Teatro nō. La via dei maestri e la trasmissione dei saperi
 8849129297, 9788849129298

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Matteo Casari

Teatro n1o La via dei maestri e la trasmissione dei saperi

© 2008 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

In copertina: Il sipario si alza sullo shite pronto ad entrare in scena, foto di Matteo Casari. Grafica di Oriano Sportelli

Casari, Matteo Teatro n1o. La via dei maestri e la tramissione dei saperi / Matteo Casari. – Bologna : CLUEB, 2008 180 p. ; 24 cm (Lexis. 1., Teatro in Asia e in Africa / collana diretta da Giovanni Azzaroni ; 2) ISBN 978-88-491-2929-8

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di febbraio 2008 da Legoprint - Lavis (TN)

INDICE

Guida alla pronuncia

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Capitolo l - II mito, storia giapponese: premessa metodologica alla via dei maestri

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Identità e autorità tra oralità e scrittura

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Tra Maschile e Femminile

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Capitolo II - Discendere dagli dei per appartenere al mondo

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Capitolo III - I valori di una tradizione

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Confucianesimo: l'arte totale di essere uomo Buddhismo zen: il rigore della libertà

61 66

Capitolo IV — Trasmettere la via, trasmettere il cuore

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Museki Isshi. Traccia di un sogno sopra un foglio L'eredità di Zeami Kyakuraika. Il fiore del ritorno

73 81 87

Capitolo V - All'estremo l'altezza raggiunge la profondità

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La regola La forma, Impurezza, la tecnica I kata: alcune implicazioni Ancora sui kata, sulla tecnica e l'identità ...e l'eccezione che la conferma

.,

95 99 103 108 110

6

Capitolo VI — / trattati, i maestri, gli allievi: un modello culturale al servizio della tradizione 115 II sensei: tra autorità e responsabilità Capitolo VII — L'oggi e dintorni

124 129

L'ennesima prova Un archetipo attaccato Implicazioni circa l'indebolimento dell'archetipo paterno // sistema educativo: insegnanti e maestri, alunni e allievi

129 131 134 141

Conclusioni

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Appendice — Conversazione con Monique Arnaud, shihan della scuola Kongo ..

149

Glossario minimo

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Bibliografia

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Guida alla pronuncia

Per i termini in lingua giapponese il sistema di traslitterazione adottato è l’Hepburn. Le vocali sono pronunciate come in italiano, le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che: ch viene pronunciata come la c dolce italiana in cesto; g è sempre dura come in gatto; h è sempre aspirata come nella parola inglese hot; j è pronunciata come la g dolce italiana in gioco; sh si pronuncia con il suono italiano di sc seguito da i; u, quando si trova tra k e sh, ts e k, d e k, risulta praticamente muta (se si trova, all’interno di una stessa parola, tra ts e k e poi tra k e sh, la prima è muta, mentre la seconda si pronuncia); w si pronuncia u. La lunga sulle vocali ne indica l’allungamento. Seguendo l’uso giapponese, tranne nelle citazioni in cui tale uso non venga rispettato, tutti i nomi propri giapponesi sono preceduti dal cognome.

Capitolo I

Il mito, storia giapponese: premessa metodologica alla via dei maestri

Dedicarsi allo studio di un fenomeno appartenente ad una cultura altra pone, in primo luogo, questioni di metodo. Il come condurre la ricerca dovrebbe precedere, o eventualmente esserle contestuale, la scelta di cosa la ricerca voglia indagare e le domande attraverso le quali farlo. Chi sia un maestro, cosa abbia da insegnare, da dove origini e cosa produca l’autorità riconosciutagli, quali siano le premesse e quali gli scopi del suo insegnamento, su che presupposti relazionali si basi il rapporto con gli allievi, quanta importanza rivesta il rispetto e il mantenimento di una tradizione disciplinare o, al contrario, il suo costante superamento rimangono domande astratte e poco utili a definire il come alla base della ricerca finché non siano raccordate a un dove e a un quando. Tenendo conto di tali coordinate l’approccio metodologico che mi ha condotto ad individuare il sistema di trasmissione sapienziale tra maestro e allievo nel teatro no1 quale ambito di ricerca e ad adottare su di esso uno sguardo quanto più possibile sincronico, ossia a trattarlo come fenomeno asiatico più che orientale, è stato quello antropologico. Nell’assumerlo, e nell’indirizzare l’indagine sul Giappone, la definizione levistraussiana di antropologia come “rimorso dell’Occidente” e quella di “orientalismo” proposta da Edward Said hanno giocato un ruolo determinante. L’efficace chiosa di Lévi-Strauss fa emergere in tutta la sua reale portata quella sensazione sgradevole, e pervasiva, di operare sotto l’ombra lunga di una nemesi culturale che imbrigli l’indagine in schemi rigidi e preordinati. Ciò si avverte laddove non si riesca a sfuggire da una ricerca impostata sull’asse soggetto-oggetto istituito sul dirimente rapporto noi-loro cui, in realtà, è sotteso il senso di superiore-inferiore, dominante-dominato, civile-non civile. Una simile modalità analitica, in virtù dell’eredità di cui è figlia, ha nel tempo acquisito la capacità di innescarsi in modo pressoché automatico. La caduta in questo automatismo, in altri termini peccare di etnocentrismo, significa spesso operare nell’ambito autoreferenziale di ciò che Said compendia sotto il nome di orientalismo: “vale a dire un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza occidentale” (Said 1978: 11). Il massimo cui l’altro possa ambire è fungere da occasione per l’io di parlare a se medesimo di se medesimo: “Nello stesso modo l’orientalismo nel suo insieme sop-

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pianta e rende superfluo l’Oriente: il valore dell’orientalismo, il suo senso, dipendono dall’Occidente ben più che dall’Oriente, e in tale senso emerge attraverso varie tecniche di rappresentazione occidentali che rendono visibile e comprensibile l’Oriente entro il discorso che lo riguarda. A loro volta, queste rappresentazioni dipendono da istituzioni, tradizioni, convenzioni, codici largamente condivisi, ben più che da un Oriente lontano e spesso indefinito” (Said 1978: 30). Un richiamo metodologico che considero prezioso per eludere le secche dell’etnocentrismo è alla dinamica dello sguardo proposta da James Clifford (Clifford 1988), ossia alla necessità di uno sguardo mobile e capace di dialogo interculturale in cui ogni oggetto di ricerca sia anche soggetto della ricerca e possa parlare con libertà e dignità; una pratica dell’alterità che situi il risultato dell’osservazione nel punto medio di fusione tra l’osservato e l’osservatore in una continua alternanza di ruoli. Un esercizio, questo, non sempre facile e impedito spesso da abitudini consolidate e da una diffusa tendenza a fare dell’altro, della cultura altra, un’inerte presenza su cui proiettare paradigmi precostituiti dei quali, prima o poi, si troverà conferma. Poter cogliere la dinamica culturale, scardinare la forza oggettivizzante e raggelante della lezione antropologica classica, significa in primo luogo predisporsi a scendere nell’alveo stesso in cui la corrente culturale scorre e in seconda battuta armarsi, parafrasando Peter Brook, di un punto di vista in movimento. I più recenti e significativi contributi italiani all’approccio interculturale in ambito filosofico avvertono che “la pratica del confronto tra i pensieri d’Oriente e d’Occidente ha mostrato e continua a mostrare due fatti incontrovertibili ed inequivocabili: i confini culturali tra Oriente e Occidente non sono mai definibili in modo netto e una volta per tutte, ma dipendono da diversi eventi storici, dagli interessi materiali che li determinano e dalle interpretazioni che tentano di spiegarli; non ci sono l’Oriente e l’Occidente come due realtà compatte ed unitarie, ma esistono molti e diversi Orienti, così come molti e diversi Occidenti. Per evitare che chi oggi – e ancor più in futuro – deve o vuole passare per le strettoie tra Oriente e Occidente vi rimanga impigliato o, peggio, stritolato, diventa sempre più necessario ed urgente conoscere modi e forme in cui Orienti e Occidenti continuano, reciprocamente, a ridefinirsi” (Pasqualotto in Autori Vari 2005: I-II, corsivi nel testo). La propensione ad una chiara e definitiva separazione tra un noi e un loro lungo il confine netto tra un Oriente e un Occidente appare una occorrenza strettamente connessa alla struttura logica e notomizzante affermatasi nel pensiero occidentale. “La frontiera, linea ideale tracciata tra i confini di due paesi o indicata da pali segnaletici, è visibile solo sulle carte sulle quali viene marcatamente segnata. […] Frequentemente il confine è contrassegnato da un oggetto, per esempio un palo, un portico, una pietra infissa nel terreno (limite, termine) che sono stati collocati nel punto preciso dell’entrata con l’accompagnamento di riti di consacrazione. […] Attualmente da noi un paese confina con un altro; ma non era così quando il suolo cristiano non costituiva che una parte dell’Europa; intorno a questo territorio esisteva tutta una fascia neutra, divisa praticamente in sezioni, le marche. Esse si sono a poco a poco ri-

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tirate, e sono poi scomparse, ma il termine letterale di marca conservò il significato letterale di passaggio da un territorio a un altro attraverso una zona neutra. Le zone di questo ordine svolsero un ruolo importante nell’antichità classica, soprattutto in Grecia; esse erano il luogo di mercato o di combattimento” (Van Gennep 1909: 1416). Nel suo ancora attuale studio sui riti di passaggio Van Gennep traccia con queste semplici coordinate lo spazio del margine fisico e del suo corrispettivo antropologico, il limen, inteso come necessità di incontro – luogo di mercato, di commercio e quindi di scambio e circolazione – e scontro – luogo di combattimento – tra estremi che possono e devono essere opportunamente armonizzati, trasformati e raccordati. La neutralità riconosciuta da Van Gennep al margine può essere riferita nel caso specifico all’impossibilità di assegnare la pertinenza territoriale ad uno dei due estremi contrapposti e, inoltre, si dà come precondizione necessaria al contenimento del potenziale esplosivo che l’incontro-scontro fra due realtà altre porta potenzialmente con sé – il mercato e il combattimento – uno spazio magmatico e ambiguo nel quale, di tanto in tanto, è possibile intravedere, spesso grazie alle indicazioni di chi lo abbia già attraversato in precedenza, passaggi certi che testimoniano e celano in sé i legamenti reconditi della continuità tra le due sponde. La contrazione delle marche, il loro appiattimento in convenzionali linee di confine visibili solo sulla carta, invece, può euristicamente correlarsi al passaggio dal liminale al liminoide osservato da Victor Turner – antropologo che sviluppando il sistema triadico dei riti di passaggio di Van Gennep giunse alla teoria del dramma sociale così significativa per gli studi teatraologici tout court – nella civiltà occidentale. Nell’articolato impianto teorico di Turner (in particolare Turner 1982 e 1986) i termini liminale e liminoide sono rispettivamente collegati a società non industrializzate e industrializzate e, pur nelle numerosissime sfumature e accezioni qui non compendiabili, intervengono a caratterizzare un diverso grado di continuità/separatezza tra i differenti piani dell’esistenza osservabile nei due contesti dati. Più precisamente Turner individua nelle società del primo tipo, nelle quali vige solitamente un’idea mitico-circolare del tempo, una indistinta separazione – la marca – mentre in quelle di secondo tipo, in cui il tempo ha un decorso solitamente storico-lineare, una netta separazione – linee di confine – tra il tempo sacro e profano o ancora tra il tempo lavorativo e di svago: “nelle fasi e negli stati liminali delle culture tribali e agricole (nel rituale, nel mito e nei processi giudiziari) è spesso difficile distinguere fra loro lavoro e gioco. […] Dobbiamo ora considerare la netta divisione tra lavoro e svago prodotta dall’industria moderna, e il modo in cui essa ha influito su tutti i generi simbolici, dal rito, ai giochi, alla letteratura” (Turner 1982: 71, corsivi nel testo). E ancora: “Forse sarebbe più corretto considerare la distinzione stessa fra «lavoro» e «gioco», o meglio tra «lavoro» e «svago» (il quale comprende il gioco sui generis ma non si riduce ad esso), come un prodotto della rivoluzione industriale, e concepire generi quali il mito e il rituale come lavoro e gioco contemporaneamente, o almeno come attività culturali in cui lavoro e gioco stanno fra loro in un complesso rappor-

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to d’equilibrio. [...] Infatti vi sono degli aspetti incontestabilmente ‘ludici’ nelle culture ‘tribali’ ecc., specie nei periodi liminali dei riti di iniziazione protratti nel tempo o in quelli basati sul calendario. [...] Ma il punto è che questi aspetti di gioco o ludici del mito rituale delle società agrarie tribali sono, come dice Durkhaim, de la vie sérieuse, cioè sono intrinsecamente connessi al «lavoro» compiuto dalla collettività nell’eseguire azioni simboliche e nel manipolare oggetti simbolici [...]” (Turner 1982: 66-67). Il transito dal liminale al liminoide, da non intendersi assolutamente in senso evoluzionistico o altresì di deterioramento rispetto una presunta purezza originaria, parla nuovamente della propensione alla separazione, sia concreta che simbolica, riscontrabile nella civiltà industrializzata occidentale in cui la dinamica linearità del tempo storico si è nettamente discosta dalla immota circolarità del tempo mitico. Liminale e liminoide, va detto, non si danno come fenomeni alternativi ma coesistono in uno stesso contesto culturale in proporzioni differenti. La presenza di processi di produzione industriale favorisce per Turner la predominanza del liminoide mentre realtà tribali o preindustriali sarebbero legate al liminale. In Giappone, oggi superpotenza economica e industriale, si osserva a mio avviso uno iato tra sacro e profano – e quindi uno scarto dal liminale al liminoide – minore di quello presente nell’Occidente culturalmente inteso. Il Giappone, insomma, sfugge ad una rigida lettura della casistica turneriana. Tentare una misurazione della prossimità o lontananza dei domini del sacro e del profano, però, è possibile solo accettando quella che in realtà è una distinzione artificiosa tesa unicamente ad agevolare l’indagine. Secondo Massimo Raveri, infatti, che dedica proprio al Giappone il suo Itinerari nel sacro: “non vi è una dicotomia di spazio sacro e spazio profano con caratteristiche diverse, che presuppongano comportamenti sociali differenti. Il tempio, il cimitero, il villaggio, la casa sono collocati in modo coerente con l’insieme e in base a significati che trascendono quelli della loro funzione concreta. Spazio sacro e spazio profano appartengono alla stessa logica culturale. È per comodità e semplicità che, parlando di una qualsiasi delle modalità dello spazio, si sceglie di astrarla dalle altre; ma né l’una né le altre cessano di influenzarsi e di concorrere a una sua determinata organizzazione” (Raveri 2006: 11). L’unicità della logica culturale cui fa riferimento Raveri si compone delle incessanti influenze che reciprocamente tutte le sue componenti costitutive riverberano le une sulle altre: una molteplice e dinamica unità la cui insorgenza e problematizzazione sarà spesso riscontrabile in queste pagine. Entrato di prepotenza nell’era industriale già sul finire del XIX secolo a seguito della riforma (Meiji ishin, cfr. Takeshita 1996: 162-163) voluta dall’imperatore Meiji – lo stesso imperatore che ha restaurato il potere imperiale de facto dopo secoli di governo militare – il Giappone, successivamente ad un iniziale assorbimento acritico del modello occidentale, ha condotto la propria marcia verso la modernità preferendo la modernizzazione all’occidentalizzazione. “Cosa si intende, esattamente, per occidentalizzazione? Essenzialmente, direi, l’accettazione non solo della tecnologia e

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della scienza, ma anche dei valori e degli ideali propri dell’Occidente. In questo senso l’occidentalizzazione costituisce una convergenza verso modi di pensare occidentali, verso una visione occidentale della vita e del mondo. La modernizzazione, dall’altro lato, comporta soprattutto l’acquisizione di tecnologie, che sono ideologicamente neutre. [...] Di fatto, la modernizzazione può rafforzare le tradizioni o le ideologie locali e diventare una forza che resiste all’occidentalizzazione o vi si oppone apertamente. [...] I capi della rivoluzione Meiji compresero molto bene questo fatto quando propagandarono una coniugazione di wakon-yo1 sai (“spirito giapponese e tecnologia occidentale)” (Maraini 1971: 195). La modalità con cui la modernizzazione giapponese si è prodotta, ossia attraverso il sincretismo insito nel wakon-y1osai, ha preservato abitudini e atteggiamenti tradizionali autoctoni che hanno impedito l’imporsi esclusivo di un approccio razionalistico alla vita e al mondo di impronta occidentale. Un ruolo centrale, in tal senso, è stato sicuramente giocato dalla percezione identitaria giapponese. Vista l’importanza che avrà nell’economia generale di questo studio è bene chiarire subito che l’identità chiara, o identità forte, vi si configura quale accezione affine, assolutamente non antitetica, ad identità aperta. Solo una marcata consapevolezza della propria identità è a mio avviso garanzia preliminare di una reale e proficua apertura al dialogo interculturale, di una predisposizione a tesaurizzare l’incontro con l’altro. La “giapponesità” ha rappresentato e rappresenta ancora oggi uno degli argomenti di discussione più accesi e dibattuti tra i giapponesi e non solo. Una fitta produzione bibliografica ha interessato, particolarmente a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale, il tema del nihonjinron (letteralmente, teorie sui giapponesi), attorno al quale schiere di sostenitori e detrattori si sono cimentati nel validare o negare l’esistenza di una forma e una essenza tipicamente ed esclusivamente nipponiche. La questione dell’identità giapponese, in specie culturale, si è spesso presentata nel corso della storia dell’arcipelago imboccando a volte derive ideologicamente particolariste. Può essere ricordato, come precedente significativo del nihonjinron, il kokugaku (letteralmente, studio nazionale), una corrente di studi risalente al periodo Edo (16031867) che attraverso ricerche filologiche su opere dell’antichità “mirò a far luce sulla vita spirituale dei giapponesi non ancora «contaminata» dai pensieri stranieri quali confucianesimo e buddhismo, in altre parole su quella loro vita spirituale che dopo l’avvento dei sistemi di pensiero esogeni si sarebbe chiamata Shint1o ” (Takeshita 1996: 151-152). L’identità giapponese alligna in modo assai intricato e viscerale al complesso mitologico nipponico di cui lo shint1o appena evocato è erede e al contempo capostipite. Al fine di giungere ad una lettura quanto più possibile corretta dell’oggetto di ricerca ritengo essenziale, proseguendo nel dialogo parallelo tra Oriente e Occidente sul quale il discorso è venuto strutturandosi, provare a chiarire il ruolo e il grado di presenza e operatività del mito, della mitologia, nello sviluppo storico del Giappone al fine di definirne gli orizzonti di usabilità e di motivarne l’ammissibilità come fonte documentale possibile e necessaria.

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Mito e storia formano una coppia, come crudo e cotto, bianco e nero, buono e cattivo, sacro e profano, attraverso la quale si suole esemplificare l’opposizione, l’essere agli antipodi di due estremi. L’annullamento dello iato che separa e definisce due opposti, la caduta del discrimine che li separa in modo manicheo – la loro confusione – suscita nei più un sentire paradossale: un ossimoro, qualcosa che non ha molto a che fare con il piano prosaico e tangibile dell’esistenza, eventualmente accettabile solo se composto da un buon poeta. L’antitesi o la frattura tra mito e storia, però, non è e non è stata sempre uguale in ogni luogo e tempo: nei più appena ricordati nel loro sbigottimento di fronte ad uno scacco logico al limite del paradosso, quindi, va riconosciuta una parzialità, un particolare punto di vista tra molti possibili: ciò che è considerato separato da alcuni può essere ritenuto unito da altri e ciò che separa può essere indicato quale termine di unione. Immaginando i domini del mito e della storia come confinanti si può indovinare il frastagliato profilo frutto del loro fronteggiarsi, l’ispessimento o l’assottigliamento a fisarmonica che nel tempo e nello spazio ha interessato ed interessa il margine tra i due. Se l’Occidente ha ben presto scelto di tracciare un marcato confine tra tali estremi annullando la sbrecciatura dinamica e poieticamente attiva del margine riducendolo alla dimensione di un confine netto inscritto in modo convenzionale sulla carta, per sfruttare nuovamente la metafora di Van Gennep, non significa che ciò sia accaduto, come dovrebbe essere ormai chiaro, ovunque con uguale intenzione e intensità. “Il mito è molto lontano dal nostro mondo scientifico-tecnico, e dal punto di vista di quest’ultimo sembra appartenere a un passato superato da lungo tempo. Ma ciò non toglie che esso sia rimasto l’oggetto di una vaga e immutata nostalgia. Per ciò il rapporto con il mito è oggi contraddittorio. Da un lato lo si esilia nel regno della favola, delle fiabe, in ogni caso del non-verosimile. Esso sorgerebbe piuttosto dalla profondità del sentimento, dell’inconscio, della fantasia, sarebbe addirittura inafferrabile dai concetti. Paragonato con la scienza, che sarebbe fondata sulla razionalità, sulla ragione, sulla dimostrazione, sulla verifica, sull’oggettività, sulla chiarezza ed esattezza, il mito è considerato un residuo di tempi oscuri, dominati dall’arbitrio di pretese entità demoniache o divine, dalla paura e dalla superstizione” (Hübner 1985: 11). Nelle parole di Hübner riecheggiano le constatazioni sulla “demitizzazione” e sull’abiura occidentale del mito appassionatamente portate da Walter Friedrich Otto (Otto 1962). Spesso sferzante, a volte estremo, Otto segue il percorso che ha visto ribaltare il senso del mito, dello stesso vocabolo, da portatore di verità a “qualcosa che è divenuto indegno di fede per l’uomo illuminato dei nostri giorni” (Otto 1962: 21). In una dialettica di contrapposizione ed esclusione i termini in gioco sono mito e storia da un lato e fantasia e scienza dall’altro dove storia e scienza allignano direttamente al Logos. Mithos e logos indicano, in quanto vocaboli, ‘parola’, ma i due termini non vanno presi come sinonimi. Se nel greco più tardo mithos aveva assunto il senso di meravi-

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glioso, non vero alla lettera, la sua semantica più antica era di segno diametralmente opposto. Non si può definire con esattezza in che modo logos sarebbe “stato prescelto nel corso del tempo a designare la chiarezza e la profondità della conoscenza genuina, mentre mithos avrebbe invece ‘sviluppato’ il significato di favoloso, inventato, non vero, senza peraltro poter capire il perché ciò sarebbe accaduto” (Otto 1962: 31). Verosimilmente, osserva il filologo tedesco, l’etimo di logos legato all’accezione di ‘scelta’ e di ‘raccolta’, ossia al cogliere dopo aver ponderato, prestato attenzione, riflettuto, l’avrebbe resa adatta – e preferibile – a indicare ciò che è razionale e sensato trovando un posto fondamentale nella storia del pensiero occidentale. Sorprendentemente, però, proseguendo nella lettura di Otto il decorso analitico giunge a porre l’oggettività e la verità, pertinenze solitamente ascritte alla scienza e quindi al logos, sotto il dominio del mito. “Il significato di questo termine [mithos] è assolutamente oggettivo: il reale, l’effettivo. Mithos è la ‘storia’ nel senso dell’accaduto o di ciò che sta accadendo, conformemente all’essere. La ‘parola’ che dà notizia del reale, oppure che stabilisce qualcosa, che deve appunto divenir vero attraverso tale espressione: dunque, la parola che dà notizie oggettive, autoritativa. [...] ‘parola’ come immediata testimonianza di ciò che fu, è e sarà, un’autorivelazione dell’essere nel senso degno ed antico che non distingue fra parola ed essere” (Otto 1962: 31-32). Ancor più in profondità, se possibile, giunge Mircea Eliade allorché, nel trattare del rapporto tra tempo sacro e tempo profano, afferma: “il mito si identifica con l’ontologia: parla solo di cose reali, di ciò che è realmente accaduto, di ciò che si è manifestato totalmente” (Eliade 1965: 63, corsivi nel testo). È quindi possibile, partendo dalle affermazioni poco sopra riportate, riconoscere al mito una certa, particolare, attendibilità. Non una sua reificazione ma una circostanziata riconsiderazione frutto di una disponibilità a variare il punto di vista su di esso e il suo valore. Lo statuto della verità del mito così energicamente sostenuto e chiarito dagli autori citati deve essere però opportunamente commisurato. “Infatti si potrebbe ampliare ulteriormente l’affermazione secondo cui un mito è un racconto nel quale molte persone trovano significati rilevanti per loro e arrivare a dire che tale racconto è, in un certo senso, vero. Anzi, sono incline a sostenere (solo in parte per suscitare le ire dei razionalisti) che la migliore definizione concisa di mito è l’espressione racconto vero. Ma la mia affermazione va subito circostanziata: è considerato vero non nel suo senso letterale, ma nei significati in esso impliciti. Questa asserzione comporta conseguenze di rilievo per l’interpretazione dei miti: significa che non si può comprendere un mito semplicemente narrandolo, ma solo interpretandolo” (Doniger 2003: 68, corsivi nel testo). Solo leggendo il mito come testo in un contesto è possibile trascendere il capzioso, e tutto sommato fittizio, problema della verità o attendibilità del mito stesso in quanto “una parte considerevole dell’impatto di un mito è dovuta non alle sue argomentazioni o al suo lógos (vero o falso), ma alle sue immagini, alle sue metafore. Il potere del mito è tanto visuale quanto verbale” (Doniger 2003: 70).

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L’autorità e la capacità modellizzante che la ricchissima mitologia giapponese ha rivestito e riveste ancora oggi in relazione alla storia dell’arcipelago costituisce, allora, un ineludibile punto di partenza per inquadrare il sistema trasmissivo tra maestro e allievo nel teatro n1o e leggere l’autorevolezza che si tributa e riconosce al “Maestro” nel più generale alveo culturale e antropologico nipponico: mito e storia, ritenuti in Occidente separati in via pressoché definitiva condividono invece, nel contesto considerato, ampie aree di confusione nelle quali, in una successione non sempre logica o cronologicamente verificabile, la linearità temporale della storia sembra arricciarsi nel circolare riflusso del tempo mitico e viceversa. L’interdipendenza e l’autonomia della linearità e circolarità del tempo possono essere esemplificate in concreto, nel Giappone tradizionale, dalla relazione tra le esigenze dei ritmi di vita del villaggio e le necessità del potere che quel villaggio deve poter controllare: “la circolarità è tendenzialmente un modo di vivere il tempo nel villaggio e il potere deve controllarla. Di fatto la controlla attraverso il calendario e i riti della gerarchia ufficiale. Per avere questa influenza, le istituzioni devono essere integrate nei meccanismi simbolici che organizzano la circolarità ma, d’altra parte, non possono esserne totalmente prigioniere: deve esistere il potere sul tempo ma vi è anche il tempo del potere. Il tempo lineare fonda i suoi postulati proprio nei meccanismi culturali che producono il tempo circolare, ma non incide se non marginalmente sulla configurazione circolare e le rimane essenzialmente esterno. Il villaggio non governa la dinamica diacronica, ma in generale la subisce e ne è influenzato. Vi è però un rapporto necessitante tra le due modalità, come è necessitante il rapporto di una comunità che vive potenzialmente fuori della storia e un gruppo di potere che fa della storia il suo tempo” (Raveri 2006: 140-141). Il dato da acquisire è il rapporto necessitante che lega i due opposti in questione. Identità e autorità tra oralità e scrittura Una nuova coppia, anch’essa in presunta opposizione, può essere ora introdotta per meglio definire gli argini metodologici della ricerca: orale e scritturale. Una analogia neppure troppo velata la collega alla precedente formata da mito e storia. Se il mito ha trovato e trova ancora di frequente nell’oralità il suo veicolo privilegiato è solo ed unicamente attraverso la scrittura che la storia può sussistere. Tale affermazione si basa su di una convenzione ormai diffusamente accettata secondo la quale a segnare l’avvento della storia sarebbe la comparsa di una tecnica per organizzare lo spazio e veicolare significati chiamata, appunto, scrittura. Nel n1o e nella maggior parte delle discipline tradizionali giapponesi la trasmissione dei saperi avviene prevalentemente, sebbene non esclusivamente, in modo diretto, orale. Maestro e allievo, cioè, condividono fisicamente lo spazio e il tempo di lavoro e, nonostante l’esistenza di testi di riferimento – siano pure le più o meno

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grandi e note poetiche ed estetiche di Zeami (cfr. Zeami 1960), di Zenchiku (cfr. 1 Ortolani 1990: 153-159), di Okura Toraaki (Ortolani 1990: 181-183) o di Yoshiwaza Ayame (Azzaroni 1988: 86-97 e Azzaroni 1998: 350-351) – la forza del Verbo e la necessità di una guida in presenza, il maestro appunto, è continuamente ribadita e invocata. Anche in presenza di documenti scritti, dunque, l’analisi non può prescindere dai rimandi ad un’oralità che i testi spesso già prevedono nella loro struttura: l’oralità, al pari delle fonti mitologiche, deve essere allora al centro di una riconsiderazione generale che la recuperi dalla marginalità e dalla debolezza documentale solitamente assegnatele. L’interfaccia tra oralità e scrittura, parafrasando il titolo di un fondamentale studio di Jack Goody (Goody 1987), rispecchia il frastagliato profilo che unisce e separa mito e storia. Le culture dotate di scrittura sperimentano costantemente, ognuna in modi propri, le possibilità dei due media comunicativi in quanto la scrittura si affianca, senza mai sostituirsi completamente, alla comunicazione orale. Nonostante la scrittura sia incapace di fissare con precisione in segno grafico le molteplici inflessioni, enfasi e variabili semantiche e di senso proprie dell’eloquio è impossibile non rilevare il valore autoritativo che ovunque le viene tributato. Goody indica due aspetti principali del potere della scrittura: “il primo è il potere che essa conferisce alle culture dotate della scrittura su quelle esclusivamente orali, permettendo alle prime di prevalere sulle seconde sotto molti profili, il più importante dei quali è la crescita e l’accumulo di conoscenze sul mondo. [...] Il secondo aspetto rilevante è il potere di cui la scrittura investe certi elementi di una particolare società” (Goody 2000: 19). La scrittura, insomma, non è una evenienza neutra e le sue specifiche caratteristiche (sillabica, ideografica, alfabetica) assieme ai diversi sistemi di fissazione possibili (xilografia, rotativa, ecc.) producono inoltre profonde implicazioni nelle modalità di comunicazione, nella vita e nell’organizzazione sociali (cfr. Goody 2000: 9-17 e Goody 1986). Cultura orale e scritturale possono essere facilmente ricondotte anche alla circolarità e alla linearità del tempo. Tale prossimità analogica si palesa dalla messa in parallelo nella dimensione religiosa, nuovamente nella cornice del Giappone tradizionale, dello spazio proprio al potere nobiliare e dello spazio del potere popolare. Il culto dell’ujigami, la divinità ancestrale, era comune ma dissimile a seconda che lo si osservasse in uno dei due ambiti. In seno alle famiglie nobiliari “la dilatazione del passato grazie alla somma del tempo degli antenati risale a ritroso fino all’antenato fondatore che diede inizio alla discendenza. Ma questo antenato è un dio. Quindi il punto fermo, il vertice che è all’inizio della famiglia, il limite ultimo della sua dimensione temporale, è un’entità mitica fuori del tempo. Così anche il limite della dinastia nel futuro diventa, per simmetria, un punto fuori del tempo e la linea risulta infinita. [...] Anche nell’esperienza religiosa popolare è presente la tradizione del culto dell’ujigami ma, pur nella sostanziale identità di concezioni del rapporto fra uo-

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mo, antenato e divinità, la differenza dei contesti sociali determina differenti pratiche cultuali. Il villaggio, che si percepisce in una dimensione di unitarietà, si identifica in una unica divinità ancestrale. Non vi sono tanti ujigami quante sono le famiglie. Il dio antenato sancisce l’identità non di una famiglia nei riguardi delle altre, ma di una specifica comunità rispetto alle altre. [...] Secondo questa stessa logica cultuale, antitetica ai sistemi simbolici che fondano il potere nobiliare, all’interno della comunità di un villaggio la legittimazione dell’autorità non si basa sul concetto di tempo lineare, cioè di tempo accumulato. La carica religiosa e sociale più importante, quella di t1oya [capo villaggio, nda] non è prerogativa della famiglia di più antiche origini e non deriva da un diritto di successione” (Raveri 2006: 143-145). Il complementare contrasto dello spazio e del tempo precipitano nel rapporto tra orale e scritturale: “chi ha il potere sul tempo controlla anche la forza della parola scritta contro la tradizione orale. Il tempo lineare è legato alle istituzione attraverso l’uso e il monopolio che queste hanno della scrittura. Scrivere permette di fermare il tempo, di mantenere il ricordo della storia, fornisce la capacità di critica, di astrazione e di una contabilità rigorosa del tempo. Anche in questo caso il potere sul passato diventa potere sul futuro [...]” (Raveri 2006: 146). Facendo aderire la lettura di Raveri alla relazione tra tradizione orale e scritta nella capostipite lezione di Zeami Motokiyo, il riconosciuto fondatore e sistematizzatore del teatro no1 , emergono numerosi punti di contatto ma anche di scollamento. Pur negli ovvi distinguo vi è coincidenza laddove la trascrizione del sapere acquisito produce accumulo di conoscenza e definisce una identità riconoscibile cui guardare come modello originario, si discosta laddove il sapere orale non è rigettato o avvertito in antagonismo ma, anzi, invocato a completamento e specificazione di ciò che il tessuto scritturale non può o non sa compendiare. I gangli che connettono in Zeami oralità e scrittura, le modalità della loro reciproca attivazione e interdipendenza nonché funzione, possono accostarsi alla mitologia fattasi testo del Kojiki (712 d.C.) e del Nihonshoki (720 d.C.), le prime cronache storiche compilate nell’arcipelago. Uno degli episodi cardine nel divenire della creazione in essi contenuti, il mito della Caverna Celeste, offre a Zeami una imperdibile occasione per sancire un’origine illustre e una funzione sociale degna e rispettabile all’arte, e ai suoi interpreti, che con lui si stava istituzionalizzando. Assumendo su di sé l’insegnamento paterno quale punto di partenza e desumendo dalla personale esperienza stimoli molteplici alla riflessione teorica sulla propria arte, quindi, Zeami apre nel 1400 la lunga stagione – durata circa quarant’anni – della fissazione scritta dei suoi trattati. Il nucleo iniziale dei sedici, o ventitre, trattati attribuibili con certezza a Zeami (Zeami 1960: 54) – gli studiosi non sono ancora giunti ad una posizione unanime circa l’autenticità di tutti gli scritti zeamiani – è raccolto nel trattato probabilmente più noto, il F1ushi-kaden (Del trasmettersi del fiore dell’interpretazione), composto di sette libri scritti tra il 1400 e il 1418. In apertura di trattato Zeami pone uno scritto, una breve prefazione, affrontando immediatamente la questione delle origini e funzioni del n1o. In sunto vi si trova-

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no i passaggi salienti poi sviluppati nel IV libro, intitolato Origini rituali, il cui incipit recita: Item, ecco come iniziò il sarugaku [in Zeami i termini sarugaku e n1o sono sinonimi, nda] al tempo degli dèi: nel momento in cui la Grande-Divinità-che-illumina-il-Cielo si confinò nella Celeste-Dimora-Rocciosa, il Mondo-sotto-il-Cielo sprofondò nelle tenebre; allora le ottocento miriadi di dèi si riunirono sul Celeste-Monte-Kagu, e volendo conquistare il divino Cuore della Grande-Divinità, gli offrirono un kagura e incominciarono un seino1 . Dalla loro schiera uscì Ama-no-uzume-no-miko; [tenendo] delle bende votive fissate a un ramo di sakaki, alzando la voce, suscitando un tuono con un rapido calpestio, quando ella fu in stato di possessione divina, cantò e danzò. Poiché questa voce divina giungeva indistinta, la Grande-Divinità socchiuse la PortaRocciosa. La terra, di nuovo, si illuminò. Le divine facce degli dèi splendettero. Il divino divertimento di quel tempo fu, si dice, il primo sarugaku. Le precisazioni si troveranno nella tradizione orale (Zeami 1960: 109-110).

La rinarrazione del mito della Caverna Celeste (detto anche di Amano Iwato) operata da Zeami rappresenta in moltissimi studi riguardanti il n1o una via preferenziale di approccio. In senso teatrale il valore statutario e fondativo del mito proposto, e ancor più della danza in esso descritta, assume la sua reale dimensione constatando come “le radici del teatro giapponese [vadano] ricercate soprattutto nelle danze, sacre o profane, e nelle canzoni arcaiche (il vocabolo indigeno wazaogi anticamente significava azione eseguita per invocare i kami, in seguito indicò sia danza che attore) ‘messe in scena’ dalla società non solo per rappresentare se stessa ma anche per interpretare le proprie esperienze” (Azzaroni 1998: 273). La ricchezza di informazioni, l’autorità mitica invocata, le molteplici implicazioni squisitamente teatrali e storico-culturali, i rimandi filosofici e non ultimi sociologici – con Zeami la posizione sociale dell’attore migliora sensibilmente – definiscono, infatti, un contesto antropologico assolutamente specifico e imprescindibile. Identiche valutazioni, va detto, si estendono a tutto il IV libro del F1ushi-kaden (Zeami 1960: 109-115) attraverso il quale Zeami fonda e sancisce la propria identità, il proprio ruolo, il proprio posto nel mondo, il ruolo e la funzione della propria arte. Gli accadimenti connessi al mito della Caverna celeste, abilmente ricondotti da Zeami alle origini del n1o hanno, nel più vasto orizzonte della mitologia e cosmogonia nipponiche, una posizione centrale. Al fine di porre sempre più a fuoco il meccanismo che regola e disciplina la trasmissione dei saperi attorici nel n1o, e nella profonda convinzione che ciò non possa essere fatto appropriatamente espungendolo dall’orizzonte della cultura e della storia giapponesi considerate nel loro complesso, l’indagine muoverà dal ricco patrimonio mitologico dell’arcipelago raccolto nel Kojiki e Nihonshoki. Il Kojiki (Cronache di cose antiche) risalente al 712 d.C. e il Nihonshoki (Annali del Giappone) al 720 – prima dell’epoca Heian (794 – 1185) chiamato Nihongi – furono compilati per fissare la storia della terra di Yamato ma, dato il contenuto marca-

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tamente mitologico che li contraddistingue, il loro uso deve essere chiarito in merito allo stretto rapporto che vi intercorre, appunto, tra storia e mito e oralità e scrittura. Va anzitutto osservato che la parte mitopoieticamente più attiva di Kojiki e Nihonshoki è da riconoscersi alle sezioni iniziali della narrazione quelle, cioè, dedicate alle fasi della creazione fino al punto in cui il racconto si avvia a dipanare le imprese degli antenati della famiglia imperiale: “ancora oggi, nelle sacre rappresentazioni popolari come i k1ojinkagura il copione degli attori comprende solo i primi episodi mitici, quelli che fondano il cosmo, che definiscono lo spazio e il tempo e sanciscono l’ordine della vita sulla terra” (Raveri 2006: 147). Tra le due opere, ma anche all’interno delle stesse, varie incongruenze, contrastanti e multiple visioni degli episodi mitici – questo secondo aspetto più marcatamente osservabile nel Nihonshoki – invitano ad un atteggiamento ponderato e selettivo nel loro utilizzo come fonti documentarie. Gli scritti sono stati pensati e redatti con un obiettivo ben preciso: “con il progressivo consolidarsi della base dello Stato centralizzato, la corte cominciò ad interessarsi dell’attività storiografica e agli inizi dell’VIII secolo produsse due opere sulla storia del Giappone, la quale, per non poche parti, è inventata o modificata a scopo politico e, per giunta, si identifica con la storia della famiglia imperiale” (Takeshita 1996: 29). Se il giudizio appena riportato smaschera apertamente l’ideologia e la funzione politica sottesa alla compilazione delle due cronache ciò che rimane innegabilmente pulsante e attivo, operativo, è l’afflato mitopoietico delle narrazioni: quei caratteri vergati con il pennello rappresentano ancora oggi il cuore ancestrale, l’axis mundi attorno cui l’identità giapponese, tanto del singolo quanto del collettivo, si costituisce e si ancora. Poco affidabili come fonti storiche, almeno ai nostri occhi e secondo i nostri parametri, già dal loro apparire Kojiki e Nihonshoki assumono per il popolo giapponese una autenticità enorme tanto che per secoli sono stati fruiti come documenti di verità provata, indiscutibile e incontrovertibile che paradossalmente negavano il mito facendo coincidere l’origine del tempo storico con l’origine dei tempi. In un primo tempo, tra il periodo Nara (710-794) e il periodo Heian (794-1185), probabilmente per la vicinanza ideale alla cultura cinese il Nihonshoki godette di maggior credito ma, a partire dall’epoca Kamakura (1185-1333), la tendenza cominciò ad invertirsi e il Kojiki guadagnò un prestigio sempre più manifesto: analisi e ricerche cominciarono ad essergli dedicate fino agli studi sistematici iniziati tra 1600 e 1700. “Nei trentaquattro anni fra il 1764 e il 1798 Motoori Norinaga lavora al Kojikiden (il Kojiki commentato), un commentario epocale non solo dal punto di vista filologico. Se a partire dal 1600 infatti l’atmosfera di generale emancipazione dalla egemonia culturale cinese ha portato alcuni studiosi a rivalutare il patrimonio letterario giapponese antico, con Motoori Norinaga questa rivalutazione si estende dalla sfera della critica letteraria a quella della filosofia e della religione, non senza implicazioni di natura politica. Il Kojikiden determina, con la sua autorevolezza, una tendenza, destinata a durare, che considera il Kojiki una sorta di sacra scrittura attra-

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verso cui è possibile attingere alla fonte di una giapponesità incontaminata dal pensiero cinese” (Villani in Autori Vari 2006: 15-16). Pur contenendo al proprio interno numerose contraddizioni questi documenti riuscirono, quindi, ad ottenere una notevole credibilità. Una prima motivazione, di carattere contenutistico, potrebbe essere individuata nel diffusamente osservato meccanismo che conduce i grandi temi mitici ad essere presi come reali e veri e anche “come rivelazioni di verità di cui l’intera cultura è testimonianza vivente e da cui questa trae sia la sua autenticità spirituale sia il suo potere temporale” (Campbell 1959: 13). Riferendosi alla risicoltura e al legame di questa all’Imperatore, Fosco Maraini osserva che “i compilatori tradivi del Kojiki (712) e del Nihon Sh1oki (720) sono riusciti insomma, con grande abilità ed astuzia, a collegare il riso, le sue origini, la sua coltura, temi fondamentali che riguardavano il lavoro, le fatiche, i sudori, il cibo, la sicurezza, le ambizioni di ogni famiglia, di ogni villaggio, quasi tutte le transazioni del tempo, con i miti cosmogonici e con le radici stesse della dinastia sacrale Yamato. L’operazione si può dire riuscita così bene da innamorare la massima parte del popolo giapponese per oltre tredici secoli” (Maraini 1995: 45). La motivazione che però ritengo più profonda è di carattere formale. Le due opere vengono scritte in un frangente storico in cui ad una cultura prevalentemente orale si accosta sempre più una cultura della scrittura. Sebbene i caratteri cinesi (kanji) siano stati introdotti già a partire dal VI secolo, infatti, fu solo “durante il periodo Nara [710 – 794] che la scrittura cinese portò alla comparsa dei primi veri libri prodotti in Giappone, il Kojiki e il Nihon Shoki” (Henshall 1999: 45): il Kojiki fu scritto in parte utilizzando i kanji per il loro valore fonetico mentre il Nihonshoki utilizzando il cinese come fosse un latino dell’epoca. Dalle nervature più spiccate e dall’incedere più rigoroso e schietto il Kojiki e la sua vicenda meglio testimoniano del rapporto ancora vivo e fecondo con la tradizione orale rispetto al più piano e leggibile Nihonshoki maggiormente attento, in un periodo di ancora forte sinizzazione, a testimoniare il raggiungimento di un certo rango di civiltà del popolo giapponese. Questa la vicenda della sua stesura: “L’Imperatore Temmu [v. 673 – 686], in quale momento del suo regno non è noto, lamentando che le testimonianze possedute dai capifamiglia [dai capoclan] contenessero molti errori, si risolse a muovere i giusti passi per preservare dall’oblio la vera tradizione. Egli, perciò, esaminò e comparò a fondo con attenzione i documenti e li emendò dalle inesattezze. Tra la sua servitù c’era una persona, Hiyeda no Are, dotato di una prodigiosa memoria e in grado di ripetere senza errori il contenuto di qualunque documento avesse mai visto e di non dimenticar nulla giungesse al suo orecchio. Temmu Tenn1o [il termine Tenn1o, seppur con certa approssimazione, è comunemente tradotto con Imperatore, nda] si prese cura di istruire questa persona sulle tradizioni originali, ‘l’antica lingua delle epoche passate’ e gliele fece ripetere finché non le avesse imparate a memoria. Prima che l’impresa fosse ultimata, il che significa probabilmente prima che il tutto fosse messo per iscritto, l’imperatore morì e per 25 anni la memoria di Are fu la sola depositaria di ciò che in seguito ricevette il titolo Kojiki. […] Alla fi-

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ne di questo intervallo l’imperatrice Gemmi1o ordinò a Yasumaro di trascrivere dalla voce di Are il quale raccontò, nel breve giro di quattro mesi e mezzo, l’intero manoscritto” (Satow in Autori Vari 1982: V-VI). La radice orale dell’opera è ben presentata dalla citazione proposta e la sua struttura narrativa e filologicamente scostante si inscrive nella stessa genesi. Sorvolando consapevolmente sull’ovvia, e giusta, constatazione che il racconto stesso della nascita del Kojiki è parte integrante del mito ci si potrebbe chiedere perché, attraverso una domanda retorica, invece di affidare transitoriamente alla memoria di Hiyeda no Are la tradizione epurata questa non sia stata subito messa per iscritto; o anche perché si sia resa necessaria una pausa di venticinque anni prima della trascrizione. Non esistono risposte certe e documentabili a tali quesiti ma si può ipotizzare che ancora forte fosse avvertito il potere numinoso della parola – assieme ai contenuti Temmu Tenn1o insegna ad Are “l’antica lingua delle epoche passate” – del potere ad essa riconosciuto almeno fin dal tempo, III-IV secolo d.C., delle regine sciamane: “qui s’innesterebbe felicemente tutto un discorso sulla fede giapponese nella potenza carismatica del Verbo, sull’energia invisibile insita nelle parole (kotodama, «anima delle parole», «tesoro delle parole») […]” (Maraini 1995: 25). La genesi del Kojiki è un buon esempio per approfondire ulteriormente la funzione del rapporto tra oralità e scrittura in seno ai sistemi di trasmissione di un sapere tradizionale anche perché “il Kojiki è il primo tentativo rimastoci di mettere estensivamente per iscritto la lingua giapponese, cercando di conservarne il patrimonio di varietà espressive, costruzioni rituali, proverbi. Si tratta di un evento linguistico […] reso possibile dall’adozione della scrittura cinese e dal suo adattamento alle esigenze del giapponese” (Villani in Autori Vari 2006: 18). Yasumaro, trascrittore del Kojiki narrato da Are, dedica ampio spazio, nelle parole che aggiunge come memoriale al primo capitolo dell’opera, ad esporre i dubbi sulla possibilità di rendere per iscritto ciò che gli viene dettato: “Avendo il cruccio per gli errori nelle antiche storie e la volontà di correggere le sviste degli annali, il diciottesimo giorno del nono mese del quarto anno Wad1o, [l’imperatrice Genmei] mi ha impartito l’ordine di riscrivere gli antichi testi, che Are degli Hiyeda era stato incaricato di imparare, e di presentare al trono il risultato. Il che è stato fatto con molta attenzione anche ai dettagli. Nei tempi antichi farsi intendere parlando era semplice. Come mettere le parole per iscritto resta un dilemma. Se i caratteri li si usa per quello che significano, nel narrare, i vocaboli non toccano le nostre corde più intime, ma se li si asserve tutti alle sonorità della lingua il testo si fa troppo lungo. Per cui ho scelto talora di mescolare nella stessa frase caratteri usati per quello che significano con caratteri usati per esprimere i suoni, talora di scrivere soltanto con caratteri usati per quello che significano. Le parole difficili le ho chiarite in note ma non ho aggiunto spiegazioni dove il senso è facile da capire” (Yasumaro in Autori Vari 2006: 35). Il contrasto tra la semplicità del farsi intendere parlando e il dilemma su come raggiungere il medesimo risultato scrivendo conferma da un lato il non facile incontro

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in quegli anni tra due modalità comunicative e, dall’altro, palesa una antichissima predilezione nipponica dell’orale sullo scritturale. Più corretto, forse, sarebbe dire dell’orale nello scritturale. Simile propensione si evince allorché il problema della comunicazione non si riduce a veicolare qualcosa di oggettivo e intellettualmente intelligibile ma comprende pure la necessità di toccare le corde più intime del destinatario attraverso la vibrazione sonora esplicitata dalla grafia. Un rimando al potere creativo del suono in Oriente, presentato compiutamente nello Yueji (IV-V secolo a.C.), il Libro della Musica (Guidi 2005) contenuto nel Liji, il Libro dei Riti cinese è d’obbligo. Per salvaguardare tutti i livelli comunicativi del dire Yasumaro sceglie, quando possibile, di dare voce al testo attraverso la sonorità della lingua dovendo però, contemporaneamente, fare i conti con la limitatezza fisica del medium adoperato. Già nel Kojiki si osserva l’inscindibilità dell’oralità dal dettato scritto, una caratteristica frequente in testi giapponesi che intendono trasmettere con pretesa di verità e autorità un sapere tradizionale. In opere simili la verità originaria e ultima è frequentemente riconosciuta alla voce, all’esperienza vissuta e rinarrata in presenza. La pagina scritta appare piuttosto uno strumento in grado di evocare e rimandare ad una autorità viva e direttamente interpellabile, o ancora un contenitore in cui un sapere profondo può conservarsi in latenza fino a quando qualcuno in grado di comprenderlo e interpretarlo lo riattivi e rianimi incarnandolo. Vi è un ulteriore aspetto da osservare, anch’esso di natura formale, legato ad alcune caratteristiche della scrittura ideografica di importazione cinese con cui l’opera è stata fissata. “Ogni singolo carattere è un’unità grafematica, il cui potere distintivo risiede nell’essere contemporaneamente un’entità iconica (colta a livello visivo), un’unità sillabica (fonologica, colta a livello acustico) e un’unità semantica (portatrice, a livello cognitivo, di un preciso significato): il convergere di forma (realizzazione grafematica), suono e significato entro un elemento unitario conferisce a ogni carattere cinese una salienza e una versatilità che sono assenti in unità grafematiche proprie di lingue fissate mediante sistemi alfabetici” (Banfi in Bocchi – Ceruti 2002: 216). Emanuele Banfi rileva una diversa modalità percettiva e cognitiva della propria lingua tra soggetti provenienti da aree linguistico-culturali caratterizzate da scritture ideografiche, alfabetiche o sillabiche: “i caratteri cinesi sono unità linguistiche ‘a coda di rondine’: in esse sono grafematicamente rappresentate unità di significato connesse, sul piano psicologico e acustico-percettivo, con unità fonologiche. Chi legge un testo cinese ha a che fare con unità sensoriali, ciascuna delle quali corrisponde a un monosillabo cui è connesso simultaneamente un significato” (Banfi in Bocchi – Ceruti 2002: 219). L’atto di comporre, e di leggere, un testo ideografico – i debiti della scrittura giapponese dalla Cina, seppur brevemente, sono già stati ricordati –, si configura più come esperienza sinestesica, una stimolazione trasversale di diverse unità sensoriali, che non come attività intellettuale autonoma e in sé conclusa.

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I rilievi linguistici qui desunti determinano un ulteriore sostegno alla qualificazione dei testi in analisi come ‘testi in vita’: “dal discorso-scrittura, quale fissazione mnemonica, all’oralità da cui esso nasce e a cui ritorna […]” (Scalia in Bocchi – Ceruti 2002: 264). Il senso e l’operatività della chiosa Zeamiana all’incipit delle Origini rituali, “Le precisazioni si troveranno nella tradizione orale”, assume significative connotazioni. La natura narrativa e una forma che sebbene scritta proceda con i balzi e le ellissi di un racconto delineantesi nel suo farsi – è dal racconto di Hiyeda no Are che il Kojiki prende forma –, dunque, donano al Kojiki una forza persuasiva straordinaria, assimilabile in qualche modo alla malia che ha saputo suscitare nel popolo la parola di Himiko, la prima grande regina sciamana giapponese ricordata dalle cronache cinesi del III secolo d.C., tanto da contribuire a decretarne una veridicità e una attendibilità assolute. La situazione appare antitetica, o almeno assai discosta, rispetto i canoni che abitualmente definiscono in Occidente la bontà, e quindi l’affidabilità e la veridicità, di un sapere, ossia la sua fissazione in testi (cfr. Remotti 1996: 45-57). La scrittura rende gli eventi storia – la preistoria è infatti associata per convenzione all’assenza di scrittura – e li blocca in una forma coerente, critica e sistematica. Una buona e credibile storia, quindi, è inconfutabilmente documentabile e precisamente scandita in senso cronologico, una storia che “esclude l’oralità e la corporeità dell’altro attraverso la scrittura” (Fabietti in de Certeau 2005: XII, in corsivo nel testo). Un simile processo di costruzione storica sembra basarsi su una frattura, o più fratture, tra un oggi, il presente da cui i fatti sono letti e compresi, e un passato in cui tutto viene categorizzato e incasellato per rendere logicamente intelligibile l’oggi. “Un ordine di senso per il presente viene istituito per elementi della tradizione, che vengono selezionati come ‘passato’. In quanto allontanato e separato dal presente, il passato è un’invenzione occidentale. In India e in Madagascar, ad esempio, la storia passata e le liste genealogiche non sono l’oggetto di un sapere, ma una presenza, un tesoro e un alimento che ha la forma di parola viva, presente nelle orecchie e sulla bocca dei viventi, e che porta identità nelle comunità. Per l’Occidente, di contro, l’identità è prodotta dal discorso storico con un gesto di differenziazione da un’altra epoca o società […]” (Fabietti in de Certeau 2005: XIII). La cautela richiamata nell’utilizzare Kojiki e Nihonshoki come fonti documentarie va quindi riconsiderata alla luce di quanto esposto. Riferendosi a un dato storico ormai unanimemente riconosciuto improbabile e riportato da entrambi i testi, ossia il 660 a.C. come anno d’origine della dinastia regnante giapponese, Fosco Maraini sottolinea: “non è detto che la lista d’arcaici re sia tutta una fabbricazione di storici compiacenti della corte, ed è possibile ch’essa corrisponda ad echi deformati d’una qualche realtà di fatto. I successi, gli amori, i delitti riguardanti i vari re, tramandati dal Kojiki (712) e dal Nihon Sh1oki (720), sono spesso circostanziati ed hanno il sapore di lontani ricordi trasmessi oralmente di padre in figlio” (Maraini 1995: 14).

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Sono proprio i caratteri dell’oralità, della narratività, i vuoti e le incongruenze del racconto a costituire, in ultima analisi a sancire, la forza modellizzante delle due cronache. Medesima valutazione può essere estesa a tutti i testi strutturalmente loro assimilabili, testi che divengono così fonti non solo importanti ma imprescindibili e, per certi versi, attendibili. Kojiki e Nihonshoki smascherano ad ogni momento il loro essere racconti, narrazioni, e le loro lacune, piuttosto che punti deboli, sono nodi strutturali che rendono possibile un perpetuo e attualizzato riutilizzo: “Il writing, o la costruzione di una storia (nel senso lato di organizzazione di significanti) è un passaggio sotto molti aspetti strano. Conduce dalla pratica al testo. […] Diventando un testo, la storia obbedisce a un secondo condizionamento. La priorità data dalla pratica a una tattica dello scarto rispetto alla base fornita da modelli sembra contraddetta dalla chiusura [clôture] del libro e dell’articolo. […] Infine, se ci si limita a qualche esempio, la rappresentazione scritturale è ‘piena’; colma o oblitera le lacune […]” (de Certeau 2005: 96, corsivi nel testo). I testi presi in esame – compresi i trattati di Zeami – che azzarderei ora a definire ibridi, nel senso di completi solo in presenza di un’oralità, una corporalità, o anche una ritualità che li contrappunti, sembrano sfuggire alla casistica posta da de Certeau. Tali testi sono strutture aperte in cui la relazione scrittore-lettore non è l’unica possibile – essendo molti i rimandi ad una conoscenza incarnata non compresa nelle pagine scritte – e in cui le variazioni e gli apporti esterni possibili in potenza sono previsti e facilmente integrabili. Emerge chiara, nel contesto culturale cui mi riferisco, l’esigenza fondamentale di una figura capace di attivare e rendere comprensibile il sapere tradizionale eventualmente raccolto da un testo: per quanto riguarda il no1 e le discipline artistiche in genere questa è il maestro. Mentre la storia invecchia e al variare dei paradigmi di lettura è riscritta, “si dissocia dal tempo che passa dimentica lo scorrere dei lavori e dei giorni, per favorire ‘modelli’ nel quadro ‘fittizio’ del tempo passato (de Certeau 2005: 97, corsivi nel testo), il racconto e la narrazione permangono prevedendo variazioni attorno agli invarianti valori di fondazione: la cultura orale è omeostatica, ossia in grado di mantenere un equilibrio stabile anche al variare delle circostante esterne. I trattati di Zeami, ad esempio, non mutano la loro superficie verbale ma sono continuamente ‘riscritti’ nella prassi e nella voce dei maestri che ne incarnano il sapere e la tradizione. Facendo mia la posizione metodologica di Rosaldo, secondo il quale tradurre le culture significa tentare di capire altre forme di vita nei loro propri termini (Rosaldo 1989), ho ritenuto allora opportuno tracciare quelli che ritengo essere gli orizzonti d’attesa e di usabilità delle fonti prese in esame nel loro contesto di produzione e fruizione e chiarire come in questo contesto la presenza fondativa del mito e la forza persuasiva della parola non siano ombre inerti di un vetusto passato. Traguardando il più ampio orizzonte dei cultural studies, inoltre, si riscontra ormai da anni una crescente attenzione e fiducia verso tutte quelle fonti un tempo alienate, o profondamente vessate e declassate perché ritenute scientificamente non verificabili, riferite al folklore, al racconto e all’oralità in genere, e da più punti si sono

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levate voci a disvelare l’artificio retorico, il principio poetico e il progredire diegetico che per lungo tempo i resoconti storici e le analisi sociali hanno occultato dietro la pretesa oggettività scientifica del loro operare. In ambito antropologico, quello a cui faccio prevalentemente ricorso e riferimento, si possono ricordare le posizioni di Renato Rosaldo, di James Clifford, di George Marcus e Michael Fischer tra gli altri (cfr. ad esempio Clifford – Marcus 1986, Marcus – Fischer 1986, Clifford 1988, Rosaldo 1989). Rosaldo, sottolineando la dignità storica dei racconti e delle narrazioni, compie un ulteriore passo verso la loro ammissibilità documentaria raccogliendo un assunto proposto dal filosofo francese Paul Ricœur secondo cui “i racconti danno forma all’esperienza e quest’ultima, a sua volta, è incarnazione di racconti” (Rosaldo 1989: 202). Ecco un esempio. Il Nihonshoki data ad un periodo corrispondente al 72 d.C. la nascita di un principe imperiale che sarà ricordato come Yamato Takeru, il Prode del Giappone. Ivan Morris (Morris 1975: 13-23) ne traccia in maniera superba la vicenda eleggendolo a capostipite, ad archetipo originario, di una genia di eroi sconfitti che proprio nella sconfitta, e non malgrado essa, assursero a fama imperitura e a modello esemplare: “i fanatici di Napoleone si soffermano raramente sul periodo succesivo a Waterloo, laddove, se egli fosse appartenuto alla tradizione giapponese, la sua disfatta, con tutte le amare conseguenze, sarebbe stata il perno della sua leggenda eroica. Questa predilezione per eroi incapaci di realizzare i loro obiettivi concreti può illuminarci sui valori e sulla sensibilità giapponesi, e indirettamente anche sui nostri. In una società preminentemente conformista i cui membri sono intimiditi dall’autorità e dalla tradizione, uomini coraggiosi, sprezzanti del pericolo, spiritualmente puri come Yoshitsune [Minamoto no Yoshitune (1123-1160) dopo una serie di importanti vittorie militari ottenute in nome del fratello fu vittima della gelosia dello stesso. Si uccise per sventramento a seguito della morte di tutti i suoi seguaci, nda] e Takamori [Saig1o Takamori (1827-1877) paladino della restaurazione imperiale Meiji fu poi accusato di alto tradimento dallo stesso governo. Organizzò una rivolta conclusasi con il suo suicidio, nda] esercitano un fascino particolare. La maggioranza sottomessa che sopporta in silenzio il proprio scontento può trovare una compensazione nell’identificarsi sentimentalmente con questi personaggi che ingaggiarono una lotta solitaria contro avversità schiaccianti” (Morris 1975: 10). La purezza spirituale indicata da Morris come struttura ontologica dell’eroe sconfitto si palesa in Yamato Takeru solo nella seconda parte della sua esistenza. La sua prima apparizione, come riportato nel secondo libro, capitolo settantanovesimo del Kojiki, è infatti legata all’omicidio del fratello gemello. “Un giorno il sovrano chiamò a sé sua altezza Wousu [nome di nascita di Yamato Takeru, nda]: «Tuo fratello – gli disse – non siede con noi a corte, né a pranzo né a cena. Perché? Prenditene cura tu». Ma quegli non si faceva ancora vedere. Cinque giorni dopo il sovrano convocò di nuovo sua altezza Wousu a colloquio: «Tuo fratello continua a essere assente. Non te ne sei ancora preso cura?». «Già fatto. All’alba era al fiu-

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me per i suoi bisogni. L’ho sorpreso e picchiato, gli ho strappato gambe e braccia, ho impachettato i resti in una rete e li ho gettati via». Il sovrano a sentirlo trovò spaventosa la violenza del figlio: «Nelle terre a ponente – gli disse – ci sono i due rudi Kumaso, ribelli e irrispettosi. Vai a farli fuori» (Autori Vari 2006: 103).

La brutalità, ma anche il coraggio e la scaltrezza di questo gesto giovanile saranno alla base dei successi inanellati da Yamato Takeru contro i nemici invisi al padre. In una breve e irridente poesia (Autori Vari 2006: 105) scritta prima di rientrare a corte per riferire delle sue vittorie è fissata la sua indole: Sarà perché Izumo è rigogliosa che il rude Izumo ha una spada tutta di rametti e a cui manca solo la lama. Poverino.

Yamato Takeru, stretta una falsa amicizia con il rude Izumo, realizza una spada di legno del tutto uguale ad una spada vera e, facendola impugnare all’ignaro amico con un banale trucchetto, lo invita ad un giocoso ma realissimo duello mortale. Rientrato a corte dopo aver portato a termine con successo la sua missione, però, non lo attendono riposo e allori ma un subitaneo ordine paterno per una nuova campagna contro ribelli popolazioni orientali. L’ordine, unitamente alla non assegnazione di truppe adeguate, fa sorgere nel principe imperiale la certezza che ad essere cercata è in realtà la sua morte. Il suo essere muta, diviene malinconico pur senza perdere risolutezza e subordinazione. Affronta a viso aperto i nuovi nemici, incontra donne di cui si innamora, si sposa e, alla fine, sempre più debole e malconcio per le traversie occorsegli incappa nella morte prima di poter comparire nuovamente davanti al padre: “Yamato Takeru si accasciò e dopo aver recitato un’ultima serie di poesie nostalgiche, inviò un messaggio d’addio che si chiudeva con queste parole: «Ho sperato che sarebbero giunti il giorno e l’ora in cui avrei potuto riferire della mia missione a Sua Maestà, ma il breve corso della mia vita è improvvisamente giunto alla fine. Il tempo passa veloce come una carrozza a quattro cavalli intravista per un attimo da una fenditura nel muro, e niente fermerà il suo corso. Così ora dovrò giacere solo in questa pianura selvaggia senza neanche un compagno che ascolti le mie parole. Tuttavia perché dovrei lamentarmi per la morte di questo corpo. Il mio unico rimpianto è che non potrò mai più rivedere Sua Maestà.»” (Morris 1975: 20). Prima di morire, e trasformarsi in un uccello bianco come riportano le cronache, l’eroe lascia intense poesie che, ancora oggi leggibili, sono la concreta documentazione dell’esistenza di questo immaginario protagonista della storia e della cultura giapponesi. Il 72 d.C. proposto dal Nihonshoki è una data necessaria a sostenere le impalcature genealogiche proposte dai compilatori ma le imprese ascritte a Yamato Takeru possono con ottima approssimazione ricollegarsi al guerreggiato IV secolo d.C. in cui molti condottieri furono impiegati a conquistare la supremazia per la nascente di-

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nastia Yamato. Non basta però questa consapevolezza storica a sminuire o far scomparire dalla scena, perché immaginario e non realmente vissuto, Yamato Takeru. Al contrario. Per meglio comprendere l’indissolubile nesso tra la storia e il mito che la fonda è sufficiente gettare un rapido sguardo alla “fortuna” del già ricordato Minamoto no Yoshitsune sempre in riferimento all’istituzionalizzarsi dell’eroe sconfitto indagato da Morris. “Gli storici giapponesi moderni faticano ad orientarsi nel viluppo di leggende sulle quali è basata quasi tutta la letteratura riguardante Yoshitsune e così pure a concentrarsi sulla scarna documentazione che può essere accuratamente verificata. […] gli unici dati verificabili coprono solo cinque anni della vita dell’eroe, dal 1180, quando si unì alle forze di Yoritomo per preparare la campagna contro i Taira, fino al 1185 quando abbandonò la capitale e diventò un fuorilegge dopo essere sfuggito per un soffio ad un tentato assasinio da parte di uno scudiero di suo fratello. […] Proprio come i sogni, le fantasticherie, le invenzioni speso ci dicono di più su un individuo che non gli avvenimenti oggettivi della sua vita, così, per la mistica dell’eroe sconfitto, mito e leggenda sono più importanti dei meri fatti” (Morris 1975: 76). Oltre la storia propriamente detta – e ha poco senso cercare di dire se prima o dopo di essa – sta l’innegabile realtà, o verità, del mito, mito come terreno di coltura di quegli archetipi che, secondo Mircea Eliade (Eliade 1949), presiedono alla regolazione storica nelle società arcaiche. Arcaico non deve nuovamente intendersi in senso strettamente cronologico o evoluzionistico in relazione ad un dato grado di civiltà raggiunta ma come categoria appartenente a paradigmi culturali in cui la dicotomia mito-storia non è percepita in termini manichei: “il divario fra mitologia e storia che esiste, in qualche misura, nella nostra mente, può probabilmente essere colmato studiando una storia che non è concepita come qualcosa di separato dalla mitologia, ma come una sua continuazione” (Lévi-Strauss 1978: 55). Guardando a Yamato Takeru e a Yoshitsune, allora, risulta assai fruttuoso – e ammissibile ai fini di una eventuale ricerca – orientare l’attenzione a ciò che la loro vera o presunta vicenda ha prodotto piuttosto che volgerla unicamente a ciò che è possibile documentare sia realmente stata. Le narrazioni, le pagine di romanzi, le poesie, le opere n1o, kabuki e bunraku che li riguardano sono, parafrasando l’affermazione di Rosaldo da cui è originata questa digressione, forme concrete dell’esperienza, dell’ethos, dove alligna la cultura nipponica cui è imprescindibile riferirsi: lo stesso Morris riconosce nel leggendario Prode del Giappone un’opportunità per “illuminarci sui valori e sulla sensibilità giapponesi”. Saranno anche non esistiti Yamato Takeru e prima di lui Jimmu Tenn1o ma in loro nome sono avvenuti fatti che è necessario considerare per comprendere cosa sia successo in Giappone dall’alba dei tempi fino ad oggi.

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Tra Maschile e Femminile Alla dinastia imperiale, alla sua discendenza e ascendenza, e per estensione a quella di ogni giapponese intendo riferirmi mantenendo una stretta connessione al discorso sul rapporto oralità-scrittura e mito-storia emerso dall’analisi del Nihonshoki e del Kojiki – in particolare dalla genesi di quest’ultimo – per affrontare il tema spinoso e delicato – ma non sottacibile – del rapporto tra Maschile e Femminile intesi nell’accezione di principi, e di maschile e femminile nella più prosaica declinazione di genere. La spinosità di questa trattazione si agglutina inevitabilmente attorno alla ampia area di sovrapposizione tra i due livelli di discorso. È quindi opportuno, dopo aver affermato il valore della cosmogonia nipponica quale scaturigine e modello supero di ciò che sul piano mondano si è concretizzato, riattraversare i percorsi che hanno condotto in un’apparente contraddizione il principio maschile, e quindi l’uomo in quanto maschio, a divenire il depositario del ruolo di attivazione e trasmissione della tradizione in un contesto culturale che riconosce ad una dea, Amaterasu, il vertice del proprio pantheon e l’ascendenza della patriarcale e patrilineare Casa imperiale. L’attenzione a tale rapporto osservato su scala macrocosmica ha una valenza notevole perché i suoi riflessi sono rinvenibili, su scala microcosmica, anche nel teatro no1 e nella stragrande maggioranza delle altre arti o discipline tradizionali nipponiche: pur essendo consentito l’accesso alla maestria alle donne – in modi e gradi diversi a seconda della disciplina – il ruolo di iemoto, ossia di capofamiglia e depositario del sapere e della tradizione di cui è al contempo emblema e incarnazione, è da sempre unicamente maschile. In questi termini il problema è posto in maniera eccessivamente semplicistica ma da questa osservazione epidermica può cominciare un’analisi condotta oltre il velo superficiale del fenomeno. Il pantheon shintoista, è stato più volte osservato con certo stupore, ha al proprio vertice la dea-Sole Amaterasu dalla quale sarebbe discesa, come appena ribadito, una genealogia di imperatori tramandantesi il titolo per via patrilineare. Altro aspetto percepito come stranezza è la connotazione femminile dell’astro generalmente simbolo del principio generatore maschile e del principio di autorità paterna. Nel leggere questi dati gli ordini di questione da considerare sono plurimi. Il primo riguarda il momento della comparsa di Amaterasu. Pur essendo venerata quale divinità somma essa non coincide con la forza prima e creatrice dell’universo e il suo potere non è ontologicamente affermato ma, piuttosto, vicariante rispetto un padre che la precede e gliene fa dono: “dea che domina il suo «Olimpo» celeste, dea egemonica impegnata in vaste politiche al fine di mantenere la sovranità che le ha concesso suo padre e di estenderla per i suoi nipoti alla Terra intera […]” (Lévêque 1988: 127). Nel Giappone arcaico, ancorato ad un ordinamento matrilineare, le donne godevano di un ruolo sociale e politico assai elevato e connesso in buona parte alla cono-

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scenza dei riti e al controllo dell’estasi: lo sciamanismo è un fenomeno di amplissima diffusione planetaria al centro, da sempre, di una profonda attenzione da parte degli studi antropologici e non solo. È impossibile pretendere di dipanare in poche righe l’intricata matassa di teorie, principi e analisi dedicategli, come impossibile è provare a mappare, anche solo brevemente, la proteiforme varietà dei modi in cui lo sciamanismo si manifesta. Giovanni Azzaroni (Azzaroni 2003: 305-378) offre un’ampia e documentatissima disamina del fenomeno, non solo in area asiatica, applicata in modo specifico al campo teatrale. Personalmente mi limito a sottolineare la correlazione dello sciamanismo a stati estatici o di possessione in cui l’attore rituale – attraverso il volo magico in ispirito o la cavalcatura spiritica – funge da medium, da raccordo tra i piani dell’esistenza e si fa latore di una volontà, di una parola celeste piuttosto che ctonia. Campbell ritiene indistinguibili i regni del mito e della trance sciamanica come pure nota, a prescindere dai contesti geografici e temporali, il ruolo di narratori e custodi delle tradizioni del popolo ricoperto dagli sciamani (Campbell 1959: 279-289). Fin da tempi immemorabili il Giappone conosce la figura sciamanica della miko, oggi ancora presente sebbene ridimensionata più genericamente ad una giovane donna al servizio di un tempio shintoista. Nel quadro appena delineato si inserisce Himiko, regina sciamana del Giappone descritta in una cronaca cinese del III secolo. Nel Wei Chih (Storia di Wei) risalente al 297 d.C. si racconta di una visita cinese a Wa (zona dello Yamato, per estensione con Wa ci si riferisce al Giappone) e in particolar modo ad uno dei regni allora più potenti, Hsieh-ma-t’ai o Yamatai alla giapponese, in cui la regina nubile e sciamana Himiko si occupava di magia, stregoneria e di ammaliare la gente (cfr. Tsunoda et al. 1964: 4-7). “Himiko viveva all’interno di una fortezza, da cui non usciva mai, sorvegliata da cento uomini e servita da mille donne e un solo servitore, tramite il quale comunicava con il mondo esterno. La regina si preoccupava di questioni spirituali, lasciando gli aspetti amministrativi al fratello minore […], pare che lei venisse riconosciuta come sovrana dell’intero territorio di Wa, e non solo di uno dei regni che lo costituivano” (Henshall 1999: 31-32). La descrizione del Wei Chih riportata da Henshall è tanto succinta quanto interessante. In primo luogo si può evidenziare la vita separata di Himiko, caratteristica che la accomuna al destino della casata imperiale nipponica e a un modus operandi tipicamente sciamanico: “in senso profondo lo sciamano si contrappone al gruppo, e ciò perché per lui gli interessi e le ansie della comunità diventano secondari. E tuttavia, poiché egli è sceso – in un certo senso e in un certo modo – fino al cuore del mondo di cui il gruppo e le sue regole non sono che manifestazioni, può aiutare i suoi compagni in vari incredibili modi” (Campbell 1959: 292). L’antichissimo e autoctono culto shint1o prevede, in particolari momenti e luoghi, l’allestimento di riti-festa, come li definisce Fosco Maraini, detti matsuri: durante un matsuri la divinità viene invocata e invitata ad abbandonare la sua celeste dimora per unirsi agli uomini in un banchetto offertorio rallegrato da danze, processioni, canti e rappresentazioni teatrali: “in tempi antichi l’espressione matsuri-goto, «cose di mat-

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suri», significava «governo»: il governo protostorico era inteso come la mediazione [corsivo mio] e la regolazione giusta dei rapporti tra piano umano e piano divino (Fosco Maraini, introduzione alla mostra fotografica Matsuri. Riti e feste del Giappone, inedita). La capacità propria al rito di scongiurare l’anomia, di operare il passaggio dal caos al cosmo garantendo un governo ordinato rappresenta un assunto alquanto condiviso: “il rito – sociale, religioso o di possessione sciamanica – assolve a cinque funzioni politiche nel senso più generale del termine, e cioè si comporta come un meccanismo di controllo sociale, come un mezzo per risolvere i conflitti e come un congegno per mantenere le solidarietà sociali, le stratificazioni e le strutture politiche (Azzaroni 2003: 334). La natura e struttura politiche del regno di Himiko definiscono un secondo aspetto narrato nel Wei Chih da approfondire. Se l’autorità sovrana è indubbiamente riconosciuta ad Himiko l’amministrazione e la gestione del regno è però affidata al fratello minore il quale, in sostanza, svolge un ruolo di reggenza suffragato dal potere spirituale della sorella. È significativo notare come tale struttura politica rispecchi quella della casa imperiale Yamato nei poco meno di cento anni che precedono l’idea che darà forma al Kojiki e al Nihonshoki e i poco più di cinquant’anni successivi la loro stesura, ossia al momento in cui il Giappone marca il suo ingresso nella storia comunemente intesa. In questo frangente, infatti, su sedici mandati imperiali ben otto sono appannaggio di imperatrici. La reggenza come modalità di governo sarà poi una costante dell’Impero del Sol Levante. La frapposizione del fratello minore tra il popolo e Himiko, inoltre, sancisce una dinamica di relazione tra maschile e femminile – principi e genere – ancora oggi osservabile in Giappone e riassumibile nella formula ‘il maschile istituzionalizza il femminile’, ossia rende inerte e praticamente utilizzabile l’altrimenti incontrollabile potere cui attinge il femminile o, ancora, inscrive il caos nelle regole del cosmo. Durante gli sconvolgimenti socio-culturali occorsi nel Giappone di fine ’800 – ma il fenomeno non si è nei fatti mai arrestato –, impegnato nella corsa alla modernizzazione che avrebbe stupito il mondo, le numerose crisi di disorientamento ideologico sono sfociate in alcuni casi nella nascita di nuovi movimenti religiosi, gli shinsh1uky1o, a capo dei quali erano generalmente donne dotate di capacità estatiche. Dopo una iniziale esistenza priva di strutture gerarchiche e di ordinamento interno – una communitas in termini turneriani – la crescita del movimento conduceva a esigenze gestionali: “crescendo, il gruppo riproduce la struttura sociale tradizionale: si organizza seguendo un sistema gerarchico, utilizza l’attività lavorativa dei fedeli e si rende economicamente indipendente [...] il processo di istituzionalizzazione, che rende stabile il nuovo movimento religioso e lo fa prosperare, trasforma altresì le caratteristiche della prassi estatica e la riconduce entro quegli stessi schemi contro cui si era posta in alternativa. Una figura maschile si affianca alla sciamana [...] essi [le figure maschili, nda] sono incaricati di organizzare il movimento e accrescono pro-

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gressivamente il loro potere. All’interno della nuova struttura essi ricoprono le tradizionali funzioni di un to1 ya: diventano cioè gli unici mediatori fra la fondatrice, esperta dell’estasi, e il gruppo” (Raveri 2006: 338-339). La già richiamata connotazione femminile dell’astro solare connesso ad Amaterasu, invece, consente di verificare come non solo in Giappone il sole possa essere una divinità femminile rinnovando l’invito ad un atteggiamento non etnocentrico nella lettura delle culture altre. Uno dei vari esempi enunciabili, ricondotto da Lévi-Strauss proprio alla mitologia giapponese qui in esame, è quello di Madama Sole riscontrabile tra i Cherokee della Carolina del Nord. Un estratto dalla Disputa degli astri permetterà ulteriori osservazioni. Il racconto ruota attorno, semplificando al massimo, all’uccisione della figlia di Madama Sole e al dolore profondo che portò la madre ad eclissarsi nel proprio lutto negando al mondo la sua luce. Dopo un tentativo vano di recuperare alla vita la figlia dell’astro, rapendola dal paese delle anime, Madama Sole “fu così desolata di perdere la figlia una seconda volta che inondò la terra con le sue lacrime. Temendo di annegare, gli uomini mandarono i loro più bei ragazzi e le più graziose fanciulle a danzare davanti a lei per distrarla. Essa tenne nascosto il viso a lungo senza badare ai canti e alle danze. Ma una suonatrice di tamburello ordinò un cambiamento di ritmo. Madama Sole alzò gli occhi sorpresa e lo spettacolo le piacque tanto che sorrise” (Mooney in Lévi-Strauss 1968: 250). Gli elementi di consonanza al mito della Caverna Celeste sono molti, non ultimo il potere pacificatore e risolutore della danza strutturata sull’elemento percussivo. Rientrati per assonanza nell’alveo delle vicende narrate dai due annali nipponici per antonomasia si deve notare, inoltre, che queste opere non solo sono specchio del dialogo tra mito e storia e tra oralità e scrittura, ma anche di un passaggio da matricentrismo a patricentrismo: pensate, almeno il Kojiki, da un imperatore e fatte trascrivere da un’imperatrice, porranno una dea a protezione di una discendenza di imperatori. Il Kojiki fu redatto sotto l’imperatrice Gemmi1o (o Gemmei), il Nihonshoki sotto l’imperatrice Gensh1o. Dopo di loro ci fu solo un’altra imperatrice che regnò per due mandati (749-758 e 765-770) prima di una assenza femminile dal trono di quasi mille anni. Ma veniamo ai miti di fondazione e agli episodi salienti per l’istituzione del rapporto tra Maschile e Femminile, tra uomo e donna. Il Kojiki è tanto una teogonia quanto una cosmogonia ma, ancor più precisamente, una nippogonia: la creazione di cui vengono raccontate le fasi si riferisce all’arcipelago giapponese e a questo soltanto. L’osservazione può apparire di scarso rilievo ma costituisce invece un dato fondamentale nella costituzione della percezione identitaria giapponese. Nella disamina seguente mi riferirò in particolare, per la scansione degli eventi, allo studio di Lévêque (Lévêque 1988). Nelle citazioni antologizzate dalle varie versioni del Kojiki utilizzerò il nome della divinità secondo la traslitterazione e la tra-

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duzione proposte dall’autore della stessa: una medesima divinità potrà quindi essere menzionata in diverse varianti senza peraltro comprometterne la riconoscibilità. Prime ad apparire sono cinque divinità (tutte divinità maschili) dette deità del Cielo. Divisibili in due gruppi il primo comprende Ame-no-mi-naka-nusji-no-kami (Maestro del centro augusto del Cielo), Taka-mi-musu-bi-no-kami (Divinità dell’alta produzione augusta) e Kami-musu-bi-no-kami (Divinità delle nascite divine), il secondo annovera Principe grazioso germoglio di canna e Divinità residente eternamente in cielo. La prima divinità ricordata non appare nei miti ed è una potenza trascendentale, esoterica e inconoscibile (Lévêque 1988: 16), le ultime due appaiono fugacemente quando “la terra che è appena nata è come una macchia d’olio galleggiante e fluttua come una medusa” (Kojiki I-1) per non essere poi più menzionati. Takamimusubi e Kamimusubi invece, seppure ad uno stadio avanzato della creazione, giocheranno ancora un ruolo di rilievo; il primo affiancando Amaterasu nelle delicate fasi “diplomatiche” dell’insediamento dei suoi discendenti sul trono e poi della conquista dell’intero arcipelago da parte di Jimmu Tenno1 , il secondo facendo del proprio figlio un fratello di Okuninushi che con questi collaborerà all’atto di plasmare la terra (Kojiki I-27). Alle cinque deità del Cielo seguono le “sette generazioni divine” (Kojiki I-2). Tralasciando l’analisi della loro struttura, ritenuta poco chiara, osserviamo l’apparire di due divinità singole, ognuna delle quali forma una delle sette generazioni, e successivamente cinque coppie di dei fratello e sorella minore in cui le dee, in quasi tutte le coppie, portano il nome del fratello al femminile. Il passaggio, che segna l’apparire di potenze genericamente terrestri ad affiancare quelle celesti prima ricordate, è nodale: comincia infatti ad istituirsi la coppia e a differenziarsi in modo netto l’aspetto maschile da quello femminile. Con l’ultima coppia apparsa, Izanagi e Izanami, si avrà il primo augusto amplesso. In relazione a tale passo del Kojiki Maraini chiosa: “Questo è il mito, delizioso e grandiosamente infantile, ma le idee e i sentimenti da cui è scaturito possono essere considerati il punto di partenza di una intera filosofia della vita; è esattamente quello che è successo in Giappone” (Maraini 1971: 210). Il momento risulta nodale non solo perché appaiono coppie di divinità o perché prende avvio la riproduzione sessuata, ma perché chiaramente si delinea uno dei pilastri portanti della weltanshauung nipponica e asiatica: la complementarità degli opposti. Il tema è già chiaramente enunciato nella prefazione del Kojiki, in cui si allude ad Izanagi (il Maschio che invita) e Izanami (la Femmina che invita) come all’elemento attivo e passivo, ma risulta meglio delineato ed esplicitato nel Nihonshoki: “Anticamente, Cielo e Terra non erano ancora separati, e In e Y1o [yin e yang] non ancora divisi. Formavano una massa caotica simile ad un uovo i cui limiti non erano ben definibili e che conteneva germi di vita embrionale [germs]. Le parti più pure e limpide si allungarono finemente e formarono il Cielo mentre le più grossolane e pesanti si stabilizzarono sul fondo e divennero Terra.

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Gli elementi sottili si compattarono facilmente in un corpo unito, mentre il consolidamento di quelli pesanti e grossolani si compì con difficoltà. Il cielo fu quindi formato per primo, la Terra successivamente. […] A questo punto qualcosa fu prodotto tra Cielo e Terra. Ciò fu in forma di virgulto di canna [reedshoot]. Fu trasformato in una divinità e fu chiamato Kuni-toko-tachi no Mikoto” (Nihonshoki I, 1).

Con le “sette generazioni” l’indistinto comincia a precipitare in forme identificabili e con la separazione dell’Uno che diventa due sorge la necessità di un principio ordinatore che non comprometta il processo che dal caos conduce al cosmo. Solo l’ultima coppia, Izanagi e Izanami, giocherà un ruolo centrale nelle fasi successive. Delle altre coppie, i cui caratteri di distinzione sono meno marcati, si perderanno subito le tracce: “i commentatori ritengono che queste generazioni contrassegnino le diverse tappe nel processo di creazione/stabilizzazione della Terra” (Lévêque 1988: 18). Fornirò un breve riepilogo dell’apparizione di Izanagi e Izanami e del loro ruolo e modo creativo antologizzando un sunto delle sezioni dalla terza alla decima della prima parte del Kojiki nella versione proposta da Campbell: “[…] Quindi, tutti quegli Spiriti Celesti comandarono all’ultima coppia [Izanagi e Izanami] di creare, consolidare e far vivere la terra galleggiante del Giappone, consegnando loro una lancia gemmata. E questi due, stando sul Ponte fluttuante del Cielo, immersero quella lancia e con essa mescolarono. Essi agitarono l’acqua del mare finché divenne densa (koworokoworo), poi sollevarono la lancia, e l’acqua che gocciolava divenne un’isola chiamata Condensata, su cui la coppia augusta discese. Quindi essi costruirono un augusto Pilastro celeste ed un Palazzo di otto braccia, dopodichè il Maschio che invita chiese alla Femmina che invita: “Come è fatto il tuo corpo?” Essa rispose: “Il mio corpo cresce rigoglioso, ma una sua parte non cresce”. Il Maschio che invita le disse: “Anche il mio corpo cresce, ma c’è una parte che cresce in eccesso. Pertanto, mi sembra giusto introdurre la parte del mio corpo in eccesso nella parte del tuo corpo che non cresce, e così generare territori”. L’augusta Femmina che invita rispose: “Sono d’accordo”. E l’augusto Maschio che invita le disse: “Girando attorno a quel Pilastro celeste, possiamo incontrarci e unire le nostre parti”. Essa acconsentì, e allora lui disse: “Tu gira a destra e io girerò a sinistra”. Essi fecero così e, quando s’incontrarono, la Femmina che invita disse: “Oh, che bel giovane amabile!” Ed il Maschio esclamò: “Oh, che bella ragazza amabile!”. Ma, dopo che ebbero dette queste frasi, il Maschio disse alla sua augusta sorella: “Non è conveniente che la donna parli per prima”. Tuttavia, essi si unirono nel talamo e generarono un figlio, chiamato Mignatta, che posero in una barca di canne, affidandolo alla corrente. In seguito generarono l’isola Spuma, che, poiché non era venuta bene, non riconobbero tra i loro figli. I due augusti spiriti si misero a riflettere: “I figli che abbiamo generati non sono venuti bene. Dobbiamo parlarne agli dèi”. Così risalirono e posero la questione agli Spiriti celesti, i quali interrogarono l’oracolo e dissero loro: “I figli non sono venuti bene perché la donna ha parlato per prima. Tornate indietro e correggete le vostre parole”.

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Discesi, il Maschio e la Femmina girarono di nuovo attorno al Pilastro celeste. Ma, questa volta, il Maschio parlò per primo: “Oh, che bella ragazza amabile!”. E sua sorella esclamò: “Oh, che bel giovane amabile!” E così, spostato l’ordine delle frasi, si unirono. Essi generarono e diedero il nome alle otto isole del Giappone. Poi generarono e diedero il nome ai trenta augusti spiriti della terra, del mare, delle stagioni, dei venti, degli alberi, delle montagne, delle brughiere e del fuoco. Quest’ultimo spirito, tuttavia, ustionò le auguste parti genitali della madre, e la Femmina che invita si ammalò. […]” (Campbell 1962: 538-540).

Izanami in seguito alle ustioni morì e Izanagi decise di vendicare la sorella-compagna uccidendo e smembrando il colpevole figlio. Infinitamente triste per la sua solitudine Izanagi intraprende allora la discesa agli inferi per riportare in vita Izanami. Trovatala infrange un tabù da lei posto, ossia di non guardarla perché avendo mangiato del cibo degli inferi il suo corpo era ormai corrotto. Non resistendo Izanagi volge lo sguardo verso Izanami che, coperta di vergogna per essere stata vista in tali condizioni, scaglia contro il compagno i kami nati dalla putrescenza del suo corpo. Izanagi riesce, con certa difficoltà a fuggire e ad abbandonare, chiudendolo con un pesante masso, il mondo ctonio. Quasi impossibile, nonostante le numerose differenze, non rilevare una singolare analogia con le vicende di Orfeo ed Euridice: “[…] Si avviarono verso muti silenzi per un sentiero in salita, ripido, buio, immerso in una fitta e fosca nebbia. E ormai non erano lontani dalla superficie, quando, nel timore che lei riscomparisse, e bramoso di rivederla, egli pieno d’amore si voltò. E subito essa riscivolò indietro […]”. Così Ovidio nelle sue Metamorfosi (X, 53-57). La poco fortunata discesa agli inferi di Izanagi, però, fu scaturigine di una ulteriore e fondamentale fase creativa. “In seguito alla sua terribile avventura, il Maschio che invita si purificò con un bagno in un fiume; e, così facendo, nacquero dèi da ogni capo di vestiario che lasciò sulla riva. Da ogni parte del suo corpo nacquero spiriti. Ma i più importanti di tutti furono tre: la Dea-Sole Amaterasu Omikami (l’augusto Grande Spirito Splendente), che nacque quando si bagnò l’occhio sinistro; il dio-luna, Tsu-kiyomi-no-Mikoto (l’augusto Possessore della Notte), che nacque quando egli si bagnò l’occhio destro; ed un diotempesta assolutamente intrattabile, Susano-O-no-Mikoto (il Maschio Impetuoso), che nacque quando egli si bagnò il suo augusto naso” (Campbell 1962: 542-543).

Amaterasu e Susano-O – Tsu-kiyomi non assumerà mai grande rilievo scomparendo subito dal teatro della creazione – nati per via asessuata da un atto di purificazione sono i nuovi protagonisti della creazione: con loro principia la china che condurrà definitivamente all’insediamento terreno della Casa Yamato. Izanagi e Izanami emblematizzano il principio maschile e femminile e, come per le altre coppie appartenenti alla loro generazione, le due componenti di una sola realtà, yin e yang, di cui il simbolo del Tao è forse la raffigurazione più nota. Sebbene il simbolo mostri le due metà in uno stato di equilibrio assoluto è bene ricordare che

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per il Taoismo il Tao è dinamico, altro non è che il processo di mutamento e divenire di tutte le cose: in questo contesto assume senso la “danza” della coppia celeste, fatta di momenti di armonia e di lotta, di situazioni in mutamento. Nell’episodio del primo amplesso si istituiscono due regole basilari: la volontà celeste va applicata come legge per l’ordine e l’armonia terrena e l’elemento maschile deve esercitare un controllo sul femminile. Ho già accennato all’alternanza di imperatori e imperatrici nei decenni limitrofi agli anni in cui la mitologia di cui sto seguendo il corso si delinea, ed è interessante notare l’eco tra le due situazioni in cui, alla fine, sarà il patriarcato, ossia la materializzazione terrena del principio maschile, ad imporsi. Rimanendo nell’analogia al Tao di Izanagi e Izanami è giusto ribadire che la preminenza di uno dei due principi, quello maschile, è funzionale alla scongiura dell’arresto del divenire nell’equilibrio: il maschile rappresenta lo squilibrio necessario al moto connaturato al cosmo, il principio ordinatore della vita che non potrebbe però sussistere senza l’opposizione del suo complementare. Ciò, quindi, significa che il principio maschile non è superiore a quello femminile poiché entrambi, secondo la propria natura, giocano la medesima partita: fissando il punto di vista a livello dei principi complementari del Tao i giudizi di valore non hanno alcun senso. La stessa dialettica si ripropone nel rapporto tra Ama-terasu-oho-mi-kami (Grande augusta kami che illumina il cielo) e Take-haia-susa-no-wo-no-mikoto (Maestà maschile potente rapido impetuoso). I due fratelli – che nel Nihonshoki (I, 18) appaiono in uno stadio precedente della creazione e sono figli della coppia Izanagi-Izanami e non nati per partenogenesi solo dal primo – sono posti a capo, la prima della Pianura del Cielo, il secondo della Pianura del Mare e con loro si “rimette in moto lo scenario della creazione di un mondo organizzato dove ormai stanno per ordinarsi le linee di forza del potere sovrano” (Lévêque 1988: 29). Susano-O tiene fede al proprio nome e dimostra fin da subito un carattere irruente e scontroso. Esiliato per aver rifiutato il ruolo datogli dal padre decide di salire al Cielo per salutare la sorella. Questa presagisce qualcosa di insolito ma accetta di fare un giuramento in cui i due si scambiano dei gioielli e una spada e generano dei figli: “Amaterasu prende la spada che il fratello le tende, la spezza in tre, ne lava i cocci mettendoli a mollo nell’acqua dei pozzi, alla fine li frantuma con un colpo poderoso. Quindi ci soffia sopra più e più volte. Susano-wo prende il girocollo che la sorella gli tende, immerge i gioielli e li tiene a mollo nell’acqua dei pozzi, alla fine li frantuma con un colpo poderoso. Quindi ci soffia sopra più e più volte. Dai soffi divini nascono otto kami: tre principesse dal soffio di Amaterasu, cinque principi da quello di Susano-wo. Dunque Susano-wo ha detto il vero. Ha messo al mondo maschi per farne dono alla sorella. E Amaterasu accoglie nel proprio regno i figli del fratello, cui cede le figlie per il suo” (Helft 2004: 29-30). Susano-O genera dei maschi attraverso l’oggetto della sorella (gioiello), Amaterasu femmine attraverso l’oggetto del fratello (spada): lo schema a chiasmo su cui si basa l’episodio è di grande interesse per ribadire la complementarità che sempre lega in

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Oriente le due facce della stessa medaglia. Anticipando leggermente gli eventi è da uno dei figli generati da Susano-O attraverso il gioiello della sorella che discenderà il primo imperatore del Giappone. Dopo essersi assicurato una discendenza celeste Susano-O non si placa e torna alla carica del cielo e della sorella e, in preda al furore, “distrugge le dighe dei campi di riso che lei [Amaterasu] aveva costruito, colma i fossati e riempie il palazzo di escrementi” (Lévêque 1988: 34). Amaterasu cerca inizialmente di scusare il comportamento del fratello ma non trovando fine le sue angherie non le resta che rifugiarsi indignata nella Celeste-Dimora-Rocciosa. Dopo un lungo percorso circolare eccoci al punto di partenza in cui la danza di Uzume, dea eletta a ideale capostipite di un terreno patrilignaggio di attori, interviene a salvare il creato: “Essa fissò le maniche con una liana celeste del monte Profumo celeste. Poi, mettendosi in capo i rami di fusaggine celeste e portando in mano dei rami di bambù legati del monte Profumo celeste, rovesciò un barile vuoto davanti alla porta della grotta e batté i talloni. Mentre danzava fino al parossismo si scoprì il petto e abbassò la cintura dell’abito fino al sesso. Allora l’Alta pianura del Cielo rumoreggiò e le otto miriadi di kami si misero a ridere” (Lévêque 1988: 36).

Nella costituzione della prassi e dell’etica attorica del n1o, nella fondazione di una specifica tradizione come del sistema della sua trasmissione intergenerazionale, Maschile e Femminile, uomo e donna, giocano e giocheranno, come proverò a dimostrare ancora nelle prossime pagine, un ruolo di primo piano. Scongiurato il pericolo, concludendo la serie di accadimenti che conducono all’insediamento terreno del primo imperatore, il colpevole Susano-O viene ricacciato sulla terra e alle sue spalle, per sempre, reciso il ponte dal quale Izanagi e Izanami erano scesi dai cieli superi. Più nessuno potrà fare ritorno al Cielo attraversandolo. Susano-O non si scoraggia e comincia un lungo lavoro per migliorare la Terra, e così dopo di lui i suoi figli fino alla quinta generazione quando Okuninushi verrà riconosciuto il vero Signore della Terra. Per non dilungarmi oltre misura salto a piè pari molti episodi raccontati nel Kojiki e nel Nihonshoki e giungo al momento in cui, nonostante l’importante opera ordinatrice di Okuninushi, il Cielo decreta di intervenire nuovamente per porre rimedio all’eccessivo disordine che ancora regna sulla terra. Dopo una serie di indagini e valutazioni la scelta cade su Ninigi (o Hononinigi) Celeste Nipote di Amaterasu, figlio di uno dei figli generati da Susano-O nell’occasione già ricordata del giuramento tra le due divinità. Amaterasu gli affida spada, gioiello e specchio, ancora oggi emblemi della famiglia imperiale, quali simboli dell’alleanza tra Cielo e Terra e del potere su questa istituito. Okuninushi, legittimo Signore della Terra, viene interpellato e messo a parte del progetto celeste assieme ai suoi eredi e non può che assecondare tale suprema volontà.

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Ninigi riceve gli onori dai kami terrestri i quali gli si sottomettono come vassalli e, sposatosi, inizia la sua discendenza terrena che, a causa di una scelta poco avveduta, perderà l’immortalità. Ancora qualche generazione e vicissitudine e maturerà il tempo per la salita al trono del primo imperatore umano, Jimmu Tenn1o (Guerriero Divino).

Capitolo II

Discendere dagli dei per appartenere al mondo

Ribadendo la centralità e l’imprescindibilità del background mitologico e antropologico proposto, anzi proprio sulla scorta di quello, è ora doveroso arricchire lo scenario prospettato con i contributi dell’archeologia e della storiografia propriamente detta. Per non lasciare ancora ad un livello generale la discussione, però, il percorso che intendo proporre si strutturerà attorno al prezioso scritto zeamiano già introdotto precedentemente, il IV libro del F1ushi-kaden, Origini rituali. L’attenzione sarà particolarmente posta anche al V libro, Gli arcani, che con il quarto forma una unità compatta essendo stato scritto nel medesimo anno: 1402. Oltre ai testi indicati, ovviamente, le intersezioni all’intero corpus dei trattati di Zeami rimarrà possibile se non necessario. I suoi scritti, come visto, hanno caratteristiche strutturali analoghe a quelle del Kojiki e del Nihonshoki e con questi condividono anche la funzione di fondo: preservare la memoria di un sapere autentico e sancirne l’autorità attraverso il collegamento ad una ascendenza di alti natali. Tralasciando approfondimenti al periodo paleolitico (Ky1usekki jidai) le cui prime attestazioni – strumenti di pietra scheggiata – sono state rinvenute solo nella metà del XX secolo e al periodo J1omon (J1omon jidai) – la cui periodizzazione è compresa tra i 15 e i 10.000 anni a.C. e il III-II secolo a.C. – in cui si ritrovano manufatti in terracotta con una tipica decorazione a corda (j1omon, letteralmente impronta di corda) e strumenti di pietra levigata, si può cominciare ad indagare il Giappone dell’età dei metalli (Kinzokuki jidai) a partire dal periodo Yayoi (Yayoi jidai). È bene ricordare, però, che nel periodo J1omon “ci fu un aumento progressivo della consapevolezza del trascendente. Questo portò alla diffusione dello sciamanismo, del ritualismo e di nuove pratiche di sepoltura […]” (Henshall 1999: 26) e ad una primigenia differenziazione sociale. Il periodo Yayoi (ca. 4-300 a.C. – 250-300 d.C.) vede il significativo passaggio da una cultura di cacciatori raccoglitori ad una cultura agricola il cui impianto sociale diverranno gruppi stanziali legati ad un territorio fertile. “Attorno a questa nuova attività, destinata a divenire dominante nell’economia dell’arcipelago, prenderà forma un modello economico-sociale, una tradizione cultuale e rituale, un corredo spiri-

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tuale, nonché una modalità di percezione del tempo scandita dalla ciclicità delle stagioni, destinati ad affermarsi nelle isole giapponesi parallelamente alla diffusione della coltivazione del riso” (Caroli-Gatti 2004: 5-6). La comparsa del riso, che i miti collegano alla casa imperiale attraverso la discendenza di Amaterasu e che sarebbe stato così presente da sempre in Giappone, è in realtà alquanto tarda. Ultimo paese asiatico a conoscere questo cereale, la sua introduzione pare possa essere ricondotta all’importante flusso migratorio proveniente dal continente che tra il 1000 e il 400 a. C. interessò l’arcipelago. L’avvento della risicoltura rappresenta la prima penetrazione rilevante della cultura cinese. Con le tecniche di coltivazione, sempre tramite la mediazione della penisola coreana, giungono anche utensili e armi in bronzo. “Il trapianto della coltura del riso trasformò radicalmente la società primitiva giapponese. Una volta appresa la risicoltura, le comunità cominciano a ingrandire, spinte dall’esigenza della collaborazione di numerosa manodopera. Divenne possibile mettere da parte prodotti sovrabbondanti […]. Inoltre, i lavori in collaborazione tra più villaggi per il governo delle acque o per l’irrigazione, richiedevano una coordinazione, che andò accrescendo man mano autorità politica fino al punto che chi la esercitava poté definirsi dominatore o signore potente (g1ozoku lett. [capo di] famiglia [o tribù, clan] influente), di una zona a carattere territoriale. Si assiste così alla nascita di tanti “piccoli stati” (sh1okoku). Siamo intorno al I secolo a. C.” (Takeshita 1996: 16). Proprio di questo periodo sono le prime cronache cinesi in cui appaiono fugaci cenni al Giappone e dalle quali, più tardi, si avrà il ritratto di Himiko e del suo regno. Va da sé che con le tecniche agricole e metallurgiche fece il suo ingresso la cultura continentale tout court – all’epoca cinese – dalla quale il Giappone, sebbene in modo sempre selettivo, cominciò ad attingere a piene mani. Il peso della presenza culturale cinese divenne decisivo durante il successivo periodo Yamato, o Kofun (250-710), in particolar modo dall’introduzione del Buddhismo in poi. L’arrivo del Buddhismo marca il discrimine tra il periodo di una iniziale organizzazione giapponese – corrispondente alle prime fasi della mitologia ricordata nel I capitolo – e le lotte effettive – mitologicamente sublimate nel contrasto tra Amaterasu e Susano-O – che condussero alla formazione dell’impero. Prima di analizzare gli sviluppi storici del periodo Yamato attorno ai quali si strutturano alcuni passaggi nodali della narrazione zeamiana sulle origini della propria arte, è opportuno tornare alle Origini rituali del n1o allignate nella terra del Buddha. “Item, nella patria del Buddha, quando il ricco-uomo Shudatsu ebbe edificato il monastero di Gion, in occasione della [sua] consacrazione, mentre lo Shakanyorai stava spiegando la Legge, Daiba, seguito da una miriade di eterodossi, [tenendo] delle bende votive fissate a rami d’albero e a foglie di bambù, danzava e cantava a piena gola, in modo tale che la predica diventava impossibile; allora il Buddha lanciò un’occhiata a Sharihotsu, e questi, penetrato della potenza del Buddha, andò a disporre nella stanza in fondo tamburelli e gong, e facendo collaborare il genio di Anan, la saggezza di Sharihotsu e l’eloquenza di Furuna, fece eseguire sessantasei opere mimate; al-

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lora gli eterodossi, udendo il suono dei flauti e dei tamburelli, si riunirono in fondo, e assistendo a questo spettacolo, si calmarono. Approfittando della tregua, il Nyorai pronunciò la sua predica. Questo fatto segna, in India, l’inizio della nostra via” (Zeami 1960: 110).

Quasi superfluo sottolineare come, nonostante i riferimenti siano al Buddha storico, l’afflato e la funzione di questa sezione siano essenzialmente mitopoietiche. Ciò che maggiormente interessa e colpisce, però, è l’analogia tra la danza qui descritta e quella di Uzume, il potere riconosciuto al canto e alla danza – all’atto performativo –, e la definizione ben strutturata del rapporto maestro e allievo. Tralascio, per necessaria brevità e per manifesta relazione intercorrente, l’analisi formale delle danze richiamate e punto l’attenzione sul loro potere. Tanto al tempo degli dei che nella patria del Buddha Zeami riconosce all’atto performativo la capacità di placare, o meglio sciogliere, una situazione conflittuale tendente, almeno in potenza, al disordine. Ma proprio nella patria del Buddha Zeami descrive pure il segno opposto cui il medesimo mezzo può declinare: il potere distruttivo, anarchico. Il primo richiamo può essere quello alla già menzionata filosofia della composizione dei contrari – yin e yang – anche se il contesto indiano produce una ulteriore eco all’opera di éSiva Nataraja che, nella danza accompagnata dal suo tamburo, crea e distrugge continuamente l’universo. Zeami è apertamente schierato con chi vede nella danza uno strumento pacificatore e ordinatore, ruolo che per altro, in Giappone, la danza ha sempre avuto: “originariamente non era un’arte. Come dice Miyao Shigeyoshi nel libro Antropologia della danza in Asia [Tanto l’autore quanto il traduttore non forniscono alcuna indicazione bibliografica in merito al testo citato, nda], era una maniera di comunicazione per «entrare in relazione con le forze spirituali che circondano il nostro mondo, con il mondo trascendentale che non si può né vedere né sentire né toccare, con la forza che dirige il mondo, con la forza misteriosa della natura, con Dio, gli antenati e gli spiriti». Questa essenza originaria è presente anche nella danza di oggi” (Watanabe 1991: 41). Comunicare “con la forza che dirige il mondo”, ossia con la legge del Buddha: è qui il caso di ricordare che gli scritti di Zeami, sia teorici che drammaturgici, hanno una marcata ascendenza buddhista, ascendenza suffragata e ispessita dall’ipotesi secondo cui “nell’ultimo periodo della sua vita Zeami diventasse sacerdote della setta Ji del Buddhismo [..]” (Ortolani 1990: 121) – e che le compagnie di sarugaku del tempo intervenivano in particolari celebrazioni religiose presso alcuni templi buddhisti come il K1ofuku-ji di Nara. Il riversarsi della cultura cinese sulle terre di Yamato – il Buddhismo seppur originario dell’India era per i giapponesi del VI secolo, periodo della sua introduzione, una tipica espressione cinese – assieme ad un nuovo culto portò anche una nuova visione etica e filosofico-morale della società e dei rapporti tra i membri che la costituiscono, il confucianesimo, con la quale si relazionò fin da subito in modo sincretico.

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Da qui la notoria enfasi nipponica posta sulla gerarchia e il conseguente rilievo dato al rapporto tra un superiore e un subordinato. Tale configurazione funzionale può essere estesa al rapporto tra maestro e allievo. Dalla narrazione di Zeami si evince che è sufficiente una occhiata del Buddha perché i discepoli agiscano nel senso dell’attuazione del suo volere. Ancor più significativo notare come l’episodio sancisca le smisurate possibilità comunicative, extra-verbali, figlie di un rapporto profondamente empatico e consonante in cui la confluenza del flusso realizzativo degli allievi nella volontà del maestro è garanzia di buon esito dell’agire e anche di liberazione: “[…] la mia preoccupazione maggiore è questa: nel vedere coloro che, oggigiorno, seguono la nostra via, constato che essi, trascurando di applicarsi alla nostra arte, non fanno che camminare per vie estranee; che anche quando per un caso eccezionale, fanno qualche progresso in quest’arte, si accontentano dell’intuizione di una sera; e che aggrappati alla fama e ai profitti di un momento, dimenticano le origini e perdono il filo conduttore. […] Detto ciò, applicandosi nella nostra via, facendo dell’arte la propria cura principale, se lo si fa senza ambizione egoista, come non raccoglierne i frutti? (Zeami 1960: 116). Queste poche righe, tratte dagli Arcani, per ricordare l’umiltà e l’attaccamento alla tradizione che ogni allievo dovrebbe praticare per evitare le secche della “vanità pretenziosa” e del declino professionale e umano, queste altre, tratte dal Ky1ui-Shidai (La scala dei nove gradi) per ricordare come camminando con volontà indefessa e inesausta una via sia possibile trascendere il contingente e pervenire alla promessa liberazione buddhista: “In Shinra, a mezzanotte, il sole splende”. Il meraviglioso è l’ineffabile, è il punto in cui il cammino del pensiero si distrugge. “Il sole a mezzanotte”, è forse ancora una nozione che la parola possa definire?” (Zeami 1960: 235). La pace del paradiso occidentale della Terra Pura verso cui gli spiriti o le anime dei personaggi portati in scena dal no1 si dirigono, una volta placati dallo scioglimento dei nodi carmici dell’esistenza operato dalle zelanti preghiere di molti personaggi nel ruolo di monaci buddhisti presenti nella drammaturgia n1o, non deve far dimenticare che l’introduzione di tale culto provocò scontri e faide tra i vari clan dell’arcipelago nipponico. Con il periodo Yayoi la nascente stratificazione sociale impone i primi diversi status: i tanti piccoli stati avevano al loro vertice un capo detto go1 zoku sul cui ruolo e area di influenza si orientò presto la corte Yamato nel suo processo di unificazione del Paese. “Il metodo privilegiato sembra essere stato quello di incorporare le società organizzate locali, già fondate nel periodo Yayoi, e di riconoscere ai loro capi un ruolo all’interno dello Stato Yamato. A corte i ranghi e i titoli venivano usati in modo strategico, in modo da coinvolgere i membri potenzialmente pericolosi dei regimi locali indipendenti nel sistema imperiale emergente. […] I ranghi e i titoli assegnati ai re e ai capi delle società locali, incorporate dall’autorità di Yamato, erano molto importanti in un’epoca nella quale lo status sociale era così rilevante. Il sistema amministrativo era fortemente gerarchizzato, e anche questa è una caratteristica che i giapponesi continuano a prediligere” (Henshall 1999: 34-35).

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Il Buddhismo fa la sua comparsa ufficiale in Giappone nel 538 – per alcuni nel 552 – anno in cui il sovrano di Paekche inviò al capo della confederazione Yamato, Kinmei, statue e scritture buddhiste “assieme ad un messaggio dove il Re coreano spiegava i vantaggi derivanti da questa dottrina, la quale poteva «soddisfare tutti i desideri in proporzione all’uso» che di essa si faceva” (Caroli-Gatti 2004: 16). Gli storici cui devo la citazione appena riportata sottolineano come, circa mille anni dopo la sua origine, il Buddhismo mediato dalla Cina e dalla Corea giunga in Giappone più come strumento di governo politico e come pratica magico-rituale potente ed efficace. Il messaggio di liberazione già richiamato in precedenza impiegherà ancora qualche secolo ad imporsi tra le masse e, nella sua prima forma, il Buddhismo interessò soprattutto le élites al potere. “La contrapposizione tra i fautori e gli avversari dell’introduzione del Buddhismo può pertanto essere considerata come uno scontro tra clan che cercavano di tutelare i loro interessi e prerogative. Non a caso, infatti, a favore dell’accettazione della nuova dottrina si schierarono i Soga, che di recente erano immigrati dalla penisola coreana e che, occupando un ruolo di mediazione tra le due zone, erano favorevoli al proseguimento degli scambi con il continente, così come all’introduzione di tecnologia e idee nuove. La legittimazione del potere di questo uji, che pur aveva stabilito vincoli di parentela con il clan Yamato, non si fondava dunque sui culti indigeni, a differenza di quanto accadeva per altri uji di ben più antiche origini, come i Mononobe, che motivarono la loro ostilità con il fatto che l’ingresso di una dottrina straniera avrebbe potuto offendere i kami locali e persino «scatenare la loro ira». […] Il confronto tra i due schieramenti giunse a una soluzione solo a seguito di uno scontro militare, che portò i Soga a uscirne vittoriosi nel 587. Ciò conferì a questo clan una solida posizione politica favorevole all’apertura verso il continente” (Caroli-Gatti 2004: 17-18). Il seguente brano del IV libro del F1ushi-kaden si apre proprio con Kinmei e si chiude con un riferimento alla faida tra sostenitori e oppositori del culto giunto da Occidente: “Item, in Giappone, durante il regno di Kimmei-tenn1o, sul fiume Hatsuse nella provincia di Yamato, in occasione di una piena, una giara venuta dal monte discese la corrente. Dalla parte del torii [in legno (?)] del criptomero di Miwa, un cortigiano raccolse quella giara. Dentro, vi era un bambinetto. I suoi lineamenti erano graziosi, era simile a un gioiello. Poiché si trattava di un essere disceso dal cielo, la cosa venne riferita a palazzo. Quella notte, in un sogno dell’Imperatore, il bambinetto dichiarò: «Io, qui presente, sono la reincarnazione del Primo-Sovrano del Grande Impero Shin. Avendo dei legami di karma con le regioni del Sole, adesso mi sono qui manifestato». L’Imperatore, ritenendo che la cosa fosse un prodigio, volle il bambinetto al palazzo. Crescendo con l’età, egli superava chiunque per l’acutezza della mente, tanto che a quindici anni era pervenuto al rango di ministro, e l’Imperatore gli conferì il nome di Shin. Ora, il carattere shin si legge hata, ed ecco perché egli si chiamò Hata no K1okatsu. J1og1u-taishi, in un momento in cui l’Impero attraversava un periodo agita-

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to, rifacendosi ai precedenti fasti dell’età degli dèi e della patria del Buddha, ordinò sessantasei opere mimate a quel K1okatsu; nella stessa occasione, egli scolpì di propria mano le maschere per le sessantasei opere, e si degnò di affidarle a K1okatsu. Si presentarono queste [opere] al Shishinden del palazzo di Tachibana. Nell’Impero fu messo ordine, il paese fu pacificato. Per le generazioni a venire, J1og1u-taishi, sopprimendo, nel gruppo [gruppo di caratteri] che si leggono kagura, la chiave del carattere kami, ne conservò soltanto l’elemento formativo. Poiché questo costituisce [il carattere letto] saru nel calendario, [quelle opere] si chiamarono sarugaku. Questo perché [i due caratteri possono essere letti] tanoshimi wo m1osu [«comunicare la gioia»]. E anche perché essi risultano da una divisione dei kagura. Quel K1okatsu servì gli Imperatori Kimmei, Bidatsu, Y1omei, Sushun e Suiko, e J1og1u-taishi. Egli trasmise la sua arte ai discendenti e, poiché «un essere soprannaturale non lascia mai tracce», nella baia di Naniwa, provincia di Settsu, si imbarcò su una piroga, e di lì affidandosi ai venti, se ne andò verso il mare Occidentale. Approdò nella baia di Sakoshi, provincia di Harima. La gente di quelle rive, tirata a terra la barca, vide un essere la cui forma non aveva nulla di umano. Questi, facendo incantesimi su tutti, compì dei prodigi. In lui, dunque, venerarono un dio e la provincia divenne prospera. Notando che egli era molto violento, lo chiamarono Osake-dai-my1ojin. Oggigiorno ancora la sua efficacia è meravigliosa. Per sua natura originale, è il Re Celeste Bishamon. Si dice anche, tra l’altro, che J1og1u-taishi, nel momento di sottomettere il ribelle Moriya, si servì della potenza divina di quel K1okatsu, e Moriya soccombette” (Zeami 1960: 111-113).

Con la sezione centrale delle Origini rituali Zeami mette in sicurezza le colonne portanti della propria arte sul cui supporto fonderà il passato necessario alla sua fortuna nel presente e a quello della sua discendenza nel futuro: “la scelta di un antenato divino può essere interpretata come un gesto politico, determinato da una strategia di potere, che si fonda su un’azione ‘totemica’. Ci troviamo di fronte cioè a un ragionare tassonomico volto a definire un’identità sociale. [...] un antenato divino garantisce che questa identità e autorità si mantengano in un futuro potenzialmente senza fine” (Raveri 2006: 144). Il filo rosso che collega tutte le sezioni del IV libro è, come palmarmente evidente, il potere pacificatore del sarugaku, anche qui capace di ripristinare l’ordine e la pace su tutto l’arcipelago. In tal senso è possibile, in via provvisoria e quindi in attesa di ulteriori conferme, istituire un parallelo tra le sessantasei opere e maschere originarie e le sessantasei province in cui all’epoca di Zeami era suddiviso l’impero: per estensione i benefici del sarugaku raggiungerebbero ogni angolo della terra di Yamato. Ma gli aspetti maggiormente pregni di senso, ai fini della ricerca, riguardano la compresenza di personaggi storici e umani e personaggi mitici e divini attorno alle cui vicende Zeami compie un’operazione potente di modellizzazione e fissazione di identità e discendenza. In primo luogo può essere rilevata l’assonanza tra il destino di Hata no K1okatsu – il cui viaggio acquatico risuona a sua volta con quello del primo figlio di Izanagi e Izanami – e quello dello stesso Zeami: sebbene non per una epifanica manifestazio-

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ne divina fu il precoce genio di Zeami, sicuramente grazie anche al terreno precedentemente preparato dal padre Kan’ami, a permetterne l’ingresso, in qualità di favorito, alla corte dello sh1ogun Yoshimitsu all’età di soli dodici anni. “È chiaro che la posizione di privilegio a corte significò pure un’occasione unica per Zeami di conversare con gli uomini più eruditi dell’epoca e di imparare, quando ancora era molto giovane, una quantità di cose sulla poesia e la cultura classica in generale” (Ortolani 1990: 120). Per irrobustire il proprio progetto Zeami affianca ad Hata no K1okatsu il principe Jog1u Taishi, più noto come Sh1otoku Taishi. Sh1otoku Taishi riveste nella storia ufficiale giapponese un rango di primissimo piano e sovente le sue azioni e le sue doti sono state oggetto di idealizzazioni. Idealizzazioni a parte il principe Sh1otoku, appartenente al clan Soga per parte materna, giocò un ruolo essenziale nell’imposizione e nella diffusione del Buddhismo. Estimatore convinto della cultura cinese intrattenne con il potente vicino regolari rapporti diplomatici e culturali dai quali, probabilmente, trasse molte indicazioni per la compilazione della cosiddetta “Costituzione in diciassette articoli”, scritta in cinese ed emanata nel 604. “Più che un codice di «leggi» nel senso corrente del termine, essa contiene un elenco di precetti e regole morali ispirati a valori confuciani, buddhisti e taoisti. Lo scopo evidente di questo documento è quello di affermare il diritto sovrano e di eliminare il potere autonomo degli uji sostituendolo con una sorta di «burocrazia», composta di ministri e funzionari che devono servire lo Stato con responsabilità, impegno e «decoro», rispettando il proprio rango e garantendo l’ordine e la giustizia. L’autorità da loro esercitata a livello locale deve rispecchiare il potere centrale, e mai sostituirsi a esso, dato che «un Paese non può avere due padroni» (art. XII). L’Imperatore rappresenta il legame tra il Cielo e la Terra, cioè tra la divinità celeste e i sudditi, e costituisce pertanto la guida per tutto il popolo, che deve rispettare i suoi ordini. Nel Paese deve prevalere l’armonia (concepita in termini squisitamente confuciani), che deve essere garantita attraverso il superamento dell’interesse particolare e attraverso uno «spirito conciliativo» tra istanze diverse” (CaroliGatti 2004: 22). La funzione di orientamento astrale traspare dall’etimo del titolo di Tenn1o che “si scrive con due ideogrammi che uniscono i concetti di cielo (Ten) e di Sovrano (o1 ); il tutto va tradotto con espressioni quali Celeste Re, Celeste Signore, Signore del Cielo, magari Doge Stellare e simili” (Maraini 1995: 12-13). Tokoro Isao affronta il tema delle diverse terminologie utilizzate per indicare l’imperatore giapponese e le conseguenti mutazioni di funzione riconosciutegli notando che, sebbene i titoli e ciò che veicolavano sono stati molteplici, nel corso della storia il suo ruolo di riferimento culturale è risultato estremamente costante nel tempo (Tokoro in Autori Vari 2007: 87-96). Come gli articoli della costituzione di Sh1otoku Taishi fondano un’idea di ordine e comportamento per mezzo di precetti, in modo analogo Zeami traccia le linee etiche, poetiche, estetiche e tecniche della propria arte attraverso una mappa, da incarnare e vivificare ad ogni nuova generazione, vergata nei suoi trattati.

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La morte di Sh1otoku Taishi, nel 622, interromperà solo brevemente il cambiamento innescato dalla sua reggenza. Il suo sogno di uno stato centralizzato si concretizzerà nel 645 a seguito della riforma Taika (letteralmente grande trasformazione) e della successiva applicazione, paradossalmente con la cancellazione in un bagno di sangue del Soga uji, di un sistema di governo fortemente accentrato. L’eccezionalità trascendente di Hata no K1okatsu e quella terrena di Sh1otoku trovano una sintesi, nuovamente votata alla pacificazione e all’armonia, nella presentazione delle sessantasei opere mimate frutto dei talenti del primo e del benevolo estro scultoreo del secondo. Qui Zeami sembra voler fondare la necessità di un repertorio oltre che accennare all’antica e regale origine dell’uso delle maschere nella propria arte. Il n1o, quindi, si candida a divenire fin dalla sua origine la piattaforma ideale in cui le istanze del supero e del terreno possano incontrarsi e armoniosamente tendere ad uno scopo comune. Utilizzo appositamente il termine piattaforma perché quanto appena affermato rispetto al no1 in generale è estendibile al butai, il suo spazio scenico: il butai può essere definito come il mondo intermedio nato per creare le condizioni minime necessarie all’incontro fra supero e mondano. Originariamente assicurava anche l’incontro tra gli umili attori e i nobili protettori: attraverso una piccola scala (shirasubashigo) gli attori, alla fine delle loro esibizioni, scendevano verso la platea per incontrare il pubblico e ricevere alcuni omaggi, spesso abiti poi entrati a far parte dell’abbigliamento scenico canonizzato. La struttura architettonica del butai, inoltre, ha profonde connotazioni cosmologiche: il tetto che lo ricopre lo definisce come spazio sacro (Komparu 1983: 111) e i pilastri che lo sostengono sono interpretati dai più alla stregua di axis mundi, tramiti tra il mondo celeste e il modo ctonio. Il corpo centrale dell’area scenica (honbutai), in cui si concentrano i principali avvenimenti, è collegato ad una particolare zona dei camerini, detta camera dello specchio (kagami no ma) da cui entra in scena lo shite attraverso una lunga passerella (hashigakari). L’hashigakari si immette sull’honbutai da occidente, luogo ideale in cui ha sede la Terra pura buddhista: “la Terra pura è un luogo sacro, il paradiso, l’altro mondo. Il ponte del palco N1o, situato a occidente del palco principale, può essere inteso come il ponte dei sogni che collega questo mondo (il palco) all’altro mondo (la camera dello specchio)” (Komparu 1983:120). Decrittato il testo zeamiano secondo questi parametri non appare casuale la comparsa della maschera – la cui funzione mediatrice è analoga a quella dello spazio scenico – nel momento in cui un uomo idealizzato, comunque divinizzato data la sua ascendenza, e una divinità incarnata si incontrano e collaborano. La maschera è spesso vista, o utilizzata, quale emblema del teatro n1o e la capacità di farla “parlare” costituisce uno dei più grandi e affascinanti misteri del magistero attorico di quest’arte. La sua centralità nel teatro – e nel rituale – si impernia però sulla funzione mediatrice che le è consustanziale. Culture di ogni tempo e luogo hanno riconosciuto all’oggetto maschera valenze magiche, medianiche, metafisiche e valori mimetici, metaforici: a prescindere dalle caratteristiche formali le maschere han-

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no, insomma, la capacità di incarnare forze ed entità supere e di saldare lo iato tra il tempo mitico e quello storico, tra passato e presente. Giovanni Azzaroni ricorda come, “per diventare un feroce leone è sufficiente indossarne la pelle; questa è la semplice logica insita nei rituali primitivi, che dalle origini fino ai giorni nostri, dalle montagne bavaresi alle foreste pluviali della Nuova Guinea, hanno sostanziato questa filosofia. L’uso della maschera, nel suo lungo percorso teatrale, può essere collegato a questo primitivo rituale; le maschere e, talvolta i burattini, hanno avuto la funzione di richiamare i morti sulla terra. Nel teatro n1o è un esempio probante lo shite, che indossando la maschera di un morto ne diventa lo spirito nel suo affannarsi per trovare mezzi capaci di liberarlo dai legami terreni; il n1o inizia con l’adorazione della maschera da parte dell’attore, convinto che questo rituale lo aiuterà a interpretare il personaggio più appropriatamente. Nei più antichi drammi n1o, la maschera di Okina e altre maschere erano considerate divine e gli spettacoli iniziavano solamente dopo appropriate recite di preghiere alle divinità” (Azzaroni 1998: 210). La maschera, n1omen nel teatro n1o, è quindi un diaframma, un collante che sutura la distanza, è il medium che permette l’incontro tra ciò che è stato e ciò che è e che istituisce, sulla scena, il presente come tempo comune tra uomini e dei e pubblico e personaggio-attore: “la sua funzione consiste nel presentare una serie di forme intermedie, che assicurano il passaggio dal simbolo al significato, dal magico al normale, dal soprannaturale al sociale. Ha dunque, allo stesso tempo, la funzione di mascherare e di smascherare” (Lévi-Strauss 1964: 293; cfr. anche Lévi-Strauss 1979). Un’ultima riflessione sulla sezione del IV libro del F1ushi-kaden presa ora in considerazione per delineare un ulteriore tassello posto da Zeami a tutela di solide e auguste fondamenta alla propria arte e alle proprie origini: l’etimologia del vocabolo sarugaku. Come avverte Sieffert si tratta di un’operazione inventata e architettata da Zeami: “per saru, egli adopera regolarmente, non il carattere «scimmia», ma quello che designa la «scimmia» nello zodiaco. Ora, quest’ultimo entra nella composizione del carattere kami, «dio», primo carattere del composto kagura; il secondo è quello letto gaku in sarugaku, di conseguenza sarugaku può essere considerato come una sezione, una parte di kagura. Infine, i caratteri di sarugaku possono essere letti: tanoshimi wo m1osu, «comunicare la gioia»” (Sieffert in Zeami 1960: 112). Stabilito e provato come nel momento aurorale del Giappone, raccolto attorno alla Casa Yamato e all’introduzione e armonizzazione del Buddhismo con i culti autoctoni, il sarugaku era ben presente e operativo e che, in più, gli esponenti di spicco del tempo, gli eccezionali artefici di quel mirabile processo non solo si affidarono al potere di quest’arte per garantirsi il successo ma, addirittura, “offrirono” i loro servigi per donargli le prime maschere e il primo repertorio, Zeami fissa un’altra pietra miliare del proprio percorso nel periodo Heian (794-1185). “Item, nella Capitale della Pace, durante il regno dell’Imperatore Murakami, alcune Note concernenti il sarugaku-ennen scritte un tempo dal pennello di J1og1u-taishi, caddero sotto gli occhi dell’Imperatore; [vi era scritto], in riassunto, che, mediante satire e pa-

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role ricamate, nate nell’età degli dèi e nella patria di Buddha, trasmesse poi a Gesshi [zona della Cina] e Shindan [Cina], e quindi alle regioni del Sole, erano assicurate l’esaltazione del Buddha e la rivoluzione della Ruota della Legge, si scacciavano le influenze demoniache e si attirava la felicità; era detto che se si fossero rappresentate danze di sarugaku, l’Impero sarebbe stato pacificato, il popolo placato e la vita degli uomini prolungata. Poiché il pennello del Taishi aveva tracciato queste meraviglie, l’Imperatore Murakami pensò che convenisse invocare gli dèi a favore dell’Impero con un sarugaku; ora, in quel tempo, tra i discendenti di K1okatsu, colui che conservava la tradizione dell’arte del sarugaku era Hata no Ujiyasu. Questi interpretò per Sua Maestà le sessantasei opere di sarugaku al Shishinden. In quel tempo [viveva] un uomo di nome Kinogon no Kami; era un uomo di grande talento. Era il marito della sorella minore di Ujiyasu. Quest’ultimo interpretava anche dei sarugaku prendendolo come compagno. In seguito, giudicando difficile recitare le sessantasei opere in una sola giornata, si effettuò una scelta che si fissò sulle tre seguenti: Inazumi-no-Okina (Okina-men), Yonatsumi-no-okina (Samba-sarugaku) e Chichi-no-jo1 . Sono le «tre opere di cerimonia» di oggi. Simbolizzano il Nyorai sotto i suoi tre aspetti della Legge, della Retribuzione e dell’Adattamento. Nelle Note complementari si troverà la tradizione orale circa le tre opere di cerimonia. Mitsutar1o Komparu è il discendente di questo Hata no Ujiyasu alla ventinovesima generazione. Questa [stirpe] costituisce la compagnia Emman.i della provincia di Yamato. In questa casa sono conservati tre tesori, trasmessi di generazione in generazione fin dai tempi di Ujiyasu: una maschera di demone, opera di Sh1otokutaishi, un’immagine del dio di Kasuga e un osso del Buddha” (Zeami 1960: 113-114).

Il periodo Heian (Heian Jidai) rappresenta, nella storia culturale giapponese, un punto di riferimento ideale in cui le schermaglie politiche si sublimarono spesso in agoni poetici, in cui la prosa fu sostituita nelle sue funzioni dalla poesia, in cui un mondo chiuso e autoreferenziale, la corte, prima di esaurire il proprio slancio creativo nel continuo ripensamento di se stesso e dei propri modelli e valori produsse esempi insuperati di stile e stordente raffinatezza (cfr. Morris 1964): i costumi del n1o (sh1ozoku), ad esempio, sono spesso ricalcati sulla moda del periodo Heian. Lo spostamento della capitale da Nara a Heyanky1o (letteralmente capitale della pace), odierna Ky1oto, si configura come atto politico necessario alla corte per affrancarsi dalle ingerenze delle forze buddhiste o almeno per allentarle. La prima fase del Buddhismo giapponese, infatti, fu orientata più ad una pratica di governo che non di salvezza. Heyanky1o fu costruita, come prima Nara, su modelli topografici e geomantici cinesi, il feng shui – letteralmente vento e acqua – secondo il quale “ogni collina, ogni edificio, parete, finestra e angolo, ed il modo in cui questi si rapportano al vento e all’acqua ha un effetto ben preciso” (Rossbach 1983: 14), a sottolineare l’ancora forte attaccamento al potente vicino. Ciò nonostante proprio con il IX secolo, in coincidenza della decadenza Tang, il Giappone cominciò ad emanciparsi da tale influenza e ad operare per un progressivo adattamento della cultura cinese alla realtà giapponese e una profonda valorizzazione del genio autoctono: le ambasciate ufficiali in Cina furono interrotte e il Giappone, nel suo complesso, attraversò un periodo di autotelico isolamento.

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Pochi anni dopo il 1000 vide la luce una delle più straordinarie opere letterarie di ogni tempo e luogo, il Genji Monogatari della dama di corte Murasaki Shikibu, un affresco vivissimo e coinvolgente della vita di corte dell’epoca: “come in un giardino in miniatura dell’Asia orientale, nel Genji monogatari la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo è perfetta: la descrizione di una società raffinata ma così involutamente richiusa su se stessa da apparire claustrofobica, diventa un resoconto completo della realtà, un inventario del mondo. Anzi, è proprio attraverso una rigorosa definizione del campo visivo, con l’esclusione quasi totale degli elementi che non appartengono alla società di corte, che il ristretto ambiente sigillato tra fragili ma invalicabili cortine di legno e carta acquista le dimensioni di un universo” (Amitrano in Murasaki 1992: V). Sarebbe di enorme interesse approfondire l’analisi del Genji monogatari per i numerosi spunti e rimandi riconducibili al teatro n1o, ma per evitare un eccessivo ampliamento del fronte d’indagine mi limiterò ad una breve digressione. La stesura del romanzo, inoltre, è di appena tre decenni successiva al regno di Murakami da cui Zeami principia la sezione del IV libro ora in esame. Per comprendere la portata dell’opera ecco come ne introduce la lettura Maria Teresa Orsi: “se non sembrasse un paradosso, potremmo dire che il Genji monogatari sta alla letteratura giapponese come A la recherche du temps perdu sta alla letteratura europea e occidentale del Ventesimo secolo, con la differenza che mentre per motivi storici l’influenza di Proust copre poco più di un secolo, quella del Genji attraversa l’intera storia della letteratura giapponese. Non soltanto esso si è imposto fin dal momento della sua creazione come un’opera di straordinario interesse, ma è diventato un modello a cui infinite volte si sarebbe fatto ricorso nei secoli successivi. Il suo esempio diretto avrebbe dato vita, dall’XI al XVI secolo almeno, a un tipo di romanzo che riproduceva la vita, i passatempi e le preoccupazioni della nobiltà di Corte, dominato dalla loro visione estetica e sociale, che avrebbe riproposto temi e situazioni del Genji monogatari, deliberatamente utilizzando lo stesso tipo di linguaggio, isolando anche il contesto culturale che ad esso si ispirava e separandosi dalla realtà di un paese che mutava in modo radicale. Ma il Genji ha offerto spunti anche al teatro no1 , poi alla prosa dei secoli XVII e XVIII che ne rielaborava temi e situazioni. E ancora nel corso del XX secolo, nel Giappone moderno e occidentalizzato, scrittori come Tanizaki Jun’ichir1o, Kawabata Yasunari, Mishima Yukio, e fra le donne Enchi Fumiko, insomma quelli che sono considerati i maestri della letteratura moderna, hanno più o meno direttamente reso omaggio a quel modello” (Orsi in Ciapparoni La Rocca 2001: 65-66). Il Genji è un’opera fiume dall’intreccio complesso, a volte ellittico e difficilmente afferrabile nella quale, sulla sponda del pensiero buddhista e del suo cerimoniale, del sincretico influsso dello shintoismo e della pietà filiale confuciana – l’etica confuciana non è per la verità un tratto dominante seppur presente –, in oltre cinquanta capitoli si avvicendano più di trecento personaggi tutti profondamente indagati e penetrati psicologicamente dall’autrice.

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Da porre in particolare evidenza è il rapporto tra natura e artificio, magistralmente composto da Murasaki. Il rapporto tra questi due aspetti è, a mio avviso, analogo a quello rinvenibile nel teatro n1o e in molte arti tradizionali giapponesi come ad esempio l’ikebana o la cerimonia del tè: “il Genji monogatari è opera di notevole sofisticazione stilistica, anche se questa affermazione potrebbe stridere con l’impressione di spontaneità e innocenza che la lettura comunica nel fluido abbandono della narrazione. Un’impressione dettata in parte dall’arte del racconto che Murasaki Shikibu esercita con un piacere così fisiologico da far pensare a un puro gusto dell’affabulazione, in parte dallo stile di «racconto orale caratteristico» del monogatari” (Amitrano in Murasaki 1992: VII). Sul piano letterario il Genji monogatari e la drammaturgia no1 potrebbero apparire agli antipodi: ampio e straripante il primo, stringato ed essenziale il secondo entrambi, attraverso un processo di accumulazione o sottrazione – il secondo nella sua accezione di testo spettacolare (cfr. De Marinis 1988) – pervengono, in un ossimoro solo apparente, ed effetti di artefatta naturalezza. Nell’ikebana poco sopra richiamata tutto ruota attorno a regole compositive assai precise atte a far scaturire l’armonia e la spontaneità proprio grazie all’artificio della composizione. “Questo può apparire assurdo in quanto, di solito, si intende l’idea di regola opposta a quella di spontaneità, e così pure le corrispondenti «pratiche». Tuttavia basta pensare alla spontaneità della natura per accorgersi immediatamente che le attività e le variazioni continue proprie delle sue manifestazioni sono regolate da leggi precise, anche se non determinabili e determinanti in modo assoluto. Nell’ikebana, come nel sumie, o come nel teatro no1 le regole sono presenti ed anche «forti»: ma sembrano esser state pensate proprio per essere superate, per essere «interpretate» come nel caso di una esecuzione musicale. […] Se, invece, la regola viene assunta come mezzo per far emergere le qualità proprie del materiale, allora non entra più in conflitto con al spontaneità, ma risulta esserne una funzione. Nell’ikebana questo processo appare particolarmente intenso: lo schema serve soltanto a creare quelle condizioni formali ottimali perché emerga la natura dei fiori, perché si riveli il «cuore dei fiori» (hana no kokoro)” (Pasqualotto 1992: 115). Tanto più, quindi, l’artificio governato da regole compositive precise si spinge al suo estremo – per eccesso o difetto – tanto più prossimo si fa il suo precipitare in natura. Il periodo Heian ha avuto pure una importante e intensa vicenda politica e sociale, non solo culturale e artistica. L’impero di Murakami, ad esempio, si situa proprio nel momento di massimo fulgore e potere della famiglia Fujiwara il cui maggior esponente, Fujiwara no Michinaga, visse tra il 966 e il 1027. Questo periodo, durato più o meno dalla metà del X secolo alla metà dell’XI, è noto come Dittatura Fujwara (Sekkan seiji). I Fujiwara seppero intrigare così bene da garantirsi l’esclusiva nella fornitura di mogli agli imperatori unitamente all’elezione di imperatori bambini per poter manovrare le redini del governo attraverso la reggenza del nonno materno. Forse a questi scontri intestini fa riferimento Zeami nel richiamare nuovamente il potere del sarugaku nel difficile e necessario compito di pacificare l’impero.

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La dittatura Fujiwara risultava già indebolita verso la metà dell’XI secolo e la casa imperiale, con un sistema di reggenza analogo a quello adottato dai Fujiwara ripristinò il proprio potere. Tale sistema prese il nome di insei e prevedeva la salita al trono di imperatori giovanissimi – non più nella linea di sangue femminile Fujiwara – mentre la gestione del potere reale rimaneva nelle mani dell’imperatore abdicatario. La reggenza come modalità di gestione e trasmissione del potere, basata su uno sdoppiamento tra potere reale e nominale al fine di una maggiore garanzia di mantenimento dello stesso nel proprio ambito famigliare, suggerisce l’individuazione di un doppio canale di conservazione e trasmissione del sapere tradizionale anche in riferimento al n1o. Si scopre che J1og1u-taishi (il principe Sh1otoku) non solo è lo scultore delle prime n1omen ma è anche, se non il primo storico, il primo memorialista di quest’arte. Grazie al suo pennello, infatti, a beneficio dei posteri sono state fissate alcune Note concernenti il sarugaku-ennen. La sua, per quanto probabilmente mai esistita (cfr. Sieffert in Zeami 1960: 113), non sembra un’opera a carattere tecnico o estetico o poetico, ma un documento attraverso il quale si segnala e si suggerisce quest’arte quale potente ed efficace mezzo di azione nel sociale. La possibilità di applicare tale mezzo con efficacia, però, è reso possibile solo tramite il secondo percorso di conservazione e trasmissione del suo sapere, quello orale pertinente agli attori. Colui “che conserva la tradizione del sarugaku” è Hata no Ujiyasu, discendente di Hata no K1okatsu e ascendente alla ventinovesima generazione di Mitsutar1o Komparu: la famiglia Komparu è una delle cinque famiglie tradizionali di n1o operative ancora oggi e la famiglia in cui almeno una parte dell’eredità di Zeami è confluita. Zeami, forse senza neppure immaginarlo, ha saputo raccogliere in sé entrambi i percorsi: la profondità dei suoi scritti, che attraversano l’estetica e la poetica nonché la funzione e la prassi del n1o da lui stabilite, hanno acquisito per gli attori odierni lo stesso valore identitario e costitutivo riconosciuto dal fondatore alle Note di Sh1otoku. In più Zeami ha lasciato una genia di attori che quel patrimonio ideale reificavano e reificano quotidianamente nell’esercizio e sulla scena. Il n1o, dopo Zeami, non ha più dovuto cercare fuori dal proprio ambito le giustificazioni al proprio esistere e al proprio status e ruolo sociale: in questo successo si radica il titolo di padre fondatore unanimamente riconosciuto a Zeami. Sempre nella medesima sezione delle Origini rituali Zeami definisce l’antichità del tessuto drammaturgico del sarugaku e della sua resa. Sieffert, in nota, spiega come l’espressione “satire e parole ricamate” designi “in origine ogni testo in prosa e versi. Qui sembra applicarsi a testi destinati ad essere cantati” (Sieffert in Zeami 1960: 113). I libretti n1o compongono un elaborato e raffinato ricamo di parole e versi, spesso dal tenore lirico, e vengono ancora oggi offerti al pubblico tramite il canto (utai) o un recitativo cadenzato e cantilenante (kotoba). Nel testo, non meglio introdotto e mai più richiamato successivamente, appare poi tale Kinogon no Kami, marito della sorella minore di Ujiyasu. Il suo ruolo sembra

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istituire quello del waki, il deuteragonista, l’attore secondario che agisce in scena assieme allo shite, il protagonista. Potrebbe in qualche modo riferirsi anche agli tsure, attori comprimari che provengono dalla stessa scuola degli shite e che in scena sono compagni di quest’ultimo. Zeami riconosceva un ruolo rilevante a waki e tsure, soprattutto per un attore non più giovanissimo che stava progressivamente perdendo – a prescindere dal talento e dalla maestria raggiunte – la bellezza e la forza naturalmente presenti in un corpo giovane. Nel I libro del F1ushi-kaden, Osservazione sugli esercizi età per età, per gli attori di quarantaquattro, quarantacinque anni afferma: “a partire da questa età, i mezzi [da adoperare] per il n1o dovranno essere, nell’insieme, modificati. Qualunque sia la consacrazione ottenuta presso il pubblico, anche se si fosse raggiunta una conoscenza perfetta del n1o, sarà tuttavia necessario assicurarsi un bravo comprimario” (Zeami 1960: 80-81). Da rilevare, prima di passare alla successiva sezione del IV libro, la pregnanza della coincidenza tra la stirpe di Mitsutar1o Komparu e la compagnia Emman.i. Anche qui osserviamo il confluire in un unico canale di due rivoli separati, quello della discendenza di sangue e quello della discendenza artistica: la tecnica e i mezzi espressamente artistici divengono un patrimonio specificatamente familiare al pari di un qualunque oggetto materiale: la tecnica, come una maschera, un costume o un teatro è proprietà della famiglia che soprassiede al suo corretto mantenimento, alla sua trasmissione e che ne è genitrice e garante. La via del no1 , come tutte le altre vie, non è preclusa ad alcuno, ma la scuola, espressione in atto di una famiglia, sarà sempre governata e guidata da un membro della famiglia stessa: la scelta di uno iemoto è un affare squisitamente domestico. Su questi presupposti si aggregheranno le za, le prime compagnie o scuole di n1o e le successive, nel periodo medievale, associazioni teatrali. Proprio alle compagnie, in particolare a quelle operanti nello Yamato, e alle loro funzioni in ambito religioso, Zeami dedica la parte conclusiva delle Origini rituali: “Item, oggigiorno, durante lo Yuima.e, al K1ofuku-ji, nella capitale del Sud, in occasione del servizio religioso che si svolge nella stanza-delle-omelie, si eseguono danze di ennen nella stanza dei privilegi. Si placano [così] gli spiriti maligni e si scongiurano le influenze demoniache. Intanto, davanti alla stanza-delle-omelie, si spiega il su1 tra in questione: questo avviene secondo il fasto antico del monastero di Gion. Detto ciò, quello che si intende per la celebrazione del servizio religioso di Kasuga e del K1ofuku-ji nella provincia di Yamato, il due e il cinque della seconda luna, è il sarugaku delle quattro compagnie di quei templi, che è il primo dei servizi religiosi dell’anno. È una invocazione agli dèi per la pace dell’Impero. Item, quattro compagnie di sarugaku partecipano al servizio religioso di Kasuga, provincia di Yamato: Tohi, Y1usaki, Sakato e Emman.i. Item, tre compagnie di sarugaku partecipano al servizio religioso di Hie, provincia di Omi: Yamashina, Shimosaka e Hie.

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Item, in Ise, due compagnie di sh1ushi. Item, tre compagnie prendono parte alle feste della prima luna nello Hossh1o-ji: Shinza (residete in Kawachi), Honza (Tamba) e H1oj1o-ji (Settsu). Queste tre ultime compagnie partecipano ugualmente ai servizi religiosi di Kamo e di Sumiyoshi” (Zeami 1960: 114-115).

Zeami giunge così all’oggi, ai primi anni del XV secolo. L’oggi ripete, ciclicamente, quanto accaduto nel passato e il passato era già ripetizione di quanto accaduto nel tempo prima del tempo. Il cerchio si chiude e lascia esplicitamente intendere che ciò che è stato è ciò che sempre sarà. Tutta l’operazione a rebours di Zeami è motivata dal futuro, unico luogo di senso per il passato e il presente. Raggiungere il successo ma ancor più il proprio compimento umano e artistico non può essere in alcun modo disgiunto dal trasferimento di questo immenso e inestimabile patrimonio alle generazioni future: “è detto, nei Segreti: «Dunque, quello che si chiama “arte”, per il fatto che placa gli spiriti di tutti gli uomini e suscita l’emozione nei grandi e negli umili, potrebbe costituire il punto di partenza di un accrescimento di longevità e di felicità, un mezzo per prolungare la vita. Portate fino alla perfezione, tutte le vie assicurerebbero un accrescimento di longevità e di felicità». Nella nostra arte in modo particolare, giungere al grado di perfezione più elevata e trasmettere alla posterità la fama della propria casa, questo significa ottenere la consacrazione pubblica. È questo l’accrescimento di longevità e di felicità” (Zeami 1960: 120-121). Zeami dimostra una profonda conoscenza della storia giapponese e delle sue fondamenta mitiche nonché un’intelligenza acuta e selettiva nell’ancorare la propria particolare vicenda a momenti e personaggi nodali del mondo cui vuole appartenere e aderire. Le Origini rituali mi sono parse un ottimo esempio della continuità tra mito e storia e per questo ho cercato, a partire dal dettato zeamiano, di tessere le fila che collegano quelle parole agli accadimenti storicamente verificabili, ai valori ideali e agli aspetti tecnico-formali sui quali Zeami ha abbozzato l’identità propria e della propria arte. La lista delle varie compagnie operanti nelle diverse regioni del Paese e collegate a templi e feste, in conclusione, è un interessante mappatura della situazione al XV secolo. Di tutte solo quattro sono oggi esistenti; tutte esponenti di un unico genere spettacolare, il n1o, e provenienti da una sola regione, Yamato: il n1o si impose presto quale genere egemone, almeno tra l’élite culturale ed economica. Le quattro compagnie Yamato sono oggi ancora operative sotto il nome delle scuole che ne hanno perpetrato l’arte e la discendenza familiare: Tohi-H1osh1o; Y1usakiKanze; Sakato-Kong1o; Emman.i-Komparu. La quinta delle cinque scuole tradizionali ancora in attività è la Kita, originata solo all’inizio del XVII secolo.

Capitolo III

I valori di una tradizione

L’oggi di Zeami corrisponde al periodo Muromachi (1338-1568) conosciuto anche come Muromachi bakufu o Ashikaga bakufu. Assieme al precedente periodo Kamakura (1185-1333) delimita il medioevo giapponese (ch1usei), una “fase di evoluzione che costituisce la storia del processo graduale dell’acquisizione, da parte della classe samuraica, d’un pieno potere de facto, riconoscendo agli imperatori soltanto l’autorità spirituale e non di rado volgendola a proprio vantaggio. Quindi, diversamente dall’omonima epoca europea, il medioevo giapponese sarebbe da considerare come una lunga fase preparatoria del feudalesimo a pieno titolo. Il ruolo storico che spettò ai bushi fu quello di demolire le istituzioni aristocratiche e di instaurare il regime feudale onde portare avanti la storia giapponese” (Takeshita 1996: 69). Nel capitolo precedente gli approfondimenti alla storia giapponese si sono interrotti al periodo Heian, periodo in cui la corte e l’aristocrazia vissero un isolamento dorato e autocelebrativo. Proprio a causa della loro latitanza dal mondo esterno il Paese conobbe periodi di disordine: i cortigiani disertavano la funzione di controllo e gestione sui territori loro assegnati e, anziché esercitare il proprio ruolo nelle province, preferivano non abbandonare mai la capitale e i suoi lussi. Con l’intento di difendere i terreni e gli interessi amministrati in proprio, invece, alcuni proprietari terrieri cominciarono ad armarsi e ad organizzarsi “in gruppi chiamati bushidan con il rapporto reciproco di «fedeltà ↔ protezione»; in un secondo tempo più bushidan si coalizzarono, sempre mediante vassallaggio, in unità maggiori, ciascuna sotto il comando di un capo detto bush1o (lette. Comandante dei guerrieri) del gruppo nucleare. Così, sorsero qua e là diversi corpi armati di grande o piccolo organico” (Takeshita 1996: 47). L’aristocrazia Heian non solo dette la stura alla nascita di una forza sociale che di lì a poco avrebbe avocato a sé il potere e la definizione di valori e principi di vita fino alle soglie della modernità ma, addirittura, con l’intento di godere della sua protezione armata la fece convergere sulla capitale aprendole le porte della corte. Obiettivo di questo capitolo è rilevare i valori e i principi su cui è fondato il lungo periodo del potere militare, lo shogunato, non solo perché è il contesto di stesura dei Trattati di Zeami, ma anche perché delimita il mondo all’interno del quale il no1 fiorì e gli attori innescarono l’ancora inesausto meccanismo di trasmissione dei saperi.

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Il primo shogunato ebbe la propria sede di governo a Kamakura, non lontano dall’odierna T1oky1o, e il lasso di tempo compreso tra il 1185 e il 1333 è noto attraverso tale toponimo. Minamoto no Yoritomo, capo dell’influente clan dei Genji (Minamoto uji), a seguito della vittoria riportata sugli Heishi (o Heike, Taira uji) divenne l’uomo più potente del Giappone. La vicenda dei due clan, a testimonianza dell’importanza rivestita, è narrata in uno dei massimi capolavori della letteratura nipponica, lo Heike monogatari (Storia della famiglia Taira), espressione somma del genere letterario guerresco (gunki o senki monogatari) risalente alla prima metà del XIII secolo. Gli storici osservano che Yoritomo, dalla posizione raggiunta, avrebbe potuto senza grandi difficoltà usurpare l’impero alla casa Yamato. Ciò non accadde, anzi Yoritomo “non tentò di ottenere il trono per se stesso o i suoi discendenti, né provò a distruggerlo, ma cercò nella corte la legittimazione del suo potere attraverso il titolo di seii tai-sho1 gun, «generalissimo che sottomette i barbari», di solito abbreviato in sho1 gun. Questo titolo gli fu concesso nel 1192” (Henshall 1999: 58). Un aspetto fondamentale al presente studio emerge chiaramente dalla nascita dello shogunato appena ricordata: l’identità. Nei capitoli precedenti il tema dell’identità ha avuto un grande rilievo, quasi ridondante, fungendo da catalizzatore del senso proiettato dal mito e dalla storia o dal loro intreccio. Nel contesto proposto la platea semantica del termine identità è fecondamente ampliata da quella del termine essenza: l’identità, che definisce l’unicità di una persona o una cosa – è ciò che è e non altro – deve arricchirsi della storia e delle motivazioni che hanno prodotto o condotto al formarsi di tale identità, della necessaria appartenenza alla natura che gli è propria, che ne costituisce, appunto, l’essenza. La scelta di Yoritomo si inscrive in questa prospettiva tipicamente giapponese non rilevabile in modo analogamente lapalissiano in altre realtà culturali: il generalissimo opta per essere la massima espressione di ciò che egli è come persona compiendo il destino più alto consentito alla propria stirpe. Quanto affermato si giustifica sul piano antropologico ricordando l’origine mitica del Giappone, del suo imperatore e del suo popolo: ogni giapponese, nella propria ascendenza, incontrerà prima o poi un kami di rango più o meno elevato. Gli unici, in questo percorso a ritroso, a poter vantare la dea Amaterasu come progenitrice e il conseguente diritto al trono sono i discendenti Yamato. Identità e discendenza formano un’inestricabile realtà di cui la famiglia è gelosa depositaria e orgogliosa espressione. Riecheggia, nel comportamento di Yoritomo, anche il richiamo shintoista alla purezza intesa non tanto nella sua accezione di purificazione necessaria e preventiva alla partecipazione o esecuzione di riti cultuali, ma quale fedeltà al modello e alla volontà celeste proiettate sul piano umano: uno degli emblemi imperiali, e shintoisti, è lo specchio latore di “una luce pura che riflette ogni cosa così com’è” (Ono 1962: 33). Non è allora secondario osservare come, nel momento in cui il Giappone assorbì dalla Cina l’idea di un sovrano assoluto al vertice della piramide sociale rigettò l’ipotesi di fare propria l’istituzione del «mandato celeste», istituzione secondo la qua-

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le il sovrano regna fintanto che il suo operato è onesto e virtuoso quanto il Cielo richiede: un mandato temporaneo, quindi, al quale gli Yamato opposero una legittimazione eterna per discendenza divina di marca squisitamente autoctona. Yoritomo, conformandosi al modello di pensiero evidenziato, scarta l’ipotesi di rovesciare il sistema imperiale per avocare a sé il trono e, paradossalmente, proprio “sottomettendosi” all’ordine costituito ottiene il potere cui ambisce. Traslato analogico in campo teatrale è il meccanismo secondo il quale l’allievo, prima di pervenire ad una qualche libertà espressiva e interpretativa, deve sottostare alle regole della propria via rappresentate dalla tecnica e incarnate dall’autorità riconosciuta tradizionalmente ai maestri: l’autonomia e l’autorità sono il premio garantito dall’obbedienza, dall’umiltà. Solo un maestro affermato, la cui personale cifra interpretativa sia scaturigine di una consapevolezza tecnica totalmente acquisita e connaturata, può introdurre elementi di novità e cambiamento senza minare la validità della tradizione di cui è figlio. L’identità, in ultima analisi, sembra essere la risultante sinergica delle leggi immutabili del gruppo – il macrocosmo – valorizzate e ridefinite attraverso l’aggiunta creativa delle peculiarità assolute e irriducibili dell’individuo – il microcosmo. Con la richiesta di riconoscimento avanzata da Yoritomo il potere militare innescò la sua effettiva ascesa. Nel conseguente ridimensionamento del ruolo secolare dell’imperatore, forse inconsapevolmente, il bakufu creò le condizioni per la conservazione, in latenza, del potere imperiale – ripristinato infatti nella seconda metà del XIX secolo proprio ai danni dello shogunato – e per l’incremento del valore simbolico del Tenn1o. “Alcuni ricordano che il termine Tenn1o ha numerosi collegamenti con le dottrine Taoiste cinesi, allora assai popolari alla corte nipponica. Tenno1 , in terminologia Taoista indicava, tra l’altro, la Stella Polare. Se così fosse potremmo ben dire che l’astro immobile intorno al quale ruota l’intera volta celeste, diviene avvincente metafora per il personaggio terreno attorno al quale ruota, o dovrebbe ruotare, l’orbe complesso della vita religiosa, civile, economica, e militare del paese” (Maraini 1995: 17). In modo più visibile dopo il periodo Kamakura, durante il quale l’impero giocò ancora, o tentò di giocare, un ruolo attivo, lo shogunato fu il sacello in cui segretamente – per lunghi tratti, soprattutto durante il periodo Tokugawa (1603-1868), le masse quasi ignorarono l’esistenza di un Tenn1o – e inesorabilmente il cuore pulsante dell’identità ancestrale nipponica è stato nutrito e conservato: nessuno sh1ogun ha mai ambito all’impero e tutti, come il primo, hanno chiesto e ottenuto la legittimazione imperiale. “Il nostro compianto Paolo Beonio-Brocchieri, col suo gusto per i paradossi eleganti e ingegnosi, amava ripetere che la dinastia giapponese dei Tenn1o è tanto forte perché tanto debole. Sta. Rappresenta. Significa. Non si muove, non delibera. È. Come appunto la stella polare in una notte smisurata, popolata d’altri astri che gli ruotano intorno. La sopravvivenza dell’istituzione dei Tenno1 da Godaigo (XIV secolo) al Tenn1o K1omei (r. 1846-1867), ha del miracoloso; la salvò il suo contenuto sciamanico e magico, la salvarono i suoi fili invisibili collegati con l’Invisibile, di cui garantiva un atteggiamento benigno verso governanti e popolo. Certo, valeva anche

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la convenientissima finzione del potere supremo e spirituale, che la dinastia possedeva nell’ottica dei tempi, e le dava la capacità di legittimare il potere reale, fondato su unità militari e fortezze, quello degli Sh1ogun che governavano il paese” (Maraini 1995: 18-19). La netta separazione tra il potere de facto, andato al governo militare, e il potere ancestrale rimasto pertinenza imperiale, si stabilizzerà nel corso del XIV secolo ripresentando nuovamente una struttura binaria attraverso la quale verrà garantita la continuità – pur con variazioni – ad un modello ritenuto valido: Izanagi e Izanami; Amaterasu e Susano-O; impero e reggenza; impero e bakufu: “demolire le istituzioni aristocratiche e instaurare il regime feudale onde portare avanti la storia giapponese” (cfr. Takeshita 1996: 48, corsivo mio). Il modello è preservato, la sua forma garantita sebbene intimamente rimotivata su nuovi presupposti e intenti, in ossequio all’ortoprassia che alligna nell’animo nipponico. La struttura binaria funge da meccanismo di sicurezza: nel momento in cui una linea si trova in difficoltà – o, perché no, è messa in difficoltà dall’altra – la seconda interviene, tramite i modi, la forma e le caratteristiche – l’identità – che le sono propri a mantenere attivo il dinamismo, a mantenere in vita il divenire dell’unica realtà di cui è complemento. Alle coppie appena sopra menzionate è allora affiancabile quella formata da Sh1otoku Taishi e Hata no Ujiyasu quale antesignana delle linee di conservazione dei saperi teatrali propri del no1 attraverso fonti scritte e tradizione orale. Si rientra così nella logica del Tao: la vita del divenire pur dovendo tendere all’equilibrio delle forze in campo deve non potersi mai arrestare in esso. Correttivo necessario alla possibile empasse è il modello ordinatore gerarchico in qualche modo già inscritto nello stesso sistema binario rinvenuto. Un buon esempio può essere tratto dal rapporto, continuamente verificabile nella storia della società giapponese, tra autorità formale e potere reale: “generalmente un’alta autorità non esercita un grado altrettanto elevato di potere effettivo, ma conferisce legittimità – a volte sotto forma di un titolo, e altre tramite l’esercizio di pressioni – a chi effettivamente detiene il potere reale e afferma di usarlo in nome di tale autorità. Il fatto poi che il primo sia garante della legittimità del secondo, gli assicura un certo grado di protezione, chi viene legittimato, a sua volta, può dare legittimità a quelli che sono sotto di lui, e così via. Da un lato si tratta di una spartizione delle responsabilità, dall’altro di un ordinamento gerarchico dell’autorità” (Henshall 1999: 59). La fortuna di Zeami, come ora è più chiaro, oltre che al talento si deve in buona parte all’estensione di questo principio. Divenuto il preferito dello sh1ogun Ashikaga Yoshimitsu, Zeami entra a corte. Sotto la protezione e l’imprimatur del potente signore può seguitare nel processo di consolidamento, sul piano artistico e sociale, del n1o e dei suoi esponenti iniziato dal padre Kan’ami. “Nato nella provincia di Igo (odierna prefettura di Mie), ove aveva formato una compagnia (za) di attori girovaghi, Kan’ami in seguito si trasferì nella provincia di Yamato (attualmente prefettura di Nara), ove ottenne la protezione dei monaci del tempio buddhista K1ofukuji e in breve tempo divenne un attore molto famoso, che con la sua troupe proponeva spet-

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tacoli in province diverse. Aveva circa quarant’anni quando trasformò profondamente la sua arte di attore, fondendo la musica melodica delle kouta (piccole canzoni) con quella ritmica delle danze kusemai in un nuovo inconfondibile stile. Nel 1374 lo sh1ogun Ashikaga Yoshimitsu lo vide recitare in un sarugaku in un tempio di Ky1oto e, affascinato dalla sua arte, lo prese sotto la sua protezione; accolto a corte divenne un d1oh1o o d1ob1o dello sh1ogun (cameriere personale che aveva l’obbligo di portare gli abiti dei preti buddhisti e godeva del privilegio di poter aggiungere al proprio nome la desinenza religiosa ami, pur potendo avere famiglia) e mutò il proprio nome giovanile Kanzemaru in quello di Kan’ami. Cominciò così un periodo fondamentale per l’arte di Kan’ami, che continuamente si arricchì e perfezionò raffinando le tecniche compositive e interpretative: dallo sviluppo del sarugaku, che si modificò sempre di più nei confronti del dengaku [chiarimenti e approfondimenti agli sviluppi di sarugaku (danza della scimmia) e dengaku (danza delle risaie) sono contenuti in Azzaroni 1998: 273-284 e Ortolani 1990: 75-105, nda] che lentamente perse di importanza. Questo processo fu interrotto dalla sua morte, sopraggiunta a Suruga, ai piedi del monte Fuji, durante una tournée della compagnia da lui diretta. Tuttavia la morte di Kan’ami non arrestò l’opera intrapresa, perché suo figlio Fujiwakamaru, giovane dotato di ingegno e qualità artistiche eccezionali, divenuto a dodici anni il favorito dello sh1ogun Ashigaka Yoshimitsu (Waley 1921: 19), proseguì il lavoro paterno” (Azzaroni 1998: 285-286). Yoshimitsu si rivelò personalità di spicco, di eccellente acume politico, e la sua corte fu uno degli ambienti culturali più stimolanti e ricchi che il Giappone abbia mai conosciuto. “Un’ondata di rinnovato interesse per la religione e la cultura cinese creò un clima congeniale alle arti di ispirazione cinese, di modo che, se non per le imprese politiche, numerosi sh1ogun Ashikaga si distinsero almeno per il superbo gusto artistico. Lo zen e le arti con esso collegate fiorirono specialmente all’epoca dello sho1 gun Yoshimitsu. L’amore di questi per la cultura portò a stravaganti eccessi, che quasi superarono quelli, di tre secoli più antichi, di Fujiwara Michinaga. Molti dei monasteri zen di Ky1oto oggi famosi furono eretti proprio mentre Yoshimitsu era al potere. Tra essi, particolarmente importante è il Sh1okokuji, fondato nel 1382, che divenne il centro degli studi zen, nonché la residenza di generazioni di influenti studiosi-monaci e monaci-artisti. Le ricerche estetiche di Yoshimitsu furono eguagliate da quelle dell’ottavo sh1ogun Ashikaga, di nome Yoshimasa (1435-1490), la cui cattiva direzione del governo viene sovente citata come causa diretta del declino dell’autorità degli Ashikaga” (Murase 1996: 178). Quanto imputato a Yoshimasa, in merito a cattiva gestione del potere, non può essere, come peraltro anticipato, considerato valido anche per Yoshimitsu. Comprendendone la smisurata caratura politica e intellettuale, si possono meglio commisurare le motivazioni che spinsero Zeami a creare per la propria arte il glorioso passato ripercorso nel precedente capitolo. Zeami, giovanissimo, si trovò a frequentare l’ambiente sicuramente competitivo e insinuante della corte Muromachi – il nome dato a questo periodo deriva dal toponimo del luogo in cui Yoshimitsu fece co-

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struire una sontuosa residenza nota come Palazzo dei fiori (Hana no Gosho) – in cui la relazione tra il grande sh1ogun e il piccolo attore “mendicante” era vissuta come un disonore per la nazione (cfr. Ortolani 1990: 120). Il fatto che un attore, appartenente ad una classe sociale eufemisticamente definibile come abbietta, seppur abile e talentuoso, avesse libero accesso allo sh1ogun e ai suoi favori destò, infatti, più di qualche malumore: garantirsi il sostegno di una stirpe d’alto lignaggio fu un imperativo assoluto. A protezione del talento artistico, e nell’ottica della costruzione di un nome onorabile, nacquero le za, compagnie di attori professionisti simili alle gilde europee. La competizione tra le varie za era intensa e votata all’accaparramento di zone d’azione monopolistiche in cui guadagnare i favori dei ceti abbienti: “il forte contrasto tra la loro [degli attori] spregevole condizione di fuoricasta da un lato, e la possibilità dall’altro di ricevere il favore non solo delle masse ma anche delle più alte autorità (che poteva implicare vivere a corte e condividere l’eleganza “celestiale” del recinto imperiale o della corte dello Shogun) costituiva un fertile terreno per l’ascesa della maggior parte degli artisti di talento e preannunciava anche la sistematica campagna per stabilire una discendenza che potesse alla fine cancellare il marchio di fuoricasta attribuito loro fin dalla nascita” (Ortolani 1990: 105). Introducendo Zeami e Yoshimitsu si è così marcato il passaggio dal periodo Kamakura al periodo Muromachi. Dopo aver tracciato l’apparire o il confermarsi di aspetti essenziali alla comprensione dell’universo culturale giapponese nella fase iniziale del potere militare – ossia il senso concreto dell’identità, l’ortoprassia, il rispetto gerarchico connesso all’autorità che lo legittima, e l’importanza dell’istituto familiare – l’attenzione deve essere posta allo stimolante ed eclettico milieu Ashigaka: il brano della Murase introdotto poco sopra già testimonia della densità di temi e della loro necessaria problematizzazione. Con gli Ashikaga il potere shogunale si insedia nel cuore stesso della capitale e il sangue dolce e dorato di ques’ultima si trasfonde ad ingentilire il rude agire dei nuovi potenti: “quando a Ky1oto torna il governo militare sotto gli Sh1ogun Ashikaga, la barbarie piena di vigore dei guerrieri viene a patti con la leziosaggine decadente di una corte imperiale estremamente impoverita” (Fréderic 1986: 29). La strada segnata dall’incontro tra la forza e il vigore samuraico – di marca popolare – e l’appercezione estetica dell’esistenza propriamente cortese fu la medesima che innalzò il no1 da divertimento popolare a raffinata espressione teatrale appannaggio delle classi colte. “Non esistono documenti storicamente certi sui modi e i tempi della trasformazione del sarugaku e del dengaku in teatri d’arte, tuttavia è possibile affermare che il teatro classico oggi chiamato no1 (vocabolo sino-giapponese che significa abilità, talento, arte: in origine connotava le capacità dell’attore, in seguito indicò le caratteristiche dell’interpretazione e infine le peculiarità del dramma) è stato l’impareggiabile risultato del raffinamento e dello sviluppo del sarugaku no no1 , dovuto al geniale attore Kan’ami Kiyotsugu (1333-1384) e a suo figlio Zeami Motokiyo” (Azzaroni 1998: 285). Il rapporto padre-figlio, evocato dalla sinergia tra Kan’ami e Zeami, peraltro correlativo delle coppie maestro-allievo e superiore-inferiore, si strutturerà in modo sem-

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pre più rigido nel Giappone dei samurai. Già da una prima osservazione sui sistemi educativi e le norme giuridiche disciplinanti l’eredità si può affermare che le diadi proposte siano tra loro assolutamente intercambiabili. Tralasciando approfondimenti ai contenuti dell’educazione – sintetizzabili in scrittura, conoscenze dei classici cinesi e pratica militare – i samurai “mettevano il loro punto d’onore nell’educare essi stessi i propri figli” (Fréderic 1968: 49). L’attenzione al versante culturale dell’esistenza spinse molti bushi a sostenere, estendendo la loro protezione, templi e santuari al fine di trasformarli in scuole e centri culturali cui inviare i propri figli per una formazione suplettiva, ma concordante, a quella domestica: “i loro figli, pur esercitandosi nel mestiere delle armi, entravano in questi monasteri intorno all’età di dieci anni, e vi restavano per quattro o cinque anni, durante i quali erano costretti a fare un grandissimo sforzo: lettura dei s1utra alla mattina, poi esercizi di calligrafia fino a mezzogiorno. Dopo il pranzo, letture diverse, seguite da esercizi fisici. Infine, la serata era dedicata alla poesia e alla musica, alla pratica del flauto traverso o del flauto a becco, strumenti ritenuti essenzialmente maschili” (Fréderic 1986: 49). Passando rapidamente al sistema ereditario il discorso si complica esponenzialmente ma qui preme soltanto accennare all’assoluta discrezionalità e inappellabilità del capofamiglia. Contrariamente alle abitudini aristocratiche, per le quali una eredità assegnata era garantita e intangibile, tra i samurai nulla vietava ripensamenti e riappropiazioni: chi si vedeva defraudato di un’eredità già ricevuta non possedeva modo alcuno di far valere qualche diritto. Il J1oei shikimoku, in cui nel 1232 i bushi fissarono una loro propria legislatura basata su diritto consuetudinario e regole di classe, forniva indicazioni e formule di garanzia per il primogenito maschio ma, pur rimanendo in vigore, sempre più incontrastato divenne il ruolo e il potere decisionale del singolo capofamiglia. Da quanto brevemente accennato si giustifica l’affermazione proposta secondo la quale un padre è un maestro ed ha un ruolo di vertice e un figlio è un allievo e un subordinato. Per proseguire ed entrare profondamente nelle pieghe della questione aperta, per derubricarne le implicazioni e goderne le sfaccettature, non è più procrastinabile un approfondimento al Confucianesimo e al Buddhismo zen. In virtù del loro mutuo e sinergico operare in seno alla civiltà nipponica Confucianesimo e zen andrebbero trattati seguendone la comune azione ma, per maggior chiarezza e utilità ne proporrò due brevi approfondimenti distinti. Confucianesimo: l’arte totale di essere uomo Confucio, latinizzazione di K’ung Fu-Tzu, ossia Maetrso Kung, visse tra il 551 e il 479 a.C. “La storia vera e propria della filosofia cinese inizia con l’apparizione improvvisa di due poderose figure di pensatori contemporanei – Lao Tz&u e Confucio –

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di divergente orientamento, l’importanza dei quali, specialmente del secondo, non è tanto dovuta alle opere loro attribuite, quanto all’impulso che essi impressero al pensiero e di conseguenza alla civiltà della Cina (quindi di tutto l’Estremo Oriente) per i successivi venticinque secoli di storia” (Filippani-Ronconi 1964: 39). L’insegnamento di Confucio fu prevalentemente, se non esclusivamente, orale ma tale fu la sua influenza che una serie di opere divenute classici del confucianesimo gli furono direttamente attribuite. “Se il termine «confucianesimo», coniato dagli occidentali, ha un significato, è evidente che esso supera di molto la personalità stessa del grande saggio” (Gernet 1972: 77). Alla voce del Maestro K’ung seguì la voce di altri maestri come pure una sterminata serie di opere scritte. Di Confucio può essere ricordata la grande passione per l’insegnamento, una vera e propria vocazione come ricorda Baudouin: “istruito e colto K’ung Ch’iu [Confucio] sa chiaramente ciò che vuole. La sua passione è l’insegnamento. Per tutta la vita continuerà a ripetere una formula che si tramanderà ai posteri: «Io trasmetto, non invento». Come a dire che egli si presenta in veste di depositario e trasmettitore di una cultura ereditata dal passato, che gli sembra doveroso comunicare alle giovani generazioni” (Baudouin 1997: 28). Primo insegnante privato che la Cina ricordi la sua scuola era aperta a ragazzi di qualunque ceto e censo: ogni allievo lo remunerava secondo le proprie possibilità. Dalla sua scuola, in cui i ragazzi venivano educati a migliorare se stessi e la società, sono usciti i primi accoliti dei cosiddetti “letterati”, ju, ossia persona versata nelle arti e poi, per estensione, confuciano. “Le arti o, meglio, le Sei Arti (Liu Yi) costituiscono il nocciolo della dottrina confuciana. Che cosa sono le Arti? Sono il riassunto, la quintessenza dell’antica tradizione, restaurata e riordinata da Confucio e da lui impartita, come contenuto di insegnamento, alle successive generazioni. Esse constano dello Shih, o Odi, le quali additano, in veste poetica, i veri scopi dell’esistenza, dello Shu, o Annali, i quali registrano, a mo’ di esempio, i buoni e i cattivi governi del passato, del Li, o Riti, i quali insegnano come ci si debba comportare in ogni circostanza e situazione; dello Yüeh, o Musica, la quale assicura all’animo armonia interiore; dello I o Mutamenti, il quale spiega come due principi universali yin e yang variamente si combinino per produrre il mondo reale; e infine del Ch’un Chiu, o [Cronache di] Primavere e Autunni, una cronaca dello stato di Lu dal 722 al 479 a.C., alla quale i successivi confuciani attribuirono un significato esoterico e che, probabilmente, è un’opera realmente compilata da Confucio con l’intento di mostrare come si debba condurre un retto governo” (Filippani-Ronconi 1964: 41-42). Fulcro dell’azione confuciana sono gli uomini, non le leggi che governano il mondo. Le seconde sono date per assodate, sono comprovate dalla saggezza tradizionale degli antenati. Migliorare gli uomini può quindi corrispondere a ricondurli sulla via dei padri. Confucio vive un frangente storico interstiziale – notevoli le analogie al periodo Ashikaga: perdita del potere centrale, nascita di potenti centri periferici e guerre intestine – in cui la decadenza della dinastia Chou (1122? – 256 a.C.) ha marcato il passaggio dalla Cina arcaica a quella classica culminato nel periodo degli stati

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Guerrieri (403 – 221 a.C.) in cui la forza aggregante e ordinatrice di un potere centrale viene disattesa. Calpestare le antiche leggi, ossia per il Maestro K’ung le basi portanti degli antichi fasti e dell’antica pienezza di vita, corrispondeva ad una condanna autoinflitta: i Liu Yi, gli strumenti della scuola, intendevano interpretare il sapere passato adattandone la tradizione ai tempi correnti. L’adattamento della tradizione ai tempi è, a mio avviso, la chiave di volta di ciò che paradossalmente definirei immobile dinamismo, ossia il sistema attraverso il quale un sapere rimane nel tempo formalmente uguale a se stesso ma si vivifica e aggiorna perpetuamente nelle infinite modalità di significazione introdotte dai suoi prosecutori. Conservatore e reazionario tale atteggiamento apre alla rivoluzione e al cambiamneto. Così come “l’attore cinese inizia l’azione nella direzione contraria per terminare là dove deve finalizzarsi (Barba in Barba-Savarese 1983: 144) Confucio e i Maestri di ogni epoca e disciplina dischiudono il futuro dell’allievo attraverso una preventiva e pervasiva esperienza del passato, delle radici da cui è nutrito. Così Confucio per riportare un po’ d’ordine nel mondo e consentirgli un futuro nuovamente armonico guarda al passato – ai metodi sperimentati direbbe Zeami – e vede nella restaurazione di un nesso originario e archetipico tra il nome di una cosa e la sua funzione un passaggio obbligato. Mi riferisco alla ben nota “rettificazione dei nomi” (chên ming) lapalissianamente esposta dallo stesso Maestro K’ung in questi termini: “Quando il duca Ching di Ch’i interrogò Confucio circa i principi di governo, questi gli rispose dicendo: ‘Il sovrano sia sovrano, il ministro ministro; il padre sia padre, il figlio figlio.’ ‘Benissimo!’ disse il duca. ‘Perché, se il sovrano non è sovrano, il ministro non è ministro e, se il padre non è padre, nemmeno il figlio è figlio…’” (Confucio in Filippani-Ronconi 1964: 43). Nel momento in cui il nome trova piena corrispondenza a ciò cui esso rimanda questo può agire secondo la sua funzione naturale contribuendo all’instaurazione di un ordine globale: ognuno e ogni cosa al proprio posto. Palmarmente evidente il nesso a quanto affermato su identità ed essenza circa la scelta di Yoritomo. Costrizione e rigidità sembrano governare il mondo sognato da Confucio, ma ancora valido è il paradosso proposto poco sopra: se per squarciare il futuro è necessario puntare il dardo dell’esperienza al passato, lo stesso vale per la libera espressione del sé che deve scaturire da una totale subordinazione alle leggi che la presuppongono. “L’insegnamento di Confucio ha come scopo fondamentale quello di sviluppare – e soprattutto di non soffocare – ciò che di essenziale, di individuale ognuno ha in sé. È fondamentale vegliare sul rispetto del naturale […]. Per Confucio, il Li costituisce il principale riferimento; è alla base dell’insegnamento e trova applicazioni in tutte le sfere della vita e della comunità. È fattore d’omogeneità nella comunità, sinonimo di apertura mentale, di rispetto di coinvolgimento personale in un sistema da lungo tempo riconosciuto efficace. Quand’anche fossero percepite come costrittive, le regole di condotta sono in realtà una cornice al cui interno ognuno può e deve esprimere la propria personalità, nel rispetto dei valori ancestrali” (Baudouin 1997: 63-64).

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La libera scelta è il premio, il frutto maturo colto da chi, in una struttura integrata che è la società, vive l’essenziale coincidenza tra il proprio essere e la propria funzione. L’integrazione e il compimento del sé nella società sono fondamentali essendo la società l’unità superiore di tutti gli individui e il riflesso della grande unità – il Cielo – da cui l’esistenza proviene. La libertà del singolo non viene conchiusa ad un miglioramento personale fine a se stesso: lo sviluppo e la messa a frutto dei talenti consente un innalzamento in seno alla società. L’uomo comune (hsiao tz&u ) può trasformarsi in un uomo superiore (chün tzu& ) attraverso lo studio – esempio ne è la scuola di Confucio aperta a studenti di ogni ceto e censo – e l’applicazione delle due virtù fondamentali: jên, l’umanità, e yi, la rettitudine. Lo studio applicato, supportato da una retta umanità e da un agire incondizionato – disinteressato all’eventuale insuccesso o tornaconto –, conduce all’arte totale di essere uomo. Tale arte si esprime nella sua forma più alta ed efficace nell’applicazione ai riti, cerimoniali atti a mantenere e vivificare i principi e le usanze ancestrali: “Tutti gli atti religiosi sono sottoposti ai Riti, che rappresentano l’emanazione del tao e la forma in cui la Virtù Efficiente del tao (tao-te) si realizza nel mondo degli uomini” (Azzaroni 2003: 129). Tra i vari principi, associati a specifici riti propugnati da Confucio, quello della pietà filiale è sicuramente tra i più longevi e caratterizzanti la civiltà cinese e le civiltà che dal confucianesimo furono toccate. Non riducibile al solo rispetto e sostegno dovuto ai genitori, il principio si estende al complesso rituale del culto degli antenati – pertinenza del capofamiglia – raccolto in uno dei classici confuciani, Il libro della pietà filiale, attribuito all’allievo di Confucio Tsang-tzu. “Confucio disse: ‘Nel lutto per i genitori, il figlio filiale piange senza singhiozzi, esegue il rito senza curarsi di come appare, parla senza fioriture, non sopporta gli abiti eleganti, se ode la musica non ne gode, se mangia cibi prelibati non li gusta. Tale è il sentimento del cordoglio e della tristezza. Dopo tre giorni tocca cibo, per insegnare al popolo che deve esservi un termine […]. Quando sono vivi, servire i genitori con l’amore e il rispetto, dopo la loro morte con il dolore e la tristezza: è il compimento della (virtù) fondamentale dei viventi, la consumazione della giustizia tra morti e vivi, il completamento dei servigi di un figlio filiale verso i genitori” (Tseng-tzu in Tomassini 1989: 30-31). L’applicazione ai riti s’inscriveva naturalmente in un’educazione all’azione, all’apprendimento tramite la prassi, aspetto del confucianesimo non sottacibile: “non è dunque un caso che, per formarsi moralmente, l’allievo debba esercitarsi in primo luogo nella celebrazione dei riti, nell’esecuzione musicale, nel tiro con l’arco, nella guida dei carri, nella scrittura, nel calcolo” (Baudouin 1997: 44). Fin qui una parzialissima panoramica sul Maestro K’ung e su alcuni aspetti caratterizzanti della sua dottrina. Il Giappone ne recepì i primi influssi già nel VI secolo in concomitanza all’introduzione del Buddhismo ma è con l’avvento dello shogunato e con una serie di coincidenze storiche che il confucianesimo produsse significativi effetti in terra Yamato.

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Con l’invasione mongola della Cina sul finire del XIII secolo molti monaci e intellettuali cinesi si riversarono in Giappone per non sottostare alla dominazione straniera stimolando e favorendo la diffusione del neoconfucianesimo e l’esplosione del Buddhismo zen. “Il termine «neoconfucianesimo» è un neologismo occidentale. «Scienza del principio» (lixue) era invece l’appellativo che il movimento si dette, in quanto il «principio» era il concetto centrale della loro indagine e di tutto il sistema metafisico e morale” (Santangelo 1995: 56). Due componenti della Scienza del Principio mi sembrano particolarmente significativi e affini alle tesi di fondo che sto delineando. La prima riecheggia dappresso il tema dell’identità inteso come essenza naturale, originaria, uguale in se stessa in quanto riflesso celeste, radicandolo, però, nel terreno confuciano dell’armonico consorzio umano. “Pertanto il problema dell’educazione è quello di riportare la perla della natura umana alla sua originaria purezza, che è quella del Principio Celeste (t’ien li): il «fango» che le impedisce di splendere è il principio della brama (jên yü), che porta a desiderare ciò che è altro dal puro essere il Principio di sé stesso, e il Principio dell’egoismo (ss&u yü), che conduce ad assumere la propria individualità come separata dall’universale Principio umano” (FilippaniRonconi 1964: 179). La seconda riguarda la possibilità di giungere all’illuminazione della mente attraverso un indefesso scavo chiarificatore – inteso come purificazione della “perla” – verso il cuore del Principio del sé. L’obiettivo si ottiene camminando la via dell’attenzione della mente (ching) attraverso l’investigazione delle cose (ko wu) frutto a sua volta dell’estensione della conoscenza fino al Principio di ogni cosa. Giungere al Principio di una sola cosa è sufficiente al raggiungimento di una completa comprensione delle geometrie e coordinate regolanti il cosmo: “dopo che uno si è esercitato per lungo tempo, giungerà finalmente un mattino che la completa comprensione di una moltitudine di cose, esteriori e interiori, sottili e grossolane, ed ogni esercizio della mente sarà caratterizzato da completa illuminazione” (Chu Hsi in Filippani-Ronconi 1964: 180). Il culmine del percorso proposto da Chu Hsi, un percorso pedagogico chiamato via dell’attenzione della mente, si riflette nel percorso mimetico degli attori n1o. Nel II libro del F1ushi-kaden, Osservazioni sulla mimica, Zeami afferma: “È difficile trattare per iscritto di tutte le forme della mimica. Tuttavia, siccome costituisce l’elemento essenziale della nostra via, conviene applicarsi con la massima attenzione allo studio di queste forme. L’obiettivo fondamentale è la ricerca di una buona rassomiglianza in qualsiasi campo” (Zeami 1960: 83). La massima attenzione rivolta alla forma esteriore di ciò che è osservato per poi essere tradotto in linguaggio scenico è solo il primo passo di un processo di interiorizzazione del modello che dovrà culminare nella coincidenza con lo stesso. Vent’anni più tardi, nello stendere lo Studio illustrato dei due elementi e dei tre tipi, Zeami esplicita la necessità per l’attore di conformare la propria mimica non al dato reale osservato ma agli elementi essenziali che la mente ne avrà desunto: “l’inter-

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pretazione di ciascuno dei tre tipi produce un effetto visivo conforme al modello [che l’attore] ha in mente […]” (Zeami 1960: 209). Il traguardo, e il superamento, di questo percorso è raggiunto ne La Scala dei nove gradi – trattato non datato ma che per il tenore contenutistico appartiene con buona probabilità agli anni della maturità – allorché Zeami afferma: “Più avanti, realizzate un’interpretazione di incanto sottile al più alto grado e la vostra maniera [si traduce] con un effetto visivo che si trova sulla via media [in cui si equilibrano] il sostanziale e l’insostanziale: è lo stile del fiore altero e profondo. Ancora più avanti, la parola diventa impotente, voi traducete nella vostra arte il modello, che portate nella mente, della maniera meravigliosa che ignora la dualità: è lo stile del fiore meraviglioso. È il punto d’arrivo della via suprema del segreto ultimo” (Zeami 1960: 238-239). La dualità si riassorbe nell’individuo e l’attore scompare dietro l’uomo illuminato coincidente al Principio. Buddhismo zen: il rigore della libertà Lo zen, come il nome stesso indica, pone l’accento sull’importanza della meditazione. Zen deriva dal cinese chan a sua volta equivalente del sanscrito dhyana, meditazione appunto. Premesso questo il problema di ciò che lo zen sia non può considerarsi nemmeno tangenzialmente toccato. Molti gli autori dichiaratisi incapaci di fornire una descrizione o ancor meglio una definizione della più irreligiosa forma di religione esistente, sfuggente pure all’etichetta di filosofia. Tra i pochi ad essere riusciti nell’intento, probabilmente perché non interessato a trovare una definizione, è stato Daisetz Teitaro Suzuki. “Lo Zen è una religione? Non è una religione nel senso che comunemente si intende; infatti lo Zen non ha un Dio da adorare, non riti cerimoniali da osservare, non un aldilà da promettere oltre la vita, né, infine un concetto salvifico dell’anima che inviti ansiosamente a preoccuparsi della sua immortalità. Lo Zen è libero da tutti questi ingombri dogmatici e ‘religiosi’. Il pio lettore potrà restare smarrito quando dico che nello Zen non c’è Dio, ma ciò non significa che lo Zen neghi l’esistenza di Dio; nessuna negazione o affermazione interessa lo Zen. Quando una cosa è negata, la vera negazione riguarda un alcunché di non negato” (Suzuki 1969: 42). Gli intricati fraseggi di Suzuki su affermazioni e negazioni o non affermazioni e non negazioni non vogliono stupire o disorientare il lettore ma – ed è qui l’efficacia dell’opera divulgativa dell’autore – già costringere la normale logica di penetrazione intellettuale a fare i conti con i limiti delle proprie categorie. Come sottolinea Murase Miyeko lo zen si fonda sí sulla fiducia in se stessi e sull’autodisciplina della mente ma allo scopo di invitare “i propri seguaci ad abbandonare tutti i modi convenzionali e graduali di approssimarsi alla verità e all’illuminazione, incoraggiandoli e provocandoli invece a guardare il mondo da prospettive totalmente nuove e mai sperimentate, lontane dalle inveterate abitudini logiche del

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pensiero convenzionale. Talvolta irrazionale, in contraddizione con sé stessa e persino oltraggiosa, questa dottrina, che non attribuiva alcun valore a nulla – nemmeno alle scritture o alle icone –, ha potuto venire fraintesa al punto da essere popolarmente considerata iconoclasta” (Murase 1996: 172-174). Assolutamente ardua, quindi, qualunque impresa di decodifica dello zen, disciplina tanto rigorosa quanto adogmatica: “se mi si chiede poi che cosa insegna, dovrei rispondere: lo Zen non insegna nulla. Quali che siano i suoi frutti, essi maturano nella mente di ognuno. Siamo noi i nostri maestri, lo Zen, soltanto, ci indica la via. A meno che tale indicare non sia già un insegnare, non esiste certamente nello Zen nulla di programmaticamente organizzato attorno a quelle che potrebbero essere le sue dottrine basilari o i suoi fondamenti filosofici” (Suzuki 1969: 41). Se nulla può essere detto sullo zen e nulla dello zen insegnato tutto può essere però in esso esperito, vissuto: “lo zen non è una setta ma un’esperienza” (Senzaki-Reps 1957: 10). Poco incline ad essere piegato al prosaico, al dialogico inteso quale catena di cause ed effetti logicamente inanellati, lo zen trova la sua reificazione nelle prassi e pratiche quotidiane, in modo ben visibile – o percepibile –, nelle molte arti in cui riversò il suo nutrimento. “L’architettura procurava luoghi ove rifugiarsi in solitaria meditazione e ove eseguire pitture, non iconiche, bensì volte a illustrare il dogma o a perpetuare l’ondeggiante stato della mente proprio dei momenti di illuminazione. Benché il dogma zen non professi una particolare dottrina estetica, una delle sue convinzioni fondamentali, che poneva l’accento sulla spontaneità sulla totale semplicità e sulla moderazione, divenne il principio guida dell’arte zen. Anche se il concetto secondo cui «meno è più» non fu certamente inventato dai seguaci giapponesi dello zen, esso risultò tuttavia il fulcro dell’arte ispirata allo zen. Se è vero che questa dottrina estetica influenzò la pittura monocroma a inchiostro cinese, è anche vero che essa fu recepita in misura ancora maggiore dai giapponesi convertiti allo zen. Senza di questo, certe arti ausiliarie, quali la speciale cerimonia del tè, le decorazioni floreali, la danza drammatica n1o e l’intero codice delle convenzioni e delle forme che caratterizzano la vita quotidiana dei giapponesi contemporanei, non sarebbero mai esistite o avrebbero assunto aspetti completamente differenti da quelli oggi affermati” (Murase 1996: 174). La manifestazione dello zen si rinviene nell’atto, in qualunque atto portato con un disinteresse orientato, compiuto perché necessario e inevitabile, non frutto di un calcolo preventivo ma non per questo arbitrario. L’equilibrio, la ponderatezza, la “povertà” e l’essenzialità e, perché no, l’austerità dello zen risiedono nella necessità: solo ciò che non può mancare è espresso, il resto, non negato, è trattenuto, suggerito in potenza, alluso. Sviluppando quanto appena affermato risulta chiaro come equilibrio, ponderatezza, “povertà”, essenzialità e austerità siano esiti e non presupposti di creazione. L’insegnamento, una condivisione di esperienze più che un trasferimento di competenze, non induce l’allievo a mirare direttamente all’obiettivo ma a favorire in lui le condizioni atte alla naturale emersione dello stesso.

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Nell’insegnamento e nell’apprendimento dello zen tutto è considerato utile per provocare o approssimare il satori, l’illuminazione o, più precisamente, un modo intuitivo e non intellettuale di scrutare la realtà, quindi anche la quotidianità nel suo complesso: “la prima e ultima meta del buddhismo zen è realizzare che tutto è mu. Ma questa realizzazione deve essere empirica, non semplicemente intellettuale. Non è sufficiente affermare che tutto è vuoto; si deve percepire la realtà della vacuità in tutte le proprie attività quotidiane” (Thic Thien An in Pasqualotto 1992: 63). Pasqualotto ha dedicato al mu, al vuoto, un fondamentale studio che ne segue l’operatività in seno ad alcune delle più note e affascinanti espressioni artistico-culturali – le “forme” per l’autore – giapponesi. Prima di focalizzare l’indagine sulle forme – cerimonia del tè (cha no yu), pittura ad inchiostro (sumie) poesia haiku, composizione di vegetali (ikebana), giardini-paesaggi secchi (karensansui) e teatro n1o – il vuoto è meglio focalizzato e contestualizzato nell’ambito del Taoismo, del Buddhismo e del Buddhismo zen. “A differenza del buddhismo delle origini e anche di quello proposto nella letteratura Prajña1 pa1 ramita1 , il buddhismo zen insite molto di più sul fatto che lo spazio della discussione speculativa va ridotto a favore di quello fornito dall’esperienza immediata, incentrato e concentrato nella pratica della meditazione. Sulla scia della tradizione prodotta dalle osservazioni buddhiste sul vuoto e sulla vacuità, anche il buddhismo zen propone un radicale «fare il vuoto» che tolga sostanzialità e permanenza agli oggetti, all’io, ai pensieri e perfino al pensiero del vuoto; tuttavia quelle del buddhismo zen, più che «osservazioni» e «riflessioni» sul vuoto, appaiono come testimonianze di esperienze” (Pasqualotto 1992: 58-59). Se del vuoto si può fare esperienza questo non può coincidere con una qualsiasi forma di assenza. Il vuoto non è sinonimo di nulla e spesso è il complementare al pieno che rende quest’ultimo utile, è la concavità di una tazza che diviene ricettacolo. Attraverso la meditazione, praticata rivolgendo la concentrazione al movimento del respiro, si desidera raggiungere una sospensione dell’io giudicante, della percezione logica e della dualità per un ritorno all’ab-soluto. “Lo stato mentale prodotto dalla pratica meditativa – che potrebbe far ricordare quello connesso con l’ataraxìa epicurea o far pensare alla condizione della coscienza risultante da una «riduzione fenomenologica» – viene denominato, dal buddhismo chan, wu shin e, dallo zen, mushin, che letteralmente significa «non-mente», e che talvolta è stato reso anche con il termine «inconscio». In realtà non si tratta né di «vuoto mentale», né di «stato di incoscienza», ma di quella condizione in cui vengono sospese tutte le discriminazioni (Fen pie) e le tensioni da esse prodotte” (Pasqualotto 1992: 61-62). In stato di mushin l’uomo è un ricettacolo pronto a riempirsi in cui la mente non è annullata ma semmai purificata e resa equivalente ad “uno specchio perfettamente pulito, senza segni o polveri che intralcino il rispecchiamento delle immagini” (Pasqualotto 1992: 62). Nella pratica attorica del no1 lo stato di non mente, la spersonalizzazione dell’attore – una sospensione dell’io – diviene assolutamente funzionale al buon esito dell’azione scenica. Lo specchio perfettamente deterso di Pasqualotto rimanda al luogo in cui lo shite trascorre gli ultimi minuti prima dell’ingresso in scena:

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la camera dello specchio (kagami no ma). La camera dello specchio ha questo nome non in virtù dell’oggetto che vi è contenuto, ma per la relazione che si stabilisce tra l’oggetto e chi lo usa. “La particella ma [di kagami no ma] non significa semplicemente camera, ma spazio come entità” (Komparu 1983: 126) e un’entità non è un oggetto che si lasci passivamente adoperare, ma una realtà con cui bisogna avere un rapporto biunivoco. Non a caso soltanto nei minuti immediatamente precedenti l’ingresso in scena lo shite è condotto di fronte allo specchio della kagami no ma: la prima fase di concentrazione e verifica del costume è svolta dinanzi allo specchio del camerino. Davanti allo specchio della kagami no ma all’attore viene fatta indossare la maschera e, nei pochi attimi che gli restano per riflettersi con la n1omen indossata, si realizza quella che è una tipica espressione giapponese: kagami ni terasu, guardare la verità nello specchio. La verità nello specchio è il personaggio, non più l’attore. Ciò che avviene nel momento in cui l’attore porta a compimento il processo di spersonalizzazione indossando la maschera, insomma, è che il suo corpo – la forma – è ormai pronto ad armonizzarsi con l’energia del personaggio – l’essenza – che lo specchio gli dona. Forma ed essenza riconquistano l’unità originaria confondendo i propri limiti l’una nell’altra nel ricettacolo che è l’attore. Se sia la forma a trasfigurarsi in essenza o quest’ultima a precipitare in materia è un quesito privo di interesse perché ancorato ai presupposti e non orientato agli esiti: quale, di due specchi contrapposti, riflette l’altro per primo? Nel Libro dello studio e dell’effetto visivo dei divertimenti musicali (Y1ugaku sh1ud1o kemp1u sho, 1423), Zeami affronta il rapporto vuoto-materia, correlativo a forma-essenza, con una penetrazione intellettuale addirittura stordente: “È detto nello Shingy1o [Prajñ1ap1aramit1a]: «La materia è identica al vuoto, il vuoto è identico alla materia». In ogni via, in ogni arte, si incontrano questi due elementi: materia e vuoto. Lo stadio in cui [l’attore], dopo avere percorso le tre tappe della giovane pianta, della fioritura e della fruttificazione, arriva al grado della scioltezza e realizza, per le diecimila opere del repertorio, uno stile compiuto, grazie ai modelli che porta nella mente, non è forse quello in cui «la materia è identica al vuoto»? Tuttavia, considerare la conoscenza dei modelli del repertorio come il grado invariabile che definisce la perfezione dello stile assoluto, vuol dire trascurare ancora [la seconda proposizione, cioè che] «il vuoto è identico alla materia»: forse sarebbe questo «senza avere ancora afferrato, credere di avere capito»? In questo caso, ci si dovrebbe preoccupare ancora di più di prestare attenzione ai difetti che sfuggono all’intendimento. Un grado in cui non ci fosse più da preoccuparsi di questa attenzione, in cui l’interpretazione di qualsiasi opera testimoniasse un’assoluta maturità, in cui, anche se lo stile sembrasse francamente aberrante, l’interesse fosse tale che non vi fossero più né qualità né difetti, né bene né male, forse quello sarebbe [il grado] in cui «il vuoto è identico alla materia». Quando qualità e difetti risvegliano in tal modo l’interesse, non vi possono più essere né qualità né difetti. E non vi è neppure più bisogno di stare attenti ai difetti che sfuggono all’intendimento” (Zeami 1960: 228).

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Annullate le categorie, sparita la dualità, trasceso ogni confine e giudizio l’attore eccelso diviene epifania dell’umana liberazione nell’illuminazione e giunge a quello che per lo zen è il più alto ideale cui tende l’arte: “l’indipendenza dall’Io soggettivo” (Sekida 1975: 141). Nell’addestramento zen è utilizzato, come una sorta di percorso di formazione a tappe accostabile alla zeamiana Scala dei nove gradi, il racconto Alla ricerca del bue perduto. Ne seguirò i dieci passaggi attraverso la versione di Sekida (Sekida 1975: 198210): “1. Ha inizio la ricerca del bue. Nella letteratura buddhista, il bue è analogo alla Vera Natura. Ricercare il bue significa investigare questa Vera Natura. Il primo stadio della sequenza segna l’inizio dell’investigazione. [...] Immaginiamo ora un giovane davanti alla porta dello Zen alla ricerca della sua vera natura; egli è nello stadio in cui ha inizio la ricerca del bue. 2. Si scoprono le impronte. Praticando lo zazen [meditazione da seduti, nda] e studiando la letteratura, egli ha acquisito una certa competenza nello Zen, anche se non ha ancora sperimentato il kensho [illuminazione, nda]. Nel primo stadio, quando ha iniziato la sua cerca, dubitava che sarebbe riuscito a raggiungere il suo scopo, ma ora ha fiducia nella strada intrapresa e sente che alla fine giungerà a destinazione. 3. Il bue è avvistato per un attimo. Infine si è imbattuto nel bue. Ma ha scorto solo la sua coda e gli zoccoli. Ha avuto un’esperienza simile al kensho, ma se gli si chiede da dove egli viene e dove sta andando, non sa dare una risposta chiara. [...] Egli dispone di una tecnica eccellente, che però non è sufficiente a provare le sue qualità artistiche. Tutto dipende da quelli che saranno i suoi sforzi futuri. [...] 4. Il bue è catturato. In questo stadio, il suo kensho è ormai saldo. Tuttavia il bue tenta di sfuggire e l’uomo deve trattenerlo con tutte le sue forze. In realtà, egli ha adesso sperimentato abbastanza per comprendere il detto: «Cielo e terra e Io siamo della medesima radice; tutte le cose e Io siamo della medesima origine», ma nella vita quotidiana non riesce ancora a controllare la sua mente come vorrebbe. [...] 5. Il bue viene addomesticato. Dopo grandi sforzi, infine, il bue comincia ad essere addomesticato. Questo è il momento in cui il domatore pensa che l’animale selvaggio è stato soggiogato e può forse essere impiegato in qualche lavoro. 6. Il ritorno a casa a cavallo del bue. Il bue è ora addomesticato e obbediente. Anche lasciando andare le briglie, esso cammina quietamente verso casa, nella calma della sera, e l’uomo è seduto pacificamente sulla sua groppa. 7. Il bue è perduto, l’uomo rimane. Ora il kensho, l’illuminazione, e persino lo stesso Zen sono dimenticati. Quale che sia il sentimento di santità o il meraviglioso stato mentale che si esperimenta, nel momento stesso in cui si inizia a riflettervi su e se ne prende coscienza, esso diventa un grave fardello. [...] 8. Né bue, né uomo. Nello stadio precedente «Il bue è perduto, l’uomo rimane», si è probabilmente pensato che tutto fosse finito. Ma ora appare un nuovo stadio, in cui sia l’uomo che il bue sono dimenticati. C’è una terzina Zen che dice: Ieri notte, due buoi fangosi combatterono tra loro / Scomparendo in mare durante la lotta / E questa mattina non se ne ode più nulla. Nel momento in cui compare l’Io, compaiono le circostanze. Quando l’Io svanisce, anche le circostanze svaniscono. Soggettività e oggettività procedono di pari passo. [...] 9. Il ritorno all’origine. In que-

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sto stadio del «Ritorno all’origine», l’esperienza è per certi versi identica a quella del terzo stadio del «Ritrovamento del bue», ma esiste una enorme differenza circa il grado di profondità. Una massima Zen ammonisce: «Far la spola dall’inizio alla fine». Quanto si è raggiunto va approfondito ritornando sempre di nuovo allo stadio iniziale, e quindi ripercorrendo il sentiero per il quale si è proceduto. Ciò rende la nostra maturità irremovibilmente salda. [...] 10. Nella città con mani soccorrevoli. Egli si mescola con il mondo. Non si preoccupa di come veste. Tutto questo simboleggia la sua nudità mentale. Porta con sé un cestino nel quale ha qualcosa per la gente della città. Tutti i suoi pensieri sono rivolti al modo di recar gioia agli altri. Che cosa c’è nel suo recipiente di zucca? Forse il vino della vita”. Immediatezza, naturalezza, assenza di sforzo e infine illuminazione non sono approdi accidentali, è doveroso ribadirlo, ma fiori sbocciati sul duro scoglio dell’impegno, del sacrifico, del costante lavoro e dell’incondizionata fede nella via dei maestri: nessuna tappa del percorso può e deve essere scontata all’allievo – assai nota la severità dei maestri orientali – affinché il miracolo dell’aberrante che produce interesse si manifesti di generazione in generazione. Il n1o, come chiaro, è profondamente imbevuto dello spirito zen – nella forma e nella sostanza – e proprio ad una definizione dello zen originata da un paragone al n1o affido la chiusura di questa sezione. “I drammi N1o sono racconti Zen. Lo spirito Zen ha finito col significare non soltanto la pace e la comprensione, ma la devozione all’arte e al lavoro, il ricco dispiegarsi dell’appagamento, che apre la porta all’intuito, l’espressione della bellezza innata, il fascino inafferrabile dell’incompletezza. Lo Zen ha molti significati, nessuno del tutto definibile. Se sono definiti, non sono Zen” (Senzaki-Reps 1957: 10).

Capitolo IV

Trasmettere la via, trasmettere il cuore

Museki Isshi. Traccia di un sogno sopra un foglio Esiste uno scritto di Zeami, poco noto, in cui i valori confuciani della discendenza, dell’educazione, della pietà filiale e dell’identità si nutrono dell’afflato buddhista e si palesano in una fulminante, essenziale e pacata forma zen: il Museki Isshi. Alla radice fanno ritorno al vecchio nido s’affrettano fiori e uccelli legati alla medesima giusta legge giungerà anche questa primavera a una fine? In verità – il sentimento d’amore per quei fiori e di invidia per gli uccelli – altro non è che un componimento che coinvolge l’animo. Il dolore della separazione dagli amati genitori e dagli amati figli, e la tristezza senza alcuna possibilità di consolazione che – confusi tra i loro transitori colori e le loro transitorie voci – prova invidia per gli inconsapevoli fiori e uccelli, alla fine appartengono entrambi allo stesso volgere degli eventi. Ahimè, nel primo giorno dell’ottavo mese mio figlio Zenshun [nome usato da Zeami solo in questa occasione per indicare il figlio Motomasa, nda] morì a Ano-no-tsu nella provincia di Ise. Ora potrei oltremodo sembrare scosso dal destino umano – l’incerto ordine della morte del giovane e del vecchio. Ma a causa del più inaspettato dei colpi il mio vecchio corpo è crollato e lacrime di afflizione inzuppano la mia manica. Inoltre, mio figlio Zenshun fu veramente un maestro senza eguali, e io, Shi1o [nome confidenziale usato da Zeami per indicare se stesso. Ciò indica il carattere profondamente personale dello scritto, nda], che tempo addietro ricevetti dal mio defunto padre la tradizione familiare di quest’arte e succedetti a lui in questa stessa Via, ho raggiunto l’età di settant’anni. Poiché Zenshun è sembrato ai miei occhi superare in abilità perfino suo nonno, seguendo le parole “Non parlare a qualcuno in grado di capire è come perdere un uomo” [detto confuciano, nda] ho trascritto e tramandato a lui la tradizione segreta e i misteri nascosti della nostra Via. Tutto ciò è diventato, ahimè, un sogno vuoto, rimane soltanto fumo e inutile polvere senza padrone. E ora, anche se volessi trasmettere i miei scritti, a chi potrebbero essere utili? Quanto a fondo oggi comprendo il sentimento della poesia:

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Se non a te a chi potrei svelare i fiori del pruno? Il tempo della rovina della nostra Via è giunto, solo la mia vecchia vita senza senso è rimasta. Quanto mi è insopportabile vedere tutto questo con i miei occhi. È veramente una disgrazia! Si dice che il cuore di Confucio – quando Pai Yü morì – bruciò dolorosamente in sua memoria, e che Pai Chü-i – il cui figlio era prematuramente morto – fu preso dalla disperazione guardando la medicina rimasta a fianco del cuscino. Se penso che Zenshun una volta entrò in questo mondo di sogno e che io ora sto componendo questo confuso scritto pensando alla separazione da lui che fu mio figlio per troppo poco tempo – è veramente troppo doloroso per me. Com’è crudelmente inatteso che io – come legno deteriorato lasciato in questo mondo abbia dovuto vedere l’ultima traccia di uno splendido fiore Nono mese del quarto anno di Eiky1o Shi1o Come potrei non pensare che si conserverà solo fino a quando sarò vivo come potrei sapere quando le lacrime della mia tarda età avranno una fine?

In queste poche parole composte nel 1432, credo, quanto finora scritto trovi un sunto altissimo, una concisione densa e sbalorditiva. Le epitomi o le origini dei precetti, dei dogmi, dei miti e delle vicende storiche, delle estetiche e delle poetiche abbozzate nelle pagine precedenti hanno qui un compendio e una dimensione drammaticamente umana oltre che ideale: il Museki Isshi mostra il cuore pulsante delle cose quel cuore spesso sacrificato da descrizioni necessariamente coerenti e oggettive. Il mio incontro con il Museki Isshi è stato del tutto casuale sfogliando un datato volume della prestigiosa rivista “Monumenta Nipponica” (vol. XX, n. 3-4, 1965) pochi anni or sono. L’articolo (Ortolani-Nishi 1965) che ne riportava il testo non ne approfondiva i contenuti ma lo adduceva quale prova documentaria per dirimere l’annosa querelle sulla reale data di nascita di Zeami. Pur a conoscenza da molto tempo dell’esistenza di questo scritto non lo avevo mai inserito nell’ideale lista delle acquisizioni utili alla mia ricerca. La sua esclusione preventiva si basava sulle indicazioni fornite da René Sieffert nelle pagine introduttive al suo fondamentale lavoro di traduzione e commento di alcuni trattati di Zeami: “I numeri 9 e 11 della lista precedente, Museki Isshi e Kint1osho, devono essere considerati a parte: sono testi di alta qualità poetica e umana, relativi alle due cata-

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strofi che colpirono Zeami nella vecchiaia: la morte del figlio e l’esilio a Sado. Nonostante il loro valore letterario, li ho esclusi da questa raccolta” (Sieffert in Zeami 1960: 56). Sieffert ha tradotto e collazionato nel suo lavoro solo sei dei ventitre trattati che si usano riferire, anche con attribuzioni controverse, alla paternità di Zeami; per fissare tale insieme coerente ne ha eliminati alcuni per l’impossibilità di tradurre l’elevato tecnicismo delle esemplificazioni musicali – peraltro oggi non del tutto canonizzate dai musicologi nipponici –, altri perché di dubbia attribuzione e altri ancora perché troppo profondi e bisognosi di eccessive notazioni per risultare intelligibili o perché considerati ripetizioni dei prescelti. Il criterio selettivo adottato da Sieffert sembra quindi rimandare a difficoltà di traduzione, di curatela, di leggibilità-comprensione e autenticità del testo; ma ancor più sembra aver pesato una necessità di coerenza contenutistica mirata ad una paradigmatica e completa mappatura delle geometrie teoriche disegnate da Zeami. Sebbene non esplicitamente dichiarato, infatti, sembra che l’assenza di un contenuto prettamente riconoscibile come teatrale e comunque la preminenza assoluta delle qualità poetiche, letterarie e umane su questo siano alla base dell’essere “a parte” di Museki Isshi e Kint1osho rispetto gli altri scritti. Applicando al Museki Isshi una indagine che integri quella di Sieffert l’essenza teatrale del testo affiora sulla scorta di categorie di lettura segnatamente antropologiche. Con una strizzata d’occhio allo zen si potrebbe affermare che proprio in virtù di un grado zero di teorizzazione Zeami perviene, per converso, ad un grado sommo, assoluto, di essenza teatrale. La poeticità e letterarietà del testo unitamente alla dissezione anatomica di un’esistenza particolare, da cui autopticamente si ricavano gli universali di una civiltà, ne fondano la pertinenza teatrale: “in nessun altro paese del mondo, come in Giappone, il teatro riflette e riassume, nella sua evoluzione, la storia della civiltà e della cultura indigene, con tutte le sue esperienze estetiche e religiose, con tutte le sue conquiste materiali e spirituali” (Muccioli 1962: 7). Ampliato il punto di vista di Sieffert l’essere “a parte” del Museki Isshi rispetto il corpus teorico dei trattati si ridimensiona autorizzando un suo utilizzo nella decodifica a rebours della sapienza teatrale zeamiana. Il trattato così riconsiderato, inoltre, testimonia della coincidenza di arte e vita nelle discipline tradizionali nipponiche, coincidenza figlia dell’impossibile demarcazione di frammenti autonomi e non interconnessi – relativi all’esistenza di un singolo uomo e ad ogni elemento del creato – rinvenibile nella tradizione buddhista: “tale tradizione, com’è noto, ha rivolto una specifica attenzione al tema dell’anatt1a (non-sé) riflettendo a lungo sull’impossibilità di affermare l’autosufficienza di qualsiasi realtà, compresa quella dell’io che ciascun individuo crede di possedere in modo saldo e permanente” (Pasqualotto 2003: 83). Nel Museki Isshi termini quali teatro, danza, recitazione, canto, azione, mimesi o interpretazione non appaiono nemmeno una volta. I fulcri del dettato sono piuttosto “tradizione familiare”, “Via”, “tradizione segreta”, “misteri nascosti della nostra Via”, “il dolore della separazione dagli amati genitori e dagli amati figli”, ma nell’u-

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niverso zeamiano le due serie devono essere considerate coincidenti o almeno sovrapponibili. Ho più volte ricordato come la via alla libertà – non solo interpretativa – dell’allievo abbia una necessaria premessa nell’“ordalia” dell’apprendimento tecnico. Una ulteriore precondizione la si evince ora dal Museki Isshi: la correttezza dei rapporti umani e familiari. Il Maestro-padre “vive ogni momento nella consapevolezza di trovarsi in una condizione di costante ‘apertura’: apertura nei confronti della verità, che egli intende non come un oggetto posseduto ma come oggetto di interminabile ricerca; e apertura nei confronti dell’allievo, che egli intende non come materia inerte da forgiare o come recipiente vuoto da riempire, ma come ‘compagno di avventura’ in una comune, incessante ricerca della verità” (Pasqualotto 2003: 84), l’allievo-figlio, da parte sua, “deve fidarsi del Maestro fino al punto di affidarsi a lui […]” (Pasqualotto 2003: 89). Maestro e allievo, padre e figlio, pur nell’innegabile e sacrosanta differenziazione gerarchica, collaborano sinergicamente al mantenimento dinamico di un flusso: il fuoco della tradizione e dell’identità può essere trasmesso solo se simultaneamente presenti le mani di chi dona con fiducia e di chi accoglie con riconoscenza, umiltà e rispetto. Ridefiniti in questi termini l’inscindibilità di arte e vita e la necessità – di marca confuciana – di una discendenza, il disperato grido di dolore che Zeami, padre e maestro, verga alla morte del figlio-allievo acquista la sua reale dimensione. Astraendo il caso dalla contingenza specifica e analizzandolo dal punto di vista strutturale, il senso dell’affermazione “il tempo della rovina nella nostra Via è giunto” può riferirsi all’interruzione della leadership di discendenza naturale. Basandosi sugli importanti esiti degli studi sociologici di Nakane Chie (Nakane 1973), infatti, si deve rilevare come in ambito nipponico la mancanza di un erede adeguato o il venir meno di un leader unanimemente riconosciuto possa destabilizzare la compattezza e, quindi, l’esistenza stessa di un gruppo. Per tale ragione nel Museki Isshi Zeami paventa la riduzione a “sogno vuoto” e “fumo e inutile polvere senza padrone” di tutta la sua esistenza, di tutta l’esistenza dei suoi avi. L’importanza del leader e il suo essere chiave di volta di un gruppo – non è un caso che il migliore attore di una compagnia, o il suo leader (iemoto), sia definito anche t1ory1o, ossia il pilastro principale, colui che la sostiene – è il risultato della struttura base di ogni organizzazione giapponese. Nakane definisce “verticale” la struttura tipo rilevabile in Giappone in contrasto alla struttura “orizzontale” pressoché assente nel medesimo contesto. Lo schema seguente e la sua descrizione chiarirà meglio il senso dei termini introdotti. a

b

X

a

c

b

Y

c

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“La differenza strutturale tra il gruppo X (verticale) e il gruppo Y (orizzontale) può essere dimostrata nel seguente modo. Nello schema i tre punti a, b e c rappresentano i membri di ogni gruppo; si presume che ogni gruppo sia composto dallo stesso numero di individui. In Y questi tre punti formano un triangolo o un cerchio, ma in X la base del triangolo è mancante oppure assai debole. Se non vi è legame di sorta, la natura della relazione b-c è molto diversa da quello a-b o a-c. quindi la struttura forma non un triangolo o un cerchio ma una V rovesciata. […] Il gruppo si costituisce per somma delle relazioni a-b e a-c, dove a è punto focale” (Nakane 1970: 64-65). La fondamentale differenza fra i due gruppi è la funzione di a. Mentre in Y il venir meno di a non comporta un rischio per la stabilità del gruppo – che può continuare a reggersi sul legame tra b e c – in Y determina nella maggior parte di casi lo smembramento dello stesso. Un altro non sottovalutabile discrimine tra le due strutture si collega all’importante “problema relativo alle caratteristiche che deve avere la direzione del gruppo. Se esaminiamo il rapporto di un gruppo con il suo leader, in primo luogo notiamo che in X, anche se non è impossibile, è molto difficile cambiare guida. Inoltre, la funzione direttiva è sempre limitata ad un individuo […]” (Nakane 1970: 66). In un gruppo di tipo verticale, quindi, l’esistenza di un leader riconosciuto ha un’importanza incomparabilmente maggiore di quanta ne abbia in un gruppo di tipo orizzontale. Il leader deve possedere delle caratteristiche specifiche per essere riconosciuto come tale e, per il fondatore del no1 , la più importante sembra essere la valentia attorica. Il “corpo crollato” e le “lacrime di afflizione” che inzuppano la manica di Zeami non rappresentano in modo drammatico solo il dolore di un padre cui sia venuto a mancare un figlio, ma anche quello di un maestro che perde il miglior frutto del proprio lavoro, l’unico uomo idoneo a reggere il peso di un’eredità enorme e di giungere ad elevate vette artistiche assicurando la fortuna e la prosecuzione di una stirpe: “preservando la nostra casa, facendo della nostra arte la mia preoccupazione principale, ho conservato in fondo al cuore il patrimonio che il mio defunto padre mi ha affidato; se ho annotato qui l’essenziale, disprezzando la pubblica censura, nel timore che la nostra via fosse abbandonata, non vuol dire che io destino ciò all’istruzione di persone estranee. Sono solo precetti di famiglia che trasmetto ai miei discendenti” (Zeami 1960: 108). Se la radice dello scrivere di Zeami si situa dunque alle spalle, almeno idealmente nella sapienza del padre, il senso e la prospettiva del suo lavoro trovano una ragion d’essere solo nel futuro rappresentato dal figlio. Ancora una volta è nella saggezza e fecondità del passato che le radici devono allignare per sostenere l’avanzata nel futuro. L’indistinzione proposta in queste pagine fra le figure del figlio e dell’allievo, e del padre e del maestro, non deve sembrare una forzatura: essa corrisponde alla visione etica della vita e dell’arte sostenuta da Zeami, la quale ben delimita, infrangendo il confine tra personale e professionale, il teatro in questo fondatore: “Item, queste No-

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te complementari sulla tradizione orale sono, per quello che riguarda la nostra arte, della massima importanza per la nostra famiglia: esse non sono trasmesse che a un solo uomo per generazione. Anche se si trattasse di vostro figlio, guardatevi dal trasmetterle ad un incapace. È detto: «Non è per i legami di parentela che si costituisce una stirpe. Non è per la nascita, è per il sapere che si forma un uomo». Questo [principio] deve portare alla totale perfezione il fiore meraviglioso dalle diecimila virtù” (Zeami 1960: 150). Quest’ultima citazione pone in risalto come la scelta dell’erede sia tutt’altro che semplice, non essendo dettata da regole e consuetudini invariabili, come quelle del sangue. Ne deriva che la scomparsa improvvisa del successore designato comporta la perdita – avvertita come irreparabile – di un prezioso bagaglio fatto non tanto di capacità e conoscenze teorico-tecniche, quanto di una sorta di sapienza, o forza pneumatica, capace di vivificare perpetuamente la tradizione, atta ad assicurare la vita attraverso gli anni e le epoche ad una forma – il n1o in questo caso – che altrimenti inaridirebbe velocemente in un suo meccanico ripetersi: ciò che ad un erede capace si tramanda è “la tradizione segreta e i misteri nascosti” di una via, non semplicemente la forma attraverso cui questa si manifesta. Quanto appena affermato consente di riprendere e approfondire il fondamentale tema del sistema ereditario solo tangenzialmente lambito nel capitolo precedente. Innanzitutto è bene osservare un importante passaggio, originato durante il periodo Kamakura tra le classi non aristocratiche, nelle abitudini matrimoniali. La poligamia a residenza matrilocale, che obbligava il marito a visitare le mogli nelle rispettive case materne, poco si adattava alle limitate disponibilità economiche e di tempo di chi, per il proprio sostentamento, doveva dedicare al lavoro buona parte della esistenza. “Così i contadini e gli artigiani avevano trovato un compromesso, che costituiva il passaggio da un patriarcato relativo o moderato, con residenza matrilocale, al patriarcato a residenza patrilocale, che divenne la regola nelle famiglie non aristocratiche, a partire dall’epoca di Kamakura” (Frédéric 1968: 56). Tra i buke, o famiglie di guerrieri, la monogamia diventò la regola. Il richiamo al patriarcato “moderato” combinato con la mitologia di fondazione giapponese ricordata potrebbe far pensare ad un matriarcato originario. “L’ipotesi del matriarcato, cioè di uno stadio in cui il controllo e l’autorità sarebbero stati dotazione esclusiva delle donne si è rivelata priva di un fondamento reale. Anche nelle società matrilineari dove la discendenza e la proprietà sono definite in rapporto alla linea femminile, il controllo economico e l’autorità politica (a livello di gruppi) ma anche l’autorità domestica (a livello della famiglia) sono «normalmente» esercitate dagli uomini” (Bernardi 1998: 236). Su tale ordine problematico, perché ben connesso al tema del maschile e del femminile già in parte affrontato, ritengo opportuna una breve digressione sulla “valenza differenziale dei sessi” proposta e approfondita da Françoise Héritier. Con una disamina veramente ampia e trasversale l’autrice rinviene come, al fondo di qualunque cultura o società – matrilineare o patrilineare essa sia – si riscontri una preminenza

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maschile. La valenza differenziale si esprime, secondo Héritier, attraverso un rapporto concettuale orientato (cfr. ad esempio il rapporto fra Izanami e Izanagi): “cercando da dove questa «valenza differenziale dei sessi» potesse provenire, quali fossero i primi fenomeni da prendere in considerazione per spiegarne la presenza universale, ho finito per concludere con l’ipotesi che non si tratta tanto di un handicap della parte femminile (fragilità, minore peso, minore altezza, impedimento dato dalle gravidanze e dall’allattamento) quanto dall’espressione di una volontà di controllare la riproduzione da parte di coloro che non dispongono di questo potere così particolare” (Héritier 1996: 11). Non è mio interesse trattare della differenza dei sessi quale “ultimo limite del pensiero” – sempre Héritier – da superare, avversare, rifiutare o sostenere, ma credo fortemente sia da rigettare l’ipotesi che il dono della procreazione sia prerogativa di una sola metà del mondo: la saggezza del Tao, in tale occasione, mi sembra un buon antidoto ad una posizione che, sicuramente in modo provocatorio, propone il passaggio da un’ideologia ad un’altra di segno opposto ma di medesima schiatta. La transizione da un patriarcato “moderato” ad uno “assoluto”, riprendendo il discorso interrotto, si fissò in forme assai categoriche e rigide durante il lungo periodo Tokugawa con la sempre meno elastica applicazione dei principi neoconfuciani. La donna, ad esempio, doveva sottostare alle tre obbedienze e alle quattro virtù, ossia ubbidire al padre e ai fratelli da nubile, al marito da sposata e ai figli da vedova; castità, modestia, fedeltà e ubbidienza erano valori femminili riconosciuti imprescindibili. Dal matrimonio – insegna l’antropologia – dipendono due tipi fondamentali di parentela: consanguinea e affine. “La parentela di consanguineità è il tipo più genuino e autentico e si basa sul presupposto biologico che si manifesta nella discendenza genealogica. Essa rintraccia il legame dei singoli individui e costituisce il pernio «naturale» delle associazioni di parentela. […] La parentela di affinità è di ordine unicamente sociale e si avvera per effetto della norma sociale o per legge” (Bernardi 1998: 234-235). Come visto a partire dal Museki Isshi e da alcuni passaggi zeamiani stralciati dai suoi trattati, la necessità della discendenza è implicata a questioni di sangue e merito. Il Giappone, ma non solo, ha messo a punto vari sistemi a tutela sia del desiderio-dovere di discendenza – legato ad esempio alla necessità di perpetuare il culto degli antenati – sia del mantenimento di valori e abilità specifici a particolari gruppi. “Nel caso, abbastanza frequente, di un guerriero che non avesse un erede maschio, oppure reputasse che nessuno dei suoi figli fosse in grado di succedergli, egli poteva adottare come erede un’altra persona, in generale un parente, il quale allora assumeva anche il suo nome. […] La cosa più importante di tutte era conservare la coesione della famiglia […]” (Frédéric 1968: 79). L’istituto dello y1oshi, antico sistema di adozione tipicamente giapponese, si inserisce proprio in tale contesto. “Dall’epoca Kamakura in poi, diventò frequente l’abitudine di adottare un genero, o di far sposare una delle proprie figlie a un uomo che

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si desiderava di adottare e che non apparteneva alla famiglia. […] L’adozione poteva assumere tre forme: una prevedeva la successione ai soli beni, la seconda al nome soltanto, e la terza contemplava una successione completa. Nello stesso modo poteva essere fatta provvisoriamente, o sotto particolari condizioni” (Frédéric 1968: 80). Lo y1oshi ben testimonia il livello di importanza raggiunto in Giappone dalla dinamica intergenerazionale e dalla tensione alla continuità. Ho potuto direttamente osservarne le modalità all’interno del ramo della famiglia Umewaka, guidata oggi da Umewaka Manzabur1o III, presso la quale ho condotto una ricerca sul campo di tre mesi nel 2000 e che ho successivamente incontrato altre volte in occasione di laboratori tenuti in Italia. Il maestro Manzabur1o è padre di due figli maschi, il maggiore dei quali pare già designato a succedergli nella conduzione della compagnia di famiglia, la Umewaka Kenn1okai. Il fratello minore di Manzabur1o sensei, Masaharu sensei, è invece padre di due figlie non iniziate alla via del no1 (negli ultimi decenni, nonostante il no1 sia un genere teatrale tradizionalmente maschile, il numero di attrici ammesse all’arte è aumentato come pure è aumentato il livello tecnico ed espressivo da loro raggiunto). Circa cinque anni fa sono state celebrate le nozze tra uno dei migliori allievi di Manzabur1o e una figlia di Masaharu: il primo ha acquisito il nome Umewaka e con esso tutte le prerogative di un effettivo discendente della famiglia. L’opzione adottata ha il duplice pregio di mantenere una discendenza di sangue – seppur in linea femminile – e una d’“arte”, o di merito. Considerando una famiglia di no1 – e la compagnia teatrale che essa esprime – alla stregua di una corporazione artigiana – fin dall’origine del Giappone storico “si osserva l’esistenza di raggruppamenti familiari di artigiani, «uomini di un’arte» chiamati Be, i cui segreti e trucchi del mestiere si trasmetteranno di padre in figlio” (Frédéric 1968: 176) – è facile intuire come il suo prestigio sia vincolato non solo al nome, alla mera esistenza, ma agli esiti del suo operato, ai “prodotti” che è in grado di esprimere. Un leader che veda in sé riuniti i doni del nome e dell’“arte” potrà sicuramente svolgere con maggior carisma ed efficacia il proprio compito di guida e di fulcro strutturale del gruppo da lui dipendente. Di base tragica, nella mia accezione, si rimanifesta così lo scritto considerato, tanto che, alla morte di Motomasa, Zeami non può che dire: “Ed ora, anche se io volessi trasmettere i miei scritti, a chi potrebbero essere utili?”. Il venire meno di un anello nella trasmissione diretta dei saperi rende improvvisamente vuote tutte le parole che fino ad un attimo prima vibravano gravide di senso, pulsavano al ritmo del cuore (il kokoro di cui diffusamente parla Zeami) di colui che ne incarnava i significati, di colui che unico era in grado di trasfonderli in corpo-vita: “si tratta di comprendere non la tecnica, ma i segreti della tecnica, che bisogna possedere per superarla” (Barba in Azzaroni 1990: 10). Il Museki Isshi ci fornisce in ultima analisi la prova che i Trattati indicano la via dei maestri e non il percorso di crescita che dovrebbe accompagnare ogni allievo alla maestria attorica. I Trattati non possono essere affrontati in modo diretto dall’al-

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lievo: abbisognano invece di un maestro in grado di interpretarli e tradurli in lezione pratica per chi si trovi sulla via dell’apprendimento. Come tutto ciò che è “misterioso” e “segreto” si compongono di simboli e procedono per ‘salti mitici’ più che per ‘linearità logiche o storiche’, tanto da aprire alle dimensioni del sacro raccordabili al mondo solo per mezzo di un sacerdote, un intercessore, un maestro. Lo spazio della maestria è, almeno in contesto nipponico, archetipico, laddove con Zolla archetipo deve intendersi – sostituendo “uomini” a “oggetti” –, come qualcosa “che aduna in un insieme una pluralità di oggetti, coordinandoli a certi sentimenti e pensieri” (Zolla 1988: 76). Lo spazio e l’operatività della maestria, sempre attraverso la sua natura archetipica, diviene emblema di gerarchia armonica – garanzia contro l’anomia – e di discendenza: “ciò che si percepisce dipende dall’archetipo cui si è intonati. Tra adesso e i tempi confuciani, quando l’intonazione dei flauti e il portamento dei partecipanti ai rituali erano la massima questione di Stato, la differenza non è di sostanza ma di consapevolezza. Ancora oggi l’archetipo è decisivo, ma la sua importanza ci sfugge perché la nostra scarsa attenzione non afferra ciò che oltrepassa la sfera d’interessi della generazione presente” (Zolla 1988: 56). Per i Maestri, per i Padri, la generazione presente non è sufficiente, è a tutte le generazioni future che già guardano. L’eredità di Zeami L’eredità di Zeami risulta nel suo complesso non compendiabile. Riferendosi unicamente alla produzione diretta di testi teorici e drammaturgici – Zeami per qualità e quantità è il maggior librettista n1o di tutti i tempi – il materiale risulta di per sé notevole. Se poi, unitamente alla quantità degli scritti, si considerano la profondità e la ricchezza contenutistica degli stessi l’accumulazione progredisce esponenzialmente. Vari studiosi, filosofi, glottologi, teatrologi, storici e rappresentanti di altre discipline hanno applicato i propri metodi analitici al sondaggio della produzione di Zeami creando a loro volta una messe enorme di studi e conoscenze. Infine la genia di attori e uomini di teatro che da Oriente a Occidente, in epoche differenti, hanno attinto all’abbondanza zeamiana – abbondante è ciò che, per quanto se ne tragga, non diminuisce – concludono sommariamente il quadro. Trattando dell’eredità di Zeami intendo seguire prevalentemente le scelte in materia di trasmissione e successione adottate dal fondatore dopo la morte di Motomasa. In linea di massima si suole chiosare la vicenda indicando in Zenchiku, genero di Zeami ed esponente della famiglia Komparu, l’erede quanto meno spirituale prescelto. L’eredità di Zenchiku, però, non è solo spirituale visto che sono stati oggetto di trasmissione anche alcuni dei trattati frutto della riflessione del suocero: “il fatto che dopo la morte di Motomasa, Zeami scegliesse Zenchiku come suo successore

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spirituale affidandogli i preziosi manoscritti dell’insegnamento segreto costituisce la prova suprema di riconoscimento da parte del vecchio maestro dei risultati artistici di Zenchiku” (Ortolani 1990: 124-125). Anche il fratello minore di Zeami, Shir1o, e On’ami, il nipote, ricevettero alcuni importanti trattati, il che basta ad includerli nella lista degli eredi. Il possesso di documenti scritti che raccolgono l’essenza di un sapere prevalentemente orale garantisce al possessore una autorità innegabile e il diritto di esercitarla. In un importante articolo dedicato proprio al rapporto tra Zeami e Zenchiku, Pinnington pone l’analogia tra il caso del n1o e la tradizione buddhista del taimitsu: “nella tradizione del taimitsu l’importanza primaria era riconosciuta al processo di insegnamento orale, kuden, ma fatti storici e altre informazioni venivano annotate per iscritto quali promemoria. Tali note frammentarie erano copiate, collazionate e tramandate e i loro possessori le utilizzarono come prova della propria autorità” (Pinnington 1997: 204). L’eredità di Zeami, sia essa spirituale o concreta, impone allora una problematizzazione assai interessante da indagare. Il rapporto tra il piccolo On’ami e lo zio paterno non è purtroppo ben documentato ma si ritiene che Zeami, prima di aver avuto figli propri, adottò il nipote per garantire una discendenza alla famiglia Kanze. Assai note, invece, le profonde divergenze manifestatesi tra i due durante l’età adulta di On’ami in materia estetica e drammaturgica: mentre Zeami spingeva sempre più le sue teorizzazioni e la sua prassi nel senso dell’essenzialità, della pacata e misteriosa qualità estetica dello y1ugen, l’incanto sottile, On’ami si distingueva quale attore fantasioso, vivace, interessato alla spettacolarità e al fulgore della realizzazione scenica con una netta preferenza proprio ai ruoli di demone che lo zio stava progressivamente emendando dal repertorio. La spaccatura tra i due risultò così profonda che Zeami non accettò mai completamente, neppure dopo la scelta del proprio secondogenito Motoyoshi di farsi monaco e la morte di Motomasa – quindi in assenza di eredi diretti – di riconoscere a On’ami la successione a capo della scuola Kanze. L’ostinato rifiuto, sebbene successivamente un po’ mitigato, fu una delle probabili cause dell’esilio a Sad1o nel 1434. Alla morte di Yoshimitsu (1408) il nuovo sho1 gun mostrò una certa preferenza per il dengaku ma la posizione di Zeami non subì particolari contraccolpi, anzi, una flessione negli impegni pubblici favorì senz’altro la sua attività di scrittura. Tutto cominciò a precipitare con la salita allo shogunato, nel 1428, di Yoshinori il quale, ancor prima di ricevere il titolo di generalissimo, aveva eletto a proprio preferito On’ami: “[…] nel 1429 Yoshinori proibì a Zeami e Motomasa di esibirsi per l’imperatore Gokomatsu segregato al palazzo imperiale Sent1o. Quindi nel 1430 Zeami fu destituito dal prestigioso incarico di direttore musicale al santuario Kiyotaki. Nello stesso anno il secondo figlio di Zeami, Motoyoshi, decise di abbandonare la sua carriera d’attore e diventò monaco. Nel 1432 il figlio prediletto di Zeami, Motomasa, la sua grande speranza per la continuità dell’autentica tradizione del n1o, morì” (Ortolani 1990: 121). In un arco di tempo limitatissimo il pro-

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blema della successione, della giusta e opportuna successione, si palesa a Zeami con improvvisa criticità. I trattati, oltre a stabilire una genealogia di alti natali e a fungere da documento attestante un’autorità, hanno quale orizzonte d’attesa la tutela e la trasmissione di una precisa concezione dell’arte. Al momento di affrontare il F1ushi-kaden, i cui primi tre libri furono completati nel 1400, Zeami era probabilmente privo di figli – secondo Pinnington (Pinnington 1997: 207) Motomasa potrebbe essere nato tra il 1393 e il 1402 – e se anche “Motomasa fosse stato già nato Zeami avrebbe potuto credere di non avere tempo a sufficienza per trasmettergli gli insegnamenti del padre. Zeami era allora trentasettenne e siccome Kannami era morto a cinquantuno anni, potrebbe aver pensato gli rimanessero solo altri quattordici anni di vita” (Pinnington 1997: 208). La compilazione del F1ushi-kaden si conclude nel 1418 con il VII libro il cui colophon fornisce importanti indicazioni: “Item, queste Note complementari, le avevo trasmesse l’anno passato al mio fratello minore Shir1o; tuttavia, poiché Mototsugu è notevolmente dotato per la nostra arte, gliele trasmetto a sua volta. Esse devono rimanere segrete” (Zeami 1960: 151). La preoccupazione di una interruzione nella perpetuazione della tradizione familiare spinge Zeami ad una azione di garanzia consistente nell’anticipare al fratello cadetto, che per contrasto pare perdere quanto a spessore artistico rispetto il nipote, un lascito che poi sarebbe stato offerto anche al proprio figlio naturale. Si ripalesa, in queste righe, una nuova accezione del doppio percorso più volte emerso. Se da un alto l’idea che la tradizione debba essere trasmessa ad un erede meritorio quanto a capacità artistica, posizione ribadita dall’ammissione per merito di Motomasa al testo segreto – gli studiosi concordano sul fatto che Mototsugu e Motomasa siano la stessa persona –, dall’altro credo si possa ipotizzare che Zeami vedesse nel fratello una figura più avvezza alle abitudini della corte, al mantenimento dei delicati equilibri politici su cui il benessere e la fama dei Kanze aveva poggiato la propria ascesa; da qui la precedente e preventiva trasmissione del VII libro a Shir1o e, quindi, a On’ami. “La famiglia Kanze attendeva a doveri ufficiali da cui ricavava considerevoli rendite. Si suppone che la distribuzione delle sue opere [di Zeami], quindi, rifletta tanto l’ideologia artistica quanto il fabbisogno derivante dal ruolo pubblico della famiglia. […] L’accesso delle za di sarugaku a entrate regolari fu talvolta assicurata attraverso il possesso ereditario del ruolo di gakut1o (maestro di rappresentazione). La perdita di tale posizione, disastrosa per la stirpe, avveniva quando il detentore mancava nella fornitura di rappresentazioni adeguate” (Pinnington 1997: 208211). Si deve rammentare che nel XV secolo gli attori si sfidavano in veri e propri agoni teatrali e che per Zeami l’interpretazione andava regolata “sulla presenza delle persone di qualità” (Zeami 1960: 94). L’eccellenza artistica era propedeutica ai ruoli istituzionali di rilievo ma è impensabile che a determinate incombenze si potesse giungere senza un forte appoggio politico: il caso della protezione di Yoshimitsu data a Zeami e di Yoshinori a On’ami è emblematico.

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Tra il 1420 e il 1424 pare che Zeami, secondo il criterio del doppio percorso appena esposto, abbia distribuito ai prescelti quanto fissato nei suoi scritti fino ad allora. Per la concisione e la completezza documentaria dello specifico studio condotto propongo una lunga citazione da Pinnington: “tutti i potenziali successori di Zeami sopra menzionati [Motomasa, Motoyoshi, Shir1o/On’ami, Zenchiku] ricevettero degli scritti in questo periodo, scritti che riflettevano il rispettivo livello di maturazione artistica raggiunto e le aree di interesse. I dati in merito alla distribuzione dell’opera di Zeami tra i suoi discepoli sono complessi e incompleti. Sono presenti riferimenti interni e al contesto generale di rilevante importanza. Alcuni scritti, ad esempio, sono contrassegnati col nome del destinatario. Un altro tipo di indicazioni risiede nella distribuzione degli scritti fra le collezioni venute alla luce nel corso del XX secolo. I testi rinvenuti nel fondo della famiglia Kanze principale, il solo sicuramente non copiato da altre collezioni, si pensa sia stato trasmesso da Zeami al fratello più giovane, Shir1o, o a suo nipote, Onnami, dai quali discende il principale lignaggio Kanze. La cosiddetta collezione Yoshida, distrutta nel terremoto del 1923 ma fortunatamente precedentemente trascritta nel Zeami J1urokubu Sh1u prima del disastro, si crede sia stata trasmessa alla troupe Ochi dei Kanze e consista in scritti tramandati dai figli di Zeami, Motomasa e Motoyoshi. Solo gli scritti rinvenibili nelle collezioni della famiglia Komparu erano probabilmente destinati a Zenchiku. Stando a tali documenti Onnami pare abbia ricevuto alcune sezioni di F1ushikaden, Kash1unai N1ukigaki e Ongyoku Kowadashi Kuden, un riepilogo degli insegnamenti di Kanami sul canto – tutti testi relativamente antichi. Nella collezione Yoshida dobbiamo distinguere quelli destinati a Motoyoshi da quelli per Motomasa. Motoyoshi stesso, nello Shiki Sh1ugen dichiara che Motomasa ha ricevuto il Kaky1o, mentre egli il Sand1o. Il testo stesso degli insegnamenti di Zeami in possesso di Motoyoshi, il Sarugaku Dangi, menziona e sembra citare il F1ukyoku Sh1u, un altro testo della collezione Yoshida. Il Sando1 affronta il processo di composizione di un no1 e il Fu1 kyoku Shu1 concerne il canto. Motomasa, che alla fine Zeami scelse come successore, si ritiene abbia ricevuto il resto delle opere: Shikad1o, Nikyoku Santai Ningy1o Zu, Y1ugaku Sh1ud1o F1uken, Ky1ui e altri in aggiunta al Kaky1o. La maggior parte di questi erano testi principali riguardanti i più importanti aspetti interpretativi ed è singolare che nessuno riporti nel colophon un destinatario. Zeami stava forse preservando il suo diritto a modificare la propria scelta ordinando al proprietario di passarli ad un nuovo favorito? Tutti questi scritti furono completati prima del 1424, tempo in cui Zeami prese i voti buddhisti e la posizione di attore leader della compagnia passò alla generazione successiva” (Pinnington 1997: 213-214). Da notare, in prima battuta, il possibile atteggiamento attendista di Zeami, atteggiamento mantenuto per tutta la vita nella speranza di incontrare chi, per merito e lignaggio, avrebbe potuto riunire il doppio percorso di trasmissione da lui avviato prima della constatazione delle eccelse qualità di Motomasa e, purtroppo per lui, mantenuto in seguito alla prematura scomparsa dell’erede designato. Ad ogni modo il lungo brano riportato, che circoscrive la spartizione dei testi zea-

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miani redatti fino al 1424, non contempla l’eredità toccata a Zenchiku. La mancanza è motivata dalla particolarità del rapporto intercorso tra i due e dal ruolo giocato da Zenchiku in un periodo di poco successivo. La loro prossimità non è ascrivibile solamente al matrimonio tra la figlia di Zeami e Zenchiku ma anche ad un legame precedente tra le due famiglie. Secondo il documento noto come Genealogia Kanze-Fukuda, infatti, nella sua prima infanzia Zeami fu affidato all’educazione di un membro della Komparu za (Ortolani 1990: 119). Il matrimonio, avvenuto secondo gli storici tra il 1425 e il 1432, sancisce ufficialmente una parentela e un successivo intensificarsi del rapporto ora di suocero e genero. Nel frangente temporale indicato per il matrimonio Zeami scrive e trasmette a Zenchiku due testi appositamente a lui dedicati, Rikugi e Sh1ugyoku Tokka, oltre ad alcune opere per la scena. Il dono fatto può essere inteso alla stregua di una dote, una base a garanzia della prosperità ed autorità artistica della famiglia cui la figlia entrava a far parte. Vale la pena sottolineare, a scanso di equivoci che potrebbero originare dalle indicazioni fornite sui sistemi di adozione giapponesi, che il matrimonio non prevedeva in alcun modo il transito di Zenchiku dai Komparu ai Kanze. È stato notato come gli scritti offerti in dote a Zenchiku fossero in relazione al grado di maestria riconosciutogli dal suocero al momento della donazione e da considerarsi, quindi, strumenti di base e di non eccelso livello teorico ed estetico: Zeami sostiene Zenchiku nella sua crescita professionale ma si guarda dal far uscire dall’ambito strettamente familiare e per di più verso un gruppo potenzialmente in competizione professionale, gli esiti più alti del patrimonio sapienziale e artistico dei Kanze. All’interno della famiglia Kanze, nel frattempo, si erano delineate due compagnie ben distinte: la honke, ossia la compagnia espressione del lignaggio principale facente capo a Motomasa-Zeami, e la bunke, ossia quella facente capo al lignaggio secondario di Shir1o-On’ami. Documenti attestano che nel 1429, presso la corte shogunale Muromachi, due troupe Kanze si produssero in modo autonomo: la honke perse progressivamente il favore del governo militare – come peraltro già anticipato – a vantaggio della bunke la quale, dopo la morte di Motomasa, riuscì nonostante l’opposizione di Zeami a vedersi riconosciuto lo statuto di honke e a far conseguentemente propri i privilegi e gli incarichi relativi. A seguito di questa spaccatura e della progressiva declinazione alla terminologia e ai principi zen visibile in Zeami a partire almeno dal 1418 si può far risalire la designazione di Zenchiku ad erede ideale della Via percorsa da Zeami. Lo zen, in particolar modo, ha sempre posto grande attenzione all’addestramento e alla maestria, aspetti la cui importanza è stata accresciuta, inoltre, da una innegabile idealizzazione del rapporto maestro-allievo nel lungo periodo del Medioevo giapponese: “le convenzioni che governano la trasmissione artistica da generazione a generazione nel Giappone medievale sono state descritte da Konishi Jin’ichi nel suo studio dedicato alla michi [strada, percorso] intesa come vocazione artistica. Konishi cita i lignaggi del sarugaku come esempi tipici del funzionamento del sistema michi. Secondo la sua analisi michi si può riferire alla specializzazione in una particola-

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re arte o area di conoscenza. Chi era ammesso alla Via le dedicava la propria vita, concentrava in essa ogni sforzo personale e non sprecava tempo in altri studi. […] Il percorso era governato da un’etica conformista. Il solo obiettivo degli allievi era di riprodurre la tecnica del Maestro. Una michi doveva essere trasmessa attraverso le generazioni lungo una linea di maestri situati idealmente nel passato. […] Konishi conclude affermando che specializzazione, universalità, conformismo etico e trasmissione procurano ad un’arte l’autorità necessaria per essere considerata michi” (Pinnington 1997: 208-209). Specchio macrosociale del sistema michi, relativo alle arti, è il sistema ie (casa). L’affinità principale tra i due è la tensione alla continuità, alla permanenza perpetua nel tempo del proprio istituto. Riferendosi michi ad un’espressione particolare, ad un segmento parziale della società nel suo complesso, si può desumere, sebbene non in modo categorico, una relazione gerarchica in cui ie ha la preminenza. La definizione di Zenchiku quale erede di Zeami rimbalza ambiguamente tra le sponde di michi e ie. Molti documenti di mano degli stessi Zeami e Zenchiku descrivono l’alterno prevalere di una delle due tendenze: attestazioni di stima e appellativi reciproci di maestro e allievo si combinano con osservazioni di lontananza poetica e rilievi di differenze interpretative frutto di autonome eredità familiari. Zenchiku, i cui trattati fondamentali Rokurin ichiro no ki (Saggio sulle sei ruote e una goccia di rugiada, 1456) e Rokurin no ki ch1u (Note ulteriori su sei ruote e una goccia di rugiada, 1465) possono essere letti nella traduzione inglese di Thornhill (Thornhill 1993), non abiurò mai il suo essere Komparu. Fondò sulla propria genealogia e sulla propria tradizione familiare i mezzi espressivi che ne sancirono la fama e il ruolo nella società. Nelle opere drammaturgiche e negli interessanti scritti teorici la benefica prossimità zeaminana appare chiaramente ma, credo si possa affermare, Zenchiku ha sempre evitato una possibile confusione identitaria riconoscendo una preminenza, magari minima, di ie su michi. Rilevo in Zeami il medesimo atteggiamento sebbene gli accadimenti occorsigli tra il 1432 e il 1434 (morte di Motomasa ed esilio) giustifichino profondamente l’individuazione in Zenchiku della propria ultima speranza e quindi un finale prevalere, ancora una volta minimo, di michi su ie. Scomparsa definitivamente la possibilità di vedere riuniti nella propria za michi e ie, esplosi in modo irreparabile i contrasti familiari, approfondita sempre di più la penetrazione spirituale nel Biddhismo zen, Zeami giunge alla stesura di un nuovo trattato: Kyakuraika. Il fiore del ritorno. In apertura di trattato Zeami chiarisce la propria posizione rispetto Zenchiku e, sebbene non lo ritenga del tutto pronto a ricoprire il ruolo che sarebbe stato di Motomasa, appare disposto ad accordargli una certa fiducia. Tolto questo accenno, però, il Kyakuraika non menziona oltre Zenchiku preferendo indirizzarsi ad un qualcuno ancora non nato che, in un futuro non meglio precisato, abbia le capacità per riconnettersi alle radici profonde di una tradizione la cui linfa è un sapere antico, segreto e potente.

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In conclusione, prima di passare alla versione integrale del Kyakuraika, può essere puntualizzato che l’eredità di Zeami deve, almeno ad un primo livello, considerarsi confluita in modo equo, seppur sostanzialmente differente, sia nel lignaggio On’ami che nel lignaggio Zenchiku a garanzia del perpetuarsi della famiglia e dei suoi valori. Simultaneamente però, come augurato dalla chiusura del Kyakuraika – il trattato si conclude con l’invocazione “Un segreto profondo, un segreto profondo!” (Zeami in Nearman 1980: 195) – il messaggio recondito di Zeami sembra adagiarsi nel sacello protettivo della tradizione segreta per essere affidato alle cure del tempo. I Trattati, coincidenza assai suggestiva, hanno smesso di circolare già sul finire del XV secolo per riaffiorare solo ad inizio Novecento sprigionando alla loro emersione dall’oblio un potere attrattivo e identitario sorprendente. Indubbia la sfortunata vicenda umana di Zeami, ma indubbia anche la capacità di lottare per assicurare in qualche modo la continuità alla via del padre, all’insegnamento, all’identità e alla stirpe che ne erano espressione. Guardando alla situazione odierna del n1o, tanto alla scena quanto agli studi, Zeami ha raggiunto e oltrepassato il proprio scopo divenendo patrimonio comune di quanti attorno al n1o gravitino: “oltre ad aver scritto, riscritto o riveduto, molta parte del repertorio dei drammi del teatro N1o, Zeami ha lasciato ai suoi eredi alcuni insegnamenti teorici e pedagogici che, per circa cinque secoli, hanno costituito il punto di riferimento del lavoro delle famiglie di attori, soprattutto quelle (come la Kanze e la Komparu), direttamente legate, anche in senso genealogico, alla eredità di Zeami” (Ottaviani 2004, 85). Kyakuraika. Il fiore del ritorno Nel 1433, ormai certo di non avere alcun erede diretto cui affidare la tradizione segreta, Zeami scrive il suo ultimo trattato: Kyakuraika, letteralmente il fiore del ritorno. Il trattato, vero e proprio commiato teorico di Zeami, mette in sostanza per iscritto gli insegnamenti della tradizione orale trasmessi da Zeami a Motomasa. Drammaticamente tramontata la possibilità di vedere Motomasa a capo della nuova generazione Zeami spera, letteralmente, che il futuro già preveda la nascita di colui che saprà raccogliere i cocci – gli indizi – della tradizione per ricomporli e vivificarli. Il compito, di per sé non semplice, è ulteriormente reso arduo dal linguaggio e dall’incedere speculativo scelti da Zeami. Non casualmente, credo. Chi saprà operare la “rinascenza” della tradizione segreta – Zeami è definitivamente convinto del crollo imminente della sua Via – dovrà infatti dimostrare doti di penetrazione intellettuale e artistica eccelse e manifestarsi come “una eccezione tra le eccezioni” in grado di scoprire e decodificare la chiave di accesso al codice nascosto sotto la superficie verbale del testo. Per ovviare, almeno parzialmente, all’oscurità del trattato ho accompagnato le diverse sezioni di cui si compone con alcune brevi digressioni e ipotesi di lettura. La tra-

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duzione integrale che segue è stata condotta sulla versione inglese di Mark Nearman (Nearman 1980). Vari aspetti riguardano la trasmissione artistica della nostra professione. Considerando il tempo trascorso da quando ho ricevuto l’ultima istruzione familiare da mio padre ora ho raggiunto l’anzianità e il più intimo segreto della professione, senza alcuna eccezione, è stato completamente trasmesso a mio figlio Motomasa come eredità. [Io] Zea[mi] attendo solo l’evento finale della vita; così inaspettatamente la vita della nostra scuola è stata troncata dalla precoce morte di Motomasa, e la compagnia si trova sull’orlo del collasso poiché mio nipote [nipote maschio, figlio di Motomasa, ndt] è ancora nella sua infanzia. La via di [questo] doppio lascito che, ahimè, nessuno può accogliere è divenuta la maggiore fissazione di un cuore attempato e il più grande ostacolo ad una morte serena. Se ci fosse stata [una] persona [qualificata a ricevere l’eredità], sebbene fosse stato un estraneo, gli avrei affidato addirittura questa [parte del] lascito, ma un simile attore non esiste. Sebbene ad oggi [mio genero] Komparu [Zenchiku] Day1u sia una persona la cui capacità artistica è appropriata all’età e in grado di custodire la professione, non sembra ancora produrrà lo sviluppo [artistico necessario per conseguire il più alto livello dell’interpretazione]. Se i successi scaturiti dalle sue capacità artistiche si accumulano ed egli raggiunge la maturazione, dovrà impegnarsi a diventare qualcuno la cui recitazione raggiunga il livello di ‘un’eccezione tra le eccezioni’. Inoltre, siccome Ze[ami] non vivrà probabilmente fino ad allora, ahimé, ci sarà ancora qualcuno nella nostra professione che saprà attestare il [suo] raggiungimento [del sommo livello artistico]? Tuttavia Motomasa doveva aver pensato che eccetto Komparu nessun altro avrebbe potuto trasmettere alla posterità la reputazione professionale della famiglia e per questo permise a Komparu di leggere alcuni tra i più importanti volumi della tradizione segreta.

La sezione introduttiva ripercorre le traversie zeamiane connesse al suo lascito. La situazione è a dir poco deprecabile – le lamentazioni del Museki Isshi sembrano non aver mai trovato interruzione riversandosi ancora intense nel nuovo trattato – e, seppur con una marcata nota pessimistica, Zeami prova a passare al setaccio le opzioni ancora percorribili. La disponibilità a trasmettere la tradizione segreta anche ad un estraneo, a un non familiare, da un lato valida ulteriormente l’ipotesi proposta circa la preminenza di michi su ie in Zeami, dall’altro rimarca tutta l’amarezza e la sfiducia verso quel ramo della famiglia che aveva camminato la via in modo non ortodosso giungendo addirittura, grazie alle mutate condizioni politiche, a fare del lignaggio principale il secondario e viceversa. La definitiva promozione di On’ami a capo della compagnia Kanze per opera dello sho1 gun avviene circa due mesi dopo la stesura del Kyakuraika ma, probabilmente, Zeami aveva già compreso da tempo la direzione che avrebbero preso gli eventi. Altro nodo problematico di estremo rilievo scaturisce dall’affermazione di Zeami secondo la quale solo un vero maestro può riconoscere e consacrarne un altro. Il legame con lo zen, in cui solo un maestro illuminato può validare l’illuminazione dell’allievo, è sancito e trova un atto di fondazione esemplare la modalità di trasmissio-

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ne di ruoli e titoli che si strutturerà attorno al XVI-XVII secolo nel complesso sistema iemoto. Ora, anche se si può dire che Motomasa avesse compreso a fondo [tutti] i più reconditi segreti della professione, tuttavia l’aspetto di un particolare dramma sacro può essere trasmesso solo oralmente [unitamente] al [medesimo] dramma il quale non può essere rappresentato pubblicamente prima dei quaranta anni; egli non aveva realmente raggiunto quell’effetto nell’esecuzione. Questo [aspetto] è chiamato “l’apparenza del ritorno” e dopo i quaranta anni è, in una parola, ‘l’effetto di una sola volta [nella vita]’. Sebbene Motomasa avesse conseguito un livello base di espressione nel quale era già pienamente padrone del [nostro] modo di recitare, esiste una trasmissione orale della tradizione segreta secondo la quale, necessariamente, quel [tipo di] esecuzione non può essere creata prima dei cinquant’anni. Mentre si avvicinava alla sua fine comprese pienamente [l’effetto] quando disse che non aveva bisogno di compiere il superfluo. La mente che realizza questo fare senza compiere il superfluo può dirsi illuminata nella recitazione del n1o. Ora, ciò che è chiamato il modo [di recitare con] “l’apparenza del ritorno” è una trasmissione nascosta del Supremo Principio Miracoloso [che costituisce il funzionamento del corpo, della voce e della mente]. È stato detto che “si aspira al ritorno, ma non si accelera verso di esso”. Poiché questo era un segreto [dell’interpretazione] che non doveva essere divulgato, divenne un’eredità trasmessa solo a Motomasa; tuttavia, dopo la sua morte prematura, poiché non ci sarebbe stato nessuno negli anni futuri che avrebbe saputo intenderne nemmeno il nome, l’ho espresso con carta e inchiostro, ma è un segreto profondo, un segreto profondo.

Zeami introduce, senza peraltro approfondirlo o indicare il modo di conseguirlo, un certo effetto legato ad un elevato grado di maestria: kyakuraifu1 , l’apparenza del ritorno. La tensione al ritorno, in un certo qual modo un principio di moto circolare, sembra poter essere collegata al percorso ideale di crescita attoriale immaginato da Zeami nel Ky1ui-shidai, La scala dei nove gradi (Zeami 1960: 233-240). Il giusto procedere sulla Scala dei nove gradi prevede l’accesso ai tre gradi medi, quindi l’approdo ai tre superiori e, solo dopo la completa padronanza dei vertici espressivi dell’arte, la discesa ai tre gradi inferiori. Un iter dissimile da quello descritto pregiudica ogni velleità di maestria. L’attore che abbia completato tutte queste tappe nell’ordine previsto, infatti, possiede la padronanza completa di ogni mezzo necessario a catturare l’interesse di qualunque uditorio, sia esso composto da persone colte o incolte, qulunque personaggio egli interpreti. L’effetto del kyakuraif1u, come appare abbastanza chiaro dal testo, sarebbe connesso alle modalità rappresentative di un “particolare dramma sacro”. Zeami si riferisce probabilmente a quei drammi in cui il personaggio principale è una divinità o un essere demoniaco. Verificando i rimandi intertestuali tra Ky1ui-shidai e Nikyoku santai ezu, Studio illustrato dei due elementi e dei tre tipi (Zeami 1960: 207-219), altro trattato zeamiano risalente al 1420, due dei tre gradi inferiori – nello specifico lo Stile potente e meticoloso e lo Stile potente e violento – collimano rispettivamente con lo Stile del movimento particolareggiato e lo

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Stile del movimento violento: tali stili di movimento sono propri di personaggi superi, spesso demoniaci. Sono questi i personaggi che Zeami, propugnatore di una estetica improntata alla misteriosa bellezza dello y1ugen, considera meno interessanti, quelli che solo un grande attore – e pone Motomasa tra questi – sa interpretare in modo tale da mantenere desta l’attenzione dello spettatore oltre la superficie di un effetto visivo autotelicamente spettacolare o spettacolarizzato. Con Nearman (Nearman 1980: 172) si deve però rilevare che il “particolare dramma sacro” è con ottima probabilità da riconoscersi in Okina (il Grande Vecchio) – ancora oggi proposto dagli attori n1o come evento rituale – divinità beneaugurante e danza tra le più antiche appartenenti al repertorio n1o. L’esecuzione di Okina era pertinenza di attori già esperti e maturi: Motomasa, morto a trentasei anni, non aveva ancora potuto produrvisi. Ciò nonostante Zeami gli riconosce una profonda e precoce comprensione del segreto familiare dell’apparenza del ritorno. Da sottolineare infine la modernità della visione teatrale zeamiana laddove, con estrema chiarezza e concisione, il n1o è inteso quale testo spettacolare e come tale deve essere trattato e trasmesso: “tuttavia l’aspetto di un particolare dramma sacro può essere trasmesso solo oralmente [unitamente] al [medesimo] dramma”. Item, nella danza c’è un ‘sinistro-destro-sinistro sinistro-destro-sinistro’. Ci sarà un particolare luogo [per ogni singolo attore] in cui si eseguirà questo come ‘destro-sinistro-destro destro-sinistro-destro’. È una trasmissione segreta. (Questo ha la sua origine al tempo di Kiyomibara quando [cinque] donne divine discesero dal cielo sul monte Yoshino e sventolarono le loro maniche cinque volte). Inoltre, cominciando con la mia [regola dell’addestramento] dei Due Mezzi [del corpo e della voce] e i Tre Principi [per creare le caratterizzazioni] per i divertimenti pubblici, ogni cosa, qualunque spettacolo venga eseguito – nell’uso del corpo, [sia] nella postura che nell’aspetto – anche agli effetti [derivati] dall’immagine [mentale dell’attore] del [suo] più recondito intento, si potrà considerare questo come ‘sinistro-destrosinistro sinistro-destro-sinistro’. Questo è l’effetto del Miracoloso per realizzare l’intero repertorio e tutti i tipi [di ruoli], e indurre [una risposta simpatetica nel pubblico]. La tradizione orale dipende [da tale principio].

I “Due Mezzi” e i “Tre Principi”, tradotti nell’edizione italiana dello studio di Sieffert con “Due elementi” e “Tre tipi”, indicando rispettivamente il canto e la danza, e i tre personaggi tipo della mimica: tipo del vecchio, della donna e del guerriero. Nearman (Nearman 1980: 179-183) chiarisce che la combinazione sinistro-destro-sinistro si riferisce ad un modulo rappresentativo chiamato sayu1 sa derivato dal kagura. Denota un atto di venerazione, rispetto e gratitudine che l’attore esegue piegandosi e congiungendo le mani indicando il suo pregare. Per Zeami, che assegna all’umiltà dell’attore un ruolo strutturale della sua pedagogia, tale attitudine dovrebbe applicarsi ad ogni singola intenzione performativa. Il ribaltamento dello say1usa, chiamato y1usas1u, destro-sinistro-destro, si collega alla tradizione segreta e nel caso specifico alla danza di Okina. Trattandosi Okina di una

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performance non propriamente teatrale ma rituale, il Grande Vecchio non è visto dagli attori come semplice simbolo di longevità ma è vissuto come la manifestazione fisica della forza che consente la longevità. Il modo migliore per mostrare reverenza a questa forza creatrice ancestrale è dare libero corso all’espressione personale entrando in consonanza con la spontaneità e l’immediatezza della stessa: dal prescritto say1usa all’intimamente motivato y1usas1u. Pur mantenendo il significato della venerazione e del ringraziamento, infatti, y1usas1u non è uno specifico modulo coreografico o rappresentativo ma una modalità attraverso la quale, come insegnato dalla tradizione segreta, l’attore manifesta il potere creativo e trasformativo della poesia e del teatro. Altra possibile derubricazione del passo in analisi, accostabile per sommatoria a quella appena proposta, fa riferimento alla capacità dell’attore di variare la tradizione – quindi optare per un y1usas1u anziché un say1usa, ad esempio – per raggiungere il massimo grado possibile di concordanza, s1o1o nella terminologia zeamiana, con qualunque tipologia di pubblico. Indi, la Danza della Donna Celeste potrebbe essere [considerata] il modello base per una [esecuzione] di danza. [Noi] lo abbiamo assunto nella nostra via e le danze sono 1 eseguite esclusivamente [in tale modo]. Inu1o della provincia di Omi lo ha come suo punto di forza. Allo stesso tempo ci sono coloro che dicono che la Danza della Donna Celeste sia la 1 base per il sarugaku di Omi. Direbbero questo semplicemente perché è il punto di forza di Inu1o? È difficile [per me] dire [quale] sia l’origine. Per questa ragione, per tutte [le forme della mimica], si potrebbe parlare dell’esistenza di una tradizione orale e di una trasmissione per lignaggio storico come di un loro stile di base. Non ho mai sentito che Inu1o realmente abbia ereditato e poi tramandato un segreto [modo di rappresentare] un pezzo di Danza della Donna Celeste. Inoltre, dove non c’è testimonianza [da parte di un maestro] che dichiari la trasmissione dei più profondi segreti appartenenti ad una qualunque parte di una data scuola, è difficile stabilire [quale] [sia] stata la fonte. In generale, le pratiche tradizionali della Danza della Donna Celeste sono mostrate nel trattato Hitokata no Ezu [Illustrazioni per i modelli dei personaggi, Nikyoku santai ezu in Sieffert, nda]. [Questo] dovrebbe essere studiato e praticato a fondo.

In questa sezione Zeami sembra trattare in modo piano, quasi superficiale, dell’origine storica di alcuni aspetti tecnici. Con Nearman (Nearman 1980: 186-193), invece, si deve rilevare il profondo intento mitopoietico nel collegamento istituito tra origini della tradizione e la danza di un essere celeste: per estensione le radici del n1o allignano nel mondo supero. La pretesa discendenza, o ascendenza, divina del n1o è stata già individuata a proposito delle Origini rituali fissate nel Fu1 shi-kaden. Altra assonanza con il primo trattato zeamiano è proprio alla prefazione al primo libro: “Ora, dunque, ci viene detto che la pratica del Sarugaku-ennen [ennen, letteralmente prolungamento della vita, nda], se ne cerchiamo le fonti, trae origine dalla patria del Buddha, o anche che ci è stata trasmessa da una tradizione che risale all’età degli dèi;

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tuttavia, siccome quei tempi sono passati e dei secoli ce ne separano, non è più in nostro potere riprodurne lo stile” (Zeami 1960: 73). Zeami utilizza questa premessa per sancire la propria libertà creativa e artistica rispetto il passato ma, contestualmente, poggia l’enfasi sulla necessaria presenza di almeno un maestro per ogni generazione affinché la continuità e l’origine di una tradizione possa dirsi accertata. La Danza della Donna Celeste, infine, non deve interpretarsi come una particolare coreografia o un particolare ruolo scenico, piuttosto come emblema di una specifica modalità o cifra interpretativa propria della scuola di Zeami. Negli scritti sulla Danza di Suruga questa [danza] ha una storia d’origine in cui una fanciulla celeste discese dal cielo sulla spiaggia di Udo in Suruga. Allo stesso modo non ho notizia che quel dramma sacro sia stato trasmesso nel sarugaku. (Dicono che la manica di un abito di piume celesti di quel tempo sia ancora oggi conservato nel tempio Kyomi in Suruga).

Questa sezione si ricollega direttamente alla precedente. È interessante rilevare come Zeami, in accordo alle credenze dei suoi tempi, sia disposto ad accogliere la possibilità che una manifestazione divina lasci segni concreti del suo accadimento. Item: riguardo lo Shiraby1oshi, esso arrivò dall’Ennen [rappresentato] durante il culto di Yuima nella Capitale del Sud [cioè Nara]. Da allora questa è una esecuzione visibile facilmente ogni anno, la si può cercare e studiare. Si può trasformare la trasmissione delle storie delle varie professioni come questa nell’origine di [un’arte]. Tuttavia, nel [caso del] sarugaku, quando si danza in accordo con la natura del personaggio, quale [pezzo] in particolare possiamo definire come l’origine del sarugaku? Forse Okina può essere l’origine del sarugaku? Questa è in particolar modo materia della tradizione orale. Non è facile [da dire]. Un profondo segreto, un profondo segreto!

Zeami propone ulteriori probabili origini per il sarugaku. “Alcuni studiosi ritengono che lo sviluppo di drammi che presentavano alcune caratteristiche della struttura del n1o si sia verificato per la prima volta all’interno della tradizione di spettacoli ennen. Il nome ennen, che originariamente indicava preghiere per la longevità, divenne abituale per designare banchetti in onore degli ospiti dei templi o dei santuari dopo le funzioni. Con il passare del tempo divenne consueto inserire nel banchetto alcuni elementi di spettacolo e, mentre a poco a poco i banchetti scomparvero, l’elemento spettacolare si rafforzò con l’aggiunta di numeri presi in prestito dal gein1o (spettacolo popolare) allora più diffuso” (Ortolani 1990: 93). Tra questi lo shirabyo1 shi il cui programma, della durata di circa un’ora, era diviso in due parti e prevedeva canzoni e danze: era danzato da danzatori ma in prevalenza da danzatrici. Nel XII secolo il nobile di corte Fujiwara Moronaga “definì la musica delle danze shirabyo1 shi come quella di una «nazione prossima alla rovina». I danzatori piroettavano con la testa alzata guardando verso il cielo: «una vista penosa, sono danze disgustose, sia nella musica che le accompagna sia nei movimenti»” (Ortolani 1990: 99). All’iniziale uti-

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lizzo del tamburo come strumento di accompagnamento, indice del prevalere dell’elemento ritmico, si aggiunsero i cembali e, a partire dal XV secolo, il flauto a marcare l’ingresso di un elemento propriamente melodico. Molte, quindi, le affinità dello ennen con il n1o ma questo, come peraltro l’intento beneaugurante sotteso anche ad Okina, non è sufficiente a chiarire in modo incontrovertibile l’origine del sarugaku: un segreto profondo, inconoscibile. Item: questo volume è una trasmissione segreta della trasmissione orale [data a] Motomasa. Tuttavia, a causa della sua precoce morte, l’ho espressa con carta e inchiostro per consentire a coloro che verranno in futuro di non ricordare solo il suo titolo [Kyakuraika]. Se ci saranno simili persone, sarà un memento di Zea[mi] per [queste] future generazioni. Un segreto profondo, un segreto profondo. Eiky1o 5 [1433] in un [dato] giorno nel terzo mese di primavera.

Capitolo V

All’estremo l’altezza raggiunge la profondità

La regola… Gli elementi introdotti dal capitolo precedente inviterebbero subito ad una analisi del complesso sistema operazionale scaturente dall’interrelazione tra maestri, allievi e trattati quali agenti primi del processo di trasmissione dei saperi di generazione in generazione. Preferisco però affrontare tale fase analitica successivamente alla messa in campo di elementi connessi ai mutamenti socio-culturali del periodo Tokugawa (1603-1867), ossia al periodo seguente il Muromachi e lo Azuchi Momoyama (15681603). La civiltà Tokugawa è, infatti, foriera di valori essenziali non sottacibili per una corretta lettura – soprattutto se orientata ad una disamina nella contemporaneità – di ciò che la triade su menzionata veicola. Il governo shogunale Muromachi fu, escludendo la sua fase iniziale, sostanzialmente debole. Incapace di mantenere una posizione dominante favorì, suo malgrado, lo sviluppo di potentati periferici i quali, ben presto, cominciarono a scontrarsi l’un l’altro per vedere esteso il proprio dominio e la propria influenza. Il periodo intercorrente tra il 1467 e il 1568 è ricordato come Sengoku, letteralmente del Paese in guerra. Una guerra senza confini, ne di casta ne di luogo: “il Muromachi bakufu si ridusse ad una mera esistenza nominale. Si assisteva a scene pietose di kuge che, spogliati ormai delle proprietà terriere, e quindi non sapendo più come sostentarsi, o avendo avuto la casa bruciata, andavano ad abitare in provincia, contando sull’amicizia delle conoscenze. I contadini, dal canto loro, iniziarono insurrezioni in massa con le armi in mano. Fu un secolo crudo e brutale durante cui non vigeva nient’altro che l’imperativo di uccidere. Spuntavano e poi sparivano una dopo l’altra nuove figure. Non furono risparmiati neppure gli shugo daimy1o: quasi tutti scomparvero dalla scena politica e militare, vinti da rivali o più spesso addirittura rovesciati da un proprio suddito, a sua volta, messo fuori gioco da un proprio dipendente. Questo fenomeno, che si potrebbe definire una sorta di «intenso metabolismo socio-politico», era chiamato allora gekokuj1o (lett. Il basso vince l’alto.)” (Takeshita 1996: 76). Il movimento centrifugo e il rimescolamento sociale del periodo Sengoku validano per contrasto il ruolo ordinatore di un potere centrale – di confuciana memoria – capace di gestire la propria autorità e il proprio potere unificatore.

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Dopo la lunga schiera di personaggi fugacemente apparsi sulle scene del teatro bellico giungono, ad inaugurare e chiudere il periodo Azuchi Momoyama, tre uomini di non alti natali capaci di portare a compimento la pacificazione e l’unificazione del Giappone: Oda Nobunaga (1534-1582), Toyotomi Hideyoshi (1536?-1598) e Tokugawa Ieyasu (1542-1616). L’Azuchi Momoyama svolge un ruolo di transito perciò, se può essere considerato la conclusione, o soluzione del Muromachi jidai, deve ritenersi anche l’introduzione al successivo Tokugawa o Edo jidai: l’insieme dei periodi Azuchi Momoyama e Tokugawa viene indicato dagli storici come kinsei, letteralmente epoca vicina (early modern age). Ad inizio XV secolo lo sho1 gun Yoshimitsu aveva inaugurato una nuova fase nei rapporti con la Cina, testimonianza sia di acume politico sia di apertura e curiosità verso l’esterno dei confini nazionali; tale fase si concluse nel 1547 con la diciannovesima e ultima missione ufficiale. Negli stessi anni in cui il Giappone rinunciava ad una importante via di contatto verso il mondo – di non molto posteriore sarà la chiusura totale del paese, sakoku, imposta dal regime Tokugawa – un nuovo mondo approdò in Giappone: l’Occidente. Nel 1543 giunsero i portoghesi, nel 1584 gli spagnoli, nel 1609 gli olandesi e nel 1613 gli inglesi. Non che l’Occidente fosse ancora del tutto ignoto ma il primo contatto diretto, non mediato, fu sicuramente esplosivo, almeno quanto i fucili che assieme ai missionari sbarcarono dalle navi portoghesi. L’introduzione delle armi da fuoco giocò un ruolo essenziale nell’azione dei tre condottieri lanciati al dominio di un paese unito sotto la propria egida: “quando nel 1543 i portoghesi sbarcarono sull’isoletta di Tanagashima, al largo delle coste del Ky1ush1u, introdussero in Giappone anche l’uso delle armi da fuoco, insieme ai missionari. I moschetti, acquistati e ben presto costruiti anche dai giapponesi stessi, divennero subito un’arma decisiva nelle lotte tra i daimy1o. A farne le spese, fra gli altri, solo diciassette anni dopo, fu Imagawa Yoshimoto (1519-1560), daimy1o di Suruga e Mikawa, che durante la sua marcia di avvicinamento alla capitale fu attaccato e sonoramente sconfitto da un piccolo signorotto locale che assalì il suo grosso esercito con soli duemila uomini armati di moschetti. Questo successo clamoroso bastò da solo a proiettare il piccolo daimy1o dell’Owari, Oda Nobunaga, tra i maggiori contendenti dell’epoca” (Corradini 1999: 177). Assolutamente affascinante osservare come l’era samuraica per antonomasia, quella in cui la spada divenne indissolubile dal guerriero che la brandiva – ne era addirittura l’anima – sia stata preparata a colpi di arma da fuoco. Qualcosa di analogo succederà quasi tre secoli più tardi quando, costretti dai cannoni occidentali ad aprire al mondo le proprie frontiere, i giapponesi sapranno preservare la propria identità assorbendo modelli e stili di vita occidentali risignificandoli dall’interno con i propri valori. Il pragmatismo giapponese contempla la possibilità di conseguire un obiettivo operando in senso diametralmente opposto: l’onore e la purezza della spada attraverso il fragore e il diaframma dei moschetti.

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Oda Nobunaga individuerà nello shogunato il primo ostacolo alla sua affermazione. Le schermaglie prima politiche e poi belliche porteranno alla sconfitta di Yoshiaki il quale nel 1588 rinunciò al titolo ormai solo nominale di sh1ogun. Nobunaga non accettò mai incarichi shogunali – intesi a mitigarne l’irruenza – mentre fece incetta di onori e ruoli in seno all’impero. Il rapporto con l’imperatore fu comunque ambiguo tanto che Nobunaga, forse per timore di rimanere invischiato in un sistema di controllo che non lo convinceva, rifiutò addirittura il titolo di sh1ogun. Uomo risoluto e a dir poco sanguinario favorì il proselitismo missionario per sfruttarne la capacità di contrasto alle potentissime sette buddhiste dell’epoca. Morì proprio nell’anno del rifiuto allo shogunato per il tradimento di uno dei suoi vassalli di più alto rango, Akechi Mitsuhido. Il continuatore dell’opera di Nobunaga uscì, comunque, dalla schiera dei suoi generali: “Toyotomi Hideyoshi, che prese il posto di Nobunaga, era nato in una famiglia di contadini dell’Owari e fin da giovanissimo si era adattato a tutti i lavori, aspettando di trovare un padrone da servire. Introdotto al servizio di Nobunaga, questi ne apprezzò l’intelligenza e l’abilità dandogli la possibilità di avanzare di grado fino a emergere come generale. Già intorno al 1580 era tra i generali più quotati di Nobunaga. Per far dimenticare le umili origini adottò dapprima il nome di Kinoshita Tokichir1o che avrebbe cambiato poi in Toyotomi Hideyoshi (Toyotomi significa “Ministro Generoso”) quando, nel 1585, riuscì a farsi adottare da Konoe Sakihisa, appartenente al lignaggio dei Fujiwara. Alla morte di Nobunaga poteva a buon diritto esserne considerato il successore naturale” (Corradini 1999: 209). Hideyoshi, che mutò politica verso i missionari e più in generale verso gli occidentali con il suo primo rescritto di espulsione promulgato nel 1587, concluse l’unificazione dell’arcipelago e si adoperò per attuare un progetto di espansione giapponese sul continente, progetto arrestato dalla sua morte (1598) dopo due tentativi di conquista (1592 e 1597). Le campagne militari coreane, il cui obiettivo ultimo era la conquista della Cina, ebbero comunque il non secondario scopo di sfogare e indirizzare all’esterno la smania di conquiste e ricompense che i molti daimy1o avrebbero potuto riversare sul territorio nazionale. Hideyoshi è l’emblema del fenomeno gekokuj1o, un fenomeno che le sue stesse riforme renderanno presto non più possibile. L’impermeabilità castale del periodo Tokugawa trova le sue basi proprio nelle riforme volute da Hideyoshi. L’unificatore del Giappone inaugura un sistema di governo ormai pienamente feudale, vassallatico, in cui la rete di alleanze gestite era assai più importante del potere singolarmente posseduto. Un ulteriore passo compiuto da Hideyoshi verso quello che a breve sarebbe stata la struttura sociale Tokugawa fu l’operazione katanagari, letteralmente caccia alle spade, che portò nel 1588 alla confisca e alla proibizione del possesso di armi ai contadini: il pericolo di insurrezioni armate dal basso era scongiurato. Alla morte di Hideyoshi le truppe di stanza in Corea furono ritirate e tra i capi militari sorsero rivalità profonde – la campagna in Asia Orientale fu un sostanziale insuccesso – che si riversarono ora in Giappone. “Il giovane figlio di Toyotomi

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Hideyoshi, Hideyori, non riuscì ad avere un seguito che gli garantisse la supremazia e tra i vecchi collaboratori di Toyotomi Hideyoshi prevalse (battaglia di Seki ga hara, 21 ottobre 1600) Tokugawa Ieyasu (1542-1616) il quale, dato che la sua famiglia discendeva dai Minamoto, potè ottenere il titolo di sh1ogun dall’imperatore (che continuava a regnare a Ky1oto lontano dalle vicende politiche) e dette inizio ad una nuova dinastia shogunale che sarebbe rimasta al potere fino al 1868” (Corradini 199: 215-216). Ieyasu “ereditò” un Giappone già ben ristrutturato e la sua opera fu prevalentemente di consolidamento e irrigidimento nell’applicazione delle riforme introdotte. La corte imperiale, seppure sempre in subordine, quale autorità legittimante il nuovo generalissimo – l’investitura è del 1603 – riprese un po’ vigore ma soprattutto si vide riconosciute maggiori rendite che la strapparono da uno stato di indigenza ormai imbarazzante. Due le principali azioni politiche del primo periodo Tokugawa ad imprimere un segno profondo all’intero shogunato e alla civiltà che ne fu espressione: l’ordinamento gerarchico e piramidale della società e di ogni sua declinazione e il già citato sakoku, l’isolamento nazionale, letteralmente la “chiusura del paese”. L’intera popolazione fu suddivisa in quattro categorie di appartenenza chiamate mibun, per nascita ed ereditarie, e in ordine di importanza erano shi (bushi), no1 (contadini), k1o (artigiani) e sh1o (commercianti). Le ultime due categorie venivano sovente accomunate sotto il nome di ch1onin. Esistevano inoltre due classi di paria: eta e hinin. Tale struttura, che vedeva i contadini al secondo posto della piramide sociale, rispecchiava il sistema di sfruttamento del mondo agricolo su cui si basava il potere economico militare. L’essere in posizione subordinata valse ai commercianti un meno rigido controllo e una pressione fiscale attenuata rispetto ai contadini: alcuni commercianti si arricchirono fino a poter rivaleggiare con i daimy1o tanto che i ch1onin, nel loro insieme, divennero promotori di cultura: il teatro kabuki (Azzaroni 1988 e 1998: 327-378) e l’ukiyo-e, le stampe del mondo fluttuante possono valere da primo esempio. La seconda vera forza del paese, quindi, era in realtà quella dei ch1onin. Quel che più interessa, però, è il principio ordinatore delle società: “il rapporto fra una categoria e un’altra era regolato secondo il principio di «superiore/nobile» «inferiore/umile» (j1oge sonpi). Inoltre una stessa categoria fu suddivisa ulteriormente in più strati, ed il principio di gerarchia regolava anche il rapporto fra individuo e individuo di una stessa categoria […] Così pure anche nella famiglia ormai organizzata in modo patriarcale: «marito» - «moglie»; «genitori» - «figli»; «primogenito» - «secondo-genito»; in una parola, la società dei Tokugawa era strutturata in modo da assumere, mediante concatenazione di innumerevoli rapporti di «alto» - «basso», l’aspetto di una gigantesca piramide con al vertice lo sho1 gun. Lì ad ogni individuo era assegnato un posto preciso, a scarsa mobilità. Se i Tokugawa, ereditando da Hideyoshi la sua politica di separazione hein1o bunri, crearono e stabilizzarono il sistema di clas-

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si così minutamente stratificate, è perché avevano bisogno di tenere la società scissa appunto in mille categorie per impedire che gli assoggettati, compresi i bushi subalterni, si sollevassero solidalmente. Per giustificare e mantenere tale ordinamento socio-politico il Tokugawa bakufu adottò la dottrina confuciana o, meglio, neo-confuciana” (Takeshita 1997: 113). La società era così minuziosamente frammentata da risultare per converso compatta al pari di una katana in cui centinaia e centinaia di sottili strati d’acciaio formano una sola lama, anzi, costituiscono il segreto della sua compattezza, elasticità e capacità di taglio. La forma, la purezza, la tecnica Qualcosa di analogo al compattamento per stratificazione della società avviene anche nel n1o attraverso la combinazione di due principi zeamiani: jo ha ky1u e s1o1o. Con jo ha ky1u, traducibile come preludio sviluppo finale, si deve intendere una struttura ritmico-formale di progressione drammatica che permea ogni aspetto rientrante nella rappresentazione: l’evento nel suo insieme è suddiviso in jo ha ky1u, ogni sezione così individuata è a sua volta ripartito in jo ha ky1u, ogni sottosezione è poi costituita da brani, sequenze danzate, cantate o proferite proposte secondo la logica di preludio, sviluppo e finale e così di seguito fino al più piccolo gesto e ai frammenti di cui si compone, fino alla più breve frase e alle sillabe che la formano. L’esecutore, pur cosciente di ogni singolo frammento e del suo ruolo in rapporto a tutti gli altri, deve ricomporre l’intima unità del tutto e allargare tale unità agli altri compagni in scena e all’uditorio presente. Qui interviene il s1o1o, la concordanza – legato assai da vicino al concetto di anicca già introdotto – una sorta di collante che coordina e canalizza le varie componenti in un flusso percettivo ed espressivo unitario. Le prove per un allestimento di n1o possono chiarire ancora meglio l’analogia proposta. Durante la mia permanenza in Giappone ho potuto assistere a diciassette allestimenti ufficiali. Uno o al massimo due giorni prima dello spettacolo si tengono le prove, meglio la prova, dello spettacolo. I vari artisti impegnati, gli attori principali, gli otto coristi, i tre o quattro membri dell’orchestra e i k1oken, prendono posto in scena e si producono in una filata. Conclusa la filata il gruppo si intrattiene non più di qualche minuto per scambiare pareri su criticità ed eventuali errori – per i quali la prova non viene comunque interrotta – e si saluta. È stato per me stupefacente verificare come ogni singolo componente, dopo aver lavorato in autonomia sul proprio ruolo, sappia al momento opportuno armonizzarlo nel meccanismo generale: waki e ky1ogen, come se non bastasse, partecipano eccezionalmente alla prova generale – non ricevendo sussidi pubblici e vivendo unicamente delle proprie attività le compagnie cercano di abbattere al massimo i costi produttivi – integrandosi al gruppo solo in occasione dello spettacolo.

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Aprendo una brevissima parentesi è da rilevare che il sistema prova-spettacolo appena descritto risulta funzionale alla creazione dello spettacolo come accadimento, evento unico non ripetuto e irripetibile: gli allestimenti non restano in cartellone più giorni e si offrono al pubblico una sola volta. La possibilità di associare qualcosa che ancora oggi appartiene al n1o – il sistema prove-spettacolo da me direttamente osservato – ad un modo di intendere e strutturare la società originata ormai quattro secoli fa, permette di isolare la continuità operativa di un principio ordinatore da considerarsi in buona parte ancora valido nel Giappone contemporaneo. Una società così parcellizzata ma al contempo confucianamente consapevole del ruolo del singolo nell’economia generale e in più disposta ad orientarsi secondo le direttrici provenienti dall’alto, ha potuto mantenere una notevole compattezza nel superare, ad esempio, gli stravolgimenti dell’occidentalizzazione/modernizzazione di fine ’800 e la sconfitta della II Guerra Mondiale. Non si deve eccedere nell’idealizzazione di un ordine perfetto ed assoluto – disordini, rivolte e problemi di varia natura accaddero come in ogni altro frangente storico – ma un’etica di fondo, un sistema di pensiero generalizzato e condiviso credo si sia innegabilmente radicato: oggi tale pensiero è maggiormente palpabile nelle enclave giapponesi, tra cui il n1o, più vicine ai settori tradizionalisti e conservatori. Tenere assieme e favorire una collaborazione sinergica delle varie parti ha significato il potenziamento del ruolo del leader quale chiave di volta dell’intero sistema. Per quanto riguarda il n1o il periodo Tokugawa inaugura l’ancora funzionante sistema iemoto. “I capi delle più importanti scuole n1o furono chiamati iemoto. […] L’istituzione di uno iemoto nelle arti era naturalmente molto più antica e può essere fatta risalire al periodo Heian in relazione al bunraku e al kad1o (l’arte della poesia tanka: brevi poesie di cinque versi che seguono lo schema sillabico 5:7:5:7:7). Tuttavia fu solo durante l’epoca Tokugawa che il sistema iemoto diventò un modello generale di organizzazione sociale all’interno del mondo delle arti più tradizionali; esso aprì un varco a una funzione culturale unica che includeva la conservazione e la trasmissione di quasi ogni arte e mestiere non solo tra i professionisti ma anche tra i dilettanti samurai, agricoltori, nobili e sacerdoti. L’enorme crescita nel numero degli allievi dovuta ai lunghi anni di pace e alla prosperità di molti commercianti rese necessari maestri intermedi che ricevevano dallo iemoto il grado e il diritto di insegnamento. Si creò così all’interno della scuola una gerarchia spesso complicata e i suoi segreti, l’addestramento e la tradizione scritta erano gradualmente svelati dalla piramide di insegnanti culminante nello stesso iemoto. Lo iemoto aveva il diritto esclusivo di interpretare e conservare la forma tradizionale ortodossa dell’arte della sua scuola così come era stata tramandata dalla fondazione della scuola, attraverso consanguinei o discendenti adottati. Nel sistema iemoto è essenziale una relazione personale maestrodiscepolo e i discepoli non comunicano i segreti artistici al mondo esterno. Il metodo di insegnamento non è teorico ma procede come la trasmissione segreta di una privata eredità spirituale da persona a persona attraverso un’istruzione pratica, speri-

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mentale e concreta. Lo iemoto delle case potenti di n1o diventò una specie di insegnante/sovrano, immensamente rispettato e servito fedelmente dai suoi discepoli, con il diritto di permettere o proibire uno spettacolo, di stabilire chi sarebbe stato l’interprete principale tra i numerosi artisti della scuola, di eseguire correttamente un certo tipo di danza, di punire ed espellere individui dalla scuola, di decidere l’uso dei costumi, delle maschere e dell’attrezzatura teatrale, di manovrare le finanze, di assegnare il grado e i diplomi, e, a partire dall’era Meiji, anche di tenere il diritto d’autore su tutti i manuali e il materiale pubblicato dalla scuola. Nessuna meraviglia dunque che gli iemoto cominciassero a sentirsi parte degli strati più alti della società, dal momento che di fatto avevano i mezzi per allearsi con ricchi e potenti, dimenticando così le loro origini di fuoricasta” (Ortolani 1990: 129-130). La concisione e la compresenza di tutti gli elementi fondamentali e caratterizzanti il sistema iemoto nelle parole di Benito Ortolani giustificano la lunga citazione. Si ritrovano così raccolti e aggiornati al periodo Tokugawa tutti gli elementi e le modalità relazionali analizzati fino ad ora. Più ancora della definitiva istituzionalizzazione dell’“insegnante/sovrano” e della rigida stratificazione gerarchica alle sue dipendenze, esito già scontato e prevedibile, costituisce una novità dalle ripercussioni notevoli l’apparire di un cospicuo movimento di dilettanti. I dilettanti, sicuramente più oggi che al tempo in cui le za erano a servizio di templi o di famiglie potenti, forniscono una imprescindibile fonte economica e, sicuramente più nel periodo Tokugawa che oggi, hanno impedito lo scollamento completo del pubblico popolare da un genere teatrale a lungo attivo solo nei castelli dei daimy1o. Il moto di chiusura del n1o nei castelli può ritenersi una riproposizione del moto di chiusura del Giappone in se stesso durante il sakoku. Il sakoku è stato spesso bollato, ingiustamente, di immobilismo culturale, politico e sociale. La scelta dell’isolamento nazionale e del rafforzamento gerarchico origina in Giappone la cosiddetta pax Tokugawa, duecentocinquanta anni privi di guerre e conflitti degni di nota. Paragonati agli anni del sengoku e del Momoyama, o della successiva restaurazione Meiji, ossia l’avvio dell’occidentalizzazione, un certo immobilismo può sicuramente avvertirsi. L’immobilismo, però, è solo di superficie: il movimento socio-culturale ha variato il proprio moto da centrifugo a centripeto facendo dello scavo conoscitivo, della sempre più intima penetrazione delle cose il proprio modus operandi. “Il sakoku si basò sulla posizione geografica del Giappone, interamente separato dal continente per via del mare. Il Paese divenne un mondo chiuso, in cui ogni energia dovette reinvestirsi «all’interno», e questo isolamento totale di una cultura – che avrebbe potuto essere una regressione – fu all’origine di un processo psicologico complesso di spostamento e di reinvestimento. Il mare, familiare da molto tempo ma da quel momento vietato, divenne perciò ambivalente. La sua immensità intravista, fonte di numerose ricchezze, suscitò una curiosità senza limiti. Ora, una volta proibito questo invito alla scoperta, il limite del mondo venne fissato alla linea dell’orizzonte. La concezione di un mondo che va al di là di ciò che è visibile è

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basata sul ragionamento intellettuale, e si situa in una prospettiva logica che permette di superare per induzione i limiti tangibili del mondo. Il Sakoku significa un rifiuto e un abbandono di questa visione spaziale e temporale che rappresenta un’apertura sulla vastità circostante. Essendo esclusa la rimessa in discussione del Sakoku, tutte le attività umane dovevano svolgersi all’interno del quadro fissato. Per adeguarsi, la prospettiva logica che cominciava a svilupparsi dovette essere abbandonata. La tendenza introspettiva della cultura giapponese è apparsa, o si è accentuata, al prezzo di questo abbandono” (Tokitsu 2004: 38). I lunghi anni di pace rappresentarono l’occasione per i molti bushi “disoccupati” di accedere o scoprire la dimensione ideale dell’arte della spada, di sviluppare un gusto estetico e un indirizzo intellettuale sempre più raffinati e sensibili alle più piccole sfumature. Gli attori n1o, la cui vita era innervata al mondo samuraico, non rappresentano un’eccezione, anzi, si inseriscono nel medesimo flusso. Il patrimonio sapienziale ma ancor più quello tecnico si fissa, si struttura in un corpus definito e riconoscibile. Il passaggio da una fase di sperimentazione e accumulazione ad una di fissazione non deve, nuovamente, essere additata come stanchezza del sistema o mancanza di creatività; è piuttosto un nuovo modo di interpretare il ruolo di attore, di maestro e allievo. La pace favorì anche, a testimonianza della vitalità del periodo, la crescita e l’arricchimento di una dinamica classe media, i cho1 nin, quella classe animatrice del nuovo fenomeno urbano che in parte confluì nel dilettantismo: le città cominciarono a 1 crescere enormemente attorno ai castelli dei daimy1o e se verso la fine del ’700 Osaka e Ky1oto toccarono i 300.000 abitanti Edo, un piccolo borgo di pescatori appena un secolo prima, arrivò al milione. “Nel periodo Tokugawa la classe dei commercianti, pur continuando ad essere relegata in basso nella scala sociale, assunse sempre maggiore importanza. Edo, grande mercato di consumi, fu anche la città dei primi imprenditori commerciali giapponesi, in mancanza di un’imprenditoria industriale. Da questa classe di nuovi ricchi, che correva verso il benessere e ne approfittava non appena lo aveva raggiunto, si sviluppò tutto un altro mondo, un’altra cultura, un’altra letteratura e arte che non fu più quella aristocratica del passato. Così accanto all’aristocratico ed elitario teatro n1o nasceva il più popolare e ridanciano teatro kabuki, a Edo fioriva il quartiere dei piaceri, Yoshiwara, con le sue cortigiane ed i suoi artisti che le immortalarono nella pittura ukiyoe: questo mondo allegro non escludeva tuttavia la meditazione del buddhismo zen, che consentiva di ritemprare le forze dello spirito, la cerimonia del tè, che portava la tranquillità dopo la lotta, la pratica rigorosa delle arti marziali, che imponeva una rigida autodisciplina” (Corradini 1999: 234). La cultura ch1onin fu sicuramente alternativa ma anche complementare a quella “ufficiale”: la mobilità sociale, anche grazie alla reale distribuzione economica, fu maggiore di quanto le rigide regole Tokugawa contemplassero. Come per gli uomini e i loro mestieri, comunque, nel n1o Tokugawa tutto venne parcellizzato, individuato, indicato, strutturato e collocato in un sistema preciso, sta-

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bile e dato per definitivo: all’interno dei moduli tradizionali, ora sanciti e tutelati dallo iemoto, ogni attore doveva trovare il modo di far emergere la propria personale cifra interpretativa. Emblematico il caso dell’attore Kanze Motoakira († 1774). Attraverso una sapiente strategia editoriale, peraltro direttamente sostenuta dal bakufu, recuperò l’opera di Zeami per farsene promotore tra tutti gli appartenenti alla scuola Kanze e fondando la propria autorità, come nel caso del taimitsu più sopra richiamato, sulla proprietà di tali scritti e sulla possibilità di annotarli e distribuirli tra l’eccellenza attorica dell’epoca. La posizione così abilmente acquisita lo autorizzò a stabilire in via pressoché definitiva lo stile Kanze cui tutti gli attori della scuola dovevano corrispondere (Rath 2003: 192-196). “Motoakira delineò i n1o così come dovevano essere eseguiti specificando i costumi, gli arredi scenici, la direzione scenica. Definì inoltre la corretta pronuncia di alcune parole. Prima di allora gli attori n1o si basavano per le rappresentazioni sulle proprie preferenze, abitudini familiari, e molteplici tradizioni orali o scritte” (Rath 2003: 196). I motivi del sostegno shogunale a Motoakira risultano alquanto palesi. Ogni no1 venne inserito in una categoria, ebbe un tipo di costume e maschera precipui, una partitura coreografica e musicale definita, un allestimento scenico – ove presente – stabilito. La produzione di libretti si arrestò quasi completamente, le nuove maschere prodotte e i nuovi costumi realizzati furono per la massima parte riproposizioni di modelli già esistenti eppure l’involuzione del n1o può apparire solo ad uno sguardo superficiale. Il lavoro si fece minuto, cesello, il senso etico aumentò fino a divenire espressione estetica o, meglio, l’esito estetico fu manifestazione etica a tutti gli effetti. In tale contesto vanno calati lo stretto controllo della qualità e la scrupolosa fedeltà alla tradizione rinvenibile nel ruolo giocato – ancora oggi – dalla tecnica di cui lo iemoto era la più completa e significativa incarnazione. Nelle arti tradizionali giapponesi la tecnica è così strettamente legata al modo di esistere che “può essere riassunta con la formula: «La tecnica è l’uomo». Per accedere al livello superiore della tecnica bisogna che l’uomo stesso divenga superiore. La qualità dell’uomo e della sua tecnica sono in rapporto dialettico: esse mirano a un compimento qualitativo. La qualità della tecnica si acquisisce con un allenamento incessante, ma, talvolta, l’esercizio può essere ripetuto senza progressi, quando l’uomo stesso non progredisce. Così è stato della complementarità della spada e dello Zen […]. Il mezzo per questo sviluppo è il kata, fenomeno dinamico che realizza l’alleanza dell’uomo e della tecnica, senza alcuna rottura tra quest’ultima e la coscienza dell’uomo (Tokitsu 2004: 26-27). I kata: alcune implicazioni La tecnica ha modo di estrinsecarsi e forgiarsi attraverso il perpetuo affinamento dei kata, i modelli, le forme base date dalla tradizione. Per il n1o, come per le altre arti e

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discipline tradizionali, il sakoku è stato il crogiolo di fusione e sedimentazione dei kata, il periodo in cui il processo di interiorizzazione e rivolgimento su se stessa della società ha originato e stabilizzato il kata come unità minima costitutiva di innumerevoli linguaggi non solo artistici. L’idea e la funzione dei kata si rinvengono connaturate a qualunque espressione giapponese abbia originato o si sia costituita come una via. Mutuo ancora da Tokitsu una definizione di kata che condivido e che sa alludere alle molteplici implicazioni connesse: “sequenza composta da gesti formalizzati e codificati, sottesa da uno stato di spirito orientato verso la realizzazione della via (d1o )” (Tokitsu 2004: 21). L’accostamento dei kata nella loro primaria accezione di “gesti formalizzati” ad un orientamento spirituale dalle implicazioni etico-morali chiarisce come un kata sia molto più di ciò che a prima vista mostri. In primo luogo deve per lo meno essere inteso come il condensato di un sapere tradizionale in cui tutte le generazioni hanno fissato la somma delle proprie esperienze. Il fatto che sia collettore di una conoscenza antica e molteplice spiega il rispetto rivolto al kata e l’assoluta reticenza ad apportarne variazioni. Oggettivandosi in qualcosa di assolutamente riconoscibile e definito la tecnica assume uno statuto assai prossimo a quello di oggetto materiale. Al pari delle maschere, dei costumi, degli oggetti scenici, i kata si ereditano come oggetti aventi una propria concretezza, e come tali vengono conservati, protetti, usati e tramandati. Un kata veicola unitamente alla propria forma il modo stesso del suo trasmettersi. Nella pratica del kata essendo l’atto, l’esecuzione predominante, l’apprendimento non può che essere esperienziale, diretto, non ottenibile – se non assai parzialmente – attraverso il logos. Logos per sottolineare che l’apprendimento dei kata non avviene assolutamente per via intellettuale e, soprattutto, che dei kata non viene mai fornita da parte dei maestri alcuna spiegazione circa un loro eventuale significato: come per il kotodama, in cui la potenza magica è riconosciuta alla parola a prescindere dalla conoscenza o comprensione del suo senso, così l’apprendimento della forma, del kata, assicura ipso facto l’acquisizione di ogni suo più recondito e inafferrabile significato. Istituzionalizzato in periodo Tokugawa quale esito di un lungo percorso di stratificazione esperienziale originato, almeno si vorrebbe, in un tempo prima del tempo e ancora oggi valido nelle odierne scuole di n1o, l’insegnamento attraverso la trasmissione di kata potrebbe, in ultima analisi, coincidere con l’insegnamento tout court. Perché tale affermazione non risulti in nessun caso riduttiva deve essere chiaro come ogni kata, pur essendo l’unità scenica più piccola, “una molecola di azione” analoga al bit di Schechner (Schechner 1999: 185) racchiuda potenzialmente in sé, anzi coincida con, tutto il mistero e la sapienza del n1o. Assistere al lavoro quotidiano degli attori durante i mesi trascorsi a T1oky1o mi ha permesso di osservare come le correzioni del maestro fossero sempre rivolte alla posizione, alla forma prodotta dall’allievo e mai all’intenzione o motivazione che la sot-

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tendeva. La sensazione di fondo, confermata da alcune interviste condotte sempre in quell’occasione, era che appresa la forma, acquisito fino alla perfezione assoluta il modello distillato dalla tradizione, tutto ciò che non era espresso o esprimibile verbalmente – tutto ciò che il maestro non diceva – diveniva immediatamente attingibile, naturalmente applicabile e utilizzabile a fini espressivi e, ancor più, autoespressivi. “La specificità dei kata, in quanto modo di trasmissione e di apprendimento, è di offrire un duplice aspetto, apparentemente contraddittorio, avendo sia un lato rigido (a causa delle sequenze strutturate in gesti), sia un lato aperto, o permeabile, alla situazione e ai sentimenti […]” (Tokitsu 2004: 51). L’analisi in corso del kata potrebbe essere affiancata a quanto già detto sul Tao per la capacità contestuale di accogliere e risolvere la dualità, di dirimere la dialettica tra forma e contenuto e concretizzasi in una pura essenza in cui l’ipotesi di un significante, la superficie della forma, rinviante ad un significato, il senso recondito della stessa, non possa nemmeno essere presa in considerazione. Un kata, tautologicamente, altro non è che se stesso, nulla lo precede e nulla lo segue. Nell’affrontare lo studio dei kata l’allievo è indotto a trovare una risposta a quello che sembra una domanda senza senso. Applicarsi all’apprendimento di un kata è affrontare un mondo o un koan, una domanda la cui risposta non può essere logicamente afferrata, in cui la costante concentrazione sul quesito – la costante pratica per perfezionare la resa del modello – conduce all’arresto del pensiero logico e all’illuminazione – dona ad una forma fissa la particolarità dell’individuo che la significa. Un abbandono così categorico alla forma e la necessità più volte espressa di un allenamento costante, un addestramento perpetuo, induce a supporre una certa meccanicità e freddezza nel lavoro e nell’espressione dell’attore. Il rischio è sicuramente presente e contemplato già dai tempi di Zeami: un buon maestro deve saperlo riconoscere e scongiurare guidando l’allievo lungo un percorso sperimentato e progressivo. Nel Kyu1 i-shidai (Zeami 1960: 235-240 e Nearman 1978: 299-332), uno dei trattati più marcatamente pedagogici di Zeami, Nearman rileva specifici accenni all’importanza dei metodi di addestramento propri ad ogni scuola sia per il conseguimento di successi professionali sia per il raggiungimento del più alto grado di realizzazione artistica (Nearman 1978: 300). Zeami è più che disposto a riconoscere un talento naturale e, soprattutto nei giovani attori, scorge un fiore che di per sé esiste e sa incantare il pubblico. Gli attori giovani, come tutti gli attori in generale, sono però avvertiti della fugacità di quel fiore giovanile o “di un momento” e del duro lavoro che dovranno affrontare per non vederlo appassire. “In tutti i trattati di Zeami è fondamentale l’idea che solo attraverso la pratica (keiko), ossia addestramento prolungato e dominio della tecnica, un attore può sperare di acquisire il fiore (hana) autentico della propria abilità. Nel Kyu1 i [Kyu1 i-shidai] tale idea si riflette nella tripartita divisione di Zeami dei nove livelli in tre gruppi (Superiore, Medio, Inferiore), ognuno dei quali contiene tre livelli. Come la seconda parte del trattato chiarisce palesemente, un at-

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tore che sia privo di un adeguato addestramento o che lasci corrompere il proprio apprendimento in una meccanica, frettolosa e superficiale tecnica, starà operando sui tre livelli inferiori. Di contro, chi si eserciterà diligentemente perverrà ad una recitazione tecnicamente efficiente e fin brillante – i tre livelli medi, dove l’addestramento conduce l’esecutore non istruito ad essere un attore competente. I tre livelli superiori, tuttavia, richiedono ulteriore disciplina, esperienza e consapevolezza per condurre l’attore oltre la tecnica che un insegnante [teacher] può esprimere – un’abilità necessaria per trasformare un attore in un artista creativo” (Nearman 1978: 303). I maestri sono consapevoli che un sapere troppo profondo in mano ad un attore non ancora in grado di comprenderlo pienamente rappresenti per quest’ultimo un rischio, un’arma a doppio taglio. A tale proposito si rivelano interessantissimi questi appunti di Fenollosa circa un rotolo proprietà di Umewaka Minoru: “contiene soltanto il testo originale, nessuna annotazione per il canto, ma dettagliati diagrammi per la danza, che indicano dove stare, quando venire avanti, quando girare in cerchio, quando voltarsi a destra o a sinistra, quando muovere il piede destro o sinistro, quanti passi, occhi a destra o a sinistra, quali maschere o quali vestiti, o come devono cadere le pieghe delle vesti, e l’esatta posizione delle braccia. Ci sono disegni di nudi raffiguranti vecchi, donne, ragazze, ragazzi, spiriti e personaggi d’ogni tipo seduti e in piedi, mostrando l’esatta relazione tra arti e corpo. Altri disegni raffigurano le stesse persone vestite. Ma non ci si può fidare soltanto di queste istruzioni. Molto deve essere integrato da esperienza, sensibilità e tradizione, come è sempre accaduto. Minoru è talmente convinto di ciò che non ha ancora mostrato questo rotolo ai suoi figli per paura che possa renderli meccanici” (Fenollosa in Fenollosa-Pound 1966: 49-50). Per questo solo un umile asservimento al kata e al rigido modo di imporlo da parte del sensei consente all’attore di utilizzare una forma vuota per raccontare. Il maestro Umewaka Manzabur1o afferma: “ogni movimento è privo di significato in sé. Se un attore non è abile i suoi movimenti non avranno mai senso, solo un attore abile può far provare qualcosa al pubblico e quindi dare un senso a ciò che fa”. La resistenza del kata ad una operazione di comprensione logica si manifesta anche quando lo si voglia ricondurre alla categoria del simbolo, dello stare per, del rimandare a. A invalidare pure questa ipotesi sono sufficienti alcune parole dell’attore Konishi Jinichi: “il N1o è un genere di arte simbolica, ma il simbolismo è completamente differente da quello europeo o americano. Perché nel simbolismo gli occidentali generalmente cercano qualche senso, significato o tema. Il N1o è sicuramente un’arte simbolica, ma il simbolismo nel dramma N1o non ha senso o significato. L’espressione stessa è il significato. Generalmente gli occidentali cercano qualche significato nei movimenti. Ma nel dramma N1o il movimento stesso è significato” (Konishi in Marotti 1984: 33). Attraverso un accostamento analogico, che ritengo plausibile, tra il n1o e lo haiku, la più nota forma poetica giapponese, trovo sorprendentemente significative queste osservazioni di Roland Barthes: “Nemmeno un tratto che, nel commento occidentale, non venga investito di una valenza simbolica. O meglio, si vuole ad ogni costo

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intravedere nella terzina dello haiku il disegno di un sillogismo, in tre tempi (la posizione, la sospensione, la conclusione): Il vecchio acquitrino:/ Una rana vi salta dentro,/ Oh! Il rumore dell’acqua. In questo singolare sillogismo, l’inclusione si fa con la violenza: è necessario, per esservi contenuta, che la minore stia nella maggiore. Beninteso, se si rinunciasse alla metafora o al sillogismo, il commento diventerebbe impossibile: parlare dello haiku sarebbe semplicemente ed esattamente ripeterlo. […] Decifranti, formalizzanti o tautologiche, le vie dell’interpretazione, destinate qui da noi a svelare il senso, cioè a farlo entrare con l’effrazione – e non a scuoterlo, a farlo cadere, come il dente del rimasticatore d’assurdo, quale deve essere l’apprendista zen, alle prese con il suo koan – le vie dell’interpretazione non possono dunque che sciupare lo haiku: perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo […]” (Barthes 1970: 82-84). L’insegnamento attraverso la trasmissione di kata chiarifica e sancisce uno degli aspetti portanti del rapporto maestro-allievo: l’ubbidienza alla tradizione anche quando sembra priva di senso. I maestri insegnano ad essere pazienti, in fin dei conti il training dura tutta la vita e prima o poi un senso emergerà. La nota reticenza dei maestri nipponici a spiegare – nel no1 il maestro non spiega una danza ma la esegue affinché l’allievo possa imitarla – va intesa almeno su due livelli. Il primo è quello dell’assoluta libertà del singolo nel rispetto e all’interno del gruppo e della sua compattezza, il secondo è nuovamente collegato ai kata: “i kata hanno potuto svilupparsi e diventare una forma di azione trasmissibile soltanto in seno a gruppi ristretti, con modi di vivere fortemente collettivi, nei quali ogni individuo è estremamente sensibile a quanto sentono gli altri e all’atmosfera del gruppo, senza che questo scambio passi obbligatoriamente attraverso la parola” (Tokitsu 2004: 57). Quella giapponese è senza dubbio, nei termini chiariti da Samovar e Porter (Samovar – Porter 1995), una cultura ad alto contesto per cui la maggior parte delle informazioni risiede nel contesto o nelle persone coinvolte nell’interazione. In tale ambito “si ha la tendenza a non porre molte domande e a dar valore al silenzio. Si è indulgenti nei riguardi dell’indeterminatezza. Al contrario, nelle culture a basso contesto, come quelle occidentali, le persone fanno spesso domande nel tentativo di rendere chiara ogni cosa, perché sono meno tolleranti nei confronti delle situazioni poco chiare” (Davies – Ikeno 2007: 104). La comunicazione sottintesa in Giappone è riferibile al concetto di haragei: “è un concetto ben noto alla civiltà giapponese, ma in generale poco familiare a coloro che provengono da altre culture. Hara letteralmente significa ‘stomaco’ o ‘ventre’, e gei ‘arte’. Un dizionario giapponese dà queste definizioni di haragei: 1) l’azione verbale o fisica impiegata per influenzare gli altri col potere di una grande esperienza e sicurezza, e 2) l’atto di trattatre con le persone o affrontare le situazioni servendosi di maniere convenzionali e dell’esperienza. In altre parole haragei è un modo di scambiarsi sensazioni e opinioni in modo implicito tra giapponesi” (Davies – Ikeno 2007: 101). I kata, in effetti, sono un sistema comunicativo, identitario e connettivo al gruppo. Le cinque famiglie di n1o ancora operative condividono in buona misura l’intero

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repertorio drammaturgico e tecnico segnando la propria singolarità attraverso il modo esecutivo che ne è precipuo: “per esempio la scuola Komparu ha una recitazione elegante, classica, essenziale: una eleganza semplice, originale, chiara. La scuola H1osh1o usa una espressione molto intensa, interiore, che viene dal di dentro. La scuola Kong1o tende a rendere più evidente la tecnica, ma naturalmente tutto dipende dai singoli attori. La scuola Kita è nata molto tardi, nell’epoca di Edo, ed è molto influenzata dal militarismo” (Kanze in Marotti 1984: 9). Le differenze qui brevemente accennate si nutrono della linfa vitale del kuden, la tradizione – orale e segreta ma spesso anche scritta perché, contrariamente a quanto creduto, ogni famiglia ha ed ha avuto i suoi grandi o piccoli Zeami – addensante la visione artistica di un particolare lignaggio di maestri. Uno stesso n1o, ma anche uno stesso kata pur rimanendo chiaramente riconoscibile all’interno delle diverse tradizioni tecniche, riceva da ciascuna di queste un carattere, un gene identitario preciso. Analogo percorso si attua nell’educazione impartita da un maestro ad un allievo. Il maestro indicherà all’allievo il percorso per acquisire padronanza e naturalezza nell’esecuzione tecnica secondo i canoni della tradizione di afferenza poi, ritenuto idoneo, l’allievo potrà divenirne interprete. Chiaro allora come il n1o sia un genere assolutamente riconoscibile in cui è facile decidere cosa ne faccia parte e cosa no: è un genere, nell’accezione shintoista già introdotta, puro. L’inclusione o l’esclusione è certificabile e incontrovertibile. Ad una mia domanda sui no1 moderni di Mishima rivolta al maestro Umewaka questi ha risposto con un categorico “quello non è n1o ” escludendo qualunque tipo di discussione e apertura. La purezza del genere, funzione della purezza dei kata che lo determinano, rappresenta uno dei capisaldi su cui il sistema di trasmissione tra maestro e allievo si basa. Perché la trasmissione avvenga nei termini descritti è necessario che l’allievo riconosca e accolga l’autorità del maestro; e perché tale autorità non dipenda unicamente dal carisma non sempre garantibile del maestro – genealogie di centinaia d’anni non possono verosimilmente produrre ad ogni generazione uomini d’eccellenza – la maestria e la sua autorevolezza vengono in primo luogo agglutinate nella completa acquisizione e gestione del bagaglio tecnico, ossia dell’estrinsecazione sensibile di una identità. Una chiara identità definisce, e ritengo ciò valido ancora oggi, il presupposto imprescindibile all’autorevolezza, chiave di volta del sistema di trasmissione dei saperi oggetto di questa indagine. Ancora sui kata, sulla tecnica e l’identità Il tema dei kata solleva una quantità di spunti pressoché infinita. Per tale motivo ritengo opportuno fornire un ulteriore approfondimento ad alcuni aspetti prima non richiamati o poco sviluppati ma ineludibili. Innanzitutto va chiarito che i modelli rappresentativi, i kata, sebbene strettamente codificati e fissati in epoca Tokugawa hanno costituito la principale materia attorica, in forma sicuramente meno strutturata e vincolante, da che il n1o ha cominciato a

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identificarsi come genere riconoscibile. Il poderoso lavoro svolto nel periodo Edo, poi, ha consegnato alle epoche successive un patrimonio a tutt’oggi massimamente valido e funzionante. Nei kata si può scorgere un nuovo affioramento delle più volte rilevato doppio percorso. Accogliendo l’ipotesi proposta secondo cui un kata è un’entità unica dove forma e contenuto, significato e significante, tatemae (l’apparenza) e honne (la sostanza), non sono nettamente distinguibili, si deve anche constatare come, preservata e trasmessa la forma, il resto segua da sé. Mantenere la forma, ho già riferito sull’amore tutto giapponese per l’ortoprassia, si è probabilmente rivelato il mezzo più sicuro e verificabile per disciplinare la conoscenza, l’uso e la trasmissione di un sapere. La modalità delle prove per uno spettacolo, come pure le correzioni delle shimai – brevi danze tratte dai n1o su cui gli allievi fanno pratica –, ossia attenzione alla tecnica e nessuna interruzione durante lo svolgimento, indicano chiaramente come anche l’evento performativo sia in sé un kata, un corpo unico sebbene composto di innumerevoli aggregati. Un addestramento simile consente di trasmettere, unitamente alla tecnica, il testo spettacolare nel suo insieme. Non esistono, infatti, esercizi propedeutici o preparativi ai kata e i kata, a loro volta, non sono funzionali ad acquisire abilità atte all’andata in scena ma sono già essi stessi divenire scenico. La loro presenza è pervasiva e assolutamente concreta. Quali oggetti materiali i kata, alcuni in particolare, sono divenuti patrimonio esclusivo di una famiglia o di una scuola. In uno spettacolo lo schema coreografico, come la partitura musicale o drammaturgica, gli oggetti scenici, il costume, la parrucca o la maschera sono kata fissati dalla tradizione. Accade che nel corso della storia alcuni grandi attori, maestri affermati, sentano di poter introdurre delle variazioni ad uno qualsiasi dei livelli componenti l’evento scenico: una parrucca rossa piuttosto che bianca, un ventaglio con fiori di ciliegio piuttosto che di susino. Mi riferisco a ciò che tecnicamente si definisce kogaki, letteralmente piccola scrittura. La tradizione reagisce prontamente alla novità incorporandola: la variante proposta viene codificata e fissata e va ad aggiungersi, per stratificazione, al bagaglio delle opzioni esecutive collegate alla specifica opera. L’attore che ha raggiunto un riconoscimento tale da poter apportare simili variazioni ne diventa anche il legittimo proprietario e per utilizzare un kogaki si deve chiederne il permesso all’inventore o alla famiglia detentrice dei diritti. Gli attori giovani alle prime esperienze non solo non possono proporre nuove kogaki ma devono anche limitarsi a portare in scena n1o nella forma base. Il ruolo giocato dall’esperienza e dalla capacità di attingere all’honne è chiaro: la variazione deve scaturire da un intimo sentire, da una comprensione profonda che muova da una necessità insopprimibile non frutto del capriccio di un momento, una dimensione pertinente alla sola maestria. Autorità, identità e proprietà ruotano attorno all’aspetto tecnico – che poi solo tecnico non è – del n1o. Possedere una tecnica e averne l’esclusivo usufrutto, magari

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limitatamente ad un’area geografica, ha da sempre rappresentato per le compagnie n1o una non secondaria necessità. Le scelte “ereditarie” di Zeami nei confronti di On’ami sono esemplificative. …e l’eccezione che la conferma Nelle numerose riforme operate da Toyotomi Hideyoshi e perfezionate da Tokugawa Ieyasu è ovviamente incappato anche il n1o. Solo cinque famiglie ottennero la licenza per operare, le altre o si accorparono ad una di queste o cessarono di esistere. Alcune za, infine, confluirono nelle nuove forme di teatro popolare contribuendo ad innalzarne il livello tecnico e artistico. La famiglia Umewaka “[...] apparteneva al Tamba sarugaku ma, dopo l’intervento di Hideyoshi, entrò nel novero delle famiglie tsure del Kanze dove ha continuato la sua attività. Da parte degli Umewaka la si può considerare una forma di adattamento «politico» necessitato dalla nuova riforma del sistema sarugaku, cosa che portò ovviamente all’estinzione dello za” (Umewaka in Autori Vari 2007: 124-125). Oggi, pertanto, non esistono differenze tecniche tra le due famiglie e attori Kanze e Umewaka possono condividere la scena senza alcun problema di incompatibilità. L’unione significò, per gli Umewaka, una ovvia e forzosa subordinazione ai Kanze ed una conseguente perdita di proprie specifiche tecniche. Fu però mantenuta l’identità familiare. Alla fine del periodo Tokugawa, che segnò un momento di estrema difficoltà per tutto il mondo del n1o, accadde qualcosa su cui vale la pena di soffermarsi. Propongo ora uno stralcio della storia della famiglia Umewaka dalle sue origini al periodo Meiji (1868-1912) per introdurre gli elementi necessari alla riflessione cui ho alluso. Il brano, a firma di Ogi Tamaki, è tratto da una piccola pubblicazione fuori commercio, senza indicazione di data e luogo di edizione, prodotta dalla Umewaka Kenn1okai, la compagnia diretta da Umewaka Manzabur1o III. “La famiglia Noh di Umewaka Manzabur1o data la sua origine a sei secoli fa. Secondo antichi documenti il fondatore della famiglia fu Tachibana no Moroe (684-757). Umezu Tomotoki († 888), la nona generazione, ricevette il controllo di Tanba (nord-est di Ky1oto). Nel 1481, Umeze Kagehisa (1466-1599) [sic] recitò per l’imperatore Go-Tsuchimikado quando era sedicenne. Elogiato per la sua eccellente interpretazione gli fu concesso l’uso del carattere waka [giovane] e donato un sipario recante l’insegna imperiale del crisantemo. Subito dopo Kagehisa cambiò il nome della sua famiglia in Umewaka. Alla morte di Kagahisa i successori delle due seguenti generazioni servirono Oda Nobunaga (1534-1582). Dopo la morte di Nobunaga Toyotomi Hideyoshi, che sedò la guerra civile e unificò il Giappone, divenne patrono delle quattro troupe dello Yamato Sarugaku (Kanze, H1osh1o, Konparu, Kong1o) e accorpò a queste tutte le altre. Gli Umewaka di Tanba furono assorbiti dal gruppo Kanze. Umewaka Ujimori († 1663) servì Tokugawa Ieyasu (1542-1616) che fondò lo shogunato Tokugawa (1603-1868).

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Successivamente alla morte di Ieyasu gli Umewaka si spostarono verso Edo (odierna T1oky1o) e nel XVII secolo la compagnia Kanze fu posta alla testa di tutte le altre. Il Noh ricevette la protezione dello shogunato e si mantenne stabilmente nel tempo fino alla sua caduta. I tempi mutarono drasticamente dopo la Restaurazione Meiji (1868). La società fu gettata nella confusione. Gli attori Noh persero i loro protettori e molti abbandonarono la propria arte abbracciando altri lavori. Ma nel mezzo di questi tempi critici Minoru Umewaka (1828-1909) operò per uscire dalle difficoltà e salvare il Noh dall’estinzione. Alcuni alti ufficiali del governo che avevano assistito ad uno spettacolo d’opera durante un viaggio in Europa stabilirono di proteggere il Noh e invitarono Minoru ad esibirsi per l’imperatore nel 1876 – fatto che segnò una svolta per il Noh. Minoru Umewaka fu stimato quale uno dei “Tre Grandi Maestri Noh dell’Era Meiji”. Manzabur1o Umewaka I è nato nel 1868. Per varie ragioni lasciò il ruolo di guida della famiglia Umewaka a suo fratello e fondò la famiglia Manzabur1o Umewaka. Nel 1921 Manzabur1o I si ritirò, a causa di vari conflitti, dalla scuola Kanze e fondò la scuola Umewaka. La famiglia Manzabur1o perse il proprio teatro, i costumi, le maschere e antichi documenti nell’incendio provocato dal grande terremoto del Kanto nel 1923. Alla fine, nel 1933, Manzabur1o I rientrò nella scuola Kanze. Fu nominato membro della Japan Art Academy, il più alto riconoscimento ad una persona per il significativo contributo allo sviluppo della cultura. Fu considerato come un grande maestro Noh del primo periodo Showa (1926-1989)”. Attendibilità storica a parte è di estremo interesse argomentare brevemente sul passaggio del ramo honke della famiglia ad un fratello minore e sull’abbandono-rientro nella scuola Kanze della famiglia Umewaka Manzabur1o costituitasi, per un decennio, addirittura in scuola indipendente. L’avvicendamento al potere tra shogunato e impero fu per l’intero movimento a dir poco esiziale: così strettamente integrato ai daimy1o – anche in termini di fedeltà – e alla loro protezione il n1o, come detto, fu sul punto di sparire. Tra i pochi, assieme a Kong1o Yuiitsu e H1osh1o Kur1o, Umewaka Minoru non accettò di abbandonare la propria professione e per primo ripropose al pubblico spettacoli di n1o e accolse, assieme ai figli, nuovi allievi. Poco sopra ho parlato dell’ovvia e forzosa subordinazione degli Umewaka rispetto i Kanze in seguito all’accorpamento delle za. In termini pratici tale subordinazione si concretizzò con l’assegnazione, agli attori Umewaka, dei ruoli comprimari di tsure. Nel momento in cui Minoru calcò la scena in qualità di shite e pretese di trasmettere a degli allievi la tradizione tecnica con tanto di certificati il capo scuola Kanze obiettò energicamente: “quasi solo, un modesto attore appartenente a una stirpe votata da secoli alle umili parti di tsure nella scuola Kanze, Umewaka Minoru, osò recitare il n1o su un palcoscenico di fortuna. Il successo che ottenne ridiede coraggio a tutti, e, una dopo l’altra, le cinque scuole tornarono nella capitale. Tutti festeggiarono il pioniere, tranne il capo dei Kanze che lo trattò dall’alto in basso e che, dopo la morte di lui, contestò ai suoi figli il diritto di dare certificati di abilità ai loro allievi, diritto che pretendeva di avere solamente lui. Essi risposero con la rottura e con la co-

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stituzione di una scuola indipendente. La lite durò fino al 1953 [in Rath 2003 la lite si considera completamente riassorbita nel 1954 con il rientro tra i Kanze anche di Umewaka Minoru II, nda], anno in cui, dopo lunghi negoziati alle volte assai spiacevoli, i discendenti di Minoru ritornarono in seno alla scuola Kanze” (Sieffert in Zeami 1960: 48-49). Colpisce indubbiamente la tenacia con cui la famiglia Umewaka ha attraversato i secoli mantenendo una propria riconoscibilità ed autonomia ma ancor di più, devo dire, la determinazione della scuola Kanze a far valere un diritto consuetudinario e l’autorità relativa. Più che la performance in qualità di shite di Minoru, peraltro di successo, ritengo l’epicentro della crisi l’utilizzo di un repertorio drammaturgico che i Kanze consideravano di loro assoluta proprietà e ancor più l’avvio di una trasmissione di saperi con concessioni di licenze. Questo, e non la modestia o la valentia attorica di Minoru, hanno portato al vero scontro non a caso materializzatosi in una scissione di scuole. I riconoscimenti ottenuti da Umewaka Minoru dimostrano la sua grandezza come attore e alcuni documenti dimostrano, per mitigare la versione di Sieffert, che la famiglia Umewaka ha una propria antica tradizione anche nei ruoli principali: “Un libro [un rotolo proprietà della famiglia Umewaka] siffatto gli è stato tramandato dai suoi antenati, sin dall’epoca dei Tokugawa, me è solo un abbozzo. Egli ha scritto un lungo supplemento sulle sfumature, ma non l’ha mostrato a nessuno. E infatti non bisogna fidarsene. Cose talmente delicate, come, nel Matsukaze [uno dei n1o più famosi e apprezzati dal pubblico, nda], la posa per guardare la luna in due bacini, e tutti i dettagli del mestiere, non possono essere messe per iscritto. Dovendo indicare questi dettagli, egli [Minoru] scrive semplicemente kuden (tradizione), intendendo che certe cose si possono apprendere solo da un maestro” (Fenollosa in Fenollosa-Pound 1917: 49-50). Il fatto che i ruoli di shite e tsure, comunque, venissero assegnati per nascita e non per capacità non fa che ribadire la validità della tesi sin qui sostenuta: il lignaggio ha una precedenza assoluta e la famiglia che sa guadagnarsi una posizione di privilegio ha il diritto di imporre e disporre a proprio piacimento della tradizione che ha distillato. È fuor di dubbio che dopo quasi tre secoli di convivenza artistica la famiglia Umewaka fosse latrice, dal punto di vista tecnico, della tradizione Kanze. Minoru, però, poté contare sul suo successo e sull’appoggio di chi in quegli anni lodò e riconobbe ufficialmente il suo valore e il suo coraggio. Lo scontro fu aspro e lungo ma, dietro le posizioni ufficiali platealmente inconciliabili, operò un intenso lavorio diplomatico che alla fine sancì con un compromesso la fine delle ostilità: il riconoscimento di una autonomia della famiglia Umewaka nell’alveo della scuola Kanze. In Giappone la controversia è considerata una minaccia al normale ordine delle cose e non se ne parla facilmente in modo palese. Il dirsi chiaramente le cose in faccia, modalità di relazione addirittura auspicata in Occidente, non trova una parallela accoglienza in terra nipponica. La reticenza nel definire le cause della scissione tra Umewaka e Kanze

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percepibile nel testo riportato sulla storia Umewaka testimonia tale atteggiamento. Baldi (Baldi 1984: 143-147) analizza e espone una situazione analoga nelle aziende giapponesi contemporanee: un buon esempio della continuità nel tempo di alcune costanti culturali nipponiche. Gli Umewaka impongono il loro nuovo status sfruttando a proprio vantaggio le regole dello stesso sistema che li aveva tenuti a lungo in subordine. Rimanendo scontati l’amore e l’attaccamento sincero all’arte di Minoru si può osservare come, sfruttando un vuoto d’arte e di potere, questi sia riuscito a stabilire un rapporto privilegiato con la nuova classe dirigente e, dettaglio rilevante, con il nuovo pubblico dell’epoca. Deve aver pesato molto, nonostante l’avversione iniziale dello iemoto Kanze, il generale riconoscimento della comunità di attori tributato a chi, con le proprie scelte “rivoluzionarie”, aveva mantenuto aperta la via rendendola nuovamente praticabile a tutti loro. Ad ogni modo, come regola vuole, una buona e degna genealogia deve coadiuvare una posizione politicamente favorevole per garantire il completo consolidamento delle radici di una stirpe che mira alla consacrazione. Il caso di Umewaka Minoru non fa certo eccezione. Già ai primi del ’900, nel programma accompagnatorio ad un ciclo di recite, scriveva: “il nostro avo si chiamava Umegu Hiogono Kami Tomotoki. Era il nono discendente di Tachibana no Moroye Sadaijin e visse in Oshima nella provincia di Tamba e morì nel quarto anno di Ninwa. Il discendente di Moroye, il ventiduesimo dopo Tomotoki, venne chiamato Hiogo no Kami Tomosato. Fu samurai in Tamba, come suo padre lo era stato prima di lui. Il ventottesimo discendente fu Hiogo no Kami Kagehisa. Sua madre sognò che una maschera del Nô le veniva data dal cielo. Concepì e diede vita a Kagehisa. Sin da bambino Kagehisa amava moltissimo la musica e la danza ed eccelleva per natura nelle due arti. Il suo nome giunse fino all’Imperatore Gozuchi Mikado, che nel gennaio dell’anno tredici di Binmei lo chiamò al palazzo e gli fece recitare l’Ashikari. Kagehisa aveva allora sedici anni. L’imperatore lo decorò e gli regalò una tenda purpurea sopra e bianca sotto con l’ideogramma onorifico waka, facendogli mutare il nome in quello di Umewaka. Per ordine dell’Imperatore, Usoben Fugiwara no Shumanai mandò questa notizia e i doni a Kagehisa. La lettera dell’Imperatore, datata da quel tempo, si trova ancora nella nostra casa, la tenda disgraziatamente bruciò nel grande incendio di Yedo, il quattro marzo dell’anno tredicesimo di Bunka. Kagehisa morì nel secondo anno di Choroku e dopo di lui i membri della famiglia Umewaka divennero attori professionisti del Nô. Hironaga, trentesimo discendente di Umewaka Taiyo Rokuro servì Oda Nobunaga e ricevette un terreno di 700 koku in Tamba. Morì nella battaglia di Nobunaga. Suo figlio Taiyu Rokuro Ujimori, venne chiamato al palazzo di Tokugawa Iyeyasu nel quarto anno di Keichi e ricevette un terreno di cento koku in prossimità della sua casa di Tamba. Morì nel terzo anno di Kwambun. Dopo ciò la famiglia degli Umewaka servì gli shogun Tokugawa di generazione in generazione, fino alla restaurazione Meiji (1868). Questo è il riassunto della genealogia della mia casa. Oggi è il quattrocentocinquantesimo anniversario di Tomosato e per commemorarlo insieme

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a Kagehisa e a Ujimori, teniamo per tre giorni queste rappresentazioni. Speriamo che tutti verranno a vederle. Il primo attore è il quarantacinquesimo della sua stirpe, Umewaka Rokuro ed è coadiuvato da Umewaka Manzaburo. Datato il secondo mese del trentacinquesimo anno di Meiji” (Umewaka Minoru in Magnino 1956: 4445). Rispetto al testo sulla storia degli Umewaka proposto più sopra appare maggiore, nelle parole di Minoru, l’afflato mitopoietico del racconto e assai più spinto il valore identitario dello stesso. Da notare, poi, che dei Kanze non si fa alcuna menzione. Con quanto scritto in questo programma e con quanto descritto circa il caso Umewaka-Kanze la storia si ripete e avverte che in pieno Novecento i cardini e i valori su cui la società nipponica, e una sua particolare declinazione che è il n1o, si è retta per secoli godono ancora di ottima salute.

Capitolo VI

I trattati, i maestri, gli allievi: un modello culturale al servizio della tradizione

La struttura portante dell’intelaiatura argomentativa proposta si fonda e regge su tre elementi basilari: trattati, maestri e allievi. Le indagini applicate al mito e alla storia, al loro intreccio, all’emergere di particolari movimenti culturali e assestamenti sociali, alla nascita delle istituzioni o ai rivolgimenti politici li hanno avuti quali sottotesto unificante. Tolto ogni orpello o declinazione in forme particolari credo si possa considerare l’insieme di trattati, maestri e allievi il nucleo irriducibile da cui la via dei maestri, nel no1 ma non solo, emana e si riassorbe originando e perpetuando la trasmissione dei saperi che le sono precipui. Sicuramente meno approfondita fino a questo momento la figura dell’allievo, deshi, merita una disamina: in linea di massima, escludendo del tutto gli attori dilettanti non votati al professionismo, si possono individuare due gruppi distinti di allievi, i figli d’arte e coloro che non hanno alle spalle una tradizione familiare. I primi, dal punto di vista del percorso artistico, hanno un doppio vantaggio. Vivono fin dall’infanzia all’interno del mondo cui sono destinati e il loro apprendistato comincia in tenera età: la tradizione, per le famiglie di professionisti, prevede il battesimo scenico all’età di tre anni anche se la formazione vera e propria è rimandata ad un’età più avanzata. Zeami, nel I libro del F1ushi-kaden, Osservazione sugli esercizi età per età (Zeami 1960: 75-82), indica i sette anni come età conveniente per iniziare un fanciullo alla via e, aggiunge, nonostante un progressivo aumento del carico di lavoro, fino ai diciassette o diciotto anni l’addestramento non dovrebbe essere gravoso e costrittivo per non bloccare il progredire delle sue facoltà innate. La seconda categoria può suddividersi ulteriormente in due gruppi discriminati dall’età di accesso all’addestramento. Alcuni giungono alla scelta di dedicarsi al n1o in età già adulta – e per loro il compito è veramente ostico – altri in età adolescenziale. In un teatro fortemente codificato la costruzione di un corpo fittizio, artistico, in grado di corrispondere alle precise e minuziose richieste tecniche del genere stesso, risulta fondamentale. In tal senso poter educare un corpo e un carattere ancora duttili e non già irrigiditi in atteggiamenti adulti è sicuramente preferibile: “per essere un vero attore bisognerebbe avere ventiquattro o venticinque anni, come dice Zeami. Anche se si comincia a studiare a quattro o cinque anni. Al più tardi si può cominciare

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a dodici anni, ma è già l’età massima. È quasi impossibile cominciare a vent’anni (Kanze Hisao in Marotti 1984: 14). Oggi come oggi allievi di vent’anni e più vengono accolti nelle compagnie professioniste – alcuni con ottimi risultati – ma ciò non invalida minimamente l’assunto secondo il quale prima si comincia meglio è. Non secondaria è la formazione musicale dell’allievo. Questi è tenuto ad impratichirsi in almeno uno dei quattro strumenti – un flauto e tre percussioni – formanti l’orchestra hayashi. Anche in questo caso un percorso formativo in età già avanzata limita la completezza dello stesso. Il maestro Manzabur1o ad esempio, che ha mosso i primi passi nell’arte assieme ai primi passi nel mondo, padroneggia tutti e quattro gli strumenti e in più occasioni, durante le prove, ha avuto modo di correggere gli stessi musicisti professionisti. L’accesso precoce ad una scuola o ad una compagnia, infine, consente di maturare il grado gerarchico ricoperto all’interno del gruppo la cui maturazione è stabilita in senso gerontocratico tenendo conto dell’anzianità anagrafica e dell’anzianità dell’appartenenza al gruppo. Ad esemplificazione della tenuta odierna di questo principio ricordo come, in occasione di uno spettacolo della Umewaka Kenn1okai cui ho preso parte, l’attore designato come shite, avente quindi il ruolo principale, si sia dovuto cambiare nei corridoi della gakuya [camerini] perché attori più anziani di lui occupavano tutto lo spazio che i camerini potevano offrire. L’allievo rimane tale nei confronti del maestro anche quando, divenuto dokuritsu (letteralmente che sta in piedi da solo) o shokubun, ossia che si guadagna da vivere col proprio magistero, giunge ad essere sensei: il rapporto è per tutta la vita e oltre. Esiste poi il grado di shihan (istruttore) il primo affaccio alla maestria in cui si acquisisce il diritto di avere allievi propri. Pochissimi gli uchideshi rimasti. Questi allievi (uchi, casa e deshi, allievo) venivano accolti a servizio permanente dal maestro. Il sensei ne assumeva la responsabilità educativa ed economica, il ragazzo contraccambiava con il proprio apprendistato e con la disponibilità illimitata a svolgere qualunque mansione il maestro o i suoi familiari gli richiedessero. Il ragazzo, quindi, abbandonava fisicamente la propria famiglia di origine per entrare in quella d’arte e si considerava sconveniente un permanere eccessivo dei legami con la famiglia di provenienza. L’esempio dell’uchideshi è forse il più eclatante per evidenziare la sovrapposizione esistente, o almeno possibile, tra la figura del maestro e del padre. Nella realtà da me indagata, la Umewaka Kenn1okai, erano due gli allievi in qualche modo prossimi ad essere uchideshi. Non pernottavano nella casa-teatro del maestro Manzabur1o ma, più o meno dalle otto alle venti, erano a servizio completo della compagnia e della famiglia. Io stesso sono stato accolto con i medesimi obblighi ed orari di servizio e non a caso il mio pur breve apprendistato, prima di giungere al palcoscenico, è stato rivolto all’acquisizione delle antiche tecniche dello stiraggio degli indumenti scenici del sensei, di svariate mansioni domestiche e della preparazione di un tè degno di questo nome.

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Abbozzata la figura dell’allievo nelle sue diverse accezioni, ovviamente non le uniche possibili, l’indagine può applicarsi al rapporto tra trattati, maestri e allievi quali agenti costitutivi di un modello culturale. Per modello culturale si intende un complesso o un sistema di simboli tangibili e tutt’altro che astratti al cui interno si delinea una coerente organizzazione di comportamento. L’ipotesi appena esplicitata di modello culturale ha una premessa necessaria nella definizione di cultura proposta da Clifford Geertz: “una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita” (Geertz 1973: 141). Caratteristica connotativa della cultura è, in primo luogo, di essere trasmissibile, tesaurizzabile, e la funzione svolta dal modello culturale individuato muove proprio in tale direzione. A monte della trasmissibilità deve però essere garantita la salvaguardia della cultura, del sapere, e l’individuazione di metodi trasmissivi che ne impediscano la dispersione nei momenti liminali di transito. Evitare la dispersione di sapere è vitale poiché, sempre con Geertz, persa progressivamente la maggior parte delle capacità innate, l’uomo ha affidato il proprio sviluppo all’interazione con la cultura divenendo sostanzialmente dipendente da una guida fornita dai sistemi di simboli significanti. In sostanza per “fornire le informazioni addizionali necessarie per poter agire, fummo obbligati successivamente a basarci sempre di più sulle forme culturali – il fondo accumulato di simboli significanti. Questi simboli non sono pertanto semplici espressioni, strumentalità, o corrispettivi della nostra esistenza biologica, psicologica e sociale: ne sono i prerequisiti. Senza uomini certamente non c’è cultura: allo stesso modo, e cosa più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini” (Geertz 1973: 93-94). I prerequisiti culturali appresi con l’esperienza, e di cui l’uomo ha bisogno per esistere come tale, invitano al parallelo con i prerequisiti tecnici, anch’essi appresi attraverso l’esperienza diretta, di cui un uomo ha bisogno per esistere come attore. Trattati, maestri e allievi assicurano un continuum circolare tra uomo e cultura. In termini meno astratti la conoscenza inscritta nei trattati o incarnata nei maestri rappresenta gli argini che istradano gli allievi, che danno loro il senso della provenienza e della direzione. Il decorso analitico così improntato richiama fortemente in causa il ruolo della tecnica, e dei kata che le sono consustanziali, nel metodo educativo imposto dai maestri agli allievi. Propongo un sunto schematico delle tappe fondamentali che un allievo attraversa, o dovrebbe attraversare, nel proprio percorso di crescita artistica attraverso la tecnica: “le caratteristiche più spesso associate alle arti tradizionali giapponesi sono keishikika (“formalizzazione”), kanzen shugi (“la bellezza della completa perfezione”), seishin shu1 yo1 (“disciplina mentale”) e to1 itsu (“integrazione e rapporto con la tecnica”). I passi da seguire sono questi: 1) Costituzione e codifica di un modello o forma (kata): ogni azione viene regolata da norme (keishikika). 2) Costante ripetizione del mo-

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dello o forma (hanpuku). 3) Impadronirsi del modello o forma, così come della classificazione dell’abilità nel cammino verso la padronanza, che ha come esito licenze e gradi (ky1u e dan). 4) Perfezionare il modello o forma (kanzen shugi): la bellezza della perfezione. 5) andare al di là del modello o forma, divenendo tutt’uno con esso (t1oitsu). Espressioni comuni in giapponese riflettono questi passaggi: kata ni hairu (“seguire la forma”), kata ni jukutatsu suru (“perfezionare la forma”) e kata kara nukeru (“andare al di là della forma”). Ogni pratica ha luogo in un’atmosfera di quiete, obbedienza e rispetto, rispecchiando l’obbedienza e il rispetto assoluti del rapporto maestro-allievo” (Davies – Ikeno 2007: 80). Se il senso ultimo dell’apprendimento della tecnica è trascenderla fondendosi con essa – e contestualmente ribadire la centralità del rapporto maestro-allievo – la platea semantica del termine tecnica deve allargarsi fino a coincidere con quella di waza nel senso inteso dal maestro zen, occupatosi anche della via della spada, Deshimaru: “una tecnica superiore trasmessa dal maestro al discepolo […] che può così elevarsi al di sopra degli altri uomini” (Deshimaru 1977: 15). Seguendo lo sviluppo del pensiero del maestro Dishimaru si chiarisce ben presto che la tecnica, nonostante le si dedichi l’apprendimento di un’intera vita, è un banco di prova tutt’altro che fine a se stesso. Attraverso waza, che Deshimaru considera anche un’arte, il maestro offre un percorso di crescita globale all’allievo. Il significato del termine sembra comprendere e giustificare una delle ipotesi di partenza del presente studio ossia l’inscindibilità – nel processo insegnamento-apprendimento – della crescita artistica dalla crescita personale. Attraverso lo svelamento dell’artista il maestro lavora per far emergere l’uomo: “la disciplina dell’attore è di natura morale” (Umewaka Minoru in Fenollosa-Pound 1966: 110). Un primo, paradossale, aiuto del maestro all’allievo in tal senso si manifestata attraverso un atteggiamento refrattario tendente a spingerlo verso il continuo superamento dei propri limiti, la verifica dei propri obiettivi e delle proprie motivazioni: “mio padre, che non era soltanto mio padre, ma anche il mio maestro, non voleva che gli si ponessero delle domande. Io avrei voluto porgli delle domande, ma mio padre si trovava in un’altra stanza in cui io non dovevo mai stare. Dovevo stare fuori, nel corridoio freddo, e lì prendere le mie lezioni. In questo modo penso di aver imparato molto bene e penso che un metodo così difficile sia veramente il migliore per imparare” (Umewaka in Marotti: 1984: 17). L’immagine di un maestro e un allievo che dialogano in due luoghi separati epitometizza la libertà riconosciuta dal primo al secondo e, in fondo, la libertà di entrambi. Un maestro deve sempre dosare con precisione la sua presenza nel percorso dell’allievo per consentirgli un’erranza protetta, una possibilità di apprendere ricercando e compiendo in prima persona ogni passo verso l’obiettivo. Il maestro può indicare il percorso ma è l’allievo che deve scegliere di affrontarlo e, all’interno degli argini delimitanti il percorso stesso, come affrontarlo. Alleviare la durezza del suo cammino fornendogli scorciatoie equivarrebbe ad una sottrazione di esperienza e crescita come pure non imporgli un argine credibile a tale erranza lo indurrebbe a crede-

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re in una libertà fittizia e sterile. La tecnica, nel senso di waza, è un mezzo e non un fine, è qualcosa che va acquisito per essere superato. Ma questo è bene che un allievo lo scopra da solo: “non dobbiamo dipendere dal waza, dalla tecnica. Bisogna creare. Se un ricco dà del denaro al figlio, costui non imparerà mai a guadagnarselo. Inversamente, il figlio di un uomo povero ha la possibilità di crearsi il mezzo, il metodo per procurarselo” (Deshimaru 1977: 31). La ricchezza che un maestro possiede, anzi, la ricchezza che il maestro è, non deve essere liberalmente elargita ma gelosamente protetta e resa sacra, intangibile. Il maestro deve incarnare l’ideale traguardo cui l’allievo desidera giungere per essere ammesso alla ricchezza che intuisce ma non può commisurare, deve essere la palese dimostrazione della bontà del metodo che lo ha reso tale. Utilizzo appositamente la definizione metodo, sottintendendo tecnica, per la eco del suo etimo greco, hodos (sentiero) con via (do1 ). Enorme è la ricchezza del metodo: “Il significato etimologico di ‘metodo’, dal greco hodos è quello di sentiero. Secondo una comune metafora sanscrita, parlare significa percorrere una via. E anche l’italiano discorrere e il latino percurrere fanno riferimento alla circostanza del cammino. Vi è tuttavia una radice indoeuropea il cui significato implica a un tempo ‘sentiero’ e ‘ventre’: la radice yeu, da cui yoni ‘ventre’ in sanscrito. Il ventre è lo spazio della vita, il sentiero sul quale procede il seme o la parola della vita. Esso è anche il misuratore, la matrice che forma i corpi viventi secondo le rispettive giuste proporzioni, nutrendoli e portandoli alla luce. Il metodo è come una matrice o un ventre. Esso è la femmina, il principio passivo dei manufatti e degli atti. Le regole da seguire in vista di raggiungere uno stato contemplativo, che formano il suo metodo, sono la sua causa femminile o passiva. Il loro principio maschile o seme o sprazzo o parola di vita è invece ciò che le porta ad operare e a fruttificare. È l’ispirazione o la spinta a innalzarsi al di sopra della comune condizione umana. Nessuna nascita spirituale può aver luogo, nessuno stato contemplativo è raggiungibile fino a che un metodo tradizionale non venga assorbito, instillato e fatto proprio. Secondo la metafora ermetica: a meno che la luna non si congiunga al sole. Altrimenti il metodo non solo rimane sterile ma si trasforma in una fonte di infezione: di isteria – che etimologicamente è ventre malato. D’altro canto, se il seme, o l’ispirazione o l’impulso a innalzarsi oltre i limiti dell’ordinaria vita umana è abbandonato a se stesso, diviene caparbio e fanatico, e si muta in una forza distruttiva: ‘I gigli appassiti odorano peggio delle erbacce’. L’uomo è costantemente tentato di cercare la vita spirituale o in un metodo auto-sufficiente o in qualche sorta di cieco rapimento traboccante di ‘spontaneità’ e di ‘creatività’, i due idoli di una umanità irreparabilmente repressa” (Zolla in Marchianò 1974: 98-99). Ritornano i principi maschile e femminile il cui senso generale è già stato affrontato, principi che le parole dense e affascinanti di Zolla precipitano in forme concrete e individuabili. La tecnica, il metodo, è il principio femminile, la regola orizzontale – della terra – che sola può preparare all’ascesa dell’asse verticale – del cielo – dove si può giungere – o ritornare – solo dopo aver fatto piena esperienza del mondo.

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L’associazione tra il principio femminile e l’orizzontalità e il principio maschile e la verticalità in ambito nipponico è corroborato da alcuni particolari architettonici dello Yuki-den e del Suki-den, padiglioni presenti nel Daij1og1u, l’effimero villaggio-santuario realizzato per uno dei riti – il Daij1osai – di intronizzazione di un nuovo Tenno1 . Yuki-den e Suki-den sono propriamente dei sacelli afferenti il culto del riso e idealmente collegati a due risaie, dette Yuki e Suki, individuate sul territorio nazionale attraverso complesse divinazioni oracolari. “Chiunque s’interessa del Giappone sa che i sacrari Scinto, almeno in alcuni dei loro stili più genuini, mostrano sui due frontoni del tetto delle vistose travi incrociate, note come chigi («i mille alberi», «i mille legni»). […] È accertato inoltre che i chigi dei sacrari Scinto dedicati a divinità femminili appaiono tagliati in alto da una linea orizzontale (uchisogi), mentre quelle dedicate a divinità maschili hanno il taglio verticale (sotosogi). […] Mayer ha notato che i chigi dello Yuki-den mostrano in alto il taglio femminile (uchisogi), mentre quelli del Suki-den ne hanno uno maschile (sotosogi). E fin qui le cose sarebbero abbastanza semplici, se non che in basso i tagli si contraddicono, producendo un connubio strambo, caratteristico unicamente di questi edifici” (Maraini 1995: 58-59). Yukiden e Suki-den, luoghi attraverso i quali il nuovo imperatore transita nella ricostituzione dell’unità cosmica e della divina incarnazione, maschile e femminile si ritrovano uniti nell’uno di cui sono emanazione. “Spazi ideologici e spazi sociologici concorrono, insieme agli spazi fisici, a una organizzazione coerente, in senso culturale, dei modi con cui una società definisce la propria presenza rispetto alla dimensione naturale” (Marazzi, 1990: 208). I kata, come visto, risolvono in sé la dualità e in tal senso assumono la connotazione del ventre, del sacello che custodisce la memoria – il seme che si trasmette da cuore a cuore di zeamiana memoria – che mantiene viva la parola dei padri, degli avi. Il senso della famiglia, della scuola, del lignaggio e della maestria è qui nuovamente sancito. L’errare sul piano orizzontale soffrendo tutti i colpi di tale erranza diviene esperienza propedeutica dell’ascesa sul piano verticale, percorso tutt’altro che agevole. L’allievo, formatosi dopo lunga gestazione nel grembo femminile che è la tecnica, deve essere ritualmente separato dal suo mondo precedente – strappato alla terra – per essere accolto in quello nuovo del padre – presentato al cielo (cfr. Van Gennep 1909: 43-99). La verticalità di tale rapporto si sostanzia sulle tutt’altro che terrene proporzioni della sezione aurea: “è cioè diviso in due in modo che la parte minore stia alla maggiore come questa al tutto, perché il discepolo sta al maestro ideale come questo al cosmo” (Zolla 1988: 140). L’iniziazione è ciò che segna – spesso in modo tangibile e doloroso con una ferita che nel n1o potrebbe individuarsi nella severità del sensei – il passaggio tra i due piani: “[i rapporti tra maestro e allievo] riguardano di solito lo studio dei principi generali; e tuttavia, a proposito del grado in cui il maestro conferisce l’iniziazione, esistono delle ragioni che gli proibiscono di conferirla a meno di non aver esplorato il fondo e la mente dell’allievo. Se il fondo è insufficiente, l’iniziazione non raggiunge l’effetto. Eccone la ragione: supponiamo che la si con-

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ferisca a qualcuno che sia insufficiente; ora, il grado dell’iniziazione si situa molto in alto. Siccome il fondo dell’allievo non raggiunge [una tale altezza, l’iniziazione] non raggiunge il suo effetto per mancanza di concordanza. Poiché non raggiunge il suo effetto, l’iniziazione è falsa, e poiché è vana, non vi è iniziazione. Ora, per arrivare a questo, bisogna che siano riunite le tre condizioni [seguenti]: 1) un buon fondo e le capacità corrispondenti; 2) l’amore della nostra via e la volontà di consacrarvisi completamente; 3) infine, un maestro capace di insegnare questa via. Se queste tre condizioni non sono riunite, non si può arrivare a questo, cioè: al grado in cui, una volta giunto al grado dell’abilità, siete consacrato maestro” (Zeami 1960: 170). L’iniziazione è un atto potente di trasformazione che per essere tale deve compiersi in un modo rigoroso. Zeami fissa tre punti necessari al validamento dell’iniziazione. Il primo riguarda l’esplorazione e l’acquisizione del fondo – base, terra – ossia dello sviluppo attraverso l’esercizio delle doti innate; il secondo assomiglia ad un atto di fede, o amore, che prelude al senso di servizio di cui parlerò a breve; il terzo ribadisce che senza una guida adatta, il maestro, il percorso non può essere affrontato. Il terzo punto, inoltre, richiama implicitamente il sensei al proprio compito educativo e, quindi, al ruolo di servizio già rilevato al punto due. Un vero maestro deve sì progredire nell’arte e curare la propria realizzazione ma deve farlo continuando a crescere in modo opportuno chi darà senso al suo cammino proseguendolo. Maestro e allievo rappresentano, considerati distintamente, il passato e il futuro della tradizione ma la loro interazione non può che innervarsi nel presente, nel “lampo della conoscenza in cui conoscitore [allievo] e conosciuto [maestro], passato e futuro, si fondono nel conoscere” (Zolla 1988: 25 – parentesi quadre di chi scrive). Maestro, inutile dirlo è colui il quale abbia attraversato tutte le tappe del percorso e ne rechi memoria. Assicurarsi che nessuna tappa sia aggirata o saltata dall’allievo rientra nei suoi compiti di guida e custode. Nell’immediato prosieguo del brano sull’iniziazione, contenuto nel Kaky1o (Lo specchio del fiore, 1424), Zeami mette in guardia dai rischi di una imitazione superficiale, non supportata da uno studio adeguato. Essendo il no1 un’arte scenica fondata sull’imitazione (monomane) l’appello di Zeami va seriamente considerato. Ancora una volta l’analisi dei kata può chiarire la preoccupazione del fondatore conscio del sottile eppure immenso discrimine che separa una sterile imitazione da una feconda creatività. I kata devono essere considerati il risultato di un lungo processo di affinamento e di riduzione all’essenziale di un gesto, o di un qualunque aspetto della realtà, originariamente osservato nella sua semplicità e quotidianità. Anche i kata non squisitamente narrativi, cioè non eloquentemente collegati ad una azione rinvenibile nel reale, credo, abbiamo al fondo una genesi non dissimile. I modelli scenici, comunque, si pongono l’obiettivo dell’imitazione, della buona rassomiglianza con il modello originale osservato. Tenendo a mente i precetti contenuti nel II libro del F1ushikaden, Osservazioni sulla mimica, i termini imitazione e rassomiglianza vanno chiaramente riferiti al monomane zeamiano: il risultato finale del processo imitativo è da

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intendersi quale frutto di un profondo filtraggio che essenzializza la forma di partenza e che, al fine, si basa sull’immagine mentale distillata dall’attore. “Imitazione – afferma Coomaraswamy – è il concretarsi nella materia di una forma preconcepita. Definizione, peraltro, che coincide in tutto e per tutto con quella già citata di «arte», e che, al limite, si addice anche al concetto di «creazione» (Marchianò 1974: 72-73). L’attore creativo scaturisce dall’uomo che umilmente si è asservito alla forma e al maestro che la amministra, un ministro a sua volta a servizio dell’arte: “l’arte si può definire con il concretarsi materiale di una forma preconcepita. L’operazione dell’artista è duplice: in primo luogo, intellettuale o «libera», e in secondo luogo, manuale o «asservita». E, citando Echkart, «Per esprimersi propriamente, una cosa deve procedere dal suo interno, mossa dalla sua propria forma». L’artista pertanto opera in perfetta libertà e originalità, non in quanto inventa qualcosa, bensì in quanto si conforma ad alcunché di presente in lui e a cui egli si limita a conferire una forma (adeaquatio rei et intellectus). La libertà dell’artista consiste dunque nel suo «servire l’opera a cui si dedica», al modo in cui nella sfera del comportamento, «il mio servizio è libertà perfetta». L’operazione manuale dell’artista si chiama «servile», solo in diretto rapporto con la forma. In tale servilità non vi è anzitutto nulla di disonorevole, bensì una sorta di permanente fedeltà al bene dell’opera da compiersi” (Coomaraswamy in Marchianò 1974: 72). Il maestro ha tra i suoi compiti quello di vigilare il processo di acquisizione formale della tradizione assicurandosi che l’allievo non si “isterizzi” nello sterile fraintendimento del mezzo col fine. All’allievo è fatto obbligo di umiltà, apertura e fiducia nell’accogliere anche la più incomprensibile delle lezioni. L’ubbidienza in senso lato e poi l’ubbidienza al sensei, ossia a colui che, letteralmente, è nato prima, è la vera libertà che la tradizione ha distillato e affidato ai suoi custodi, i maestri: “penetrare nel tempio dell’archè, di ciò che si intuisce e si invoca come arcaico, richiede una scorta appropriata, non compagni di viaggio qualsiasi ma guide e custodi già addentrati nei misteri della tradizione e in grado di rendere praticabile ai neofiti l’ascesa dell’erta e l’esperienza, confortati dalla certezza che agli habentibus symbolum facilis est transitus” (Marchianò 1974: 97). Un maestro può dirsi compiutamente tale nel momento in cui, raggiunto un certo grado di consapevolezza umana e artistica, non cade nel compiacimento del proprio successo ma, ritrovando l’umiltà che l’ha disciplinato come allievo, si pone al servizio della tradizione che gli ha dischiuso quel traguardo. Il monito più volte ripetuto da zeami “non dimenticate i vostri inizi” avverte chi stia salendo l’erta della maestria che il percorso dovrà essere ripetuto dall’inizio tante volte quanti saranno gli allievi cui si vorrà passare la fiamma della tradizione. Oltre all’autorità il sensei deve tener conto della responsabilità di accogliere o respingere i prosecutori potenziali e distribuire loro, nei tempi e nei modi opportuni, i segreti dell’arte: mettere a dimora un seme nella stagione e nella terra sbagliata compromette lo sbocciare del fiore. Zeami affronta il tema del viaggio esperienziale del maestro e del suo ritorno per instradare altri uomini sullo stesso cammino nel suo ultimo trattato: Kyakuraika.

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Dal punto di vista pratico Nearman collega il Kyakuraika all’iter descritto da Zeami nel Ky1ui-shidai. L’attore divenuto maestro salendo i gradi medi e poi i superiori ritorna al suo rudimentale livello espressivo trasfigurandolo in manifestazione artistica; ma aggiunge anche: “l’inusuale parola utilizzata da Zeami per ‘ritorno’ (Kyakurai) deriva da una comune espressione buddhista, keko kyakurai, letteralmente ‘affrontare e partire [quindi] girarsi e tornare [indietro]’. In contesto buddhista l’espressione si riferisce all’idea del bodhisattva in cui il singolo, dopo aver raggiunto una profonda penetrazione e presa di coscienza spirituale, sceglie di tornare al mondo da cui la sua illuminazione lo aveva liberato per aiutare i suoi simili nella ricerca della liberazione personale. La nozione di ritorno successivo al raggiungimento del più alto sviluppo costituisce una parte importante dell’approccio all’addestramento attorico nei trattati pedagogici di Zeami […]” (Nearman 1980: 161). La preminenza e il ruolo di vertice propri al sensei vengono mitigati dal servizio cui lo stesso deve ottemperare nel nome di realtà a lui superiori: il gruppo, la sua tradizione e il loro perpetuarsi. Nel senso del servizio a queste realtà i trattati, i maestri e gli allievi concorrono paritariamente al funzionamento del modello culturale individuato in precedenza, ossia al mantenimento e alla trasmissione di dati pratici e di valori fondativi di una particolare tradizione ma anche alla loro inesausta declinazione al presente. Il n1o, nonostante appaia o venga definito immobile, è in realtà un organismo vivo e dinamico capace di attraversare indenne i secoli perché fondato su una chiara e robusta identità che ha trovato nei suoi esponenti uomini in grado di aggiornarla costantemente senza tradirla. L’idea che il n1o sia una sorta di fossile vivente, poi, è negata nei fatti dalla realtà scenica contemporanea sicuramente simile ma anche profondamente diversa da quella delle origini. La semplice constatazione che il medesimo n1o oggi richieda circa il doppio del tempo necessario alla sua esecuzione rispetto al XV secolo può essere alquanto esemplificativa. Altre numerose variazioni formali sono intervenute da allora – ricordo l’esistenza delle kogaki – ma il loro rilievo è esclusiva di uno sguardo veramente esperto. Ciò che a mio avviso ha però assicurato al no1 la sua longevità è stata la chiara consapevolezza fin dal suo apparire di appartenere ad un paradigma socio-culturale cui bisognava contestualmente conformarsi ed essere specchio. Già Zeami ammoniva: “Nella nostra arte, è col favore e il rispetto della moltitudine che si assicura longevità e felicità alla fondazione di una scuola. Di conseguenza, se ci si limita a una maniera troppo inaccessibile, gli applausi del grande pubblico mancano. Per questa ragione, interpretare il n1o senza dimenticare mai i propri inizi nel n1o, adattarsi ai tempi, uniformarsi al luogo, [in breve] interpretarlo in modo tale che anche lo spettatore più ottuso si dica: «In verità...», ecco [la fonte] della longevità e della felicità. Se si esaminano bene le usanze del mondo, colui che, davanti a un nobile uditorio o in un grande tempio buddhista, come pure nelle feste dei templi shint1o delle campagne o di una lontana provincia, non si attirasse mai la minima critica, questi lo si potreb-

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be proprio dire un attore completo, che possiede longevità e felicità. Stando così le cose, colui cui mancano il favore e il rispetto della moltitudine, per quanto abile sia, è difficile dirlo un attore [sicuro di] un accrescimento di longevità e di felicità. Per questo il mio defunto padre, si trovasse anche in qualche buco di campagna o in un villaggio sperduto di montagna, esercitava la propria arte tenendo conto delle disposizioni di spirito [del pubblico], e dando capitale importanza agli usi del posto” (Zeami 1960: 121-122). In tempi a noi più prossimi ecco le parole di Umewaka Rokur1o: “Non è solo e sempre un fatto di tradizione e di imitazione [del maestro]. Fino all’età di trenta anni mi è sempre stato detto di seguire la tradizione. Quando ho raggiunto i quaranta anni mio padre mi disse che potevo avere il mio approccio personale all’arte. […] Mi diceva che dovevo seguire la tradizione, ma anche aggiungere il mio tocco personale all’arte, altrimenti il N1o sarebbe stato incomprensibile alle generazioni successive” (Umewaka in Marotti 1984: 12). Kanze Tetsunojo, fratello dei noti e apprezzati sperimentatori Hideo e Hisao, chiosa con queste parole il suo modo di integrare l’antica tradizione familiare al mondo in cui vive: “[...] non significa che proviamo ad adattarci alle sue [di Zeami] teorie mentre recitiamo. Queste rappresentano il punto di partenza per noi. Il n1o è una delle forme teatrali viventi nel nostro tempo e se il n1o ha resistito seicento anni, dunque, deve contenere certi elementi che costituiscono l’essenza dell’arte teatrale e drammatica in generale. Se non pensassi a me come a un uomo contemporaneo immerso nel proprio mondo, e se costantemente non facessi lo sforzo di comprendere i nostri tempi terribili, non potrei essere in grado di recitare il n1o e, inoltre, non potrei comprendere una sola parola delle teorie di Zeami” (Kanze Tetsunojo in Azzaroni 2003b: 137). Il sensei: tra autorità e responsabilità “Per quanto grande sia il valore del Buddhismo Zen agli effetti della comprensione del processo religioso di trasformazione, il suo uso tra gli occidentali è del tutto improbabile. Le concezioni spirituali necessarie allo Zen sono incomprese in Occidente. Chi, tra noi, riporrebbe tanta implicita fiducia in un maestro e nelle sue incomprensibili vie? Questo rispetto per una personalità superiore, esiste solo in Oriente. Chi potrebbe gloriarsi di credere nella possibilità di una esperienza di trasformazione paradossale oltre ogni limite, al punto poi da sacrificare parecchi anni della sua vita alla faticosa ricerca di un simile oggetto? E infine, chi oserebbe prendere su di sé l’autorità di un’esperienza di trasformazione eterodossa? Se si trattasse di un uomo scarsamente attendibile, che, forse per ragioni patologiche, abbia troppo da dire su tutto, un uomo simile non avrebbe motivo di dolersi di una mancanza di seguito tra noi. Ma se un ‘Maestro’ impone un difficile compito che richiede ben altro che una quantità di chiacchiere pappagallesche, l’europeo comincia a dubitare, dato che l’er-

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ta via dell’autosviluppo gli è altrettanto lugubre e tenebrosa quanto quella dell’Inferno” (Jung in Suzuki 1969: 29). Sebbene lo stralcio da Jung non sia direttamente collegato al n1o la vicinanza di questo allo zen, già argomentata, autorizza il suo utilizzo per via analogica. Il fatto, poi, che Jung scriva avendo ben presente che il suo fruitore sarebbe stato un europeo aumenta l’effetto chiaroscurale d’insieme: i blocchi tematici appaiono nitidamente rilevati. Il primo tema, riferito alla “fiducia in un maestro e nelle sue incomprensibili vie”, è più volte emerso lungo il cammino fin qui percorso; il secondo, l’assunzione in prima persona dell’“autorità di un’esperienza di trasformazione”, invece, è stato solo accennato. L’istituzione del sistema iemoto e il sempre maggiore stratificarsi e consolidarsi di una struttura sociale piramidale ha enormemente contribuito, anche in seno al no1 , al rafforzamento di un ordinamento gerarchico. L’innalzamento ideale sull’asse verticale ha un corrispettivo concreto nell’innalzamento progressivo verso il vertice della gerarchia piramidale del gruppo. Il vertice, o le posizioni di vertice, dipendono dalla combinazione di molteplici coefficienti tra cui l’anzianità – anagrafica e artistica – la valentia, l’abilità diplomatica e relazionale nel coltivare amicizie-alleanze e la nascita. Il ruolo di iemoto, quindi di vertice assoluto, essendo ereditario segue invece il solo lignaggio familiare. Tale regola ammette, è ovvio, eccezioni. Il profondo rispetto nutrito verso una disciplina, però, può indurre uno iemoto a non indicare un erede nel caso nessun maestro eligibile palesi una abilità e una comprensione conclamata della via. Un simile rigore selettivo conduce, a volte, all’estinzione di un lignaggio. Ciò che sovente passa in secondo piano è la biunivocità di autorità e responsabilità: l’autorità esercitata da un membro del gruppo cresce proporzionalmente alle responsabilità che dovrà assumersi tanto rispetto al vertice quanto rispetto la base. Nakane Chie, trattando del sistema senpai-ko1 hai (superiore-inferiore), del ruolo di iemoto rileva unicamente, ad esempio, gli aspetti vantaggiosi: “al vertice dell’organizzazione vi è il caposcuola, iemoto (alla lettera, “origine del casato”), il cui posto viene solitamente trasmesso per via ereditaria. Attraverso i rapporti maestro-discepolo la funzione di iemoto dà origine a innumerevoli legami verticali e, nel caso delle scuole più antiche e prestigiose, la rete a forma di Λ copre quasi l’intero territorio del Giappone. È sorprendente come queste antiche scuole abbiano conservato per molti secoli la stessa organizzazione, e alcune di esse siano fiorenti ancora oggi. La condizione di iemoto implica non solo un grandissimo prestigio, ma anche notevoli vantaggi economici, poiché il maestro può raccogliere, oltre alle quote per l’insegnamento, contributi per rilasciare un certificato di abilitazione nella sua arte a individui che sono indirettamente legati a lui nell’organizzazione gerarchica. Questo sistema, dunque, non serve soltanto a trasmettere la tecnica artistica, ma ha anche una funzione sociale ed economica più ampia ed efficace” (Nakane 1970: 87-88). Il prestigio sociale e ancor più artistico – lo iemoto può prodursi nei n1o a lui più congeniali utilizzando maschere, costumi e compagni di scena di altissimo livello –

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unitamente ai vantaggi economici, reali e apertamente perseguiti, non deve però distogliere dalla dimensione del servizio in cui ogni maestro, e ancor più uno iemoto, si trova a dover operare. Il maestro Umewaka Manzabur1o, da me interrogato su cosa significasse per lui essere iemoto, individuava il cuore della sua posizione nella doppia responsabilità del salvaguardare la tradizione e del dare visibilità alla famiglia. Il senso di responsabilità ribadito dal maestro Umewaka funge, in qualche modo, da collegamento tra le due sponde del doppio percorso ripalesatosi qui con discrezione. La possibilità di dare continuità ad un metodo tradizionale e ai suoi esiti dipende dalla capacità di presa e incidenza nel reale dello stesso. Lo iemoto è costantemente impegnato a procacciare spazi di visibilità e lavoro per sé e il gruppo – spettacoli, esibizioni, tournée, nuovi allievi professionisti e dilettanti – al fine di mantenere una stabilità economica e sociale atta a non inficiare il funzionamento del modello culturale in precedenza delineato. Tale circolo virtuoso ha costantemente spinto il n1o a confrontarsi con la realtà esterna impedendone, come visto, l’autarchia. Riutilizzando la suggestione zeamiana dell’attore iniziato e quanto l’antropologia ha raccolto sui riti d’iniziazione emerge distintamente la figura del maestro come uomo – e attore – pienamente adulto, ossia ammesso al mondo dei diritti e dei doveri, in altri termini della responsabilità e delle scelte connesse all’autorità esercitata. Responsabilità e scelte vengono gestite dal leader non solo tra l’interno e l’esterno del gruppo ma anche, e in particolar modo, tra ciò che per il gruppo rappresenta il passato e il futuro. Lo iemoto può essere immaginato quale cerniera o innesto tra due piramidi sovrapposte sui vertici. Da un lato la piramide degli avi, o dei maestri dei maestri, dall’altra quella dei discendenti o degli allievi: lo iemoto catalizza in sé la sapienza tradizionale e la riversa nell’oggi del suo insegnamento, si trasforma in axis mundi che connette i piani dell’esistenza e della conoscenza, un diaframma che divide, e quindi preserva e sacralizza, e al contempo unisce, e quindi trasmette rispecchiando l’insieme in un’unica immagine di pienezza cosmica: “un grande maestro rimodella l’uomo fino a farne un sistema planetario” (Nietzsche in Steiner 2003: 108). Inutile dire come l’equilibrio di due piramidi così sovrapposte sia precario e poggi sull’unica garanzia rappresentata da chi disciplina la connessione. Solo mantenendo l’ordine e l’equilibrio in quella inferiore si può evitare che la superiore collassi, come solo nutrendosi dell’esperienza di quella superiore l’inferiore può rimanere compatta e salda. L’immagine “a clessidra” appena proposta è funzionale anche a rappresentare l’infinitesima strozzatura attraverso la quale ogni innovazione debba passare prima di potersi imporre. Ribadisco la dinamicità e vitalità del n1o ma rimangono innegabili la lentezza con cui si osservano cambiamenti e la profondità, generalmente percepibile ad un piccolo novero di addetti o specialisti, a cui avvengono. Più che alla refrattarietà al cambiamento ritengo tale modalità di aggiornamento connesso alla consapevole volontà di mantenere una purezza a sua volta funzione di un altrettanto chiara identità e unità di gruppo. Ad esempio, risulta pressoché im-

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possibile dire se il sistema di insegnamento attraverso i kata sia frutto della compattezza del gruppo o ne sia l’origine e, probabilmente, non è neppure del tutto corretto impostare il problema su tale dirimente questione. Di sicuro i kata rappresentano una lingua comune condivisa tra tutti i membri e, assieme ai trattati scritti, polarizzano un senso identitario preciso: “la realizzazione del kata poggia su una forma sociale di rapporti con gli altri che permettono la costituzione della figura di identificazione; rapporti stabili, gerarchizzati, inclusi in una forte struttura di gruppo” (Tokitsu 2004: 148). Sempre Tokitsu nota come nel Giappone contemporaneo solo le enclave delle arti tradizionali che abbiano “conservato la loro purezza” poggino la loro continuità su un autentico sistema di trasmissione basato sui kata. L’attività del sensei per assicurare equilibrio e continuità all’intero sistema deve essere costante e basata su strategie alquanto raffinate. “Per garantire solidità al sistema strutturale del N1o nel suo complesso (incluso il sistema iemoto) è necessario che agli attori venga costantemente ribadita la norma che esso prevede. Ciò può essere fatto creando più occasioni possibili di contatto tra sistema e attore. Il contatto si verifica «sul campo», intendendo con questo qualunque «luogo» in cui si svolge l’attività dell’attore N1o, non solo quindi gli spazi in cui si tengono rappresentazioni o eventi speciali (bekkai), ma anche quelli in cui i professionisti si esercitano sotto la guida di un maestro, i pranzi e le cene, i raduni a carattere privato nei locali e così via. In che modo la regola del sistema viene espressa «sul campo»? Attraverso l’azione dei details [in inglese nel testo originale, nda], dettagli che avvengono non spontaneamente e che sono sommessamente enfatizzati e diretti ad un obiettivo preciso da chi li pone in atto. In un sistema gerarchico piramidale, quale quello del N1o, il dettaglio è il meccanismo che riesce a far pervenire il messaggio anche laddove la voce del superiore non può arrivare direttamente. Presenta inoltre due grandi vantaggi: quello di entrare direttamente in contatto con il singolo e quello dell’alta frequenza con cui può essere agito. Ogni volta che viene «toccato» dal dettaglio, cioè, l’attore attua in maniera autonoma un immediato aggiornamento del sistema. La cosa importante, però, è che questo avviene in maniera inconscia, «salvando» come in un computer il nuovo dato all’interno del singolo” (Umewaka in Autori Vari 2007: 120). Il congegno così creato e strutturato è tanto resistente quanto fragile. Resistente perché sperimentato, unitario e autoalimentantesi; fragile perché al variare, o mancare, di un solo elemento cessano le condizioni di sussistenza.

Capitolo VII

L’oggi e dintorni

Constatata la contestuale fragilità e resistenza del sistema trasmissivo proprio del n1o e considerata valida l’ipotesi secondo la quale solo mantenendo integro il sistema se ne garantisce la continuità è possibile verificarne la tenuta in tempi a noi più prossimi. Le difficoltà congiunturali del passaggio tra XIX e XX secolo si sono, in modi e tempi differenti, ripresentate nel corso del Novecento. Gli anni immediatamente successivi alla II Guerra Mondiale, in particolar modo, hanno costituito un passaggio delicatissimo in cui il n1o ha nuovamente corso il rischio di scomparire non solo per il divieto alle recite imposto dai vincitori dopo la resa. Superata l’emergenza attraverso una profonda verifica e riconferma dei propri statuti costitutivi il n1o si è però trovato ad operare in una società che, a grandi linee, aveva maturato scelte che, pur nel solco di una certa continuità con la tradizione, introducevano elementi di rottura e discontinuità. Nonostante ciò il n1o è riuscito a mantenere fino ad oggi una direzione chiara e, sebbene non avulsa dal contesto sociale, autonoma, rappresentando in un Giappone contemporaneo nuovamente interessato a rivalutare alcuni modelli identitari e comportamentali tradizionali uno dei possibili punti di riferimento. L’ennesima prova I trattati e i documenti scritti sono stati varie volte ricordati per il valore coesivo ed identitario cui in più occasioni gli attori si sono richiamati per vedere riconosciuta una propria autorità o per riaggregare pericolose situazioni di sfrangiamento. Per il ruolo giocato nella già affrontata separazione-riunificazione tra Umewaka e Kanze riveste ora un certo interesse il caso, per molti versi analogo a quello di Kanze Motoakira, di Kanze Sakon († 1939). Kanze Sakon è sempre stato considerato un enfant prodige per l’abilità con cui, in giovanissima età, ha affrontato n1o di patente difficoltà. Sebbene allievo di Kanze Kiyokado, Sakon ha frequentemente indicato Zeami quale suo più grande maestro. Con la riscoperta e la pubblicazione, nel 1909, di alcuni trattati di Zeami egli co-

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mincia un lavoro teso ad affermare le differenze tra quei testi e le altre tradizioni rinvenibili tra i Kanze: una sorta di filologo che collaborò strettamente con i più insigni studiosi della sua epoca. Probabilmente per l’importanza attribuita all’appartenenza ad una tradizione familiare Sakon inizialmente avallò, comunque non avversò, la scissione degli Umewaka ma, “nel momento in cui le altre scuole si opposero alla formazione di una nuova scuola Umewaka, nel 1921 Sakon fu costretto ad ostracizzare i membri della sua scuola che sostennero tale causa compresi Umewaka Manzabur1o (d. 1949), suo fratello minore Minoru II (d. 1959) e Kanze (Kasestu) Tetsunoj1o VI (d. 1959) che aveva sposato la figlia di Minoru ed era un acceso sostenitore della battaglia” (Rath 2003: 200). Ciò avvenne allorché l’isolamento dei fuoriusciti si aggravò sensibilmente, ossia quando la N1ogaku Ky1okai, associazione di professionisti n1o, si rifiutò di fornire loro i propri artisti impedendo praticamente di allestire alcuno spettacolo. Man mano che la crisi andava risolvendosi Sakon escogitò un sistema tanto antico quanto efficace per comporre lo scontro e ricostruire una unità chiara e condivisa attorno ad una autorità unanimamente riconosciuta: “la qualità principale di un capo è di essere sufficientemente sensibile alle manifestazioni e all’«aria» del gruppo per poterne captare le aspirazioni. In Giappone, quale che sia il tipo di gruppo (casa, impresa, Stato) si insiste sull’importanza del «wa». Questo termine include le due idee di «buona intesa, intimità, calma, equilibrio» e di «mettere insieme, sommare»; scritto con un ideogramma diverso significa «cerchio». La qualità di un capo è di realizzate il «wa» all’interno del gruppo, attenuando ciò che conferirebbe spigolosità alle relazioni o alle opinioni risolute” (Tokitsu 2004: 138-139). Nel 1929 Kanze Tetsunoj1o VI rientrò nella scuola Kanze e nel 1933 Umewaka Manzabur1o. Con loro Sakon avviò una revisione del repertorio per creare una maggiore unità stilistica tra la scuola Kanze e le famiglie Tetsunoj1o e Manzabur1o. Da questo lavoro nacque il Taiseiban Utaibon – utaibon indica un volume in cui sono raccolti i libretti n1o unitamente alle indicazioni per la loro messinscena – in cui il repertorio è stato scrupolosamente diviso nei cinque gruppi drammaturgici e le attribuzioni a Zeami portate a oltre cento – per Motoakira erano circa settanta – su duecentodieci testi considerati. Il gruppo nel suo complesso, compatto attorno al leader, respinse una possibile scissione e se da un lato si riconobbero alcune individualità dall’altro si impose un livello di uniformità e accentramento del potere addirittura maggiore che in precedenza: “come Motoakira, Sakon volle usare la pubblicazione di un nuovo repertorio standardizzato per incrementare l’uniformità stilistica, la coesione del gruppo e l’obbedienza professionale all’interno della scuola Kanze” (Rath 2003: 200). Il caso Umewaka-Kanze, che ha coinvolto come visto l’intero mondo del n1o, può considerarsi un vero e proprio dramma sociale, nell’accezione di Victor Turner, conclusosi solo nel 1954 – anno di rientro tra i Kanze di Umewaka Minoru II – con una reintegrazione, ossia con una riaffermazione validante degli equilibri e delle regole precedenti la crisi.

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Poco più di cinquant’anni fa, quindi, il n1o ha profondamente vagliato e verificato attraverso una fase di crisi il permanere della validità del proprio istituto e dei propri valori: un’autorità veniva ancora riconosciuta, interpellata e seguita e chi la possedeva la esercitava in modo autorevole e responsabile verso la tradizione nel suo insieme e verso ogni suo singolo esponente. Lo snodo storico della metà del XX secolo, più ancora gli anni della II Guerra Mondiale e quelli successivi dell’occupazione alleata – in realtà statunitense – (settembre 1945-aprile 1952), costituiscono un passaggio chiave per il Giappone e, ovviamente, anche per il n1o. Per la vicinanza alla casa imperiale e al suo establishment politico, promotore dell’intervento bellico giapponese, il n1o fu per la seconda volta sul punto di sparire: ben più della sospensione delle recite, emergenza ad un certo punto rientrata, il n1o trovò un arduo compito nel comporre la distanza creatasi tra la fermezza dei propri principi tradizionali appena ribaditi e una realtà socio-culturale spinta all’abiura, o all’intiepidimento, della propria identità. In particolar modo l’influenza delle forze alleate si diresse sul ruolo archetipico del Tenn1o, l’autorità apertamente paternalistica riconosciuta dal popolo tutto. Un archetipo attaccato Il primo gennaio 1946 l’imperatore Hirohito rinunciò, attraverso un famoso messaggio radiofonico, alla discendenza dalla “ininterrotta linea divina”. Molti commentatori hanno sottolineato, in relazione a tale annuncio, come le infinite sfumature della sensibilissima lingua giapponese non consentano di affermare in modo incontrovertibile l’effettiva rinuncia da parte di Hirohito. Sottigliezze linguistiche a parte la rinuncia alle prerogative divine non fu in ogni caso, e questo è ovvio, maturata in modo autonomo ma pressoché imposta dai vincitori. Gli Alleati, però, consapevoli del ruolo che ancora ricopriva agli occhi del popolo giapponese, non detronizzarono l’imperatore. “L’occupazione del Giappone ebbe un carattere diverso rispetto al modo in cui operarono gli Alleati nei confronti di Italia e Germania, in quanto lo Scap [Comando supremo delle potenze alleate, nda], nell’applicare il programma di intervento, operò per mezzo di direttive impartite al governo giapponese, responsabile della loro applicazione” (Caroli-Gatti 2004: 218). Da subito fu chiaro che per mantenere l’ordine e facilitare le operazioni di pacificazione e riordino del paese in chiave democratica era conveniente mantenere una qualche continuità, almeno formale, nelle strutture governative giapponesi per veicolare ordini e direttive dei vincitori. Nel comunicato della Marina Militare al Comandante in Capo Generale MacArthur si diceva: “Il Comandnte in Capo eserciterà la propria autorità attraverso i canali dell’apparato governativo dello Stato giapponese, compreso lo stesso Imperatore, purché ciò contribuisca in modo soddisfacente alla realizzazione degli obiettivi previsti dagli Stati Uniti. Al governo giapponese

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sarà concesso di esercitare, sotto le sue direttive, le normali funzioni di governo relative alla gestione degli affari interni del Paese” (Benedict 1946: 330). Di difficile risoluzione fu la stesura della nuova costituzione. Quella proposta da un gruppo di costituzionalisti giapponesi fu cassata dallo Scap che la riscrisse radicalmente ispirandosi ai principi della democrazia parlamentare e la promulgò il 3 novembre 1946. La vera posta in gioco era, in realtà, il ruolo dell’imperatore. Il 3 novembre 1946 l’imperatore “divenne il «simbolo dello Stato e dell’unità del popolo giapponese» e perse le prerogative della Costituzione Meiji” (Caroli-Gatti 2004: 221-222). Il passaggio fu tutt’altro che morbido e privo di effetti visto che dalla Costituzione Meiji del 1889 donata al popolo dall’Imperatore si passò ad una situazione in cui lo stesso ottemperava alle proprie funzioni con l’approvazione del governo espresso dalle due Camere del Parlamento entrambe elettive. Ritengo questa inversione di ruoli – un “basso” che approva un “alto” –, giunta peraltro dopo alcuni decenni in cui la potente macchina della propaganda imperiale aveva profondamente radicato nei giapponesi tanto la venerazione del Tenno1 quanto una confuciana accettazione e adesione ad un rapporto gerarchico assai rigido – sebbene mitigato dai principi della pietà filiale su cui era innestato –, un duro colpo portato all’archetipo paterno che da secoli presiedeva all’ordine dell’arcipelago: “un archetipo è ciò che aduna in un insieme una pluralità di oggetti, coordinandoli a certi sentimenti e pensieri” (Zolla 1988: 76). L’imperatore, padre di tutti i giapponesi, coincideva da lungo tempo con questo archetipo. Tale archetipo si riferiva direttamente anche alla famiglia giapponese intesa nel suo senso allargato di ‘casa’, anch’essa sottoposta a riforma: “la politica del governo americano era di riformare il più possibile le strutture del vecchio Giappone e di rimodellarlo sugli Stati Uniti. Uno degli aspetti di ristrutturazione fu il sistema tradizionale della “casa” che, con il nuovo codice civile, venne radicalmente cambiato. La nuova legge, per esempio, proibì che i beni della “casa” restassero in eredità al figlio più vecchio come in passato, e ne garantì invece la divisione in parti uguali tra fratelli e sorelle. Per di più la scomparsa dei latifondisti dopo la riforma dell’agricoltura, aprì la strada alla divisione della “casa” in piccole unità familiari. Inoltre, chiunque avesse superato i vent’anni era libero di sposarsi con chi voleva. Ma i giapponesi non erano psicologicamente pronti a affrontare immediatamente il nuovo sistema” (Okonogi 1986: 102-103). Il sistema ie (casa) sul quale la politica di occupazione statunitense si accanì aveva, e per molti aspetti ha, solide radici allignate al culto degli antenati, ai principi confuciani correlati all’etica samuraica e al patriarcato. Il patriarcato, in un certo senso, può essere preso ad emblema del sistema ie. “In primo luogo, in ottemperanza a questa legge [riferimento alla sezione del Codice Civile promulgato nel 1898 dedicata al diritto familiare, nda], al capofamiglia veniva conferito un potere legale sugli altri membri della famiglia. Egli poteva decidere su matrimoni, divorzi e adozioni, e garantire il diritto di residenza ai suoi familiari. Poteva anche escludere dal registro

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di famiglia quei membri che avessero disobbedito ai suoi ordini. I poteri del capofamiglia erano insomma prescritti in dettaglio dalla legge. [...] Dopo la seconda guerra mondiale, quando il vecchio Codice Civile fu revisionato, il sistema ie venne abolito, e di conseguenza il potere del capofamiglia perse il proprio fondamento legale. L’odierno Codice Civile prescrive uguali diritti per il marito e per la moglie, mentre sia il matrimonio sia il divorzio richiedono soltanto il consenso dei partner e l’eredità viene divisa in parti uguali” (Davies – Ikeno 2007: 122). Pur nei rilevanti cambiamenti intervenuti il sistema ie non può certo dirsi scomparso nel Giappone odierno. Le famiglie di n1o, ad esempio, furono da subito del tutto refrattarie alle nuove norme. La successione tra iemoto ha continuato – e continua – ad avvenire per discendenza patrilineare diretta e anche in materia di adozioni e matrimoni, come si è visto nel caso del fratello minore del maestro Umewaka Manzabur1o, non si sono registrati fino ad oggi scarti sensibili. Per quanto forte, comunque, un archetipo cui vengano recise o ampiamente limitate le radici non può che veder ridotta la propria forza irradiante e modellizzante. Il ridimensionamento del potenziale d’azione dell’Imperatore e dell’archetipo da lui incarnato ha favorito – in concomitanza con altri numerosissimi fattori culturali, sociali ed economici – l’insorgere anche in Giappone di quella che è stata definita la società senza padri: “la sfumatura un po’ obsoleta che ha acquisito oggi il termine oyaji (vecchio), nonostante la connotazione affettuosa, riflette probabilmente ciò che è avvenuto in quel periodo. Fino alla fine dell’ultima guerra, il padre era ancora una figura rispettata, ma in seguito il suo ‘status’ è rapidamente declinato: la sconfitta ha inferto il colpo di grazia all’etica antica e lo spirito di lealtà e pietà filiale, che fino ad allora aveva costituito l’essenza dello spirito nazionale, ha cominciato a subire attacchi da ogni parte. Contemporaneamente anche l’Occidente, considerato ‘progredito’, è precipitato nel caos postbellico e il mondo intero si è avviato, con tendenza ideologica sempre più decisa, verso il rifiuto dell’autorità paterna” (Doi 1971: 155156). In tal senso, pur non rimanendone del tutto escluso, il n1o ha trovato il modo di garantirsi una propria incolumità. Le scuole hanno saputo mantenere l’assetto tradizionale sia dal punto di vista strutturale – sistema gerarchico basato sul rapporto senpai-k1ohai – che pedagogico. Il metodo pedagogico non ha variato il proprio corpus e nemmeno il modo attraverso il quale i maestri lo impongono agli allievi. I sensei, in sostanza, sono riusciti a non scendere a patti con la sempre più diffusa richiesta di una “democratizzazione” – equiparazione, negazione delle differenze gerarchiche dei ruoli – dei rapporti interpersonali e dell’insegnamento. La tenacia con cui nel n1o i maestri hanno saputo non rinunciare e abiurare al proprio ruolo archetipico e pratico è stato in ultima analisi uno degli elementi di stabilità e tenuta dell’intero sistema.

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Implicazioni circa l’indebolimento dell’archetipo paterno Per meglio comprendere la portata delle scelte operate da questi uomini e per osservare alcuni ambiti in cui l’indebolimento dell’archetipo paterno ha provocato sconquassi non irrisori, può essere interessante verificare il decorso del ruolo della paternità nel processo educativo dei figli a partire dall’epoca Meiji e, successivamente, attraversare il sistema scolastico giapponese a partire dal secondo dopo guerra evidenziando le problematiche emerse in seguito all’abbandono dei modelli tradizionali invece mantenuti nel n1o. La progressiva presa di coscienza della mutazione del ruolo sociale del padre, della perdita della sua centralità in seno alla famiglia, ha originato negli anni ’70 del secolo scorso, e più ampiamente negli anni ’80, una vera e propria corrente di studi dedicati alla paternità. Il tema principale delle indagini ha riguardato la comparazione tra la realtà odierna e il passato con particolare riguardo alle epoche Tokugawa e Meiji: “tra gli studi esplicitamente riguardanti la paternità nel passato giapponese, sta emergendo un consenso circa lo sviluppo storico del ruolo del padre. Più o meno fino a metà del periodo Meiji, sostengono gli studiosi, i padri giapponesi parteciparono maggiormente nella cura e all’educazione dei figli di quanto facessero agli inizi del XX secolo quando gli idoli e la pratica “moderna” della paternità soppiantarono quelli premoderni. Gli studi giapponesi sulla paternità, infatti, definiscono la modernità il periodo in cui i padri smisero di prendersi cura dei figli” (Fuess 1997: 383). La crescita esponenziale dell’industria e degli impegni bellici (1894 guerra con la Cina, 1904 guerra con la Russia, 1914 occupazione dei territori cinesi e isole del Pacifico, 1931 invasione della Manciuria, 1940 Patto Tripartito) comportarono una vera e propria assenza fisica degli uomini e dei padri dalle famiglie. Nel periodo Tokugawa, e come visto abbastanza diffusamente lungo tutto l’arco temporale dello shogunato, i bushi erano impegnati in prima persona nell’educazione dei figli e il loro esempio si può dire fosse diffusamente seguito dai giapponesi tutti. Per la netta separazione dei sessi allora vigente i padri si occupavano in particolar modo dei figli maschi e le madri delle figlie femmine. Nel primo periodo Meiji tale separazione non viene più riscontrata a favore di una indifferenziazione da parte di padre e madre, nell’educazione di figli e figlie. Questo equilibrio, o almeno la presenza combinata di madre e padre nell’educazione dei figli, cominciò a vacillare già nei primi anni del XX secolo con l’affiorare della percezione secondo la quale unicamente la madre avrebbe un ruolo “naturale” di responsabilità nell’educazione dei figli, punto di vista affermatosi congiuntamente alla diffusione della cosiddetta “nuova classe media”. Responsabilità e autorità operano congiuntamente e in breve l’autorità familiare riconosciuta fu la madre relegando il padre, spesso fisicamente assente, al ruolo di procacciatore di stipendio (Fuess 1997: 390-393). Il dato fondamentale da rilevare non è tanto l’inversione dei ruoli tra padre e madre quanto la scomparsa della coppia come primo agente educativo. Se il valore e la

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funzione dell’archetipo sono accettati è da notare come non sia rintracciabile in Giappone un archetipo d’autorità gerarchica femminile analogo a quello maschile/paterno, un archetipo cui corrisponda una figura femminile che gestisca in maniera diretta e non mediata il proprio potere. Più corretto, però, è parlare di ambiti di gestione del potere. La donna, in Giappone, ha sempre avuto modo vivere e applicare il potere relativo al proprio ruolo ma nello stretto ambito familiare, domestico, senza mai che questo prendesse un reale volto sociale, esterno: “persino nell’epoca rigorosamente patriarcale del Giappone feudale le donne erano autentiche dittatrici domestiche, perlomeno dopo aver raggiunto una certa età. La morale confuciana circoscriveva il loro campo d’azione, ma non le spogliò mai di ogni diritto” (Maraini 1971: 218). A livello della coscienza e della prassi collettiva, quindi, viene a mancare un modello di riferimento a sostegno del nuovo ruolo materno: gli spazi di potere man mano acquisiti dalle donne nel sociale, spazi abbandonati o lasciati vacanti dall’assenza degli uomini, non sono mai stati del tutto accettati. Nonostante sempre più spesso le donne giungano, anche in seno alla società e in ambito professionale, ad occupare ruoli gerarchicamente rilevanti – del 1986 è la legge sulle pari opportunità tra i sessi – la percezione oggi più diffusa del femminile si fonda ancora su equilibri tradizionali. Secondo questa visione la donna dovrebbe essere educata per divenire ryo1 saikenbo, ossia una buona moglie e una madre saggia. Rojer Davies e Osamu Ikeno (Davies – Ikeno 2007: 63-74) offrono una interessante carrellata della terminologia giapponese sulla relazione tra uomo e donna atta a chiarire il background richiamato. “Per esprimere il termine ‘marito’ in giapponese, molte donne sposate usano la parola shujin, che consiste di due kanji che significano ‘persona principale’ [può indicare inoltre signore, padrone e datore di lavoro, come approfondisce in nota il traduttore, nda]. Invece, la parola kanai, che significa alla lettera ‘dentro la casa’ viene usata dagli uomini per indicare la propria moglie” (Davies – Ikeno 2007: 68). Le tensioni sotterranee provocate da tale situazione – ossia dal contrasto tra ciò che da una simile terminologia traspare e la mutata realtà sociale – hanno fatto riemergere, negli ultimi anni, un richiamo alla paternità consapevole e alla riconquista del ruolo maschile nel processo educativo. I recenti studi giapponesi sulla paternità “nascono dall’insoddisfazione verso il ruolo paterno nelle odierne famiglie e muovono proprio da tali premesse. In particolar modo spingono per incrementare la relazione tra padri e figli per amore verso i figli e, in particolare, perché i padri siano per loro il modello maschile cui ispirarsi” (Fuess 1997: 396); un reintegro del padre quale “oggetto di rispetto nella sua qualità di simbolo spersonalizzato dell’ordine gerarchico e del corretto modo di condurre la vita” (Benedict 1946: 333). Il problema principale risiede non tanto in un disequilibrio verso il ruolo materno, quanto nel suo verificarsi a causa della fuga dalle proprie responsabilita messa in atto dai padri. Doi Takeo, argomentando sullo scontro generazionale nella società industrializzata giapponese osserva: “[…] il conflitto attuale tra le generazioni, benché apparentemente motivato da problemi di valore, in realtà ne prescinde. Ma al-

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lora, perché la generazione più giovane contesta quella più anziana? Per certi versi, l’attacco potrebbe essere considerato un tentativo per indurre gli anziani a manifestare i loro veri sentimenti. Insomma, i giovani sperano di acquisire un complesso di valori capaci di orientare la vita e rimproverano ai vecchi di non essere riusciti a prospettarli loro. Si potrebbe senza dubbio definirlo una sorta di amae, ma è improbabile che il parlarne sia sufficiente a risolvere il gap generazionale. Vi è ragione di credere, insomma, che il problema del conflitto generazionale derivi, oggi, dalla perdita di fiducia in se stessa della generazione precedente. Nella famiglia, ciò si manifesta con il declino della figura paterna, ormai quasi inesistente. Uno dei problemi dell’infanzia che polarizzò l’attenzione di tutti i giapponesi dopo la fine della guerra, fu il fenomeno definito “fobia della scuola”, ossia il rifiuto dei bambini di andare a scuola, e dalle indagini condotte presso le famiglie risultò che il padre era una figura debole. Questa osservazione non si limita, tuttavia, ai casi sopra citati, ma è caratteristica comune della società moderna nel suo complesso” (Doi 1971: 154-155). Inutile ribadire, dopo quanto fin’ora detto, che i valori e i principi – primo fra tutti quello identitario – incarnati dai maestri n1o e accolti dai loro allievi rappresentano una realtà non accomunabile a quella descritta da Doi. Corrobora la tesi sin qui sostenuta, però, la connesione da lui rilevata tra un forte carattere paterno – un maestro autorevole – e una favorevole disposizione ad apprendere nei figli: la sicurezza e la severità del padre-maestro – colui che idealmente infligge la ferita dell’iniziazione – sostiene il figlio-allievo nell’essere aperto verso l’apprendimento e, quindi, verso la crescita. La richiesta di una tale presenza risulta poi, magari in modo non completamente consapevole, provenire dagli stessi figli-allievi. Analoga lettura per Doi deve essere applicata ai disordini che infiammarono i giovani alla fine degli anni ’60 anche in Giappone. La rivendicazione profonda era la richiesta di un padre – archetipico ma anche fisico – che reintroducesse la ferita iniziatica, che indicasse il cammino e incarnasse le regole del mondo adulto: “il problema è, in sostanza, di verificare se il padre, o il principio paterno, è superfluo o meno. Potrebbe davvero sparire senza conseguenze dalla faccia della terra? Io non lo credo. Anche Federn, nell’opera appena citata [Federn 1919, nda], dimostra di pensare che, nonostante il netto declino subito dal tema padre-figlio ai nostri giorni, esso sia così profondamente radicato nella natura umana da rendere probabilmente impossibile l’avvento di una società completamente “senza padre”. Ciò è stato in certa misura confermato dalla contestazione giovanile di cui siamo stati recenti testimoni in quanto la si può interpretare come una manifestazione di indignazione verso la debolezza paterna e come un appello in favore di un padre più forte” (Doi 1971: 157-158). L’avvento di una “società bambina” origina almeno un doppio livello problematico. Da un lato tutto viene a livellarsi in rapporti personali alla pari in cui non esiste più un sopra e un sotto (senpai-k1ohai), dall’altro, e di conseguenza, si attenuano fortemente i presupposti per una trasmissione profonda di valori: il dislivello gerarchico favorisce il travaso esperienziale tra chi detiene la conoscenza e chi ambisce ad esserne messo a parte.

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Un caso emblematico di “società bambina” in ambito nipponico è, secondo la definizione datane dal più rinomato psicanalista giapponese, Okonogi Keigo, quello del “popolo della moratoria”, ossia delle persone che non sentono un particolare senso di appartenenza ad alcun valore o gruppo e che rifiutano, in vari modi, l’ingresso nella società adulta: “«moratoria» è un’autorizzazione legale a pagare i debiti in ritardo. Si tratta di un provvedimento che il governo prende nei momenti di emergenza come guerre, sommosse o disastri naturali, per evitare che il disordine finanziario faccia crollare il sistema creditizio. Prendendo in prestito questo concetto lo psicanalista Erik Erikson, noto in Giappone per la sua teoria dell’identità, definisce “moratoria psicosociale” il periodo della giovinezza. Intende dire che la società, ai giovani in fase di formazione e di studio, concede un periodo di grazia: consente cioè di rimandare l’assolvimento dei doveri e dei debiti. La società concede ai giovani una moratoria: un periodo di formazione e apprendistato, durante il quale possano ereditare le conoscenze e le tecniche dei predecessori. In questa fase i giovani dipendono economicamente, psicologicamente e in tutto il resto, dai genitori e da istituzioni sociali. […] Come ad apprendisti da cui si attendono risultati futuri, ai giovani in moratoria si garantisce la protezione dalla realtà esterna, perché non si perdano per strada mentre sono ancora impreparati. […] Praticamente il concetto di moratoria psicosociale è complementare a quello di “definizione di sé”, “scelta di sé” o “identità”, ed acquista veramente significato solo in presenza di una società adulta stabilmente radicata nell’ordine sociale tradizionale” (Okonogi 1986: 9-10). La moratoria, nella società tradizionale, era un periodo di formazione fondamentale che aveva però una fine chiara e precisa nell’assunzione di un ruolo sociale stabile, e un fine altrettanto chiaro nell’adeguamento ai valori preesistenti per divenirne eredi. Nella società contemporanea, osserva Okonogi, la fine del periodo di moratoria è stata procrastinata, se non annullata, e il fine completamente capovolto: “dato che oggi la caratteristica tipica non è più quella di ereditare le «cose vecchie» dalla generazione precedente, ma di scoprire e inventare «cose nuove», la vecchia generazione ha relativamente perso la propria autorità, mentre la sensazione di immaturità che avevano i giovani (il loro senso di inferiorità) si è trasformato in senso di onnipotenza” (Okonogi 1968: 14). Okonogi fonda la sua osservazione sulla prassi propria alla moderna società di consumi di individuare nei giovani una importante fetta di mercato. Tale target ha sensibilmente contribuito ad orientare maggiormente l’interesse verso la novità piuttosto che verso la tradizione e a riconoscere ai giovani un ruolo centrale nella società prima mai ricoperto. La realtà vissuta dal “popolo della moratoria” è ambivalente e sostanzialmente contraddittoria. L’onnipotenza e la centralità egotica avvertita è una sorta di illusione dal momento che la dipendenza dalla società verso cui muove la propria critica è quella che conferisce e presuppone lo stato stesso di moratoria. Al pari di Doi, Okonogi individua, dietro alla libertà e all’autonomia di facciata vissute dai giovani, il disagio di una società che definisce artificiale: “nella psicologia del popolo moratorio si nasconde un profondo impulso a spezzare proprio quella struttura moratoria

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che lo protegge. Questo perché la moratoria insita nel sistema induce la sensazione di essere in prigione. Infatti, fa prendere tutto come un gioco, dà meno valore alla vita propria e altrui, confonde l’identità personale. Inoltre non consente prospettive e programmi” (Okonogi 1986: 34). Nel n1o la libertà e l’autonomia rappresentano, come visto, traguardi raggiungibili attraverso un percorso restrittivo, ribaltando il senso dell’immagine proposta da Okonogi, attraverso la prigionia della tecnica. L’educazione imposta dai maestri per mezzo della tecnica porta naturalmente in sé il senso del percorso. L’allievo aggiunge progressivamente al proprio bagaglio personale le piccole acquisizioni quotidiane fino ad uno scatto di livello. L’autovalutazione è da sempre considerata fondamentale dagli attori n1o poiché sapere dove ci si trovi – rispetto al cammino artistico intrapreso – consente di tracciare con maggior precisione la direzione verso il proprio obiettivo. Il maestro controlla il percorso, corregge il tiro e attesta – solo lui può farlo – il superamento di un limite. Perché questa progressione dinamica non si arresti, o non scoraggi l’allievo nel suo incedere, i traguardi da perseguire devono essere credibili e non illusori. Il maestro ha anche l’obbligo, quindi, di richiamare l’allievo alla realtà guidando la sua attenzione non all’obiettivo ultimo – troppo lontano e imprendibile in un sol colpo – ma ad ogni tappa necessaria per raggiungerlo. La sovversione del principio autoritario, o una sua riformulazione mitigata, viene riconosciuta da Okonogi nell’emergere di un rapporto patologico tra genitori e figli scardinante gli equilibri familiari tradizionali, in particolare l’assenza paterna nel processo educativo e la perdita del ruolo materno quale custode e latore verso i figli dei valori patriarcali della famiglia. L’assenza dei padri dalla casa ha inoltre consentito il mutare dell’asse familiare da marito-moglie a genitori-figli, più spesso madre-figli: protagonista della relazione non è più la coppia ma la prole, nuovo fulcro attorno a cui tutto ruota. Anche qui si osserva un’inversione rispetto il tributo d’obbedienza e riconoscenza incondizionata del figlio ai genitori che la morale confuciana aveva contribuito a fissare. Ovviamente nessun pregiudizio verso il cambiamento ma è indubbio che l’imposizione, o l’assunzione, di modelli culturali esterni – frequentemente introdotti senza un sufficiente periodo di integrazione – attivi alcune problematiche, anzi, veri e propri problemi sociali. La reale portata del mutamento intercorso dal secondo dopoguerra al frangente storico indagato da Okonogi e Doi è misurabile considerando lo stato delle dinamiche familiari giapponesi osservate a metà degli anni quaranta del Novecento da Ruth Benedict. L’opera della Benedict, Il crisantemo e la spada, merita una breve digressione perché esemplifica, per contrasto, i presupposti metodologici posti alla base dell’intero studio. Uscito nel 1946, poco dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki e la fine delle ostilità belliche, l’opera è l’esito finale di una ricerca sui modelli culturali giapponesi condotta su incarico del Servizio Informazioni Militari statunitense.

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Il crisantemo e la spada ebbe un enorme successo e, soprattutto, una enorme diffusione e influenza tra le truppe e gli alti comandi dello Scap divenendo un prezioso manuale-breviario sulla cui scorta costruire fruttuose relazioni con gli “indigeni” e operare al meglio per garantire un dominio duraturo ai vincitori. La Benedict deve giustamente annoverarsi tra i grandi antropologi della prima metà del secolo scorso e il suo studio sui modelli culturali nipponici ne riflette indubbiamente la levatura. Non di meno, nell’utilizzarlo oggi, va considerato il momento della sua stesura, un tempo in cui l’antropologia ancora non aveva affrontato, parafrasando Lévi-Strauss, il suo rimorso. L’antropologia si era venuta formando attorno ad alcune premesso metodologiche e ideologiche che ne avevano sancito, e quel che più conta blindato, l’autorità. Antropologia, insomma, come sistema rappresentativo chiuso autoalimentantesi e autogiustificantesi: “Il problema che qui intendo affrontare non sta tanto nel rapporto tra l’Oriente reale e la rappresentazione che di esso ha l’Occidente, quanto nell’intrinseca coerenza dell’orientalismo nonostante, e prescindendo da ogni corrispondenza o mancanza di corrispondenza con l’Oriente “reale” […] la struttura dell’orientalismo non è affatto una mera struttura di miti e bugie, che si dissolverebbe come nebbia spazzata dal vento appena la verità le venisse contrapposta. Personalmente ritengo che l’orientalismo sia più veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano che come discorso obiettivo sull’Oriente […] nondimeno, ciò che dobbiamo rispettare e cercare di capire è la forte coerenza del discorso orientalista, il suo stretto legame con vicende e istituzioni politiche e socioeconomiche, la sua eccezionale durata. Dopotutto un sistema di idee sostanzialmente stabile che può essere insegnato […] per un periodo che da Ernest Renan, verso la metà del secolo scorso, arriva fino ad oggi, dev’essere ben più solido di una mera collezione di mistificazioni” (Said 1978: 15-16). Chiaro esempio di antropologia classica Il crisantemo e la spada è una miniera di informazioni e descrizioni utilissime sebbene collocate in una teleologia così coerente e certa da risultare profondamente normalizzante ed ideologicamente etnocentrico: l’esito, insomma, è figlio di un tempo in cui “la crisi di coscienza dell’antropologia rispetto il suo status liberale all’interno dell’ordine imperiale” (Clifford 1988: 36) non si era ancora prodotta. La famiglia giapponese osservata da Ruth Benedict, comunque, è un insieme coeso ed equilibrato in cui i componenti – padre, madre, figlio/figli – concorrono nella specificità dei singolo ruoli ad un’armonia unificante, collaborativa e gerarchicamente acquiescente. Nel capitolo dedicato dall’antropologa americana all’educazione del bambino l’accento è inizialmente posto sul desiderio emotivo e sulla necessità sociale, per ogni coppia giapponese, di avere un figlio. Bisogno e necessità di dare e ricevere amore, quindi, ma anche di garantire continuità alla famiglia e ai suoi culti domestici. “Ogni uomo in Giappone deve avere un figlio: ne ha bisogno, dopo la sua morte, per il giornaliero atto di devozione alla sua memoria da compiere davanti all’altare della

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stanza di soggiorno, di fronte alle lapidi in miniatura; ne ha bisogno per perpetuare la propria discendenza e per tutelare l’onore e i beni della famiglia. I motivi imposti dalla tradizione sociale fanno sì che un padre abbia bisogno di un figlio quasi quanto un giovane abbia bisogno di un padre. Sarà il figlio infatti che, in seguito, prenderà il posto del padre e questa sostituzione non è sentita come un fatto lesivo della dignità del padre, ma anzi, è qualcosa che gli dà sicurezza. Il padre per alcuni anni è il responsabile dell’andamento della casa; in seguito lo sarà suo figlio e se un padre non avesse un figlio cui trasmettere queste funzioni, anche il fatto di averle prima esercitate lui stesso perderebbe ogni significato” (Benedict 1946: 281-282). La frattura descritta da Okonigi e Doi non è ancora all’orizzonte e padre e figlio sono necessari l’uno all’altro per l’acquisizione di una chiara e positiva collocazione sociale. Lo stesso vale per la madre la quale, attraverso la prolificità manifestata dal parto, ha l’occasione di veder riconosciuto se non migliorato il proprio status. Tralascio per brevità di ragguagliare la lunga disamina dei mezzi attraverso cui il bambino giapponese viene condotto all’età adulta, le tappe educative, preferendo concentrare lo sguardo sulle relazioni familiari osservate dalla Benedict. “La divisione dei compiti, sia dal punto di vista fisico che da quello emotivo, è così completa fra il padre e la madre che essi raramente possono apparire al bambino in ruoli antagonistici. La mamma o la nonna si occupano della casa e dell’educazione del bambino; entrambe servono il padre stando in ginocchio e gli riservano in ogni occasione il posto d’onore; l’ordine delle precedenze nella gerarchia familiare è definito con minuziosa precisione. Anche il bambino ha imparato a riconoscere le prerogative riservate alla generazione più anziana, i diritti dell’uomo in raporto alla donna e quelli del fratello maggiore rispetto al fratello minore. […] La madre, e questo vale sia per i maschietti che per le femminucce, rimane sempre una costante e inesauribile fonte di piaceri e di gratificazioni; al maschietto però, fin verso l’età di tre anni, è concesso perfino di soddisfare contro di lei le sue furiose collere infantili […] la mamma è una donna, mentre il piccolo, anche se ha solo tre anni, è senz’altro un uomo e può quindi perfino prendersi il gusto di essere violento verso di lei. Con il padre invece il bambino deve sempre mostrarsi rispettoso. Il padre rappresenta per lui l’esempio più importante dell’autorità gerarchica e, secondo un’espressione costantemente usata in Giappone, egli deve imparare a dimostrargli il dovuto rispetto «per abituarsi». Il padre però non assolve quelle funzioni disciplinari nei confronti del bambino che sono comunemente sua prerogativa in quasi tutte le nazioni occidentali; queste sono funzioni che spettano alla moglie. Di solito basta uno sguardo silenzioso o qualche sua breve parola perché i bambini comprendano i suoi desideri, e questi ammonimenti, essendo piuttosto rari, hanno l’autorità sufficiente per spingere i bambini ad eseguirli prontamente” (Benedict 1946: 290-291). Lo iato e la contrapposizione percepibili nel breve lasso di tempo che separa e unisce la metà del Novecento della Benedict e gli anni analizzati da Okonogi e Doi sono palesi e significativi.

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Un ulteriore ambito, peraltro assai calzante per avviare alla conclusione un discorso sostanzialmente incentrato sull’insegnamento, in cui è possibile osservare l’influenza e le conseguenze dell’impatto tra strutture tradizionali nipponiche e direttive forzosamente introdotte dall’esterno è quello del sistema scolastico dal dopoguerra ad oggi. Il settore scolastico fu così pesantemente oggetto di attenzioni da parte dello Scap che nel 1952, conclusa ufficialmente l’occupazione, il governo giapponese operò immediatamente perché nelle scuole “un’eccessiva americanizzazione non soffocasse la cultura e la tradizione del paese” (De Palma 2003: 15). Il sistema educativo: insegnanti e maestri, alunni e allievi Il sistema scolastico giapponese è decisamente competitivo. Esistono vere e proprie classifiche minuziosamente stilate circa le scuole che forniscono la migliore preparazione e per poter accedere ad una scuola di alto livello – garanzia, oggi un po’ meno di un tempo, di accesso ad impieghi remunerativi e socialmente considerati – provenire da una scuola parimenti valutata è prerequisito pressoché essenziale. La medesima necessità si palesa a ritroso fino agli asili, sempre più scelti dai genitori per anticipare l’inizio della formazione dei figli e poter così mirare ad un percorso scolare di alto profilo. La necessità di frequentare una buona scuola per poter ambire ad un buon lavoro ha originato miriadi di corsi di recupero e preparazione agli esami che pongono fin dalle classi elementari il bambino in uno stato di studio permanente a discapito della socialità con i coetanei. “Le fasi della socializzazione moderna, centrate intorno alle istituzioni scolastiche, hanno sostituito i ritmi di crescita sociale, scanditi dai riti tradizionali, per segnare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, che avevano criteri diversi di valutazione per quelle fasi cruciali nella vita degli individui” (Marazzi 1990: 124). La situazione descritta esemplifica il secondo modo in cui la moratoria tradizionale si è venuta estremizzando, ossia l’immissione in un circuito produttivo – perché di questo si tratta – di bambini dall’infanzia negata: “Y1or1o Takeshi sostiene che, se i ragazzi contemporanei sono differenti, questo dipende dal sistema di vita che è fondamentalmente mutato dopo la seconda guerra mondiale, e parla della scomparsa, dovuta all’industrializzazione, di luoghi dove i bambini possano giocare, ma soprattutto lamenta l’incapacità dei bambini, che sono esseri “naturali” e agiscono in modo spontaneo e “naturale”, di adattarsi ad una società che non ha neppure la pazienza di aspettare che i bambini maturino, e pretende che essi agiscano da adulti il più presto possibile” (De Palma 2003: 73). Una pedagogia siffatta, osserva Sawada (De Palma 2003: 59), cancella l’attitudine a far sedimentare l’apprendimento e soprattutto rende impazienti gli alunni/allievi svalutando l’impegno necessario a raggiungere un risultato: tutto e subito anche se superficialmente. Nel n1o la via dei maestri si situa agli antipodi. La proposta zeamiana di una penetrazione progressiva nell’arte attraverso un percorso pedagogico attento alle tappe

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di crescita, non solo fisica, dell’allievo è già stata introdotta citando il primo libro del F1ushi-kaden. Alcuni stralci dell’opera che ha segnato l’avvio della scrittura dei trattati risulterà alquanto significativa: “Sette anni. Nella nostra arte si inizia, di regola, col settimo anno di età. Durante gli esercizi di n1o di questa età si manifesterà necessariamente, in quello che l’allievo produce spontaneamente, la maniera per la quale è dotato. Sia nella danza o nello hataraki, sia nel canto o anche nel movimento impetuoso, si darà libero sfogo alla tonalità che la sua recitazione sprigionerà spontaneamente e lo si lascerà interpretare a modo suo. Non conviene poi molto insegnare dicendo: «Questo è buono! Questo è cattivo!». Se gli si facessero delle osservazioni troppo insistenti, siccome il bambino perdendo coraggio, si discosterebbe dal n1o, le sue facoltà da quel momento rimarrebbero stazionarie. [...] A partire da dodici o tredici anni. A partire da questa età, a poco a poco la voce tende a fissarsi nel suo tono normale; poiché è anche l’età della comprensione del n1o, gli si insegnerà dunque progressivamente il repertorio. [...] Di regola, a un bambino che reciti un sarugaku non si lasceranno interpretare mimiche troppo minuziose. [Tale spettacolo] è fuori posto sulla scena e crea condizioni tali per cui le sue facoltà non progrediscono più. [...] A partire dai diciassette o diciotto anni. Poiché questa età è estremamente importante, gli esercizi saranno poco numerosi” (Zeami 1960: 75-78). È solo dai ventiquattro o venticinque anni, ossia quindici anni dopo l’inizio della formazione, che le reali facoltà dell’allievo cominciano a determinarsi per giungere al massimo grado delle loro potenzialità attorno ai trentaquattro o trentacinque. Le tappe così precisamente definite e descritte da Zeami non sono oggi seguite alla lettera – come peraltro osservato trattando dei diversi percorsi odierni di accesso al professionismo – ma la lezione pedagogica che veicolano è nel professionismo n1o ancora diffusamente operativa. I giovani giapponesi, osservati nel più ampio contesto sociale, palesano un diffuso disagio manifestantesi, oltre che nei numerosi suicidi per fallimenti scolastici, in fenomeni di bullismo, introversione, violenza e crimini: “nel 1997 il numero dei crimini commessi da giovani di età compresa tra i 14 ed i 19 anni fu il più alto dal 1975. I ragazzi appartenenti a tale fascia di età erano allora soltanto il 9% della popolazione, tuttavia furono responsabili in quell’anno del 34% di crimini come l’omicidio e la rapina e del 45% di crimini violenti quali le aggressioni” (De Palma 2003: 37-38). Da anni il Giappone si interroga sulle riforme da apportare al sistema scolastico per ovviare ai disagi appena menzionati. Il primo terreno su cui si è operato è quello dell’integrazione all’educazione impartita dai genitori. Nel 1998 il Comitato Centrale per l’Educazione fornì alle famiglie una serie di indicazioni per sostenerle nel rafforzamento del loro ruolo. Tra queste la creazione di sempre più frequenti opportunità di vedere l’intero nucleo familiare riunito; la rivalutazione del ruolo paterno; lo sviluppo nei figli del senso di responsabilità e di una morale retta; l’attenuazione della competitività; l’incoraggiamento degli scambi relazionali con i coetanei; la rivalutazione degli eventi annuali della famiglia.

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Queste indicazioni dimostrano come l’attenzione si stia spostando da una revisione del sistema scolastico ad una revisione del sistema dei valori: “che ragazzi possono crescere in una società che ha come valore fondamentale la riuscita economica dell’individuo, che alimenta la competizione, il cinismo, l’indifferenza, nella quale stanno perdendo il ruolo di valori guida l’impegno, il sacrificio coraggioso, il rispetto degli altri, nella quale sembra che gli adulti, troppo impegnati nella corsa sfrenata verso il successo materiale, non abbiano quasi nessuna eredità da lasciare alle nuove generazioni, non più guide amorose e autorevoli, ma ‘vicini’ dei propri figli, figli abbandonati a se stessi e allevati a programmi televisivi, consumismo sfrenato, cellulari, denaro pronto?” (De Palma 2003: 75). Per chi ha avuto, come me, la fortuna di vivere dal di dentro la realtà di una famiglia-compagnia di teatro no1 , respirarne i tempi, esperirne la vita quotidiana e la pratica artistica, dialogare con maestri e allievi e sotto la loro guida muovere i primi passi sulla scena, la possibilità di accostare questo mondo a quello appena descritto appare pressoché impossibile. Il n1o, come più volte affermato, ha saputo mantenere ferma la barra del timone rispettando e onorando in primo luogo la propria identità e le radici da cui ha sempre tratto nutrimento. Non per questo ha vissuto come un organismo esterno al divenire storico sapendo aggiornarsi per non perdere il contatto con la società di cui, ribadisco, è sempre stato espressione e specchio. Quella giapponese, in termini geertziani, è una cultura forte, capace cioè di reggere più di altre alla perdita di caratteri connotativi peculiari a favore di altri introdotti da culture esterne con cui è entrata in contatto: “esiste probabilmente un limite al di là del quale l’identità culturale viene infine scardinata a seguito di una fusione con un’altra cultura, o attraverso il caos assoluto e la disintegrazione. Ciò può accadere nel caso di piccoli gruppi etnici primitivi, come gli aborigeni australiani, alcuni gruppi di indiani d’America e in qualche misura gli ainu. Ma una situazione del genere non riguarda nemmeno remotamente i giapponesi. La loro identità etnica e culturale è affermata con forza, quasi aggressivamente, in ogni possibile campo” (Maraini 1971: 198). I sommovimenti sociali successivi all’occupazione alleata, in particolare quelli giovanili, sono infatti da interpretare, come si è visto, quali richieste di ristabilimento dell’ordine tradizionale per quanto espresse nella forma tipicamente irrazionale della ribellione. Il mondo del n1o, grazie alla forza e alla tenacia dei suoi esponenti, ha funto da sacello – uno dei vari che il Giappone abbia conosciuto – della tradizione continuando a credere e ad operare secondo i dettami dei padri, anzi, perpetrando palesemente il discusso archetipo paterno nel quale la maestria si riflette. Il contrasto tra i ritmi della società e i tempi propri della via del n1o, la necessitàpossibilità di affermarsi velocemente nel mondo del lavoro e di cresere nell’arte in lenta progressione, la competizione per un successo personale e il contributo del singolo all’affermazione di una scuola sono solo alcune delle coppie di opposti con le quali il n1o ha dovuto fare i conti negli ultimi sessant’anni.

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In modo controllato e senza scossoni le scuole hanno aperto, per ovviare anche al verificarsi di un certo “calo delle vocazioni”, ad allievi provenienti dai club di n1o universitari, quindi già di una certa età, e alle donne. Queste ultime seguono un addestramento in tutto e per tutto identico a quello dei colleghi uomini, altro esempio di come la tecnica sia una realtà indiscutibile in se stessa e soprattutto propedeutica all’autentica espressione scenica del n1o. Gli iemoto, che soprassiedono e valutano la liceità di tali innovazioni, si sono dimostrati fino ad oggi veramente abili nel mantenere chiara la direzione e nel fare del n1o un teatro attivo e aggiornato alla contemporaneità: un’alchimia riuscita tra necessità di conservazione e istanze di cambiamento. I maestri, insomma, hanno saputo e sanno meritare la fiducia e il rispetto che viene loro tributato. In conclusione ritengo che solo un’identità chiara e un senso di appartenenza ad una realtà sovraindividuale unitamente ad una matura e consapevole assunzione di responsabilità possano conferire ad un uomo l’autorità di istruirne un altro, di essergli maestro: “insegnare seriamente è toccare ciò che vi è di più vitale in un essere umano. È cercare un accesso all’integrità più viva e intima di un bambino o di un adulto. Un maestro invade, dischiude, può anche distruggere per purificare e ricostruire. Un insegnamento scadente, una pedagogia di routine, uno stile di istruzione che è, consapevolmente o meno, cinico nei suoi obiettivi meramente utilitari, sono rovinosi. Distruggono la speranza alle radici. Un insegnamento di cattiva qualità è, quasi letteralmente, un assassinio e, metaforicamente un peccato” (Steiner 2003: 24). Una sola precisazione per rendere quest’ultima citazione più aderente al tutto. L’assassinio non si compie con la distruzione della speranza alle radici ma, ancor prima, con la distruzione delle radici stesse.

Conclusioni

La domanda di fondo da cui il presente studio ha preso le mosse, ossia come un sapere – nel mio caso attorico – transiti di generazione in generazione senza disperdersi ma anche senza irrigidirsi e stereotiparsi, può alla fine trovare una risposta nel rapporto maestro e allievo quale scaturigine di ciò che ho definito via dei maestri. Tale affermazione, sempre se contestualizzata nel bacino culturale nipponico, potrebbe ritenersi esauriente e completa quanto, se non più, di molte parole o pagine o volumi. Il rapporto maestro e allievo unitamente al concetto di via (do1 ), infatti, rappresenta in Giappone una realtà viva e presente, da secoli innervata al tessuto socioculturale dell’arcipelago che, nonostante porti con sé molteplici implicazioni, non necessita di spiegazioni o suggestioni per essere percepita nella sua reale dimensione e complessità essendo, in buona sostanza, data per scontata. Sbrecciare questa muta certezza fatta di sottintesi ampiamente diffusi, di premesse e conclusioni talmente ovvie da poter essere sottaciute ha rappresentato la sfida più difficile da affrontare. Al non detto dei documenti indagati si aggiungono, inoltre, il silenzio dei maestri e la categoria del “segreto” sotto cui ricadono molti degli insegnamenti e precetti delle discipline tradizionali. Nonostante le non facili premesse tramite l’applicazione costante del metodo antropologico, trasversale e comparativo per definizione, è stato possibile stendere griglie interpretative capaci di far dialogare frammenti di conoscenza o di sostenere e validare ipotesi di lettura. La natura e il ruolo dei testi scritti – in particolare dei trattati teatrali zeamiani e non – in seno alle discipline tradizionali si sono delineati in tutta la loro rilevanza. La definizione di “testi ibridi”, originata dal primo confronto tra le dimensioni del mito e della storia, mi è parsa la migliore a trasmettere l’intimo rapporto esistente tra le pagine scritte e la tradizione-memoria orale incarnata dai maestri, autori, per giunta, di quei testi stessi: i testi ibridi hanno la capacità di dialogare con l’insegnamento diretto prevedendolo e, al contempo, preparandolo e coadiuvandolo. Sebbene nella trasmissione dei saperi il ruolo del rapporto maestro e allievo sia risultato in un certo senso privilegiato, i trattati teatrali – ben più numerosi di quan-

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to inizialmente ipotizzato –, hanno giocato e giocano ancora una parte non secondaria nel medesimo processo. Trattati, maestri e allievi definiscono non solo un modello culturale ma anche un esempio di ciò che si è rivelato essere una costante giapponese nel mantenimento di un istituto, o una pratica, e che ho definito “doppio percorso”. Anche sulla scorta di tali premesse è stato possibile affrontare in modo più puntuale la questione del lascito zeamiano, un argomento di estremo interesse – a prescindere dall’affinità al tema di ricerca – spesso liquidato in modo sommario e mai sufficientemente problematizzato. L’occasione si è rivelata propizia per tentare una decodifica circa le possibili, o meno, intersezioni tra lignaggi artistici e familiari in rapporto ad un tema che ha trasversalmente abbracciato l’intera indagine: l’identità. Senza entrare nei numerosi addentellati emersi su questo argomento il dato più significativo può a mio avviso rinvenirsi nella corrispondenza biunivoca tra l’identità personale – del maestro, dell’allievo – e l’identità del genere teatrale oggetto d’indagine. Legame funzionale tra le due si è dimostrata essere la tecnica e più segnatamente il sistema di insegnamento tramite i kata. L’applicazione rigorosa ai modelli tecnici selezionati dalla tradizione sostiene la crescita psicofisica dell’individuo e simultaneamente concorre al mantenimento del processo pedagogico e delle modalità espressive della disciplina stessa: un circolo virtuoso del quale ho cercato di descrivere criticità e punti di forza. L’identità, tanto del singolo uomo impegnato nella via quanto l’identità della via stessa, è risultata sostanziarsi in riferimento a precise radici archetipiche. Gli archetipi identitari per eccellenza, maschile e femminile correlativi di paterno e materno, convergono, o dovrebbero convergere, nell’uno che li armonizza: il maestro, ma anche l’uomo che dietro il maestro si rivela e nell’allievo che verso quell’uno – riflesso dell’unica origine e fine da cui il creato emana e si riassorbe – tende. In termini più concreti, come visto, nel n1o i due principi si incarnano nella tecnica e nella libera espressione del sé autentico – che è elevazione sul piano umano ed etico – che dall’iniziale asservimento alla tecnica può originare. L’asservimento richiesto agli allievi nei confronti della tecnica, e ancor più l’obbedienza dovuta al suo detentore – il maestro – sono risultati funzionali a far progredire in parallelo le due componenti dell’autorità e del servizio: qui alligna una delle motivazioni principali per cui il percorso artistico del n1o può essere inteso in senso etico. Il processo pedagogico osservato mira a formare, più che attori valenti e completi, uomini dalla salda identità capaci di autorevolezza e al contempo di umiltà e servizio: solo un maestro autorevole può riuscire a guadagnare la fiducia e l’obbedienza di un allievo, come solo un maestro saldo nella propria identità e conscio del tributo dovuto alla via che lo ha reso ciò che è, saprà ripercorrere più volte l’intero percorso, senza smarrirsi, accompagnando chi è chiamato a spostare un po’ più in là, ad ogni generazione, il limite precedentemente raggiunto. “Una massima zen dice: «Se la tua comprensione è uguale a quella del tuo maestro, prendi soltanto la metà del valore

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del tuo maestro; quando la tua comprensione supera quella del tuo maestro, tu sei degno di succedergli». Far la medesima cosa del proprio maestro non può che condurre ad un declino della dottrina” (Sekida 1975: 132). L’orizzonte formativo così individuato è funzionale al mantenimento e alla perpetua trasmissione della tradizione: un maestro – inteso nei termini appena sopra individuati – è chiamato a garantire tale obiettivo facendo della maestria stessa il vero oggetto di trasmissione. La tenuta del “sistema teatro n1o ” nella società giapponese dei repentini mutamenti, quella della modernizzazione ed occidentalizzazione è emersa chiaramente. La permeabilità controllata – non la chiusura, ribadisco – a tali cambiamenti si è poggiata all’identità e all’autorevolezza che tutti i maestri e gli allievi hanno saputo confermare tanto da costituire, oggi, un punto di riferimento concreto per una società che sta riconsiderando il valore delle proprie radici nella ridefinizione del proprio presente e nella progettazione del proprio futuro. La dialettica tra istanze di rinnovamento e conservazione è stata la mappa in filigrana sulla quale pianificare i percorsi più adatti a scardinare l’idea di un n1o ancorato all’antico, involuto, irrimediabilmente chiuso al mutamento perché narcisisticamente rapito dalla propria definitiva perfezione. Il background shintoista, mai squadernato nel corso dello studio, non può, in conclusione, non emergere dal pulsante vitalismo che lo anima. Non interessa qui traguardare lo sviluppo storico dello shintoismo, individuare il momento in cui il termine shint1o (la Via dei kami, degli dei) è entrato nell’uso comune e quali significati si siano ad esso aggregati, sovrapposti o avvicendati dalla sua prima comparsa nelle pagine del Nihonshoki. Ciò che interessa è piuttosto il complesso di valori, la consonanza dell’uomo al cosmo e alla natura, di una fede che “è stata affermata ma non insegnata. [...] è stata trasmessa ‘da cuore a cuore’ durante la vita di ogni giorno” (Ono 1962: 101). Una riflessione sulla ciclica distruzione e ricostruzione del più importante santuario shintoista, il tempio di Ise dato al culto di Amaterasu, ribadirà come “i principi informatori delle azioni sociali devono essere fatti risalire ai suoi specifici meccanismi regolatori della vita individuale e dei rapporti collettivi, alle regole che presiedono ai rapporti con la natura e con le forze spirituali, alla posizione dell’uomo nella società e nell’universo cosmico” (Marazzi 1990: 229). I cinquemilacinquecento ettari del sacro bosco di Ise accolgono, oltre al santuario principale di Amaterasu, sessantacinque templi secondari. Tutte queste costruzioni vengono smontate e ricostruite, identiche nelle fattezze ma con materiali realizzati ex novo, ogni venti anni: nel 1993 è terminata la sessantunesima ricostruzione del tempio votato ad Amaterasu al cui interno è custodito lo specchio emblema del sodalizio tra la dea, la Casa regnante e gli uomini. La fede nel costante rinnovamento dell’uomo e della natura, la fiducia che questa produce nel presente come tempo e spazio di una realizzazione che estenderà i suoi frutti nel futuro, è simbolicamente affermata dal ciclo vitale dei templi di Ise. “L’es-

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senza di tutte le cose, nel pensiero tradizionale giapponese, si coglie nell’eterno rinnovamento cosmico, nel movimento che presiede alle forze della natura così come al destino dell’uomo, che da quelle forze dipende, traendone vigore. L’energia fisica che esprime la società giapponese di oggi, affonda le proprie radici in questa concezione, che ha consentito un passaggio rapidissimo da una struttura e una visione tradizionale a una posizione avanzata e duttile, pronta a cogliere le trasformazioni del nostro tempo” (Marazzi 1991: 228). L’essere simultaneamente antichi e contemporanei, uguali ma innegabilmente altri dei templi di Ise è l’emblema della capacità nipponica di vivere il passato come qualcosa che non viene superato o negato dal presente ma come preziosa eredità continuamente riattualizzata: una ricchezza e non un fardello. Nel 1971 usciva, in lingua inglese, un libro di Fosco Maraini recentemente edito in traduzione italiana con il titolo di Giappone. Mandala. Il titolo italiano, raffinata trasposizione della complessa stratificazione intellettuale dell’opera, differisce l’immediato effetto prodotto dalla manifesta schiettezza dell’originale Japan. Patterns of continuity. Negli anni ’70 del Novecento il progresso economico e scientifico-tecnologico giapponese sembrava inarrestabile e, soprattutto, destava stupore e fascinazione la capacità – trasformatasi e consolidatasi nello stereotipo largamente diffuso del Giappone terra dei paradossi – di coniugare le necessità del cambiamento al rispetto delle tradizioni. Il modello di continuità giapponese, continuità del passato nel futuro, ha un punto di forza nel naka-ima, il fervido presente nel cui tempo e spazio tutto può essere conseguito e raggiunto. La contemporaneità, e quindi la modernità, sembra l’esito inevitabile della temperie culturale nipponica e delle forme nelle quali si esprime: “il realismo e il pragmatismo dei giapponesi non sono obiettivi raggiunti dopo un periglioso viaggio attraverso una notte filosofica costellata di rinunce, ma hanno tutta la freschezza delle intuizioni che giungono al mattino, e hanno in sé quelle radici divine che gli occidentali hanno sdegnosamente reciso. Qui vi è cibo dell’uomo nella sua interezza e non solo per una piccola porzione cerebrale del suo essere. La concordanza tra i valori tradizionali giapponesi e l’essenza stessa della modernità è straordinaria. Se il nostro mondo è in ultima istanza un prodotto del rinascimento, si trova allora in opposizione perenne con il medioevo. Trascendenza e contemplazione cedono il passo ai valori immanenti e all’azione. I giapponesi con il loro pragmatismo, la loro società orientata verso l’affermazione, l’elitarismo accettato con franchezza e ammesso spregiudicatamente, l’aggressiva fede nel successo sono fatti per il mondo moderno. Questo popolo è adatto ad esso forse più di ogni altro” (Maraini 1971: 212-213). Non fanno eccezione, per concludere, gli attori n1o: maestri e allievi impegnati a serbare il passato perché il futuro sia quotidianamente salvaguardato nel presente.

Appendice

Conversazione con Monique Arnaud, shihan della scuola Kong1o

Nel corso degli ultimi anni ho avuto il piacere, e la fortuna, di poter frequentare a più riprese lo shihan (istruttore) Monique Arnaud. Monique Arnaud, laureata in Lingua e Civiltà Cinese presso la Sorbonne Nouvelle di Parigi, ha risieduto per due anni in Cina studiando come borsista al Dipartimento di Lingua e Storia della Cina Antica dell’Università di Nanchino per poi trascorrere quasi dieci anni in Giappone. Prima di trasferirsi in Italia, dove a tutt’oggi risiede, ha studiato il n1o come allieva del maestro Udaka Michishige, sensei afferente alla scuola Kong1o. L’iniziale interesse per il no1 l’ha portata ad intraprendere la via del professionismo, impegno che le è valso il titolo di shihan. Tale titolo, conferendo l’autorizzazione a crescere propri allievi, rappresenta il primo passo nella maestria propriamente intesa. Monique Arnaud, inoltre, è stata tra le prime donne occidentali di sempre a prodursi in un n1o come shite (Hashitomi, 1988) su un palcoscenico giapponese. Oggi vive e lavora tra Italia e Giappone recandosi spesso nel Paese del Sol Levante per proseguire il suo percorso sotto la guida del maestro Udaka Michishige e calcare le scene nipponiche. È membro dell’International Noh Institute fondato dal suo maestro per diffondere oltre i confini giapponesi il teatro n1o. Alla luce della ricerca condotta il “caso” Monique Arnaud appariva sicuramente interessante e particolare visto il suo essere donna e straniera in un mondo, quello del no1 , quasi esclusivamente maschile e profondamente radicato nel contesto autoctono. Per tale motivo ho chiesto, e ottenuto, di poterla incontrare e conversare con lei sulla sua esperienza e sulla sua singolarità. Di seguito il resoconto della nostra conversazione. D. Prima di addentrarci in ambiti specifici non posso non rivolgerle la domanda alla quale, probabilmente, avrà più frequentemente dovuto rispondere: come ha incontrato il n1o e come è maturata la scelta di praticarlo a livello professionistico? R. Prima di andare in Giappone non avevo nessuna formazione specifica in materia di teatro. Avevo assistito ad un n1o a Parigi ma non avendo comprato il libretto ben poco di quello che è successo in scena mi è stato comprensibile: tutt’ora non saprei dire quale titolo del repertorio io abbia visto. Ciò che ho percepito con molta chiarezza, invece, era l’energia veramente magnetica dell’attore, il suo particolare mo-

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do di camminare: nonostante il vuoto di senso ero catturata dalla figura mascherata in movimento. Arrivando in Giappone e trovandomi a dover assimilare in breve tempo quelli che sono definiti come “patterns of compliance”, cioè dei modelli di adeguamento alle forme, ai comportamenti imposti dalla società giapponese a seconda dell’età, del genere sessuale e del contesto, probabilmente ho trovato nella pratica del teatro no1 un modo per digerire, trasformare e sovvertire i limiti e le convenzioni del comportamento quotidiano. 1 Poiché vivevo a Osaka il primo esempio di teatro giapponese che ho visto in Giappone è stato il bunraku, e questa esperienza mi ha riappacificata con l’importanza della ritualità. Nel n1o, però, ho visto anche dell’altro. Uno dei primi n1o a cui ho assistito è stato Aoi no Ue, della cui vicenda avevo letto qualcosa nel Genji Monogatari, e ho potuto capire, aiutandomi con la lettura degli ideogrammi cinesi del libretto, qualcosa del programma. Una traccia l’avevo. Ma quello che accadeva sul palco non era la narrazione del dramma, era piuttosto un avvenimento, cioè qualcosa in processo di divenire. Questo è uno dei significati racchiusi nella parola n1o. Raramente un n1o sarà uno spettacolo privo di inesattezze, ma il n1o in quanto disciplina o arte performativa è un congegno perfetto per far esplodere qualcosa sulla scena e, quindi, rappresenta la combinazione massima del rituale e del casuale, la quale combinazione include e esalta la contingenza del “qui e ora e mai più” dell’accadimento scenico. L’aspetto che mi incuriosì di più, però, fu che la suonatrice del tamburo di spalla era una donna: credevo le donne non fossero ammesse nel n1o. Si proponeva sul palco in un modo ben diverso da quello agito da una donna nella quotidianità e questo mi aiutò a capire che le forme e la ritualità non corrispondono all’espressione di una fede in un modello totalizzante ma sono piuttosto forme scelte in funzione di un dato contesto, perché ritenute più efficaci, più comunicative. E questo in Giappone si verifica in tutti gli ambiti. Una persona, insomma, adopera modalità di comportamento molto diverse a secondo del contesto e non le si chiede di avere una fede assoluta nel ruolo ricoperto, piuttosto le si chiede di contribuire all’efficacia di un dato compito con il massimo impegno, un impegno nel fare, non nel credere. D. Ha parlato di modelli di adeguamento alle forme e comportamenti imposti dalla società giapponese. Cosa pensa in merito alla rigidità/purezza dei generi teatrali e del “gruppo” giapponese? Guardando al mondo del n1o la sua vicenda sembrerebbe un caso particolare. Si sente tale o crede che la sua esperienza rientri nel normale processo di apprendimento di quest’arte? R. In qualche modo essere stranieri aiuta a diminuire la componente femminile della personalità, si hanno meno imprinting di genere e quindi può rivelarsi un aiuto. L’essere straniera penso abbia abbreviato certi preliminari come il togliersi di dosso la quotidianità nipponica che, in ogni caso, avevo più di altri stranieri essendo inserita in una famiglia giapponese adempiendo ai miei doveri di donna sposata.

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Coloro che vedono il mio percorso da fuori pensano che sia qualcosa di raro. Coloro che vi sono dentro non mi percepiscono allo stesso modo e certamente il mio maestro mi vede come un allievo e basta. Fin dal mio inizio, ad ogni modo, comprendevo abbastanza bene la lingua e ciò mi è stato sicuramente d’aiuto. Quando si vive nella società giapponese ci si rende conto che molti comportamenti quotidiani di un gruppo n1o non differiscono sensibilmente da quelli di un’azienda o di una famiglia estesa giapponese, sono solo maggiormente esaltati e raffinati, ma procedono dagli stessi schemi. Il teatro no1 è stato per me anche un modo per capire e accettare la società giapponese, stranamente, anche se il “mondo del n1o ”, come lo chiamano i giapponesi, sembra quanto di più lontano esista dal quotidiano. Più di altre la società giapponese riconosce un ruolo fondamentale al contesto: una donna può apparire molto umile e dimessa in casa e avere un ruolo di assoluta autorità nel suo lavoro e nessuno dei due ruoli designa il suo vero io. L’io viene definito dal contesto. Quindi ad ognuno di noi spetta cercare e saper scegliere i luoghi e i momenti che consentono di esprimersi nei modi più adatti all’armonia di quell’istante. D. L’esperienza che racconta ha profonde similitudini con quella, seppur breve, che mi ha direttamente interessato: in merito alle dinamiche relazionali del gruppo, ad esempio, a me è parsa evidente la sua assoluta precedenza rispetto il singolo tanto che, per esservi ammesso, si è dovuta verificare in me una sorta di ritrazione o attenuazione dell’io. La sua è stata un’esperienza analoga? R. Non sono cambiata per accedere al gruppo ma sicuramente il mio comportamento, a livello fisico, è stato la sottrazione. Ciò si è riflesso anche nella vita quotidiana. Se ad esempio in famiglia, durante la cena, parlavo mentre c’era la televisione, anche solo per fare una domanda, mi si zittiva! E quindi ritrovo sempre un corollario nelle costrizioni imposte all’interno di un gruppo, sia esso familiare o di apprendimento del n1o. Mentre nella famiglia vedevo i “patterns of compliance” solo come una limitazione, nel no1 diventavano mezzi di accesso all’apprendimento. Quindi parlo di “sottrazione” nel senso che osservavo molto e parlavo poco, mentre in genere sono abbastanza loquace. Ho notato presto che le domande alle quali puoi rispondere tu stessa, se perseveri nella tua ricerca, è meglio non farle. Fa parte dei significati di “Hi sureba hana” (letteralmente nel segreto sboccia il fiore, ndr), la maturazione del non detto, un processo connaturato all’esperienza fisica e avaro di risposte verbali. Mi sono intimidita nel tempo. È forse uno dei motivi della mia vita longeva nel n1o ! D. Quindi nel tempo è addirittura aumentata questa sua timidezza, questo atteggiamento di ascolto. R. È aumentata la sensazione di vergogna, di non essere all’altezza, di non capire immediatamente. Dopo quasi quindici anni di vita in Italia la mia “sfacciataggine” è un po’ riaffiorata ma tutto sommato ciò corrisponde al mio attuale livello tecnico e

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alla mia età. Nell’apprendimento avviene sicuramente una contrazione dell’espressione di un io storico: se non avvenisse non si potrebbe assorbire quello che arriva dall’altro. Non lo vedo, come si dice in genere, in termini di annullamento dell’io, ma ognuno di noi ha una propria responsabilità nel flusso della trasmissione, la quale non è proprietà di nessun individuo in particolare. Sicuramente ogni tanto ci sono delle minacce, delle ferite per l’orgoglio e l’autostima, ma come in molti altri campi. D. Come si relaziona il maestro, nell’insegnamento, con la singolarità rappresentata, comunque, dall’allievo? R. Indubbiamente ti vengono lanciate delle sfide e se non sei pronto per la sfida, tecnica, allora ti viene rinfacciato dal maestro senza pietà, non dagli altri, ma dal maestro. Non è per metterti alla prova, non è crudeltà. Semplicemente nell’insegnamento funziona così. È la tradizione che marcia attraverso l’insegnamento del maestro. Se sei debole e stupido in quel momento ti viene fatto capire chiaramente oppure non ti viene detto niente e il maestro se ne va lasciandoti da solo senza una parola, senza dirti quando tornerà. Ma proprio questa modalità è anche una prova dell’impegno del maestro, perché se il tuo percorso personale gli è indifferente può dimostrarsi gentile, come lo si è con i principianti. Più permissivo. A poco a poco le aspettative crescono e in questo caso ci sono scontri o prese di coscienza che possono essere dolorose e crudeli. Ciò si verifica solo se l’allievo è in grado di capirlo e riceverlo come insegnamento e non come vessazione. D. Ha appena affermato che la tradizione marcia attraverso l’insegnamento del maestro. Ma cos’è la tradizione? R. Quando dico tradizione dovrei dire trasmissione, e in particolare quella da corpo a corpo, si tratti del movimento o della voce. A volte quando parliamo di tradizione orale la cosa è un po’ fuorviante data la reverenza al verbo di noi latini. Anche in giapponese si dice koden, ossia la trasmissione attraverso la bocca: ci sono il canto e la declamazione, e poi le poche parole di commento o spiegazione dette dal maestro, però la tradizione è vedere e saper discriminare, rubare con gli occhi e assorbire tutto quello che si può in ogni momento. Per un principiante è impossibile, si distrae facilmente ed è attento solo a quello che gli si insegna direttamente. Anche in questo caso, tuttavia, non sa operare scelte ottimali e in genere prima di poter imparare qualche movimento o frase musicale, per quanto elementari, deve ripeterli innumerevoli volte. Poi con gli anni si diventa un po’ più abili e più veloci a compiere scelte istantanee. Entrare nella trasmissione è saper rendere, riprodurre, con il corpo quello che si è stati in grado di vedere. D. Secondo lei, in questo senso, tradizione e maestro coincidono? R. Sì, sicuramente la tradizione coincide con il maestro. In Giappone, a differenza della Cina dove ci si accosta a diversi maestri, il maestro normalmente non si cambia, è uno solo. In Giappone se si cambia maestro si deve rispettare un periodo

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di “lutto”. Quando si sceglie il maestro si deve sentire una certa affinità o provare già, attraverso la distanza, una certa propensione al rispetto. Poi accadrà di tutto, come nella psicanalisi: l’identificazione, l’amore narcisistico, poi l’odio, e il ritorno. Si vivono diverse fasi. D. Ha parlato di scelta del maestro, ma il maestro è libero o meno di accogliere, o rifiutare, l’allievo? R. Parlo di un mondo del no1 in cui si accolgono molti dilettanti: non diventeranno mai professionisti ma rappresentano una importante fonte di guadagno. Se una persona assiste ad una lezione credo sia già ben disposta di per sé, non penso che il maestro giudichi sin dall’inizio in modo prevenuto. Però è molto facile scoraggiare una persona se si vede che nei mesi è poco duttile. Inoltre deve relazionarsi al gruppo in modo fluido, senza far pesare la propria inesperienza. Il gruppo, altrimenti, espellerà il “corpo estraneo” se giudica la sua presenza negativa o dannosa. Il maestro Umewaka Manzabur1o nella conferenza del 2003 al DAMS di Bologna [riferimento all’incontro La tradizione del teatro no1 , oggi nell’ambito della stagione teatrale de La Soffitta, ndr] alla domanda “quale è la dote migliore per un allievo”, ha risposto “sunao” tradotto come l’essere “docile”. Docile è una delle traduzioni possibili ma io direi piuttosto, in questo contesto, franco, aperto e duttile. Inoltre, un allievo non dovrebbe mai rimanere a lungo in situazione di passività. In qualche modo durante le lezioni deve mantenere vivo, o saper ripristinare nel maestro, la voglia di insegnargli. Deve un po’ meritarsi la sua lezione. Il maestro, poi, può utilizzare il proprio allievo come un pubblico possibile e, quindi, rispetto a ciò può oggettivare la visione del no1 attraverso la risposta visiva che gli riverbera il movimento dell’allievo. In tal senso è evidente che la cura principale è verso la propria carriera, il proprio divenire come attore. Ma la trasmissione, se affidata ad un vascello o a un recipiente improprio, viene pervertita ed è anche responsabilità del maestro non dare, come si dice in Giappone, delle perle ai porci. Esiste anche questo aspetto e lo si sente da parte di chiunque insegni. L’insegnante può pensare: “chi me lo fa fare, se lo merita?”. Siccome il maestro invita ad approfittare di qualunque situazione di insegnamento anche se non diretta, sicuramente apprezza chi è attento a non lasciarsi sfuggire tali opportunità. D. Da un passaggio della sua ultima risposta sembra si possa affermare una sorta di inscindibilità tra arte e vita nei maestri di un certo livello. Nonostante questa sia un’immagine abbastanza idealizzata ritiene sostenibile una simile visione? R. Per me il no1 non è diverso dalla vita nel senso che il no1 , entro i limiti dello spazio scenico, insegna come vivere, come guardare la realtà in ogni istante per poter essere in grado di compiere le scelte giuste nel momento giusto attraverso un insegnamento in cui il maestro fornisce pochissime spiegazioni, perlomeno all’inizio, sui significati. Non impone le sue interpretazioni sulla tecnica, sul modo in cui usare il corpo, e quello che si costruisce anno dopo anno è un’etica. Quindi il no1 è un’etica volta

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alla preparazione dei momenti importanti della vita, per i quali non c’è una seconda opportunità, e all’accettazione del nostro essere impermanenti e imperfetti. In tal senso è diverso da altre arti: si estingue nell’atto stesso in cui si produce, come la vita. Tutti gli attori no1 ne hanno consapevolezza. I maestri non devono essere visti come in una torre d’avorio, ma come espressioni di possibili modalità del vivere questa nostra esistenza impegnati in qualcosa che superi i limiti della singola vita umana. D. Cos’è la tecnica? R. Si ricollega alla tradizione. Se pensiamo al n1o c’è una certa sacralità nel trasmettere la pratica, non è un movimento neutro. All’origine c’è una trasmissione divina. Zeami parla dell’origine divina. È qualcosa che porta in sé anche un’energia sovrannaturale e che supera chi la trasmette. D. È per questo che c’è un così forte rispetto della forma? R. In un certo senso sì. È proprio perché si dà una tale importanza al gesto che viene riconosciuta un’origine mitica. Non c’è niente di casuale, c’è un senso di responsabilità del gesto. Quella giapponese è una cultura che si inventerebbe un kata per tutto. D. La forma è un modo per fornire un certo grado di garanzia alla tradizione, per renderla utilizzabile e trasmissibile? R. Si, la forma è un vettore di memoria, e quindi la precisione, la correttezza della sua riproduzione è un’esigenza etica oltre che estetica. L’imitazione anche senza comprensione del senso sotteso è una garanzia di disponibilità all’apprendimento. La ripetizione corretta della forma crea l’espressione di una sostanza della quale, chi riproduce la forma, non è necessariamente consapevole. Forma e sostanza sono connaturate. Il fatto stesso che esista un kata è la prova dell’esistenza della sostanza. Che non la si comprenda sin da subito in termini di coerenza naturale non importa, la sostanza agisce anche indipendentemente dalla comprensione. Allo stesso modo l’efficacia delle parole e del canto esistono a prescindere dalla comprensione del loro significato. Intravvedo in questo una traccia del lontano sostrato sciamanico del no1 . In alcuni casi lo sciamano è agito da qualcosa di cui non ha consapevolezza per cui la sua azione è indipendente dalla comprensione. D. All’inizio ha affermato che il suo essere donna e straniera non la identifica come un caso particolare all’interno del gruppo. Che tipo di percorso formativo deve, o può, seguire una donna? R. Le donne sono in effetti svantaggiate perché il n1o è un’arte maschile cresciuta prevalentemente nella classe dei guerrieri e basata su virilità e valori maschili. Ciò che fa la bellezza dei n1o di donna (Katsuramono), ad esempio, è la combinazione nella recitazione dello shite delle energie maschile e femminile. Alle donne sembra precluso in partenza questo tipo di presenza scenica. Credo che le donne nel n1o debba-

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no lavorare in modo diverso, senza necessariamente cercare l’imitazione dell’uomo. Si deve essere trasparenti e sessualmente non connotati. Trovo ad esempio molto piacevole vedere una bella danza senza costume e maschera con una donna che ha emendato dalla sua espressività tutti i segni esteriori del suo vivere al femminile. Un’espressione purificata. Le attrici non devono apparire maschili ma non devono al contempo apparire femminili. Per gli attori questo problema non si pone. Per una attrice un no1 lento che richieda un’energia accumulata e sprigionata in modo misurato e pacato risulta probabilmente più facile in termini di potenza fisica rispetto ad un n1o di guerriero o di demone dove costumi e parrucche molto pesanti aggravano lo sforzo già intenso per i numerosi salti previsti. Personalmente tendo a mettere molta potenza fisica nei ruoli tranquilli (di donna o spirito vegetale ad esempio), mentre ricerco delicatezza e stile nei ruoli di guerriero o dragone. Mi chiedo se non sia una mia modalità di applicazione della regola dei sette decimi [Il riferimento è alla regola zeamiana del “muovere la mente per i dieci decimi, muovere il corpo per i sette decimi”. Cfr. Zeami 1960: 156, ndr] e cioè, in questo caso, che la resa fisica non oltrepassi mai, e anzi rimanga trattenuta, l’esperienza e le capacità fisiche e sceniche individuali. D. Nel suo percorso artistico ha sempre seguito l’insegnamento tradizionale del maestro o ha tentato qualche via alternativa? R. Credo di aver seguito un training assolutamente canonico. Studio da più di ventidue anni e dopo dieci anni di insegnamento di tanto in tanto il sensei ha cominciato a chiedermi se avessi qualche proposta personale per il mio studio ma devo dire che le sue sono sempre state molto stimolanti. La prima grande sorpresa l’ho avuta quando mi ha proposto di fare il primo n1o da shite nel cortile del tempio di Yasaka. Nei pressi del tempio, ricordo, si teneva un concerto rock. La gente di ritorno dal concerto passava attraverso il tempio e così, casualmente, una folla di più di 500 persone si fermò a guardare il no1 : alla fine mi fu raccontato che alcuni dicevano “guarda ci sono degli stranieri nel coro” ma, per via del costume e della maschera, nessuno aveva fatto caso al fatto che anche lo shite era straniero e per giunta donna! D. La sempre maggiore apertura che si sta manifestando nei confronti delle donne attrici può portare benefici al n1o ? R. L’apertura alle donne va di pari passo con le altre trasformazioni sociali. È una tendenza ancora lenta, per fortuna, ma che non può essere fermata. Più la società si evolve e perde in fisicità, più si sposta verso l’uso virtuale del corpo. Gli uomini, per orientamento professionale hanno una maggior tendenza verso il virtuale e così le donne entrano a riempire gli spazi liberi dell’esercizio fisico: tra i dilettanti ci sono più donne che uomini. Oggi, per fare un esempio, nell’ikebana esistono iemoto donne, evenienza che in passato non si dava. Non si tratta di una conquista: si verifica solo perché mancano gli uomini.

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D. Lei ha ottenuto il titolo di shihan, ma cosa significa tale titolo? R. In molte arti tradizionali è un’insegnante, è colui al quale viene riconosciuto il diritto di trasmettere una tradizione. D. C’è un momento in cui questo traguardo è sancito? R. In qualsiasi tradizione questo momento è lasciato in primo luogo al giudizio del maestro il quale lo comunica all’allievo e nello stesso tempo inoltra la richiesta di certificato allo iemoto, ovviamente con le dovute informazioni riguardo l’allievo, in modo che lo iemoto possa giudicare della validità della richiesta. Nella nostra scuola è l’iniziativa del maestro che conta. D. Come vengono vissute nel n1o le numerose sperimentazioni sceniche di cui è oggetto da tempo? R. Dipende molto dalle persone in carica nelle associazioni di professionisti del n1o, organizzazioni simili alle gilde. Negli ultimi anni c’è un tale proliferare di n1o moderni che a Ky1oto, per esempio, l’attuale capo gilda è diventato abbastanza ferreo e vuole che sia maggiore il controllo su ciò che può essere proposto sotto il nome di no1 . La ricerca del nuovo, nel n1o, dovrebbe comunque attingere ad un serbatoio di memoria delle tecniche del teatro n1o. La novità, secondo me, è la scoperta di qualcosa che si sapeva già da secoli, in modo non formulato. Tuttavia si potrebbe tentare di più a livello di scrittura drammaturgica. Tutto quello che viene fatto di innovativo va riferito allo iemoto. La sua autorizzazione è una garanzia di appoggio rispetto al mondo esterno. D. Cos’è la solitudine dello iemoto di cui mi parlava in un passato incontro e qual è l’importanza della struttura gerarchica esistente in una compagnia? R. Credo sia stressante e angosciante il ruolo di iemoto perché più di altri ha i fari puntati su di sé. Mantenere la tradizione quale deve essere e l’equilibrio tra ciò che esiste di personale e di universale deve pure essere un peso non indifferente. Inoltre, come gli appartenenti alle famiglie regali, deve mantenere una certa distanza con gli altri. La sua posizione gerarchica gli preclude ogni input critico sulle proprie prestazioni sceniche e poi ha anche molti doveri per nulla riguardanti il suo training o l’allenamento dei suoi allievi. D. Nel corso della mia ricerca è emersa una consuetudine assai diffusa tra i maestri, molto più di quanto potessi preventivare inizialmente, di affidare le conoscenze dell’arte anche a documenti scritti. Zeami, sebbene a livelli sicuramente altissimi, non sarebbe quindi un caso isolato. Ritiene oggettivamente sostenibile questa osservazione? R. Credo che ogni maestro, a seconda del livello raggiunto, per quanto conosca della tradizione segreta della sua scuola o della sua famiglia abbia anche il proprio piccolo segreto del teatro n1o, sia cioè un più o meno grande Zeami.

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All’interno di tutte le scuole, in certe famiglie di antica stirpe, esistono delle microtradizioni che vengono trasmesse solo da capo ad erede. Alcune sono concrete, leggibili in termini scenici sul palco per la loro singolarità, altre sono oscure e, come nel caso degli scritti di Zeami, vengono interpretate e reinterpretate continuamente nel corso di una vita. Nell’ambito di una stessa scuola ogni movimento possiede variazioni specifiche ad ogni singola famiglia afferente. Un medesimo kuse [una sezione danzata di un n1o, ndr], dunque, può variare a seconda delle differenti interpretazioni familiari e, inoltre, può subire leggere modifiche lungo il corso della carriera di un maestro. Alcuni cambiamenti, certo mai drastici, possono infine interessare tutta la scuola. D. Rispetto alle tradizioni segrete e ai relativi scritti, lei è mai stata ammessa a qualcosa del genere, le è mai stato raccontato o condiviso un sapere segreto? R. Direi che ci sono diversi livelli di segreto nella trasmissione. Ad esempio, quando si è deciso di dare un no1 intero in costume, lo shite riceve dal suo maestro il libretto corredato di commenti (i kata, alcuni diagrammi e notazioni ritmiche) o una trascrizione per lui appositamente fattane: è inteso che tale libretto costituisce un legame personale, non va esibito, ne prestato senza serio e valido motivo. Personalmente custodisco a parte tali libretti ma se anche li mostrassi in giro senza ritegno potrebbero solo dare una traccia, un orientamento, a chi non ha ricevuto un insegnamento diretto. Studio con un maestro che è stato allievo dello iemoto Kong1o. Lui ha probabilmente avuto qualche occasione di accedere a copiare qualcosa di più, ma sempre nella misura concessa ad estranei alla famiglia. Per sfruttare tali occasioni, però, devi essere in grado di comprendere e devi anche poter attingere ad una loro traduzione in termini fisici. Il precedente iemoto della nostra scuola si è ritrovato all’età di 26 anni, dopo la morte di due fratelli maggiori e del padre, solo e a capo della scuola. Era il terzo figlio e il suo allenamento non era adeguato al ruolo improvvisamente acquisito in così giovane età. Trovandosi in posizione di caposcuola gli attori più navigati che lo circondavano e desideravano aiutarlo vivevano una situazione difficile: proporre il proprio aiuto significava sovrapporre alla tradizione da lui rappresentata qualcosa di appartenente ad altre famiglie. All’epoca si è vagheggiato della fine della scuola Kong1o. Il giovane iemoto per preservare la tradizione poteva contare solo sul suo istinto e sulla memoria familiare. Ha dato molto in tal senso e il suo lavoro di scavo e ricerca ha prodotto ottimi frutti, anche nel ricostituire le coreografie di n1o di qualità caduti in disuso. Le prime rappresentazioni cui ho assistito a Kyoto sono state le sue: il suo uso sapiente delle maschere era un elemento trascinante all’epoca. D. Cosa significa la mancanza di un erede che possa garantire la continuità della tradizione? R. Posso farti un esempio. Due anni fa un attore di 40 anni è deceduto a causa di

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una malattia quasi improvvisamente, nel giro di un mese, lasciando due figlie piccole. Ero ad aspettare la lezione e per caso ho assistito ad una riunione tra diversi maestri della scuola Kong1o. Il mio maestro sosteneva che il padre dell’attore deceduto, anch’egli attore, aveva perso con l’unico figlio ogni ragione di fare n1o e che se lui si fosse trovato in una situazione simile non avrebbe saputo come uscirne. Mi sono così resa conto della forza della filiazione del sangue, che solitamente non viene apertamente esibita. Quel padre era sul palco un mese dopo questa conversazione nel ruolo di una madre alla ricerca di un figlio rapito ed ucciso. La nipotina di 5 anni era nel ruolo del kokata [ruoli di bambini, ndr], il fantasma inafferrabile del piccolo. Aveva deciso di non cambiare il programma prestabilito da mesi. Chissà se la bambina proseguirà nel n1o. D. Come vede il n1o oggi? In altre occasioni mi ha raccontato di alcune preoccupazioni rispetto alle nuove generazioni. Forse per una minore predisposizione al tipo di apprendimento richiesto? R. Zeami ha detto di aver messo per iscritto quanto appreso perché la sua arte stava prendendo una brutta piega. Quindi è un problema reale che credo sia esistito sin dall’inizio. Si deve solo accettare che qualcosa si trasformi. I due figli del mio maestro studiano entrambi, ma il secondo figlio ha una personalità molto diversa dal fratello maggiore. Il desiderio del padre era che entrambi progredissero nel n1o ma non credo abbia forzato la mano con nessuno dei due. Con il secondo figlio è stato ed è più indulgente, non vive l’aspettativa posta sul primogenito, ossia sull’erede. Da circa un anno, dopo aver portato in scena Sessh1oseki – il titolo del repertorio che ti da l’indipendenza – il primo figlio può considerarsi “liberato dalla schiavitù”: è divenuto shokubun, un grado superiore rispetto allo shihan. Credo sia un bene, comunque, che la tradizione non si trasmetta solo lungo la discendenza di sangue: quando c’è motivazione si possano bruciare le tappe e afferrare intuitivamente moltissimo. Ci sono esempi di attori veramente competenti che hanno cominciato all’università, quindi dopo i 18 anni, e che consapevoli del tempo perso si allenano con molta serietà. Non avere la strada aperta sin da subito può rivelarsi un potente stimolo ad usare ogni mezzo e ogni momento per imparare. D. Dopo aver parlato di tradizione, di maestri, di trasmissione dei saperi attorici, di maschile e femminile e molto altro, vorrei farle una domanda su una figura che, nel corso della mia ricerca, è stata sempre considerata correlativa a quella del maestro: il padre. Come sono per lei, oggi, i padri giapponesi? R. Non mi sento autorizzata a dare un giudizio sull’argomento. Ciò che si rimprovera alla famiglia giapponese è di avere un padre perennemente assente. Nel caso degli attori n1o forse la situazione è diversa: sono avvantaggiati perché hanno un padre a volte onnipresente. Probabilmente, però, gli impegni e i numerosi spostamenti dell’attore n1o adulto rendono relativa questa onnipresenza. Una mancanza è avvertita o insinuata: ci deve essere il senso di una mancanza per far progredire.

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Un tempo le madri erano custodi e latrici dell’autorevolezza del padre. In un libro scritto dall’ex iemoto della scuola di tè Urasenke, ad esempio, questi racconta di come sua madre ascoltasse la lezione impartitagli dal padre senza assistere direttamente, da dietro le porte scorrevoli, e della sua capacità di riproporgli una seconda versione della stessa lezione in modo che potesse memorizzare meglio quello che aveva imparato dal padre. Quindi c’era questo collettore che oggi, invece, viene alle volte a mancare. La cucina, tradizionalmente ospitata nella zona nord della casa, la parte fredda e umida, adesso è al centro della casa, spesso aperta sul salotto. D. Quando le ho parlato del mio progetto di ricerca ha immediatamente menzionato un breve articolo in cui il suo maestro ricorda il proprio sensei. Cosa contengono quelle poche righe? R. Ho portato come me quell’articolo (Michishige 1998) perché credo mostri in maniera limpida come la relazione maestro-discepolo non sia un lungo fiume tranquillo: né neutra, né oggettiva. È una relazione forte e a volte spaesante, difficile da spiegare a qualcuno che non abbia studiato a lungo una tradizione in cui la rabbia incontenibile del maestro è il segno stesso del vigore e dell’essere in vita della relazione di trasmissione. Credo sarebbe interessante propore quest’articolo per intero avvertendo chi lo leggerà che, come in tutto ciò di autenticamente giapponese, la ricchezza e il cuore del messaggio si trovano nel non detto, nell’alluso, tra le righe e, certamente, nei fatti. Memories of the Iemoto, Kongoh Iwao “Molto bene! Oggi è arrivato uno nuovo. Il suo nome è Udaka ed è uno studente del primo anno della scuola media. Ha detto di voler imparare il teatro n1o mentre studia l’inglese. Potrebbe diventare qualcuno di assai singolare”. Sono profondamente commosso quando ripenso a queste parole riferite ad un dialogo con lo iemoto e apparse in un articolo del Kongoh Magazine dell’agosto 1960 in cui mi presentava come un uchi-deshi, apprendista a pieno servizio. A quel tempo lo iemoto era un uomo robusto di trentacinque anni ed io un ragazzino di appena dodici. Le condizioni fisiche dello iemoto cominciarono a peggiorare nell’estate del 1996. Tuttavia, sebbene fosse seriamente malato, sostenuto dalla sua forza di volontà continuò a prodursi sulla scena durante i tre anni in cui combatté con il suo male. Partecipai a tutte quelle performance. Ricordo che all’Hokkaido Goryu Noh, in cui rappresentammo Aoi no Ue, presi la sua mano per attraversare la hall. Aiutandolo ad indossare il costume, non volendo che stringessi troppo, tirai la fascia interna del do-obi con vero timore. Nella sua performance di Shojo al Goko-gu di Kyoto ero il leader del coro e, dopo averlo vestito, rimasi profondamente coinvolto per tutto il tempo.

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Nel marzo di quest’anno è uscito dall’ospedale per assistere alle prove della mia interpretazione di Dojo-ji. Non dimenticherò mai il modo in cui usò ogni scampolo della sua forza per inveire e tuonare verso di me e gli altri performer. Quando le prove terminarono lo iemoto disse: “Se stai usando la maschera Ja dovresti indossare il lungo hakama scarlatto…” concedendomi quindi il permesso di usare la maschera Ja da me scolpita e autorizzandomi ad indossare un costume alternativo. Questo particolare costume, con i lunghi e scarlatti pantaloni hakama, è una variazione scenica mai apportata nell’ultimo secolo introdotta tre generazioni fa dallo iemoto Kongoh Ukyo. Lo iemoto non lasciò più l’ospedale da allora. Quando penso ai trentotto anni durante i quali lo iemoto mi ha spesso riservato il suo grande favore e quando ricordo la grandezza di spirito e la cura che mi dedicò nelle sue ultime osservazioni, mi sento pieno di una infinita gratitudine e di un enorme senso di responsabilità.

Glossario minimo

Il presente glossario, per definizione minimo, ha la sola pretesa di fornire un rapido supporto alla comprensione di alcuni termini in lingua giapponese non sempre accompagnati nel testo dalla loro traduzione italiana. Amae: sentimento emotivo tipicamente giapponese caratterizzato da un senso di dipendenza dell’effetto altrui, da una pulsione alla dipendenza. Amae è un’emozione che da per scontato l’amore dell’altro, ad esempio tra genitori e figli. Bakufu: Governo militare relativo allo shogunato. Bodhisattva: Santo buddhista. In Giappone più segnatamente colui che pur avendo raggiunto l’illuminazione e, quindi, l’accesso al nirvana vi rinuncia temporaneamente per poter aiutare altri uomini nella via verso l’illuminazione. Buke: famiglia della casta samuraica. Bunke: Ramo collaterale di una famiglia. Bushi: Appartenente alla casta militare. Butai: Palcoscenico. Cuore: Kokoro, è uno dei termini fondamentali della trattatistica di Zeami. Indica l’aspetto più profondo dell’arte del n1o, l’essenza, l’intima natura delle cose. Daimy1o: Alto feudatario. Deshi: Allievo Dokuritsu: Letteralmente che può stare in piedi da solo. Termine con il quale si indica l’attore che può avere propri allievi. Fiore: Hana, può considerarsi un epifenomeno, la manifestazione di un profondo coinvolgimento emotivo tra attore e pubblico, l’espressione eccelsa della maestria attorica, un momento del divenire scenico esteticamente ammirabile. Gakuya: camerino, e in senso più ampio gli spazi accessori del retropalco. Haiku: Brevissimo componimento poetico della tradizione giapponese costituito di soli tre versi di cinque, sette, cinque haku (sillabe). Hashigakari: È il ponte che con decorso obliquo unisce la camera dello specchio e il palco principale, lo honbutai. Hayashi: Nome dell’orchestra che accompagna l’esecuzione di un n1o.

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Honbutai: Palcoscenico principale, quello delimitato dai quattro pilastri di riferimento. Honke: Ramo principale di una famiglia. Iemoto: Capofamiglia, Caposcuola. Jo-ha-kyu1 : Preludio, sviluppo, finale. È il principio ritmico-formale che informa il no1 in ogni sua componente. Kabuki: Genere di teatro tradizionale giapponese fiorito tra XVI e XVII secolo. Kagami no ma: Camera dello specchio, luogo in cui l’attore indossa la maschera e si appresta ad entrare in scena. Kami: Dio, divinità shintoista. Kanji: Ideogramma di origine cinese. Kata: Letteralmente traducibile come forma, modello. Kata si riferisce in genere ad una forma stabilita, fissata e pressoché immutabile. Koan: Nella terminologia zen un quesito che non può e non deve essere approcciato logicamente o intellettualmente per essere risolto. Kogaki: Letteralmente piccolo scritto. Riscritture sceniche che variano a livello coreografico, poetico, musicale o anche del costume, della maschera o delle parrucche, i kata fissati dalla tradizione. K1ohai: inferiore, in senso gerarchico. Kokata: Ruolo interpretato da un attore bambino. K1oken: Servo di scena. Koku: Unità di misura corrispondente a circa 180 litri. Kotoba: Parola. Nel no1 può indicare il recitativo cadenzato e cantilenante con cui vengono espresse le parti non cantate del testo. Kotodama: Letteralmente ‘anima delle parole’, è il potere numinoso riconosciuto alle parole, al Verbo, a prescindere dalla comprensione della parola stessa. Kuden: Tradizione (orale). Kuge: Famiglia appartenente alla nobiltà. Ky1ogen: Può essere tradotto come parole pazze e indica, nel n1o, la farsa comica che si frammezza a due drammi. Maeshite: Shite che interpreta la prima parte del n1o. Mon: Stemma familiare. Mondo: “domanda-risposta”. Nello zen indica il tipo di dialogo che si instaura tra due maestri, o tra maestro e allievo, caratterizzato dalla totale elusione del discorso logico. Monomane: Mimesi, imitazione. Nirvana: Meta suprema del cammino buddhista e liberazione dai limiti dell’esistenza. Nochijite o Nochishite: Shite che interpreta la seconda parte del n1o. N1omen: Maschera n1o. Omote: Vedi n1omen.

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Sarugaku: Danza della scimmia. Da questa forma spettacolare si sviluppò il Sarugaku no n1o dalla cui tradizione, verso la metà del quattordicesimo secolo, nacque il n1o classico. Zeami lo utilizza come termine equivalente a n1o. Seiza: Posizione in cui si sta inginocchiati con i glutei appoggiati sui talloni. Senpai: superiore, in senso gerarchico. Sensei: Maestro. Shimai: Danza di allenamento, di addestramento. Shite: Attore principale, protagonista. Shod1o: Arte della calligrafia. Sh1ogun: Capo del governo militare che dal 1185 al 1868 detenne un potere dittatoriale sotto l’autorità nominale dell’imperatore. So1 o1 : Concordanza. Concetto fondamentale per Zeami secondo il quale ogni elemento o aspetto dell’evento spettacolare non poteva essere determinato, o scelto, se non in rapporto e in concordanza con tutti gli altri; gusti ed esigenze del pubblico compresi. Il s1o1o è inoltre, al di là dell’aspetto meramente tecnico, un’emozione fisicamente registrabile. Sumie: Pittura o calligrafia realizzata con inchiostro nero. S1utra: In ambito buddhista indica un testo sacro o una parte di esso. Tatami: Tipica stuoia giapponese. Tokonoma: Nicchia ricavata su di una parete in cui può essere ospitato l’altare di famiglia o in cui si possono esporre dipinti, calligrafie, ceramiche o altri oggetti pregevoli. Tsure: Compagno (shitetsure = compagno dello shite). È l’attore che accompagna e a volte si affianca allo shite in scena ricoprendo un ruolo marginale. Uji: Clan. Ujigami: Divinità del clan. Ukyo-e: Stampe tradizionali giapponesi. Utai: Canto. Waki: Attore secondario, deuteragonista. Yu1 gen: Incanto sottile. In Zeami tale termine ritorna numerose volte e in trattati lontani tra loro anche molti anni. Se inizialmente sembra essere solo un raffinato principio di valutazione estetica, nei trattati più tardi raggiunge quasi una concreta fisicità, spesso venata dal misterioso senso della bellezza dell’universo. Za: Compagnia teatrale ma anche scuola di n1o. Nel periodo medievale indicò un’associazione teatrale.

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