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Italian Pages 73 [56] Year 2019
Edizioni e/o Via Camozzi, 1 00195 Roma [email protected] www.edizionieo.it Copyright © 2019 by Edizioni e/o Grafica/Emanuele Ragnisco www.mekkanografici.com ISBN 9788833571867
L’Italia secondo Fellini
L’Italia secondo Fellini
FELLINI E L’ITALIA. UN CONFRONTO di Goffredo Fofi
M
olti anni fa – tra il Satyricon e Roma – un amico francese mi chiese di intervistare Fellini per Paris Match. L’intervista era molto ben pagata e allora ero molto povero. Fellini acconsentì, e lo vidi un’intera mattina nel suo studio presso Trinità dei Monti. Sessantottino rigido, erano pochi gli artisti italiani con i quali avvertissi un necessario, quasi fisiologico bisogno di contrasto vivo, di confronto accanito, di una disputa che era anche (ora lo so) con me stesso, oltre che con la parte più autentica, nel bene e nel male, della cultura del nostro paese, anche in quelli che mi parevano e continuano spesso a parermi i suoi limiti e difetti. Questi artisti erano Pasolini, soprattutto, e poi Sciascia, Calvino, la Ortese, Fellini, Fortini e naturalmente Bene e la Morante con la quale però il conflitto era divenuto interno a un’amicizia molto profonda. Amavo molto di Fellini il modo in cui egli sapesse servirsi di una tradizione di cultura popolare nella quale anche io ero cresciuto, il circo, l’avanspettacolo, i comici, il fumetto, il teatro dialettale, e i giornali umoristici nei quali si era formato, come solo i grandi artisti delle avanguardie storiche avevano saputo fare. Ma rimproveravo a Fellini molte cose. È documentato nelle mie recensioni di allora. Sono stato colpevolmente rigido ed esigente, negli anni prima e dopo il ’68, sentendomi rappresentante di quella generazione che sperava di cambiare il mondo, e anche l’arte, la vita… Rigido e a volte ingiusto. Egli mi lasciò sfogare, lentamente, sinuosamente, affettuosamente, conquistandomi. L’intervista venne bella, l’incontro preludeva ad altri incontri, ma io odio le macchine e le macchine mi odiano: la registrazione risultò incomprensibile, inutilizzabile. Fellini non credette al
sabotaggio della tecnica, pensò che, in qualche modo, non mi piacesse e non volessi utilizzarla per il mio rigorismo, per un giudizio negativo su di lui, e non so per cos’altro. Il rapporto svanì, fino a quando, avendo io scritto per la prima pagina dell’Unità un articolo molto elogiativo sulla Voce della luna, non telefonò per ringraziarmi e invitarmi a cercarlo poi a Roma. Non lo feci temendo una gentilezza non convinta. Ma mi cercò ancora e ci vedemmo. Posso parlare di una qualche amicizia con Fellini solo per gli ultimi tempi, ma nelle chiacchierate fatte con lui – alcune registrate, altre del tutto private – c’è stato modo, credo, di andare oltre la gentilezza, il rispetto, la voglia di ascoltarlo raccontare e di raccontare. Mi chiese un giorno: “Ma perché quand’eravamo più giovani ce l’avevi tanto con me?”. Risposi: “Perché ti fermavi troppo presto, perché non eri un rivoluzionario”. Scoppiò a ridere: “Rivoluzionario io? Ma sei scemo?”. Ho capito meglio conoscendolo quanto invece rivoluzionario egli fosse, a suo modo e ben più, per esempio, di me… Posso dire di aver capito meglio Fellini da lui che dai suoi film? Direi di no. Fellini è tutto nei suoi film, basta guardarli con attenzione. È proprio il legame tra la loro colorata superficie piena dell’avventura e della scoperta dell’esistere e i momenti di silenzio, di sospensione, quasi di sentimento panico a dar loro quel sapore ineguagliabile e inimitabile (e che tanti si sono tuttavia ostinati a cercar di imitare) che ne fa un autore così straordinariamente italiano, e nel meglio. Come Saba o Penna, come la Morante o Pasolini e Volponi, come Bene e Schifano… È questo che gli ideologici o gli accidiosi in qualche modo non hanno mai accettato e non gli perdonano. Parlando con Fellini, gli dicevo una volta di quando, ragazzo, lettore di Cinema nuovo, fui tormentato dal fatto che mi piacessero tanto sia Senso che La strada, non capendo perché, a sinistra, fosse addirittura un dovere amare il primo e detestare il secondo. Nel mio contenutismo, Senso mi pareva un film bello e antipatico: parlava di ricchi e di
traditori ed era quindi per forza un po’ “di destra”, mentre La strada parlava di poveri e di reietti e mi pareva dunque “di sinistra”. Ma Aristarco (che Fellini liquidava con un epiteto secco e definitivo) era un vero “marxista”, anzi un vero lukacsiano, e la vedeva diversamente. Un altro personaggio che Fellini non amava era Scalfaro, che chiamava “il basettone”: lo accusava di essere stato lui a scrivere le due stroncature anonime della Dolce vita, apparse all’uscita del film, sull’Osservatore romano. Erano ancora, nell’un caso e nell’altro, tempi di guerra fredda, ancora dalla guerra fredda segnati. Nonostante La dolce vita, una certa supponenza nei confronti di Fellini la cultura italiana ha continuato ad averla, e io con essa. A me dispiaceva in fondo (e può ancora dispiacermi) quel tono che dicevamo “cattolico” (come fosse una parolaccia!) del suo cinema, anche se, avendo conversato con Fellini anche di religione, di fedi e di credenze, non credo si possa definirlo cattolico secondo i crismi di Santa Romana Chiesa; la psicoanalisi e una sua divagante attenzione alle filosofie orientali, e perfino alla parapsicologia e a certi aspetti della teosofia, hanno inciso in profondità su di lui, e l’incontro teorico fondamentale della sua vita è stato senza dubbio – così diceva e così mi sembra dimostrino molti suoi film – quello con Jung. Senza Jung, per esempio, non credo si potrebbe spiegare un film a suo modo geniale (l’unica ricostruzione di un passato davvero lontano che il cinema abbia dato di così convincente, un’interpretazione ormai onirica e personale, e però paradossalmente attendibile dello spirito di un passato, perfino della riviviscenza di un passato come il Satyricon, o come anche il più prossimo Casanova). Il suo “cattolicesimo” in fondo era, puramente e semplicemente, la sua italianità. Dell’italianità si può fortemente e duramente sentire il fastidio, ed è anche più che legittimo il detestarla. Nel mio caso, finiva che questa identificazione dell’artista Fellini con l’humus culturale del suo paese provocava una reazione di sconcerto e a volte di rigetto, perché, in definitiva, il suo cinema ti sbatteva davanti
qualcosa che ti apparteneva profondissimamente e di cui però volevi anche liberarti. Da parte di Fellini c’è indubbiamente stata una certa compiacenza nei confronti dell’Italia, determinata da una comprensione formidabile e da un amore formidabile per i suoi pregi e difetti. Ma, a onor del vero, i difetti egli può averli capiti e descritti con partecipazione, ma mai li ha compiaciuti, e la lettura attenta dei suoi film dimostra oggi come egli abbia saputo scrutarli, discuterli, analizzarli, con il bisturi di una morale che non era certo, ieri, né quella del Papa né quella degli strapaesani, e, nei nostri anni, dei sociologi o pseudo-tali, del Corriere della Sera e della Repubblica, del Foglio o del manifesto. Nell’immediato dopoguerra, al suo ritorno dall’esilio americano Gaetano Salvemini si indignò contro quelli che gli dicevano “eh! Noi italiani siamo fatti così!”. “Io sono italiano, e non sono fatto così”, egli replicava, “il sillogismo non regge”. Fellini ci ha capiti e raccontati – noi italiani – come nessun altro artista suo contemporaneo. Film come I vitelloni, come Il bidone, come La dolce vita, come Amarcord, come Prova d’orchestra (su cui il futuro ha dato ragione a lui, certo non a me che tanto accanitamente l’avevo respinto) e come La voce della luna sono i capisaldi di una lettura antropologica dell’Italia di cui l’Italia aveva assoluto bisogno. Discutendo Fellini, io e altri come me, respingevamo probabilmente un’appartenenza che ci sembrava in lui troppo tollerata. E certamente egli era tollerante, era un uomo di relazioni, c’era in lui qualcosa di “cattolico” in un suo stile umano alto, ma un poco cardinalizio, del cattolicesimo diplomatico più aperto. Ma altrettanto certamente c’era in lui un nodo morale, radicato in quella provincia, in quella “umile Italia” d’altri tempi, nel “Borgo” (“Il borgo” era il primitivo titolo di Amarcord) di un’epoca contadina e povera, che ai difetti univa la resistenza ai difetti, e univa alla cedevolezza, a volte obbligata, della superficie un’intima durezza, e certamente uno scetticismo, una
conoscenza dei limiti dell’uomo e dei nostri limiti, della pasta di cui i secoli l’hanno impastato. La voce della luna non è, in questo senso, un film forse pienamente riuscito e risolto, ma il suo progetto era chiaro e, trattandosi per di più di un’opera finale, illuminante. La scena chiave del film è la lunghissima sequenza prefinale della “Sagra dello gnocco”, jacovittiana immagine del nostro presente – affollata di piccoli narcisi ingombranti ed eternamente festanti. Così simile per esempio, quella sagra, alle tante dei cibi e dei libri che si celebrano ossessivamente in ogni angolo dell’ex Bel Paese. In quel film Fellini non ha fatto che narrare il nostro presente – colluso, caotico, becero, e anche per gran parte ignobile, cupo, laido e sfasciato – mettendolo a confronto con la lezione della poesia italiana più alta, addirittura con Leopardi, in un lirismo ormai relegato alla dolce, non preoccupante follia dell’emarginato, del perdente, del non recuperabile a questo caos, cioè a questo sciagurato gioco della menzogna o del “particulare” che, nell’età del narcisismo, fa l’orrore dell’Italia di oggi. Tra I vitelloni e La voce della luna, passando per La dolce vita e Ginger e Fred, Rimini e Roma si affermano come i due poli di un presente infine unificato nelle morali, nei comportamenti, nei consumi. Moraldo è andato in città e quando è tornato al “borgo” lo ha trovato, lo trova, diventato, antropologicamente e moralmente, più città della città, in una identica corruzione. Il generale sbandierato amore per Fellini da parte di politici, giornalisti, intellettuali del nostro italico oggi dimostra come siano ancora facili e spesso equivoci (per quel tanto di poetica compiacenza che anche egli ha praticato) una confusione o un amore, un amore confuso per questo Grande. Fellini grande antropologo, Fellini grande moralista a dispetto dei suoi lodatori. Quello che alcuni di noi avremmo voluto era probabilmente un Fellini più “protestante”, più minoritario, meno ecumenico di quanto egli non abbia astutamente finto di essere. Non credo che il Fellini che hanno pianto e piangono i vecchi e nuovi funzionari della tradizione italiana
peggiore sia il vero Fellini; credo in un Fellini più strano e più austero, più profondo e spigoloso di quello ufficiale. Io lo ricordo negli ultimi tempi molto solo, e amareggiato e sfiduciato sulle sorti del nostro paese. Nessun produttore osava più proporgli i film (costosi) che aveva in mente. “Gelsomina” era molto malata e lui stesso lo era. Pochi amici veri, da Mollica a Kezich, sapevano, un poco e per poco, rinfrancarlo. E vedeva la povera pasta di cui noi italiani eravamo fatti e come avessimo via via perduto, diventati meno poveri e più colti, le nostre povere e antiche qualità, ormai più vicino a Pasolini di quanto non fosse mai stato. I testi di Piergiorgio Giacchè, Emiliano Morreale e Gianni Volpi sono stati scritti in occasione del convegno “Federico Fellini antropologo” organizzato da Goffredo Fofi e coordinato da Simone Salvemini a Brindisi il 25 aprile 2009. Sono stati pubblicati sul numero 110-111 della rivista Lo straniero di agosto-settembre 2009.
FEDERICO FELLINI ANTROPOLOGO
FRA NOSTALGIA E PROFEZIA di Piergiorgio Giacchè
La strana coppia
antropologia è una strana scienza. Lévi-Strauss l’ha L’ ritratta come “una scienza che ha i piedi sulle scienze
naturali, si appoggia alle scienze umane e guarda verso le scienze sociali”. Ebbene questa personificazione non sarà sufficiente a spiegarla ma ha il vantaggio di rivelarne sia le ambizioni che i limiti. In effetti, l’antropologia è una disciplina che si aggiunge all’albero della scienza (senza il quale non starebbe nemmeno in piedi) ma al contempo rivendica per sé un’interrogazione dell’alterità e un’interpretazione dell’identità, senza la quale non si verifica e non si critica il nostro patrimonio di dati e di saperi. In un certo senso l’antropologia, sfruttando le radici e i frutti di tutte le scienze, vi si aggiunge come fosse un’arte. Ed è poi per questo che, nei confronti dell’arte e della religione e della magia – suoi terreni privilegiati – la migliore e più libera antropologia culturale si apre alle conoscenze dei sapienti “indigeni” che in quei terreni vivono e lavorano. E così molti sono i letterati e gli artisti di oggi (e i santi e i poeti di ieri) che non offrono soltanto testimonianze, ma giustificate e meritorie incursioni in una disciplina che in fondo è fatta di ricerca e riflessione, di osservazione e partecipazione. E si può anche dire che, senza i loro contributi di lettura e di scrittura delle trasformazioni sociali e delle mutazioni culturali che sono corse e sono ancora in corso, mancherebbero sia le documentazioni più efficaci che le interpretazioni più preziose per chi studia la cultura del mondo contemporaneo.
Ora, fra i tanti riconosciuti “antropologi” della società italiana è diventato ovvio fare il nome di Pier Paolo Pasolini, mentre non è stato fin qui valorizzato l’altro grande maestro del cinema italiano Federico Fellini, magari proprio per quei caratteri o stereotipi di sognante magia e di confusa irrazionalità, che agli occhi degli accademici ancora dividono lo scienziato dallo sciamano. E invece Fellini e Pasolini costituiscono una strana coppia non solo per la loro arte ma anche per la parte importante che hanno svolto sul piano della fotografia della realtà e dell’anatomia della mentalità. Consapevolmente opposti e involontariamente complementari, hanno guardato in modi e in direzioni diverse la dolorosa transizione che ha partorito lo stato di cose presenti, regalandoci infine un tesoro di descrizioni e di narrazioni prezioso e imprescindibile per chi voglia confrontarsi con la storia e con la vita della società e della cultura italiana. Gli ossimori che risultano dall’accostamento arbitrario eppure necessario dei loro accattoni e vitelloni, della loro mamma roma e dolce vita (per non continuare e non esagerare con l’assonanza fra la terra vista dalla luna e la voce della luna…) mettono in luce delle continue divergenze parallele senza le quali mancherebbe sempre una parte, anzi una controparte, alla rappresentazione complessiva di una società in apparente fermento e di una cultura in costante declino. Ed è infine il profitto antropologico che se ne trae – oserei dire il risultato scientifico – a consentire la comparazione fra le opere di questi due autori inaccostabili: sommare lo strabismo di due punti di vista ovvero ricondurre all’unità due viaggi e ricerche verso luoghi distanti e con logiche diverse fa parte del metodo e del merito della scienza antropologica, mentre magari nell’arte cinematografica è l’originalità incomparabile ciò che conta. E però anche quando si considerano i loro obiettivi in tutti i sensi differenti (anche in quello cinematografico), che si dividono fra le classi subalterne e quelle borghesi, le mitologie tragiche o gli affreschi satirici, il dramma sociale o il vuoto culturale – non è sbagliato osservare come anche nel cinema e per il cinema Fellini e Pasolini siano i campioni della
nostalgia e della profezia: proprio le due virtù o le due vie che in antropologia hanno efficacia e valore, tanto per gli sciamani che per gli scienziati. Nostalgia e profezia Le vite parallele e le visioni divergenti di Pasolini e di Fellini si collocano fra nostalgia e profezia, e non si sa dove finisce l’una e comincia l’altra. In primo luogo perché entrambi sono vissuti e hanno operato in quella soglia del tempo, dove l’evento e l’avvento davvero si confondevano: nell’Italia da rifare e da ripensare di quegli ultimi decenni di accelerazione della storia, prima della sua fine. Una soglia che – come sappiamo e scontiamo – si è chiusa alle loro e alle nostre spalle, da quando la stagnazione del presente dilatato ha reso impossibile o peggio inutile raccontare il passato e predire il futuro. In secondo luogo perché entrambi hanno saputo spiare – con allarme o con ironia, non importa – l’infanzia di una mutazione antropologica che si apprestava a liquidare tanto il passato quanto il futuro, tanto le tradizioni destinate a morire quanto le rivoluzioni di là da non venire. Del resto lì dentro, in quella fine del tempo e morte del senso, la nostalgia e la profezia si mescolano da sole e per tutti, e l’artista o l’antropologo è appena chi le sa leggere e scrivere. E farne tornare i conti. La nostalgia non è rimpianto del passato ma incantato sguardo su una storia passata fra le mani e le menti e i cuori. Non è un sentimento ma una sensazione: alla lettera, un’azione di sensi ancora efficienti e riferita a segni ancora efficaci per la costruzione delle personalità e per la vita delle società. Quanto si sente di aver perso nella società, resiste e insiste in cultura. Quanto è passato, va tuttavia pesato, proprio perché non si deve e non si può recuperare. “Nostalgia” è un doloroso ma doveroso viaggio di ritorno, è un modo del riflettere e un atto del rappresentare che non va
combattuto come fosse una tentazione ma esaudito come un dovere. La nostalgia non è mai un peccato: il peccato semmai è già stato commesso. Ma anche quando la nostalgia diventa rammarico, occorre finalmente dire che i progressisti e i futuristi – i laudatores temporis actualis – sono più perniciosi e menzogneri di quelli che esaltano il passato. Di questi tempi sono loro a negare il futuro: proprio azzerando la nostalgia mancano infatti di profezia. E la profezia non è un azzardo di alcuni ma un bisogno di tutti. È infine una letterale predizione del futuro, e si può fare in almeno due modi e davvero scompartire nei due stili di Fellini e Pasolini. In Pasolini non c’è arte divinatoria ma predica e avvertimento, come al tempo e al modo dei profeti biblici. In Fellini la profezia è invece l’atto operazionale dell’aruspice, che interpreta segni e sogni esaminando le interiora aperte di una società e di una mentalità in sfaldamento e in compiacimento. Fellini è indovino: non come la veggente e non creduta Cassandra ma come un incredulo e divertito visionario. E paragonando le profezie, si scopre allora come corrispondano a due diverse nostalgie. Quella di Fellini è riferita all’appena visto o al personale vissuto: una nostalgia precoce che si traveste da fantasia vorace, dove davvero non si distinguono più gli amarcordi dai precordi, e la fantastoria assume lo stesso sapore e valore della fantascienza. Quella di Pasolini è invece una nostalgia che trapassa la storia e si tuffa nel mito, di cui si resuscitano incessantemente le tracce e in cui si inscrivono ostinatamente anche le facce dei suoi prepost-moderni neo-sotto-proletari. Ma ancora una volta è l’antropologia a dare la comunione e a fare la differenza fra i due artisti e le loro produzioni. E, a rigor scientifico e a rendimento scolastico, è inaspettatamente Fellini quello che può vantare maggior merito o verso il quale lo studio della società e della cultura contemporanea scopre di avere il maggior debito. Il fatto è che Pasolini alimenta più il pensiero antropologico che la ricerca, mentre Fellini, proprio perché allontana il suo
pensiero nel sogno e avvicina la sua visione al disegno, si dimostra più attento e aperto alla insondabile varietà delle cose e delle persone che sempre “incontra”, anche quando se le “inventa”. Resta cioè curioso spettatore e insieme stupefatto autore di storie e personaggi che sposa e intanto li mette in posa, cioè li distanzia. In altri termini, la contraddittoria formula dell’osservazione partecipante nel cinema di Fellini passa da regola antropologica a stile artistico, anche grazie a una pregnanza autobiografica che è più dello sguardo che del corpo, più del visto che del vissuto. Com’è dei grandi o appena degli onesti antropologi sul campo. Per chiudere il confronto, Pasolini è antropologo quasi filosofo, che tenta affondi etnologici verso le antiche e autentiche civiltà, piange la morte della bellezza e della fisicità, ci avverte e ci rimprovera di aver perduto il corpo e la parola: le materie prime e uniche dell’umanità. Fellini invece è etnografo quasi fotografo, intento a circoscrivere il campo e descrivere le relazioni; più propenso all’intervista ravvicinata che all’inchiesta, non aggiunge commenti ma accumula ritratti, che per così dire da soli e tutti insieme passano dal punctum della soggettività personale al quadro dell’obiettività sociale. Il corpo del passato Anche l’antropologia di Fellini “ha i piedi nelle scienze naturali”, nel senso che nel suo cinema e dal suo cinema emerge innanzitutto un paesaggio antropico, prima che antropologico, fatto di due razze diverse di corpi e di fantasmi. In dosi uguali e con risultati opposti ci sono i corpi spiriti e le anime corpose, i primi messi in sogno e le seconde in caricatura, i primi in bianco e nero (ma anche Giulietta degli spiriti è per intenderci in bianco e nero) e le seconde a colori (ma I vitelloni sono appunto a colori). Nelle due serie in cui si
può suddividere la filmografia di Fellini, l’onirico e il materico, lo sfumato e il dettagliato si mischiano in modo diverso, a seconda se i corpi dei personaggi hanno i piedi per terra o la testa nelle nuvole, a seconda se le loro storie hanno le radici nel sociale o i rami nel surreale. Tanto non cambia granché: la realtà è piena di teste vuote e l’irreale non si libera mai dalle forze di gravità e di stupidità. Certo si può tutto buttare in psicologia ma anche salvare in antropologia, almeno quando le intenzioni dell’autore orientano in modo inequivocabile le attenzioni dello spettatore. Almeno in quei film più in carne e ossa, quelli della memoria e quelli dell’attualità: in altre ovvero nelle solite parole, quelli della nostalgia e quelli della profezia, quelli che somigliano ad Amarcord e quelli che anticipano Ginger e Fred, per fare finalmente dei titoli e degli esempi. Amarcord è trasparentemente strutturato come un trattato di tradizioni popolari. È il documentario di un ciclo dell’anno inquadrato da un ciclo della vita. Le quattro stagioni che ripetono il tempo e che travestono lo spazio di un villaggio non fanno da sfondo ma dettano il copione delle azioni rituali e delle mutazioni personali di tutti gli indigeni. È la Storia semmai che resta a far da colore e folklore, con quel fascismo da parata, prepotente in tutti i modi ma impotente in tutti i sensi: il tempo cronologico non la vince contro un tempo ciclico e filmico che – comunque vadano le cose della politica – si chiude e si schiude con i due riti di passaggio della morte e della riproduzione, del funerale della madre (del protagonista) e dello sposalizio della figlia (di tutto il paese). Il matrimonio della Gradisca arriva come un vento che la porta via per sempre, ma intanto “già riede primavera” e nevicano quei pollini a cui siamo diventati ormai tutti allergici. È nel finale dunque che la nostalgia si confonde con la profezia, ma solo perché lo spettatore uscendo dal cinema e tornando nella Storia non sa più se provare rimpianto o spavento. Fellini invece resta con i suoi personaggi e nel cerchio del loro spazio e nel circolo del loro tempo: in un certo senso li porta sempre con sé, se è vero che tutti i suoi film respirano
una calma sospensione e ispirano un pigro incanto, a dispetto della trama che spesso si distende come un viaggio o finisce con una fuga. Anche I vitelloni si concludevano con una partenza, la sua partenza, verso una Roma che si rivelerà poi anch’essa un villaggio, sia pure globale. E I vitelloni in fondo non sono che la prima puntata dello stesso “mi ricordo”: un film che stando alla cronologia si potrebbe intitolare “Vent’anni dopo” e che invece è stato girato vent’anni prima, a dimostrazione che la memoria va all’incontrario, perché il suo compito non è di rimpiangere il tempo passato ma semmai di lenire il disagio di un futuro senza tempo. E in effetti a riguardare bene i film felliniani della memoria, di cosa si può essere nostalgici nel senso comune del rimpianto? Cosa ci può attrarre e sedurre di un vitellonismo padre dell’ozio e figlio dei vizi – l’uno stretto parente della noia e gli altri forse desiderati ma mai per davvero praticati? E cosa ci può affascinare dell’Italietta di quei due successivi ventenni in cui tutto il paese era fatto di tanti paesi, ancora incerti fra città e campagna, fra miseria e nobiltà, fra poveri e belli, ma pieni di gente piccola e in fondo cattiva? Lo sguardo di Fellini è sempre benevolo eppure impietoso: non sembra animato dalla sospensione del giudizio ma da uno scontato condono verso tutte le sue creature. Anche se nella rappresentazione delle arroganze e delle meschinità, delle vigliaccherie e degli egoismi dell’eterno villaggio all’italiana, non si apre mai una pagina luminosa o una bontà vittoriosa, in grado di dare fondamento a una nostalgia d’altri tempi, e cioè di tempi migliori. E però lo sguardo dello spettatore si apre a forza una sua strada nostalgica, con almeno una buona ragione. Sta di fatto che in quel mondo piccolo e antico, il tempo e lo spazio ci sono ancora. Tutto il tempo che si vuole: anche il futuro e soprattutto il futuro. Tutto lo spazio disponibile, anche quello di un altrove da cercare o sognare. E il cinema del ricordo di Fellini ci mostra e ci dimostra appunto questo essere del tempo e questo avere lo spazio: strade vuote per girovagare e piazze piene di incontri, spiagge ancora libere e
campagne ancora abitate, e mare e cielo ancora immensi e aperti. Luoghi di vita e tempi di sogno dove si va in scena come personaggi piuttosto che come attori sociali. Per questo poi, nei film di Fellini, non ci sono attori che non si riducano a figure: in Amarcord addirittura figurine da collezione, caratterizzate dagli stessi gesti e con gli stessi vestiti, come se tutto il loro ciclo dell’anno fosse girato in un solo giorno di festa, e l’intera pellicola della loro vita si potesse raccontare in un solo disegno. Non un affresco – come di solito si dice – ma quasi una “panoramica” alla Jacovitti con quella buffa varietà di corpi e spiriti deformati e riformati da una memoria che è il contrario della storia. La nostalgia dello spettatore diventa allora nostalgia di un ricordare che non ci è più dato di attivare, di una memoria che davvero ha bisogno di Fellini per rinascere o almeno per rimpiangere la sua morte. E queste sue ricordanze ci si affretta a celebrarle come “fantasie”, anche per dimenticare la loro quota di verità. E per dimenticare di aver dimenticato. E finalmente la nostra è stata una dimenticanza collettiva del corpo collettivo. Per quanto fatto di anime povere e piccole e talvolta stupide e cattive, in ogni paese del Bel Paese ha vissuto una comunità organica e si è tessuta una sociabilità intensa di cui si è perso il ricordo ma non il bisogno. L’etnografia o la fantasia di Fellini, questa “vita della cultura” ce la resuscita a tinte forti, con tanto di sceicchi bianchi e tabaccaie grosse che saranno pure figurine senza spessore, ma che infine si incollano nell’album di un mondo fatto ancora a immagine e somiglianza di un corpo. Lo spirito del futuro La Gradisca s’invola a primavera negli anni Trenta o Quaranta mentre Moraldo se ne va nell’autunno di quel mondo-corpo, poco prima degli anni Sessanta e di
quell’esplosione che non è stata solo un boom economico ma anche culturale. Dopo la socialità delle relazioni arriva la società dei consumi, descritta e inseguita da una lunga stagione di commedie all’italiana, con i suoi antieroi ridicoli che si dibattono in una mutazione che non riesce a cambiarli. Ma non è vero che Fellini questa “commedia” la anticipa e tanto meno che vi partecipa: non solo perché con la tragedia della Dolce vita scavalca da subito la concreta società dei consumi per affrontare la profezia di un’aerea cultura dello spettacolo, ancora riservata a pochi ma destinata a mangiarsi i cervelli di tutti. Ma soprattutto perché i suoi film restano visioni d’insieme, dove il protagonista è sempre il regista o un “chi per lui”, che s’immerge in un ambiente tutto sommato sempre a forma di villaggio e che infine mette in moto e in passerella quel girotondo relazionale che è il principale oggetto di tutti i soggetti felliniani (anche di quelli in cui i fantasmi di Marcello o gli spiriti di Giulietta o gli amori di Casanova sembrano voler spostare l’attenzione su un mondo interiore o su un protagonista assoluto). Si ha anzi l’impressione che smettere di girare la realtà per aggirarsi nel sogno serva a Fellini per continuare a figurarsi un mondo plurale e relazionale dentro il quale – magari senza più riconoscersi – ci si possa almeno specchiare. E in verità, senza questo atto di concreta “riflessione”, l’immagine del mondo e degli uomini resta sola e vuota: perso il corpo collettivo non si guadagna quello individuale giacché – secondo il cinema o l’antropologia di Federico Fellini – davvero non esiste in cultura e non resiste in vita. Così, verso la fine dei dorati anni Ottanta e quasi alla fine del suo cinema – a mutazione cioè irrimediabilmente avvenuta –, agli ultimi uomini e donne che un tempo si sono amati e hanno danzato insieme la loro storia non resta che andare alla ricerca di quell’“al di là” dove le immagini vivono come puro spirito. Ginger e Fred sono i viaggiatori danteschi di questa nuova dimensione dove la visibilità si paga con l’invivibilità. Si chiama Televisione questo nuovo mondo senza corpo, al quale da tempo tutti apparteniamo, chi in un qualche girone e chi fuori dal giro. Il profeta Pasolini, per
primo eppure già in ritardo, contro la tv aveva pronunciato più una maledizione che un avvertimento. L’indovino Fellini arriva fuori tempo massimo ma fa di meglio: ci manda dal suo solido “al di qua” due sue creature a farci visita. Ancora Giulietta e Marcello, ma stavolta insieme, perché soltanto unendo le loro forze e differenze potranno uscire vivi da quel regno dei morti viventi che ci circonda e ci possiede ancora. Come al tempo di Moraldo si doveva arrivare a Cinecittà, così anche adesso si deve arrivare a Roma per entrare nella selva luminosa della hollywood televisiva, cimitero del cinema. In una stazione “termini” dove è sempre “natale” (e in cui campeggia già – sorprendente e letterale previsione – lo zampone gigantesco di un cavalier Lombardoni di là da venire sul serio e tutto intero), Ginger è presa in carico dagli abili caronti e cerberi di un paradiso islamico tutto da scoprire. E finalmente ritrova il suo Fred nel sovraffollato limbo della sala d’aspetto: un immenso hangar pieno di candidati al decollo, tutti copie di qualcun altro ovvero controfigure di se stessi. E lo spettacolo va a incominciare, anzi a continuare all’infinito, visto che uno dopo l’altro non finiscono mai di venire avanti i cretini, che ci sia o non ci sia la gloria, che siano accesi o che all’improvviso si spengano i riflettori. Eppure fra le centinaia di comparse apparse e subito scomparse, non c’è nervosismo ma eccitazione; e non c’è nemmeno competizione poiché nessuno degli illusi resterà deluso. Altri facili profeti e illustri sociologi li hanno già avvertiti: un quarto d’ora di celebrità non sarà negato a nessuno. E per buttarla in antropologia, aggiungeremo: a nessuno dei partecipanti ma anche a nessuno degli osservatori. Finalmente adesso lo sappiamo tutti: fra essere telespettatori o teleattori non c’è né distanza né differenza. Prima della rete e senza rete, il circo televisivo ci ha già catturato tutti da un pezzo, ed esporsi ai media o proporsi dentro i media è solo una tele-faccia o un Facebook della stessa medaglia.
Chi non ha paura del lupo cattivo?
Fare adesso un’etnografia della televisione sarebbe impossibile: non c’è più un’identità che le resista né un’alterità che le sfugga. Fellini è dunque l’ultimo antropologo che ci prova e che ci può riuscire, visto che fino a ieri (Ginger e Fred è del 1986) si aveva ancora a disposizione un popolo di nani e ballerine, già erede dei poeti e santi e navigatori (di ammiragli in pensione, di onorevoli in digiuno, di preti in libertà…) che hanno fatto grande il paese. Nemmeno oggi mancano gli gnomi e le veline si dirà ma è appunto il popolo che non c’è più. Non per eccesso di individualismo, ma perché si è volatilizzata la sua corporeità che – da quando l’etere televisivo è sceso in terra – non riesce a ricostituirsi nemmeno come finzione, foss’anche arrivata l’apocalisse. Lo si è visto recentemente nell’occasione di un cataclisma che ha resuscitato la fisicità e la solidarietà di una popolazione: nemmeno l’uguaglianza nella miseria e la fraternità nella disgrazia riescono più a ridare corpo al mondo. In Abruzzo, poche ore dopo la caduta dell’Aquila, la celebrata tempestività dei soccorsi da parte di centinaia di “angeli” ha coinciso con l’arrivo di un esercito di quattromila diavoli di giornalisti e operatori che hanno permesso a un accidente di terremoto di diventare sostanza spettacolare. E guai se venisse a cessare l’attenzione dei media: fuori dalla sua immagine nemmeno un terremoto ha diritto di esistere. Fellini – da poeta più che da profeta – ha presagito questa “spirituale” catastrofe mediatica, che ancora per anni sarà tutta da vivere e da bere. E alla fine del film, se ricordo bene, provvede a mettere in salvo i suoi eroi: Ginger e Fred infatti – diversamente da tutti gli altri teleattori e da tutti noi telespettatori – riescono a fuggire dal mondo delle stelle e a riprendere il treno che si suppone li riporti indietro, in quel purgatorio di arcaica umanità e di povera verità da cui provengono.
In sintesi, la visione cinematografica ma anche la relazione di ricerca dell’antropologo Fellini è fatta di nostalgia senza malinconia e di profezia senza invettiva. Una nostalgia e una profezia stemperate in salsa agrodolce ma che, proprio per questo, più passa il tempo più ci fanno male, mentre a lui, come artista e come persona, non devono aver mai fatto questo doloroso effetto. Si vede che al cinema, al contrario della tv, gli spettatori restano davvero dall’altra parte rispetto agli attori e agli autori. Si vede anche che, tanto per il cineasta che per l’antropologo, la curiosità è più forte del giudizio e la critica più solida del disastro. E però, se Fellini non sembra provare neanche un po’ di allarme o di spavento, né davanti ai corpi del passato né davanti ai fantasmi del futuro, non è solo a causa dell’etnografia ma anche per l’effetto della biografia. Nella Romagna solatìa – come si sa – molto va alla testa ma è bene tenere sempre i piedi in terra. Si vede che questo contrasto anche a Federico Fellini ha fatto un corto effetto di strampalata solidità. Mi è capitato una volta di seguire, ovviamente in televisione, un video di Tonino Guerra, suo celebre compaesano e coautore (in particolare, anche di Amarcord e Ginger e Fred): una breve sequenza dove si vedono soltanto i piedi di qualcuno che cammina in campagna, che arriva sulla soglia e poi sale le scale di una casa colonica, come inseguendo uno strano rumore di aria fritta che diventa sempre più forte e più vicino. Quando si arriva nella stanza dove una televisione accesa non trasmette niente, se non la frenetica punteggiatura bianco-nera di quando l’antenna non funziona… “Toh, nevica…”, dice la voce di un vecchio romagnolo fuori campo. Ecco, Fellini come Guerra sono restati per così dire fuori campo e dunque della televisione non hanno paura. Oppure, con i piedi per terra e la testa in cielo, sono restati nei campi e nei villaggi dove si ha sempre l’impressione che non valga la pena di crucciarsi troppo per le mutazioni o le rivoluzioni che avvengono in città. Come se la Cultura tradizionale, quella del corpo fatto a mondo, fosse simile o parente della
Natura e quindi prima o poi capace di ricoprire di radici vecchie e di foglie nuove anche questa delirante parentesi dello spettacolo senza realtà, della immagine senza faccia, della pubblicità senza prodotto. Non si tratta allora né di nostalgia né di profezia, ma appena di una testarda antropologia della speranza.
MEDIA, GROTTESCO, FINE DEL MONDO… di Gianni Volpi
È
come se da Fellini dovessimo ancora attenderci tutto, mentre dal cinema ci aspettiamo ormai poco”. Lo scriveva nel 1986 uno dei critici più lucidi, Serge Daney, confessando di avere cominciato ad amare Fellini da poco. Potrebbe essere una bella epigrafe al tema “Fellini antropologo”. Come potrebbe esserlo ancor più un’altra constatazione che non nega affatto la visionarietà felliniana, ma la dialettizza. Cioè che “testimone del proprio tempo” Fellini lo è sempre stato. Per cui Ginger e Fred gli appare come la “deposizione di un testimone, e di un testimone a carico”. Di fronte a queste e ad altre analisi, si ha come la sensazione che al tempo le cose fossero dette, ma non fossero ascoltate, sommerse dal ritratto critico che dei film di Fellini la critica ufficiale creava, il “vecchio mago”, i ricordi, le nostalgie, il lussureggiare delle immagini eccetera. In questa chiave, se Morreale ha scritto delle pratiche “basse”, vorrei tentare un’analisi delle pratiche “alte”, degli apporti più interessanti che, a proposito di alcuni film di Fellini, sono venuti da quello che genericamente possiamo chiamare “il mondo della cultura”. Daney contrapponeva i film che si organizzano attorno all’io dell’autore, “a girotondo” (ovvero il luogo del teatro) e “a sfilata” (il luogo del cinema). Fellini, come Renoir, Fassbinder o Chaplin, appartiene ovviamente alla prima categoria. Ma non è meno certo che ogni suo film ha innescato una vera e propria sfilata di interventi di intellettuali e artisti europei. Forse, questi interventi scelti “a campione”, senza nessuna ambizione di sociologia né della cultura né dei media, ma che finiscono per restituirci un’altra aria del tempo, ci permettono di affrontare alcuni snodi chiave dell’opera di
Fellini. A patto di prenderli nel giusto rapporto con la natura dell’opera di Fellini, con la disseminazione del senso che è dei suoi film-monstres che (“al pari di quelli di Tati e soprattutto di Kubrick”) vogliono stupire, aprire le interpretazioni e non concludere il racconto. Perno della nostra analisi sarà Ginger e Fred, tenendo sullo sfondo una serie di altri film assai discussi, a cominciare da E la nave va. Cominciamo, dunque, da Ginger e Fred, ovvero i media, anzi il rapporto con la realtà che i media promettono. Credo sia inutile ricordare che questo è un soggetto che ha profonde radici nell’opera di Fellini. È il soggetto stesso dello Sceicco bianco (ovvero, i fotoromanzi), Luci del varietà (l’avanspettacolo), 8½ (il cinema), I clowns (il circo), E la nave va (l’opera lirica). Senza contare gli infiniti episodi spesso di grande impatto e rilevanza narrativa, disseminati in suoi film, dalla Strada alle Notti di Cabiria, alla Dolce vita, sino alla Voce della luna. È un poeta, Andrea Zanzotto, che aveva un po’ collaborato a E la nave va, a ricordarci il senso di questo interesse per i media. A proposito di Ginger e Fred scrive che il film è una “nuova irruzione da Fellini compiuta nell’attualità antropologica in uno degli aspetti più estranianti ed enigmatici della metamorfosi in atto” (Corriere della Sera, 24 gennaio 1986). Non importa che Zanzotto si perda poi in discorsi su cinema e tv come protagonisti dell’eterno circo felliniano, la tv come il Clown bianco che è la “sfacciata forza trainante dei modelli sociali in auge”, il cinema come l’Augusto, che subisce eccetera; lo spunto di partenza è quello giusto. In realtà, Fellini è sempre stato tentato dalla suggestione a definire il quadro sociologico in cui si muoveva, ma appunto in una chiave antropologica, di costumi, di idee ispiratrici, di elaborazioni dell’arte e della cultura, e tenendo conto del variabile rapporto tra artista e pubblico. Rispetto ai media, apocalittico Fellini non lo è mai stato. Anzi, era stato uno dei primi a intuire quelli che Daney chiamava “les échanges de bons procédés” tra il cinema e la televisione. E nell’85 di Ginger e Fred sono quasi vent’anni che
lo fa. Block-notes di un regista, girato per l’americana Nbc, è del ’69, e i due film per la Rai sono del ’70, I clowns, e del ’79, Prova d’orchestra. E non siamo tanto sul terreno di uso di un altro mezzo (non uso il termine che usano quelli colti, cioè medium, perché in Fellini richiama tutt’altra cosa, Rol eccetera), siamo in presenza di esperienze pensate, di ipotesi possibili di commistione dei linguaggi. Block-notes è tutt’altro che uno special televisivo su un autore, e non è neppure un autoritratto d’artista in cui l’artista appunto tende a tradurre in termini concettuali la propria visione della realtà; è una documentazione poetica, disperata nell’ironia, su di sé e sul suo mondo. I clowns, poi, è uno dei film più importanti di Fellini in cui egli è sempre in scena e usa in senso letterale la forma reportage come spettacolo e racconto. Parla a un tempo dei clowns e di se stesso e si esibisce in una meditazione sulla morte e sull’arte, oltre che sulla morte di un’arte. E, quanto alla pubblicità, Fellini non è Godard, per cui la pubblicità è fascismo. Vedendo gli spezzoni di Sbrisole, cioè gli spot non montati di Ginger e Fred, ma fatti vedere come materiale del film, mi chiedo come sia possibile girarli con questa felicità e leggerezza se la lucidità satirica non è accompagnata da un vero gusto per le forme basse. È come se Fellini per un attimo ne sganciasse l’aspetto estetico da quello commerciale (e dalla relativa ideologia sociale), anzi fingesse di farlo, perché la satira risultasse ancor più affilata. Ma allora qual è il rapporto di Fellini con la neo-tv e la civiltà dei consumi che essa promuove, cioè con le nuove realtà e i mutamenti antropologici in atto? Quello che allora era il massimo massmediologo italiano, Umberto Eco, sostiene che la vera critica di costume di Fellini non sta nella rappresentazione della televisione, ma semmai nelle scene della Stazione Termini, nel desolato albergo, cattedrale in un terrain vague, negli scorci di città che vediamo nei viaggi in pullman. La televisione di Fellini invece è troppo. È altro: “Questa televisione non è disegnata da Daumier, e neppure da Grosz, è dipinta da Hieronymus Bosch”. Ovvero, possiamo
tradurre: da un genio che coglie le aberrazioni nella realtà e nella natura, non da un critico del costume. Il problema non sono le cose che succedono nello studio, l’onorevole e la fanciulla madre abbandonata, il drogato e il ballerino di tip tap. Tutto questo non è nulla, il mondo dei media ne ha viste di peggio. E chi non si sente superiore a tutto questo? Il vero snodo è il fenomeno nel suo insieme, fatto di tanti e tanti canali, intercambiabili e di continuo cambiati compulsivamente con il telecomando, che parlano di se stessi, e in cui il pubblico è parte del programma. Per Eco, “ciascun programma dice ossessivamente non ‘il mondo è fatto così’, ma ‘io sono qui, mi vedi, e questa è l’unica realtà che d’ora in poi riconoscerai’”. Dove sta il discorso critico di Fellini? Non tanto nella sua indignazione morale, cui è sordo lo spettatore della neo-tv, educato a vivere fuori della morale. Per il più naturale dei paradossi estetici, sta, invece, nella fantasia felliniana. Cui “nessun programmista, nessun copywriter potrà mai adeguarsi”. Sfioriamo qui uno dei paradossi felliniani, destinato a riproporsi più avanti: è la fantasia di Fellini a essere, per implosione, la più dura denuncia della miseria della tv e dei televisivi. C’è un aspetto critico implicito nella creatività felliniana. È l’aspetto morale del suo fare estetico. Secondo punto. Che cosa caratterizza, allora, il fare estetico di Fellini in Ginger e Fred, ma non solo? La risposta che viene da più parti, da Kundera a Moravia, è il grottesco. Bocca (la Repubblica, 24 novembre 1983) arriva addirittura a lamentarne l’assenza come uno dei limiti di E la nave va, “capolavoro frigido” in cui Fellini “non si accorge di essere diventato un perfetto realista, preciso e quasi pacato”. Il termine grottesco ha cancellato un’altra definizione, sino a una certa epoca, usatissima per il cinema di Fellini: barocco. Tra i pochi che la usano ancora è Louis Malle nelle interviste americane, pubblicate nell’Arte della visione (Donzelli 2009). In realtà Fellini è assai più moderno. Montalbán, in un testo per altri versi deludente, ha però una bella intuizione: “Fellini è un uomo che possiede una maniera di pensare, una logica di
pensiero equivalente al collage”. E cita la logica interna che presiede a una sorta di “automatismo surrealista”. A me sembra più efficace un’altra suggestione, quella cubista, di scomposizione e ricomposizione del reale. E lo è sia sul piano del metodo di lavoro di Fellini che, anche nell’intervista (pubblicata da me e da Fofi nel citato L’arte della visione), pensa a un lavoro sincronico su tutti gli aspetti del processo di produzione di un film, un lavoro di cinema, non letterario, un lavoro visivo in cui si ricompone altrimenti il reale. Sia perché è noto il sogno (impossibile) di Fellini, a proposito della Dolce vita, di una proiezione simultanea di tutte le sue parti, a ricomporsi nella sua pluralità di facce su uno schermo scomposto. Questi riferimenti servono a smontare quell’immagine di artisticità un po’ arcaica, un po’ idealistica, che spesso si è sovrapposta all’opera di Fellini, quasi un misto di magia creativa e di ignoranza culturale. In realtà, alla sua maniera, egli è stato attraversato dalle grandi esperienze artistiche del Novecento. È stato uno dei primi ad affrontare, alla sua maniera, la fine del racconto. Fofi parlava di grande autore post-moderno, al pari di Kubrick, ed è una buona definizione. C’è qui una riserva di ipotesi estetiche vitali per il cinema, a partire dalla coscienza che il cinema registrazione o riflesso (in tutte le sue varianti o mistiche) aveva fatto il suo tempo e non poteva che perdere il suo pubblico. Perché allora tutto questo non appare? Perché Fellini non è mai stato un cult cinéphile? La risposta più acuta ce la dà ancora una volta Daney, ossia che i cinéphiles tendono non “a giudicare la visione (Fellini), ma a valutare lo sguardo (Godard)”. L’autore appare così tanto più quanto più è visto nell’atto di guardare, e questo è una sorta di manierismo della politica degli autori. Ma, per tornare al grottesco, termine di difficile definizione, che cosa si intende? Ci prova a dirlo il pittore-scrittore Emilio Tadini in un articolo intitolato appunto Il sacro grottesco impero (L’Espresso, 2 febbraio 1986). “Il grottesco qui diventa cosa primaria, non più alterazione, caricatura di qualcosa. E in quel grottesco siamo costretti a riconoscere la nostra figura”. Come in Bosch citato da Eco, siamo in presenza di un
tipo d’arte da epoca di transizione, un’arte in cui coabitano le ragioni dell’inconscio e il giudizio della ragione, le angosce e l’antidogmatismo. Deformazioni, travestimenti dominano quel “rito di follia e stupidità” che è Ginger e Fred, che ha “qualcosa dell’indiscutibile autorità che ci è imposta dalla follia, qualcosa della insinuante complicità che ci è proposta dalla stupidità”. Insomma, dice Tadini, il film “ci mostra che il grottesco è, per noi, la figura stessa del mondo. Il nostro Grande Stile… È il tipo di sublime che ci è concesso”. Giusto. In questo senso un esempio di gran grottesco era già il funerale finale dei Clowns. Gli elementi ci sono tutti. Il tragico e il comico procedono insieme; la morte è esorcizzata e sublimata, essa stessa, in spettacolo. Siamo al terzo e ultimo punto: la coscienza e la rappresentazione della fine. Montalbán ci ricorda che, almeno da 8½ in poi, l’opera di Fellini si è fatta via via più interessante perché è una scoperta di se stesso attraverso i miti che non sono soltanto di se stesso, ma di un’intera epoca. E il mito della fine è uno dei grandi miti della nostra epoca. Che il tema di E la nave va non sia ovviamente quello apparente, il 1914, la fine della Belle Époque, lo sostengono in tanti. Lo dice Bocca rivolto a Fellini stesso in una famosa trasmissione di Rai Tre del 26 novembre 1983, parlando dei personaggi del film come di nostri “contemporanei cadaverici”, trasposti per pura comodità di finzione in un “improbabile 1914”. Lo dice un Ceronetti profetico: “Grazie a Fellini, mi rimetto a pensare alle origini di quella guerra che non è finita nel 1914 e che non finirà neppure nel 1984. È la nostra ‘guerra dei cent’anni’. Ossia, è una condizione bloccata che richiama il buñueliano L’angelo sterminatore”. Un’indicazione suggestiva, ma forse anche vera nel profondo, che già era affiorata in Calvino. È tutto il nostro secolo che (ora lo comprendiamo) ha vissuto se stesso come la fine di se stesso, prima e durante e dopo tutti i naufragi e i Serajevi (la Repubblica, 24 novembre 1983). Non va dimenticato che il viaggio che il film racconta è un funerale. A Calvino E la nave va appare il film più esplicito sul tema della fine di un mondo, “o forse del mondo”, che è spesso
tornato in Fellini: “Nel Satyricon era la fine del mondo pagano, ma lo spirito era lo stesso nella Dolce vita e in altri film sul mondo contemporaneo”. E forse è proprio l’assenza di pathos la cosa più angosciosa in Fellini, “come se tutti avessimo capito che la fine del mondo è diventata il nostro habitat naturale”. Con Ginger e Fred ci troviamo in presenza di un’ulteriore variante. Jean-Paul Aron (Corriere della Sera, 15 gennaio 1986) sposta il discorso dalla tv trash (il sottinteso, un po’ apocalittico, un po’ realistico, è che ogni tv è trash) a un’intera civiltà. “No, non è di televisione che si tratta essenzialmente in Ginger e Fred, né della pubblicità di Berlusconi, di salami, pasta, maialini che punteggiano senza pietà le trasmissioni, attraversandole, interrompendole. Si tratta di qualche cosa di ben più fondamentale e grave: della perdita di senso dell’Occidente contemporaneo”. Aron ne elenca i fenomeni, i segni, anzi i “simulacri di realtà”. Non è nemmeno più un mondo dell’immagine, dell’apparenza, ma la sua “schiuma”, il suo fantasma. Quella di Aron è una bella analisi e si fonda su un giudizio: il film di Fellini è un “capolavoro di nostalgia”. La nostalgia è un concetto a doppio taglio; per tutto un filone dell’estetica è una componente essenziale di ogni pensiero critico. E già Tadini ricordava che in Fellini la “memoria assolve ed è assolta di fronte alla volgarità del presente”. Qui, forse, Jean-Paul Aron usa il concetto di nostalgia in un senso di critica della modernità ancora più spinto, direi integralista. E forse va oltre quella critica del monismo (il contrario del pluralismo) del progresso che aveva elaborato suo zio Raymond. Ciò con cui se la prende non è tanto il delirio pubblicitario della tv, è la tv come “governo dispotico di tutto”. E in esso l’elemento più corrosivo non è la “sontuosa mitologia” dei consumi di massa, ma la fine del sacro, l’empio uso degli “esclusi, degli inermi, dei deboli per esprimere, la sera di Natale, il sacro, la nascita e la vita”. Ed è ancora su un processo di implosione, questa volta non più da un punto di vista mediologico, ma filosofico ed etico, che si fonda il giudizio critico. Ovvero, su una messa a confronto: il mondo di Fellini – con “tutte le sue
ossessioni, le sue manie, i mostri, la stoltezza, la volgarità, l’errore” – agisce da reagente al mondo degli altri, quello di una “modernità senza più basi”. Poi verrà La voce della luna, e sarà il seguito radicale di Ginger e Fred. È il primo film di Fellini dopo la catastrofe. Non ci sono più “corpi di piacere”, come dice Daney, fare cinema “significa dunque osservare i danni”. Media, grottesco, fine del mondo, qualcosa di interessante il mondo della Cultura ha finito per dircelo. Però, non può essere che un critico cinematografico come Serge Daney (ma era ben più di questo) a suggerirci più specifici concetti di fondo. Che i film di Fellini sono sempre più dei falsi huis clos, popolati invece di folle senza direzione. Che il concetto di “mostri” è insito in queste figure improbabili che li abitano e che sono “un po’ più di comparse, un po’ meno di personaggi”, mostri proprio per la loro condizione sospesa, incerta. Di più. Si chiede Daney: sarebbero forse diversi da loro Ginger e Fred se non fossero i “protagonisti” del film? E già la Rossanda (il manifesto, 30 gennaio 1986) aveva notato che quei “vecchi danno vagamente i brividi, si apparentano ai deformi”. Infine, a proposito della negazione di una speranza di cui molti hanno una visione contraddittoria (ad esempio, i registi americani dicono che tra lacrima e riso, tra dramma e ironia, Fellini sceglie sempre il secondo termine), ebbene Daney ne spiega il funzionamento e il senso finale. “Bisogna assolutamente che lo spettatore, più o meno ingenuo, creda o speri (almeno per un momento) che a quei personaggi sta per capitare qualcosa. Bisogna suscitare un’attesa prima di ricordare, con gentilezza, che essa non è ragionevole”. Il lungo viaggio di Fellini sta giungendo al termine e nella Voce della luna la stessa irragionevolezza di attese investirà il suo stesso cinema. Fellini sfiorerà, malinconicamente, uno dei grandi temi che agitano autori e teorici oggi: quale senso ha la figura eroica del cineastaartista, quando è la figura stessa del Cinema a diluirsi, a svanire? Non è più tempo di 8½.
NATO SOTTO IL FASCISMO di Emiliano Morreale
Q
Stereotipi
uelli che spesso si considerano come tratti caratteristici del cinema di Fellini (i suoi tratti più esteriori, anche, i più imitabili: il “fellinismo”) sono a ben vedere degli equivoci, o meglio delle anestetizzazioni con cui si cerca di rendere innocuo un percorso ricco, geniale e assai più radicale di quanto spesso si dice. Viene voglia di sfatare alcuni miti che stanno sotto la vulgata felliniana: il suo carattere di creatore di miti, ad esempio, e il suo carattere universale. Fellini non è un costruttore di mitologie, ma un ambiguo de-costruttore di mitologie – e la sua genialità sta anche in quest’ambiguità, nel suo essere vittima della cultura di massa e insieme suo reinventore, dissacratore in forme però sedotte, seducenti e allucinate. La distanza/vicinanza quasi schizofrenica di Fellini dal mondo del cinema e degli altri media è forse proprio un prodotto della sua “italianità”, nel senso di un paese culturalmente colonizzato, in cui i miti della cultura di massa sono stati sostanzialmente importati ma che (almeno fino a un certo punto) può fare richiamo a una solida tradizione (“alta” ma anche “bassa”) per esorcizzarli o smontarli. Anche lo stereotipo di Fellini come regista legato al mondo della memoria e del sogno è in effetti parziale. In realtà il cinema di Fellini si rivolge al mondo del passato e delle memorie autobiografiche solo con 8½, e sostanzialmente il suo cinema “della memoria” è limitato a un breve giro d’anni, dopo Giulietta degli spiriti diciamo, l’ideale trilogia composta da I clowns (1970), Roma (1972) e Amarcord (1973), più i due film
televisivi Block-notes di un regista (1969) e Intervista (1987). E invece, non è da trascurare un altro tipo di procedimento, diciamo allegorico-archetipico, centrale anche in quei film e che risalta anche in altri titoli come il Satyricon (1969), il Casanova (1976), E la nave va (1983). Per capire il ruolo di Fellini nel cinema italiano è certo indispensabile partire dalla sua peculiare posizione nel cinema del dopoguerra, dalla sua eccentricità rispetto al neorealismo e dalla sua personale declinazione della lezione di Rossellini, da cui eredita soprattutto la curiosità e la fiducia nei mezzi del regista come improvvisatore, coordinatore. Ma in ogni caso è dopo La dolce vita che Fellini prova una nuova maniera di raccontare, e diventa a suo modo uno sperimentatore, un rivoluzionatore del linguaggio cinematografico (e non dimentichiamo che anche per questo dagli anni Ottanta, vittima della normalizzazione produttiva e linguistica del mezzo cinema, gli sarà quasi impossibile lavorare). Fellini si è inventato, negli anni del miracolo economico, una peculiare via italiana alla modernità cinematografica, con una strategia opposta a quella di Antonioni: laddove quest’ultimo ha cercato di tenere il cinema al passo con le acquisizioni della psicanalisi, della letteratura e della filosofia, il primo ha elaborato una strategia “dal basso”, utilizzando il Cinema come contenitore e potenziatore delle forme di espressione di massa e popolari precedenti, che egli aveva amato o praticato: dall’avanspettacolo alla radio (il suo cinema è tutto ricostruito al doppiaggio, col modello della suite, e sarebbe interessante provare ad ascoltare quei suoi film così visivamente carichi anche come radiodrammi), dal circo al fumetto alla caricatura. E proprio il rapporto con il fumetto e la caricatura ci permette di capire alcuni tratti fondamentali della sua strategia creativa. Fumetto
Fellini veniva dal disegno e dalla caricatura (pare avesse anche sceneggiato una versione autarchica del Flash Gordon), e Dino De Laurentiis, che era della stessa generazione, tentò di convincerlo a girare un Flash Gordon e un Mandrake, mentre l’ultimo progetto del regista prevedeva una versione di Arcibaldo e Petronilla con Villaggio e la Masina. Il fumetto torna continuamente nel suo cinema, sotto forma di ispirazione figurativa (Rubino per Giulietta degli spiriti, Attalo per Roma, Flash Gordon per il Satyricon, il Corriere dei Piccoli per Amarcord, il fumetto sadomaso di Stanton per La città delle donne) ma anche in un senso più profondo. Il rapporto di Fellini col fumetto riguarda proprio la sua personale via alla modernità cinematografica. Oreste Del Buono ha fatto un elenco utile, da cui si può partire, di quel che Fellini vi ha preso: “La visionarietà onirica, il ‘pensare in grande’ la costruzione dei film recenti, la presenza di creature anomale sino a sembrare extraterrestri, le prospettive allucinate nell’alterazione delle proporzioni, le scansioni per frammenti o a vortice della narrazione. Poi lo stereotipo femminile, dilatato, paradossale […]. Poi la deformazione grottesca dei personaggi minori. Poi la capacità d’essere letto in ogni lingua. Ancora, la forza delle apparizioni repentine e assolute […], che invadono l’inquadratura come il riquadro del fumetto d’avventura, condensando il sentimento, lasciando senza fiato, restando nella memoria come marchio, emblema e passe-partout. Infine l’estraneità alle grette presunzioni del ‘buon gusto’ medio-piccolo-borghese, alle lusinghe dell’‘elegante’ e del ‘cultural-chic’; quell’estraneità che è l’essenza dell’arte della comunicazione di massa e che ha fatto di Fellini un grande artista nazional-popolare”. Il cinema insomma come qualcosa di sovra-dimensionato e di lontano dalla narrazione tradizionale, e soprattutto la strada di una nuova possibile libertà visiva. Per Fellini come per i suoi coetanei il fumetto è qualcosa che rimanda a una “Italia piccola”, ma è insieme simbolo di modernità e di “arte americana”: egli è scisso tra la passione per il Corriere dei Piccoli di Tofano, Rubino eccetera e i classici di Alex Raymond o Lee Falk. Le due influenze vanno insieme,
nel suo cinema, costruendosi da un lato come equivalente del sogno e della memoria (i fumetti come “psicologia del profondo”), e dall’altro come modello per una descrizione critica, acre del carattere ridicolo e regressivo degli italiani negli anni del fascismo e oltre (il fumetto come metodo di “straniamento”). Quest’ultima via è quella che gli servirà di più nel suo cinema, e il nome che gli si può più avvicinare è forse quello di un altro grande surrealista popolare, Benito Jacovitti. Si può ipotizzare che il volgersi verso il fumetto, e soprattutto verso il fumetto delle origini, significasse per Fellini anche rivolgersi all’indietro e in avanti, verso un cinema possibile. Lui stesso ha confessato che gli sarebbe piaciuto essere un regista del muto, dei tempi di Za-la-Mort e Polidor. E insieme il suo cinema sembra sempre cercare di superare i propri limiti e arrivare a nuove forme di spettacolo che somigliano ad analisi di massa. L’idea di un Fellini performer, artista del futuro ma anche rumorista-guitto, ci è consegnata in un passo sorprendente di un tardo romanzo di Mario Soldati, L’incendio, in cui a uno dei protagonisti, il geniale pittore Mucci, Fellini appare in sogno. Un Fellini all’opera come regista, ma in un modo singolare. “Al posto dello schermo c’era un rettangolo, del tutto simile a uno schermo, ma intonacato di una materia chimica e immediatamente sensibile a raggi tipo laser, che non vedevamo e che Fellini, adoperando un apparecchio identico nella forma a un mitra, lanciava sullo schermo, dove, dopo qualche istante […] apparivano le linee, i contorni, i colori… […] E lo spettacolo consisteva appunto nell’assistere alla nascita di un capolavoro mentre il capolavoro veniva improvvisato dal genio di Fellini. E mentre dipingeva, Fellini spiegava lui stesso ciò che accadeva sullo schermo sensibilizzato: spiegava, commentava e scherzava. Più attore che speaker, provvedeva all’audio dello spettacolo. Sul guardamano, sulla culatta e sul calcio del mitra c’era una gran quantità di ancie, linguette, pulsanti, bottoni luminosi e colorati: coi polpastrelli come se suonasse un clarino, lui sceglieva i colori e anche aggiungeva la musica di
accompagnamento… Una nuova arte, insomma: la fonopittura in fieri. E un nuovo spettacolo”. Nostalgia La cosa significativa è che, a ben vedere, Fellini non è identificabile in nessun modo con la dimensione della nostalgia. In lui, il passato è dapprima carico di una connotazione inquietante, o addirittura orrorifica (il mago che evoca con “Asa nisi masa”, le bambine sulla graticola di Giulietta degli spiriti), e poi messo in scena come un vero e proprio “repertorio”. A ben vedere, l’ipotesi di un Fellini “nostalgico” si basa sostanzialmente su Amarcord, ma è semmai nell’ultimo Fellini, da Prova d’orchestra in poi, quando il discorso cambia ancora e si sposta soprattutto sul disagio verso il presente, che il passato assumerà (implicitamente) un valore, se non nostalgico, patetico. Un passato comunque goffo, marionettistico, mai visto con i toni dell’elegia ma come un disperato sogno: l’arpista sotto le macerie di Prova d’orchestra, il valzer in discoteca della Voce della luna, i vecchi numeri di varietà di Ginger e Fred, il Mastroianni/Mandrake di Intervista. E la nave va (1983), poi, è quasi una parodia della nostalgia come oggetto culturale, una messa in scena dei tic e degli stereotipi che derivano dalla sua rappresentazione e fruizione massificata: proprio per questo, il Passato scelto è il più comico e “nostalgico” possibile, la Finis Austriae di gran moda in quegli anni, che segnano (per intenderci) l’affermazione dell’Adelphi come casa editrice à la page al posto dell’impegnata Feltrinelli. I clowns, Roma e Amarcord, che possono essere considerati come una progressiva esplorazione del potere e dei paradossi della memoria, non segnano un’epoca ma piuttosto i modi in cui essa si rappresentava: le origini della cultura di massa, che muoveva allora, nell’Italia sostanzialmente contadina e provinciale, i primi passi, e che per il regista riminese sono
doppiamente legate a uno stato di minorità il quale però, perseguito fino in fondo, diventa anche l’arma per difendersi dalle successive evoluzioni di quello stesso mondo, dal “fascismo” che Fellini sembra vedere, con tratti di massificazione da incubo, nel presente. Fellini ci mostra l’oscena prossimità a un’anima che il fascismo rappresenta psicologicamente e iconograficamente (ma che può essere ricreato, sempre su base “anni Trenta”, anche nell’antica Roma o nel Settecento): l’“amarcord” non è la rêverie ma la ricerca del referente storico delle immagini archetipiche, e insieme la divertita constatazione di come il dettaglio storico, perfino (o tanto più) se risibile, possa diventare archetipo. È il sogno dell’anima di un paese attraverso il ventennio che lo ha rivelato a se stesso. Caricatura Il passato è nei film di Fellini anche la caricatura di se stesso e la caricatura del presente. Il che non va inteso in senso spregiativo. Lo rivendica lui stesso in un’intervista del 1961 al regista André Delvaux: “La caricatura ha in sé una forza essenziale, cioè di sintesi, che mi sembra che sia uno degli aspetti fondamentali dell’arte, e quindi non sono affatto seccato che qualche volta la critica definisca certi aspetti deformanti o deformati dei miei personaggi o dei miei arredamenti ‘caricaturali’. No, è una visione che ha in sé, che presume in sé già un giudizio morale sulle cose”. Del resto, il fumetto che interessa Fellini è soprattutto quello che non ha tagliato i ponti con l’illustrazione e con la caricatura, con i suoi antenati diretti Wilhelm Busch (e… Hieronymus Bosch!) e William Hogarth, Daumier e Doré: una narrazione per caricature, per frammenti che continuamente minacciano l’armonia dell’insieme, il che è ben lungi dal costituire un limite.
L’influenza del fumetto e della caricatura si fa tanto più profonda quanto più prendono piede la centralità della memoria e quella del sogno. È a partire dagli anni Sessanta, in maniera nemmeno troppo graduale, che il cinema di Fellini, nel ripercorrere i terreni del sogno e la reinvenzione del passato (individuale e collettivo), si libera delle forme di narrazione tradizionale. E qui gli viene incontro la vecchia lezione del fumetto, e di un fumetto lontanissimo – proprio quello dei primordi. In Amarcord, che è il film più “a strisce” del regista, l’influenza del fumetto si insinua nello stile delle figurine, dalla gestualità del padre di Titta alle monellerie da Bibì e Bibò sessuomani. E risalta in maniera chiarissima un uso critico dello stile “fumettistico”, come rimando all’infantilismo di una nazione, al suo “sviluppo bloccato”. I personaggi delle strisce del primo fumetto, insieme infantili e anarchiche, sono il metodo perfetto per oscillare tra seduzione nostalgica e orrore, satira ed elegia. Fascismo Con Fellini in definitiva ci troviamo di fronte a uno degli esempi più alti di come la sensibilità per il passato tipica della modernità possa essere sottoposta a una torsione critica, a un autentico smontaggio, e l’ambiguità nei confronti del passato condotta a livelli di ambiguità parossistica. Gli strumenti per questa operazione Fellini li ricava proprio dalle forme “basse” di comunicazione, ed è per questo che cinema della memoria e influenza del fumetto, nella sua opera, si manifestano e si sviluppano di pari passo. Fellini descrive esattamente il passato come una prigione, ma contemporaneamente come il punto di forza per demistificare il presente. Non si comprende ovviamente Fellini se non come artista che forma la propria visione dell’Italia dello spettacolo, della cultura, del sesso sotto il fascismo. È rimanendo ossessivamente fedele al proprio
passato che Fellini riesce a demistificarlo; è rimanendo fedele alla sua auto-rappresentazione, anzi muovendo contro di esso le sue espressioni più “basse” come dei lapsus, che ne restituisce, attraverso un circense salto mortale, una profonda interpretazione storica. Non è un caso che Italo Calvino, nella già citata introduzione alle sceneggiature del regista, ne apprezzi la (non così ovvia) fedeltà storica (“Fellini mette sempre le divise giuste e il clima psicologico giusto degli anni che rappresenta”), individuandone nel contempo l’ispirazione centrale nella resa della compresenza tutt’altro che rassicurante dei tempi. Negli anni Settanta della corruzione e della strategia della tensione, Calvino (che vive a Parigi dal 1967, e frequenta l’Oulipo e Tel Quel) cerca di sentirsi il meno italiano possibile, allenandosi a diventare Palomar, l’osservatore postmoderno (e forse post-umano) del reale. Ovvio allora che il regista contemporaneo che Calvino ama dolorosamente di più sia quello che porta al massimo grado questo disagio e questa biografia di una nazione, ossia Fellini, che è tutto ciò che la sua scrittura cerca di esorcizzare: “Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino. […] Come nell’analisi della nevrosi, passato e presente mescolano le loro prospettive; come nello scatenarsi dell’attacco isterico s’esteriorizzano in spettacolo. […] Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente”. E, va aggiunto, quello che fino ad Amarcord era ancora angoscioso divertimento nel vedere il fascismo come “autobiografia di una nazione” perfino in senso retroattivo, l’ultimo Fellini (che è stato anche il primo artista ad avvertire la mostruosità del berlusconismo nel nostro paese) non si divertiva più. Anche dell’amarezza terribile, senza scampo,
dei suoi ultimi film, gli italiani dovrebbero essergli grati, e sentirsi a disagio.
GOFFREDO FOFI INTERVISTA FEDERICO FELLINI Sette n. 31, 3 settembre 1992
S
ei l’autore italiano che ha raccontato l’Italia con più assiduità e intelligenza nel secolo Ventesimo e allora parliamo dell’Italia: c’è un punto delle opere di Leopardi in cui dice che gli italiani sono amorali perché hanno un senso molto forte della vanità delle cose. È un’opinione che condividi? Non si potrebbe dire di meglio, soprattutto nell’era del consumo. Senza assumere atteggiamenti moralistici, mi sembra che ci si possa senz’altro riconoscere in questa definizione apparentemente spietata. Poi, naturalmente, si possono portare dei casi, anche personali, che vanno in senso contrario, ma in questa generalizzazione, estrema come tutte le definizioni, ma legittima, ci si può riconoscere tutti. Le generalizzazioni sono sempre un po’… disinvolte. Io, insomma, non riesco mai a riconoscermi in qualcosa che tende a esprimere un giudizio generale. Ogni volta che si parla di noi italiani, dell’Italia, se mi capita di lasciarmi andare a dei moti di sdegno che si esprimono in un giudizio pesante e generale, dopo mi sento sempre un po’ colpevole… Eppure delle generalizzazioni è possibile trarle anche dal tuo cinema, anche se in continua evoluzione, per varietà di situazioni e di tuoi atteggiamenti. Ma l’Italia di oggi, come ti sentiresti di raccontarla, dopo La voce della luna? Quello che avrei voluto fare, che vorrei tentare di fare, e che non ho mai fatto, è un viaggio attraverso un paese di cui parliamo in maniera sempre molto approssimativa, condizionati dai titoli di giornali e dagli ultimi avvenimenti
che hanno scosso la nostra fiducia o provocato il nostro sdegno. Ma ogni volta che monto in macchina, che esco da Roma – e dicendo Roma mi accorgo che dico in fondo Cinecittà, perché neanche Roma posso dire di conoscere – e mi avventuro attraverso le regioni, oltrepasso dei confini, mi fermo in piccole cittadine, poi sono sempre sorpreso, incantato, e mi rappacifico e mi accorgo che questo paese proprio non lo conosciamo. Non mi riferisco soltanto al paesaggio, alle sue bellezze, ma ai modi, ai costumi, alle abitudini, ai ritmi di vita, perfino ai menu… che non conosciamo, che conosciamo solo genericamente quali ce li ha proposti la televisione in modi deformati, cartolineschi, campanilistici, stereotipi, dialettali… Come si svolgerebbe questo viaggio, da un punto di vista cinematografico? La cosa che mi piacerebbe fare – e provo un vero senso di colpa per non essere riuscito a farla, per parlarne da sempre e poi tirarmi indietro – è quella di allontanarmi dalle mie abitudini, ormai arrugginite, che mi trattengono in casa in attesa di un film qualunque esso sia, e di mettermi invece a fare il giramondo. Prima da solo, cercando di appuntare quello che vedo e che sento – discorsi, personaggi, situazioni, interni familiari, vita di piazza… – per poi riscriverlo con la cinepresa, in modo spudoratamente personale, secondo il punto di vista attraverso il quale le cose mi sono arrivate. Questa cosa l’avevo proposta a Guglielmi tempo fa. Ma non si sarebbe trattato solo di un fatto professionale, sarebbe stata piuttosto una impresa esistenziale. La premessa è un vero viaggio di vita. Ma ormai sono troppo condizionato per muovermi, avrei dovuto essere spinto nel mio ritmo creativo da una committenza… Io per lavorare ho bisogno di sapere che c’è qualcuno con cui ho firmato un contratto, da cui ho preso un anticipo… Così importante è per te avere una committenza?
Riconosco di appartenere all’archetipo psicologico dell’artista rinascimentale, che per compiacere il granduca o il papa, o per sfuggire alla minaccia derivante dal non mantenimento di un impegno preso con il granduca o con il papa, poi produceva, realizzava, e tutta la sua vita si consumava in questa creatività stimolata da qualcuno molto forte, tra lusinghe e minacce… La Chiesa cattolica sapeva benissimo come trattare gli artisti, da grande conoscitrice di psicologie umane e specialmente della loro psicologia, cronicamente adolescenziale. A dire la verità, credo che tutti noi italiani, indipendentemente dalla creatività, apparteniamo a una categoria di persone che ha bisogno, tutto sommato, di una figura adulta, o comunque di potere, che ci invita a fare qualcosa con la promessa di un premio e la minaccia di una punizione. Fuori da questo condizionamento, questo viaggio in Italia non riesco a metterlo in moto. A meno che, arrivato alla mia età, stanco di certi rituali, una bella mattina non prenda una macchina e cominci a fare un giretto, magari fino a piazza del Popolo, cominciando a raccontare proprio piazza del Popolo. Tu hai raccontato l’Italia degli anni Trenta e il fascismo (Amarcord, parte di Roma), quella dei Quaranta, qua e là, e dei Cinquanta (I vitelloni, La strada, Il bidone), la svolta del boom e i Sessanta (La dolce vita, ancora Roma) e i Settanta (in un tuo film che io non ho amato, Prova d’orchestra), e poi l’Italia di oggi nella Voce della luna, il caos e il disorientamento del paesone Italia, la sagra, la festa degli gnocchi… Qual è il momento che ti è parso più importante in questo percorso? La svolta del benessere, senz’altro. E dei tuoi film quali pensi che siano invecchiati meglio, di quale hai il ricordo più forte, di un’esperienza più forte? Potrei rispondere soltanto rivedendoli, e questa non è una risposta evasiva, è la verità… Non ho mai avuto occasione di rivedere i miei film, e ti dirò che li evito, non so dire se
perché li avverto come dei conti in sospeso, o per la paura di incontrare qualcosa di me che si è espressa con tale sincerità da potermi ora creare quel tipo d’imbarazzo che si prova quando ci capitano per le mani delle fotografie che ci ritraggono come eravamo trenta o quarant’anni fa. Fatto sta che evito di guardarli. A volte ho pensato che evito di guardarli perché non ne ho bisogno, perché mi abitano ancora completamente. Ma, se mi abitano completamente, dovrei anche sapere quale mi abita di più, certo. Alcuni di questi film sono pezzi di storia, La dolce vita, per esempio, serve di più che tanti libri a capire l’Italia del boom e Amarcord è fondamentale per capire cos’è stato, come è stato vissuto il fascismo… I film che invecchiano meno bene sono forse quelli più “sapienti”, con un progetto troppo teorizzato, che so, 8½, Prova d’orchestra… 8½ non è il film che hanno voluto dire, citando Joyce, citando Pirandello, che naturalmente avevo letto ma che non c’entrano. 8½ è un film molto schietto, schietto fino alla spudorataggine. Preferendo tu i film che sono risultati documento, o quelli più astratti, trasversali, più folli, ti può aver dato fastidio il compiacimento narcisistico di 8½ per la mancanza di controllo, per non essermi fermato sul limite senza trascendere nella confessione, non tanto psicoanalitica ma certo compiaciuta nella sua esibizione di sincerità, nella sua ricattatoria sincerità. Possiamo tornare alla domanda sul film tuo che ancora “ti prende”, anche se solo nel ricordo? Un film dura un anno, dura tanto, e allora sì, il ricordo che io ho di un film è un ricordo di natura sentimentale, il ricordo di un viaggio dentro la mia vita che ha portato incontri nuovi, amici nuovi, avventure, aneddoti, situazioni, attori e attrici che appaiono e scompaiono, che parlano un’altra lingua… Il giudizio sui film passati non è tanto legato a un risultato, perché non avendoli rivisti mi manca quel
minimo di decenza critica per poterli giudicare. È un giudizio di natura sentimentale. È come se tu mi dicessi quali sono stati gli anni più belli della tua vita… Viaggi sentimentali, avventure. Tu ne hai fatti molti di viaggi, ne hai avute molte di avventure nel cinema. La prima avventura è stata Rossellini, no? Ho avuto la fortuna di cominciare con Roberto Rossellini. Una iniziazione al cinema-vita che non poteva essere più avventurosa. Un’avventura casanoviana, addirittura… Continuiamo a deviare. Ma allora, questo benedetto film cui sei più affezionato? Basta con le riluttanze! Il film in cui credo di essermi rappresentato di più? Il film cui sono più affezionato? Per la stagione di vita che ha rappresentato, certamente La dolce vita. È stato un tale viaggio nel cuore di Roma, nelle notti d’estate di Roma… e poi… un film che ha avuto la fortuna, mentre lo facevo, di specchiarsi nella gente che stava attorno al set, a via Veneto, a piazza Navona, nei Castelli romani, nelle campagne. È stato un viaggio fantastico, straordinario. Quanto lo era stato Paisà – e torno a Rossellini, vedi – in un senso però più aspro, meno giocoso, più duro. Ho un’immensa gratitudine verso Roberto per aver potuto fare quel viaggio, vivere quell’avventura, e per il film, per le persone che coinvolgeva. Il fatto di esserti poi chiuso a Cinecittà, di fare dei viaggi tutti all’interno, nel profondo… Devo dire sinceramente che io faccio una gran confusione… Tutto sommato anche se giro per le strade di Roma, come mi è capitato, il fatto di esprimermi mi isola. Il film diventa una specie di enorme sacco amniotico che può contenere la campagna romana, Venezia (come mi auguro che possa avvenire presto), o altro ancora. Il mio modo di
vivere, la mia esistenza si è ormai talmente identificata con il fatto di creare immagini che gli interni e gli esterni hanno finito con il diventare una stessa cosa. Solo che Cinecittà, lo studio, per chi deve confrontarsi con problemi di espressione, è tutto sommato più comodo, più pratico. La luce, per esempio, che è fondamentale, in teatro tu la puoi controllare, in esterni è difficile controllarne l’intensità, averla precisamente come vuoi tu. Non è che mi sono chiuso a Cinecittà rifiutando la vita! Immagino che per questi ultimi tuoi lavori, per la pubblicità, tu abbia prediletto gli interni, le costruzioni di Cinecittà. E invece no. Per questi spot ho girato un paio di giorni a Cinecittà, ma gli altri giorni, altri cinque giorni sono stato a girare in un tunnel sotto il Gran Sasso, e in un campo che avevo scelto vicino al lago di Bracciano, ad Anguillara. E non ha fatto nessuna differenza. Molti tra i miei amici si sono stupiti, proprio come te: ma come, giri in esterni, ma che ti succede? Il mestiere che faccio è così generoso con me da permettermi di poterlo realizzare e affrontare in qualunque posto. Quando penso al viaggio in Italia che mi piacerebbe poter fare, per raccontarmi e per raccontare quegli squarci, quelle emozioni, quei conforti, quelle consolazioni, quegli stupori, quelle meraviglie che non appena faccio un piccolo viaggio puntualmente mi riprendono e mi fanno dire: ma guarda, l’Italia non la conosciamo proprio, non conosciamo chi siamo, non conosciamo gli altri. Anche questa è una cosa che andrebbe protetta, e l’Italia diventerebbe (ammesso che volessi percorrerla tutta ma basterebbero tre o quattro regioni…), diventerebbe un grande teatro, mi sentirei protetto da un tetto e da pareti. La differenza può essere solo quella, e non sempre, di un maggior dominio, un maggior controllo della luce. Per il resto, la mia indole di saltimbanco fa sì che io mi trovi immediatamente a mio agio in una piazza, in un paese. Riesco ancora a godere davvero, e davvero in maniera fanciullesca, dell’arrivo della troupe in un piccolo paese, con quel tanto di avventuroso, di
militaresco, che c’è nel nostro mestiere!, mi considero molto fortunato nel fare questo mestiere, che veramente appaga e compiace tutti gli aspetti di un carattere che ha del proprietario di circo equestre, del soldato invasore, del giornalista stendhaliano, curioso e ficcanaso. E, mi pare, anche del ricercatore di qualcosa da valorizzare, nel paese e nel carattere di una parte almeno dei suoi abitanti… Anche a chi è portato a vedere del paese gli aspetti più disastrati, capita poi di commuoversi per Falcone o per Borsellino, per le inchieste di Di Pietro, per il carabiniere del film di Amelio, per tanti personaggi veri che capita di incontrare nelle situazioni di base, e anche nelle istituzioni… …In Italia si producono sempre degli anticorpi, c’è ancora una vitalità morale nonostante tutto. È la prova che l’uomo è fondamentalmente tutt’e due le cose, è belluino ma è anche portato alla generosità, alla solidarietà. Ma poi accade in Italia che ci siano proprio… …degli schieramenti! Sì, e come! E i buoni sono sempre in minoranza! Dei buoni noti e sconosciuti, dei cattivi noti e sconosciuti, e una gran massa di ignavi! Bisognerebbe da un lato evitare di scivolare nel sentimento, o peggio ancora nel sentimentalismo, e dall’altro di scivolare in una visione ecumenica tollerante e assolvitrice. Bisognerebbe tentare di spostare il punto di vista. La ricchezza delle creature umane è infinita, mentre noi abbiamo avuto un’educazione che ci ha portato a schematizzare, a dividere invece che ad allargare. Il mio viaggio in Italia avrebbe anche questa ambizione, di guardare le cose come capita a tutti ogni giorno, cento volte, solo che non ci riflettiamo, perché dobbiamo immediatamente catalogare, mettere etichette, dividere, separare, allontanare,
o unire in modo caotico. L’ambizione sarebbe, oltre che raccontare il nostro paese, di raccontare la creatura umana, in questo caso l’italiano, in tutta la sua radiale sfericità, in tutti quegli spicchi di cose che non siamo più abituati a raccogliere, a contemplare, e che ci aggrediscono all’improvviso… Ma adesso ho fatto un discorso troppo ambizioso, me ne rendo conto! Forse solo tu potresti fare un film sull’Italia di oggi in grado di coglierne il “segreto”, e con l’autorità per convincere. Ma allora, perché non lo fai? Sento che devo farlo, sento un obbligo, oltre che la voglia di farlo! Ceronetti ha fatto due libri, Un viaggio in Italia e Albergo Italia, molto belli. Ne abbiamo parlato insieme, ma forse lui è condizionato da una visione severamente moralistica; dire moralistica è qualcosa di ingeneroso e improprio per uno scrittore come Ceronetti, però vedo in lui qualcosa di spazientito, qualcosa che vuol rimuovere e che vuole ignorare, e mi sembra che il libro abbia in parte mancato al suo scopo, che poteva essere quello di raccontare un paese, non soltanto con un atteggiamento così critico, impaziente, infastidito… Gli manca l’altra parte, quell’altra parte che mi piacerebbe tantissimo provare a raccontare, a proporre. Il sentimento della nostalgia ti appartiene? Tu sei un regista contemporaneo sempre, anche quando parli dell’antica Roma o del fascismo, né vedi il passato, mi pare, con sdilinquimento… No, non mi sembra proprio di avere “nostalgie”, tra virgolette, di stagioni, di periodi, o di vite e di società vere oppure immaginate, tratte da letture… Forse, nostalgia della nostalgia questo sì, anche se può sembrare una capriola! Mi posso riconoscere in un sentimento ineffabile, come la nostalgia del sentimento della nostalgia, la nostalgia di non provare nostalgia, forse questo sì. È un po’ più capzioso, ma adesso, parlando con te, mi hai fatto venire in mente che questa cosa così poco precisabile potrebbe essere
quell’atmosfera che qualche volta c’è, a mia insaputa, nei paesaggi, nella luce, nelle situazioni dei miei film. E il futuro ti affascina, ti attrae? Il Duemila, un cinema da fare, che cosa succederà del mondo… Non mi sembra di avere mai avuto curiosità per come andranno le cose. Mi sembra che il presente, intriso e impasticciato con il passato, è una sorta di attualità permanente che comprende in sé anche la proiezione del futuro… Ecco, questo stato d’animo di un presente condizionato dal passato e confusamente rischiarato da un futuro idealizzato o temuto è lo stato d’animo in cui mi pare di vivere abitualmente. Mi sembra di essere sempre, se non attento, comunque partecipe, solidale, incuriosito delle cose così come le sto vivendo. Anche perché non mi pare di avere avuto un’evoluzione, quel che viene chiamato uno sviluppo. Tutto sommato mi sembra di star fermo sempre nello stesso periodo. Forse questa sensazione è dovuta al mestiere che faccio, un mestiere che si trova al centro di una semi-oscurità da illuminare, di uno spazio da rendere abitato: da paesaggi, costruzioni, prospettive, notti, giorni, personaggi, cose… Questa contiguità, questa lunghissima, interminabile sequenza in cui si è svolta e continua a svolgersi la mia esistenza, mi impedisce di pensare con nostalgia a un passato, che mi sembra del resto tutto inventato, o a un futuro… Perché non hai preso sul serio l’ipotesi di un film all’estero? Ormai ho raggiunto un’età in cui, per esempio, non mi muovo volentieri. Ma anche prima, non ho mai voluto fare film fuori dal mio ambito. Ogni tanto mi capita ancora la proposta di un film all’estero, che mi lascia un po’ perplesso. La considero come un invito provvidenziale a tentare di ricominciare daccapo, ma un po’ la pigrizia, un po’ la mancanza in me di ogni spirito del sentimento del viaggio in terreni incogniti… Mi sentirei perduto. Non sono un
viaggiatore e non sono un giornalista. Non sono un testimone, o allora sono sì un testimone, ma un testimone cui deve esser data la licenza di inventare tutto quello di cui pretende di dar testimonianza. Venendomi a mancare queste due qualità, quella di essere suggestionato impressionisticamente dalle cose, e di trascriverle e raccontarle fedelmente, ma cercando invece più che l’impressione l’espressione – che mi pare sempre di più il modo che mi appartiene e che voglio mi appartenga, e davvero non voglio uscire da questo – penso allora che l’avventura americana o brasiliana o norvegese (che mi è stata proposta ultimamente) non avrebbero senso… La curiosità e la cortesia, ma soprattutto la curiosità, mi spingono ad accettare tutti gli inviti, ad ascoltare tutte le proposte. So già che questi rituali si svolgono sempre in una buona colazione al Grand Hotel o all’Excelsior, in faticose traduzioni con interpreti di buona volontà che non capiscono né quello che ho detto io, che forse è confuso, né quello che sta dicendo l’altro… Su questi pasticci comici volevo anzi fare uno special, raccontando i contatti, le offerte che sono costretto a rifiutare per la mia incapacità ad accettare il punto di vista dell’estraneità totale, che si affidi soltanto a quel che vedi, che apprendi momento per momento… Pure in Italia non è più così facile fare film, le difficoltà non sono poche. Le difficoltà del cinema italiano mi riguardano moltissimo. Anche se ogni tanto devo ammettere a me stesso che stanno passando uno dopo l’altro, colpevolmente e irrimediabilmente, gli anni, un mio innato ottimismo, dovuto a una inesauribile, identica voglia di fare, mi porta a pensare, forse sconsideratamente, che da un momento all’altro posso ricominciare. C’è un istinto che mi porta a rimuovere le analisi, le constatazioni, i processi a quello che è stato, a quello che è anche la diagnosi precisa di una situazione fallimentare, anche le cifre. L’altro giorno un amico mi faceva notare: “A te le cifre non interessano, ma senti un po’, cosa
ne dici di queste? Fino al 1982 c’erano in Italia 18mila sale cinematografiche, oggi ne sono rimaste 800”. Sono cose che non dovrebbero permettere la minima delle speranze, e ciò nonostante mi sembra impossibile dover accettare che una sala cinematografica – dove della gente che si muove da casa si riunisce, si trova, entra, siede, e poi la luce se ne va, parte il fascio luminoso che illumina un grande schermo, e appaiono dei visi enormi che cominciano a parlare – chiuda, non ci sia più. Mi pare che questo rituale, in cui io sono nato, in cui riconosco la mia vita, non possa sparire. E non tanto perché lo faccio, il cinema, ma perché l’ho subìto, mi ha protetto, ha protetto tutta la mia adolescenza, dal fascismo, dalla chiesa, dalla famiglia, dalla scuola, dall’ignoranza… Cosa rispondi a chi ti dice che è contraddittorio con i tuoi attacchi alla televisione il fatto di fare pubblicità? La domanda sulla pubblicità diventa un po’ antipatica quando mi dicono: “Ma come, proprio te che sei diventato una bandiera contro Berlusconi…”. Ma cosa c’entra? Io sono contro gli spot che interrompono i film, non sono contro la pubblicità in sé. Che vorrebbe mai dire essere contro la pubblicità in sé? Bisognerebbe fare un discorso morale le cui premesse ci sfuggono, bisognerebbe ricominciare da Platone… Io ho fatto pochissimi spot e non lo dico come giustificazione, dico che purtroppo ho fatto pochissimi spot, perché perlomeno lavoro, e ne farei volentieri non solo perché è lavoro, e quindi le giornate sono meno vuote, meno silenziose, meno antipatiche, ma perché è un’esperienza che sarei portato a consigliare a tutti i miei colleghi, perché tentare di raccontare una storia, suggerire dei personaggi e un’atmosfera, indipendentemente dal messaggio più o meno subliminale o più o meno dichiarato del committente, da un punto di vista dell’espressione cinematografica è un’esperienza utile, un’esperienza che io ho fatto volentieri.
Vuoi fare, lo dici da tempo, un film su Venezia. Perché Venezia? Tu hai già fatto Venezia nel Casanova. E allora perché non Napoli, o un’altra città? L’hai detto, oltre Venezia vorrei fare anche Napoli. Vorrei avere salute, e toccando legno ne ho abbastanza, vorrei star bene soprattutto per poter continuare a lavorare, a fare film. Non bevo e non fumo non per delle forme di igienismo, ma perché star male è una perdita di tempo, impedisce di lavorare, e di tempo io ne ho perso fin troppo, in questi ultimi anni. Tra i progetti, c’è il diario italiano per la televisione… senza programmi, cercando di dimenticare anche le cose un po’ vaghe, presuntuose, ambiziose che ho detto prima. Voglio partire, e prendere nota. La sera, sedermi alla prima osteria o su un paracarro, e appuntare quello che mi è successo. E poi rifarlo. Rifarlo con la distanza, un mese dopo, e quindi sarà già diverso, ingentilito, o reso più significativo dal distacco. A parte questo progetto, ne ho altri due che proprio vorrei riuscire a fare: Venezia il primo, e Napoli il secondo. Venezia e Napoli mi sembrano due città estreme, due modi di vivere, due paradisi o inferni. Mi sembra che il cinema debba consegnare a se stesso queste due città. Una storia, due storie, cento storie, una folla, soltanto le case, le strade, un documentario visionario, surreale. Il tentativo di fare un ritratto di una città e delle persone che la abitano, dell’uomo che ha abitato, che ha creato, che ha costruito una città come Venezia, o che continua a vivere in una dimensione così… dantesca – nel senso che è inferno e paradiso insieme – come Napoli, una città su cui si può dire poco, perché diventa subito come trito, già detto… Conservo dentro di me lo slancio per questi due temi, per queste due imprese che, quando ci penso, mi restituiscono una specie di solletico in cui mi par di riconoscere la voglia di cominciare, di confrontarmici. Napoli è un po’ più difficile, Venezia l’ho studiata di più. A parte tutti i significati allegorici e simbolici, Atlantide, la civiltà, la grazia, la bellezza che affonda, che sparisce… e per Napoli la capacità di sopravvivere comunque nelle contraddizioni più accese, anche le più orribili… mi sembrano due progetti che
non hanno bisogno di spiegazione. Ma c’è che le cose sono cambiate – il discorso delle 18mila sale ormai diventate 800 – e che bisogna trovare delle committenze, delle nuove committenze. E noi siamo rimasti come gli ultimi dei moicani…
PICCOLA BIBLIOTECA MORALE
Riprendere oggi la Piccola Biblioteca Morale significa per noi reagire all’abulia della cultura di questi anni, dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti, di “persuasioni” e non di “retoriche” secondo la classica e dimenticata distinzione michelstaedteriana (per intenderci, erano “persuasi” gli Sciascia, le Morante, le Ortese, i Pasolini, i Calvino, i Silone eccetera eccetera, ed è scomparsa via via la generazione che, in politica e in cultura, ha dato alla storia d’Italia i suoi anni migliori, dalla caduta del fascismo all’assassinio di Aldo Moro). Sono stati sostituiti, costoro, da branchi di professionisti della cultura, di ratificatori delle scelte del potere e non di suoi critici o oppositori; sono stati sostituiti da masse di scriventi da cui ben di rado si distaccano figure di scrittori e studiosi all’altezza delle necessità del nostro tempo, che i più avvertiti giudicano estremamente critico o addirittura pre-finale, proprio nel senso di una possibile fine della natura e fine della società umana. Quando le politiche in fatto di ecologia e di frontiere e di interessi finanziari mettono in dubbio la possibilità stessa di un futuro per il pianeta e per i suoi abitanti, quando gli stati cedono ai privati rinunciando alle responsabilità verso le collettività e finiscono quasi ovunque in mano ad avventurieri senza scrupoli, torna a essere urgente guardare al presente con occhi bene aperti sulle sue storture e sui suoi pericoli, dando voce, per il poco che si può fare, a chi ancora si ostina a pensare e a proporre, in funzione di una risposta, di un agire individuale e per gruppi piccoli e grandi, per comunità e collettività. La nuova Piccola Biblioteca Morale questo cercherà di fare, scovando il pensiero che più può esserci utile là dove ancora
viene prodotto e recuperando dal passato le lezioni che ancora servono a capire e ad agire. La PBM cercherà dunque di dar spazio al pensiero radicale di ieri e di oggi, in tutti i campi in cui si è espresso e si esprime – dalla sociologia e antropologia alle scienze (e ai pericoli delle tecnologie, alla critica delle illusioni nel progresso che già Leopardi vide come nefaste nella Ginestra, insieme a quelle in un aldilà che compenserà i buoni e i giusti – e anche La ginestra, con opportuni commenti, sarà uno dei “classici” che la collana intende recuperare alla luce dell’oggi); dal pensiero religioso con le sue necessarie “eresie” agli interventi nella storia attraverso il racconto e le idee dei più lucidi tentativi di intervenirvi al fine di cambiarne le regole, ma cambiando, con Rimbaud, la vita e non solo le società; al ruolo fondamentale dell’arte, delle arti, come aperture al possibile e all’oltre… Ieri e oggi, in uno studio, un confronto, un dialogo il cui fine è ricominciare a pensare, cercando e trovando lo stimolo necessario a difenderci dalle idee correnti e manipolate, e perfino, come massima aspirazione, lo stimolo ad agire. A non accettare quel che il potere quotidianamente ci impone trovando complici – servi volontari – a milioni. Goffredo Fofi