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Italian Pages 144 [146] Year 2002
Alberto Abruzzese, Marco Bertozzi, Sergio Brancato, Stefano Cecchini, Peter Bondanella, Cristina degli Esposti, Manuela Gieri, Millicent Marcus
Lo schermo “manifesto” Le misteriose pubblicità di Federico Fellini a cura di
Paolo Fabbri
Guaraldi
Paolo Fabbri
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Per lasciare all’immagine pubblicitaria il posto che ha nei nostri spazi collettivi fisici e mentali, evitandone il piatto riconoscimento, Fellini ricostruiva nei suoi film tutte le immagini di pubblicità, stornandole però ai propri fini espressivi. E ritagliava le immagini per sostituirle con le proprie. In Fare un film ricorda: “Del cinema ho in mente soprattutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l’immagine d’una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis. Stava in un film di Maurizio d’Ancora, Venere”. Poi ha collocato Anita Ekberg al centro della propria affiche. E lei per Fellini “non è bella, ma è mitica” (Intervista). Si serviva, l’uno contro l’altro, del pompier e del non pompier, i quali convivono nella stessa figura. In seguito, sono cambiati i tempi e l’uomo che è passato dalla provincia alla città Eterna, cioè a Cinecittà, non li avrebbe del tutto compresi. Sopraggiunta la televisione, che per Fellini è “rito funebre travestito da music hall”. Ed è finita - contro la vulgata situazionista - la società dello spettacolo, quella della grande immagine del cinema e della foto pubblicitaria. La periferia metropolitana ha inghiottito Cinecittà. Resta, si dice, un trash pervasivo, rifiuti e rottami testutali con cui è scritta la parola “fine” sui grandi schermi e sui loro vasti simulacri. Eppure la pubblicità che Fellini ha girato proprio in quegli anni non era affatto un bruscolo nell’occhio, un corpo estraneo al suo obiettivo. I suoi spot pubblicitari sono tutt’altro che opportunisti e inefficaci. La vulgata per cui la qualità estetica è incompatibile con l’efficacia persuasiva (il bello senza scopi!) ha un sapore teorico desueto. C’è una innegabile estasi della merce e del consumo che è vano sottacere. E nell’attuale crisi del giudizio, l’accusa di cattivo gusto può essere sempre rinviata al mittente. La critica si è fatta ormai clinica, trasformazione efficace d’affetti.
Paolo Fabbri Lo schermo “manifesto”
Fred: “Bisogna saper cogliere i segni” (Ginger e Fred)
a cura di
Fellini e la madre di tutte le tentazioni
Guaraldi
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Libri e-libri
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Prima edizione on-line: 1999 Prima edizione cartacea: novembre 2002 © 1999 - 2002 by Guaraldi s.r.l. Sede legale: piazza Ferrari 22, Palazzo Fabbri Scala E 47900 Rimini Redazione: via Covignano 302 (Rimini) 0541/752218 www.guaraldi.it E-mail: [email protected] ISBN 88-8049-061-3
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ALBERTO ABRUZZESE MARCO BERTOZZI PETER BONDANELLA SERGIO BRANCATO STEFANO CECCHINI CRISTINA DEGLI ESPOSTI ENRICO GHEZZI MANUELA GIERI MILLICENT MARCUS
LO SCHERMO MANIFESTO a cura di PAOLO FABBRI
Le misteriose pubblicità di Federico Fellini
Guaraldi
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INDICE
Nota dell’editore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7 Fellini e la madre di tutte le tentazioni di Paolo Fabbri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .9 Ricordi di Stefano Cecchini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15 Via il tulle! di Enrico Ghezzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .19 Fellini e la Grande Tentatrice Breve storia: dai maccheroncini Pop, alla Pasta Barilla al Banco di Roma di Peter Bondanella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .21 Fellini e il Memento Mori della pubblicità di Alberto Abruzzese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .49 I misteriosi fegatelli di Ginger e Fred di Millicent Marcus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .57 Fellini e la macchina neobarocca della pubblicità di Cristina Degli Esposti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .69 5 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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INDICE
Il sistema osservazionale della pubblicità . . . . . . . .69 L’infiltrazione della pubblicità nel testo filmico . . .74 La pubblicità per la televisione . . . . . . . . . . . . . . . .82 Fellini, la pubblicità e gli ineffabili oggetti del desiderio di Manuela Gieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .89 Fellini e l’impossibile purezza di Sergio Brancato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .107 La pubblicità e la storia Una nota dagli immaginari felliniani di Marco Bertozzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .111 Silenzio della storia e rumore della critica . . . . . . .111 Schermo urbano, civitas televisiva . . . . . . . . . . . . .113 Cinema, cultura, modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . .115 Appendice L’invenzione grottesca: gli spot di Ginger e Fred . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .121 Repertorio immagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .131
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NOTA DELL’EDITORE
Porto soprattutto io la responsabilità di aver voluto a tutti i costi, all’interno di quella che è stata, purtroppo, l’ultima edizione del MystFest - Festival internazionale del Giallo e del Mistero di Cattolica, quello intitolato Mystici e Miraggi, l’evento speciale dedicato a Fellini e a qualcuno potrà essere sembrata una forzatura. Io credo di no. “È cinema?” chiedeva, perplesso, Peppino De Filippo ne Le tentazioni del Dottor Antonio all’operaio che stava montando al centro del grande piazzale post-bellico la gigantesca intelaiatura che ospiterà, pezzo per pezzo, l’Anitona. “No, è pubblicità” risponde brusco il capo cantiere. Rubo a Paolo Fabbri il geniale ribaltamento dei termini che riassumeva l’assunto del progetto speciale dedicato appunto alle Misteriose pubblicità di Fellini: “È pubblicità? No, è cinema!”. Allo stesso modo, il jingle: “Bevete più latte / il latte fa bene / a tutti conviene / a tutte le età”, può mutarsi in: “Vedete più cine / il cine fa bene / a tutti conviene / a tutte le età” (Veltroni avrebbe potuto darci una medaglia, quando era ancora Ministro della Cultura, o no?). E in ogni caso, un festival di cinema che si tenesse nella Riviera romagnola, nel riminese, qualunque fosse la sua “nicchia”, non poteva non fare i conti con il cinema di Fellini: che i “generi” li racchiude davvero tutti nel suo “unicum” 7 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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NOTA DELL’EDITORE
assoluto. Se il vecchio MystFest – quello del giallo-giallo, per intenderci – avesse deciso di programmare Toby Dammit nessuno avrebbe avuto diritto di scandalizzarsi. La verità è che pochissimi conoscono per davvero il cinema di Fellini. È più facile, e comodo, considerare Fellini un colossale “luogo comune”, quello delle culone, della Saraghina, del Grand Hotel. Quello che ce l’aveva con la pubblicità e con il Cavalier Berlusconi-Lombardoni che interrompeva i film con gli spot. Quello che alla fine si scopre che era pieno di amanti. Quello che faceva disegnini “porno” (ed ecco spuntare come funghi i disegni e gli scarabocchi di impensati e previdenti collezionisti, e giù mostre a go-go...). Quello che si vuole imbalsamare, mummificare in una specie di mito pagano: Fellini-Ra, il Faraone del cinema. Un cinema ammirevole ma nel deserto, pieno di fantasmi come una piramide. E ancora più facile, troppo facile, è ridurre Fellini a un pur geniale “fumettaro”, di cui Milo Manara sarebbe l’alterego professionale (non fosse che per l’immaginario erotico): alternativa “povera” ai film impossibili, come il Viaggio a Tulum, lui pure – il fumetto – per scaramanzia mai concluso... In realtà la “lezione” di Fellini è ancora tutta da scoprire, da frequentare, da praticare, anche a partire da nicchie come quella che viene ampiamente indagata e sviluppata in questo libro: beninteso, fuori da ogni luogo comune “felliniano”... Mario Guaraldi
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FELLINI E LA MADRE DI TUTTE LE TENTAZIONI di Paolo Fabbri
Fred: “Bisogna saper cogliere i segni.” (Ginger & Fred)
Nel programmare un incontro ed una mostra sulla relazione complessa tra Federico Fellini e le icone della pubblicità si delineava una coincidenza propizia al tema del Mystfest 1997: Mystici e Miraggi. Le Tentazioni del dott. Antonio, il famoso episodio di Boccaccio ’70, quello dell’incubo da manifesto pubblicitario, è la trasposizione infatti delle tentazioni di S. Antonio, padre mistico degli anacoreti, nel deserto egiziano, esposto agli assalti del Maligno. Nello scenario allucinato e vuoto dell’EUR, il personaggio del cartellone (Anita Ekberg) dichiarava: “Io sono il Diavolo”. Con qualche simbolismo psicanalitico di troppo, la storia conserva tutto il suo diabolismo1. Se spostiamo ora il nostro cursore visivo all’immagine estrema dell’ultimo lungometraggio felliniano, La Voce della luna, troviamo che, anche nel volto della Luna, la bionda eroina strilla: “Pubblicitàààààààààààà”. Il protagonista maschile, un po’ Leopardi e un po’ Pinocchio, risponde chiedendo silenzio. In effetti, tra i due testi, lontani nel tempo, l’atteggiamento di Fellini verso la pubblicità era radicalmente mutato, passando da una equivalenza ironica (“È cinema?”, “No, è pubblicità!”) al rifiuto in chiave grottesca delle reclame televisive in generale e berlusconiane in particolare (Ginger e Fred). 9 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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PAOLO FABBRI
Per capire cos’è accaduto, una possibile via è quella appunto di riannodare il legame tra Fellini e il Mistero. Per Fellini – Jung a parte – si deve “attraversare la vita abbandonandosi alla seduzione del mistero”. Il talento è “il dono misterioso che è un grande tesoro, ma rimane sempre la paura che com’è misteriosamente venuto, altrettanto misteriosamente ti possa essere portato via”, e la creatività è avventura nel buio in una notte in fondo al mare2. Il cinema, tutto il cinema sarebbe misterioso per antonomasia. Per Fellini il cinema, “porta sull’impossibile, sull’incredibile”, deve essere carico di infernale, sulfurea seduzione e deve tentare con ambigui messaggi, angelici e diabolici: come il Flaubertiano dott. Antonio, come Toby Dummitt3. Per questo il manifesto della pubblicità degli anni ’60, abitato dai volti immensi delle dive hollywoodiane (pensate al Lux di 9 stelle su dieci con il volto affascinante di Ava Gardner!) entra a pieno titolo nel grande Luna Park dell’immaginario Felliniano4. Insieme ai clown, misteriosi “giullari di dio”, alle mummie in bicicletta e ad altri personaggi favolosi della cultura di massa di quegli anni. Fellini ne apprezzava la vitalità simultanea, il rapido sovrapporsi delle immagini – segni di segni – senza andare in profondità; la successione orizzontale, come fila di presenti, l’internità, come la chiama Deleuze, per opporla all’eternità. Di quella pubblicità Fellini amava soprattutto i vasti cartelloni con la loro retorica dilatata e grottesca che gli permettevano di lavorare per deformazione, ispirandosi deliberatamente a Picasso5. Per lasciare all’immagine pubblicitaria il posto che ha nei nostri spazi collettivi fisici e mentali, evitandone il piatto riconoscimento, Fellini ricostruiva nei suoi film tutte le immagini di pubblicità, stornandole però ai propri fini espressivi. E ritagliava le im10 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MADRE DI TUTTE LE TENTAZIONI
magini per sostituirle con le proprie. In Fare un film ricorda: “Ma del cinema ho in mente soprattutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l’immagine d’una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis. Stava in un film di Maurizio d’Ancora, Venere”. Poi ha collocato Anita Ekberg al centro della propria affiche6. E lei per Fellini “non è bella, ma è mitica” (Intervista). Si serviva, l’uno contro l’altro, del pompier e del non pompier, i quali convivono nella stessa figura. In seguito, sono cambiati i tempi e l’uomo che è passato dalla provincia alla città Eterna, cioè a Cinecittà, non li avrebbe del tutto compresi. È sopraggiunta la televisione, che per Fellini è “rito funebre travestito da music hall”. Ed è finita – contro la vulgata situazionista – la società dello spettacolo, quella della grande immagine del cinema e della foto pubblicitaria. La periferia metropolitana ha inghiottito Cinecittà. Resta, si dice, un trash pervasivo, rifiuti e rottami testuali con cui è scritta la parola “fine” sui grandi schermi e sui loro vasti simulacri. Eppure la pubblicità che Fellini ha girato proprio in quegli anni non era affatto un bruscolo nell’occhio, un corpo estraneo al suo obiettivo. I suoi spot pubblicitari sono tutt’altro che opportunisti e inefficaci. La vulgata per cui la qualità estetica è incompatibile con l’efficacia persuasiva (il bello senza scopi!) ha un sapore teorico desueto. C’è una innegabile estasi della merce e del consumo che è vano sottacere7. E nell’attuale crisi del giudizio, l’accusa di cattivo gusto può essere sempre rinviata al mittente. La critica si è fatta ormai clinica, trasformazione efficace d’affetti. Si tratta d’altro, di ben altro: nel cinema e nella pubblicità 11 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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PAOLO FABBRI
contemporanei è mutata la relazione tra immagine e realtà. Il grande cinema felliniano era cinema di magia, di trasformazione allucinatoria del reale. In Boccaccio 70, il dott. Antonio comincia col veder l’immagine che si muove, poi un braccio apparirà, col suo bicchiere di latte, nel suo specchio di casa, poi una volta attraversato lo schermo-manifesto incontrerà la figura diabolica che ne è uscita. Le colonne di marmo dell’Eur diventano azzurre sotto l’obiettivo e le immagini delle schermo invadono la vita, molto prima de La rosa purpurea del Cairo. Le pubblicità murali di Roma o Roby Dummit appaiono filtrate da fari veloci, e così via. È un modo di formare che introduce il sogno nel reale, come allucinazione. Lo dimostra esattamente Ghezzi nel resoconto della lavorazione di uno spot pubblicitario Felliniano. Le rocce sono a forma di pugni chiusi, ma soprattutto la stessa luce naturale è come artificialmente velata, allucinata. Via il tulle! chiede invano lo stesso Fellini8. Il set, infatti, era il luogo privilegiato di questo chiasmo tra la regia delle cose e le cose della regia, dove scambiavano i loro posti critica e mistificazione. In Intervista ad es. si gira uno spot pubblicitario da cui emerge, per entrare nella finzione stratificata della storia, un Mastroianni-Mandrake, che è anche un personaggio di America di Kafka9. Nell’immagine contemporanea accade l’esatto contrario: non è più trattamento notturno della veglia, ma un trattamento diurno del sogno. Il conflitto è netto in Ginger e Fred: nel black-out d’elettricità sul set televisivo, i protagonisti tentano ancora di sognare ad occhi aperti, ma la “realtà” che li circonda è la pubblicità del dott. Lombardoni, l’esatto contrario di quella del dott. Antonio. La presa onirica dei jingles di Nino Rota non basta. Nessuno ha ucciso il chiar di luna, come sembra credere un felliniano esperto, P. Bondanella. È il sogno che è di12 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MADRE DI TUTTE LE TENTAZIONI
ventato senza segreto, senza tentazione. Qui, e non nella sensualità felicemente dilatata di Fellini, sta la vera enigmatica oscenità: in una esibizione totalmente svelata dei meccanismi del desiderio, senza rimozione e senza riscatto. Per averlo rappresentato-pensato, Fellini merita – così scherzava – d’essere diventato un aggettivo. Superlativo. Note (1) Vedi C. Chandler, Io, Federico Fellini, Mondadori, Milano, 1995. Questa è la qualità che ha ispirato a Buzzati le tavole felliniane del suo Poema a fumetti, Mondadori, Milano, 1968. (2) S. Ferrari “Psicologia e psicanalisi nella poetica di F. Fellini”, in Fellini e dintorni; cinema e psicanalisi, a cura di F. Monti ed E. Zanzi, Il Ponte Vecchio ed., Cesena. E vedi lo straordinario sogno con Picasso in F. Fellini, Fare un Film, Einaudi, 1980. (3) Sull’inferno felliniano, vedi A. Costa, “L’inferno rivisitato” in Dante nel cinema, a cura di G. Casadio, Ravenna 1995. (4) Vedi Dizionario della pubblicità a cura di A. Abruzzese e F. Colombo, Zanichelli, 1994, Bologna. (5) Vedi P. Fabbri, “Prima Donna: la Saraghina tra Kafka e Picasso”, Fellini-Amarcord, rivista di studi felliniani, n. 3-4, dicembre, 2001. Qui ricordiamo che Fellini apprezzava il conciso saggio di Jung su Picasso. (6) Vedi Paolo Fabbri, S. Federico decollato, prefazione al Catalogo A Federico Fellini, opere di Mimmo Rotella, Galleria Fabjsaglia, Rimini, 1998. (7) E così le prove, le varianti, gli scarti e i diversi fegatelli, tutti gli infratesti di cui ci dice Millicent Marcus. Si tratta solo di trovare la pertinenza tra commutazione significante e un feticismo non del tutto disinteressato. (8)Vedi V. Ghezzi, Paura e desiderio, Bompiani, Milano, 1995, cit. nel catalogo. Anche Orson Welles faceva film pubblicitari. (9) Vedi P. Fabbri, op. cit., 2001.
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RICORDI di Stefano Cecchini
1984. Arrivai a Roma il 16 novembre. Vi rimasi fino al 21 dicembre dello stesso anno. Federico Fellini mi aveva scelto per realizzare alcune scenografie per il film che stava girando, Ginger e Fred, con Marcello Mastroianni e Giulietta Masina. Walter Massi, responsabile di produzione, mi accolse e mi presentò a Dante Ferretti, il famoso scenografo, il quale mi mostrò i bozzetti delle scenografie che avrei dovuto poi realizzare. Erano bozzetti proposti da Eugenio Capuccio, aiuto regista, e approvati da Fellini. I soggetti da realizzare erano otto o nove, tutti riguardanti la pubblicità. Quando mi presentai al Teatro 5 di Cinecittà per cominciare a lavorare, mi presentarono Rinaldo Geleng, il grande pittore che da sempre lavorava con Fellini, e suo figlio Giuliano, anche lui pittore. Conobbi anche un altro grande pittore fondalista, già anziano, che mi mostrò come si realizzavano i fondali, i plastici, i cieli, ecc. La vicinanza di questi grandi artisti mi permise di imparare molto e rappresentò senza ombra di dubbio una mia crescita sia dal punto di vista umano, sia artistico. Iniziai a dipingere i quadri che poi sarebbero diventati, fotografati e ingranditi, le scenografie del film. Tutte le mattine Fellini veniva a trovarmi per osservare come procedeva il lavoro. Mi chiamava Stefanino, e affettuosamente mi dava un buffetto sulle guance. 15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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STEFANO CECCHINI
Era una persona molto curiosa e attenta a tutto ciò che avveniva intorno a lui e al lavoro che i suoi collaboratori svolgevano. Se all’inizio mi sentivo emozionato ed anche preoccupato, poi la sua grande semplicità e attenzione verso il mio lavoro mi resero più sereno. E comunque entusiasta, per vivere quella straordinaria opportunità di lavoro. Più di una volta Fellini, durante queste visite, mi ordinò nuove immagini. Ricordo, in particolare, un’oliva gigante, almeno di mezzo metro d’altezza. Oppure un’etichetta con pomodori, con la scritta Sprizzugo. Ed anche una bocca enorme che sorrideva, su perspex. Io avevo un contratto con la produzione per una certa quantità di lavoro. Tutte le “improvvisazioni” di Fellini dovetti quindi di volta in volta concordarle a parte con la produzione stessa. Quando terminai di lavorare a Cinecittà mi resi conto che quella esperienza, anche se breve, aveva rappresentato un’opportunità unica di conoscenza. Ed oggi, a distanza di 14 anni, riconosco quel periodo come fondamentale per la mia crescita artistica. E per questo devo essere grato a Fellini, che mi volle con sé. Grazie, Federico. Le tavole a colori inserite in questo volume riproducono i bozzetti realizzati da Stefano Cecchini per il film di Fellini Ginger e Fred: di questi, soltanto alcuni vennero utilizzati per le scenografie.
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LO SCHERMO MANIFESTO
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VIA IL TULLE! di Enrico Ghezzi
In uno studio di Cinecittà si gira (giugno 1992) lo spot pubblicitario per un importante istituto di credito. Si sta sviluppando un vero bertolucciano camerasutra. La macchina da presa, soffusa dalle luci di Rotunno, si avvicina in tre quattro cinque modi alla perfetta riproduzione dell’ingresso del tunnel del Gran Sasso, simula l’ingresso. Poi si gira un’uscita in soggettiva dal nero del tunnel. Ogni tanto un fumone, tra un ciak e l’altro, sparge nell’aria una lievissima caligine, anche se l’immagine è già schermata da un velario molto grande, finissimo. Non si avverte molto il cambiamento quando c’è una pausa per tirare su il velo. Il regista, Federico Fellini, è tranquillo e disponibilissimo. Ci saluta, ci fa notare che non è proprio “identico al tunnel vero”, come ci era sembrato; quella roccia proprio sopra la galleria, non vedete che è un pugno, una mano chiusa a pugno? (Ah, già: non ce ne eravamo accorti). Si riprende, è l’ultima inquadratura in questo studio prima dei trucchi all’interno dell’antro, del tubo, del sesso felliniano. Improvvisa disputa tra Fellini e Rotunno e la troupe su quale inquadratura manchi da girare. L’avvicinamento, no, l’uscita dal nero..., ma no, il velo..., la panoramica... Fellini si spazientisce, strilla stridulo: “Basta! Manca solo quella frontale col tulle! Togliete il tulle, via il tulle!”. 19 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ENRICO GHEZZI
Tutti si guardano, viene fatto notare che il tulle è già stato tolto, tutte le ultime si sono girate senza tulle. Qualcuno sorride, un aiuto suggerisce che il nuovo fumoncino può aver velato un po’ la luce, Fellini scherzando accusa Rotunno, carrellisti e attrezzisti ci guardano e mormorano “po’ succede’... la luce era simile...” Minuscolo fraintendimento, e sappiamo quanti veli al contrario si creda di aver squarciato e poi altri innumerevoli ci avviluppino, ed è proprio difficile dire a quale buccia, a quale strato sia ferma, in un dato momento, la nostra visione o la nostra vita. Tratto da Paura e desiderio, cose (mai) viste, 1974-2001, Bompiani, Milano.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE Breve storia: dai maccheroncini Pop, alla Pasta Barilla al Banco di Roma di Peter Bondanella
Contrariamente a quanto sostenuto per molti anni da certa critica di sinistra in Italia, Federico Fellini era molto sensibile ai cambiamenti sociali avvenuti durante il ventennio e nel dopoguerra: non è stato soltanto un genio chiuso nel suo mondo interiore. Fellini, infatti, non ha mai abbandonato o rifiutato nulla delle proprie origini artistiche piuttosto umili, curandosi poco di quanto queste fossero ritenute importanti o meno da parte dei critici. Ed è proprio questo legame con i tratti popolari della cultura italiana che emerge chiaramente, oggi, dopo la sua morte. Qui, intendo soffermarmi in particolare sull’interesse felliniano per una forma filmica di grande diffusione popolare quale la pubblicità. L’incontro tra Fellini e la pubblicità ha luogo durante il suo soggiorno a Roma prima della seconda guerra mondiale, quando lavora come giornalista e gagman per la rivista “Marc’Aurelio”. Fellini è sempre stato il primo a sottolineare quanto importante sia stata per la creazione dei propri film l’esperienza fatta come giornalista: “Non solo non la rinnego a parole, ma mi pare che nei miei film, continuamente, ci siano situazioni collegate a quel tipo di esperienza”1. Per “Marc’Aurelio”, Fellini scrisse circa quaranta articoli intitolati Il raccontino pubblicitario. Questi brevi pezzi parodiavano un certo modo ridicolo di fare pubblicità alla 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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PETER BONDANELLA
radio e sui giornali dell’epoca. In uno di questi articoli, apparso nel settembre del 1939, si racconta la storiella di un cliente di ristorante sulla cui testa viene rovesciato un enorme piatto di pasta di una marca fittizia e di come la sua irritazione fosse immediatamente placata dal sapere che aveva avuto “l’onore” di essere stato sporcato da un piatto di “Maccheroncini Pop” e non da una pastasciutta di una marca qualsiasi. Da consumato scrittore di gag, Fellini costruisce un abile finale per la storiella con il cliente che, estasiato ed ormai impotente di fronte al prestigio dei “Maccheroncini Pop”, chiede che gliene vengano rovesciati sulla testa altre due porzioni! Questa storiella umoristica fu riutilizzata e messa in scena come gag da Macario in Lo vedi come sei? (1939) con la regia di Marco Mattioli, testi a cura di Vittorio Metz e Steno (pseudonimo, come si sa, di Stefano Vanzini), entrambi redattori del “Marc’Aurelio”2. Questa breve storia, più una gag che un vero e proprio componimento narrativo, non è che il primo dei frequenti riferimenti al mondo della pubblicità fatti da Fellini nel corso della sua carriera cinematografica. Estremamente sensibile allo sviluppo di tutti i fenomeni culturali di massa contemporanei, Fellini è ritornato a descrivere il mondo della pubblicità in diversi film. Chi non ricorda la figura di Anitona nel breve film Le tentazioni del dottor Antonio, con il famoso jingle “Bevete più latte”? Negli anni Ottanta-Novanta, ci sono delle sequenze importanti dedicate alla pubblicità nella Nave va (1983), in Ginger e Fred (1985), Intervista (1988), e nella Voce della luna (1990). Dall’epoca di “Marc’Aurelio” a quella degli spot per il Banco di Roma, il punto di vista di Fellini sulla pubblicità si è modificato in maniera molto evidente. Dallo sguardo divertito degli anni Trenta, rivolto ad un aspetto della cultura popolare come fenomeno ancora limitato a riviste, giornali e cartelloni pubblicitari, Fellini è pas22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
sato, negli anni Ottanta, ad una visione negativa della pubblicità, percepita come un mostro prodotto dalla società consumistica, un mostro in grado di distruggere, inserendo interruzioni pubblicitarie durante le proiezioni televisive, le peculiarità ritmiche e di tono di un film. Oppure, per dirla con le parole indignate di Fellini stesso: “la prepotenza, l’aggressione, il massacro della pubblicità televisiva inserita in un film! È come una violenza contro una creatura umana: la percuote, la ferisce, la scippa”3. La decisione presa da Fellini nell’84 di girare due spot commerciali per il Campari soda4 e per la Barilla5, e quella presa nel ’92 per tre spot per il Banco di Roma, appare in aperta contraddizione con la forte opposizione, da parte del regista, all’inserimento di pubblicità durante la proiezione televisiva dei propri film. Le pubblicità di Fellini rientravano in un progetto globale, intrapreso dall’industria pubblicitaria italiana, per convincere i più grandi talenti della cinematografia nazionale a produrre pubblicità secondo il loro stile e senza alcun sacrificio in termini di creatività ed integrità artistiche. L’invito non fu raccolto dal solo Fellini, ma anche da altri come Woody Allen, Michelangelo Antonioni, Franco Zeffirelli, i quali produssero spot interessanti e stilisticamente vicini alla propria sensibilità artistica. Soltanto gli spot di Fellini, comunque, sembrano aggiungere al semplice invito all’acquisto, un tentativo di indagine e riflessione sulla natura complessa della pubblicità. Il primo dei film in cui Fellini aveva riflesso i suoi mutati intenti estetici nonché il suo interesse per i sogni, Le tentazioni del dottor Antonio, rappresentava una risposta agli attacchi ricevuti da diversi settori della società italiana, Chiesa inclusa, sulla presunta oscenità e sul carattere diffamatorio della Dolce vita (1959). Ma il film rappresenta anche la prima meditazione felliniana sulla pubblicità e 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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sui suoi rapporti con la sessualità, il motore dello spot destinato a convincere il consumatore che deve comprare un preciso prodotto. Le tentazioni del dottor Antonio, uno degli episodi di Boccaccio ’70, al quale contribuirono Visconti, Monicelli e De Sica, è un film per molti aspetti interessante, un film che diede modo a Fellini di sperimentare un nuovo stile cinematografico per l’uso del colore e per la possibilità di percorrere il proprio cammino tra la ricerca di nuove forme narrative e i suoi nuovi interessi nel campo dei sogni e della psicoanalisi. Nelle Tentazioni del dottor Antonio, Fellini ci mostra gli effetti deleteri, su un bigotto puritano di nome Dottor Antonio Mazzuolo (Peppino De Filippo), di un cartellone pubblicitario che reclamizza del latte mediante un’immagine gigantesca e sessualmente allusiva di Anita Ekberg. Nella tradizione cristiana, Sant’Antonio è celebrato come colui che resistette ad un numero di tentazioni e visioni spesso a sfondo sessuale. Per Fellini, il modello esemplare di quella repressione cattolica che stava cercando di esorcizzare nella propria personalità: allo stesso tempo, il dottor Antonio simboleggia il bersaglio dello spot pubblicitario, un consumatore attratto dalla figura di Anitona, la venditrice di latte che “fa bene a tutte le età” come diceva il jingle. Al contrario del santo di cui porta il nome, però, le visioni sperimentate dal dottor Antonio contribuiscono a distruggere la sua rispettabilità borghese, liberando in lui istinti e pulsioni sessuali, meticolosamente repressi fino alla vista del cartellone pubblicitario. Ne risulta un conflitto tra severo moralismo da una parte e desideri inconsci dall’altra, che sfocia, nel finale del film, in follia. Il film presenta un narratore inusuale, Eros o Cupido, la cui voce infantile sottolinea ironicamente le battaglie combattute dalla psiche di Antonio contro le proprie tentazioni ses24 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
suali, e canta l’allusivo jingle che accompagna il cartellone pubblicitario e che esorta il pubblico a bere più latte6. Una trama narrativa di tale relativa semplicità permise a Fellini una pressoché illimitata libertà di esplorazione del conflitto tra la repressione sessuale di Antonio e l’espressione di un Eros senza limiti, simboleggiato dall’avvenente figura di Anita Ekberg sul cartellone pubblicitario. La dialettica desiderio/repressione costituisce indubbiamente il tema portante del film, ma il ruolo del cinema come schermo psichico, che media e riflette il desiderio del pubblico, rappresenta sicuramente un argomento secondario e allo stesso tempo altrettanto interessante. Il cartellone pubblicitario era stato volutamente costruito con le medesime dimensioni dello schermo in Cinemascope, sul quale lo stesso film di Fellini sarebbe stato proiettato. Fellini sottolinea questo trattamento implicito del ruolo del cinema come specchio dei desideri sessuali del pubblico, in una scena nella quale un seminarista tedesco chiede ad uno degli operai che stanno montando il cartellone pubblicitario: “Cinema?” e riceve questa ambigua risposta: “No, latte.” Il fatto poi che il cartellone pubblicitario sia equipaggiato con un registratore ed un altoparlante, e che quindi trasmetta da sé la propria “colonna sonora”, il jingle di cui sopra, evidenzia lo stretto collegamento esistente tra il manifesto e lo schermo cinematografico. Quando poi la fotografia di Anita Ekberg si anima, il cartellone pubblicitario si trasforma letteralmente in una “immagine in movimento” che è poi il termine usato in America per il cinema: “a moving picture”. Nella scena in cui la Ekberg raccoglie nella propria gigantesca mano il dottor Antonio, Fellini compie uno dei propri rari riferimenti alla storia del cinema – la famosa scena di King Kong, nella quale, in una situazione capovolta, è l’enorme gorilla a catturare la ragazza. Il contrasto tra la gigantesca figura di Anita e il 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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piccolo dottor Antonio venne prodotto mediante l’uso di effetti speciali – modelli in scala degli edifici nel quartiere EUR di Roma, tecniche analoghe a quelle impiegate per le scene di King Kong. Il modo di raccontare di Fellini, tuttavia, deve molto di più all’analisi dell’inconscio che alla storia del cinema, dal momento che la linea dello sviluppo narrativo nelle Tentazioni del dottor Antonio imita e segue la condizione frammentaria e discontinua, tipica degli stati onirici. Gruppi di figure, vestiti in modo stravagante, appaiono e scompaiono senza alcuna apparente motivazione logica. Questi strani personaggi ci ricordano i film a colori di Fellini girati in anni successivi. Il colore, impiegato dal regista per la prima volta in questo film, diventerà un ottimo ausilio tecnico per rendere proprio queste atmosfere da sogno, nonostante il ritorno al bianco e nero nel film successivo, 8 e 1/2 (1963). La scelta del colore per questo film fu obbligata e, in un certo senso, imposta dal produttore, dal momento che tutti gli altri episodi erano girati a colori. Per la maggiore parte del film, il punto di vista della cinepresa sembra riflettere le allucinazioni del dottor Antonio, mentre il venire a galla, stimolate dalla visione dell’immagine femminile della pubblicità, delle pulsioni sessuali sino ad allora represse, comincia a porre in seria difficoltà e ad agitare le acque della tranquilla superficie della sua personalità. Alla fine Anita, stanca della sciocca reazione del dottore alla sua presenza nel poster, prende a spogliarsi, rispondendo in tale modo ai desideri repressi di Antonio. Per ben tre volte Antonio infrange la regola non codificata che impone agli attori di non guardare verso la cinepresa: corre verso la macchina ordinando al pubblico di non guardare, scoprendo in tali circostanze le qualità metacinematografiche di questo film. Quando Anita lascia cade26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
re l’ultimo indumento intimo, l’immagine stacca su Antonio vestito con l’armatura di San Giorgio alla caccia del drago, tema suggerito poco prima da un quadro appeso alla parete di un ufficio. Antonio getta la propria lancia fallica in direzione del poster e questa va a piantarsi nello stomaco della figura del cartellone, poco sotto il seno dell’attrice; la scena cambia ancora e vediamo, in una sequenza onirica, la processione di un funerale composta da tutti i personaggi che hanno avuto un ruolo nella vita di Antonio, i quali intonano: “Hurrà per Mazzuolo il Liberatore”. Questa sequenza del funerale presenta alcune affinità ed analogie con il finale di 8 e 1/2, anche se le condizioni mentali del Dottor Antonio trasformano la fantasia in un incubo e non in un trionfo di integrazione psichica. L’infruttuosa battaglia condotta da Antonio contro i draghi del proprio subconscio, ha distrutto tutti i tratti comici del personaggio e quando, il giorno dopo, arriva un’ambulanza per portarlo via, viene trovato appeso al poster intento ad un parodistico rapporto sessuale. La fine di Antonio è, come s’è detto, una risposta diretta agli attacchi bigotti condotti nei confronti della Dolce vita e un ammonimento sugli effetti negativi provocati dalla repressione di una sessualità normale. Ma la scena sottolinea anche il fatto che la pubblicità funziona tramite l’attrazione sessuale per vendere i suoi prodotti. Soltanto un pazzo represso quale è il Dottor Antonio rifiuterebbe l’invito di bere più latte quando il latte è direttamente associato a fonti di distribuzione così invitanti ed attraenti quali quelle di Anita Ekberg! Le tentazioni del Dottor Antonio resta un’opera minore nella filmografia di Fellini, ma un’opera minore di grande suggestione. Non solo prefigura gli sviluppi rivoluzionari dello stile di Fellini che avrebbero preso corpo di lì a poco, grazie anche alla lettura di Jung, ma è il primo esempio di quell’interesse per i problemi dell’in27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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conscio, collocati nella cornice di una riflessione metacinematografica sul ruolo della dialettica desiderio sessuale/risposta del pubblico nel cinema. La figura di Eros o Cupido, che ha accompagnato lo spettatore in qualità di narratore un po’ birichino, imita il gesto di Antonio nel guardare verso la macchina da presa, per poi mostrare la lingua all’occhio della cinepresa e al pubblico. Questa “affermazione” conclusiva, sembra spingerci a contraddire l’asserzione visivamente espressa da Fellini circa il fatto che il trionfo dell’Eros sulla repressione sessuale non sia solamente inevitabile ma anche desiderabile. Dunque, il trionfo dell’Eros rappresenta anche il trionfo della pubblicità come grande tentatrice: Fellini prevede, però, molto tempo prima dell’avvento degli spot televisivi basati sul sex appeal, la vittoria dell’Eros, non soltanto sulla repressione, ma anche sul contenuto della pubblicità televisiva che sarà un elemento così importante della cultura italiana successiva alla Dolce vita. Dopo Le tentazioni e 8 e 1/2, tutto il cinema di Fellini diventa onirico, e per conseguenza, il linguaggio cinematografico di Fellini diventa più simile a quello dei sogni. Con Roma, per esempio, l’intreccio cinematografico basato sulla coerenza logica e sulla causalità non è più centrale per il regista; la narrativa tradizionale viene soppiantata completamente da una serie soggettiva di episodi ed immagini che riflettono i ricordi e le opinioni personali di Fellini relativi alla Città Eterna. Le singole immagini si stagliano all’interno dei vari episodi, rette solo dalla loro forza e coerenza interna, mentre le sequenze sono tenute insieme unicamente dalla loro origine comune e cioè dalla fertile immaginazione del regista. In effetti, l’intero film altro non è che una serie di spot mitici basati sui vari quaderni che servivano al regista come guida alla magica creazione del suo misterioso ritratto di Roma. 28 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Anche i materiali di archivio tuttora esistenti, relativi al soggetto del film, sottolineano il fatto che, sin dal primissimo minuto, Fellini aveva deciso di intraprendere la strada dell’immagine e non del racconto mediante le tecniche narrative tradizionali. Infatti, al posto del tradizionale soggetto, i documenti che hanno a che fare con l’ideazione del film, ora conservati nella Lilly Library, consistono in sei diversi quaderni illustrati, ciascuno dedicato ad una delle sequenze principali7. Ora, fuor di metafora, il discorso si fa letterale ed il soggetto di Roma è tutto in quei sei quaderni ricchi di immagini, che svolgono la parte più importante della narrazione, con i testi lasciati volutamente in secondo piano (compresi quelli della futura sceneggiatura completa). Ogni sequenza principale fa dunque riferimento ad un’immagine dominante, con la parte scritta chiamata ad assolvere una funzione meramente informativa. I quaderni 4 (Défilé) e 6 (Gli aristocratici e il défilé) sono quasi completamente dedicati alla sfilata di moda di abiti ecclesiastici. Qui Fellini ha dato ampie spiegazioni e suggerimenti sugli incredibili vestiti indossati dai chierici, e chiarisce la natura dell’immagine principale dell’intera sequenza (con l’apparizione di Papa Pio XII). La fiducia ormai incondizionata accordata da Fellini alle immagini ed alla loro capacità di reggersi e spiegarsi autonomamente, conferisce a Roma una nuova e interessante originalità. Il film presenta sette sequenze principali, generate ed originate dall’espansione dei cinque temi suggeriti nel soggetto. Vengono aggiunte una sequenza nella quale viene ricreato uno spettacolo di varietà al teatro Baraonda, ed un’altra dedicata agli scavi, allora in corso, per la metropolitana di Roma, in mezzo alle rovine del passato. Nessuna delle sequenze del film, comunque, supera, per la forza espressiva delle immagini, quella della sfilata di moda ecclesiastica. Fellini era ben conscio del fatto che il mettere 29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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in scena l’intera gerarchia ecclesiastica – suore, preti di campagna, cardinali, vescovi e persino il papa – all’interno di un contesto frivolo come quello di una sfilata di moda, rappresentava un eccesso iperbolico, molto vicino al limite estremo di una satira ritenuta accettabile8. Fellini, sempre molto critico nei confronti di quella parte della propria educazione cattolica fatta di inibizione e repressione (in particolar modo in 8 e 1/2 e Giulietta degli spiriti, 1965), ha poi riconosciuto che l’autorità della Chiesa era un bersaglio già troppo facile sul quale aprire il fuoco. Inoltre, come artista, Fellini ha sempre dimostrato grande interesse per il rito ecclesiastico: “Mi piace la coreografia della Chiesa cattolica. Mi piacciono le sue rappresentazioni immutabili ed ipnotiche, le produzioni precise, i suoi canti lugubri, il suo catechismo, l’elezione di un nuovo pontefice, il suo grandioso apparato mortuario. I meriti della Chiesa sono quelli di qualunque altra creazione del pensiero tendente a proteggerci dal magma famelico dell’inconscio... C’è dunque in me un forte interesse per la Chiesa cattolica capace di creare i più grandi artisti, oltre ad avere attentamente e generosamente commissionato grandi capolavori”9. Nei manoscritti originali relativi al soggetto illustrato di Roma, Fellini dedica molta attenzione alla sfilata e, in particolare, a tutto quanto riguarda l’apparato di Papa Pio XII, il pontefice simbolo delle idee conservatrici tipiche dell’“aristocrazia nera” romana, lo sponsor della manifestazione. Una pagina intera di disegni ed istruzioni fornisce indicazioni a Danilo Donati circa gli abiti estremamente stravaganti dei vari prelati: “Ricordarsi: un cardinale come un flipper; un cardinale come un osso di seppia; un cardinale (invisibile?) solo luce elettrica”10. Le idee abbozzate da Fellini, tutte tendenti a disumanizzare le figure degli ecclesiastici, trovarono brillante realizzazione attraverso la consumata abilità di Donati. Sono 30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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molto interessanti, per un’analisi delle misteriose fonti dell’ispirazione felliniana alla base di questa sequenza, le note lasciate dal regista a Donati, relativamente alla resa scenica dell’apparizione finale del Papa. In una lunga nota Fellini sottolinea il fatto che, in questa sequenza, “È tutto da inventare” e comunica a Donati di avere individuato il tipo di immagine desiderata per la conclusione della sequenza: “Per l’apparizione del Papa alla fine ho visto l’altra sera in un bar la réclame di qualcosa che non ricordo ma che consisteva in 2 enormi dischi che girando davano l’impressione di uno sfavillio di raggi inarrestabili. Vedrò di far fare una foto dell’aggeggio”11. La nota di Fellini a Donati contiene anche un disegno di forma circolare, preso a prestito dalla pubblicità, disegno poi ripreso nella pagina del soggetto nella quale si descrive l’apparizione del Papa12. In Roma, l’apparizione del Papa con alle spalle questo bizzarro disco circolare, fatto interamente di luci lampeggianti e roteanti e simile ad una gigantesca aureola, rappresenta il punto più alto del trionfo dell’immagine o, meglio, dell’immagine come unico “contenuto”. Ma per la nostra storia dell’importanza dello spot nel cinema di Federico Fellini, l’immagine misteriosa del Papa, derivata da un semplice trucco pubblicitario, rappresenta anche il punto più misterioso della creatività artistica. In un libro fotografico dedicato a Cinecittà, Fellini ricorda che l’atmosfera sul set durante le riprese di quella scena era straordinaria: Fellini stesso finì, inconsciamente, con l’abbassare la voce mentre “la figura del Papa, così ieratica e irraggiungibile, così sontuosamente e disumanamente regale, agiva con la forza occulta dell’archetipo, imponendoci anche nell’artificio una specie di ipnotica, incantata soggezione”13. In Roma vediamo in un momento di alta tensione creativa – l’apparizione del Papa – l’impatto della pubblicità sul31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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l’immagine stessa. Con E la nave va, Ginger e Fred, L’intervista, e La voce della luna, entriamo in una fase della produzione felliniana dove il regista sottolinea l’importanza culturale dello spot, non soltanto mettendo la pubblicità nei suoi film come contenuto ma anche producendo degli spot di alta qualità. E la nave va ci presenta una breve storia del cinema come metafora: le sequenze di apertura del film seguono il cinema muto; dopo, il bianco e nero si trasforma in un color seppia tipico dei vecchi film; poi c’è l’inserto della colonna sonora con l’arrivo dei cantanti; poi arriva il Technicolor. Alla conclusione del film, troviamo il protagonista, Orlando il giornalista, solo su una zattera, in compagnia dei due rinoceronti innamorati. Orlando (Fellini aveva scelto il nome dopo aver visto la pubblicità di un gelato su un cartellone vicino all’aeroporto di Roma14) ci offre, per finire, la storia felliniana dello sviluppo dell’arte cinematografica, la conclusione: l’avvento della televisione e dello spot. Orlando, ormai naufrago, vive soltanto del latte dei rinoceronti, e la sua ultima battuta rappresenta uno slogan pubblicitario ridicolo: “Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?”15 Non è un caso che lo spot per la Campari abbia come protagonista proprio un personaggio dalla Nave va, il tenore con l’aspetto fisico simile a Pavarotti, e che lo spot girato per la Barilla riprenda l’ambiente della nave di lusso di quel film. Nello spot girato per la Campari, una giovane donna, seduta in uno scompartimento di un treno in corsa, guarda annoiata fuori dal finestrino. Ad un certo momento, un passeggero presente nello stesso scompartimento (proprio il tenore della Nave va), afferra un telecomando e, premendo i pulsanti, comincia a cambiare i paesaggi visibili dal finestrino, facendo scorrere immagini diverse di luoghi esotici. La donna, sulle prime, pare non coinvolta dai successivi cambiamenti, sino a quando l’uomo non le chiede 32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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se non preferirebbe l’immagine di un paesaggio italiano. Nel momento esatto in cui la giovane donna preme un pulsante del telecomando, ecco apparire una grande bottiglia di Campari posta accanto alla classica immagine della torre pendente di Pisa. Tale apparizione provoca un moto di sorpresa ed un’improvvisa animazione sul volto della giovane donna. Questo breve spot contiene una critica implicita al fruitore previsto per il messaggio pubblicitario, dal momento che Fellini ritiene che proprio lo spettatore, in quel medesimo istante davanti alla televisione, telecomando in mano, abbia subito un’alterazione della propria capacità di giudizio critico, provocata dalla diffusione del potere uniformante della televisione commerciale in Italia. Se si osserva questo messaggio implicito più da vicino, lasciando da parte quello più esplicito dell’invito all’acquisto di una bottiglia di Campari, si nota come il tema riguardi l’incapacità o la scarsa volontà da parte dello spettatore di guardare con attenzione un’immagine visiva. La costante mancanza di attenzione e concentrazione tipica dello spettatore televisivo contemporaneo, sintomo evidente della quale è lo zapping, sembra averne limitato sino all’annullamento la capacità di interpretazione di un’opera, per così dire seria, come quella cinematografica. L’intero spot riflette quindi l’intento parodistico e l’ambivalenza tipici dell’arte postmoderna. Se da un lato Fellini, che con 8 e 1/2 aveva dato una definizione esemplare del cinema modernista come riflessione del cinema su se stesso, sembra qui volere riaffermare le proprie prerogative di controllo e di manipolazione dell’attenzione dello spettatore; dall’altro, la sottile prospettiva postmoderna sembra voler mettere in luce come, attraverso l’uso del telecomando, lo spettatore sia diventato l’“editor” di se stesso. È come se il pubblico postmoderno fosse in grado di “autoprodursi” un montaggio di imma33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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gini televisive, mettendo quindi in questione il processo di selezione che prima spettava solo ed unicamente al regista e privandolo dunque del potere di controllo sulle immagini da lui create. Questo doppio messaggio, con il regista che fornisce al contempo sia la creazione artistica che una critica al valore di tale operazione, è ancora più evidente nel complesso spot girato da Fellini per la Barilla. Filmato su un set simile a quello impiegato per E la nave va (una lussuosa nave da crociera) lo spot ha per protagonisti una coppia impegnata in un flirt dal sapore ambiguo. Lo spettatore ne è avvertito dagli sguardi invitanti e carichi di sensualità che la giovane donna rimanda al suo compagno. Siedono ad un piccolo tavolo, verso il quale prende a marciare, in maniera alquanto formale, una processione di camerieri arcigni ed arroganti. Il maître elenca una lunga serie di piatti dai pomposi nomi francesi, sino a quando la donna si volta verso il suo amico e, interrompendo l’enumerazione di tali prelibatezze straniere, pronuncia, sospirando dietro ad un sorriso carico di allusioni, una sola parola: “rigatoni!” Al suono di tale parola magica tutti i camerieri si rilassano e tirano un sospiro di sollievo. Si intuisce che sono tutti italiani che si sforzano di apparire francesi, nel tentativo di creare l’atmosfera da grande ristorante. In coro esclamano: “e noi come un eco rispondiamo, Barilla, Barilla!” Una voce fuori campo annuncia: “Barilla ti fa sentire sempre al dente!”. Il successo dello spot per la Barilla fu senza precedenti; venne annunciato in anticipo su tutti i principali giornali italiani e, successivamente alla messa in onda, analizzato e commentato da diversi uomini di spettacolo molto importanti, raggiungendo in tal modo un grande pubblico commerciale. Il successo dello spot, capace in sessanta secondi di veicolare una serie molteplice di messaggi, fu dovuto 34 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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proprio a questa abilità di Fellini nell’uscire dallo schema di ciò che notoriamente rappresenta l’obiettivo dichiarato di una pubblicità televisiva. Per prima cosa, Fellini ci propone l’alternativa tra la presa in giro di una cucina pretenziosa e spocchiosa quale quella francese e la semplicità, densa di immediate soddisfazioni, di un piatto di pasta italiana. Passa poi ad adempiere ai propri oneri contrattuali, persuadendo lo spettatore della qualità superiore della pasta Barilla, un segnale che è evidente dal piacevole grado di eccitazione che la Barilla provoca tra professionisti della cucina quali sono i camerieri di un ristorante. Una dichiarazione di superiorità così evidente sembra in parte alludere alle ironiche pretese di prestigio dei “Maccheroncini Pop” citato in apertura. Un altro aspetto importante che Fellini mostra di non trascurare riguarda l’associazione tra prodotto commerciale ed allusioni più o meno esplicite alla sfera della sessualità. Fellini sfrutta questa tecnica pubblicitaria mostrandoci una coppia che flirta davanti ad un piatto di rigatoni Barilla, preferito ad una pietanza della cucina francese. C’è un particolare che contribuisce a rendere più esplicito il rapporto tra prodotto e sessualità, e cioè l’effetto magico che il termine “rigatoni” pronunciato dalla donna sexy sembra produrre sui camerieri che la circondano. Vedendo lo spot per la prima volta è difficile cogliere il senso profondo e quindi spiegarsi le conseguenze prodotte da una parola, in fondo, banale e comune. Molto probabilmente la maggior parte degli italiani non ne ha inteso la sottile allusività: il termine “rigatoni”, infatti, nel gergo dell’Italia di qualche decennio addietro ed in particolare nell’Emilia Romagna di Fellini, indicava il sesso orale16. Una volta colto il significato profondo, latente sotto la superficie del testo, ecco allora che anche le parole pronunciate dalla voce fuori campo risultano maggiormente com35 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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prensibili. Se il termine “rigatoni” allude al sesso orale si spiega immediatamente il motivo per il quale alla semplice pronuncia di tale parola ci si sente sempre “al dente” e quindi “duri”, sia letteralmente che figurativamente. Se Fellini con lo spot di Barilla si è mostrato un ottimo regista della pubblicità, facendo del suo lavoro non soltanto uno spot eccezionale ma anche una critica implicita dello spot in generale, l’importanza dello spot televisivo in Ginger e Fred diventa centrale. Il mondo di questo film, lo studio televisivo visto come metafora della falsa comunicazione contemporanea, diventa un simbolo del rapporto fra la televisione ed il cinema, fra il pubblico televisivo e quello cinematografico e gli effetti negativi delle interruzioni pubblicitarie nei film di qualità. Questi sono stati tra i temi che più hanno preoccupato Fellini negli ultimi dieci anni della sua vita. Già con Block-notes di un regista (1969) e I clowns (1970), Fellini aveva chiaramente espresso il proprio punto di vista sulle differenze teoriche che separavano i due mezzi di comunicazione. Da un punto di vista strettamente tecnico, le dimensioni ridotte dello schermo televisivo rendono inutili se non impossibili le panoramiche molto lunghe, mentre la definizione relativa delle immagini vanificava l’abilità tutta felliniana di esprimersi nella personale ambigua forma visiva. Per il regista, la televisione era prima di tutto un mezzo di comunicazione e, solo poi, di espressione artistica, oltre a possedere una diversa sintassi visiva molto semplificata. Mentre era al lavoro su film prodotti per la televisione, Fellini tenne in scarsissima considerazione questo aspetto; per lui erano film creati per essere visti nelle sale cinematografiche. Mentre in Italia il potere televisivo cresceva al punto da rendere i canali televisivi privati i principali investitori nel settore della produzione cinematografica, Fellini, insieme con altri registi italiani, si rese conto delle mutate condi36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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zioni sociali e della conseguentemente diversa tipologia di spettatore cinematografico. C’è una sequenza in particolare, in Intervista nella quale Fellini mette in burla questa minaccia; la sequenza ci mostra la troupe di Fellini assediata dagli indiani. La scena inizia con il classico attacco degli indiani, visto mille volte nei film western, se non fosse per il fatto che i pellerossa hanno, al posto delle lance, delle antenne televisive, il simbolo della nemesi del cinema. Le caratteristiche tradizionali del pubblico italiano sono radicalmente mutate, pochi ormai intendono pagare un biglietto per sedere in una sala cinematografica per assistere ad un film, moltissimi preferiscono rimanere comodamente sprofondati nelle poltrone di casa a guardare la scatola televisiva. L’impatto della televisione sul cinema in Italia adesso rappresenta per Fellini il segno di una crisi artistica. Sostiene il regista: “Comunque anch’io penso che il cinema abbia perso di autorità, di prestigio, di mistero, di magia; quello schermo gigantesco che incombe su una platea devotamente raccolta davanti a lui, fatta di uomini piccoli piccoli, che guardano incantati immensi faccioni, labbroni, che vivono e respirano in un’altra irraggiungibile dimensione, fantastica e nello stesso tempo reale, come quella del sogno, quel grande, magico schermo che non ci affascina più. Ormai abbiamo imparato a dominarlo. Siamo più grandi di lui. Guardate come l’abbiamo ridotto: eccolo là, piccolo come un cuscino, tra la libreria e un portafiori. A volte sta persino in cucina, vicino al frigidaire. È diventato un elettrodomestico e noi, seduti in poltrona, muniti di un telecomando, esercitiamo su quelle immagini un potere totale, facendo scempio di ciò che ci è estraneo o ci annoia. In una sala cinematografica anche se il film non ci piaceva, la soggezione intimorita e affascinata di quel grande schermo ci obbligava a rimanere seduti, fino alla fine, se non al37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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tro per una coerenza di tipo economico, avendo pagato un biglietto; ma adesso, in una sorta di rivincita rancorosa, appena ciò che vediamo tende a richiederci un’attenzione che non vogliamo concedere, tac!, un colpo di pollice e togliamo la parola a chiunque, cancelliamo le immagini che non ci interessano, siamo noi i padroni. Che noia quel Bergman! Chi l’ha detto che Buñuel è un grande regista? Via da questa casa, voglio vedere la partita, o il varietà. È nato così uno spettatore tiranno, despota assoluto, che fa quello che vuole ed è convinto sempre più di essere lui il regista, o perlomeno il montatore delle immagini che sta vedendo. Come sarà possibile tentare di sedurre ancora uno spettatore così?”17. La televisione non rappresenta dunque una minaccia per la creatività individuale dell’artista tanto per il linguaggio tecnologicamente ricco ma esteticamente impoverito con il quale ci parla, quanto perché ha spezzato l’incantesimo ritualistico della sala cinematografica come chiesa piena di accoliti, della magia dello schermo sul quale proiettare i nostri desideri, e dal quale ci provengono immagini di sogno più che parole, da sperimentare come un voyeurismo di gruppo e non nel privato del proprio piccolo pezzetto di schermo. La distruzione della qualità ritualistica dell’esperienza cinematografica ha privato i registi del tradizionale controllo esercitato sul pubblico, facendo venire meno, inoltre, il carattere di sogno dell’espressione artistica. Il peggiore, comunque, degli effetti deleteri prodotti dalla programmazione di un film (un’opera d’arte) in televisione (mezzo di comunicazione piuttosto che di espressione), consiste nella continua interruzione da parte di spot commerciali. Negli ultimi dieci anni, la televisione privata ha cominciato a competere in maniera alquanto aggressiva con i tre canali di stato, i quali trasmettono i film inserendo spot pubblicitari solo tra il primo ed il secondo tempo (divisione 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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mantenuta anche nelle sale cinematografiche). Per contrasto, le interruzioni sui canali privati sono costanti e spesso invadenti al punto di risultare, talvolta, più fastidiose di quelle dei canali americani. Per un certo periodo di tempo, Fellini, Ettore Scola ed alcuni altri registi italiani, hanno cercato di impedire l’inserimento di spot nei loro film, appellandosi al fatto che il diritto dell’autore di vedere la propria opera mostrata al pubblico comprende anche quello di mostrarla in forma integrale. I proprietari delle televisioni private italiane hanno trovato un accordo generale sul ragionevole criterio di non interrompere le scene in momenti cruciali, tentando in tal modo di salvaguardare l’integrità dell’opera, ma si sono ovviamente rifiutati di eliminare del tutto gli spot commerciali durante la programmazione di film di alto valore artistico. La pubblicità, come si sa, è l’unico mezzo economico di sopravvivenza per un canale privato, laddove la TV di stato si affida al canone pagato annualmente dai cittadini, oltre a lauti interventi governativi di sostegno finanziario. Secondo Fellini, gli spot commerciali, attentando seriamente alla struttura narrativa di opere cinematografiche artistiche, ai loro ritmi e cadenze, possono avere dato luogo ad una nuova tipologia di spettatore, completamente diversa da quella che era solita frequentare le sale cinematografiche ai tempi della gioventù del regista: “Forse si sta creando una sorta di condizionamento alla pubblicità televisiva, un condizionamento fatto di approssimazione, di mancanza di attenzione e di concentrazione. Il massimo della diseducazione, dunque, una specie di sberleffo alla cultura, alla personalità dell’autore, al sentimento della sua favola e al senso di quel messaggio che c’è sempre quando qualcuno ti sta raccontando una storia”18. Quando il canale privato più importante in Italia, Canale 5, decise di programmare alcuni film di Fellini, interrom39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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pendoli con spot commerciali, il regista protestò in maniera molto vivace. Non essendo il proprietario dei diritti del film, generalmente detenuti dal produttore, Fellini poté ben poco. Nonostante questo, si scusò pubblicamente per il disturbo arrecato ai suoi film dagli spot televisivi! Fellini intervenne anche in difesa di Ettore Scola nel corso di una polemica con l’ex proprietario delle principali reti private italiane, su quella che ebbe a definire come: “la vergognosa, stupida e teppistica interruzione dei film con spot pubblicitari”19. Fellini ha girato diversi spot pubblicitari e si è visto finanziare alcuni dei suoi ultimi film dalle TV di stato e da quelle private. Eppure, la presa di posizione di Fellini non era affatto venata di ipocrisia, non contestando gli spot in assoluto, ma la loro intromissione nel particolarissimo ritmo di un film. La preoccupazione per le sorti della propria opera erano tali che, per il suo ultimo film – La voce della luna – Fellini chiese ed ottenne alcune clausole prima di firmare il contratto. Benché il film fosse finanziato principalmente da una casa di produzione direttamente connessa con l’arcinemico Silvio Berlusconi, Fellini ottenne che ci si impegnasse a non fare passare il film sui canali privati Fininvest. Fellini, grazie alla propria reputazione, riuscì a costringere Berlusconi a pagare per un film che solo le reti pubbliche avrebbero potuto trasmettere! Visto l’interesse ed il coinvolgimento personale dimostrato da Fellini per il problema, era inevitabile che si dedicasse ad analizzare il fenomeno televisione in uno dei suoi film. Con Ginger e Fred lo sguardo sulla TV, vista da dietro le quinte di uno studio televisivo, si fa molto critico e ricco di satira. La visione comica dell’organizzazione e della messa in onda di uno spettacolo di varietà, finisce con il mettere a confronto il diverso trattamento riservato a questo genere di intrattenimento dalla TV, rispetto a quanto 40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
era stato fatto dal teatro e dal grande cinema. Fellini ci mostra il peggio della televisione, nel peggio del varietà, genere, tra le altre cose, molto amato da Fellini, che lo impiegò come metafora in molti dei suoi film, da Luci del varietà a Le notti di Cabiria e a Roma. Le note di Fellini per il film, pubblicate insieme alla sceneggiatura, rivelano che era stata sua intenzione aprire Ginger e Fred con alcune immagini tratte da un qualche film estremamente noto (Luci della città di Chaplin, La corazzata Potëmkin di Ejzenˇstejn oppure la celeberrima scena della fontana di Trevi dalla Dolce vita) decomposte e disintegrate mediante un computer. Nelle medesime note troviamo questa definizione della televisione, perfetta anche per rendere l’immagine che ne viene data in Ginger e Fred: “L’abnorme, il mostruoso, il delirante, l’alienato, l’eccezionale riproposto dalla TV come il quotidiano più ovvio, normale, familiare, consueto; e, al contrario, la banalità, l’insignificante, l’informale, il collettivo, l’indifferenziato, presentato con solennità, squilli di tromba, riflettori, coreografie e ritmi da cerimonia sacra”20. La struttura narrativa del film, relativamente semplice, non segue l’andamento frammentario tipico degli altri film metacinematografici. La storia racconta il nostalgico incontro di due ballerini del varietà degli anni Quaranta, Ginger (Giulietta Masina) e Fred (Marcello Mastroianni). I loro nomi di scena erano riferiti a Fred Astaire e Ginger Rogers, ed il loro numero principale consisteva infatti nell’imitazione dei numeri di tip tap della celebre coppia americana. Separati da decenni, i due vengono riuniti per un’apparizione nel corso di un varietà televisivo dal titolo “Ed ecco a voi”. Ciò che il regista detestava in maniera molto forte nella televisione, è la riduzione tipicamente televisiva di tutto quello che viene presentato ad un’uniforme massa insigni41 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ficante. Quello a cui assistiamo non è certo il varietà amato da Fellini, con gli spettacoli individuali persi nel magma indistinto del programma televisivo; si tratta, in verità, di un varietà che imita il varietà. Oltre a questo, tutto fa brodo per la televisione, tutto va bene per fare spettacolo. È sufficiente fare un breve elenco della varia umanità che popola lo studio televisivo per rendere l’idea di quale grottesco e mostruoso spettacolo lo spettatore si trova davanti. C’è un travestito che ha come propria vocazione quella di portare l’amore (il sesso) nelle carceri; un ingegnere che detiene il record di giorni passati in mano ai rapitori e quello del più alto riscatto pagato, con regolare dito tagliato e spedito ai familiari; una donna che ha abbandonato la famiglia perché si è innamorata di un extraterrestre; un uomo che può mettere incinte le donne con un solo sguardo; l’ideatore di biancheria intima commestibile; un mafioso completo di scorta della polizia; una mucca con quindici capezzoli e ultimi, ma non per questo i peggiori, venticinque ballerini nani chiamati “Los Lilliputs”. Oltre a queste figure, incontriamo nel loro perpetuo vagare per lo studio, una serie di sosia di personaggi famosi del mondo dello spettacolo; un Ronald Reagan romano, la regina Elisabetta con un chiaro accento pugliese, un Marcel Proust siciliano, e una miriade di altri, Clark Gable, Franz Kafka, Marlene Dietrich, Liza Minelli, Woody Allen, Betty Davis, Marty Feldman e Telly Savalas. Ancora più dei bizzarri personaggi sopraelencati, i sosia in questione sono indici per Fellini, “dell’operazione profondamente anticulturale” messa in atto dalla televisione – e (svelandone la simbologia) ancora – “ed ecco la questione dei sosia: qualcuno che assomiglia a un altro, come la TV vorrebbe assomigliare al cinema, alla cronaca, alla realtà”21. Ad aggiungersi all’effetto culturalmente livellante della televisione, va la continua intromissione di spot pubblicitari, 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
che reclamizzano prodotti che ormai non fanno più solo parte dello schermo, ma hanno invaso lo spazio vitale intorno ai personaggi. Quando Ginger arriva a Roma, alla Stazione Termini, dove più tardi saluta Fred in partenza, tutta la scena è dominata dalla gigantesca presenza di uno zampone, uno dei tanti prodotti offerti al pubblico dal cavalier Fulvio Lombardoni. La ditta di Lombardoni pubblicizza anche la pasta Scolamangi – un tipo di pasta che permette di perdere peso a chi la mangia! Ma lo spot più divertente resta comunque quello per gli orologi Betrix. Si apre con la famosa terzina dantesca con la quale ha inizio la Divina Commedia; a questa viene aggiunta un’altra terzina nella quale si cantano le lodi dell’orologio, dotato di bussola ed in grado quindi di fare ritrovare la strada a chiunque si sia perso nella “selva oscura” (la marca dell’orologio – Betrix – richiama ovviamente la Beatrice di Dante). Il viaggio di Dante verso Dio e la salvezza è diventato lo spunto per uno spot dai più biechi intenti consumistici. È proprio questo cattivo gusto – cristallizzato da Fellini nello spot che sfrutta uno dei più grandi capolavori della cultura letteraria occidentale – che il regista identifica immediatamente con la televisione e la pubblicità. Il passaggio da Ginger e Fred ad Intervista ci mostra il mondo magico e misterioso di Cinecittà negli anni Ottanta: la fabbrica dei sogni italiana è ormai un mondo dominato dalla televisione. Dovunque la televisione gira degli spot pubblicitari mentre la memoria di Fellini ritorna a un’epoca migliore – l’epoca degli anni Trenta dove il giovane giornalista arrivò e vide per la prima volta tutti i trucchi del mondo cinematografico. Per il vecchio Fellini, ormai il suo mondo magico è finito, e se la vecchia magia ritorna misteriosamente con l’arrivo di Mastroianni nel ruolo di Mandrake, è sempre in uno spot televisivo. Dobbiamo andare a casa di Anitona in piena campagna romana per vedere la ve43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ra magia del cinema: la scena della Dolce vita dove Anitona e Marcello si tuffano nella Fontana Trevi. Ma questa sequenza storica sparisce e rimangono soltanto le memorie di tempi diversi. La grande tentatrice di una volta, oggi è una vecchia ex soubrette. Il finale della Voce della luna fa leva sulla nostra abitudine, ormai ben consolidata, ad assistere continuamente a brusche interruzioni da parte della pubblicità. Ivo vaga, come al solito, di pozzo in pozzo inseguito dalle voci e dai riflessi della luna sull’acqua. In uno di questi pozzi gli appare la luna con il volto illuminato di Aldina che gli comunica quanto sia fortunato a poter sentire quelle voci, anche se a volte lo disturbano oppure gli fanno venire il mal di testa. Sentirle è “un gran regalo” e mentre la poesia sembra toccare il punto più alto, quando la luna/Aldina, rivolgendosi ad Ivo che afferma di non capire queste voci che forse lo prendono addirittura in giro, dice: “Mi fai rabbia per quanto sei fortunato. Non devi capire, guai a capire! E che faresti dopo? Tu devi solo ascoltare, solo sentirle quelle voci ed augurarti che non si stanchino mai di chiamarti”22. Nel bel mezzo di questo dialogo, essenziale ai fini della comprensione del tema centrale del film, Fellini drammatizza la natura estremamente aggressiva ed invadente dei mass media, introducendo una scioccante interruzione sul modello di quelle che avvengono in TV con gli spot commerciali. Aldina, la personificazione della luna, dapprima si schiarisce la voce e poi urla con tutta la forza che ha in corpo: “Pubblicitààààà!” Anche la natura è ormai sottomessa a leggi più forti. Il sonoro del film è invaso da un rumore assordante di grilli, amplificato mille e mille volte. Con la luna nella sua interezza come sfondo, nella scena conclusiva del film, Ivo si appoggia ad un pozzo e dice: “Eppure io credo che, se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio... forse qualcosa potremmo capire”23. 44 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
Fellini ci sta suggerendo di seguire istinto e intuizione, non la ragione, se vogliamo raggiungere una qualche forma di verità. Vale un po’ come spiegazione per questa galleria di personaggi cosiddetti “anormali”, se non “matti”, gli unici ancora in grado di sentire i messaggi segreti che hanno origine nell’inconscio. Così come Ivo, ed anche lui ormai in maniera difficoltosa, può ascoltare le voci dei pozzi, anche Gelsomina intratteneva un dialogo segreto con la natura. In un mondo pieno di “spot-dipendenti,” non c’è più nessuno capace di capire le voci di dentro, il significato del silenzio. Nel 1992, Fellini girò tre spot pubblicitari per il Banco di Roma. Nessuno sapeva che questi tre filmetti sarebbero stati gli ultimi film del Maestro. Eppure, c’è uno stretto rapporto fra la carriera di Fellini (soprattutto La voce della luna, il cui protagonista Paolo Villaggio, che è anche attore degli spot, ma anche tutti i film più onirici del regista, da 8 e 1/2 alla Città delle donne (1980), dove il linguaggio cinematografico è basato sul linguaggio Junghiano dei sogni) e l’evolversi dello spot pubblicitario. Genio come era, Fellini forse aveva capito verso la fine della sua vita che uno spot pubblicitario potrebbe essere anche un’opera d’arte. Uno spot, scritto con un buon senso d’umore e il talento di un vero regista come Fellini, potrebbe essere non soltanto un’interruzione seccante di un programma televisivo in un mondo pieno di troppa televisione. Fellini forse aveva capito che uno spot potrebbe essere anche una vera espressione creativa e non soltanto un mezzo di comunicazione volgare. Noi critici forse abbiamo capito prima di Fellini, guardando tutti gli spot da quello per Campari Soda e la pasta Barilla fino a quelli per il Banco di Roma, che tutta la musica bella non è rappresentata soltanto dalle sinfonie, dalle grandi opere come 8 e 1/2, ma ci sono anche delle meravigliose sonate o canzoni, 45 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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opere minori ma degne di attenzione e analisi. Nell’opera omnia del Maestro, lo storico del cinema di Fellini, se guarda bene, dovrebbe definire gli spot di Fellini – quelli veri e anche quelli falsi delle Tentazioni del dottor Antonio, Ginger e Fred, o Intervista – come dei piccoli ma magnifici monumenti al misterioso progresso della creatività felliniana.
Note (1) Citato in Angelo Olivieri, L’Imperatore in platea: i grandi del cinema italiano dal “Marc’Aurelio” allo schermo, Edizioni Dedalo, Bari, 1986, p. 64. Per la storia del cinema di Fellini, si veda il mio Il cinema di Federico Fellini, Guaraldi Editore, Rimini, 1994, al quale rinvio per temi sviluppati più a lungo. (2) Per il testo completo ed una fotografia della gag nel film, si veda Olivieri, p. 103; si può trovare un ulteriore esempio di parodia di pubblicità famose nella ristampa di Adolfo Chiesa, Antologia del “Marc’Aurelio” 1931-1954, Casa Editrice Roberto Napoleone, Roma, 1974 (ristampato nel 1988 con il titolo di Il meglio del “Marc’Aurelio”) pp. 233-4. (3) Federico Fellini, Ginger e Fred, ed. Mino Guerrini, Longanesi, Milano, 1986, p. 75. (4) Per il testo originale dello spot Campari, si veda un manoscritto nella Lilly Library of Rare Books di Indiana University (USA): “Filmetto pubblicitario per la soc. Campari: ‘Oh, che bel paesaggio!’ – sceneggiatura Roma 19 Febbraio 1984”, Fellini MS. 7 (Box 2). (5) Il testo scritto di questo spot non è stato pubblicato ancora. Si veda Gianfranco Virginio, “Barilla, Fellini e la pasta” e Roberto Campari, “Arrivando a Fellini”, pp. 336-9, in Barilla: cento anni di pubblicità e comunicazione, a cura di Albino Ivardi Ganapini e Giancarlo Gonizzi, Archivio Storico Barilla, Parma, 1994. (6) “Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene ad ogni età.” (7) Questo materiale P catalogato presso la Lilly Library come: Fellini MS. 10 (Box 2, folders 1-6). (8) Federico Fellini, Un regista a Cinecittà, Mondadori, Milano 1988, p. 100. 46 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA GRANDE TENTATRICE
(9) Ibidem, p. 105. (10) Fellini, MS. 10 (Box 2, folder 4) pagina con il titolo (le sottolineature sono dello stesso Fellini). (11) Fellini, MS. 10 (Box 2, folder 5) pagina con il titolo. (12) Fellini, MS. 10 (Box 2, folder, 4), p. 20. Il disegno P accompagnato da questa scritta: “dietro una enorme ruota circolare”. (13) Federico Fellini, Un regista a Cinecittà, p. 105. (14) Federico Fellini, E la nave va, Longanesi, Milano, 1983, p. 160. (15) Ibidem, p. 144 (forse, secondo Millicent Marcus, qui abbiamo un riferimento allo slogan del latte ne Le tentazioni del dottor Antonio). (16) Devo queste precisazioni sul significato della parola “rigatoni” al cantautore Francesco Guccini durante una conversazione in Sicilia nel 1985, subito dopo aver visto lo spot in televisione. (17) Federico Fellini, Intervista sul cinema, a cura di Giovanni Grazzini, Laterza, Roma, 1983, pp. 163-4. (18) Ibidem. (19) Bruno Blasi, Spot teppisti: intervista con Federico Fellini, “Panorama”, 27, 5 novembre 1989. Il dibattito è tuttora di grande interesse. Scola è stato ministro della cultura nel governo ombra del ex PCI (ora PDS). Silvio Berlusconi, il proprietario di tre canali privati, è attualmente il leader del movimento Forza Italia. La posizione di Fellini era esclusivamente basata su considerazioni di ordine estetico e non ideologico, dal momento che il regista, non fu mai iscritto ad alcun gruppo politico. (20) Federico Fellini, Ginger e Fred, p. 33. (21) Ibidem, p. 76. (22) Federico Fellini, La voce della luna, Einaudi, Torino, 1990, p. 136. (23) Ibidem, p. 137.
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FELLINI E IL MEMENTO MORI DELLA PUBBLICITÀ di Alberto Abruzzese
I vitelloni offre due indicatori del costante rapporto intrattenuto da Fellini con la pubblicità. Partiamo dalla ormai mitica sequenza in cui Alberto Sordi irride – in modo scurrile e carnevalesco – la fatica del lavoro. La fortuna del suo gesto – immediatamente dopo, ironicamente punito – ha indubbiamente un profondo significato nel contesto italiano in cui la poetica del regista si colloca: un contesto che, in quegli anni, mette in conflitto le necessità della ricostruzione nazionale e la diversa attesa emotiva del localismo provinciale – in questo caso costituito dai tratti tipici dell’ambiente riminese, patria della sensibilità felliniana – un localismo sospeso tra il tempo tradizionale della provincia e gli strappi dolorosi dello sviluppo, dei nuovi processi di socializzazione, dei suoi spiazzamenti in un incerto altrove. Ma a costituire una indicazione precisa di quel gesto è il suo tratto riminese. Un territorio che già vive in se stesso la spaccatura tra ambiente premoderno – tempo ciclico e dilatato, piccola economia politica della famiglia, solidarietà amicale, culto della festività, forme di comunicazione emotiva – e ambiente metropolitano. Infatti a Rimini si fronteggiano tra loro – in uno scarto traumatico che i personaggi di I vitelloni sentono profondamente e di cui Fellini sfrutta ogni comica o patetica o drammatica sfu49 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ALBERTO ABRUZZESE
matura – il periodo estivo, da un lato, già allora cosmopolita e comunque radicato nella rivoluzione novecentesca del turismo di massa, e dall’altro il tempo ormai morto in cui la cittadina, con tutti i suoi rituali, torna ad essere quella che non è più, senso di nostalgia di qualcosa di instabile e effimero. In altre parole possiamo dire che nel gesto di provocazione che Sordi manifesta nei confronti degli operai c’è la Rimini metropolitana – il suo spaesamento critico, il nuovo soggetto che vi si delinea, i suoi linguaggi espressivi e dunque la matrice stessa della pubblicità in quanto strategia della seduzione, della ricchezza delle merci, dello scarto tra bisogni e desideri, dell’attesa di eventi grandiosi e risolutivi di erotismo e avventura – e c’è la Rimini preindustriale, al suo punto di rottura, di non ritorno. C’è il senso di appartenenza al piccolo gruppo amicale, profondo quanto ormai insidiato e precario, e c’è la curiosità per lo straniero, per il suo valore iniziatico: questa è una costante, ad esempio, nei film in cui Fellini guarda Roma e la sua ibridazione di accenti e lingue e in cui anche l’uomo di provincia vive la sua parte di straniero. C’è, infine, la Città Reale e Cinecittà. Cinecittà, sospesa tra la città del mondo e la città celeste. L’altra sequenza – altrettanto celebre – è la festa in cui Sordi – non a caso ancora lui – si traveste da clown: la maschera si decompone in disperazione e l’infanzia perenne in cui questo personaggio si protegge, si sgretola nella ferita dell’abbandono e nella paura di sé; il volto emerge dal rituale e diventa grottesco proprio quando si fa umano; la cerimonia è finita, il melodramma diventa orchestra impazzita, nave dei folli. Si noti che l’apparato delle maschere ha costituito per tutto il primo Novecento uno dei dispositivi simbolici privilegiati nella réclame e che Rimini – come spesso ci ha mostrato Fellini – proprio in quanto stazione 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E IL MEMENTO MORI DELLA PUBBLICITÀ
balneare aveva formato l’immaginario dei suoi vitelloni con queste immagini da Ballo Excelsior, con la lussuria delle loro promesse, anzi con la forma stessa della promessa, con la forma del desiderio e della tentazione. Immagini, quelle della cartellonistica, significative, operanti e pertinenti nella stagione turistica, nel suo spendore festivo (una festività dilatata rispetto ai giorni e alle feste del calendario religioso), ma non/pertinenti – struggentemente ironiche, im/pertinenti – nella stagione morta: icone di qualche cosa di atteso e perduto al tempo stesso, figure ingannevoli che – con gli stessi colori della vita, con la stessa esibizione di felicità – parlavano di morte, di vanità, di altro. Ecco da cosa nasce la costante presenza della pubblicità in molti se non tutti i film di Fellini. Ed è in questa ossessione che il regista costruisce una sua inconfondibile poetica. Infatti la pubblicità costituisce qui l’elemento necessario all’autore per distinguersi dalla vita vissuta attraverso l’arte, per enunciarsi artista. Nel modo di inquadrare, ambientare, usare la pubblicità, Fellini cerca il suo punto di vista estetico: giocando con l’estasi delle merci. E in questo gioco riscatta il proprio localismo provinciale. Nello strappare il velo alla bellezza metropolitana e agli idoli del pubblico, e dunque nel far vedere sullo schermo il rovescio dell’immagine pubblicitaria, ritrova un luogo topico dell’arte. Ritrova la raffigurazione simbolica – resa, non a caso, profondamente barocca, a parte il suo stile compositivo, a parte il carico decorativo dei suoi set – del memento mori. Gran parte dei suoi film può essere analizzata verificando la riuscita o meno di questo obiettivo. Non la riuscita da un punto di vista immediatamente estetico, ma progettuale (per quanto la sceneggiatura possa valere in Fellini) e operativo (nella contesa tra Fellini e scena, dentro la vita del set 51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ALBERTO ABRUZZESE
e, nel montaggio, tra Fellini e la propria autorappresentazione di se stesso come autore). Riuscita che dipende da cosa di volta in volta emerge in questo sguardo rovesciato della pubblicità su se stessa e di cui il regista discorre in quasi tutto il suo lavoro, sia quando alla pubblicità venga fatto esplicito riferimento, sia quando essa sembri essere una sorta di coloritura ambientale, di viraggio emotivo, sia quando, infine, essa non appaia e tuttavia si senta nel profondo della scena filmica. Sguardo rovesciato: come in tanti memento mori che mettono in luce il dialogo tra lo specchio delle vanità e il volto dei desideri in un punto invisibile eppure sostanziale. In quel fulcro metafigurativo si colloca Fellini: tra la pubblicità e la società. Al cuore del rovesciamento tra seduzione e perdizione c’è Fellini, ma di volta in volta un Fellini diversamente miscelato nelle sue componenti premoderne: religione, famiglia, carnalità, potere, morte. La pubblicità è il suo fantasma e il fantasma consiste nella qualità del moderno, nelle fantasmagorie della metropoli. Lo schermo è il modo per dare corpo al fantasma. In questo spazio simbolico la pubblicità – forma moderna della tentazione mondana – funziona al tempo stesso da identificazione e disincanto, verità e finzione, affermazione e negazione. Può servire da critica (la pubblicità che, nelle forme prosperose e felici di Anita Ekberg, turba la cultura bigotta della Chiesa con le modalità della farsa), così come può servire da mistificazione (la pubblicità televisiva che copre, con i suoi lustrini e il suo chiasso, la parola, la sua autenticità affidata, ad esempio, a Benigni). Ed è proprio tra questi due poli – critica e mistificazione – che il rovesciamento felliniano della pubblicità può essere più o meno convincente, più o meno riuscito sul piano formale. Quando il rapporto con la pubblicità si fa troppo strumentale, ideologico, moralistico, allora la qualità della re52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E IL MEMENTO MORI DELLA PUBBLICITÀ
cita scade: il vitellone diventa maestro di scuola, il memento mori diventa predica. Allora Fellini mostra i classici stereotipi dell’artista, proprio nel tentare di distruggere gli stereotipi della pubblicità e del mondo vissuto. Quando invece è lui a rovesciarsi nella pubblicità, ecco allora che la forma del memento mori assume una luce inconfondibile. Questo meccanismo funziona anche negli spot da lui diretti, ma qui crea un cortocircuito: l’ideologia dell’autore si confonde con la natura richiesta al messaggio commerciale e fallisce su tutti e due i fronti; l’autore mostra di disprezzare la specificità della pubblicità, tentando di ridurla alla propria estetica, e al tempo stesso gli oggetti e i corpi messi in scena vengono riscaldati da una dimensione carnevalesca che insidia l’autore, perché non gli appartiene in quanto troppo immediatamente merce. Lo spot non soddisfa la campagna per il prodotto e non soddisfa l’autore. Resta una deriva delle immagini, a volte molto belle, cioè ben salde agli stereotipi dell’arte e di Fellini/artista; e resta una deriva del discorso (da chiacchiera, da vitellone, da funambolo e circense) a volte riuscito (si pensi al noto gioco di parole su “rigatoni”). Un risultato che indica, peraltro, derive presenti anche nel Fellini cinematografico, laddove spesso la ricchezza lussureggiante del décor o la puntualità carnevalesca di alcuni bozzetti copre schemi narrativi, dialoghi, visioni di insieme che non sono alla stessa altezza. Ma cosa nasconde così spesso queste smagliature testuali di Fellini? La musica. Una musica che si fa testo e affida all’immagine un ruolo di servizio. Del resto alla musica è spesso affidato qualsiasi film che non abbia deciso di puntare sulla colonna sonora del silenzio, sul puro e semplice ritmo del montaggio. La musica di Nino Rota si muove tra e per le immagini come fanno i jingle pubblicitari. Ovvero ricorre a quel ruolo di interfaccia emotivo con i consumi – 53 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ALBERTO ABRUZZESE
l’esperienza dei consumi – verso cui la musica si è indirizzata in modo particolare con l’avvento del cinematografo e dopo avere sperimentato il suo rapporto con la metropoli ottocentesca. Eccoci di nuovo allo snodo da cui siamo partiti. I consumi sono il nostro corpo metropolitano, la nostra identità collettiva e personale nei territori dell’industria culturale. Sono dunque il nostro corpo cinematografico. La musica è il corpo in cui il set cinematografico e il montaggio trovano vita nella qualità dello spettatore. La musica è il nostro corpo. Ascoltando Rota con gli occhi di Fellini o vedendo Fellini con l’emotività di Rota, siamo portati a leggerci dentro e a vederci fuori. La musica compensa la cecità e sordità del nostro spazio interiore. La parte di noi che meno dipende dalla materia effimera e caduca del corpo, quella che lo specchio del memento mori restituisce inscheletrita o ingannevolmente ringiovanita e bella. La parte di noi, dunque, più immateriale, quella che più sembra non avere età, che più sosta nel presente, in un perenne presente, in uno spazio interiore che funge da solo accesso mentale ed emotivo al passato e al futuro. Ecco l’altra dimensione profondamente pubblicitaria di Fellini: il suo cinema è un cinema costantemente al presente. Narrazione e arredo del presente: i ricordi e le attese sono e valgono sempre in una scena presente, in cui felicità e nostalgia coincidono (ancora lo stile di Nino Rota, la sua tecnica del richiamo pubblicitario, dell’evento/avvento). Nei film di Fellini i bambini esistono solo come simulacri di una presenza adulta (tanto che spesso, come in Fellini 8 e 1/2, è l’adulto stesso a vestirsene, o, come in Giulietta degli spiriti, a dar loro la propria voce). Nino Rota è un grande coautore di Fellini proprio perché usa le tecniche di cui la forma del jingle si deve servire per ricordarci con quale intensità apparteniamo ai nostri con54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E IL MEMENTO MORI DELLA PUBBLICITÀ
sumi. E Fellini nei suoi film ci ricorda sempre se stesso, ci richiama sempre alla sua/nostra presenza. Ed ecco allora che, quando nello schermo si strappa il sipario della felicità consumista e la morte appare, e dunque quando l’arte dell’autore distrugge i feticci che lo legano al pubblico, c’è sempre la musica di Rota a ricordarci che la festa continua, per quanto la nostalgia delle merci – e della merce Fellini – le resti dentro. Ci dice – anzi suona – che i cartelloni pubblicitari congelati nel tempo morto della vita torneranno a risplendere, sono tornati, sono sempre tornati. Ed anzi che il memento mori funziona proprio grazie allo splendore che vorrebbe spegnere, al mondano che vorrebbe sublimare. Di questa dialettica si fanno carico molte sequenze in cui la scena felliniana si trasforma nel set instabile tra mondo sociale, regia e mondo della rappresentazione. In esso – vera e propria presa diretta sul mistero del set cinematografico in quanto metafora della creazione artistica costretta a stare nel caos dei segni e delle figure – si intrecciano e contaminano tutti i gradi tra accettazione e simbolizzazione della vita vissuta. Sono i momenti più originali di Fellini, i momenti in cui si celebra una mondanità e dunque mortalità di secondo grado, quella dell’autore, di chi cioè, tipica figura novecentesca della crisi del soggetto moderno, ancora disperatamente cerca di dominare il proprio ruolo, di sapersi vedere nella regia delle cose. Così, il memento mori di Fellini diventa lo scarto tra la regia delle cose e le cose della regia. Uno scarto molto duro e impietoso, che solo la grande leggerezza umana di un attore come Marcello Mastroianni ha potuto garbatamente ironizzare, mostrandosi al pubblico nei panni di Fellini e di Cinecittà, nel gesto presente e nostalgico del vitellone.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED1 di Millicent Marcus
“Il 12 febbraio 1985 si batte ufficialmente il primo ciak” scrive Tullio Kezich dell’inizio delle riprese per Ginger e Fred. “Ma per abitudine scaramantica, i film di Fellini non cominciano e non finiscono, cioè non hanno mai un primo e ultimo giorno di lavorazione identificabile. Sono preceduti e seguiti dai cosiddetti ‘fegatelli’, cioè dai pezzetti che servono qua e là (o non servono, ma si girano lo stesso). Nel caso di Ginger e Fred, i fegatelli sono tutti i programmi che passano sui monitor durante lo show, le pubblicità, i prossimamente, i videoclip e via televedendo”2. Nonostante l’etichetta banale e casalinga, i fegatelli contengono il segreto dell’arte felliniana, il mistero del suo mettere-inmoto del film, il potere scaramantico che gli permette di iniziare e finire le riprese. Se per lo scrittore ci vuole qualche paragrafo provvisorio per “rompere il ghiaccio” (o per riscaldare il computer), se per il pittore ci vuole qualche schizzo per mobilitare il pennello, per Fellini ci vogliono questi pezzetti di celluloide per superare l’inerzia e la paura di lanciare il suo film. E siccome in Ginger e Fred i fegatelli sono per la maggior parte degli spot televisivi, occorre studiarli attentamente per capire in che modo il medium pubblicitario serve, sia per ispirare l’arte di Fellini, che per definirla in un rapporto di opposizione e parodia. Al livello più superficiale del film, Ginger e Fred rappresen57 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MILLICENT MARCUS
ta il conflitto tra il cinema e la televisione, tra il vecchio mass medium e quello nuovo, tra il passato dei suoi successi filmici, e il presente della sua crisi d’ispirazione, tra lo spettacolo inciso sulla celluloide e la sua simulazione elettronica. Fellini drammatizza presto questo conflitto in Ginger e Fred, nella giustapposizione del televisore e dello specchio nella camera d’albergo di Amelia. Gettando uno sguardo di disapprovazione alla sua immagine riflessa nello specchio, Amelia si stira all’indietro la pelle, rievocando il suo viso da giovane, quello della “Ginger” del suo passato con “Fred”. Con questo gesto, il volto di Giulietta Masina diventa un reperto archeologico, un palinsesto di performances scritte sopra quelle precedenti che si intravedono per dare alla sua presenza filmica uno spessore e una risonanza che risale al passato remoto. Il suo volto, raffigurato da clown, diventa per Fellini un testo, un depositario di memoria filmografica. Quello che oblitera il passato del cinema, che cancella la storicità del viso della Masina, è una serie di immagini che attraversano il teleschermo negando qualsiasi significato cumulativo e costruttivo. In termini schematici, il movimento orizzontale lungo la catena delle immagini inibisce il movimento verticale della memoria: il montaggio televisivo blocca il palinsesto dei film. Nella sua parodia della televisione, Fellini prende di mira gli spot pubblicitari come l’elemento più deleterio per la cultura cinematografica del passato. “La prepotenza, l’aggressione, il massacro della pubblicità televisiva inserita in un film”, ha scritto il regista nel 1985. “È come una violenza contro una creatura umana: la percuote, la ferisce, la scippa. Un film, una creazione artistica dove tutto è stato calcolato perché abbia quel respiro, quel ritmo, quella cadenza, quella musicalità, sottoposto a un brutale intervento esterno, fatto a martellate, ecco questo mi sembra sia proprio criminale”3. In Ginger e Fred, le interruzioni pubblicitarie 58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED
creano le contiguità più infelici, che sovvertono, trivializzano, e contraddicono il potere emotivo del programma in trasmissione. Così la testa sanguinante della vittima di Reginaldo, colpito in fronte da un proiettile, precede uno spot per il risotto, l’intervista di un parlamentare che sta facendo lo sciopero della fame viene seguita da una pubblicità per rigatoni giganteschi, e un colloquio con un prete che ha gettato la tonaca per amore, è interrotto da uno spot per la polenta che si conclude con lo slogan “Che cosa volete di più dalla vita?”. Questa visione iperbolica e grottesca della televisione ha un preciso riferimento storico. Ginger e Fred testimonia un cambiamento radicale della televisione italiana che si è verificato negli anni Ottanta con l’arrivo dei canali privati, grazie alle iniziative di Silvio Berlusconi. Più di qualsiasi altro paese in Europa, l’Italia ha sofferto di una bulimia televisiva, un’orgia di consumo indiscriminato offerto da un medium “senza regole apparenti”4. Di conseguenza, la strategia di limitare gli spot a discreti intervalli tra programmi (il fatidico “Carosello” dalle 9 alle 9,20? Che orario è? viene subito in mente), fu sostituita da un totale permissivismo in materia di interruzioni pubblicitarie. In Ginger e Fred, Fellini approfondisce la sua critica con uno studio dei meccanismi psicologici che la pubblicità sfrutta a suo vantaggio. Concentrandosi sull’uso dell’erotismo per vendere i prodotti – siano saponette, mortadelle, o mutandine commestibili – Fellini costruisce un modello del desiderio che dipende completamente dal concetto della “mediazione”. Confondendo di continuo gli appetiti gastronomici con quelli sessuali, le belle fotomodelle che si entusiasmano per i salumi prevalentemente fallici indicano l’importanza del principio della triangolazione formulato dal teorico francese René Girard5.
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MILLICENT MARCUS
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Triangolo del Desiderio modello oggetto del desiderio
soggetto
Secondo Girard, non esiste la possibilità di un rapporto diretto tra soggetto e oggetto del desiderio – tutte le nostre voglie sono mediate da un terzo elemento, il modello del desiderio, che è sempre una persona degna della più grande ammirazione, se non invidia. Dato che vogliamo appropriarci della bellezza, della ricchezza, e del potere del modello (in effetti, o vogliamo diventare come lei, o vogliamo possederla), siamo pronti ad imitare il desiderio che il modello stesso dimostra verso l’oggetto in vendita. Ne segue che l’apice del desiderio è di apparire sul teleschermo, di recitare la parte del modello, di incarnare la perfezione che la pubblicità ci promette quando accettiamo la sua logica del consumo. Secondo Girard, il possesso dell’oggetto stesso non può mai trasformarci negli esseri più belli, forti, ricchi della pubblicità, e quindi il consumo è destinato a deluderci. Perciò, il potere della pubblicità è basato sulla creazione di un bisogno che solo essa può esaudire – il sogno segreto del consumatore di diventare egli stesso un modello televisivo. In questo modo, il medium lega i suoi spettatori in un sistema di consumismo spostato, spingendoli a livelli sempre più alti di spese, e ad una schiavitù sempre più completa della telemediazione. Per intensificare il suo attacco contro i meccanismi pubblicitari del desiderio, Fellini sceglie il giorno di Natale per la puntata speciale del programma “Ed Ecco a Voi”. La festa del Redentore che ci insegna a resistere ai nostri appetiti materiali, degenera in un’orgia di fantasie consumistiche. 60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED
“Buon Natale!” esclama il presentatore untuoso e sorridente dello show. “Queste due magiche parole, ma sì confessiamolo, ci fanno tornare ancora oggi tutti bambini, come quando attendevamo trepidanti quella notte straordinaria che ci faceva sperare che qualcuno lassù dal cielo stellato avrebbe ascoltato la nostra voce e avrebbe esaudito i nostri desideri in un mondo di festa e di pace” (245). Se la cultura televisiva si basa sulla creazione di un desiderio che solo essa può soddisfare, vuol dire che questo medium diventa il Babbo Natale metaforico dell’annuncio del presentatore, quel “qualcuno lassù” che potrebbe adempire tutte le nostre brame natalizie. Nel cielo sopra Roma, invece, c’è una gigantesca antenna trasmittente della televisione con un faro rotante sulla sommità – uno scarno, futuristico albero di Natale con un’unica luce che gira in continua sorveglianza, sostituendo lo sguardo benigno di Babbo Natale con quello del controllo elettronico. Ciò che offre la televisione nel cosmo di Fellini è una trascendenza simulata, che rende lo studio C.S.T. una cattedrale, e il presidente della rete un vescovo, se non addirittura un Dio in terra. Dato che gli spot sono per forza telegraficamente brevi e allettanti, e suscitano la curiosità del pubblico senza mai soddisfarla, funzionano come tante finestre o tanti buchi che danno su spazi segreti e vietati. Come la famosa sequenza dell’Insula Felices di Satyricon, dove Encolpio e Gitone passano una serie di aperture, e intravedono tante scene trasgressive e inviti a piaceri proibiti, i televisori di Ginger e Fred offrono assaggi sfuggenti di un altro ordine d’esperienza. La finestra televisiva dà su un mondo dove “anche tu (sarai) più bello, forte, ricco se userai...” nel messaggio generico che appare nel vestibolo di Stazione Termini. Queste intimazioni di una realtà privilegiata ed elevata di Satyricon e di Ginger e Fred sono versioni degradate di quel mistico al-di-là agognato da alcuni dei protagonisti 61 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MILLICENT MARCUS
più importanti della filmografia felliniana. L’aspirazione ad un ordine superiore d’esperienza è profondamente legata al ruolo che Giulietta Masina svolge nell’immaginario di Fellini. “Lei mi ha fatto attraversare una certa soglia”, Fellini ha detto in un’intervista rilasciata a Dominique Delouche per la televisione belga nel 1962. “Mi ha aiutato a superare una certa barriera per entrare in un nuovo paesaggio, un nuovo territorio che non ho pienamente descritto, ma che, se la mia fantasia mi ci riporta, vorrei tanto poter tradurre in immagini”6. In quest’intervista, Fellini parla solo di soglie, di barriere superate, cioè strutture che segnano i confini tra la realtà quotidiana e quella che giace dall’altra parte. Non osa definire in termini precisi quel nuovo paesaggio, ma spera di poterlo conoscere e rappresentare nei film seguenti (da 8 e 1/2 in poi). In questo progetto Giulietta Masina funziona più da guida che da Musa, più da mezzo di passaggio che da demiurgo creativo. Già ne La Strada, Gelsomina aveva stabilito un contatto paranormale e mistico con i segreti dell’universo – quando aveva imitato un albero, previsto la pioggia, sentito un legame subitaneo e istintivo con il bambino idrocefalico Osvaldo. In queste scene, Gelsomina manifesta un rapporto atavico e profondo con il mistero della natura e con le esperienze che eccedono le percezioni degli uomini ordinari. Sempre tramite sua moglie, Fellini tenta di penetrare questo misterioso al-di-là in Giulietta degli spiriti attraverso le sedute spiritiche, gli incubi e le allucinazioni della protagonista. Ultimamente, scegliendo Roberto Benigni come surrogato, Fellini cerca ne La voce della luna di capire se “ci sarà pure un... posto nel mondo dove c’è un foro, un buco che dà da quell’altra parte...”. Per Ivo Salvini, questo buco si colloca con altri mezzi per varcare la soglia tra il nostro mondo e quello che giace oltre: i pozzi che emettono strani messaggi vocali, e la luna stessa 62 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED
che lo chiama dall’alto. Ma neanche ventisette anni dopo l’intervista del 1962, essendo arrivato alla fine della carriera, Fellini può entrare nel reame privilegiato al-di-là del foro. Fermato sulla soglia, incapace di penetrare il mistero dell’altra parte, dipendente dagli altri esseri dotati di poteri paranormali per avere notizie di un mondo alternativo, Fellini si deve accontentare di un’epifania di seconda mano. Amareggiato, deluso, ma non sconfitto, Fellini vede nella pubblicità un’analogia degradata della sua ricerca di trascendenza; ricerca che conduce al satellite del titolo del suo ultimo film, trasformato dal locus communis della magia e della fantasia, in un gigantesco spot televisivo. Arrivato qui, alla fine de La voce della luna, Ivo trova l’apoteosi dei suoi desideri nella faccia della sua innamorata, Aldina, che si è sovrapposta alla luna, ma che interrompe il colloquio con l’amante con l’annuncio di “Pubblicitààààà...”. È significativo che l’ultima incarnazione di Mastroianni nella filmografia di Fellini sia quella di Mandrake il Mago de L’Intervista (1987), proveniente dal mondo della pubblicità. In questo modo, Fellini riduce l’idea della magia, del potere trasformativo dello spettacolo (pensiamo a Maurice di 8 e 1/2, all’ipnotizzatore de Le Notti di Cabiria, ai maghi delle scene di varietà in tanti film felliniani), al livello dello spot televisivo. Qual è il ruolo di Mandrake ne L’Intervista? Di invocare il potere taumaturgico del cinema – il potere di annullare il tempo, di creare immagini mitiche, di spogliare i corpi degli attori anziani dei chili e delle rughe acquistati in trent’anni per tornare a quel momento di bellezza e desiderio, eternamente catturati nella scena della Fontana di Trevi. Nella distanza tra La dolce vita e L’Intervista, tra Marcello giovane giornalista abbagliato dal mondo dei divi e Marcello vecchio mago di pubblicità, Fellini dà la misura del declino dello spettacolo dal boom agli anni Ottanta. 63 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Ma l’atteggiamento di Fellini verso la pubblicità è molto più complesso di quanto possa sembrare in superficie. Sotto la denuncia apparentemente moralista di Ginger e Fred, si nasconde un profondo e compiaciuto coinvolgimento da parte di Fellini con la televisione in generale, e con la pubblicità in particolare. Le sue collaborazioni con l’industria televisiva sono ben note – oltre ai due documentari fatti per la TV – Blocknotes di un regista, girato su richiesta della NBC nel l969, e I clowns per la RAI nel l970, c’è una serie di spot televisivi degli anni Ottanta, come dimostrano bene le esposizioni di questo Mystfest. “Non è un caso che Fellini arrivi a Ginger e Fred pieno di mortadelle e rigatoni giganti” osserva Mario Giusti, “dopo i suoi due celebrati spot per la Campari e la Barilla, e che tanti dei suoi stessi collaboratori in questo film siano anche molto attivi nella pubblicità”7. Naturalmente, gli spot inclusi in Ginger e Fred non sono presi in prestito dalle autentiche trasmissioni televisive, ma sono invenzioni di Fellini – parodie della vera pratica pubblicitaria, ma scelte e trasfigurate secondo le esigenze dell’arte felliniana. Per servire da fegatelli – da episodi discreti girati prima del film proprio per “riscaldare” la mano del regista, questi spot dovevano dare a Fellini un pretesto per sfogare tutti i suoi più cari vezzi stilistici e narrativi. Vuol dire che ognuno di questi spot è un denso, distillato, nucleo di creatività felliniana. Per esempio, la celebre tendenza felliniana verso l’episodico, il frammentario, il paratattico – una tendenza che diventa marcata da La Dolce vita in poi, ma che si può già intravedere nella struttura dei film precedenti – trova il suo veicolo ideale nello spot pubblicitario che spezza l’unità narrativa del programma e si svincola da una struttura narrativa gerarchica e dominante. Nella sua brevità e nella sua funzione interruttrice (tanto contestata da Fellini!), lo spot televisivo proclama la sua anarchica libertà, perfino la sua 64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED
disubbidienza, alla tirannia della “forma” secondo l’accettazione aristotelica. Il vezzo di inserire immagini gratuite, secondo l’estro del regista – vezzo che doveva cercare sempre una giustificazione narrativa nei primi film (le visioni di Giulietta, le epifanie di Amarcord) trova ampio sfogo negli spot televisivi. In questa sua libertà dalle strutture convenzionali narrative, la pubblicità offre a Fellini uno spazio ludico e carnevalesco, secondo le intuizioni del teorico sovietico Mikhail Bakhtin, che ha definito il mondo del Carnevale come una comunità momentaneamente esente dalle regole e dai limiti dell’ordine sociale8. In questo spazio di gioco e libertà creatrice, Fellini può esprimere tutte le sue manie e tutti i suoi feticci, indulgendo alla passione per l’eccesso, l’iperbolico, le gag. Facendo questi spot, Fellini può rivisitare il suo proprio passato artistico, ricapitolando il suo tirocinio come vignettista e scrittore di battute per il “Marc’Aurelio”9. La mescolanza della sessualità adolescente e la golosità di un’avanzata epoca consumistica indica il modo in cui la pubblicità in Ginger e Fred ripercorre tutte le fasi dell’immaginario felliniano. La presenza di almeno un televisore in ogni set del film crea l’affollamento figurativo che ha sempre caratterizzato lo stile di Fellini. Questi televisori dividono il campo visivo in almeno due piani, i quali spesso si battono per l’attenzione del pubblico. Così Fellini incorpora all’interno del suo film lo stato di disattenzione che affligge lo spettatore televisivo, distratto da fuori dai bambini che urlano, il telefono che squilla, il vicino che bussa, il frigorifero che attira, e internamente distratto dalla pubblicità che interrompe il flusso narrativo della trasmissione. Possiamo dire che Fellini conquista il “nemico” televisivo appropriandosi dei codici dell’altro medium e facendoli suoi, adottando quelli che particolarmente si prestano all’estetica felliniana, esagerandoli fino al parossismo. In questo modo Fellini assume la posi65 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MILLICENT MARCUS
zione di complicità critica che Linda Hutcheon attribuisce a tutta la cultura postmoderna, dove l’artista è per forza colpevole delle pratiche estetiche e ideologiche che cerca di condannare, dove non c’è un “fuori” da cui rendere un giudizio distaccato e oggettivo10. Fellini sa di essere troppo coinvolto nell’evoluzione dei mass media per potere allontanarsene e pronunciare una critica che non sia anche un auto-critica. Ma un tale esercizio può anche servire per portare avanti la sua arte. Parodiando la pubblicità, Fellini riesce non soltanto a riaffermare le caratteristiche della sua propria visione, ma a crearne una nuova: un pastiche postmoderno di convenzioni cinematografiche e codici televisivi; un ibrido di celluloide e nastri elettromagnetici; un’ars combinatoria di spettacoli vecchi e nuovi. Alla fine di Ginger e Fred, quando la storia d’amore si diluisce nella melanconia della stazione ferroviaria notturna, c’è un altro spettacolo che continua “non-stop” – quello della pubblicità sul piccolo schermo posto davanti ai binari. Nonostante l’imbecillità dei messaggi (uno per la pasta Scolamangi che fa dimagrire, e uno per l’abbondante ricettività di Roma, che si vanta di ben 66 canali televisivi), questi spot dimostrano un’energia enunciativa che serve da vero fegatello ad un Fellini poco disposto a battere l’ultimo ciak. Solo la pubblicità, con la sua promessa di infiniti spunti creativi, di infinite possibilità di parodia e di auto-affermazione, gli dà il coraggio (il fegato!)11 di finire questo film e di pensare al prossimo.
Note (1) Ringrazio la mia collega Antonella Centaro Pease per i suoi preziosi aiuti con l’italiano di questo saggio. (2) Tullio Kezich, Fellini, BUR, Milano, l988, p. 512. (3) Federico Fellini, Ginger e Fred, Longanesi, Milano, l986, p. 75. 66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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I MISTERIOSI FEGATELLI DI GINGER E FRED
(4) Claudio Fava e Aldo Viganò, I film di Federico Fellini, Gremese, Roma, l991, p. 174. (5) Si veda René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Parigi, 1961. (6) Suzanne Budgen, Fellini, BFI Education Department, London, 1966, p. 95. L’intervista, rilasciata in italiano, è stata tradotta in inglese da Susan Bennett. Non trovando l’originale, ho dovuto ritradurre l’inglese di Bennett in italiano. Gli echi danteschi di questa affermazione non possono sfuggire agli studiosi del medioevo italiano: “Apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. Cfr. Vita Nuova, XLII. (7) Si veda la recensione di M. Giusti per “Il Manifesto” citata in “Cinema sessanta”, 227, 50. (8) Si veda Mikhail Bakhtin, Rabelais and his World, Indiana University Press, Bloomington, 1984. (9) Questa tesi è il filo-conduttore del recente studio di Peter Bondanella, Il Cinema di Federico Fellini, con un’introduzione di Federico Fellini, Guaraldi Editore, Rimini, 1994. (10) Si veda Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, Routledge, London and New York, 1993, pp. 2 sgg. (11) Ringrazio la mia collega Daniela Bini per avermi suggerito il legame tra i fegatelli e quest’usanza idiomatica di fegato nel caso di Fellini.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ di Cristina Degli Esposti
Il sistema osservazionale della pubblicità Si dovrebbe forse stabilire che cosa intendiamo per pubblicità: quella dei caroselli; quella dei cartelloni ai cigli delle strade o sui muri; quella che si fa solo a parole riferendosi ad altre persone o cose, forse inconsciamente; quella citazionale; quella che viene fatta attraverso le notizie di cronaca; quella della moda; quella che lancia l’uscita di un nuovo film o il ritorno di uno vecchio. Ce ne sono tante di pubblicità, di modi di rendere pubblica una cosa. Ma senza lasciarsi prendere da una sindrome da semiosi ermetica per cui tutto si identifica con tutto, è inevitabile considerare che la pubblicità, in tutte le sue forme, porta alla sostanziale riterritorializzazione dell’atto di comunicare, di citare, vendendo pensieri e commerciando in idee. Questi modi di comunicazione che apertamente parlano al ricevente del messaggio, che citano, imitano, si auto-riferiscono, stimolano l’immaginazione, il mondo sensoriale, e suscitano la sorpresa e il brivido metafisico della meraviglia, sono un’allegoria morfica, generativa, autoreferente di gusto e spirito citazionale, neobarocco, conscio del proprio essere tale. Il contatto che la pubblicità instaura con chi la guarda, ricorda quello stabilito dalla ritrattistica barocca che vede il soggetto ritratto catturare dentro la narrativa 69 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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CRISTINA DEGLI ESPOSTI
del suo sguardo, e per estensione del suo spazio pittorico, l’attenzione di chi ammira il quadro attraverso uno sguardo diretto, coinvolgente. Accattivante come questo tipo di rapporto pittorico di complicità, il modo relazionale impiegato da tanta pubblicità ripropone le dinamiche narratoriali, scopiche-osservazionali e le implicazioni significanti di un testo pittorico barocco autoreferente1. Classificazione dei nostri desideri, cartografia dell’immaginario che comporta una stratificazione di significati, la pubblicità funziona come memoria postmoderna, che obbliga al ricordo come mappa potenziale di una situazione babelica che cela verità nascoste e frammenti di un dizionario forse perduto. Macchina ottica, osservazionale, che allarga il campo prospettico verso diversi possibili itinerari. Forma retorica, piccolo repertorio mnemonico che accumula cataloghi di probabili associazioni di mondi significanti, essa si rivela, al tempo stesso, astrazione e misura del tempo, virtuosismo metaforico dell’immagine. Con la pubblicità si tenta di raccontare una storia che colpisca il nostro immaginario. Forma espressiva della cultura dei mass-media, specchio dell’auto-consumismo della condizione postmoderna; replica immaginativa del mondo delle speranze e dei sogni-desideri che raccontano quello che si vorrebbe, la pubblicità apre le porte del nostro pensare e sentire. Un consiglio per gli acquisti come vuole qualche intrattenitore televisivo, un momento surreale che infrange il ritmo della monotona quotidianità, la pubblicità e i suoi diversi modi di espressione, tra cui anche l’auto-referenzialità, elaborano vari tessuti relazionali che costituiscono dei veri e propri testi. Ognuno di questi testi pubblicitari instaura un commercio di idee che costruisce le sue proprie forme mnemoniche dove parodia, tecniche di sovversione, e carnevalizzazione rappresentano una visione immaginifica ed alterata delle cose. Questo sarà 70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ
particolarmente vero per Fellini, come sostiene Manuela Gieri, in questo catalogo, per quanto riguarda le strategie di sovversione del suo modo pirandelliano, carnevalizzante di fare cinema e, in ultima analisi, di concepire l’immagine filmica anche per la pubblicità2. Le forme di idealizzazione proposte in modo mistificatorio dalla pubblicità attraverso un catalogo di modelli di perfezione rimandano a mondi immaginari i cui percorsi rizomatici costruiscono una riterritorializzazione di una 3 zona dove abitano le congetture della possibilità . La struttura di rete senza fine della figura del rizoma esemplifica un procedimento significante multidirezionale, eccessivo, potenzialmente senza limite; uno spazio digressivo. Questo spazio di digressione mimetica esprime illimitate, indefinite interpretazioni dello stato delle cose. La pubblicità è una forma di rappresentazione, o meglio di “ri-presentazione”, per dirla con Deleuze, che a volte opera eccessivamente ed entra nel territorio di quella interpretazione che Umberto Eco ha definito sovrainterpretazione, dove troviamo un universo aperto in cui ogni spettatore-interprete può scoprire infinite analogiche connessioni di significati4. Vorrei definire questo tipo di sovrainterpretazione che il linguaggio pubblicitario usa per enunciare i suoi messaggi come neobarocco in quanto ridondante, ripetitiva, replicante opera di rilettura metaforica e replicante della realtà postmoderna. Questo modo analitico, illimitato di ragionare è eccessivo, altamente citazionale, mnemonico e ingannevole. In ultima analisi, barocco. La maniera sovrainterpretante propria di tanta pubblicità costituisce un testo neobarocco, un luogo della meraviglia, dello shock metafisico, un effetto trompe-l’oeil dove le prospettive sembrano in rapporto coerente con la realtà, ma ne sono in effetti soltanto uno stratagemma deviante. Comunque, in Fellini questo tipo di interpretazione che 71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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CRISTINA DEGLI ESPOSTI
segue la logica incerta delle analogie è sempre trattato in maniera ironica, autoreferenziale e altamente cosciente di se stesso. È il modo in cui Fellini si rapporta alle varie forme di pubblicità, sia quelle che fanno parte dei suoi testi filmici, sia quelle concepite per la televisione. Le varie forme di pubblicità, che accompagnano le nostre incursioni televisive e occhieggiano alle nostre passeggiate dall’alto dei cartelloni pubblicitari, possono anche essere intese come forme replicanti della realtà della quale forse migliorano, immaginativamente, alcuni aspetti. Prodotti di finzione della realtà sono, come i replicanti del film di Ridley Scott Blade Runner (1982)5, artifici di ripetizione le cui varianti sono sollecitate da dinamismi mnemonici, da virtuosismi barocchi dove la tecnica della citazione, spesso portata all’eccesso, si scontra con i suoi propri limiti. La pubblicità, fenomeno tipico del nostro tempo, propone attraverso cambiamenti metaforici un frammento (dove l’intero è percepito in absentia), non un dettaglio (dove l’intero non è percepito in absentia) della realtà6; questo frammento della realtà contiene il gusto, lo spirito neobarocco della citazione pubblicitaria che rimanda a qualcosa che non è presente. La pubblicità come frammento della memoria, come allegoria dell’assenza, come limite ed eccesso dello slancio creativo, dà la possibilità di replicare il passato variandone concettismi e dinamismi dove, in un livellamento di valori, irrealtà ed esperienza si trovano unite e si attua una ricontestualizzazione dei significati. Nei film di Fellini l’elemento pubblicitario è un’allegoria barocca che altera le prospettive della percezione. È come un frammento nel quale si percepisce l’assenza di una immagine che rimane presente, ma altrove; una piccola superficie che significa se stessa ma rimanda anche alla parte mancante di cui è un riflesso. Simbolica, metafisica, citazionale, barocca, la pubblicità entra nell’universo di Fellini come 72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ
dinamica metafora morfica, un viaggio archeologico che porta al recupero di mondi antichi perduti che hanno origine nei luoghi della memoria. Per Fellini la pubblicità coinvolge una dialettica con i sistemi che la realtà acquista nei suoi film. Il rapporto Fellinipubblicità è a volte il luogo della satira o della denuncia; spesso è invece allegro gioco di significati; un movimento della fantasia. Vocabolario sofisticato che diversifica vari livelli di possibili interpretazioni essa tende poi a cristallizzarsi in un’elaborazione del già vasto repertorio fantastico felliniano, inteso in senso vichiano, cioè fantasticomnemonico. Nei film di Fellini la comparsa della pubblicità prende numerose forme nelle immagini filmiche in una rete, o meglio, in un sistema significante di assi multidirezionali. Essa sembra un veicolo attraverso il quale avviene la dilatazione dell’“universale fantastico” vichiano7. In modo intelligente, Fellini riesce a unire l’aspetto carnevalesco della pubblicità alla componente documetaristicainformativa, ma a volte anche sovrainformativa o “sovrainterpretazionale” della pubblicità stessa, aggiungendo materiale narrativo utilizzato con strutture forti, come quella alfabetizzante-enciclopedizzante, numerologica, in altre parole, episodica, da inventario, da lista, da catalogo (come nella pubblicità della pasta Barilla). A queste si unisce una poetica neobarocca del frammento, attraverso l’arbitrarietà delle più impensate associazioni. C’è indubbiamente, in questa estetica della classificazione, una componente documentaristica che si adatta paradossalmente, in modo appunto barocco all’elemento fantastico-mnemonico, allegorico dell’atto pubblicitario. Questo insolito accostamento risalta maggiormente nella pubblicità che Fellini ha fatto per la televisione. Oltre alla qualità documentaristica si può parlare, a proposito di questa “telepubblicità”, di teatralità esemplificata da Fellini con la dram73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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maticità del dialogo diaforistico (come per la Banca di Roma) o della coralità che ricorda un coro greco (pasta Barilla), che assume tinte accese e implicazioni dedaliche, labirintiche. Se Fellini non ama il gusto volgare, postmoderno dei mass media invadenti, indugia invece nel postmoderno delle (auto)citazioni che alterano la percezione, nel gioco labirintico, nel gusto e nello spirito neobarocco del postmoderno. Che Fellini abbia sempre visto la televisione in termini negativi, se non addirittura apocalittici, è risaputo. Della televisione ha sempre considerato intrusiva la pubblicità. Alla prima presentazione di Intervista su Rai 1, Fellini non volle neppure l’interruzione del TG1 che di solito compare tra il primo e il secondo tempo di ogni film. Ma la sua vera avversione è sempre stata, più che per la RAI, per le televisioni commerciali. Ma come spiegare, allora, la sua collaborazione con le pubblicità della Campari, della Barilla e della Banca di Roma? Forse, nello stesso modo in cui Woody Allen ha ceduto per le cinque pubblicità della COOP. Sicuramente per bisogno di finanziamenti, probabilmente per cimentarsi in una rappresentazione che consensualmente eccede ogni limite; un “frammento” neobarocco quale è, in fondo, ogni spot. Ma prima di arrivare alla “telepubblicità” è opportuno discutere della “cinepubblicità.”
L’infiltrazione della pubblicità nel testo filmico Il fascino del mondo irreale rappresentato dalla pubblicità dei cartelloni cinematografici appare già in Amarcord (1974) dove, per esempio, Gradisca si perde in sogni ad occhi aperti davanti all’immagine di Gary Cooper, mentre si intravvedono un cartellone con Norma Shearer e uno con Stanlio e Ollio proprio durante il passaggio del carro funebre della madre di Titta. Sempre in Amarcord, Fellini indu74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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gia nella parodica presenza di un Dante pubblicizzato su un muro del negozio della tabaccaia. La presenza di Dante nei film di Fellini, già chiara ne La dolce vita (1960), continua ancora ad essere fonte di molti significati. La ritroveremo a fare pubblicità in televisione in Ginger e Fred (1985). Ma ancor prima dei cartelloni di Amarcord, Fellini aveva introdotto un altro tipo di pubblicità religiosa in La strada (1954), con il cartellone che annuncia la presenza dell’immacolata concezione contro il quale viene gettata dalla folla un’attonita Gelsomina. Poi non si può dimenticare la pubblicità del giornalismo da paparazzi che da La dolce vita è diventata una vera e propria industria del pettegolezzo e delle costruzioni iperboliche dei canali delle comunicazioni di massa. La pubblicità che Fellini ci fa intravvedere dai cartelloni che appaiono nei suoi film costituisce un sottotesto, una variante, una digressione narrativa, il rimando ad altri mondi possibili. Spesso le immagini pubblicitarie felliniane appaiono come tableaux vivants in cui si muovono eventi di carattere quasi mitologico, riferimenti di ordine storico o attuale (v. i manifesti di tipo politico), allusioni a narrative di quadri famosi (Anita Ekberg in una posizione da Maya o da modella di Ingres, come ne Le tentazioni del dottor Antonio, 1962), o semplicemente di situazioni familiari come la tastiera della macchina per scrivere in Intervista (1988). Le tentazioni del dottor Antonio si presenta come un breve trattatello filmico, un esercizio barocco sull’impossibilità di rappresentare il desiderio sessuale: “Non solo prefigura gli sviluppi rivoluzionari dello stile di Fellini che risente dell’influenza del suo incontro con Jung, ma incorpora l’interesse di Fellini nell’inconscio all’interno di un discorso implicitamente metacinematico sul ruolo del desiderio sessuale nel cinema e sul responso del pubblico. Tali problematiche sono diventate una questione cen75 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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trale della teoria del cinema durante l’ultimo decennio (...) Le tentazioni del dottor Antonio tocca tali nodi tematici molto tempo prima che essi diventassero di moda nella critica letteraria”8. Prima delle oniriche avventure del dottor Antonio, Fellini che non aveva mai incluso il sogno in nessuno dei suoi film introdurrà, dopo questo esperimento filmico, lo spazio dei sogni in tutti i suoi film. Infatti nel 1963 uscirà 8 e 1/2, che segna la celebrazione del sogno come momento di creazione artistica. È interessante notare che l’incontro di Fellini con la psicoanalisi coincide con il suo esplicito incontro con il medium della pubblicità. Le tentazioni del dottor Antonio mostra il tentativo di far rivivere il momento del passato in cui l’oggetto-modello, rappresentato da un cartellone pubblicitario, vive nell’immaginario. Si inverte così, in modo barocco, il processo originario di rappresentazione. Nel testo filmico si attua il passaggio da una dimensione ad un’altra; una metamorfosi dello spazio per cui lo spazio dell’immaginario si trasforma in quello della realtà. La storia del dottor Antonio Mazzuolo, come nota Barbara K. Lewalski, rielabora la leggenda medievale delle tentazioni di Sant’Antonio eremita in cui il diavolo tentatore si manifestava ripetutamente in forma di belle donne9. Per il dottor Antonio, intransigente difensore della moralità, l’indignazione che prova nel guardare il cartellone pubblicitario dalle dimensioni del Cinemascope è giustificabile secondo la sua formazione cattolica10. La donna gigante che in esso reclamizza il latte è, come Fellini stesso spiega, “la personificazione della sua esagerata percezione dell’immagine della sessualità femminile, nonostante i suoi complessi lo trattengano dal provare piacere nel guardarla”11. Incapace di risolvere questa situazione conflittuale la storia del dottor Antonio finirà in pazzia. 76 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ
Questo trattatello neobarocco sul potere e le tentazioni della pubblicità si conclude con l’immagine di una bambina vestita da cupido, piccolo putto neobarocco irriverente che, mostrando la lingua allo spettatore al di là della macchina da presa e infrangendo una delle regole canoniche della rappresentazione filmica, trasporta lo spazio del reale verso quello della sovrainterpretazione. Con Le tentazioni del dottor Antonio, Fellini orchestra una carnevalizzazione del concetto stesso di fare pubblicità. Pubblicizzare attraverso il cartellone coesiste con il suo contrario costituito dai messaggi che lanciano gli sguardi in macchina del dottor Antonio e del putto-Eros. Essi, infatti, funzionano alla rovescia; fanno, cioè, desistere il destinatario del messaggio dal desiderio di imitare, comprare, possedere, avere, l’oggetto (il segno) che è di solito il fine stesso della pubblicità. La tecnica dello sguardo diretto alla macchina da presa e a chi sta al di là di essa, usatissima nella pubblicità, è sempre stata utilizzata molto più cautamente nel cinema, almeno fino alla odierna inflazione di sguardi in camera spesso usati eccessivamente e immotivatamente, soltanto perché il regime significante della rappresentazione postmoderna ne reclama paternità. In Roma (1972) Fellini ci mostra la presenza della pubblicità principalmente attraverso i cartelloni che occhieggiano dai muri della città, ce n’è perfino uno che invita i cittadini: “Arruolatevi”. Siamo negli anni Trenta e all’entrata del cinema si vedono il volto di Greta Garbo e l’immagine di King Kong. Nel rappresentare una “Festa de Noantri” durante gli anni Settanta, la voce narrante fuori campo spiega che, con questa festa, i romani celebrano se stessi mangiando e bevendo in modo non molto diverso da come facevano mille anni fa o dall’inizio di questo film, o da sempre. All’inizio del film, infatti si era vista una festa alla quale aveva partecipato un Fellini giovane appena arrivato nel77 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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la capitale. In questa festa che conclude anche il film, vediamo Fellini stesso apparire tra un gruppo di persone che camminano verso il centro dell’immagine e verso di noi. Un caso di auto-refenzialità, o forse un caso “involontario” di auto-pubblicità? In un altro episodio del film, che si svolge nella dimora della Principessa Domitilla, Fellini ci mostra che anche la Chiesa non rimane esente dalla tentazione della pubblicità, questa volta resa in un curioso accostamento con il codice espressivo della moda. Eleggendo quale esempio di ciò una singolare sfilata di moda ecclesiastica, Fellini mette in evidenza quella che chiama “coreografia religiosa” con la quale un’intera istituzione indugia nella propria opulenza. Nel rappresentare il papa nella conclusione del défilé, Fellini trova ispirazione, una sera in un bar, nella pubblicità di qualcosa che non ricorda, così scrive12. Ma in un’altra istanza Fellini ricorda di essersi ispirato ad una pubblicità di una birra vista in un bar, dove dei dischi di plastica illuminati dal di dietro giravano lentamente creando un particolare effetto di luminosità mutevole13. Le ormai storiche testimonianze figurative dei film di Fellini costituiscono una vera e propria iconografia riconoscibile nei segmenti rivolti alla pubblicità come le caustiche esagerazioni dei cartelloni pubblicitari e il bombardamento di pubblicità televisiva in Ginger e Fred. Non appena arrivata alla stazione Termini in grande fermento per le imminenti festività natalizie, la signora Amelia Bonetti, in arte Ginger, è assalita da tanti messaggi pubblicitari, il primo dei quali appare in un gigantesco nastro scorrevole: “Sarai anche tu più bello, più ricco, più forte se userai...” beh, non lo sapremo mai. Fellini introduce un’altra immagine dove si vende qualcos’altro: lo zampone. Si vede, infatti, nel bel mezzo della stazione, uno zampone gigantesco che pende dall’alto, tutto illuminato, baroccamente, da una 78 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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spirale di lampadine. È di Fulvio Lombardoni (forse una ironica assonanza che fa pensare alla parola Berlusconi) e tutti sono invitati per un assaggio. Più tardi nel film ci sarà una pubblicità della pasta del Cavalier Fulvio Lombardoni, quella della Mortadella Lombardoni, e più tardi, proprio prima che Ginger e Fred si esibiscano, quella della “Porchetta Lombardoni, per un Natale di più”. Fuori dalla stazione l’aspetta un furgoncino della TV dove sono già saliti personaggi sensazionali. All’apparecchio televisivo che l’autista sta guardando appare un pupazzo, nelle sembianze di Dante, che fa pubblicità e apostrofa il suo messaggio in un toscano rimaneggiato: “In mezzo di cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la dritta via era smarrita. Ma con l’orologio a bussola giammai il sentiero perduto è piuttosto ritrovato”. Povero Dante, la pubblicità gli toglie la possibilità di perdersi e ritrovarsi durante il cammino della sua “comedia”. Prima di incontrare il vecchio compagno di lavoro Pippo Botticella, in arte Albert Light, Fred, vediamo Amelia transitare in un mondo che sembra aver perduto spontaneità, e che replica le forme retoriche dei messaggi pubblicitari in un catalogo di possibili associazioni significanti. Guardando il modo in cui Fellini si rapporta alla presenza della pubblicità notiamo sempre un certo paradossale sentimento del contrario come nel cartellone che, reclamizzando scarpe, apostrofa: “Eleganza, Italian Style” proprio vicino a varie montagne di sacchi neri di rifiuti. Facendo zapping con la tv nella sua stanza Amelia assiste a quello a cui tutti noi assistiamo giornalmente, e cioè un rigurgitare di un ammasso di immagini sconnesse. Più tardi si scontrerà con la spietata legge del mondo sensazionalistico di ciò che fa notizia. Nello spettacolo “Ed Ecco A Voi” in cui lei e Pippo si dovranno esibire c’è una gamma di personaggi la cui buona fede viene crudelmente sfrut79 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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tata per fare notizia. Lo spettacolo, intercalato da un susseguirsi di pubblicità culinarie con forchettoni e piattoni di cibarie varie, è una fiera parodica e carnevalizzante delle meraviglie, della mediocrità, della nostalgia, dello sberleffo. Comunque in mezzo a tutta questa parodia, ci accorgiamo che stiamo guardando il Fellini di sempre. Ce lo ricordano la scrollata di testa che Amelia fa, seccata e irritata dal bicchierino che Pippo si concede prima di andare in scena; l’occhiolino che Amelia fa a Pippo proprio prima di iniziare il loro numero come avevamo già visto fare a Gelsomina tanto tempo fa. Anche nella confusione di un mondo arreso alle tentazioni dei mondi immaginari della pubblicità troviamo, in una frase dell’ammiraglio, un segno di speranza: “gli artisti sono i benefattori dell’umanità”. Alla stazione è tardi e si abbassano le luci; anche lo zampone è spento. Di ancora illuminato c’è solo un televisore il cui suono dà un frenetico vociare che conclude velocemente il film. L’apparire della pubblicità trova spazio quasi all’inizio di Intervista. Vedendo una gigantesca macchina per scrivere sui cui tasti saltellano allegramente tanti ballerini, l’intervistatrice giapponese domanda: “Signor Fellini, fatto Lei quello?”. Fellini risponde: “Ma no, dev’essere pubblicità”, e fa il verso al ritornello: “L’Imperial. Tick tick tack, lavori la metà”. Più tardi nel film la pubblicità ritorna, questa volta in modo più inaspettato con l’apparire di un volto familiare per l’universo felliniano, quello di Marcello Mastroianni. Velata da una nebbia spinta da una folata di vento e nella persona di Snàporaz-Marcello, novello MagoMandrake il cui potere morfico è quello di sbiancare il bucato, di “far pulizia”, la pubblicità offre, questa volta, non un desiderio, ma una speranza. È quell’antica speranza di far ordine, chiarezza e pulizia che ha viaggiato nel tempo, dallo spazio profilmico che 8 e 1/2 costituisce per 80 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Intervista, fino al momento mnemonico, parodico, carnevalesco che vuole Snàporaz-Marcello immaginifico mago e significante del passato. Un lenzuolo bianco che sembra uno schermo cinematografico appare alla finestra in un volare di palloncini bianchi come bolle di sapone giganti. Il rumore del vento accompagna l’apparire di colui che Fellini saluta con un “Ehi, Snàporaz”. È Marcello Mastroianni che, atteggiandosi a mago, dice nel tono e nel linguaggio proprio di uno spot pubblicitario: “Salve ragazzi, siamo nei guai? I soliti problemi finanziari? Non c’è più una lira? Problemi sessuali? Niente Paura. C’è Mandrake. Con due colpi di bacchetta, zack, zack, la tua fava torna eretta”. Fellini scende di sotto dove Mastroianni sta girando uno spot: “Ciao Marcellino, stai bene così”. E Mastroianni: “Grazie. Pubblicità”. E Fellini, laconico: “Eh! A me non me la offrono più, mannaggia”. Durante questo breve dialogo le ragazze in costume da bagno bianco sventolano lenzuoli bianchi e cantano in coro: “Smac, smac, smacchiatutto”. Mastroianni, condizionato dal suo ruolo di portatore di pulizia e ordine, ripeterà la stessa frase quando Anita Ekberg, più tardi si complimenterà con lui per il suo bell’aspetto. In qualità di personaggio della pubblicità Marcello-Mandrake-Snàporaz fa ritornare il passato filmico: “Vorrei esibirmi in un giochetto per onorare la nostra amatissima ospite. La bacchetta di Mandrake. Il mio ordine è immediato. Fai tornare i bei tempi del passato”. Marcello, vestito da personaggio della pubblicità appare come colui che, in una sequenza che cita se stessa, richiama il morfico ritorno del passato. Con La voce della luna (1990), Fellini commenta sulla volgarità e l’omologazione delle immagini della cultura del video e della televisione e su come questa abbia invaso anche la cultura collettiva degli spazi aperti. Nell’Italia postmoderna del film, nota Millicent Marcus, “l’agglomerato 81 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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di incongrui registri culturali e l’approprio di ogni possibile superficie della piazza per far proliferare immagini e ingiunzioni verbali per comprare, creare un’atmosfera densa, claustrofobica che contrae l’espansione dello schermo cinematografico alle dimensioni di quello televisivo”14. Fellini affronta il problema del condizionamento della pubblicità e come questo possa giocare dei brutti scherzi. Impegnato in un dialogo esistenziale con una luna di leopardiana memoria, Ivo, il personaggio in sintonia con le cose della natura, la metamorfosi transfilmica di una Gelsomina ora al maschile, riesce finalmente a sentire la voce della luna, che è la voce dell’amata Aldina. Il loro breve rapporto diaforistico è concluso da questa voce lunare con una paroletta sola: “Pubblicitààààà”. Questo sberleffo mette in luce il mondo manipolato del potere dei mass media e della loro istituzionalizzazione, del condizionamento che deriva dal commercio e dal consumo delle immagini e di come questa dipendenza ormai inarrestabile possa interrompere ogni tipo di altro scambio interrelazionale15.
La pubblicità per la televisione Nel 1984 Fellini intraprende l’avventura della pubblicità televisiva con una serie di spot per la Campari a cui fanno seguito altri spot per la pasta Barilla. Nel 1992 Fellini si cimenta di nuovo con la pubblicità, questa volta per il cambiamento di nome del Banco di Roma in Banca di Roma, con tre episodi che propongono la condizione onirica e il risveglio davanti allo psicanalista, una figura rassicurante, forse modellata sul ricordo del famoso analista junghiano Ernest Bernhard che Fellini aveva conosciuto e frequentato ai tempi di Giulietta degli spiriti (1965)16. La sovrainterpretazione che spesso caratterizza il messaggio pubblicita82 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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rio trova via espressiva nelle parole dell’analista e nel modo in cui Fellini sovrainterpreta ironicamente se stesso e alcuni temi che erano già stati punti cruciali nei suoi film. Nel fare pubblicità per la televisione, Fellini usa la stessa creatività neobarocca che così singolarmente caratterizza i suoi film17. Ritroviamo, infatti, volti simili a quelli che popolano i suoi film. Riconosciamo le musiche che li hanno accompagnati. Lo si vede dall’opulenza della messa in scena del ristorante (per la Barilla); dalle scene in aperta campagna immerse nel suono del vento e dai temi che rincorrono domande in perenne ricerca di una risposta (la Banca di Roma). Il Fellini pubblicitario costruisce a mosaico, recupera qua e là frammenti che vengono da quelle immagini, temi, suoni che sono parte intrinseca del suo universo filmico, ed ora anche del nostro. Sono frammenti in cui, come discusso sopra, l’intero è percepito in absentia. Questo frammento è la replica immaginativa del sogno-desiderio. La pubblicità della pasta Barilla è accompagnata dalla musica de La dolce vita, mentre il nome “F. Fellini” appare nell’angolo in basso a sinistra quale firma dell’artista in una pubblicità d’autore. In un elegante ristorante una coppia sta per ordinare la cena. Alcuni cerchi concentrici al neon riflessi in uno specchio fanno da sfondo allo scintillante luccicare delle luci della sala. Essi ricordano quelli delle otto scene introdotte da simili cerchi di luce durante il sognoviaggio nella città del cinema di Snàporaz in La città delle donne (1980)18. Il riferimento al cinema appare come un transfilmico mise-en-abime. Come ne La città delle donne le luci ricordano il luogo di un set cinematografico, così il set dell’episodio pubblicitario appare, incorniciato dallo stesso tipo di luce da cinema, uno stimolo per la nostra memoria. Nonostante il lungo elenco di piatti francesi proposto dal cameriere, la signora ordinerà pasta Barilla. Tutti i clienti 83 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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CRISTINA DEGLI ESPOSTI
del ristorante voltandosi l’uno verso l’altro e/o verso la macchina da presa ripeteranno in coro la parola “Barilla”19. Il primo spot per la Banca di Roma inizia con la musica della “Gazza ladra” di Rossini che Fellini aveva fatto seguire, in modo così originale, alla “Cavalcata delle Walkirie” di Wagner in 8 e 1/2. All’immagine iniziale della bocca di una galleria segue quella di una macchina che sta per entrarvi. Al nostro protagonista (Paolo Villaggio), nel tunnel, succederà la disavventura di vedersi crollare addosso terriccio e roccia. Ancora prigioniero della sua auto, ansimante come Guido in 8 e 1/2, il nostro protagonista si sveglia da un brutto sogno. Lo ritroviamo immediatamente dal suo psicanalista. “Eh! Bloccato, non si può passare. Ma dobbiamo trovare una via d’uscita. Lo sappiamo che le fiabe del nostro inconscio nell’aggredirci sono spietate, catastrofiche. Ma noi nella vita cosciente con altrettanta intelligenza e fantasia dobbiamo saper organizzare al meglio la nostra difesa. Io penso che la Banca di Roma potrebbe costituire un’eccellente protezione”, lo rassicura lo psicanalista. Ricordiamo che il volo di Guido in 8 e 1/2 viene rivisitato in prima persona proprio all’inizio di Intervista quando Fellini racconta alla troupe giapponese che lo sta intervistando, di aver avuto un sogno proprio prima di incontrarsi con loro. In questo sogno, “in un luogo chiuso, inquietante ma anche familiare le mani toccavano una parete che non finiva mai. In altri film, in sogni come questo mi liberavo volando via, ma adesso, chissà, un po’ più vecchio, un po’ più pesante facevo una gran fatica a sollevarmi da terra. Infine ci riuscivo e mi trovavo librato a grandissima altezza”. Il tema del volo ritorna nella pubblicità a tentare con una rete di domande proprio all’inizio del momento creativo. Con la seconda pubblicità per la Banca di Roma ci troviamo di fronte ad un caso di presenza a frammento. Sentiamo, infatti, la voce fuori campo di Fellini che si offre tra84 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ
duttore delle parole della signora olandese che turba il nostro protagonista, uno sperduto Paolo Villaggio, che la ricorda quando abitava al piano di sopra al tempo del ginnasio. Vestito alla marinara come uno scolaretto degli anni Trenta, personaggio all’Amarcord un po’ cresciutello, la informa che è diventato dirigente d’azienda e che è temuto e rispettato. Frustrato dalla sua incapacità di capire le parole della signora, si guarda attorno smarrito chiedendo se c’è qualcuno che può tradurre. Prontamente una voce baritonale risponde. È Fellini che fuori campo dice “Sì, io” mentre si sente un cigolare di cancelli che ricordano il rumore dei cancelli che aprono le porte di Cinecittà all’inizio di Intervista. La voce continua: “Dice che nel profondo sei rimasto un bambino”. Ora solo con un leone il nostro chiama in aiuto il portiere mentre il leone lo guarda versando una lacrima. Il consiglio dello psicanalista segue prontamente: “Ma perché tiene il suo leone (!!) in cantina, umiliandolo, degradandolo. Suvvia, non lo faccia piangere. A volte l’orgoglio, la fierezza e anche una certa aggressività possono farla sentire più sicuro nella vita. Quella stessa sicurezza che la Banca di Roma può darle in tante altre occasioni”. Nel terzo spot vediamo una scena all’aperto dove un albero, un campo di grano, due solerti camerieri e una nevicata di manine volteggianti come all’inizio di Amarcord, fanno da sfondo al pranzo campestre di una coppia la cui tavola è sui binari di un treno. Al momento del brindisi si vede che, per un cambio di binari, la sedia su cui è seduto il signore rimane imprigionata. Incurante la ragazza è salita su un ramo dell’albero a guardare un treno che sta arrivando in lontananza – un treno che assomiglia tanto a quello che in 8 e 1/2 arriva alla stazione ferroviaria. Vediamo poi il nostro protagonista rassegnato e addirittura legato da una corda che lo immobilizza alla sedia nell’imminenza della sua tragedia, “Proprio adesso che avevo deciso di dire tut85 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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CRISTINA DEGLI ESPOSTI
to a mia moglie”, si dice sconsolato. Dopo il risveglio da questo incubo lo ritroviamo nello studio dello psicanalista che lo ammonisce: “Ma il rischio è gravissimo, non c’è tempo da perdere, e la salvezza non è quella che suggerisce la bella signora. Lei deve diventare macchinista e frenare in tempo per evitare la catastrofe. Caro amico, il timone della vita sta solo nelle nostre mani. La Banca di Roma però può essere provvidenziale nell’indicarle la rotta giusta.” Tutti e tre gli spot per la Banca di Roma finiscono con la musica di Casanova (1976) che introduceva, con un “inizio per acqua”, i titoli di testa e le prime immagini del film con acqua marina in movimento. Queste pubblicità per la Banca di Roma, esplicitamente strutturate attorno alle casualità del sogno ripropongono delle immagini che se non possono rispondere alle domande in cerca di una risposta ne possono almeno dare una interpretazione. La presenza della pubblicità nei film di Fellini funziona a volte come documento-teatro della realtà, a volte come elemento invasivo con cui il regista si confronta. Le pubblicità concepite per la televisione, per i caroselli appaiono come allegoriche strutture sovrainterpretanti. Fellini mantiene la stessa qualità digressiva propria del medium pubblicitario che già appariva nei film, ma questa volta lo concepisce come spazio iperbolico che si allarga per aprire nuove parentesi e includere narrative insospettate con il ritorno di quei tratti musicali (musiche dai suoi film), visivi (situazioni, attori, immagini) che fanno parte del suo mondo significante. Carnevalizzando la forma delle cose e delle idee da commercializzare, Fellini eccede nel modo di rappresentare il testo pubblicitario, sia all’interno del con-testo filmico che all’interno del con-testo televisivo, facendone una sovrainterpretazione della realtà. La pubblicità di Fellini va al di là di una mera espressione di intrattenimento; ne prende la componente documentaristica-informativa per rivelarne il 86 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E LA MACCHINA NEOBAROCCA DELLA PUBBLICITÀ
potere morfico e trasformazionale, il dinamismo barocco, la condizione di replicante; la rende parte di un universale fantastico; ne impiega la macchina ottica, osservazionale, che allarga il campo visivo dei possibili cataloghi di mondi significanti, in un viaggio archeologico che parte e ritorna nel territorio del ricordo, nello spazio della memoria in cui tutti noi costruiamo le nostre storie e di cui tutti noi siamo prigionieri.
Note (1) In altra sede ho discusso il regime scopico-osservazionale neobarocco nel cinema in generale e in particolare in quello di Peter Greenaway. Cristina Degli-Esposti, The Neo-Baroque Scopic Regime of Peter Greenaway’s Encyclopedic Cinema, in “Cinefocus”, 4 (1996), pp. 34-45. (2) Per uno studio sulla presenza dell’influsso pirandelliano e per un’analisi dei concetti di sovversione e carnevalizzazione nel cinema di Federico Fellini e nel cinema italiano in generale, si veda Manuela Gieri, Contemporary Italian Filmmaking: Strategies of Subversion. Pirandello, Fellini, Scola and the Directors of the New Generation, Toronto University Press, Toronto, 1995. (3) Il concetto di rizoma viene discusso da Gilles Deleuze e Félix Guattari in Mille Plateaux, vol.2 Capitalisme et Schizophrénie, Edition de Minuit, Paris, 1980. (4) Umberto Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano, 1995. Eco definisce questa pratica un modo pericoloso di avvicinarsi al significato delle cose perché con un ragionamento analogico-sovrainterpretante si rischia di arrivare alla conclusione che tutto si identifica con tutto. (5) Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Bari, 1987, p. 31. (6) Omar Calabrese, Dettaglio e frammento, in L’età neobarocca, pp. 73-95. (7) Per un’interessante panoramica della presenza del pensiero di Gian Battista Vico nel cinema italiano, si veda Angela dalle Vacche, The Body in the Mirror. Shapes of History in Italian Cinema, Princeton University Press, Princeton, 1991. 87 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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CRISTINA DEGLI ESPOSTI
(8) Peter Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton, 1992, p. 163. (9) Barbara K. Lewalski, The perspective of Literature, Psychology, and Semiotics, in Peter Bondanella, ed., Federico Fellini. Essays in Criticism, Oxford University Press, New York, 1978, p. 113. (10) Peter Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, p. 163, considera la questione della censura cattolica nell’episodio de Le tentazioni del dottor Antonio. (11) Charlotte Chandler, I, Fellini, Random House, New York, 1995, 139. (“the embodiment of his exaggerated image of female sexuality, though he is deterred by his complexes from taking pleasure in looking at her.”). Originariamente pubblicato come, Ich, Fellini, Verlagsbuchhandlung, Monaco, 1994. (12) Citato da Peter Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, pp. 201-2; tratto da: Federico Fellini, “Film ‘Roma’ di F. Fellini: Il défilé.” Fellini MS. 10-4 (Box 2, folder 5). Lilly Library of Rare Books, Bloomington, Indiana. (13) Così ricorda John Baxter, Fellini, St. Martin Press, New York, 1993, p. 275. (14) Millicent Marcus, Filmmaking by the Book. Italian Cinema and Literary Adaptation, Johns Hopkins University Press, 1993, p. 240. (“The mixture of incongruous cultural registers, and the recruitment of every available physical surface in the piazza to proliferate images and verbal injunctions to buy, creates a dense, claustrophobic atmosphere that contracts the expanse of the movie screen to the confines of a television set.”) (15) Cristina Degli-Esposti, Voicing the Silence in Federico Fellini’s La voce della luna, in “Cinema Journal” 33.2 (Winter 1994), pp. 42-55. (16) Tullio Kezich, Fellini, Camunia, Milano, 1987, pp. 302-7; e anche Carolyn Geduld, Juliet of the Spirits: Guido’s Anima in Peter Bondanella, ed., Federico Fellini: Essays in Criticism, Oxford University Press, New York, 1978, pp. 137-51. (17) Cristina Degli-Esposti, Federico Fellini’s Intervista or the Neo-Barque Creativity of the Analysand on Screen, in “Italica” 73.2, Summer 1996, pp. 157-61 (18) Per una dettagliata discussione di questo film si veda Peter Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton, 1992, pp. 318-26. (19) Trascritto dal film.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO di Manuela Gieri
“Questa contiguità, questa lunghissima, interminabile sequenza in cui si è svolta e continua a svolgersi la mia esistenza, mi impedisce di pensare con nostalgia a un passato, che mi sembra del resto tutto inventato, o a un futuro...1” We are such stuff as dreams are made on; and our little life is rounded with a sleep. William Shakespeare, The Tempest2
Della materia dei sogni è il mondo che Federico Fellini ci ha regalato nel corso di quella interminabile sequenza che è stata ed è la sua vita, così come la riviviamo incessantemente nella magica oscurità del cinematografo. È allora impossibile non provare una sorta di imbarazzo, di ritegno e di immensa emozione nel parlare di Federico e di quel mondo meraviglioso e magico da lui creato per tutti noi, ora che lui non c’è più. Mai come adesso però lo sento presente e vicino, ora che mi vedo costretta a ripercorrere un viaggio nella memoria, quel viaggio da lui tanto amato e che poi altro non fu che un lungo ed ininterrotto itinerario nel mondo del possibile, nell’universo misterioso e ineffabile dell’immaginario, seguendo le avvolgenti e affascinanti coordinate del sogno, della seduzione e del desiderio. È seguendo quelle coordinate che forse si può meglio comprendere la misteriosa, a volte inquietante ma pur sempre affascinante presenza dell’immagine pubblicitaria nel lungo ed ininterrotto film che Fellini ha costruito durante una vita intera. 89 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MANUELA GIERI
Il rapporto non è certamente stato unilaterale poiché innumerevoli sono i casi di vero e proprio “cannibalismo” che la pubblicità audiovisiva, ma anche cartacea ha operato sul grande e sinuoso corpo filmico felliniano fatto di immagini e suoni, luce e movimento. Quel corpo è stato ripetutamente appropriato e riproposto come icona o mito della cultura occidentale, ma poi progressivamente svuotato e replicato incessantemente come prorompente ed esaltante simulacro di se stesso e di quella stessa cultura. Ecco allora, su schermi e teleschermi, su manifesti e tabloid materializzarsi e sparire in un moto incessante, in un eterno transito le forme fantasmatiche di Anita e Marcello nella fontana de La dolce vita, le spiagge avvolte da luci cerulee ed atmosfere magiche che ci propongono, raggelati in un eterno presente, frammenti de I vitelloni, Amarcord ed anche forse del Satyricon e di Casanova, e cioè le “tracce” di quello che è stato per tanti di noi e per tanto tempo “il mondo”. In un inarrestabile processo di simulazione, il corpo filmico felliniano si annulla nell’obliterazione del confine tra realtà e immaginario: come ha osservato Jean Baudrillard, nel nostro tempo, il principio di simulazione vince sia sul principio di realtà che su quello di piacere3. È questa indubbiamente l’atmosfera apocalittica, ma non iconoclasta e bensí umbratile che domina l’ultima visione filmica di Fellini, La voce della luna, poema di quei grandi simulatori che sono i lunatici, i folli4. Eppure al termine del film, è proprio Fellini che pare proporre una via d’uscita dal labirinto: nella richiesta di silenzio come unica possibilità per l’acquisizione di senso si ritrova un indubbio richiamo alla sensorialità dell’esperienza. Ecco allora che innestando un circuito “estesico” e non estetico5, si potrebbe rimettere in circolazione il corpo felliniano da sempre infaticabile produttore di fantasmagorie oniriche e seducenti oggetti del desiderio perennemente fluttuanti nell’universo della possibilità. 90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
A questo proposito, profetiche sembrano essere le parole con cui Calvino concludeva la sua Autobiografia di uno spettatore, posta a introduzione della nota raccolta Einaudi di quattro film di Fellini pubblicata nel 1974, “Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lí, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo di essere solo spettatori è la storia della nostra vita”6. Quella distanza che rispondeva e rifletteva un’esigenza di “dilatazione dei confini del reale”, un bisogno di territori incommensurabili quasi “entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti”7 è dunque irrimediabilmente persa anche nella visione funerea e apocalittica dell’ultimo lavoro di Fellini. Eppure alla fine sembra quasi che si prefiguri la possibilità di una nuova funzione espressiva ma anche conoscitiva per il cinema: nell’apertura di un canale comunicativo tra l’esplorativodocumentario e l’introspettivo-immaginario8, tra la luce e il buio, tra il reale e l’irreale. Se è pur vero che ne La voce della luna, “la narrazione procede su due piani, in una moltiplicazione vertiginosa di de-realizzazione: da una parte, la realtà-irrealtà di quanto accade; dall’altra parte, la rappresentazione televisiva”9 de-realizzante, direi, di questa realtà-irrealtà, indubbiamente mi sembra che Fellini proponga una via d’uscita. Per superare la condizione di derealtà che da un lato cristallizza e pietrifica il tutto rendendolo insostituibile, e dall’altro pone l’Immaginario in una posizione di proscrizione, bisogna ritrovare la capacità di dire questa morte: bisogna cioè ritrovare la possibi91 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MANUELA GIERI
lità dell’atto di enunciazione10. È nel superamento della condizione di de-realtà, è nell’eclissarsi di questa condizione paralizzante che caratterizza la “soglia”, l’eterno trespassing, la condizione allucinatoria e allucinata della derealtà che forse si può dunque recuperare il senso11. È questo il significato dell’esclamazione improvvisa di Ivo a colloquio con il Dottorino ne La voce della luna, “...Il fatto è che io non ce la faccio più a restare in questa sospensione, sempre in attesa, come su una soglia. Ed è un’attesa che non ha mai fine. Devo sapere, dovete riuscire a farmi capire...Non è solo per me, anche per lei, per voi, per tutti”12. Ma questo è un altro discorso. Il viaggio che porta alla visione apocalittica e profetica de La voce della luna è durato oltre cinquant’anni. Nel corso di questo viaggio il rapporto tra Fellini, il suo cinema e la pubblicità è rimasto lungamente invischiato negli esiti alterni del giudizio che il regista ha negli anni espresso nei confronti dell’uso massificato della televisione e della pubblicità audiovisiva. Da un lato arcinoti sono i motivi e le tappe della critica mossa da Fellini nei confronti di un certo uso della pubblicità, in particolare quello praticato dalle televisioni commerciali a partire dalla seconda metà degli anni settanta13. Dall’altro noto è anche il percorso della riflessione felliniana sulla differenza tra cinema e televisione come mezzi espressivi, riflessione che comincia a partire da Block-notes di un regista14 nel 1969, anno tra l’altro importantissimo nella nostra discussione poiché di fatto imprescindibile spartiacque anche nel lungo e intricato “discorso amoroso” che Fellini ha intrattenuto con la pubblicità. Noto è dunque il movimento attrattivo e poi repulsivo da lui sperimentato nei confronti della televisione. Da un lato attratto dalla possibilità di sintesi e di immediatezza del racconto televisivo, nonché dalla possibilità di una maggiore intimità col telespettatore, ma poi sempre più consapevole del potere di frammentazione del 92 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
racconto sia grazie allo zapping che grazie alle costanti e intrusive interruzioni pubblicitarie e anche conscio del progressivo “abbassamento” del rapporto tra spettacolo e spettatore, privato come esso è di qualsiasi magia e seduzione nell’asfissiante familiarità dell’ambiente addomesticato della casa massmediologica. Nel lungo monologo che Fellini ci regala nel volume curato da Charlotte Chandler, il regista sintetizza eloquentemente quella che è, direi, la sua posizione conclusiva rispetto al mezzo televisivo commentando sulla sua decisione di girare Prova d’orchestra: “Per me, comunque, la decisione di lavorare per il piccolo schermo andò oltre questioni morali, limitazioni tecniche o ragioni estetiche. Avevo già fatto della televisione due volte prima di allora, Block-notes di un regista e I clowns, ma ogni volta aveva significato inoltrarmi in una nebbia di immagini sfocate e confuse. Provavo un sentimento di ambivalenza nel contribuire ancora una volta all’accozzaglia di immagini con cui la televisione ci riempe la mente ogni secondo del giorno e della notte. Insidiosamente, ci seduce, obliterando ogni residuo di discernimento e sostituendolo con un mondo sintetico alternativo al quale poi dobbiamo abituarci. Peggio ancora, al quale vogliamo abituarci. Vedo la televisione e il suo spettatore come due specchi l’uno di fronte all’altro che riflettono l’infinito ed infinitamente monotono vuoto che c’è tra loro. La domanda che dobbiamo continuare a porci è la seguente: crediamo ciò che vediamo o vediamo ciò che crediamo?”15 Fondamentalmente ciò che Fellini più disdegnava della televisione è, come ha giustamente osservato Peter Bondanella, “la sua riduzione di tutto ciò che presenta allo stesso livello massificato di irrilevanza”16. D’altro canto, egli non fu mai oppositore della pubblicità per sé, ma lo fu dell’uso abnorme che della pubblicità faceva e fa la televisione commerciale ed in particolare, come è noto, quando 93 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MANUELA GIERI
viene utilizzata in maniera aberrante provocando costanti e incontrollate interruzioni del ritmo narrativo del racconto filmico una volta che esso viene proposto come parte della programmazione televisiva17. Testimone attento e curioso dell’avvento della televisione, così come di tutte le grandi trasformazioni del costume e della cultura del nostro paese, Fellini dunque nel corso degli anni affrontò la questione appunto della televisione sia come mezzo espressivo sia come mezzo di comunicazione di massa, e dall’altro ne osservò la trasformazione con l’introduzione delle televisioni commerciali e dunque affrontò e valutò anche l’uso della pubblicità all’interno della programmazione e della comunicazione televisiva. Mi pare comunque che sia necessario mantenere queste due problematiche ben separate da quello che invece è stato un rapporto ben più prolifico e seducente, e cioè quello che sin dalle sue prime esperienze come disegnatore e caricaturista, ma poi anche in seguito come sceneggiatore e regista egli intrattenne con l’immagine pubblicitaria. Già Bondanella nelle pagine introduttive del suo eloquente lavoro monografico ha indicato intelligentemente questo come un fertile percorso di ricerca per comprendere finalmente appieno le ragioni intime di quel particolare discorso filmico che fu di Fellini e solo di Fellini. Ancora una volta ci ritorna alla memoria Italo Calvino quando nella sua Autobiografia di uno spettatore ci faceva giustamente notare che “La forza dell’immagine nei film di Fellini, cosí difficile da definire perché non si inquadra nei codici di nessuna cultura figurativa, ha le sue radici nell’aggressività ridondante e disarmonica della grafica giornalistica. Quella aggressività capace di imporre in tutto il mondo cartoons e stripes che quanto piú appaiono marcati da una stilizzazione individuale tanto piú risultano comunicativi a livello di massa”18. L’inesauribile serbatoio di immagini disforiche19 presenti 94 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
nella satira, nel fumetto e in una certa pubblicità prevalenti negli anni della sua giovinezza, seppur nella loro indubbia violenza enunciativa, offrivano a Fellini un affascinante percorso verso la costruzione di una sempre più seducente immagine filmica carica di potere espressivo ma anche di forza comunicativa. Ecco che allora appaiono in nuova luce i suoi esordi pre-cinematografici testimoniati ad esempio da quella raccolta di una quarantina di articoli pubblicati sul Marc’Aurelio già nel 1939 sotto il titolo di Il raccontino pubblicitario, in cui Fellini offriva un’esilarante parodia di popolari pubblicità cartacee o radiofoniche del periodo20. La storia del lungo ed ineffabile rapporto di Fellini con l’immagine pubblicitaria è indubbiamente definibile come un inesuasto e inesaurito percorso di appropriazione e di seduzione che ha prodotto esiti diversificati nel corso del suo magico viaggio nell’immaginario. Si può infatti parlare di un’attrazione fatale, di una vera e propria tentazione nei confronti dell’immagine pubblicitaria, tentazione interna al racconto prima e alla stessa immagine filmica felliniana poi. Nella prima fase della sua cinematografia, la pubblicità, per lo più esemplificata dalle immagini dei fumetti e dalle rappresentazioni cartacee degli eroi di un già mitico mondo filmico sembra offrire al mondo di Federico soprattutto nuove ed impreviste possibilità a livello del personaggio. Sul piano del racconto, l’immagine pubblicitaria partecipa come allargamento dello spazio narrativo in senso metaforico: si pensi ad esempio alla famosa sovrapposizione dell’immagine di Gelsomina su quella del manifesto pubblicitario della processione per la madonna ne La strada che appunto aggiunge un surplus metaforico alla già complessa parabola del testo. All’interno della diegesi, nei primi film felliniani la pubblicità rimane per lo più limitata ai manifesti murali, e partecipa allo sviluppo del 95 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MANUELA GIERI
discorso aggiungendo una significazione verticale, benefica e minacciosa al tempo stesso. Si pensi a questo proposito da un lato ai manifesti murali nella piazza del paese de I Vitelloni nella sequenza notturna in apertura al film e alla loro funzione limitativa di uno spazio già circoscritto e claustrofobico; dall’altro si ricordino invece i cartelloni pubblicitari dei film che stanno sullo sfondo al ritorno di Fausto e Sandra dal loro viaggio di nozze a Roma/Africa/America, rinviando dunque al sogno/desiderio del viaggio e della fuga. Mentre però nella prima cinematografia felliniana la sintassi dei messaggi murali rimane per lo più imprigionata dalla tensione prosaica, documentaria e lineare dei testi, nel tempo l’ambiguità del manifesto sarà enfatizzata dal cinema di Fellini che sempre di più sarà consapevole del tipo di enunciazione e di comunicazione che tale messaggio prevede e provoca: “Il manifesto partecipa della complessa magia del muro, che è insieme ostacolo e sostegno, schermo che occulta e riceve, spazio che arresta e che si proietta ... Diverso dal gesto familiare, quasi domestico, attraverso il quale noi “consumiamo” gli annunci della stampa e della radio, il gesto sotteso al manifesto murale ci riconduce, in forma più enigmatica, all’atto stesso in virtù del quale noi esistiamo e che, irriducibile a un atto che lo preceda, consiste nel tracciare una differenza”21. Ecco che, in quella lunga ed interminabile sequenza che è stato il viaggio filmico felliniano, è possibile affermare che nella prospettiva che si costruisce seguendo un’avvincente tentazione alla temporalizzazione extradiegetica dello spazio della diegesi, il tempo de I Vitelloni e de La strada, come del resto di tutti quei racconti che precedono La dolce vita, è ancora il tempo del paese e della provincia, d’un mondo circondato dalla distesa del mare che si allunga sull’orizzonte a perdita di vista. Il racconto è ancora dominato da 96 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
esigenze documentarie, realistiche e lineari: la prima ossessione è dunque ancora quella della rappresentazione. La sintassi e la morfologia del sogno e del desiderio sono ancora imbrigliate dal discorso della realtà. Ma se è vero ciò che afferma Serge Toubiana in un editoriale a commento della presentazione de La voce della luna al Festival di Cannes, e cioè che, “La civiltà comincia là dove uno lascia il paese per entrare nella città ... Al principio, il cinema è stato subito il mezzo possente della transizione da un mondo piatto (la campagna, a perdita d’occhio) verso un universo caotico, dove lo sguardo è obbligato ad andare dal basso verso l’alto: la città moderna”22. È a partire dal 1959 e da La dolce vita, il film forse più amato da Fellini com’egli spesso ebbe a dichiarare23, che non solo il regista si libera dell’esigenza di un discorso lineare, ma anche libera finalmente tutte quelle suggestioni oniriche e seducenti che sempre più vanno a fondare e irreparabilmente emanano dalle immagini pubblicitarie. È con La dolce vita che Fellini, com’è stato spesso osservato, si libera definitivamente della storia e del racconto. La dolce vita fu il primo film interamente discontinuo in cui la linea narrativa seguiva una costruzione per accumulazione di blocchi eterogenei che formavano una trama tessuto di pura contiguità. Alla logica della linea retta si sostituiva quella del cerchio aperto, il mondo del circolo vizioso, della linea curva ininterrotta ove regna la contaminazione, ove ognuno è legato a un altro senza sapere né come né perché. Otto e mezzo ne sarà la dimostrazione più immediata e più eclatante24. Quella pubblicità prevalentemente cartacea che nella diegesi dei testi filmici precedenti svolgeva una funzione essenzialmente metaforica ma che mai intaccava nel profondo l’esigenza realistico-documentaria prevalente nel racconto, diviene ora da un lato nelle sue rappresentazioni murali “biblioteca delle strade” come la definì Maiakovskj e anche 97 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MANUELA GIERI
“panorama iconografico del nostro tempo” come l’ha descritta Gillo Dorfles25, ma dall’altro lato, nella genesi stessa dell’immagine filmica felliniana, diviene ineffabile tentazione interna poiché, come la pubblicità, tenderà a costruirsi sempre di più secondo le logiche della metonimia che, quando combinata con le figure dell’antitesi e dell’ellissi, consente un certa libertà nella trattazione del senso26. Come ha osservato Roland Barthes, “Il fatto è che la metonimia instaura durante il processo semantico una sorta di contagio nonorientato, da cui in definitiva è il prodotto che trae vantaggio. E se la metonimia è importante in pubblicità, lo si deve al fatto che il contagio di cui essa è soltanto la forma specifica, è lo stesso contagio del desiderio ... il potere della metonimia è immenso: essa fornisce al desiderio il mezzo per accedere al senso, e di lì al racconto”27. Se da un lato è vero che fu Otto e mezzo il film che in modo più esemplare ed eclatante dichiarò l’urgenza di una vera e propria liquidazione del problema della rappresentazione, liberando la narrazione dalle esigenze del racconto e della storia, è pur anche vero che un altro racconto filmico che precede di un solo anno Otto e mezzo ed è quasi necessaria transizione tra questo e La dolce vita, svela la lucida autoconsapevolezza con cui Fellini andava districando sia le ragioni del suo lungo affascinamento con l’immagine e il messaggio pubblicitari, sia le trasformazioni interne subite da quel lungo ed inesausto discorso amoroso. Il testo a cui si fa qui riferimento è ovviamente l’episodio felliniano incluso in Boccaccio ’70, e cioè quello che porta significativamente il titolo Le tentazioni del Dottor Antonio. Numerose sono state le analisi di questo piccolo-grande film datato 1962 e, a parte le diverse valutazioni per così dire estetiche del testo, tutte ne ravvedono la centralità nello sviluppo della cinematografia felliniana così come essa si muove da un’iniziale esigenza “oggettiva” e rappresentaziona98 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
le a una decisamente più soggettiva e figurativa, nel suo progressivo appropriarsi del discorso del sogno, della seduzione e del desiderio28. È infatti a partire dalla messa in forma delle “tentazioni” del Dottor Antonio/Federico che, in maniera sempre più evidente ed esplicita, il discorso pubblicitario si prefigura come vera e propria tentazione interna dell’immagine felliniana. È in questo testo che si assiste letteralmente al passaggio da una forma “prosastica” della realtà alla forma ineffabile dell’immaginario onirico così simile alla sintassi e alla morfologia del desiderio, un passaggio in cui significativamente Anitona è oggetto e soggetto del discorso. È l’acquisizione di movimento che la porta a lasciare il territorio della reificazione e a invadere lo spazio e il tempo della grande narrazione, cioè della Storia, ma qui già mitizzata e iconicizzata nella forma che il cinema le aveva dato. Nel momento in cui Anita lascia il cartellone e, gigantesca immagine fantasmatica, prende in mano il minuscolo Dottor Antonio, dando corpo alle paure e ai desideri dell’immaginario maschile collettivo, non si assiste solo a uno dei tanti momenti metadiscorsivi del cinema di Fellini, come è stato giustamente osservato29. Ma nella non secondaria inversione del corpo grande-piccolo/donna-uomo, si può ravvedere anche un sovvertimento umoristico, segno di un’appropriazione ironica del grande corpo filmico costruttore delle più potenti mitologie della nostra epoca. Ecco che allora il segno diviene qui doppiamente segnico, e l’immagine di Anita, da icona e mito appunto della nostra civiltà, diviene vero e proprio simulacro. D’altronde, come ha indicato Roland Barthes, l’appropriazione del messaggio pubblicitario e il suo utilizzo eversivo per scopi di riflessione ironica è l’unica possibile risposta che l’artista può dare al messaggio pubblicitario, “nell’appropriarsene, nel falsificarlo, combinando in forma nuova le unità che a prima 99 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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vista sembrano comporlo naturalmente. Questo plagio, segno di libertà, costituisce un atto di profonda ironia, che attualmente è il solo mezzo a disposizione per poter parlare, a nostra volta, la lingua delle comunicazioni di massa”30. È nell’individuazione consapevole di Anita/Sylvia de La dolce vita come iconografia del desiderio stesso, che in un primo momento Fellini la trasforma in manifesto-schermo delle proiezioni erotiche di un represso immaginario maschile. Svuotato dapprima della propria essenza e poi riempito dal latte/prodotto/merce, il corpo di Anita diviene immagine pubblicitaria. In seguito, però, a contatto con la sensorialità di Antonio, il corpo/fantasma viene poi svuotato della merce e diventa così segno doppiamente segnico, cioè non più solo segno che si riferisce direttamente a ciò che denota ma si identifica anche con il prodotto che è ormai chiamato a designare e cioè il desiderio stesso31; diviene cioè vero e proprio simulacro del desiderio. È indubbio che Le tentazioni del Dottor Antonio sia uno dei testi più autoriflessivi della cinematografia felliniana, un testo in cui il regista dà forma al suo fervido immaginario ma in cui anche traccia con lucidità e consapevolezza un percorso espressivo che lo porterà sempre più lontano da quelle esigenze documentario-realistiche e rappresentazionali che avevano caratterizzato il suo primo cinema. Perché il viaggio proceda, però, il grande corpo filmico felliniano dovrà necessariamente liberarsi non solo dalle esigenze del racconto ma anche da quelle della Storia, quel discorso che sempre più gli si prospettava nelle sue caratteristiche di linearità e monologismo: una forma di enunciazione e di significazione fondamentalmente “isteriche”. Per una comprensione della posizione di Fellini su questo punto, e cioè sull’opportunità e l’utilità della messa in forma del passato in un discorso che non sia più quello della Storia, sembrano di estrema utilità le osservazioni 100 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
fatte a suo tempo da Roland Barthes quando scriveva: “Che cos’è la storia? Non è forse semplicemente quel tempo in cui non eravamo ancora nati? ... La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi. Come essere vivente io sono esattamente il contrario della Storia, io sono ciò che la smentisce, che la distrugge a tutto vantaggio della mia sola storia (impossibile per me credere ai “testimoni”; impossibile, per lo meno, essere un testimone)”32. A partire da Le tentazioni del Dottor Antonio e poi per un intero decennio culminante con la “trilogia romana”, Blocknotes di un regista, Roma, Satyricon passando necessariamente per I clowns, cioè gli anni tra il 1969 e il 1972, Fellini chiude e liquida definitivamente quelle che erano le esigenze della rappresentazione, della testimonianza e della fedeltà: chiude col tempo della città ed entra significativamente nel tempo della metropoli. Da allora è lo sguardo del flâneur, non quello del testimone, che domina la sua visione, e la sua immagine conquista definitivamente l’eterna presenza del desiderio, in perpetuo transito tra un presente e un altro presente. “Ci sono tre tempi: il passato, il presente e il regno della fantasia. Chiaramente il tempo futuro può essere tempo del “E se?”. Viviamo nel presente ma siamo influenzati dal passato, che non possiamo cambiare se non nel nostro ricordo. Il presente è fatto del passato. È il tempo a cui mi piace pensare come all’eterno presente”33. Nella sequenza conclusiva di Lisbon Story, uno degli ultimi film di Wim Wenders, dopo un’estenuante tirade fortemente didattica e didascalica sullo statuto dell’immagine filmica, uno dei due protagonisti, il regista Manoel De Oliveira, rivolgendosi al tecnico del suono, che nel corso della storia aveva investigato i rapporti tra suono e immagine con pedanteria seppur a tratti regalandoci anche momenti 101 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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di rara e neo-barocca bellezza, chiude il lungo percorso del regista tedesco nel labirintico territorio della memoria, affermando che “La memoria è l’unica cosa vera. Ma la memoria è un’invenzione.” Si riconosce qui dunque alla memoria la capacità di inventare e dunque di creare o meglio ricreare il passato. È questo l’unico passato “vero”, quello cioè che si è in grado di ricordare. Il resto rimane intrappolato nella problematica claustrofobica “vero/falso” in cui si scontrano le varie generazioni di testimoni. Molto simile è la posizione di Fellini che sempre ha rivendicato le ragioni della fantasia nell’esercizio dell’atto mnemonico, ed è stato in gran parte grazie alla sua costante sfida alle barriere tra vero e falso, tra reale e immaginario che l’immagine felliniana è divenuta nel tempo vero e proprio simulacro ed è stata progressivamente appropriata, fagocitata e continuamente replicata dall’immagine pubblicitaria. Va notato qui che d’altronde è proprio a partire dagli anni sessanta che la pubblicità diviene sempre più onirica e registra la crescente scomparsa del referente. “Il referente, che era il prodotto (e quindi doveva essere il termine finale della comunicazione pubblicitaria), si avvia sempre più ad essere il pretesto di partenza di una creazione immaginaria che poi “viaggia” per conto proprio nella memoria del pubblico”34. Nel progressivo svuotamento dal corpo del prodotto, dal referente-merce che caratterizza il messaggio pubblicitario degli anni ottanta-novanta si può leggere un interessante gioco di specchi: da un lato la pubblicità tenderà sempre più ad appropriarsi del grande corpo filmico, ed in particolare del cinema con tentazioni artistiche, cioè il cinema d’autore; dall’altro, nella scomparsa del referente e nell’accentuarsi delle strategie desideranti e seduttive del messaggio pubblicitario si ritrovano le ragioni della tentazio102 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
ne interna all’immagine filmica felliniana verso appunto il discorso seducente della pubblicità. A parte dunque l’uso citazionale, digressivo e sovratestuale della pubblicità, vuoi cartacea vuoi poi audiovisiva, mi pare che si possa attestare che l’immagine felliniana a partire dagli anni sessanta tenda irresistibilmente a costruirsi secondo le logiche desideranti che sempre più sono venute a caratterizzare i messaggi pubblicitari e ne fanno “tracce”, immagini sature, sintetiche spazialmente e temporalmente della nostra cultura. Svuotata del referente-merce, la pubblicità altro non è se non discorso della seduzione e del desiderio che si costruisce nel piacere dell’iterazione con un linguaggio fondato sul gioco incessante dell’eterno ritorno del già noto e del già desiderato35. Liberata dalle esigenze del racconto e della Storia, svuotata dunque di un referente, ma avvinta nel gioco dell’eterno ritorno del già ricordato, del già sognato e del già desiderato, grande, avvincente e fantasmatico eterno femminino, l’immagine felliniana tese dunque progressivamente a costruirsi secondo le logiche seducenti del sogno e del desiderio. In margine, ma non a liquidazione di questo mio viaggio nel mondo di Fellini, mi tornano qui alla memoria le parole di Ivo Salvini ne La voce della luna, “...Come mi piace ricordare, piú che vivere. Del resto che differenza fa?”36. Note (1) Federico Fellini, Fatemi fare l’Italia. Goffredo Fofi intervista Federico Fellini, “Corriere della sera”, Inserto 7.31 (1992), p. 34. (2) William Shakespeare, Riverside Shakespeare, Hoghton Mifflin Co., Boston, 1974: IV.1, p. 1630. (3) Jean Baudrillard, Simulations, Semiotext(e), New York, 1985, p. 152. (4) Ibid, 7. Per quanto riguarda l’interpretazione de La voce della luna, tanto si deve a recenti e puntuali analisi quali il saggio di Millicent Marcus, “Fellini’s La voce della luna: Resisting Postmodernism” appar103 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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so nel suo volume intitolato Filmmaking by the Book: Italian Cinema and Literary Adaptation, The Johns Hopkins university Press, Baltimore and London, 1993: pp. 225-48, in cui l’autrice appunto ipotizza che nel suo ultimo testo filmico Fellini definisca almeno la ricerca di una possibile resistenza alla perdita di senso caratteristica dell’universo postmoderno; ma anche lo studio degli esiti neo-barocchi di quest’ultimo lavoro del regista scritto da Cristina Degli-Esposti, e cioè “Voicing the Silence in Federico Fellini’s La voce della luna,” Cinema Journal 33.2, Winter 1994: pp. 42-55 e, ovviamente, il determinante contributo di Peter Bondanella nel suo volume The Cinema of Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1992. (5) Ibid., 141. (6) Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore in Federico Fellini, Quattro film, 1963; Einaudi, Torino, 1974, p. XXIV. Il brano di Calvino è poi stato ripubblicato tra l’altro anche a prefazione della nuova edizione di Fare un film, 1980; Einaudi, Torino, 1993. (7) Ibid., XVIII. (8) È interessante notare che già Calvino individuava in queste due direzioni del cinema dell’osservazione ravvicinata la funzione conoscitiva del cinema. Ibid., XX. (9) Lietta Tornabuoni, Sessanta-Novanta in Federico Fellini, La voce della luna, La Nuova Italia, Firenze, 1990, p. 11. (10) A questo proposito si veda Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, 1977, Einaudi, Torino, 1979, pp. 74-5. (11) Sulla questione del trespassing, dell’eterno transito, vedi Mario Perniola, Transiti: come si va dallo stesso allo stesso, Cappelli, Bologna, 1985, ma anche Anna Camaiti Hostert, Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze, Castelvecchi, Roma, 1996. (12) Federico Fellini, La voce della luna, Einaudi, Torino, 1990, p. 46. (13) Numerosi sono stati negli anni gli interventi di Fellini a questo proposito. Si veda ad esempio l’intervista concessa a Bruno Blasi, Spot teppisti: intervista con Federico Fellini, “Panorama” 27 (5 novembre 1989), p. 55. Ma anche le dichiarazioni riguardo a pubblicità televisiva e televisione incluse nel volume curato da Charlotte Chandler, I, Fellini, Random House, New York, 1995: 224-7. Riguardo invece la valutazione critica della posizione di Fellini a questo riguardo, prezioso è ancora una volta il già citato volume di Peter Bondanella. (14) Si veda a questo proposito Federico Fellini, Fellini TV: “Blocknotes di un regista”/“I Clowns”, a cura di Renzo Renzi, Cappelli, Bologna, 1972, pp. 209-13. 104 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI, LA PUBBLICITÀ E GLI INEFFABILI OGGETTI DEL DESIDERIO
(15) Chandler, ibid., p. 194: “For me, however, the decision to work on the small screen went beyond a questions of morals, technical limitations, or aesthetics. I had done television twice before, A Director’s Notebook and The Clowns, but each time it meant walking into a fog of blurred, confused images. I felt ambivalent about contributing again to the jumble of images with which TV fills our minds every second of the day and night. Insidiously, it seduces us, obliterating every vestige of discernment, substituting an alternative, synthetic world to which we must adjust. Worse yet, we want to adjust to it. I see TV and its viewer as two mirrors facing each other, reflecting between themselves an infinite void, endlessly monotonous. The question we must keep asking ourselves is, Do we believe what we see or do we see what we believe?” Se non altrimenti specificato, tutte le traduzioni dall’inglese e dal francese sono mie. (16) Bondanella, ibid., p. 223: “its reduction of everything it presents to the same mass level of insignificance.” (17) Ibid., p. 222. (18) Calvino, ibid., p. XXII. (19) Roland Barthes, Società, immaginazione, pubblicità, in AA.VV., Pubblicità e televisione, ERI, Roma, 1968, pp. 172-3. (20) Bondanella, ibid., pp. 3-29. Si vedano anche Angelo Olivieri, L’imperatore in platea: i grandi del cinema italiano dal “Marc’Aurelio” allo schermo, Edizioni Dedalo, Bari, 1986 e Adolfo Chiesa, a cura di, Antologia del “Marc’Aurelio” 1931-1954, Casa Editrice Roberto Napoleone, Roma, 1974. (21) Barthes, ibid., pp. 165-6. (22) Serge Toubiana, Chut! une image, “Cahiers du Cinéma”, 431/432 (Maggio 1990). Per un discorso sulla topografica del desiderio contemporaneo, si veda Augusto Illuminati, La città e il desiderio. Realtà e metafore della moderna desideranza, Manifestolibri, Roma, 1992. (23) Fellini, Fatemi fare l’Italia, ibid., p. 30. (24) Thierry Jousse, La voce della luna. La fée électricité, “Cahiers du Cinéma” 431/432 (Maggio 1990), p. 20: “La Dolce Vita, premier film entièrement discontinu où à la ligne narrative succédait une construction par accumulation de blocs hétérogènes formant un tissu de pure contiguité. A la logique de la ligne droite se substituait celle de la ronde ouverte, le monde du cercle vicieux, de la ligne courbe ininterrompue où la contamination règne, où chacun est lié à chacun sans savoir ni pourquoi, ni comment. Huit et demi en sera l’illustration la plus immédiate et la plus éclatante.” 105 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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(25) Barthes, ibid., p. 166. (26) Barthes, ibid., p. 169. (27) Barthes, ibid., p. 169. (28) Si veda la recente ed esaustiva analisi di Peter Bondanella in cui il critico fa giustamente riferimento alla citazione diretta di un classico della rappresentazione filmica del desiderio maschile collettivo, e cioè King Kong, ibid., pp. 159-63, ma anche quella di Brunello Rondi, Il cinema di Fellini, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1965, pp. 298300, Barthélemy Amengual, Une mythologie fertile: Mamma Puttana in Gilles Ciment, a cura di, Federico Fellini, Éditions Rivages, Paris, 1988, pp. 32-9, e Frank Burke, Fellini’s Films: From Postwar to Postmodern, Twayne, New York, 1996, pp. 113-23. (29) Bondanella, ibid., p. 160. (30) Barthes, ibid., pp. 173-4. (31) Gillo Dorfles, Morfologia e semantica della pubblicità televisiva, in AA.VV., Pubblicità e televisione, ibid., pp. 179-80. (32) Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980, pp. 66-7. (33) Fellini in Chandler, ibid., p. 285: “There are three tenses: the past, the present and the realm of fantasy. Clearly, the future tense can be the “What if?” tense. We live in the now but we are influenced by the past, which we cannot change except in our memories. The present is made of the past. It is the tense I like to think of as the eternal present.” (34) Umberto Eco, Ciò che non sappiamo della pubblicità televisiva, in AA.VV., Pubblicità e televisione, ibid., p. 204. (35) Eco, Ibid., p. 203. Sulle strategie discorsive della pubblicità molto è stato scritto, si veda ad esempio Alberto Abruzzese, Metafore della pubblicità, Costa & Nolan, Genova, 1988. (36) Fellini, La voce della luna, ibid., p. 27.
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FELLINI E L’IMPOSSIBILE PUREZZA di Sergio Brancato
Non vi è dubbio che la cultura grafica a cavallo tra i due secoli sia l’autentico luogo di nascita dell’immaginario felliniano. Più che il cinema americano o la memoria della tradizione artistica nazionale, è il disegno dell’illustrazione popolare e del fumetto a costituire il vero polo magnetico nella formazione del regista riminese, che prima di diventare tale era un piccolo, precoce imprenditore della caricatura a uso e consumo dei turisti balneari e, successivamente, un collaboratore a cottimo per le vignette umoristiche de “La Domenica del Corriere”. Più che a John Ford o Erich von Stroheim o René Clair, dunque, la sua fantasia viene sagomata sulle ariose configurazioni architettoniche di Alex Raymond, il cui ardito liberty Fellini contribuirà a falsificare negli anni della legge Altieri, e soprattutto sulla metafisica dello spazio ristretto e lancinante (un po’ simile alle Due Terre dell’antico Egitto) dei comics di Frederick Burr Opper. Ma accettare questo punto di vista ci porta necessariamente a considerare la geografia di un universo che si estendeva, ancora parzialmente in salvo dal peso ideologico delle tassonomie artistiche, dalla ricerca più avanzata sull’immagine pittorica e sulle modalità della percezione alla pratica quotidiana della comunicazione pubblicitaria, la réclame veicolata dai manifesti che arredavano gli spazi inediti del107 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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SERGIO BRANCATO
lo sguardo metropolitano. Sulla scena fortemente conflittuale della nascente industria culturale, figure ibride di un’arte mutante, coprivano la distanza tra linguaggi espressivi e merce, rovesciando i ruoli della produzione e del consumo in un’estetica nuova, basata sulla lateralità e la commistione delle forme. L’immaginario di Fellini si modella su questo rovesciamento, di cui gode gli effetti nella provincia italiana che scopre l’energia frenetica dei consumi e l’abbattimento dei localismi in un flusso della comunicazione sempre più articolato. L’affiche si offre ai suoi occhi con la vivacità dei colori e le immagini inusitate che trascinano fuori dell’immanenza fenomenologica dell’esistenza e producono processi di elevata astrazione. Mentalità e comportamenti si trasformano, e trasformano la provincia, caricandola di ombre ai margini del riverbero elettrico di un’illuminante modernità. È questo lo scenario che motiva l’estetica di Fellini, sempre giocata negli spasmi tra contraddizioni forti. Spostarsi a Roma, a ridosso dei set di Cinecittà, significa conquistare e perdere nello stesso tempo. Il periodo del dopoguerra e della ricostruzione è fatto, antiteticamente, di entusiasmi e rimpianti. Il tempo del boom è sospeso, in una husserliana epoché, tra seduzione e disincanto. Il salto verso la dimensione metropolitana e la compiutezza dei suoi linguaggi verrà congelato a metà della traiettoria. Il Fellini “autore”, alla fine, resta impantanato in una fase dei conflitti di culture integralmente ancorate a un dibattito sulle forme estetiche che non contempla il passaggio qualità-quantità, la rivoluzione liberatoria e festosa del consumo di massa che lui vivrà sempre con sottrazione e colpa. Eppure, nelle sue radici si inscrive quella contaminazione tutta contemporanea di un nuovo contratto sociale, della negoziazione non certo pacifica, che segna la nascita del pubblico 108 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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FELLINI E L’IMPOSSIBILE PUREZZA
come entità mobile e centrale dei processi dello scambio economico e della comunicazione. Quello stesso pubblico che andrà ai suoi film, troppo presto ipostatizzati nel mid-cult raggelante dell’opera d’arte, integrandoli nelle proprie strategie e rendendoli parte di una pratica mediale multilingue e di un gusto ad ampio (per lui troppo) spettro di “sapori”. Quello stesso pubblico disegnato con astio in un film come Ginger e Fred, massima esemplificazione e radicale semplificazione del contrasto cinema-televisione su un piano, tuttavia, inesorabilmente attardato. Fellini, al fondo, si duole del transito, avvenuto sotto i suoi occhi e per questo più doloroso, dalla solida centralità dello spettacolo a quella più scontornata e sfuggente dell’informazione. Un attraversamento in cui il rammarico cresce costantemente da Le luci del varietà a Lo sceicco bianco, fino a I clowns e Prove d’orchestra, tutti film che si ricompongono in un quadro quanto mai omogeneo, autentica corrente carsica nella filmografia del regista, che culmina proprio nel film j’accuse del 1985, in cui la sua concezione della città come set si sfalda nell’insostenibilità di un territorio che si estende fattivamente sulle direttrici immateriali della comunicazione elettronica. Non è più possibile, a quel punto, ricostruire la fascinazione scenografica di una vita vissuta in modo pre-televisivo. La volgarità della televisione è sottolineata dall’ossessiva presenza di immagini e suoni della pubblicità, traduzione espressiva di un’opposizione idealistica alla merce e alle sue dinamiche inevitabili sul corpo. Ma, oltre il discorso palesato, il rapporto tra Fellini e la pubblicità è intimo e profondo. Risale appunto a quelle figurazioni incrociate, plurilivellari, cui ci si riferiva in precedenza, all’incidenza dell’ambiguità discorsiva dell’universo grafico sulla sua formazione. Si esplica nell’immaginario dell’origine (non a caso provinciale e minore) di Amarcord, pura estetica del109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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SERGIO BRANCATO
la nostalgia che, pur tuttavia, è essa stessa un meccanismo fondamentale delle forme estetiche di massa. Ben oltre il diretto riferimento agli spot Campari e Barilla da lui girati negli anni Ottanta, in assoluta prossimità al “manifesto” Ginger e Fred, Fellini risulta intriso di una cultura di cui la pubblicità è un elemento essenziale. Le immagini dilatate sul grande schermo de La dolce vita mostrano Anita Ekberg ripercorrere i passi di una coreografia del desiderio che si sovrappone a tante altre della memoria collettiva, e il desiderio muove la macchina del consumo, la anima con le sue pulsazioni, le dà forma in costellazioni semiotiche connesse alla specifica natura tecnologica del linguaggio agito. Nel gioco di oscillazioni tra grande formato nel cinema anni Sessanta e piccolo formato del cinema post-televisivo leggiamo il destino di una cinematografia nazionale incapace di affrontare la transizione verso un sistema mediale complesso, paradigmaticamente diverso, di cui Fellini è un simbolo, un sintomo e un esito. Il suo décor programmatico, che ha il sapore di vecchie estetiche pubblicitarie, specchio di una Italia dalle accennate pulsioni moderniste, attraversa il tempo per fissarsi nelle piccole icone sequenziali dei fumetti di Milo Manara, realizzazione a basso costo e con spostamento di campo per alcuni tra quei progetti incompiuti e, perciò, mitizzati dal regista. Il viaggio di G. Mastorna e Viaggio a Tulum ripropongono una grafica densa di rimandi, per molti versi “sporca”, dietro l’apparente levigatezza della linea chiara di Manara. Operazioni “marginali”, forse decadimento delle possibilità originarie, queste traduzioni a fumetti ci restituiscono, in ultima analisi, un’attendibile interpretazione dell’immaginario di Fellini, palesando le diverse sostanze che lo costituiscono e l’impossibile purezza delle fantasmagorie industriali.
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LA PUBBLICITÀ E LA STORIA: UNA NOTA DAGLI IMMAGINARI FELLINIANI di Marco Bertozzi
Con questo breve saggio vorrei proporre una riflessione sulla rappresentazione della pubblicità nell’opera di Federico Fellini. Il punto di partenza riguarda una sorta di trascuratezza critica, una reticenza analitica su uno dei topoi fondativi dell’ultimo periodo della produzione felliniana.
Silenzio della storia e rumore della critica Il problema coinvolge un duplice ordine di fattori. Innanzitutto storiografici. Il cinema quale maggiore fonte del XX secolo sta iniziando solo ora a produrre studi sulla rilevanza extra-testuale delle proprie rappresentazioni. L’analisi della pubblicità in Fellini investe quegli orizzonti che la nouvelle histoire del cinema definisce socio-culturali: territori di ricerca ancora inesplorati, paesaggi ermeneutici d’estremo interesse ma, forse, dall’ancora incerta definizione. La prima difficoltà risiede proprio nella fuggevolezza del termine “cultura”: un film di Fellini può essere cioè considerato come testimone diretto di una certa cultura, come suo agente volontario – pensiamo alle produzioni pubblicitarie per la Barilla o la Campari – o, a una lettura “contropelo”, quale fonte per lo studio di tipicità e atteggiamenti normativi “nascosti”. Naturalmente, l’essenza creativa del film ne 111 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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MARCO BERTOZZI
definisce anche un’appartenenza a quel sistema delle arti in cui rientra un’accezione “alta” del termine cultura. L’idea chiave delle prospettive socio-culturali è “que le cinéma s’enracine dans l’histoire des sociétés autant, et peut-être plus, que toute autre forme d’expression”1. Tali approcci investono dunque categorie sfuggenti ai modelli d’analisi dominanti sino agli anni Ottanta: se escludiamo i tentativi di Edgar Morine di Roland Barthes2, rarissimi sono gli studi che hanno osservato il cinema nei termini di una storia delle mentalità, degli immaginari e delle ideologie, della ricezione e della cultura popolare. La poetica felliniana è sempre stata accusata di trascurare la denuncia e il progetto – e veniamo alla seconda reticenza accennata nell’introduzione – biasimandone piuttosto il “tradimento” del neorealismo, la difficoltà di volgere le sue macchiette ai fini della comprensione sociale e della costruzione ideologica. Come se la critica e la storiografia nazionali risultassero incapaci di vedere al di là del mero contenutismo, di osservare l’acutezza di Fellini nell’analisi – anche feroce – dei tempi e dei costumi contemporanei. Certo, i suoi sono stati giochi tortuosi, composizioni d’indubitabile polisemia, zeppe di anamnesi e personalissime catarsi. Il “discorso” felliniano ha investito spesso l’equivoco quale categoria del mondo della normalità, l’immediatezza dell’esigenza esperienziale, delle sue ipertrofiche imprecisioni “morali”. Poetica barocca, irriguardosa innanzi a tentativi critico-ideologici incapaci di astrarre dal piano creativoespressivo un contenutismo non banale, lontanissima da assunzioni d’impiego politico diretto o da svelamenti e giudizi “scientifici”. Le presunte incoerenze stilistico-ideologiche di Fellini sono un problema noto – per noi un falso problema – che hanno ulteriormente offuscato l’interpretazione in termini culturali del regista riminese. Se durante un cinquantennio – diciamo dalla fondazione 112 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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di Cinecittà sino agli anni delle TV private, attraverso il dopoguerra, la rinascita e l’industrializzazione del paese – il cinema italiano costituisce l’ambito artistico privilegiato per la comprensione dell’Italia e degli italiani, non si capisce come Fellini possa rimanere escluso dalle onnivore geografie sentimentali di un medium al confine fra paese reale e paese immaginato, desiderio di modernità e antiche appartenenze, auspicati internazionalismi e sfrenati particolarismi3. Ed è incredibile che la critica italiana, in gran parte di formazione marxista, continuasse a relegare nel ruolo di maschere clownesche o di estri beffardi, di situazioni parodistiche o di aneddotiche vene caricaturiste, i personaggi di una poetica di rara metaforizzazione socioculturale. Circo perenne sì, ma circo in cui la caratterizzazione degli attori non è mai stata disgiunta dal contesto ambientale, in acutissimi sguardi antropologici sull’Italia della borgata o del bar, del fotoromanzo o della prostituzione, del quiz televisivo o della pubblicità.
Schermo urbano, civitas televisiva Il caso di Ginger e Fred è sintomatico. Il viatico di Giulietta per raggiungere il “Manager Palace Hotel” è in un inferno urbano fatto di imbonitori e zamponi giganti, di affiches inquietanti e di slogan strillati in una semiosfera di affastellati rumori semantici e ridondanze comunicative: “per chi non avesse ancora capito che siamo sulla barca di Caronte”, ricorda Kezich “un Dante burattino pubblicitario recita alla TV l’incipit del poema sacro”4. I nuovi stendardi della “comunicazione pubblicitaria” coprono gli antichi vessilli dei signori dell’urbs. “Roma pulita” campeggia gigantesco davanti a decine di sacchi d’immondizia. Scorgiamo sandwich titanici, interpellazioni senza scampo (“TU!”), 113 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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altri sacchi di spazzatura, “offerta speciale” di calzature enormi, donne prorompenti con tuboni di dentifricio “Raddrizziamolo”, “Profumo eleganza, italian Style”, ancora montagne di rifiuti e seni di donna con proposta di wurstel-fallo “L’altra parte”… Queste immagini sono ormai la città, un décor che continua negli interieurs dell’albergo, veicolato dagli onnipresenti schermi televisivi verso la sperduta Masina (“Olivoil”, “Pasta cavalier Lombardoni”, “Spriz sugo e la vita diventa un pacciugo!”), nel self-service della RAI, nel surreale crescendo finale del quiz “Ed ecco a voi!”. Sfogliando la rassegna stampa dell’epoca, osserviamo che molti interventi sottolineano il carattere antitelevisivo di Ginger e Fred. In quei giorni Fellini è in polemica con le reti private per le interruzioni pubblicitarie che “massacrano” i film. Dopo le intuizioni di Intervista – i cinematografari rinchiusi nel cellophane dagli indiani armati di antenne televisive – la critica riconosce, amplificato, il discorso sullo strapotere e l’invadenza del medium (illustrando, in second’ordine, il tema tipicamente felliniano della memoria). Un nuovo circense bestiario di “marziani” televisivi è illustrato da Valerio Caprara su “Il mattino”5: “Fellini si abbandona alla vena dell’eterno caricaturista, del raccoglitore di frammenti abnormi e buffi…”. Altri interventi estendono a più ampie influenze l’appariscente invadenza del medium. Su “Il giorno”, Morando Morandini illustra i segnali, “pochi ma inequivocabili, che il film manda sul mondo esterno al megashow televisivo: quelli sulla degradazione di Roma, per esempio”. Alberto Moravia – “L’Espresso” – nota “l’involgarimento attuale della società italiana”; Mino Argentieri, su “Repubblica”, rivela “…la spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita, incluso il più intimo, il deserto dei valori, il livellamento e l’intercambiabilità dei messaggi… È uno spettacolo orrendo non perché lo sia il castello tele114 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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visivo, bensì perché è l’umanità dei nostri giorni a popolarlo”. La piattezza, la ripetitività e l’accumulo della Neotelevisione sono rilevati da Umberto Eco su “L’Espresso”, evidenziando gli aspetti di quella debordiana spettacolarizzazione globale che lo spirito del belpaese consacra nella scintillante grancassa televisiva. In Ginger e Fred vengono dunque individuate una serie di ricorrenze poetiche – il circo, la memoria… – e tematicocontemporanee – strapotere televisivo, realtà spettacolarizzata… – ma non è compito istituzionale della critica collegare il testo filmico a più estese cartografie ermeneutiche. È agli orizzonti socio-culturali della nuova storiografia che il caso dovrebbe risultare emblematico.
Cinema, cultura, modernità Il sistema di valori che regola gli anni dello sviluppo, le diseconomie ecologico-territoriali legate all’impatto dei nuovi mezzi di produzione, l’avvento della radio, della televisione, della rivoluzione informatica, insomma la molteplicità dei percorsi intrapresi verso la sofferta modernità nazionale, risultano lucidamente presenti nel macrotesto felliniano. Anche riconducendoci al tema “semplice” della memoria, non possiamo non rilevare come il locus amoenus dell’infanzia goda, fra Amarcord e La voce della luna, di analoghe trasfigurazioni e medesime espansioni semantiche. Se nel linguaggio comune “fellinizzare” investe ormai onirici territori della psiche, la “riminizzazione” abbraccia piuttosto i cementificati orizzonti dell’italico e caotico sviluppo, ben evidenti nella piazza ricostruita per l’ultimo film del regista. Fellini, come Pasolini, è uno dei grandi intellettuali del XX secolo, ancora lontani da una revisione storiografica in gra115 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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do di collocarne le rappresentazioni immaginifiche nelle nuove mappe di una storia dell’Italia e degli italiani. Oggi, a quasi un lustro dalla morte di Federico e a due decenni dall’assassinio di Pier Paolo, emergono complementarietà e confluenze “indirette” fra testimoni di quella intrapresa nazionale che condusse all’agognata modernità, una modernità importata, sofferente, forse mai digerita, fatta di impennate e di squilibri più che di coerenti “politiche di sviluppo”. Accomunati dall’ignominia dell’“inaffidabilità” ideologica, attraversando poetiche estremamente diverse, entrambi risultarono acuti interpreti dell’ardua ridefinizione normativo-culturale del paese reale, nel quale la paventata costruzione di una “democratica modernità” passò attraverso l’etica unificante del consumo più che nel riconoscimento delle proprie tipicità culturali, nella valorizzazione delle rilevanti forme paesaggistiche e storico ambientali, nella comprensione antropologica di un paese eternamente in bilico fra “nord” e “sud” del mondo. Tullio Kezich, valicando gli orizzonti contemporaneisti della critica a Ginger e Fred, illustrava proprio un’analogia di sguardi sulla città eterna, citando, su “Repubblica”, certe “pagine antiromane dell’ultimo Pasolini che ai margini della metropoli fu assassinato…”. “La città non si può spegnere”, ricordava Giovanni Klaus Koenig nelle sue lezioni di Storia dell’architettura contemporanea all’Università di Firenze. Da questo schermo continuo, ancor più che dal monitor televisivo, è illustrata l’irriverenza della modernità nazionale in Ginger e Fred. L’opera di Fellini argutamente dichiara: “traduco” la pubblicità per farvela vedere meglio, per farvi conoscere meglio. Dalle sequenze iniziali alla stazione Termini, dove la città si presenta ai suoi moderni pellegrini attraverso la porta urbica di un display luminoso – “più bello, più forte, più ricco se userai…” – l’advertising si avvia inesorabilmente ad 116 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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invadere l’atmosferico campo del sentire6 abbandonando la reclame dell’oggettuale – basta lavatrici! – per incantarci con gusto, tenerezza, comunicazione, status. La voce della luna risulta paradigmatico. La città ricostruita da Fellini è ormai espressione matura del modello consumistico-pubblicitario: un’Italia in cui i resti di antiche appartenenze – la piazza nella quale si svolge la neotradizionale sagra del tortellino – si ergono innanzi a giganteschi manifesti pubblicitari, fra fast food e “gipponi” Toyota, baracchini di piadine “Gnau (registered Trademark)” e sfilate di “Miss farina” in stile Dallas. Una quinta dell’urbs è un maxischermo per telepromozioni politiche innanzi a una sempre più sfrangiata civitas, incredibile profezia di quel telegenico “Coup d’Etat médiatique” illustrato da Paul Virilio, in seguito alle elezioni vinte dal “Polo delle libertà” nel 19947. Segreta pubblicità, come affermare l’anarchia e l’individualismo della poetica di Federico? Al capolinea dei vecchi modelli storiografici, l’“inaffidabilità” dei testi felliniani dona linfa preziosa a nuove prospettive di ricerca. Si parte dai lamenti di una modernità fatta soprattutto di oggetti e di tecnologie, icone di un auspicato e controverso sviluppo, mitagogie di un paese “libero” in cui la pubblicità regna sovrana, più sovrana che in ogni altro paese d’Europa. Note (1) Michèle Lagny, De l’histoire du cinèma. Mèthode historique et histoire du cinèma, Armand Colin, Paris, 1992, p. 182. (2) Edgar Morin, Le cinéma ou l’Homme imaginaire. Essai d’anthropologie sociologique, Ed. de Minuit, Paris, 1956, tr. it. di Gennaro Esposito, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Feltrinelli, Milano, 1982; Roland Barthes, Mythologies, Le Seuil, Paris, 1957, tr. it. Miti d’oggi, Lerici, Milano, 1966. (3) Si veda Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità 117 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1996. (4) Tullio Kezich, Fellini, Rizzoli, Milano, 1988, p. 514. (5) Per le citazioni tratte dalla stampa d’epoca rinviamo al dossier critico su Ginger e Fred. L’ultimo film di Fellini nei giudizi della stampa, in “Cinemasessanta”, 168, 1986, pp. 50-55. (6) È l’instaurarsi di quella che Mario Perniola definisce “Sensologia”, dopo le affermazioni ottocentesche dell’Ideologia sul pensare e della Burocrazia sull’agire. Del sentire, Einaudi, Milano, 1991. (7) Paul Virilio, Le coup d’Etat mèdiatique, in “Trafic”, 11, 1994, pp. 23-27.
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APPENDICE
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L’INVENZIONE GROTTESCA: GLI SPOT DI GINGER E FRED
1. Atrio stazione – Interno giorno Nell’atrio della stazione, affollatissimo di gente, si leggono slogan pubblicitari accattivanti, del tipo: ANCHE TU PIÙ BELLO PIÙ FORTE PIÙ RICCO SE USERAI... Lo sguardo di Ginger viene rapito da un gigantesco zampone illuminato appeso a una gru. Un banditore, travestito da cuoco, invita i viaggiatori in transito ad assaggiare lo zampone con le lenticchie.
2. Stazione ferroviaria – Esterno giorno Sulla facciata esterna della stazione altri cartelloni pubblicitari, alcuni esplicitamente erotici, invitano a “consumare”. Sul marciapiede un venditore arabo sbandiera pacchi di fazzoletti di carta. Un altro venditore ambulante sta reclamizzando una miracolosa antenna televisiva capace di captare una grande quantità di canali. Il venditore di antenne televisive dà una dimostrazione pratica su un piccolo televisore che sta trasmettendo le immagini di una donna voluttuosamente immersa in un bagno di schiuma. 121 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
APPENDICE
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3. Pulmino – Interno/esterno giorno Sulla plancia anteriore del veicolo è sistemato un piccolo monitor che sta trasmettendo un carosello pubblicitario. Protagonista, la marionetta di Dante Alighieri che, perdutosi nella “selva oscura”, ritrova la strada con un orologio corredato di bussola. Sul marciapiede giace un enorme mucchio di spazzatura. A contrasto, sul muro, c’è scritto: Roma pulita.
4. Lungo la strada cumuli di immondizia e grandi cartelli pubblicitari: un panino che addenta un enorme wurstel, un paio di scarpe in offerta speciale col tacco a forma di gambe, dentifrici che scivolano da enormi tubi sul lunghe lingue. Ginger, dal finestrino, osserva un gruppo di sportivi in tuta da ginnastica che si allenano fra rifiuti e vapori. A contrasto, sullo sfondo, un grande cartello pubblicitario: PROFUMO ELEGANZA ITALIAN STYLE.
5. Camera Hotel Manager – Interno sera Ginger preme un tasto, a caso, del telecomando. Sul piccolo schermo appaiono le immagini di un uomo con la testa crivellata da un colpo di pistola. Poi lo spot pubblicitario di un risotto. 6. Camera Hotel Manager – Interno notte Durante la conversazione, vediamo a tutto schermo, degli 122 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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L’INVENZIONE GROTTESCA: GLI SPOT DI GINGER E FRED
spot televisivi come visti da Ginger sul televisore di fronte al letto. – Spot pizza In una cucina dei cuochi stanno preparando la pizza. 1° CUOCO Mozzarella uè! 2° CUOCO Pummariella uè! 3° CUOCO Alice a me! CUOCA Ma! Vado pazza per la pizza! – Spot Olivoil Una bellissima ragazza, con tono provocante, reclamizza un olio d’oliva sculettando in faccia ai telespettatori. RAGAZZA OLIVOIL Olivoil! Fateci un pensierino! Mmmmm! – Spot Sprizzugo Il classico presentatore di quiz televisivi dà il via alla gara. PRESENTATORE Ripeto: la gara dovrà svolgersi in trenta secondi. Ecco che sta per suonare la campana. Le concorrenti dovranno indovinare in trenta secondi la marca del sugo che pioverà come per incanto sulle quattro vaschette ricolme della pasta più buona del mondo! La pasta del cavalier Fulvio Lombardoni.
7. Al suono della campana, le quattro concorrenti scendono da alti seggioloni e vanno verso un lavatoio coi rubinetti 123 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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APPENDICE
dai quali scorre il sugo che va a finire dentro le scodelle di spaghetti. PRESENTATORE Mettete la mano sui rubinetti! Vai col sugo! Brave! E adesso: assaggiate, concentratevi, riflettete! Forza, che mancano ventisette secondi! Coraggio! La mia cara valletta Esmeralda per chi fa il tifo? VALLETTA Per Carmela! PRESENTATORE Io per quella signorina lì! (ridacchia). – Spot polizia U.S.A. Immagini di un violento interrogatorio di polizia. – Spot ricetta Sbrisolona Una bella ragazza in pelliccia spiega ai telespettatori, con un tono esplicitamente erotico, la ricetta della torta sbrisolona. BELLA DONNA La sbrisolona invernale: tre etti di farina gialla, tre etti di burro e uova da sbattere, sbattere, sbattere!...
8. PRESENTATORE E con la gioia di avere premiato il merito, siamo lieti di salutarvi con la nostra parola d’ordine: “Sprizzugo e la vita diventa un paciugo” e arrivederci a...
9. Hotel Manager – Interno giorno Sul televisore scorrono le immagini di uno spot. 124 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
L’INVENZIONE GROTTESCA: GLI SPOT DI GINGER E FRED
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– Spot spumante SIGNORA SPOT Spumante, joie de vivre. Il buon augurio per una notte d’amore!
10. Saletta Pianoforte – Interno giorno In un angolo, un televisore sta trasmettendo uno spot pubblicitario. TV – VOCE RAGAZZA DI COLORE È così morbido, così leggero! Devi guardarti allo specchio per sapere se lo hai indossato. – Spot bella donna ingioiellata con cane PIANISTA Ve lo ricordate o no? FRED Chiappa tonda... fava gioconda!
11. Sul televisore, uno spot pubblicitario: una bella signora si avvicina al viso una gran fetta di mortadella. – Spot mortadella SIGNORA SPOT No caro, non sono gelosa. Ma scegli lei. È Mortadella Lombardoni!
12. Sala trasmissioni TV e retropalco – sera La trasmissione viene interrotta da uno spot pubblicitario che appare a tutto schermo. 125 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Si tratta di una giovane cuoca, che parla con voce metallica e computerizzata. Sta versando, con un mestolo, del sugo sulla polenta. – Spot polenta GIOVANE CUOCA Ma cosa volete di più dalla vita?
13. AIUTANTE DI SCENA Oh! Lei ha solo due minuti, signor Guardascione. Che cosa dirà? FABBRICANTE MUTANDINE E ci presenteremo, io come il fabbricante delle mutandine commestibili e lui come il geniale inventore del medesimo sfizioso passatempo! (ridacchia).
14. INVENTORE MUTANDINE Sono due emisferi, uno alla pesca e uno all’albicocca, è questione di gusto, l’amatore sceglie: ferma, bella. Morde... mastica è tutta roba buona. Raggiunge un certo grado di eccitazione, si sente... FABBRICANTE MUTANDINE Pensavamo di aggiungere eventualmente anche qualche medicinale, vitamine, sali minerali, ricostituente. GUERRIERO EXCALIBUR (incuriosito) Ma davvero l’hanno chiesto al tonno e alle cipolle?
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L’INVENZIONE GROTTESCA: GLI SPOT DI GINGER E FRED
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15. Nel retropalco, su un monitor, vediamo le immagini dell’onorevole. In un angolo, la fotografa sta intanto fotografando un piattone di rigatoni giganti, sul quale un macchinista, dall’alto, fa piovere una sostanza dall’effetto simile a formaggio grattugiato. Un cuoco, con una forchetta gigantesca, si mette in posa per lasciarsi fotografare. UN TECNICO (provando gli effetti di spalle) Dai, dai! Scuoti, scuoti! Falla muovere in continuazione! Falla piovere giù!
16. Lo spettacolo viene nuovamente interrotto da uno spot pubblicitario, che appare a tutto schermo. Si tratta di un prodotto alimentare, un maialino arrosto. – Spot maialino arrosto VOCE MASCHILE Porchetta Lombardoni per un Natale in più!
17. Stazione ferroviaria atrio – Interno notte In alto, grandi cartelloni pubblicitari. Uno di questi dice: FRIENDLY È PURO e raffigura un bambino con gli occhi da gatto, probabilmente una réclame di cibo per animali.
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APPENDICE
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18. Nell’atrio cominciano a spegnersi le luci delle insegne al neon. Anche lo zampone si spegne: ora, sembra un’enorme massa scura.
19. Il venditore di antenne televisive è sempre lì, nell’atrio, che continua a fare dimostrazioni. Il televisore, ora, diffonde le immagini pubblicitarie di una pasta che non fa ingrassare. – Spot pasta Scolamangi PRIMA DONNA Assaggiala anche tu! SECONDA DONNA Ma sei pazza! La pasta mi fa ingrassare soltanto se la guardo. PRIMA DONNA Ma questa è pasta Scolamangi, la pasta che fa dimagrire! (canta) Scolamangi la pasta che fa dimagrire! SECONDA DONNA Quanta felicità ho perduto! (canta) Scolamangi, la pasta che fa dimagrire!... VOCE DUE CUOCHI Pasta Scolamangi del cavalier Lombardoni e la vita torna a sorridervi!
20. Un’astrologa a mezzo busto, dietro la scrivania, parla fitto alla telecamera. ASTROLOGA Cari oroscopettari, oroscopettiamo insieme... Oggi consiglio: per gli amici bilancini, concentrazione. Per i cari capricorni, un po’ di buon umore e per i cari scorpioncelli un po’ di generosità. Il male esiste. Il demo128 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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L’INVENZIONE GROTTESCA: GLI SPOT DI GINGER E FRED
nio esiste. Lo ha detto anche il Papa. Difendiamoci da questi esseri maligni con gli elisir e i filtri della S.I.I., SOCIETÀ INCANTESIMI INTERNAZIONALI di TERESA ANACONDA, l’esoterica profonda. Spediteci il tagliando pubblicato su Futuriamo Insieme allegando cinquantanovemilalire... Le stelle siano con voi. Una veglia funebre, una famiglia in lacrime. Un parente fa il giro della stanza versando bicchierini di “Uè!”, il liquore che fa resuscitare i morti. VEDOVA (piange e beve) MORTO (ridestandosi) Uè! E a me? PARENTE Eccolo qua! (ride e versa) VEDOVA È buono da morire. TUTTI Uè! Buono da fare resuscitare i morti. Dante Alighieri cammina in una minacciosa penombra e mormora: Nel mezzo del camin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la retta via era smarrita. Ed eccolo di nuovo in una luce gioiosa mentre mostra un orologio agli spettatori e proclama: Ma la geniale macchina celai sotto la mussola un portentoso oriolo fornito con la bussola prodezza del Creato! Il sentiero è perso è tosto ritrovato!
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IMMAGINI
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Finito di stampare nel mese di novembre 2002 per conto di Guaraldi Editore
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Paolo Fabbri Lo schermo “manifesto”
Per lasciare all’immagine pubblicitaria il posto che ha nei nostri spazi collettivi fisici e mentali, evitandone il piatto riconoscimento, Fellini ricostruiva nei suoi film tutte le immagini di pubblicità, stornandole però ai propri fini espressivi. E ritagliava le immagini per sostituirle con le proprie. In Fare un film ricorda: “Del cinema ho in mente soprattutto i manifesti; quelli mi incantavano. Una sera con un amico ritagliai, servendomi di una Gillette, l’immagine d’una attrice che mi pareva bellissima, Ellen Meis. Stava in un film di Maurizio d’Ancora, Venere”. Poi ha collocato Anita Ekberg al centro della propria affiche. E lei per Fellini “non è bella, ma è mitica” (Intervista). Si serviva, l’uno contro l’altro, del pompier e del non pompier, i quali convivono nella stessa figura. In seguito, sono cambiati i tempi e l’uomo che è passato dalla provincia alla città Eterna, cioè a Cinecittà, non li avrebbe del tutto compresi. Sopraggiunta la televisione, che per Fellini è “rito funebre travestito da music hall”. Ed è finita - contro la vulgata situazionista - la società dello spettacolo, quella della grande immagine del cinema e della foto pubblicitaria. La periferia metropolitana ha inghiottito Cinecittà. Resta, si dice, un trash pervasivo, rifiuti e rottami testutali con cui è scritta la parola “fine” sui grandi schermi e sui loro vasti simulacri. Eppure la pubblicità che Fellini ha girato proprio in quegli anni non era affatto un bruscolo nell’occhio, un corpo estraneo al suo obiettivo. I suoi spot pubblicitari sono tutt’altro che opportunisti e inefficaci. La vulgata per cui la qualità estetica è incompatibile con l’efficacia persuasiva (il bello senza scopi!) ha un sapore teorico desueto. C’è una innegabile estasi della merce e del consumo che è vano sottacere. E nell’attuale crisi del giudizio, l’accusa di cattivo gusto può essere sempre rinviata al mittente. La critica si è fatta ormai clinica, trasformazione efficace d’affetti.
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Fred: “Bisogna saper cogliere i segni” (Ginger e Fred)
Paolo Fabbri
Guaraldi
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Fellini e la madre di tutte le tentazioni
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Guaraldi Alberto Abruzzese, Marco Bertozzi, Sergio Brancato, Stefano Cecchini, Peter Bondanella, Cristina degli Esposti, Manuela Gieri, Millicent Marcus
Lo schermo “manifesto” Le misteriose pubblicità di Federico Fellini a cura di
Paolo Fabbri