il marxismo diventa uno dei momenti cruciali del dopo-Hegel). Il discorso su ciò che sopravvisse del marxismo teorico in Italia durante il fascismo è ancora da fare. Ma in generale si può dire che sopravvisse poco o nulla: non solo per motivi polizieschi, come si sarebbe indotti a credere, ma perché il marxismo si era venuto identificando sempre più dopo la rivoluzione d'ottobre e dopo Stalin con la dottrina ufficiale dello stato sovietico e sembrava non dovesse più interessare i filosofi e in genere coloro che volevano ancora pensare con la loro testa. Sta di 221
fatto che i giovani della generazione di Colorni, nonostante il fascismo e la sua anti-cultura, apersero le finestre verso tutti gli orizzonti della cultura del tempo: solo verso il marxismo, o meglio verso quella dottrina o catechismo che in quel tempo era diventato il marxismo, queste finestre rimasero quasi completamente chiuse. Nell'ambito dell'opposizione interna, il primo ed unico tentativo eh 'io ricordi di discussione filosofica di Marx e del marxismo fu fatto da Guido Calogero con un corso di lezioni all'Università di Pisa che tra l'altro si riallacciavano ad alcuni dei più importanti motivi della critica al marxismo di Croce, e, riprendendo la discussione di fin di secolo nel seno dell'incipiente idealismo, cioè della « nuova filosofia », tendevano a negare ogni valore al marxismo in quanto filosofia, lasciandolo volentieri a coloro che venivano chiamati spregiativamente i « marxisti teologizzanti », e a salvare di Marx o l'ideale etico-politico o alcune scoperte metodologiche e scientifiche, che non avevano niente a che vedere con quella filosofia, anzi vi contrastavano 11 • Se un elemento costante c'era stato nella critica al marxismo da parte della filosofia italiana, dopo Croce, con l'eccezione di Rodolfo Mandolfo, esso era consistito nella negazione del marxismo come filosofia, con la conseguenza che, nonostante tutto il rilievo che ad esso doveva essere attribuito nella storia politica e sociale dell'ultimo secolo, esso veniva totalmente espunto dalla storia della filosofia. All'infuori dell'ortodossia dei comunisti correva nella rultura antifascista, non soltanto italiana, l'idea del superamento del marxismo, di cui si era fatto eco lo stesso Carlo Rosselli in Socialismo liberale, apparso a Parigi nel 1930. I saggi teoretici più importanti (Conoscenza filosofica e fisica teorica e Filosofia e scienza) prendono le mosse da Kant. Kant che con la critica radicale dell'antropomorfismo e con la scoperta delle categorie apriori dell'intelletto, con l'affermazione che noi troviamo nella natura quello che ci abbiamo messo, ha aperto la strada al progresso della scienza nel secolo XIX giù giù sino alla nuova fisica. La quale estende alle scienze della natura il principio della costruzione apriori e trascendentale che ~
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Kant aveva applicato alla matematica. Ma l'importanza di Kant non consiste tanto nelle singole scoperte quanto nella scoperta del metodo che ha permesso alla scienza successiva di passare di scoperta in scoperta. « Egli ha messo in mano ai suoi contemporanei ed ai posteri una specie di metodo intellettuale-morale per diventare scopritori scientifici». Da Kant insomma si diparte non tanto una nuova filosofia quanto una nuova « direttiva gnoseologica», che permette, mi si passi anche qui una espressione del linguaggio politico, non la rivoluzione una tantum ma la rivoluzione permanente. Una volta riconosciuta la irrealtà delle categorie dell'intelletto, era aperta la strada per sottoporre a critica radicale tutte le pretese categorie universali del pensiero. È così che si è venuta a poco a poco scalzando l'immagine tradizionale del mondo dello spirito. In altre parole: se il primo passo è consistito nel rendersi conto che le famose leggi della realtà non sono se non forme del nostro intelletto, il secondo dovrà consistere nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie o non siano alla loro volta riducibili ad altro. I documenti di questa dissoluzione - una dissoluzione che è insieme innovazione e passo avanti nel dominio dell'uomo sulla natura e su se stesso - sono per Colorai due: la fisica teorica e la psicanalisi. Non è il caso d'indagare le ragioni per cui due forme di esperienza intellettuale cosl diverse, come la fisica teorica e la psicanalisi, si siano trovate a confluire nello stesso itinerario mentale. Questa confluenza è una prova dello sforzo che egli faceva per trovare una via d'uscita dall'idealismo ormai imbalsamato, e della direzione presa, che non era quella del ritorno alla riflessione intimistica, dell'analisi dell'esistenza singola, dell'uomo gettato nel mondo, etc., che era la via evasiva dell'esistenzialismo (allora a me parve addirittura un prolungamento del decadentismo europeo), ma quella che invitava ad avventurarsi nella conoscenza di terre sino allora inesplorate, e i cui risultati già apparivano, a chi non fosse obnubilato dalla boria filosofica, ancora imperversante e ottundente, meravigliosi. L'interesse per la psicanalisi si andava diffondendo proprio in quegli anni in Italia, ed aveva trovato il 223
maggior centro di irradiazione in una città mediatrice come Trieste, dove erano nate La coscienza di Zeno di Italo Svevo e le poesie di Umberto Saba (che parla - come si legge nel brano intitolato Il poeta - « il gergo della psicanalisi»). È anche lecito fare l'ipotesi che vi fosse piombato dentro irresi· stibilmente per la tendenza fortissima, già rilevata, alla introspezione, che Io spingeva a cercare di veder chiaro dentro se stesso con assillanti analisi tra il crudele e l'ironico: si veda, ad esempio, la critica che egli fa dell'imperativo categorico (eppure se non si tenesse conto della forza dell'imperativo categorico, il significato della sua vita e della sua morte sarebbe incomprensibile). Ciò che fisica teorica e psicanalisi hanno in comune è l'essere protagonisti, forse i maggiori protagonisti, se pure in diversi campi, del processo di dissoluzione, o di « sbloccamento », com'egli talvolta dice, e con ciò di distruzione, dell'immagine tradizionale della filosofia. Ora, ciò che la psicologia e l'antropologia cercano di fare per le categorie morali ed affettive, la matematica e la fisica lo hanno già fatto in modo molto esauriente per le categorie più tipicament~ conoscitive.
Da quest'opera di distruzione sono derivati i maggiori progressi della scienza. Dalle riflessioni sui nuovi indirizzi scientifici sia nel campo della fisica sia nel campo della psicologia, Colorni trae alcune idee sulla scienza che avvicinano la sua posizione, quale si può ricostruire dai frammenti che ci sono rimasti, a quella di P. W. Bridgman, la cui Logie o/ Modern Physics apparve nel 1927, che quasi certamente Colorni non conosceva, e a quella, come è stato già osservato da Ferruccio Rossi-Landi, di Hugo Dingler, la cui Methode der Physik era apparsa nel 1938 12 • Egli distingue infatti due usi del tennine conoscenza: come affermazione di una verità e come padronanza di un processo. Il primo è il modo tradizionale della filosofia, il secondo è quello sempre adoperato, anche se non ne sia stata sempre consapevole, dalla scienza: Per chi voglia mostrare che una sostanza non è semplice, ma composta, il miglior metodo non è di ragionare sulla sua essenza, né di
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osservarla da tutte le parti, né di abbandonarla andando in cerca di altre sostanze che si possano considerare più semplici; ma effettivamente di scomporla, e ricomporla poi mediante gli elementi cosl ottenuti. Sol quando siamo padroni dd suo processo formativo, e lo possiamo ripetere, influenzare, modificare, prevedere, a nostro piacere, solo allora pos· siamo dire di conoscerlo veramente. Conoscerlo, anzi, non significa, in questo caso, altro che questo; esserne padroni.
Una proposizione come « A è B » in fisica non significa « È vero che A è B » ma « io (o altri per me) sono capaci di trasfonnare A in B ». Per fare un esempio concreto, la proposizione « Esistono idee innate » in filosofia significa che vi sono idee oltre le quali non si può andare nella costruzione di un qualsiasi processo conoscitivo. Per la scienza, invece, significa che « nel lavoro di analisi dei concetti umani, per giungere ai loro elementi costitutivi, c'imbattiamo in formazioni che non riusciamo a decomporre, e che siamo costretti a considerare come primitive ». AI problema delle idee innate la risposta che dà Io scienziato è completamente diversa da quella che dà l'empirista, secondo cui « non esistono idee innate». Anche questa è una risposta filosofica, perché pretende di valere universalmente quanto la proposizione- contraria. Se del problema s'impadronisce uno scienziato, come lo psicologo, la risposta non è né affennativa né negativa: questi osserva come si com· portano alcune delle:pretese idee innate in ?i.!cuni uomini, cerca di ricostruire il processo del loro manifestarsi nella mente e, quando attraverso questo processo di scomposizione, giunge alla conclusione che quella idea è derivata, allora non presumerà di concludere che non esistono idee innate, ma « si limiterà a indicare gli strumenti, i metodi, i reagenti psicologici usati per compiere tale dissoluzione, affinché vengano eventualmente adoperati da altri in casi analoghi». Insomma, la scienza « non vuole affermare mai nulla quanto alla verità. Vuole solo mettere l'uomo in grado di eseguire determinate azioni, o di maneggiare determinati oggetti». La mia impressione è che Colorni non fosse soddisfatto del convenzionalismo cui era giunta la critica scientifica più ammodernata per opera del Circolo di Vienna e si fosse accinto 225
ad esplorare Ia psicanalisi per vedere se era possibile darsi una ragione di quelle stesse convenzioni che poniamo alla base dei nostri procedimenti razionali. Non siamo in grado di giudicare quale sarebbe stato l'esito di questa irrequietezza intellettuale che lo aveva indotto ad andare sempre più in là, in un'opera che tendeva con inesorabile lucidità alla distruzione dell'immagine mentale e morale del mondo quale era stata ereditata dalla filosofia e dalla scienza ottocentesca. Possiamo intravedere, se non la meta, il cammino attraverso le pagine in cui egli smonta con il gusto di un enfant te"ible alcuni concetti tradizionali della filosofia, come apriori e aposteriori, razionale ed empirico, costante universale, legge naturale, esperienza, causa, etc. Quale fosse il grado di consapevolezza cui era giunto in questo lavoro di riflessione sulla scienza, si può ricavare dal Programma di una rivista di metodologia scientifica, che io propongo di considerare una sorta di conclusione, non solo in ordine di tempo ma anche in ordine ai concetti, di una ricerca purtroppo incompiuta. Il progetto della rivista, per la cui pubblicazione intercorsero trattative senza esito con l'editore Einaudi, fu discusso lungamente, in tutti i particolari (struttura, orientamento, casa editrice, collaboratori, etc.) con Ludovico Geymonat, durante l'anno di confino a Melfi (1942): la direzione avrebbe dovuto essere affidata ad Antonio Banfi; l'uscita era stata prevista per la fine del 1943. Esso rivela non solo una piena maturità e una perfettamente raggiunta chiarezza d'intendimenti, ma anche la salda convinzione che onnai la strada giusta era stata trovata. Ed era una strada di cui si intravedeva soltanto l'inizio e che avrebbe dovuto condurre molto lontano. Non ho bisogno di sottolineare la novità del progetto in un ambiente culturale come quello italiano, e la preveggenza di cui il suo autore dava prova. Si dia un'occhiata ai nomi dei filosofi e degli scienziati cui la rivista avrebbe dovuto dedicare la propria attenzione. Sono nomi ailora in gran parte sconosciuti o dimenticati dalla filosofia ufficiale del tempo, e saliti invece in gran fama, anche se non duratura (qui il discorso non riguarda più il nostro autore ma la nostra cultura), subito dopo la Liberazione. 226
Con la distinzione fra filosofia e scienza, corrispondente alla distinzione fra possesso della verità e padronanza dei vari procedimenti di ricerca, e con la risoluzione dell'interesse originariamente filosofico nell'interesse esclusivo per l'analisi di questi procedimenti, cioè per la metodologia, Colami dava il colpo di grazia alla filosofia nel senso tradizionale della parola. E cosi facendo anticipava (non possiamo dire « apriva la strada » perché le sue pagine più significative rimasero allora inedite) l'esplosione metodologica degli anni intorno al 1950. Della definitiva liquidazione della filosofia il documento conclusivo è il primo dei Dialoghi di Commodo, intitolato Della lettura dei filosofi: nondimeno questa liquidazione non ha niente a che vedere con quella più consueta dello scienziato puro, o meglio dello scientista (impersonato dal primo interlocutore), il quale non sa che farsene della filosofia perché il linguaggio dei filosofi è astruso e i loro ragionamenti sono pieni di petizioni di principio. In fondo, Io scienziato rifiuta la filosofia perché non la capisce, perché come soleva dire Salvemini (che non cito a caso, perché nell'interlocutore scientista è raffigurato Ernesto Rossi, il di lui allievo prediletto), la filosofia è un filtro alla rovescia, dove le idee entrano chiare ed escono scure. Commodo, cioè Colami, vuole invece avanzare l'idea che la filosofia sia da rifiutare perché, dopo aver fatto ogni sforzo per capirla, ci si rende conto che è un fatto personale e che i filosofi sono gente impegnata a far propaganda di certe faccende personali, che sono, in fin dei conti, sempre: le stesse: volta si chiamavano « esistenza di Dio,., « immortalità dell'anima» Oggi si chiamano « spirirualità dell'essere"'• « autonomia delle leggi rali »oche so altro.
loro una etc. mo-
Che il filosofo usi il ragionamento per risolvere i suoi problemi non vuol dire che debba essere giudicato dai ragionamenti che fa: usa il ragionamento come lo strumento più adatto, o che ritiene più adatto, per fare la « propaganda » delle proprie idee. Va giudicato dalle idee che esprime, le quali idee poi debbono essere analizzate come tutte le idee degli uomini pensanti e non pensanti con strumenti adatti (come 227
sembra sia, per quanto ancora in fasce, la psicanalisi). Ancora una volta la colpa (ma è per Colami una felice colpa) sarebbe
di Kant, il quale ha segnato limiti perentori (che peraltro non sono stati rispettati) alla nostra ragione e le ha precluso il campo tradizionale su cui la filosofi.a d'ogni tempo aveva esteso il proprio dominio cartaceo. In realtà, la considerazione del ragionamento 61osofi.co come « razionalizzazione » di più o meno oscure impressioni della coscienza ha più di Freud che di Kant e fa pensare se mai alle « derivazioni » di Pareto {fa pensare, dico, perché nessuno in quegli anni, tranne Ernesto Rossi, uno degli interlocutori, conosceva il Trattato di sociologia generale). Per il metodologo che vuol liberare la scienza dagli idoli filosofi.ci che le hanno sbarrato il cammino, il primo idolo da spazzar via è il finalismo. La critica del finalismo è il tema principale, come si è detto, dei Dialoghi di Commodo. Per chi aveva dedicato tanta parte delle proprie ricerche di storia della filosofia al propagatore (o propagandista) del « migliore dei mondi possibile», cioè di un pensatore che in un'età di avanzante meccanicismo aveva rimesso in onore le cause finali, il finalismo aveva dovuto essere un tema costante di riflessione, e una ragione persistente di perplessità. Il finalismo è insidioso, perché senza che uno se ne accorga si insinua dappertutto: anche la scienza contemporanea, nonostante tutti gli sforzi per liberarsene, ne è imbevuta. Un concetto come quello di « costante universale» racchiude in sé « tonnellate di finalismo». Il finalismo è puramente e semplicemente la conseguenza della concezione antropomorfica o antropocentrica dell'universo, la quale è a sua volta la conseguenza dell'ingenua idea che il mondo sia fatto per l'uomo, mentre è vero al contrario che l'uomo si adatta, o si è adattato a poco a poco, al mondo in cui si è venuto a trovare. Il finalismo è l'illusione nascente dal credere che ciò che è conforme ,alla natura dell'uomo sia una specie di beneficio che la natura stessa o Dio hanno offerto all'uomo, mentre dipende unicamente dal fatto che l'uomo ha foggiato per comprendere e dominare la natura certi strumenti 228
che hanno e serbano 1a sua impronta. Insomma l'uomo trova nella natura ciò che vi ha messo: e invece di dire che la natura è una creazione dell'uomo preferisce sostenere che l'uomo è una creatura della natura (e per di più di una natura benefica). Anche in questo caso per chiarire il pensiero dell'autore possiamo servirci di un apologo (La nostra immagine), che ci fa assistere ai dubbi che assalgono il padre di un bimbo appena nato, il quale si domanda se davvero tutto ciò che accade durante la nascita sia « cosl armonico, coerente, economico», come si è portati a dire nell'impeto della sorpresa, o se, invece, a pensarci bene, le cose non avrebbero potuto andare altrimenti, con maggiore semplicità o minor dispendio di energie. Siamo generalmente portati a non porci il problema perché, avendo bisogno di ordine ((( l'uomo non ha gli organi adatti per concepire il disordine »), vediamo ordine dappertutto, e vediamo solo ordine perché l'ordine ci può servire, il disordine no. Cosl arriviamo alle radici della illusione finalistica: Si tratta di vedere se sia stata la. natura a congegnare le sue leggi in modo conforme ai bisogni dell'uomo; o se non è piuttosto l'uomo, che si è servito di un certo numero di cose secondo i propri bisogni, ordinandole a suo modo.
La migliore definizione del finalismo è la seguente: Ogni volta che si vuole uscire dall'uomo misura di tutte le cose e si cerca di scoprire la conformazione delle vere e proprie leggi del reale, non si può fare a meno di immaginare in modo più o meno raffinato, in queste pretese ley,i, un insieme di tendenze, fini, armonie etc. che sono presi dal mondo dei nostri desideri e dei nostri sentimenti.
Questa definizione permette di chiarire perché il finalismo sia da rifiutare; dove esso appare (e appare dappertutto), ostacola il progresso della conoscenza scientifica. « Indice di un orgoglio insopprimibile, di un amore di se stesso che accieca di fronte a tutto ciò che sia fondamentalmente altro, diverso », esso è rovinoso per ogni forma di conoscenza. Si tratta di sapere però se un rifiuto cosl fermo che vale certamente per le scienze naturali debba valere anche per la storia. 229
Uno dei dialoghi di Commodo è dedicato alla discussione cli questo problema. Escludere l'intrusione delle cause finali quando è in questione la natura, va bene: ma quando è in questione l'uomo, la cui azione cosciente è determinata da fini? La conclusione cui sembra giungere Commodo (in cui è raffigurato l'autore) nel dibattito con Severo, sostenitore della tesi che la conoscenza storica è irriducibile a quella scientifica, è che se la storia ha da essere scienza e nella misura in cui si propone di costituirsi, al pari di ogni altra scienza, come sistema di prevedibilità, essa non può fare a meno cli eliminare le cause finali: « Generalmente- egli osserva - si considerano tanto più finalistiche e antropomorfiche le cause, quanto meno sono sicure; cioè quanto meno sono cause, quanto meno sono utili alla scienza ». Ciò non toglie che vi sia un'altra forma di conoscenza storica, che non ha affatto l'intendimento di prevedere il corso delle azioni di questo o quell'individuo, di questo o quel gruppo sociale, ma tende unicamente a penetrare, a immedesimarsi, nell'azione altrui per trarne suggerimenti utili alla pratica, in conformità del principio che bisogna capire gli altri per capire se stessi. L'organo di questo modo di fare storia non è l'intelligenza con tutti i suoi strumenti di misurazione e di verifica, ma l'amore, un modo di presa non intellettivo ma affettivo. Amore e previsione sono incompatibili: Amare nel senso vero e non degenerato della parola, significa proprio considerare il proprio oggetto come supremamente altra, quindi sempre nuovo, sempre sconosciuto, ogni volta conosciuto di nuovo e con sorpresa, in una parola imprevisto, vivo.
Questo tipo di storia è perfettamente legittimo ma non è scienza, o per lo meno è opportuno non chiamarla scienza per non fare confusioni dannose. Di qua la distinzione tra le scienze e quelle altre cose che vengono chiamate, in mancanza di una terminologia accreditata, « attività finalistiche». In conclusione: Chiamiamo scienza tutte le attività di ricerca e di conoscenza che cercano di toStituire, con mezzi qualsiasi[ ... ] dei sistemi di prevedibilità.
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Chiamiamo attività finalistiche quelle in cui entra un elemento affettivo rivolto verso gli altri o verso se stessi o verso le generazioni avvenire, o verso le passate, o che so io.
Sarebbe assurdo chiedere a Commodo quale delle due sia la « vera » storia. La risposta non potrebbe essere che questa: dipende dall'uso che ne vogliamo fare. Al lettore di oggi interessa cogliere in questa disputa un riflesso del contrasto tra il modo positivistico (e oggi neo-positivistico) e quello idealistico (proprio dello storicismo tedesco e italiano) di concepire la storia: tra il metodo dell'erkliiren e quello del verstehen (l'amore o la presa affettiva di Colorni). È una soluzione che consiste nel mantenere ben ferma la distinzione ma nello stesso tempo nel non confondere i piani su cui le due diverse prospettive operano, ed hanno i loro buoni motivi, purché non le si confonda, di sopravvivere. Com'è proprio di ogni forma di radicalismo anti-metafisico e di empirismo radicale (anche se Colorni non accetterebbe di essere chiamato empirista), il pensiero di Colorni è eminentemente dualistico, diviso, quasi direi lacerato, dalla contrapposizione tra ragione critica e fede morale. Oltre la zona di luce, sempre più fioca, aperta all'opera instancabile dell'intelletto, c'è una zona di penombra e poi di ombra sempre più fitta, preclusa all'intelligenza, accessibile a qualche altra facoltà dell'uomo, che tanto per intenderci possiamo chiamare anche « amore » (ma lasciando in chi ci ascolta e in noi stessi il sospetto che si tratti della solita scappatoia di chi è arrivato alle soglie dell'intelligibile, teoricamente non più giustificata di quella che conduce a una qualsiasi forma di trascendenza). Quanto più il filosofo si addentra con armi critiche acuminate nel corpo di ciò che è scrutabile, tanto più gli si addensa attorno la sfera oscura dell'imperscrutabile, dinanzi alla quale si deve arrestare per non smarrirsi. Non c'è allora altra risposta che quella dualistica: dualismo tra giudizi di fatto e giudizi di valore, tra mondo della conoscenza e mondo emozionale (come diranno gli empiristi logici), tra ragione e passione (come avrebbe detto un razionalista del seicento), tra conoscenza comunque la si intenda, e amore, tra scienza e vita, e, secondo l'accusa ricorrente 231
del monista, che non può pensare ad un mondo diviso senza esserne turbato e sentirsi diviso in se stesso, e invoca, in nome dell'unità del tutto, la categoria della « totalità» e vi si accomoda (si pensi alla polemica riaccesasi in questi ultimi anni per opera di Adorno e degli adorniani contro Popper), tra intellettualismo astratto e decisionismo (o irrazionalismo) pratico. Oltre ad alcuni scritti letterari, tuttora inediti, l'opera di Colorni comprende un certo numero di scritti politici che apparvero per lo più su riviste e giornali socialisti, dell'esilio o clandestini, nel periodo fra le due guerre, alcuni, gli ultimi, in pubblicazioni federalistiche. A paragone di quelli filosofici gli scritti politici sono pochi, e quel che è più, poco o punto filosofici. Il che può essere motivo di sorpresa soltanto per chi non abbia presenti alla memoria altre raccolte di scritti di uomini della Resistenza, intellettuali e militanti, come Leone Ginzburg e Giaime Pintor. Anche a non tener conto delle reali difficoltà in cui si trovava chiunque volesse scrivere di politica sotto un regime censorio con la stessa libertà con cui esprimeva le proprie idee nella critica letteraria o filosofica, quel che si è constatato poc'anzi circa il dualismo fra scienza e vita, o il distacco o addirittura l'incomunicabilità fra ragione teoretica e ragione pratica, può servire, per lo meno nel caso di Colorai, a spiegare non tanto il piccolo numero degli scritti politici quanto il fatto che tra questi e gli scritti filosofici sia difficile trovare un ponte di passaggio, e tanto meno un tratto comune; e come gli scarsi scritti politici non serbino traccia del travaglio filosofico in cui si dibatteva il loro autore, e, soprattutto, come gli scritti filosofici non tocchino mai, anche là dove sembrano lambirlo, il campo della discussione politica. Significativo il quarto dei Dialoghi di Commodo, dedicato a una critica dell'economia politica, che, in quanto tale, continua il terzo, dedicato alla critica della storiografia. L'autore attorno al quale si accende il dibattito è Lionel Robbins. Come nel dialogo precedente è posta sotto accusa la presunzione dello storico alimentata dallo storicismo, cosl in questo l'accusa è 232
rivolta alla presunzione dell'economista, che crede acriticamente nella scientificità dei suoi procedimenti. Nell'uno e nell'altro caso la critica è esclusivamente metodologica. Nel caso specifico dell'economia, la critica, sulla cui acutezza e attualità credo sia superfluo richiamare l'attenzione del lettore di oggi, riguarda principalmente la illusione dell'economista intorno alla purezza deduttiva dei suoi ragionamenti, e il disprezzo alimentato da questa illusione per la (( penombra psicologica»: Commodo cerca di dimostrare che questi ragionamenti non sono né puri né deduttivi oppure sono puri e deduttivi solo in quanto sono stati arbitrariamente eliminati i dati empirici (specie i dati psicologici sulla natura dell'uomo), che peraltro una volta cacciati dalla porta rientrano dalla finestra, e ci fanno scoprire che le pretese leggi naturali dell'economia sono tutt'al più leggi statistiche e probabilistiche, né più né meno delle leggi fisiche. Solo in un punto la critica sfiora i riflessi politici dell'impostazione teorica, là dove Commodo osserva ironicamente che per gli economisti puri l'ideale sarebbe che i fatti sottostessero alle (presunte) ferree leggi dell'economia, mentre agli uomini non importa nulla « di vivere in un mondo accessibile a solide e pulite generalizzazioni e previsioni», perché « desiderano [. .. ] mangiare bene, vestire bene, divertirsi, istruirsi, espandere la propria personalità, etc.». Ma il tema appena sfiorato è subito abbandonato: a Commodo e ai suoi amici interessa la critica scientifica, non la critica politica dell'economia. Oggi può sembrare ovvio che una critica scientifica dell'economia non possa andare disgiunta da una critica politica e ancora più ovvio che una critica politica dell'economia non possa non condurre, tanto chi lo idoleggia quanto chi lo lapida, a Marx. Ma l'autore del Capitale è completamente al di fuori, come si è detto, dell'orizzonte di Colami e dei suoi amici. Certa.mente lo hanno letto; ma al momento di servirsene, lo hanno lasciato fuori della porta. Il che può sembrare tanto più strano per un 6losc, fa che è in politica un socialista militante, e per di più, come appare dagli scritti politici che precedono il suo arresto, e quindi il confino dove avvengono i Dialoghi, un socialista rive, luzionario. 233
Senonché, Colorai è politicamente un uomo d'azione, impegnato in un dibattito sul « che fare » piuttosto che sul « che cosa e come conoscere ». E d'altra parte il marxismo in Italia è stato troppo spesso un prodotto libresco, un luogo d'incontro e di scontro di filosofi. Il primo marxista italiano dopo la Liberazione, Galvano Della Volpe, non proviene dalle fila dell'antifascismo militante e della Resistenza. Oltretutto il marxismo dell'epoca staliniana è diventato una dottrina, un sistema di formule o di parole d'ordine da applicare rigidamente alle varie situazioni secondo direttive che vengono dall'alto: non è, com'era stato negli anni della lotta politica prefascista e come sarà dopo la restaurazione della libertà, un metodo critico. Nulla quindi di più estraneo ad un orientamento mentale che è indirizzato, come si è visto, verso la critica epistemologica. Per un uomo come Colorai, la politica è azione ed è azione guidata, più che da una dottrina o da una concezione generale della società, da una scelta etica, ancora una volta da un imperativo categorico, com'è del resto in un Ginzburg e in un Pintor. Croce avrebbe detto: dalla coscienza morale. « Imperativo categorico», « coscienza morale», parole oscure, o peggio suggestive, di cui è inutile andare a cercare il significato con gli strumenti affilati della critica e della psicologia. Non si verrebbe a capo di niente: si capisce sin dall'inizio che a un certo punto ci si deve fermare se non ci si vuol perdere in meandri da cui è difficile tornare a vedere la luce del sole. Ma non abbiamo per ora altre parole a nostra disposizione per farci capire (eppure, nonostante la loro ambiguità che farebbe inorridire un analista del linguaggio, ci capiamo benissimo). Colorni mette in bocca a un interlocutore di uno degli ultimi dialoghi, il Dialogo della morte, queste parole spietate, ironiche, liberatrici: Ciò che ti spinge, o Commodo, all'azione, non è un vero interesse per l'azione stessa, un affetto, un bisogno profondo e sincero di partecipare alla vita degli altri. E piuttosto un senso del dovere, un bisogno di non aver niente da rimproverarti, di essere in pace con la tua coscienza, presentabile di fronte a qualsiasi istanza giudicante: oppure la preoccupazione di conoscere tutto, di aver tutto provato, di fare ogni esperienza
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che ti arricchisca lo spirito ed allarghi la mente. Ora questi, in 6n dei conti, sono tuoi fatti personali.
:E: vero: anche la morte è un fatto personale. Nondimeno « quella • morte - la morte di Eugenio Colorni - è uno di quei fatti personali dal quale, una volta fissato, non possiamo più allontanare lo sguardo senza sentirci coinvolti, senza domandarci all'infinito il perché e non trovare wia risposta che dia tregua al nostro senso d'orrore o di pietà o di colpa o d'invidia (la bella morte), e anche alla nostra volontà di capire, di darci una ragione, al nostro bisogno di razionalità, di un ordine dell'universo in cui anche il più piccolo granello di sabbia abbia il suo posto e il suo scopo (rivincita del finalismo?). Perché solo attraverso questa volontà di capire il fatto personale diventa un fatto di tutti. O per lo meno di coloro che non hanno dimenticato e sanno che bisogna essere sempre pronti per ricominciare.
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NOTE
I G. Molll'UIIGO TAGLIABUE, ree. a E. CoLORNI, L'estetica di Benedetto Croce, Studio critù;o, Società editrice « La cultura•, 1931, in « Il convegno•, XIII, 1932, n. 11-12, pp. 529-537. 2 Di questa rivista è apparsa un'aotologia, Pietre. Antologi4 di una rivista (1926-1928), a cura di G. Marcenaro, Milano, Mursia, 1973, in cui è ripwclotto l'articolo di Colami (pp. 240-244). Per la storia della rivista vedi l'intwcluzione del curatore, intitolata: Pietre: più cbe ima riuista un'intenzione (pp. 8-37). 3 Per le notizie sul Centro interno socialista, vedi S. Ml!.RLI, La rinascita soci4lista italia"4 e l4 lolla contro il fascismo dal 19}4 al 1939: Intwcluzione a Documenti inediti dell'Archivio Tasca, Milano, Fdtrinclli, 1%3. Vedi anche D. Zucbo, Cospirazione operaia, Torino, edizione a cura dd Cirço{o della Resistenza dell'Azienda municipale di Torino, 1963, p. 147 ss.; e A. Aoosn, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l'azione politica, Bari, Latcrza, 1971, p. 229 ss. Sull'attività politica di Colomi, da ultimo E. Gl!.NCARl!.LLI, Profilo politico di
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Eugen~o 0 •e,~ Il concetto ,.dio stile, in « Quaderni ddla Critica•, n. 19-20, 1951, pp. 185-186, ristampata 5~~; ~I; 3 scrive: « C.OOObbi il Colorni nd 1931 a Berlino, quando egli eta lontano dalla politica e molto legato al cosiddetto idealismo attuale e ai suoi rappresentanti: ed ebbi con lui conversazioni nelle quali procurai di disporlo altrimenti • (p. 31). 5 R. DP.