L'Italia di Fellini 8896105013, 9788896105016

La storia d'Italia può essere raccontata attraverso l'opera di un autore cinematografico? Il cinema è uno stru

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Italian Pages 307 [311] Year 2008

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L'Italia di Fellini
 8896105013, 9788896105016

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CINEMA ITALIANO

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Giovanni Scolari

L’Italia di FELLINI

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È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Art Director: Nicola Fiorentino © Tutti i diritti letterari riservati Prima Edizione 2008 EDIZIONI SABINÆ Corso del Popolo, 7 Cantalupo in Sabina - 02040 - (RI) Tel. e Fax: 0765 51 30 07 Il nostro sito internet è www.edizionisabinae.com Per ogni informazione: [email protected] ISBN 978-88-96105-01-06

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INDICE PARTE PRIMA

Introduzione

13

Capitolo 1 L’industria cinema dal fascismo al 1950

23

Capitolo 2 - LUCI DEL VARIETÀ (1950) 2.1 La tragedia di un uomo ridicolo

33

2.2 Un difficile debutto 2.2.1 Sfida ai produttori 2.2.2 Critiche e incassi 2.2.3 Non solo lustrini 2.2.4 Da mangiare si rimedia sempre 2.2.5 L’eredità del Circo Massimo 2.2.6 Dalla vita comune al palcoscenico

33 35 36 39 40 41

2.3 Il primo dopo guerra: una lenta ripresa 2.3.1 1950 anno di tensioni 2.3.2 Vivere tra l’onore e la fame

42 43

2.4 Una cultura in dissolvenza 2.4.1 Sesso e doppi sensi alla ribalta? 2.4.2 Dal crudo al cotto: la fine del neorealismo

45 46

Capitolo 3 - LO SCEICCO BIANCO (1952) 3.1 Niente è falso fuorché l’onore dei Cavalli

51

3.2 La patetica menzogna 3.2.1 Un gradito omaggio 3.2.2 Sani, giovani e belli in un mondo fiorito

52 53

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3.2.3 Dove comincia la vera vita 3.2.4 Fotoromanzo è peccato 3.2.5 Sceicchi e angeli 3.2.6 Trionfo del melodramma

55 56 57 59

3.3 Malumori DC tra Guerra Fredda e nuova Europa 3.3.1 La parabola di De Gasperi

62

3.3 Lacrime e canzoni 3.4.1 Matrimonio all’italiana 3.4.2 Gusti e tendenze

64 65

Capitolo 4 - I VITELLONI (1953) 4.1 Los Inutiles

71

4.2 Da sogno a sogno 4.2.1 Sfaccendati di provincia 4.2.2 Il borgo: Rimini

72 75

4.3 Per pochi voti 4.3.1 La visione di una democrazia protetta 4.3.2 Andiamo al mare 4.3.3 Partire per dove?

78 80 81

4.4 Ridere di cosa? 4.4.1 Vittime del benessere 4.4.2 Largo alla commedia

83 84

Capitolo 5 - LA STRADA (1954) 5.1 La purezza e la bestialità

89

5.2 Guerra di trincea 5.2.1 La poesia dei vagabondi 5.2.2 A Venezia equivoci e falsi dualismi 5.2.3 Crisi del neorealismo

90 91 94

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5.2.4 Senza tetto né legge 5.2.5 La diffusione del culto mariano

95 97

5.3 L’Italia a motore 5.3.1 Dalla vespa all’utilitaria 5.3.2 Poveri e ignoranti

99 100

5.4 L’Italia parcellizzata 5.4.1 Rossellini, maestro dimenticato 5.4.2 Pubblici concubini

102 104

Capitolo 6 - IL BIDONE (1955) 6.1 Gli artisti della truffa

109

6.2 Non profeta in patria 6.2.1 Un film onesto 6.2.2 Il marchese della truffa 6.2.3 Cinema e televisione

110 114 116

6.3 La rottura del fronte delle sinistre 6.3.1 La generazione del ’56 6.3.2 Nascono le partecipazioni statali

6.4 Hollywood sul Tevere

118 120 121

Capitolo 7 - LE NOTTI DI CABIRIA (1957) 7.1 La vita riprende

127

7.2 Il potere della porpora 7.2.1 Nuove relazioni 7.2.2 Il sigillo cardinalizio 7.2.3 Lazzari o Nazzari?

128 130 133

7.3 Guerre e silenzi 7.3.1 La “missione” di Lina Merlin 7.3.2 Il “sacco d’Italia”

135 137

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7.4 Fellini sul tetto del mondo 7.4.1 Alla ricerca di una nuova religiosità 7.4.2 Oltre l’estetica neorealista

139 141

Capitolo 8 - LA DOLCE VITA (1960) 8.1 La bella confusione

145

8.2 L’evento del secolo 8.2.1 Il mito di Via Veneto 8.2.2 Più che un successo 8.2.3 La schifosa vita 8.2.4 Dopo Anzio…Cinecittà 8.2.5 Cronaca Nera

147 150 152 157 158

8.3 Un ambiguo miracolo 8.3.1 Segnali contraddittori 8.3.2 Tra incertezze e speranze

160 162

8.4 Qualcosa di totalmente nuovo 8.4.1 Pioggia di miliardi 8.4.2 Il potere del volto umano

165 166

Capitolo 9 - LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962) 9.1 La giornata di un moralista

171

9.2 La dolce vendetta 9.2.1 Un’operazione commerciale 9.2.2 La migliore vendetta è il perdono

172 173

9.3 Censura o dell’arbitrio assoluto 9.3.1 Un incontro soffocante 9.3.2 Il regno dell’eufemismo

9.4 Ultimi bagliori di un crepuscolo

174 175 177

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Capitolo 10 - OTTO E MEZZO (1963) 10.1 Il girotondo dell’inconciliabile

183

10.2 Mille modi di dire IO 10.2.1 Le angosce dell’artista 10.2.2 Da oltrecortina un applauso di 20 minuti 10.2.3 Verso l’eclisse

185 187 188

10.3 La fine dei sogni 10.3.1 Il varo del centrosinistra 10.3.2 Trame nell’ombra 10.3.3 Verso il ’68

Capitolo 11 - CONCLUSIONI

189 191 192 197

PARTE SECONDA

Intervista con Angelo Arpa Intervista con Titta Benzi Intervista con Liliana Betti Intervista con Maddalena Fellini Intervista con Rinaldo Geleng Intervista con Tullio Pinelli Intervista con Lina Wertmuller Intervista con Bernardino Zapponi BIBLIOGRAFIA

205 215 225 235 237 255 277 289 305

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Parte Prima

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INTRODUZIONE Per quale motivo scegliere Federico Fellini per raccontare la storia italiana nel secondo dopoguerra? Perché si è scelto proprio lui per analizzare la nostra cinematografia in relazione ad un periodo storico che ha visto operare autori straordinari quali Rossellini, De Sica, Visconti, per non parlare dell’enorme influenza esercitata da Cesare Zavattini sul movimento neorealista con i suoi scritti e le sceneggiature? Per quale motivo scegliere un autore che, a differenza di tutti gli altri citati, ha fatto cinema con la convinzione che esso fosse solamente una meravigliosa finzione; un uomo che non ha mai creduto nel potere liberatorio ed ideologico del neorealismo, alieno dalla politica che trovava noiosa ed urticante? Da tutti questi particolari il personaggio Fellini appare agli antipodi di quello che necessiterebbe un’opera che intende dimostrare la funzione della fiction come documento storico. I protagonisti delle vicende da lui narrate non vivono, infatti, cambiamenti epocali, non lottano per cambiare le cose, anzi subiscono la quotidianità con rassegnazione. Sono molto spesso degli emarginati, rifiuti della società che non hanno futuro e vivono con disperazione e passione animale l’esperienza della vita. La sua cinepresa, nella prima fase della carriera, ha testimoniato un’Italia minore, che figura fugacemente nei libri di storia che si occupano, invece, dell’immensa trasformazione in atto nell’Italia del dopoguerra diventata, con una rapidità insospettabile, una potenza industriale. Questo stravolgimento è un flusso inarrestabile che modifica tutto, prima di ogni altra cosa gli usi ed i costumi essenziali per la vita di questi personaggi che, trovatisi improvvisamente in una società che non solo non li considera, ma addirittura non li concepisce, scompaiono in silenzio dalla scena. Fellini li saluta uno ad uno con malcelata commozione, sapendo che essi sono gli ultimi esemplari della loro specie, comprendendo che rappresentano, pur con i loro immensi difetti, un residuo di tradizioni appartenenti, ormai, per intero alla storia del nostro paese.

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INTRODUZIONE

I suoi film degli anni cinquanta ci mostrano l’estinzione di questi “eroi” raffrontandoli alla realtà della nuova Italia che, uscita dal giogo fascista, riacquista vigore ed entusiasmo. La trasfigurazione a cui sono sottoposti dalla poetica felliniana questi personaggi, li mistifica ai nostri occhi, ma non li rende meno veri, meno reali. Essi si muovono nel contesto dell’Italia rurale e delle periferie, saccheggiata dai profittatori collusi con il potere politico e repressa da uno stato che non si presenta mai tale, se non per punire episodici gesti di follia. Se dunque le vicende di Cabiria, Gelsomina, Zampanò sono al centro dell’immagine cinematografica, lo scenario entro cui si muovono è proprio la storia d’Italia, le tappe del suo processo di evoluzione. In tal senso il cinema di Fellini, e il cinema in generale, diventa documento storico. La significatività delle opere felliniane in questo contesto è aumentata inoltre dalla sensibilità, tipica di ogni grande artista e peculiare in Fellini, e dall’intuizione che il cineasta romagnolo ha mostrato nel comprendere con largo anticipo i mali e le inquietudini della società italiana mentre si stava avviando a vivere il miracolo economico. Non è un caso che in corrispondenza di un frangente particolare quale è stato il boom economico, esca nelle sale La dolce vita che mette sotto processo non solo il momento storico e l’euforia conseguente, ma anche i valori su cui si fondava anticipandone le influenze che esso avrà durante gli anni sessanta. Infine, Fellini si differenzia dagli altri autori per la sua atipicità. Abbiamo già detto, infatti, del suo rapporto con la politica. Ma non è solo questo che lo caratterizza. Fellini non sposa mai completamente una posizione ideologica o filosofica. Lui utilizza tutto quello che è presente nella società e lo affastella nelle sue opere cinematografiche. Non si pone in posizione critica verso qualcosa o qualcuno; si limita ad indugiare sugli uomini e sulle idee e lascia che essi evidenzino, con il loro pratico operare, pregi e difetti delle loro convinzioni. La sua autonomia assoluta lo mette inevitabilmente al centro delle posizioni critiche emerse nel periodo. Lo studio delle recensioni, provenienti dai due lati dello schieramento politico, è infatti utile al fine di tracciare un esauriente quadro della cultura nel quindicennio analizzato. Lo è ancora di più esaminando le

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L’ITALIA DI FELLINI

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critiche mosse al regista romagnolo che, indefinibile per antonomasia, diventa attaccabile a seconda dei problemi che i suoi films sollevano o della visuale da cui ha osservato il fenomeno al centro della sua indagine. Così Fellini viene definito, nel giro di pochi anni, nostalgico, cattolico, comunista, realista, barocco, letterario e via dicendo. Da una parte gli viene rimproverato di invitare al male gli spettatori, dall’altra gli si rinfaccia di aver affossato il neorealismo. Insomma tutto e il contrario di tutto. Eppure, proprio nel neorealismo Fellini ha mosso i primi seri passi nel mondo del cinema quando, dopo aver scritto diversi sketch per alcuni comici durante gli anni di guerra, inizia una collaborazione, e una grande amicizia, con Rossellini (Roma città aperta). È il periodo in cui il sodalizio, e l’impegno politico, di De Sica e Zavattini è al culmine. Gli Oscar per Sciuscià e Ladri di Biciclette, insieme ai film di Visconti e di Rossellini appunto, sono determinanti per l’affermazione del movimento neorealista. Ma come suggerisce il suo più stretto collaboratore fino al 1960 Tullio Pinelli, nessuno si rendeva conto, in quel momento, che si stava costruendo il “neorealismo”1 , cioè una scuola che avrebbe influenzato tutto il cinema mondiale. Una scuola può essere definita tale se ha almeno queste componenti: zona d’operazione, epoca, principi, maestri, discepoli.2 È indiscutibile che tutti questi elementi sono presenti in Italia alla fine del conflitto, ma è anche fuor di dubbio che nelle intenzioni dei registi non c’era piena consapevolezza di essere gli elementi fondanti di tutto il cinema italiano del dopoguerra.3 Comuni erano certo le esperienze del tempo di guerra e le speranze in un futuro finalmente migliore e comune era la convinzione di essere parte del processo di rinascita, o meglio ancora, di fondazione di una nuova Italia. Il desiderio dei cineasti era, quindi, non di contemplare “stracci e sofferenze”, ma di creare “una forma artistica della verità.”4 1

Intervista del 12.9.95 con Tullio Pinelli (Torino 1907). Avvocato fino al 1942. Abbandonata la toga è diventato uno dei più importanti sceneggiatori del dopoguerra ed ha collaborato alla realizzazione di tutti i films di Fellini qua esaminati. 2

M.Verdone, Storia del cinema italiano, Collana Il Sapere, Ed. Newton Compton, 1995, pag. 39.

3

Intervista con T. Pinelli del 12.9.95.

4

M. Verdone, ibidem, pag. 43.

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INTRODUZIONE

Il cinema neorealista, tuttavia, per Fellini è, a posteriori, rappresentato solo da Rossellini, anzi considera gli altri registi “dei veristi della scuola francese, sempre con qualche cosa di sentimentale”.5 Il suo atteggiamento è di distanza, di diffidenza, forse, verso quello che da movimento spontaneo si è trasformato in dogma. Questo atteggiamento gli sarà proprio anche dopo. Nel corso di tutta la sua vita Fellini non aderisce ad alcun movimento politico e culturale, rimane al di sopra di ogni forma di litigio, di discussione. Non si occupa della critica, di chi è rimasto turbato o disturbato dai suoi film. Attraverso di lui, quindi, passano tutte le tensioni culturali del periodo, superando il concetto del film come semplice specchio della realtà in quanto esso, prima di rivelarci gli interessi e gli orientamenti di una società, ci palesa l’orizzonte di pensiero in cui si muove.6 Anzi, si impossessa di queste tensioni e non appena ne ha l’occasione le immette nelle sue opere, cartine di tornasole ideali per comprendere l’identità degli italiani modificatasi in modo sensibile per via dei mutamenti economici, politici ed internazionali che continuano a succedersi. Se la pellicola impressionata testimonia di un atto del vedere in cui il mondo è implicato in qualità di referente esterno7, Fellini è più di chiunque altro il regista che mostra tutto il visto o che perlomeno lo ripropone nella sua complessità, con meno pregiudizi e preconcetti di altri. Il suo mondo-filmico, proprio perché paradossalmente reinventato, è il massimo elemento svelatore del livello prefilmico (l’organizzazione della storia) e del livello profilmico (la costruzione del set)8 nel cinema, tracciando il sentiero attraverso cui lo spettatore può distinguere con meno difficoltà la menzogna della fiction e la reale memoria storica. Importante è, a questo punto, riuscire a vedere come lo spettatore ha colto il messaggio del cinema neorealista e delle opere di Fellini. Per fare ciò è necessario verificare l’evoluzione del rapporto tra il pubblico e la cinematografia italiana (analizzare anche il cinema di importazione avrebbe comportato un lavoro immenso e poco produttivo) nel corso degli anni cinquanta. 5

R. Cirio, Il mestiere di regista, Garzanti, 1994, pag. 131.

6

F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, 1993,

7

M. W. Bruno, Ricordi innestati, in Segnocinema, n. 76 nov/dic 95, pag. 27.

8

M. W. Bruno, ibidem, pag. 27.

pag. 321.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Si tratta, in sostanza, di abbozzare una storia della mentalità che metta in luce, attraverso un’analisi dei testi filmici circolanti in una società, gli orientamenti ideologici, le concezioni di vita, le percezioni del mondo che quest’ultima possiede. A tal scopo si sono studiate le reazioni del pubblico approfondendo i suoi gusti attraverso le classifiche degli incassi dei film di produzione italiana che meglio di qualunque altra cosa sono in grado di definire mode e tendenze. Una prima osservazione, che non ha bisogno di conferme statistiche, riguarda la rivoluzione che il neorealismo ha provocato nel processo di riconoscimento dello spettatore italiano. Esso, infatti, porta alla ribalta attori non professionisti, persone prese dalla strada che si ritrovano al centro dell’attenzione pubblica e diventano il simbolo della rinascita dell’Italia e dei suoi problemi. I miti del cinema - impersonati fino ad allora dal sistema divistico: Greta Garbo, Marlene Dietrich e altri in America, ma anche Nazzari, De Sica, Cervi in Italia - erano, per loro stessa natura, irraggiungibili; appartenevano al mondo della magia, della fiaba. Improvvisamente, grazie al cinema dell’immediato dopoguerra, l’uomo comune irrompe sulla scena, stravolgendola proprio perché con la sua sola presenza rammenta a tutti proprio “gli stracci e le sofferenze” degli italiani in modo non superficiale o stereotipato. Il rapporto con il cinema diventa allora di riconoscimento con i propri problemi, paure, sogni ed illusioni. Subito dopo, i progressi della tecnica nel mondo dei trasporti riducono ancora le distanze, avvicinando gli intoccabili divi dello star-system americano che giungono a Roma per partecipare allo straordinario fenomeno della “Hollywood sul Tevere”, quando Cinecittà è stata, sia pure per un breve periodo, il centro del mondo del cinema. Con questi cambiamenti era inevitabile che mutasse radicalmente anche il pubblico e il suo modo di fruire del cinema. L’età degli spettatori diminuisce sensibilmente insieme alle presenze delle sale. In un’indagine Doxa del 19659 risulta che ogni italiano adulto vedeva una media di 6,2 film al mese. Lo spettatore era comunque prevalentemente maschio (il consumo degli uomini 9

M. Livolsi, Chi va al cinema?, in Schermi e ombre, La nuova Italia, 1988, pag. 100. Lo stesso autore avverte che i dati sono basati su di un campione non sufficientemente ampio, ma tale inchiesta resta utile per la sua capacità di indicare le tendenze in atto nel pubblico.

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INTRODUZIONE

è doppio rispetto alle donne), di tutte le età e di tutte le classi sociali. La scelta del film da vedere era condizionata prima dal genere e poi dagli attori. In una susseguente inchiesta, datata 1973, la differenza di fondo sta nell’età in cui, generalmente, si smette di recarsi nelle sale preferendo la televisione, vista dalla più comoda poltrona di casa. Dopo i 44/45 anni, infatti, il consumo di cinema precipita considerevolmente. Le inchieste successive mostrano l’abbassamento graduale, ma inesorabile, di quella soglia fino agli attuali 25/30 anni. Diversa è anche ovviamente la fruizione del prodotto che ora viene massicciamente consumato in televisione, mentre le sale sono frequentate da giovani e giovanissimi. Evidentemente la valenza storica della fiction non può ora essere commisurata solo al grande schermo, ma deve necessariamente tenere conto anche dei passaggi televisivi dei film e, persino, della vasta produzione di cinema per la TV. Lo scambio tra i due media deve perciò essere duplice: la storia del cinema deve muoversi nell’orizzonte della storia in generale, ma anche quest’ultima deve vedere nella prima un territorio con cui dialogare. Il cinema non ha un luogo esclusivo, né mai lo ha avuto. Le opere sopravvivono nella memoria collettiva sotto forma di citazioni pubblicitarie, modelli di riferimento nei libri e nella produzione televisiva. Il linguaggio che ha messo a punto, e che in qualche modo ha causato, viene utilizzato dai giornali, dai giochi di società, dalla cronaca. Il cinema dunque si estende in ogni ambito, o perlomeno in ogni luogo dove si ha a che fare con la comunicazione. Si potrebbe opinare, in una prospettiva di questo genere, che gli strumenti di indagine utilizzati siano inadeguati poiché si basano solo sulla memoria dell’autore e sulle testimonianze dei protagonisti. Si potrebbe anche obiettare che il film non riassume in sé l’intero mondo circostante in quanto i fatti storici non si dipanano nell’ordine descritto dalle pellicole e non dipendono certo dalla maturazione del regista o della scuola a cui ci si riferisce. Tuttavia il cinema è fonte di una grande ricchezza. Non solo è in grado di registrare gli accadimenti, ma anche di rivelare i modi in cui una società li percepisce, o come esso è in grado di dar

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L’ITALIA DI FELLINI

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corpo a desideri e fantasie10 o, addirittura, di anticipare il futuro. Importante è dunque sviluppare una storia in cui il cinema sia studiato non solo nelle sue componenti filmiche, ma anche sociologiche, industriali ed economiche. Dove, invece, il cinema ricopre un ruolo essenziale è proprio nella capacità di rappresentare la percezione che una società ha di sé, della sua cultura e di come essa si rapporta alle altre culture con cui si trova a convivere. Per altre non si intende solo quella anglosassone, che già da tempo ha invaso il mondo occidentale (e con esso l’Italia), ma anche il contatto, nuovo per la nostra nazione, con le civiltà del terzo mondo che a tutt’oggi risultano ancora parzialmente sconosciute all’occidente. Una storia della mentalità, una storia della “percezione” ha bisogno del cinema proprio per verificare questi incontri nell’immaginario collettivo.

10

F. Casetti, ibidem, pag. 313.

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Capitolo

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L’INDUSTRIA CINEMA DAL FASCISMO AL 1950 Cento anni di vita del cinema hanno dimostrato chiaramente come arte e comunicazione di massa possano coesistere in un’unica funzione. Il potere di attrazione di questo mezzo è stato evidente fin dal primo novecento quando l’immediata esplosione del divismo pose sotto gli occhi di tutti le infinite possibilità di questa nuova forma d’arte o, come è forse più giusto dire per quel periodo, d’artigianato. Diverse furono le strade seguite dalle industrie cinematografiche mondiali. Se negli Stati Uniti, e in parte anche in Inghilterra e Francia, la produzione fu affidata a case di produzione indipendenti - soggette, però, sempre a codici morali quali, ad esempio, il famigerato “codice Hays” - che si occupavano di diffondere un modello di vita standard; nell’Europa delle dittature il cinema fu o nazionalizzato o sottoposto ad un rigido controllo allo scopo di sostenere i regimi al potere. Si situa in questa tendenza la politica cinematografica del ventennio fascista. La comprensione che il cinema poteva essere un formidabile mezzo di influenza sull’opinione pubblica, indusse Mussolini ad imprimere una poderosa spinta per la sua diffusione in tutta la penisola. Data fin dal 1925, infatti, la nazionalizzazione dell’Istituto LUCE con cui il regime fascista si assicurava il monopolio dell’informazione cinematografica. Ampio spazio, invece, viene dato alla produzione americana, vista con simpatia per i suoi contenuti di puro intrattenimento al punto che nel 1938, alla vigilia della nuova legge sul cinema, il 73% degli incassi va alla produzione d’oltreoceano.11 La politica mussoliniana in questo campo è ovviamente influenzata dalla situazione internazionale e l’intervento diretto dello stato cresce negli anni ‘30 per rafforzare l’apparato propagandistico del regime impegnato nella guerra d’Africa e legato sempre più strettamente alla Germania nazista. Le due operazioni di maggiore richiamo in questo decennio sono certamente la creazione del Festival di Venezia nel 1934 e la

11

Brunetta, “Cent’anni di cinema italiano” pag. 168.

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1. L’INDUSTRIA CINEMA DAL FASCISMO AL 1950

costruzione di Cinecittà nel 1937 a cui bisogna aggiungere la nascita del Centro Sperimentale di cinematografia. Il cinema ricopre un ruolo fondamentale anche durante il periodo bellico. È, infatti, lo spettacolo per eccellenza per chi è rimasto a casa. Tra il 1940 e il 1942 la crescita delle presenze è superiore del 30%. La tendenza del pubblico è assecondata dallo sforzo del ministro Pavolini che promuove la produzione di film nostrani: dai 45 del 1938 ai 96 del 1942.12 Nonostante il quasi totale monopolio del mercato, a seguito delle leg gi protezionistiche del 1938 che hanno fortemente limitato la distribuzione dei film USA, le pellicole italiane non riescono, tuttavia, a raggiungere il pareggio senza l’intervento statale. Tutto ovviamente cambia la mattina del 25 luglio 1943. Il Gran Consiglio sfiducia Mussolini che viene fatto arrestare dal Re il pomeriggio stesso. Nei giorni successivi gli eventi precipitano fino a sfociare nella tragica divisione dell’Italia in due tronconi: il Regno del Sud e la Repubblica Sociale Italiana di Salò. Anche il cinema viene inserito a viva forza nel patetico tentativo dei repubblichini di costruire una nazione ed un consenso ormai in cenere. È Luigi Freddi, direttore fino ad allora di Cinecittà, a lanciare l’appello alle forze artistiche e produttive affinché si trasferiscano a Venezia, dove viene creata la nuova città del cinema allo scopo di evitare che il patrimonio di macchinari e attrezzature prenda per sempre la via della Germania.13 Solo pochi dei personaggi di rilievo del cinema di quegli anni raccolgono questo invito. L’esempio più tragico è certamente quello di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti che finiscono fucilati nel 1945 dai partigiani proprio a causa del loro rapporto con il regime. La maggior parte dei dirigenti del periodo fascista, invece, riesce, con escamotage di vario tipo e grazie alla accondiscendenza della Commissione governativa, a farsi reintegrare negli incarichi che ricopriva fino alla caduta di Mussolini. Nel resto d’Italia la produzione precipita fino alla liberazione di Roma quando pochi coraggiosi si gettano nella lavorazione di alcuni film in condizioni, a dir poco, avventurose. 12

Brunetta, ibidem pag. 177.

13

Brunetta, ibidem pag. 271.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Cinecittà è stata bombardata nel luglio del ‘43 e notevolmente lesionata insieme all’Istituto Luce. Al momento della liberazione di Roma, gli americani vi piazzano un campo profughi ed una prigione per i criminali di guerra nazisti. Gli alleati, pur identificando in Cinecittà il fulcro della produzione cinematografica italiana, decidono, in un primo momento, di non inserirla in alcun piano di ristrutturazione.14 Nonostante l’assenza di strutture, l’industria rinasce perché può contare su di un capitale di idee e intelligenze che compensano la mancanza di denaro e su coraggiosi registi che scendono per le strade.15 Immediata è la ripresa produttiva. Nel 1945 i film prodotti sono solo 25, ma salgono a 62 nell’anno successivo. La ripresa è favorita anche da una legge del ‘49. I dati sono incoraggianti: nel ‘47 vengono realizzate 67 pellicole, 54 nel ‘48; 94 nel ‘49; 104 nel ‘50. È in questo confuso ambiente che si svolge l’apprendistato cinematografico di Federico Fellini. Dopo essersi trasferito a Roma nel 1937 proveniente da Rimini, dove aveva vissuto fin dalla sua nascita (20.1.1920), Fellini comincia a scrivere al Marc’Aurelio, popolarissimo tra i giovani. Fellini, che incontra subito un grande successo, diviene uno dei beniamini dei liceali in virtù delle sue rubriche che trattavano, in chiave ironica, le problematiche giovanili. Successivamente Fellini porta i suoi lavori anche in radio, con cui intrattiene un rapporto di collaborazione durante il periodo bellico, e nell’avanspettacolo. Il cinema lo cattura rapidamente e lo porta alla sceneggiatura. La stasi produttiva causata dal crollo del fascismo ovviamente colpisce anche lui, ridotto a fare caricature ai soldati americani in un negozio: il Funny face shop. È lì che viene contattato da Rossellini per partecipare alla stesura della sceneggiatura di Roma città aperta. Nasce dunque il neorealismo sotto la determinante spinta di Rossellini, De Sica, Zavattini e Visconti; nasce come movimento spontaneo dato dalla penuria di mezzi, ma anche dal bisogno dei cineasti italiani di trovare un nuovo linguaggio che riproducesse l’Italia sfibrata dal conflitto mondiale in modo 14

Brunetta, ibidem pag. 282.

15

Brunetta, ibidem pag. 283.

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1. L’INDUSTRIA CINEMA DAL FASCISMO AL 1950

oggettivo, quasi documentaristico, con l’ausilio di attori non professionisti. Fellini è uno dei principali protagonisti del periodo. Lavora con Rossellini 16, Germi 17 e Lattuada18 , senza disdegnare la collaborazione con altri autori come Coletti (Il Passatore, 1947), Comencini (Persiane chiuse, 1951) e altri meno importanti. Questo periodo è fondamentale per la maturazione artistica del cineasta riminese, perché permette a Fellini, in giro per l’Italia al seguito delle troupe, di analizzare e meditare in profondità la società dell’immediato dopoguerra che riproporrà poi nelle sue prime opere. Ma quali erano le condizioni di vita degli italiani al termine della guerra? Quali i loro consumi? Alla conclusione delle ostilità la popolazione era di 45.540.000 unità con un aumento di circa 982.000 abitanti rispetto all’inizio del conflitto mondiale. Nel quinquennio successivo, marcato da seri problemi alimentari e da pessime condizioni igienico-sanitarie, la mortalità diminuisce rapidamente fino a scendere, nel 1950, sotto il tasso del 10‰ annuo. Tutto questo avviene in un paese sottoalimentato in cui le calorie giornaliere per ogni individuo sono passate dalle 2.795 del 1936-40 alle 2.142 del 1947. È evidente che le capacità di adattamento si sono unite alla mancanza di gravi epidemie ed alla diminuzione delle malattie polmonari dovute alla distribuzione di sulfamidici e antibiotici. Il salario reale di circa 4,5 milioni di lavoratori (il 45% della propolazione produttiva) si era, d’altro canto, dimezzato rispetto al 1939. Il cinema resta, però, l’elemento centrale del tempo libero dell’italiano, l’ambiente dove isolarsi prima dalla guerra, che aveva sconvolto le abitudini, e poi dalle difficoltà della ricostruzione; il luogo di maturazione, di riflessione e della formazione intellettuale dei giovani. Numerose sono le testimonianze del rapporto che univa gli spettatori allo schermo. Italo Calvino, nella sua 16

Le sceneggiature realizzate con Rossellini sono: Roma Città aperta (1945); Paisà (1946); Il miracolo, parte 2 de L’Amore (1948); Francesco, giullare di Dio (1950); Europa ‘51 (1952). 17

Collaborazioni con Pietro Germi: In nome della legge (1949); Il cammino della speranza (1950); La città si difende (1951); Il brigante di Tacca del Lupo (1952). 18

Sceneggiature nei films di Lattuada: Il delitto di Giovanni Episcopo (1947); Senza pietà (1948); Il mulino del Po (1949).

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L’ITALIA DI FELLINI

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Autobiografia di uno spettatore, ricorda come si andasse al cinema quasi tutti i giorni o anche due volte nella stessa giornata. “Al cinema ci andavo come a una visione” racconta Franco Ferrucci 19. Lattuada, parlando della preparazione de Il delitto di Giovanni Episcopo, rammenta che con Fellini passò diverse giornate a commentare fotogramma per fotogramma uno dei capolavori di Orson Welles, L’orgoglio degli Amberson.20 Questa condizione psicologica fu compresa e sfruttata dagli americani. Quando le loro truppe sbarcano in Sicilia, il Psychological Welfare Branch (PWB) trasporta con sé alcuni cortometraggi sulla vita quotidiana negli Stati Uniti e circa 7.500 bobine di intrattenimento che serviranno ad aprire - durante il periodo di occupazione - 120 sale cinematografiche nella sola città di Roma.21 Il pubblico può così vedere quelle pellicole che gli erano state negate dalle leggi protezionistiche introdotte nel 1938. Il cinema made in USA, senza più ostacoli di alcun tipo, può così recitare la parte del leone grazie ad una massiccia distribuzione dei suoi prodotti: 294 nel 1946, 515 nel 1948, 406 nel 1949, 363 nel 1950. Secondo Aurelio Lepre 22 l’imponente iniezione dell’american way of life nell’immaginario collettivo servì non solo per infondere nuovi valori e obiettivi nell’inconscio dell’italiano medio, ma anche per rimuovere, nella memoria di tutti, i tre anni passati su fronti opposti durante la seconda guerra mondiale. Un’affermazione forse vera solo in parte. L’amore per il cinema statunitense, infatti, non era stato cancellato dagli anni di censura e le pellicole italiane di propaganda non avevano saputo attecchire completamente nel gusto e nella memoria degli italiani. Fu perciò naturale il ricongiungimento con un modello che veniva tenuto vivo dagli intellettuali come è dimostrato dalla antologia di scrittori statunitensi Americana, a cura di Elio Vittorini. A questo bisogna aggiungere che l’influenza di Hollywood non era mai venuta meno sui nostri cineasti fino a portare ad una trasposizione dei generi narrativi d’oltreoceano in opere nostrane, come dimostra 19

G. Brunetta, ibidem pag. 275.

20

A. Lattuada, La veridica storia di Luci del varietà, nel volume dedicato dal Circolo del Cinema di Mantova alla sceneggiatura del film omonimo, a cura di Alberto Cattini, pag. 7. 21

S. Lanaro, Storia dell’Italia Repubblicana pag. 155.

22

A. Lepre, Storia della prima repubblica, pag. 79.

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1. L’INDUSTRIA CINEMA DAL FASCISMO AL 1950

l’adesione al western di Pietro Germi in Il brigante di Tacca del Lupo del 1949. È da condividere, invece, l’osservazione fatta dallo stesso Lepre per cui si assiste ad un riadattamento, nella memoria collettiva, del conflitto mondiale “per cui, nei decenni seguenti, gli italiani pensarono al conflitto mondiale come se l’avessero combattuto per intero a fianco degli americani”. Lo stesso non accade per i film di guerra sovietici che soffrivano non solo la limitata distribuzione, ma anche l’incapacità (causata anche dallo scarso valore artistico e spettacolare di larga parte della loro produzione) di creare un’identificazione tra gli eroi mostrati sullo schermo e lo spettatore. Inoltre i comunisti condannavano risolutamente ogni tipo di opera commerciale negando qualsiasi tipo di valore artistico a film come Casablanca e Via col vento e definendo individualista e anarchico Chaplin.23 Nonostante le invettive della nomenklatura comunista, il mito di Hollywood agisce profondamente anche a sinistra. Non a caso la coppia ideale comunista viene identificata per anni, dai lettori de L’Unità, nei protagonisti di Per chi suona la campana di S. Wood (1943): Gary Cooper e Ingrid Bergman. E ciò avviene a dispetto della condanna del libro e del film da parte di autorevoli intellettuali del PCI come Mario Alicata e Lorenzo Quaglietti. Se l’influenza del cinema a stelle e strisce servì all’utile causa di far dimenticare la guerra agli italiani; il neorealismo, in particolare con De Sica (tramite l’essenziale apporto di Zavattini) e Rossellini, contribuisce in maniera determinante a modificare l’idea della nostra nazione presso l’opinione pubblica internazionale. L’Italia, dopo l’8 settembre 1943, era diventata merce di scambio nello scacchiere internazionale. Il sentimento principale da parte degli alleati era la diffidenza originata dall’ambiguità del Re durante le trattative e dalla eterogeneità dei partiti che si proponevano sulla scena politica. L’interesse che l’Inghilterra nutriva per il controllo del Mediterraneo influisce sul proposito di Churchill di formare un simulacro di governo che, mantenendo in vita la monarchia, potesse essere usato strumentalmente, come è poi in parte accaduto con il secondo ministero Badoglio. Lo stesso Churchill confidò a Stalin che non 23

S. Lanaro, ibidem pag. 72.

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L’ITALIA DI FELLINI

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aveva un gran rispetto per il popolo italiano. Stalin concordò affermando che “era il popolo italiano che aveva prodotto Mussolini”.24 Diverso è, invece, l’atteggiamento di Roosevelt, influenzato dal peso elettorale dei sei milioni di italo-americani ed ispirato al principio di autodeterminazione dei popoli. L’Italia impiega comunque molto tempo a riguadagnare la fiducia del mondo occidentale. Le difficoltà incontrate per l’adesione al patto atlantico sono sintomatiche. In un primo momento l’Inghilterra e gli altri paesi del patto di Bruxelles, esclusa la Francia, considerano la presenza italiana superflua e non vogliono compiere atti che possano apparire magnanimi per gli ex alleati dei nazisti. È l’intervento francese che mette fine alla querelle accelerando l’ingresso degli italiani nel sistema di alleanze atlantico. La credibilità, dunque, della nostra nazione è al suo minimo. Solo l’opera instancabile di De Gasperi e la vittoria schiacciante della DC alle elezioni del ‘48 rassicurano l’occidente sulle sorti dell’Italia, allontanando il rischio di un intervento militare sulla falsariga di quello avvenuto in Grecia per sconfiggere il tentativo rivoluzionario comunista. A fianco dell’opera diplomatica, il cinema diventa il mezzo più rapido per recuperare terreno in campo internazionale. Il neorealismo è il primo movimento culturale che esce dalle nostre frontiere per affascinare il mondo dopo il periodo futurista. Già nel 1946 George Auriol può scrivere sulla Revue de cinema che è a Roma che il cinema ha la sua testa. È Roma città aperta il caposaldo di questo fenomeno. La prima, avvenuta al Festival del Quirino di Roma nell’ottobre del 1945, suscita reazioni contrastanti in patria. Il successo viene, infatti, decretato dai critici americani. La rivista LIFE scrive che “la maggior parte degli spettatori ha ritrovato in Roma città aperta parte di quella nobiltà che l’Italia aveva perduto sotto Mussolini”. Dorothy Thomson si esprime in questi termini: “Questo film dovrebbe essere dedicato a quelli che preparano la pace per ricordare loro che comunque siano stabilite le frontiere [...] l’umanità partecipa delle stesse speranze, delle stesse

24

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989, pag. 47.

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1. L’INDUSTRIA CINEMA DAL FASCISMO AL 1950

fedi, degli stessi vizi, delle stesse virtù e di uno stesso invisibile destino”.25 All’opera di Rossellini risponde subito l’accoppiata De SicaZavattini dando il via alla straordinaria stagione di premi della cinematografia italiana che, significativamente, coglierà tra il 1946 e il 1948 due Oscar per il miglior film straniero con Sciuscià e Ladri di biciclette di De Sica. È l’opera di Fellini che però fa volare l’immagine dell’Italia nel mondo, affascinando con la sua fantasia, lussuosa ed intrigante, il mondo intero nel tentativo di riproporre, su celluloide, i miti e i sogni di un’intera nazione fino a diventare vittima di questo processo che si conclude con l’edificazione del mito della sua personalità.

25

G. Brunetta, ibidem pag. 341.

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Capitolo

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LUCI DEL VARIETÀ (1950) 2.1 “La tragedia di un uomo ridicolo” La compagnia di avanspettacolo “Polvere di stelle” riparte da un paesino di provincia dopo un insuccesso. Sul treno Liliana Antonelli (Carla Del Poggio), una giovane lettrice di Bolero film scappata di casa, si presenta al capocomico, il fucinatore di ilarità Checco Dalmonte (Peppino De Filippo), che cerca subito di approfittare di lei, ricevendone in cambio un sonoro schiaffo. Liliana riesce comunque ad entrare nella compagnia. Qui ottiene subito un grande successo, per la verità favorito da un “incidente” non voluto, ma assai piacevole per gli spettatori: in scena le cade la gonna. L’entusiasmo del pubblico per tale imprevisto finisce col far arridere alla compagnia tutta un insperato successo e al tempo stesso promuove Liliana al rango di soubrette. Checco si invaghisce disperatamente di lei, lascia la sua compagna - la trasformista Melina Amour (Giulietta Masina) - e cerca di lanciarla nel mondo della rivista. Liliana lo usa per accalappiare un famoso impresario della capitale che la farà entrare in un importante spettacolo. Checco ne esce distrutto; la rivista che aveva organizzato per Liliana crolla miseramente, viene cacciato dalla pensione in cui vive e, senza soldi, ritorna nella vecchia compagnia e da Melina Amour che è ancora innamorata di lui. Sul treno che li riporta, per l’ennesima volta, negli scalcinati teatri del Lazio, nota una bella ragazza e inizia a farle la corte….. 2.2 Un difficile debutto 2.2.1 Sfida ai produttori La prima opera di Fellini come regista è, in realtà, solo relativamente tale. L’iniziativa per la realizzazione di questo film parte, infatti, da Lattuada che, dopo la realizzazione de Il mulino del Po, non è più riuscito a portare in fondo una pellicola per l’opposizione dei produttori ai suoi progetti ritenuti scomodi. A seguito dell’ennesimo progetto abortito, Lattuada decide di intraprendere la strada della produzione, proprio per aggirare le pastoie burocratiche e censorie che gli erano state imposte fino ad

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

allora. In questa operazione coinvolge il giovane sceneggiatore Fellini e lo convince a fare il salto nella regia, forte anche della presenza di sua moglie Carla Del Poggio - a quei tempi una delle attrici più ricercate - e di Peppino De Filippo. Lattuada mette così in atto i concetti da lui espressi in alcuni interventi pubblici come in un convegno a Perugia nel 1949, dove disse testualmente: “Io non credo ad altre soluzioni del problema se non a quella che dia autonomia di creazione al cinema, lo metta in grado di essere un fatto individuale... Abbandonato a se stesso, il cinema cade nelle mani della speculazione più volgare.”26 Dopo alcune riunioni orientative, la scelta del soggetto cade sul mondo dell’avanspettacolo, una decisione ovviamente influenzata da Fellini e dal suo cosceneggiatore Pinelli, che quell’ambiente conoscevano perfettamente per averlo frequentato assiduamente nel decennio precedente. In questo mondo l’autore romagnolo era entrato nel 1939 quando, per la rivista Cinemagazzino (una delle molte a cui collaborò in quel periodo), aveva realizzato una serie di interviste per spiegare ai lettori del settimanale che cosa fosse l’avanspettacolo. Tra gli intervistati figurava Aldo Fabrizi che, entrato immediatamente in empatia con il giovane cronista, lo assunse poco dopo per scrivergli i testi di alcuni suoi sketch. Fellini era già discretamente famoso per le rubriche che teneva al Marc’Aurelio, il settimanale satirico più venduto tra i giovani in quegli anni. La palestra del Marc’Aurelio, insieme proprio all’avanspettacolo27, è stata determinante per la nascita di una scuola di sceneggiatori capaci di adattarsi ad ogni forma di spettacolo (rivista, prosa e televisione) e ad ogni genere cinematografico. Vi parteciparono Zavattini, Maccari, Marchesi, Metz, Steno, Verde e altri che costituiranno il fulcro su cui si innesterà il felicissimo momento del cinema nostrano del dopoguerra con il neorealismo prima e la commedia all’italiana poi. L’amicizia con Fabrizi apre a Fellini le por te dell’avanspettacolo che esercita su di lui una profonda influenza al 26

T. Kezich, Fellini, Rizzoli 1988, pag. 166.

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Intervista con Bernardino Zapponi del 5.6.1995.

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L’ITALIA DI FELLINI

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punto che il ricordo di questa forma di teatro tornerà spesso anche in altre pellicole, quali I vitelloni, Le notti di Cabiria, Roma. Queste frequentazioni gli permisero di conoscere fino in fondo personaggi e luoghi che ha poi riproposto in Luci del varietà. 2.2.2 Critiche e incassi Il realismo delle situazioni narrate viene, d’altro canto, riconosciuto dalle recensioni della stampa specializzata. L’apprezzamento assume maggiore valore tenendo conto della connotazione ideologica che molta parte della critica dava al cinema, poggiandosi su teorie nette come quella zavattiniana del “pedinamento”. Nella critica di Bianco e nero, diretto da Luigi Chiarini, si dice: “Luci del varietà riesce ad ottenere ciò che Lattuada non ottenne mai finora: l’interpretazione veritiera e sensibile di un piccolo mondo”.28 Si coglie in questo appunto una certa avversione verso il precedente cinema di Lattuada, forse legata ad alcune sue esperienze nell’ambito del calligrafismo. Bisogna anche considerare che la rivista era pubblicata dal Centro Sperimentale di Cinematografia, ente statale controllato direttamente dal governo che ne nominava i direttori. Il neorealismo, quindi, era capace di esercitare una forte influenza anche sulla critica cattolica. Su Cinema, dove si avverte l’influsso di Guido Aristarco e della critica di sinistra, la difesa del film è assai meno diplomatica. Non solo si attribuisce gran merito del realismo dei personaggi al contributo di Fellini - considerazione dovuta ai precedenti rosselliniani del regista - ma si condanna in modo perentorio e b r utale Vita da cani, film concor ren te sul mo n do dell’avanspettacolo prodotto da Carlo Ponti, che viene così liquidato “la vicenda si sviluppa alla maniera dei fumetti, seguendo tutti i luoghi comuni e vieti della bassa letteratura [...] ponendo i guitti sullo stesso piano amorfo e d’appendice”.29 Anche la letteratura risentiva del clima di contrapposizione che si era creato nel mondo della cultura. Persino Aldo Palazzeschi, infatti, pone l’accento sulla verosimiglianza della 28

Bianco e nero, n.4 del 1951.

29

Cinema, n.55 del 1951.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

ricostruzione del mondo del varietà, affermando che “il regista (Palazzeschi considera Fellini semplice coadiuvatore) prende a braccio lo spettatore e gli mostra quel mondo non preoccupandosi di farglielo vedere né meglio né peggio di quello che è”.30 La pellicola non ha, però, fortuna presso il pubblico. L’iniziativa indipendente di Lattuada provoca l’ira delle case produttrici insofferenti a questo tipo di produzione. Così, per contrastarla, Carlo Ponti mette subito in cantiere - come s’è già fatto cenno - un film sullo stesso argomento, dopo aver rifiutato per anni un soggetto analogo a Fellini e Fabrizi, ingaggiando proprio l’attore romano e affidandone la regia a Monicelli. Inoltre, la lobbie dei produttori esercita pressioni affinché il comitato tecnico per la cinematografia (ente previsto dalla legge sul cinema del 1949) neghi ai due registi il premio supplementare dell’8% riservato alle imprese di particolare valore artistico. Grazie ai mezzi economici a disposizione di Ponti, Vita da cani esce alcuni mesi prima di Luci del varietà influenzandone, ovviamente in modo negativo, l’andamento commerciale già gravato da grosse difficoltà distributive. Mentre il primo raggiunge la 34esima posizione tra gli incassi dei film italiani nella stagione 1950/51 con 255 milioni, Luci del varietà giunge solo 65esimo con un realizzo di 118 milioni, lasciando dietro di sé solo debiti. L’ingloriosa conclusione economica di questo film non deve comunque far dimenticare la sua importanza che sta, come sottolineato dalle recensioni riportate, nella ricomposizione di un universo oggi ormai scomparso, ma così importante sia per l’immaginario collettivo del cosiddetto “maschio italiano” negli anni appena successivi alla guerra, sia per i gusti del pubblico in quel periodo. L’unanime riconoscimento rende peraltro credibile la ricostruzione del mondo dell’avanspettacolo proprio tramite il film in questione ed i personaggi in esso rappresentato. 2.2.3 Non solo lustrini La compagnia “Polvere di stelle” è lo specchio fedele della realtà delle piccole compagnie che sopravvivevano con stentate e 30

Epoca del 3.2.1952.

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L’ITALIA DI FELLINI

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avventurose tournée in provincia o con esibizioni nei più malfamati locali delle grandi città. Se per le grandi stelle della rivista (Totò, Fabrizi, Magnani, Osiris, Macario ecc.), infatti, il successo era in qualche modo garantito, le compagnie minori, come quella raffigurata nella pellicola, dovevano invece adattarsi di volta in volta alle piazze in cui si esibivano. Nelle località più popolose si faceva mezz’ora circa di avanspettacolo che si trasformava in uno stiracchiato show di 1 ora e mezza negli abitati più piccoli in cui l’arrivo anche della più scalcinata rivista esercitava un notevole richiamo. A questa regola non sfuggivano personaggi di un certo calibro come Achille Togliani, in quegli anni cantante molto in voga.31 Il cast di queste compagnie era sempre alquanto raffazzonato, messo insieme quasi casualmente. La “Polvere di stelle” può essere considerata come archetipo dell’organizzazione di quegli spettacoli. Ogni artista faceva più di una cosa, come Checco Dalmonte che si trasformava da comico nel misterioso “fanatizzatore delle platee”, o come Melina capace di reinventarsi, in modo più o meno credibile, trasformista o esperta danzatrice di tango. Le bellissime girls, sempre vistosamente annunciate in cartellone, erano per lo più reclutate tra giovani disoccupate, ma spesso erano anche le sorelle o le amiche di qualcuno della compagnia o ragazze che speravano di far carriera come la Liliana del film, ingaggiata senza troppi problemi dopo aver offerto il viaggio in carrozzella agli artisti. Occorre dire che la considerazione popolare le poneva quasi ovunque allo stesso livello delle prostitute, poiché molte di loro di frequente integravano i magri guadagni col fare la entreneuse.32 Queste ragazze, poi, erano tutt’altro che attraenti, proprio come il corpo da ballo visto nel film che non spiccava certo né per bellezza, né per senso del tempo, né per agilità. Avveniva, invece, molto spesso che il balletto costituisse un che di divertente per le sue scoordinate movenze. Rinaldo Geleng33 con 31

Intervista con Bernardino Zapponi (scrittore e sceneggiatore, collaboratore di Fellini da Toby Dammit 1968 a La città delle donne 1980) del 5.6.95. 32

A. Polacci, Il teatro di rivista, ed. Corso 1990, pag.208.

33

Rinaldo Geleng (Roma 1920 - 2003) pittore e amico di Fellini fin dal suo arrivo a Roma nel 1938. Intervista del 5.6.95.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

Fellini le chiamava le “strappone” e le ricorda in modo molto prosaico dicendo che “si perdevano i grassi da tanto che erano ciccione” e che per lo più erano del tutto incapaci di tenere il tempo. Alcune di esse, oltretutto, erano anche anziane, come una ungherese sessantenne che si esibiva nella “Morte del cigno” in modo talmente maldestro che il suo compagno di allora, Giovanni Senzani personaggio che si ritroverà in seguito - la derideva durante il suo numero dicendo: “Mo’ more davero!”.34 Zapponi le rammenta perché non erano capaci di ballare, ma “in compenso” cantavano molto male35, proprio come la protagonista femminile del film. Tuttavia sarà bene anche sottolineare che in una società che aveva patito il soffocante moralismo del regime fascista, l’apparizione di una gamba nuda costituiva un evento straordinario, soprattutto nelle piccole piazze della provincia. Il che spiega la reazione del pubblico all’improvviso incidente che, durante lo spettacolo, fa cadere la gonna a Liliana. L’universo maschile entra immediatamente in fibrillazione e si crea così quell’atmosfera d’entusiasmo che decreterà il successo dello show fino a quel momento oggetto, invece, di fischi e insulti. Non è azzardata, a tal proposito, l’analogia della passerella del corpo di ballo con la sfilata delle prostitute nei casini mostrate nei film successivi di Fellini. Del resto le cose non miglioravano molto anche in compagnie di medio livello. Nella rivista che si esibisce a Rimini, all’interno del film I Vitelloni, i boys che fanno da contorno alla “Osiris” di turno sono certo ben lontani dagli aitanti e muscolosi atleti che si esibiscono oggi in televisione. I due qui mostrati si distinguono perché uno è calvo mentre l’altro è terribilmente strabico. Se le ballerine stimolavano la fantasia erotica dello spettatore, che perciò non badava troppo alle scarse doti artistiche o di avvenenza di queste ragazze, gli altri numeri erano assai spesso oggetto di insulti da parte della platea, che non perdeva mai occasione per far sentire la propria voce. Nel film sono mostrate alcune esibizioni che paiono paradossali come quella del finto 34

Intervista a Geleng del 5.6.95.

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Intervista a Zapponi del 5.6.95.

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L’ITALIA DI FELLINI

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fachiro indiano e ventriloquo Edison Will. Oppure quella della trasformista Melina che, dopo essere stata sbeffeggiata durante tutto il suo numero, induce alla commozione gli spettatori quando imita Garibaldi con tanto di inno italiano 36. 2.2.4 “Da mangiare si rimedia sempre” Tuttavia il personaggio principale, nel film come nella rivista, è sempre il comico, in questo caso Checco Dalmonte. Il nostro eroe è certamente il risultato dell’assemblaggio delle caratteristiche di diversi protagonisti della scena del varietà di quegli anni: gente proveniente quasi esclusivamente dalla provincia (moltissimi napoletani) alla ricerca della fortuna nello spettacolo. Geleng ne ricorda uno, frequentato a lungo insieme a Fellini e Fabrizi, che aveva molti aspetti in comune con Checco. Si tratta del già citato Giovanni Senzani. Quest’uomo viveva solitario in camere d’affitto come il personaggio del film e come gli stessi Fellini e Geleng negli anni ‘39/’43.37 Senzani era un fanfarone, si inventava successi inesistenti e avventure improbabili. Accumulava, invece, debiti su debiti, pagandoli non appena riusciva a racimolare qualcosa. Per mangiare, però, si sottoponeva a qualunque umiliazione. Spesso andava con donne bruttissime e vecchie o inventava espedienti di qualsiasi genere, come tenere durante l’estate i cani di coloro che andavano in vacanza per poter mangiare il loro cibo. Il suo modo di parlare è stato, secondo Geleng, fonte di ispirazione per Tino Scotti. D’altro canto all’epoca gli artisti si conoscevano perfettamente e i “prestiti” erano non solo numerosi, ma

36

In Roma 1972 si assiste ad un episodio molto simile. Uno spettatore dopo aver regolarmente insultato un trio canoro si commuove alle note della canzone Sposi. 37

È gustoso un aneddoto di Geleng su di un incidente occorso a Fellini nel 1942: durante un brindisi un bicchiere si era rotto procurando a Fellini un profondo taglio alla mano. Al ritorno dal pronto soccorso i due avevano trovato i carabinieri ad aspettarli presso la pensione California dove abitavano. I carabinieri, chiamati da qualcuno insospettito dal sangue perso da Fellini, erano convinti che si trattasse di un litigio tra omosessuali, tratti in inganno dal fatto che i due convivessero. Solo la testimonianza della locandiera, che provò la loro eterosessualità raccontando dei loro successi amorosi con le ballerine che vivevano nella pensione li salvò da guai peggiori. Intervista a Geleng del 5.6.95.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

inevitabili. Anzi in molti casi per campare si vendevano le proprie gag o le canzoni a comici più famosi 38. Il luogo di incontro per tutti i personaggi dell’ambiente era la Galleria Colonna, descritta anche da Alberto Sordi, che quella vita aveva realmente fatto all’inizio della sua carriera, in Polvere di stelle (1972). Qui si organizzavano tournée raccogliticce che a volte non garantivano neppure un misero guadagno. È impossibile non ravvisare somiglianze tra Senzani e il personaggio di Checco, anche se, ovviamente, gli sceneggiatori si sono ispirati ad altre figure della rivista. 2.2.5 L’eredità del Circo Massimo Difficile spiegare i motivi che spingono una persona a fare una vita così piena di sacrifici ed umiliazioni. Il pubblico certo non ricompensava questa loro dedizione assoluta verso il teatro con complimenti e applausi, anzi. I vari numeri erano spesso un intervallo poco gradito tra un balletto e l’altro. Se nei teatri di provincia gli apprezzamenti pesanti e l’entusiasmo per le ballerine sono condizionati dalla presenza più o meno numerosa di donne e bambini, nella capitale l’avanspettacolo è eletto a forma massima di divertimento. Erede della tradizione del Circo Massimo39, lo spettacolo durava complessivamente dalle 3 alle 4 ore all’interno di un ambiente chiuso, pieno di fumo, scomodo e maleodorante. Se per i teatri più importanti il decoro era ancora tenuto in considerazione, in quelli di second’ordine si poteva fare di tutto, come accade in Roma dove una donna fa mingere il proprio figlio nel corridoio. Gli spettatori capitolini, certamente assai più disincantati rispetto al pubblico di provincia e anche molto più rumorosi, affrontavano con feroce consapevolezza la serata40. Il dileggio era eletto a forma d’arte, una dimostrazione di personalità. Il lancio del gatto morto (anche questo mostrato in Roma) era una specie di forca caudina a cui si dovevano sottoporre, prima o poi, tutti i comici come è sovente accaduto a 38

Geleng parla in modo particolare di Cutolo, l’autore di Dove sta Zazà.

39

Intervista con Zapponi del 5.6.95.

40

A tal proposito i dialoghi che corrono tra gli artisti e gli spettatori in Roma 1972 sono illuminanti.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Renato Rascel che, stando alle parole di Geleng, agli inizi della carriera ne aveva “presi talmente tanti che se li sognava di notte!”.41 2.2.6 Dalla vita comune al palcoscenico Resta ancora da tracciare un ritratto adeguato della protagonista femminile: Liliana. Questa donna, una vera e propria arrampicatrice sociale, che vede nell’avanspettacolo il mezzo per ottenere la fama e la sicurezza economica, appare per la prima volta durante un’esibizione della compagnia “Polvere di stelle”. In mano tiene Bolero, uno dei fotoromanzi più venduti in Italia. Del suo passato si sa poco: è probabilmente orfana (forse di guerra), non si riesce a capire se vive col padre o con dei parenti con cui, comunque, non ha un buon rapporto.42 Il suo unico credito è aver vinto una maratona di ballo di settanta ore, il suo più grande desiderio è di “entrare in arte”. Il suo passato, i suoi desideri la accomunano alle vicende delle molte ragazze sbandate protagoniste di numerose pellicole nel dopoguerra. Liliana è, infatti, molto simile al personaggio, interpretato dalla stessa Dal Poggio in Senza pietà 1947, ancora di Lattuada, e della Silvana Mangano di Riso amaro 1949 di De Santis. Anche lei è uscita dalla guerra segnata, desiderosa solo di raggiungere i propri sogni e incapace di comprendere la realtà. Liliana, però, non si fa travolgere da essa, non scivola, come i due personaggi citati, nella tragedia nel tentativo di cancellarsi e dimenticare il proprio passato. Lei usa, invece, la bellezza ed il corpo per raggiungere il proprio scopo: il successo, la fama e la ricchezza o, almeno, l’agiatezza. Tuttavia, l’ultima sua apparizione è speculare al suo ingresso nel film quanto a “cultura”. Mentre si sta recando a Milano, dove parteciperà ad un’importante rivista, porta con sé ancora dei fotoromanzi, testimonianza evidente dell’incapacità di uscire dal suo ristretto orizzonte per entrare appieno nella realtà che le sta intorno.

41

Intervista con Geleng del 5.6.95.

42

Luci del varietà a cura di Alberto Cattini, Mantova 1994. Nella sceneggiatura Liliana parla del padre che invece non viene assolutamente citato durante il film. Se ne può dedurre che la ragazza può essere restata senza genitori durante la guerra.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

Questi personaggi vengono inghiottiti dall’irreversibile crisi dell’avanspettacolo travolto prima dall’avvento delle grandi riviste e poi dal successo della televisione. Pochi di loro sapranno adeguarsi e sopravvivere alla nuova “civiltà” che avanza. Gli uomini come Checco, invece, scompaiono tristi e miserabili, abbandonano il palcoscenico ed i sogni per tornare alla vita comune di tutti i giorni. 2.3 Il primo dopoguerra: una lenta ripresa 2.3.1 1950 anno di tensioni La scomparsa di questa forma di spettacolo può sembrare in sé poco importante. Tuttavia, proprio l’esame al microscopio di questo mondo può permetterci di comprendere parte dell’evoluzione dell’identità culturale dell’Italia dalla guerra fino al cosiddetto boom economico. Per arrivare a questa definizione è però necessario tracciare un quadro della situazione sociale della nostra penisola al momento della realizzazione del film (1950), aiutati in questo dalle vicende narrate in Luci del varietà. La situazione è ancora difficile. I passi compiuti da De Gasperi per avvicinare l’Italia sempre più alle potenze occidentali creano una lacerante contrapposizione nella società civile, aggravata dall’intervento statunitense in Corea del Sud dopo che il 25.6.1950 i nordcoreani avevano oltrepassato con il proprio esercito il 38° parallelo che fungeva da confine tra i due stati. Nei primi mesi del 1950 nella nostra penisola l’atmosfera si fa sempre più tesa. Il 9 gennaio la polizia apre il fuoco a Modena durante una manifestazione operaia causando sei vittime. La reazione dell’opinione pubblica che ne scaturisce contribuisce alla decisione di De Gasperi di dare il via alla riforma agraria e ad alcune misure compensative per il Mezzogiorno, così attardato sul piano economico, allo scopo di alleggerire le forti tensioni sociali. Tali fatti, naturalmente, non traspaiono all’interno della pellicola. Ad una superficiale osservazione, infatti, questi guitti sembrano non accorgersi di quello che accade al di fuori del loro mondo. Questa è del resto una peculiarità di tutta la prima parte dell’opera felliniana. È piuttosto il loro modo di vivere, la loro

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L’ITALIA DI FELLINI

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mentalità, l’arte di arrangiarsi, i mezzucci usati per sopravvivere che fanno cogliere il “clima” economico-sociale generale che fa da contorno e supporto alle loro vicende personali. In qualche modo si potrebbe dire che essi “esistono” come personaggi proprio in quanto lo sfondo li “legittima” ad essere tali. Dunque, al contrario di quanto appare, essi “sono” nel mondo e ne sono un aspetto tutt’altro che irrilevante. E quando scompaiono dai film è perché in effetti il mondo ha virato, ha intrapreso un’altra strada nella quale essi non hanno più non solo una legittimazione ad esistere, ma neppure vengono “tollerati” come fantasia o immaginazione. In una parola entrano nell’inerte passato. 2.3.2 Vivere tra l’onore e la fame All’inizio del film viene mostrato il cartellone dello spettacolo. Sopra vi si può leggere il costo del biglietto. In questo piccolo paesino della provincia laziale una serata con avanspettacolo e film western costa 110 lire per una poltrona e 75 per un posto tra i distinti. Inoltre vengono previste le riduzioni per ragazzi e militari che possono entrare pagando solo 50 lire. Grazie a questa immagine è possibile fare un raffronto con il costo dei biglietti sul territorio nazionale. Nel 1950 il prezzo d’ingresso medio per uno spettacolo di rivista era di 529 Lire, per uno di varietà 148, di un film 346. Un altro dato interessante si riferisce alla sola Italia centrale dove teatro e rivista costavano rispettivamente 297 e 142 lire.43 Appare dunque evidente che le zone battute dalla compagnia teatrale erano particolarmente depresse, anche in considerazione del fatto che uno spettacolo di questo tipo non doveva giungere spesso in quelle località. La povertà risulta maggiormente visibile quando a Sutri, piccolo centro in provincia di Viterbo di circa duemila abitanti, i guitti vengono ospitati da un avvocato che si intuisce esser parte della “ricca borghesia” del paese, o almeno di quella che in quelle condizioni sembrerebbe essere tale. L’avvocato, infatti, segue la rivista da una palco in compagnia 43

Il prezzo medio sopra riportato si riferisce solo alla provincia, escludendo quindi i capoluoghi. Ogni dato è tratto dagli annuari SIAE.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

di un dottore e di un presunto duca. Ma più che all’arte, i tre sembrano interessati solo ed esclusivamente alle “stelle” della serata, per cui snobbano le ballerine di fila che, alla fine dello spettacolo, se ne vanno con i soliti giovanotti del paese.44 La casa del leguleio è assai significativa del livello economico di questa borghesia di paese e di un certo tessuto economico locale che poi riflette gran parte della provincia italiana d’allora. Essa è posta in “alto”, su di una collina, anche se poi per arrivarci non esiste una strada asfaltata. Lo stesso avvocato deve recarvisi a piedi poiché, probabilmente, non dispone di propria autovettura. L’interno della casa è abbastanza spoglio, disadorno. La cucina è una grande stanza con spesse mura e grandi credenze nere; dal soffitto pendono cipolle, pomodori, salami in modo del tutto somigliante alla casa dei contadini mostrata nel successivo Il Bidone. La dovizia di cibo presente nella cucina dell’avvocato esercita sui guitti un richiamo irresistibile; che contrasto con i magri pasti da loro consumati sui treni o nelle osterie! Un buon piatto di pasta e una bottiglia di gustoso vino sono i mezzi di cui si serve il legale per tacitare le coscienze dei commedianti mentre cerca di concupire Liliana. La fame non era d’altro canto fatta solo dagli artisti. Nel 1950 il consumo annuo pro capite degli italiani è di 165,5 Kg di frumento contro i 180 del decennio 1921-31; 6,9 Kg di carne bovina, l’ammontare più basso mai registrato tra il 1916 e il 1939; 6,5 Kg di uova, quota irrisoria nel periodo 1926-50; 79,8 litri di vino, immesso nel mercato in quote inferiori solo in pochissimi altri anni. A questo bisogna aggiungere che quasi 4 milioni e mezzo di famiglie non mangiavano mai carne e altre tre milioni la consumavano una volta alla settimana.45 Esaminando poi le condizioni abitative si scoprirà che: il 24% delle case è sprovvisto di cucina; il 48% di acqua corrente; il 73% del bagno; il 93% di telefono.46Non sono dati che debbono sorprendere in quanto nel 1951 ancora 870.000 famiglie vivevano in abitazioni improprie (cantine, soffitte, baracche, grotte), mentre il 21% (pari a

44

Sceneggiatura del film, ibidem, pag. 42.

45

A. Lepre, Storia della prima repubblica, ed. Il Mulino 1993, pag. 144.

46

S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, ed. Laterza, pag. 164-165.

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L’ITALIA DI FELLINI

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1.930.000) abitava in appartamenti sovraffollati (più di due persone per stanza).47 Nonostante questo l’Italia, o per meglio dire una parte di essa, si stava avviando verso il risanamento. Nel 1950 la bilancia commerciale presenta, per la prima volta dopo la guerra, un saldo positivo. La società italiana è ancora fortemente influenzata dall’agricoltura che nel 1951 contribuisce per il 20% alla formazione del Prodotto Interno Lordo e con il 44% all’occupazione. Le regioni più industrializzate risultano essere Piemonte, Lombardia e Liguria. Tutte le altre vengono considerate scarsamente industrializzate; nel caso di Puglia, Campania, Basilicata, Abruzzo e Molise, Calabria e Sicilia, zone in cui gli occupati nell’industria scendevano al di sotto del 5% della popolazione, lo sviluppo del settore era assolutamente insufficiente.48 Proprio le regioni settentrionali sono le beneficiarie della politica di “sviluppo infrastrutturale” intrapresa o facilitata dal governo che porterà poi alla intensa emigrazione dei decenni successivi. In questi anni Roma riafferma la sua presa sull’immaginario collettivo grazie anche all’inesauribile azione del Papa che con l’Anno Santo del 1950 ridà slancio alla sua immagine nel mondo. Anche il cinema e Cinecittà riprendono vigore, incoraggiando sogni proibiti e speranze di successo illusorie che trovano sfogo nell’enorme diffusione dei fotoromanzi. Le vicende cinematografiche di Fellini tornano dunque ad intersecarsi con i miti degli italiani in una nuova pellicola, la prima diretta da solo, Lo sceicco bianco. 2.4 Una cultura in dissolvenza 2.4.1 Sesso e doppi sensi alla ribalta? L’avanspettacolo ha beneficiato, come tutta la società italiana del resto, di un’improvvisa ed inaspettata libertà che si trasforma rapidamente in una stagione eccezionale di licenziosità e 47

A. Lepre, ibidem, pag. 144.

48

A. Lepre, ibidem, pag. 143-144.

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

di turpiloquio. Maestro delle cerimonie è considerato l’inventore dell’Uomo Qualunque Guglielmo Giannini che dai giornali chiama “ederasti” i repubblicani e “Andreottino Culicide” il sottosegretario alla Presidenza del consiglio49. Dopo il 1948 si assiste alla controffensiva dei cattolici che, grazie alla ritrovata efficienza della censura, chiudono ogni spiraglio di tolleranza accettando solo, ma non sempre, i doppi sensi.50 La reazione del Centro Cattolico Cinematografico - ente diretto dall’infaticabile Luigi Gedda, zelante braccio armato nella società civile di Pio XII - è violenta. La recensione emette un giudizio durissimo: “Nel lavoro abbondano gli elementi negativi. Ricordiamo: il concubinaggio di Checco, altre situazioni scabrose, il dialogo spesso scurrile, costumi succinti, danze sguaiate, primi piani licenziosi. Benché la misera vita dei guitti ispiri pietà, il film risulta moralmente censurabile. La visione è esclusa per tutti.” È da notare come il C.C.C. ponga molto l’accento sul concubinaggio di Checco. Era uscito proprio nel 1950 il libro di Luigi Renato Sansone Fuorilegge del matrimonio, una raccolta di lettere che voleva aprire una discussione sul divorzio. Questo ed altri avvenimenti inaspriscono ancora di più la sessuofobia del mondo ecclesiastico che inizia una martellante campagna moralizzatrice. Una situazione di questo tipo porta ad una autocensura da parte di produttori e registi, incalzati dalla silenziosa ma strisciante azione dei sottosegretari che si succedevano alla delega per il cinema (Giuseppe Ermini, Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Brusasca, Raffaele Resta) fedeli alla linea di condotta tracciata da Andreotti. 2.4.2 Dal crudo al cotto: la fine del neorealismo Le preoccupazioni della vita quotidiana si aggiungevano dunque ad altri fattori come la belligeranza tra le due Coree e la guerra fredda che spingevano il pubblico a cercare di esorcizzare la paura di un nuovo conflitto mondiale rivolgendosi verso film di 49

S. Lanaro, ibidem, pag. 186.

50

Zapponi ricorda che in una rivista scritta da lui Mario Riva rischiò la prigione per una battuta che ora farebbe sorridere. Riva presentava la soubrette dicendo:”Come un sole che sorga!” e alla sua apparizione ribadiva “Che sorga!”.

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L’ITALIA DI FELLINI

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minore impegno e verso i fotoromanzi come fanno Liliana e la giovane sposina de Lo sceicco bianco. Queste due tendenze venivano riassunte dai film di Raffaello Matarazzo interpretati da Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Ė in quel periodo che i due raggiungono il massimo successo: Catene trionfa ai botteghini insieme ai film di Totò che nei primi anni cinquanta furoreggia con una lunga serie di pellicole di successo tra cui il celeberrimo Guardie e Ladri di Monicelli che incassa ben 653 milioni. A fare da doloroso contrappunto è il totale fallimento di due tra le opere più importanti del dopoguerra: Miracolo a Milano incassa 180 milioni e Bellissima di Visconti appena 160. L’attenzione del pubblico nostrano non si rivolge al neorealismo, nel frattempo invidiatoci da tutto il mondo, ma ai melodrammi di Matarazzo, Costa e Brignone. Ritorniamo perciò all’avanspettacolo e cerchiamo di comprendere i motivi che hanno portato alla sua scomparsa nel giro di pochi anni. Qualche dato ci può essere di aiuto. Dagli annuari SIAE risulta che il cinema è passato dai 661.549 biglietti venduti nel 1950 ai 744.781 del 1960; nello stesso periodo tutte le attività teatrali (rivista, prosa, concerti ecc.) sono invece diminuite da 20.979.311 a 10.574.581. Il calo delle presenze è di quasi il 50%, ma nel caso della rivista assistiamo alla perdita del 70% del pubblico. L’avanspettacolo era, come sappiamo, l’introduzione al film e a volte si trasformava in varietà; è impossibile quindi sapere quanti spettatori avesse. Il calo della rivista è però un dato che funge da segnale evidente. Ė difficile dare una spiegazione. Certamente questo tipo di manifestazione ha risentito della nuova cappa moralista, dall’avvento delle grandi riviste come della televisione. Non era più necessario rinchiudersi in angusti teatri per sognare il mondo e vedere delle donne seminude, inoltre non si poteva più far digerire al pubblico personaggi patetici come il finto indiano di Luci del varietà senza cadere nel ridicolo. L’Italia usciva dall’isolamento culturale grazie al cinema americano e ai nuovi mezzi di comunicazione ed uno spettacolo sguaiato, rabberciato, mal si conciliava con le tragedie della giunonica Sanson e con le avventure straordinarie delle star d’oltreoceano. L’ideale femminile non era più la ballerinetta da quattro soldi, ma Silvana Mangano o

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2. LUCI DEL VARIETÅ (1950)

una delle dive di Hollywood, un mondo che si stava trasferendo proprio da noi, sul Tevere.

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Capitolo

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LO SCEICCO BIANCO (1952) 3.1 Niente è salvo fuorché l’onore dei Cavalli Due giovani sposini in viaggio di nozze, Ivan Cavalli (Leopoldo Trieste) e Wanda (Brunella Bovo), giungono a Roma durante l’Anno Santo del 1950. Il motivo ufficiale di questo viaggio è la partecipazione all’udienza papale e la visita ad uno zio di Ivan, dirigente al Vaticano, che dovrebbe aiutarlo ad assicurarsi un posto di segretario comunale. Wanda, accanita lettrice di fotoromanzi, vuole invece conoscere l’eroe dei suoi sogni: lo Sceicco Bianco (Alberto Sordi), protagonista della rivista “Incanto Blu”. Appena il marito si addormenta, Wanda si reca alla redazione del periodico dove viene invitata a Fregene per seguire la lavorazione di alcune scene del fotoromanzo. Sulla spiaggia romana conosce lo Sceicco che in realtà si chiama Fernando Rivoli. Nel frattempo Ivan ha scoperto la scomparsa della donna e la sta disperatamente cercando, tentando al tempo stesso di nascondere l’accaduto ai parenti desiderosi di conoscere la sposina. Wanda, dopo aver partecipato ad alcune scene in veste di attrice, viene portata al largo da Nando. Lo Sceicco cerca di circuirla facendole credere di essere stato costretto a sposarsi da un maleficio mossogli dalla moglie. Mentre Wanda sta per soccombere un colpo di vento muove la vela che colpisce violentemente al capo Fernando, stordendolo. Al ritorno alla spiaggia i due sono attesi dal regista, imbestialito dal loro ritardo, e dalla moglie di Fernando, un’orribile megera, che vuole vuole Wanda. Fuggita per la vergogna, la sposina viene abbandonata dalla troupe. Ancora vestita del costume di scena, riesce a rientrare a Roma solo grazie ad un anziano signore che cerca di approfittare di lei. Disperata tenta di suicidarsi gettandosi nel Tevere, ma in quel punto il fiume è molto basso e il suo goffo tentativo viene subito notato dalla polizia. Nel frattempo Ivan, dopo essersi barcamenato per scusare l’assenza della moglie, si è gettato alla sua ricerca infruttuosamente. Pensa di rivolgersi alla Polizia, ma giunto in questura la paura di uno scandalo lo fa desistere. Dopo aver vagato per una Roma notturna e surreale conosce due prostitute; una di queste, Cabiria (Giulietta Masina), cerca di consolarlo. Lui, invece, preferisce eclissarsi con l’altra giunonica passeggiatrice. La mattina successiva, frustrato dalla scomparsa della moglie, Ivan decide di confessare tutto alla famiglia dello zio. Un attimo prima di questo, però, giunge una telefonata che lo avverte del ricovero di Wanda in manicomio a seguito del tentativo di suicidio. Dopo aver

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

eluso le domande dei parenti, Ivan recupera la moglie e la porta in fretta e furia, senza permetterle di spiegare niente, all’ udienza papale dove la famiglia dello zio li attende. In piazza San Pietro Wanda riesce a giustificarsi e gli sposi, finalmente riuniti, si incamminano a passo di corsa verso la Basilica. 3.2 “La patetica menzogna” 3.2.1 Un gradito omaggio L’insuccesso della prima esperienza registica non ha scoraggiato Fellini che, sia pure in modo confuso, avverte di aver trovato la strada che gli permetterà di realizzarsi. L’occasione del debutto gli giunge attraverso un soggetto che Michelangelo Antonioni aveva scritto nel 1949, subito dopo aver girato il documentario L’amorosa menzogna. In quest’opera Antonioni, attratto dall’enorme diffusione dei fotoromanzi, cerca di comprendere i motivi di tale successo seguendo le vite dei divi dei periodici più in voga. Vengono perciò mostrate le riprese del fumetto e l’ingenuo fanatismo dei fan, rivelando la solitudine dei lettori che comprano i giornaletti alle edicole ai margini della città.51 Il soggetto, dopo la rinuncia di Antonioni, passa nelle mani di Lattuada che, successivamente, lo abbandona. Infine il produttore Luigi Rovere, convinto delle possibilità dell’artista romagnolo, gli affida il lavoro. Interessato dal fenomeno che lo divertiva e assomigliava, sotto molti aspetti, ai suoi tanto amati fumetti, Fellini comincia a lavorare con Pinelli alla sceneggiatura a cui collaborerà in ultima istanza anche Ennio Flaiano.52 Il sodalizio con Flaiano rappresenta un imprevisto anello di congiunzione con i gruppi di intellettuali dei caffè di via Veneto dove lo scrittore di Tempo di uccidere era venerato come un maestro e sarà di enorme importanza per alcuni dei film successivi.53

51

T. Kezich, ibidem, pag. 172.

52

Ennio Flaiano (Pescara 1910 - Roma 1972) scrittore, sceneggiatore, giornalista. Una delle figure di maggior spicco della cultura italiana nel dopoguerra. Ha collaborato con Fellini fino a Giulietta degli spiriti (1965). 53

T. Kezich, ibidem, pag. 177.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Il serioso soggetto di Antonioni non piace a Fellini e Pinelli, allora il suo più stretto collaboratore, che lo stravolgono totalmente riportandolo a tematiche a loro più familiari e ad un tono divertito e ironico che satireggia i miti e i sentimenti abusati dai fumetti. L’esordio dietro la macchina da presa rappresenta per l’autore romagnolo il primo atto ufficiale di distacco dal neorealismo, nonostante con Pinelli avesse partecipato a diversi film significativi per questa scuola. La presunta oggettività dello sguardo del regista viene a cadere fin dalle prime inquadrature. L’arrivo nella capitale dei due sposini ci mostra una Roma magica, ma anche spaventosa per delle persone che mai, prima di allora, avevano viaggiato al di fuori del proprio paesino. Non è azzardato affermare che in questa scena Fellini abbia riversato le sensazioni da lui stesso provate il giorno del suo approdo nella città laziale. Nella sua fantasia di adolescente Roma54 era, infatti, il mito per eccellenza; in tutti i film in cui ha ricostruito la sua gioventù essa rimane il luogo da raggiungere, “caput mundi”, come dice Ivan dai finestrini del treno mentre sta entrando in stazione Termini. Il mondo del fotoromanzo è così l’occasione per esplorare i sogni e le illusioni che popolano Roma, e conseguentemente l’Italia, di indagare se stesso e gli “altri”. 3.2.2 Sani, giovani e belli in un mondo fiorito Il fotoromanzo nasce come fenomeno popolare solo nel 1946 con la pubblicazione, nel giugno di quell’anno, del primo numero di Grand Hotel. L’impostazione del giornale si richiama in qualche modo alla formula, già sperimentata un decennio prima, del cineromanzo. Nel 1936, infatti, la Edital (Edizioni Italiane di Milano) aveva lanciato una collana di cineromanzi intitolata Cinevita in cui venivano mostrati alcuni fotogrammi dei film di maggiore successo con delle didascalie che ne riassumevano la trama. La scelta ricadeva normalmente su pellicole sentimentali,

54

I films in questione sono: Roma (1972), Amarcord (1973) e Intervista (1987). In Ginger e Fred (1985) viene mostrato solo l’arrivo alla stazione Termini in modo molto simile a quello dello Sceicco bianco.

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

ma spesso accadeva che film di altro genere venissero “adattati” in modo più o meno ortodosso alle aspettative del lettore. All’indomani dell’apparizione sul mercato editoriale di Grand Hotel, il cineromanzo ritorna ufficialmente in vita con Bolero Film. Due sono quindi le direzioni in cui si muovono le case editrici, direzioni parallele ma che avranno sorti diverse. Il cineromanzo vive, infatti, il suo momento di gloria fino a metà degli anni ‘50 a differenza del fotoromanzo che, sia pure senza toccare più le tirature di quel periodo, continuerà a sopravvivere. Una breve storia dell’evoluzione del fotoromanzo ci può aiutare ad inquadrare meglio il fenomeno. Come abbiamo detto, il primo periodico è Grand Hotel. Già nel primo numero è evidente il progetto editoriale. La copertina mostra, e mostrerà anche successivamente, una coppia di giovani belli, sani e sorridenti che vivono la loro storia d’amore in un mondo fiorito ed elegante. Siamo, ricordiamolo, nel 1946, in una situazione economica a dir poco deficitaria. Dentro la rivista, oltre ad alcuni fumetti (le fotografie arriveranno solo dopo), si possono leggere delle rubriche in cui le lettrici chiedono consigli per la loro vita affettiva e sociale o nelle quali vengono ricostruiti fatti più o meno accaduti. In una di queste un certo Francis si spaccia per uno scrittore che ha amato, goduto e vissuto, proponendosi come interlocutore ideale per la risoluzione di problemi amorosi, ma non solo. Eccolo spiegare, fin dai primi numeri, come liberarsi di un capo ufficio troppo insistente o rassicurare una giovane circa i gusti degli uomini a proposito del colore dei capelli delle donne, o ancora risolvere i dubbi di casalinghe desiderose di sapere se fosse lecito radersi le ascelle. In un’altra sezione, invece, una donna dal terrificante pseudonimo di “Wanda Bontà” si presenta come colei che avrebbe saputo rispondere alle esigenze delle donne bisognose di essere illuminate e aiutate.55 Le prime riviste propongono, come già detto, dei fumetti. Solo dopo l’uscita di Bolero Film l’editoria si apre al fotoromanzo così come lo conosciamo oggi.

55

E. Detti, Le carte rosa, La nuova Italia editrice, 1979 pag.82.

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3.2.3 “Dove comincia la vera vita” 56 Mentre l’avanspettacolo rappresentava il luogo dove il maschio italiano poteva dare libero sfogo ai propri istinti, la donna era invece soffocata dal ruolo di angelo del focolare all’interno di una società patriarcale che la sovraccaricava di doveri. L’apparizione del fotoromanzo crea quell’isola deserta in cui la donna può essere libera di sognare senza più controlli e retaggi. Anche la protagonista del film, Wanda, vive in questa dimensione. Quando parla con la direttrice di “Incanto Blu”, la rivista che pubblica Lo sceicco bianco, le rivela che: “Tutta la settimana aspetto soltanto il sabato che mi porti il mio giornaletto. Vado a prenderlo alla stazione, poi... corro a casa e mi chiudo nella mia stanzetta..... e lì, comincia la mia vera vita”. L’atteggiamento è probabilmente condizionato dal precedente isolamento culturale interrotto nel dopoguerra dalla massiccia introduzione di film statunitensi che introducono un nuovo modello di vita. La diffusione di questo modello è però rallentato dalle difficoltà che l’Italia incontra nella ricostruzione della rete dei trasporti, profondamente lesionata durante la guerra. Unici mezzi di propaganda erano proprio il cinema ed il fotoromanzo. Quest’ultimo poteva giungere ovviamente ovunque ed era disponibile a prezzi notevolmente abbordabili. Se il prezzo medio di un film nel 1950 era di 88 lire, la rivista Super Cinema di dicembre, contenente la riduzione de Il brigante Musolino con Amedeo Nazzari e Silvana Mangano, le rubriche e scritti di Gina Lollobrigida, costava solo 30 lire. Andare al cinema non comportava solo una spesa superiore; la vera difficoltà era la diffusione delle sale cinematografiche su tutto il territorio nazionale. Alla fine della guerra funzionano solo 600 sale che diventano 3.013 già nel 1949 (di cui ben 1192 in Piemonte e in Lombardia e 472 nel Veneto).57 L’aumento era determinato non solo dalla ripresa del settore, ma 56

Dal film Lo sceicco bianco (1952).

57

G. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. III, pag. 116. Lo stesso Brunetta in Cent’anni di cinema italiano, ed. Laterza, 1991, pag. 289 afferma che nel 1948 le sale di proiezione erano circa 6.500 e che, nei dieci anni successivi aumentano fino a raggiungere le 10.000 unità, a cui vanno aggiunte le circa 5.000 sale parrocchiali.

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

anche dall’intensa opera compiuta dal mondo cattolico in quel decennio per controllare il più possibile questo mezzo di comunicazione. Nonostante l’incremento costante del numero delle sale, era però impossibile raggiungere tutte le località e certamente non i piccoli centri come Altavilla Marittima (località inesistente), da dove provengono i due sposini. Un luogo dove una ragazza come Wanda non può passeggiare da sola per il corso senza essere importunata da qualche giovanotto, come lei stessa afferma durante il colloquio con la direttrice del giornale. In un paese di così ristretta mentalità è facile ipotizzare una totale ignoranza dell’evoluzione dei costumi in atto nella società italiana. Diventa facile accettare, a questo punto, lo stupore mostrato da Wanda quando vede la troupe del fotoromanzo aggirarsi in abiti da scena. Non importa se il presunto beduino che sta per aggredirla nella finzione parla con un accento romano evidentissimo, lui resta un beduino, il trait d’union con il mondo delle sue fantasie. L’apparizione dello sceicco bianco è conseguente, l’eroe dei suoi sogni ancora profondamente infantili è su di un’altalena che lei immagina posta molto in alto, un’altalena che è ancora oggetto dell’infanzia in cui Wanda vive. 3.2.4 Fotoromanzo è peccato L’influenza di questo mezzo di comunicazione è confermata dal suo immenso sviluppo. Si calcola che la tiratura complessiva di questi periodici nel 1949 fosse di 2 milioni di copie, con un numero di lettori che raggiungeva i 5 milioni58; le vendite massime erano registrate da Grand Hotel con la ragguardevole cifra di un milione di copie.59 La diffusione dei fotoromanzi era poi aiutata dalla loro semplice veste grafica e dal realismo dei disegni o delle fotografie che ne permettevano la fruizione anche agli analfabeti. Ad un fenomeno di questo tipo la chiesa non poteva restare indifferente. Le vicende dei fumetti riguardavano, infatti, un argomento a forte rischio: la famiglia. Come già detto la chiesa, di 58

L’amorosa menzogna, documentario, regia di M. Antonioni, 1949.

59

AA. VV. Fotoromanzo: fascino e pregiudizio, Ed. Savelli, 1990 pag 90.

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L’ITALIA DI FELLINI

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fronte ai primi timidi tentativi di intavolare una discussione sul divorzio, si era immediatamente attivata affinché questi approcci cadessero nel ludibrio generale, aiutata dalla sinistra che non voleva mostrare il fianco alla propaganda anticomunista. Alla condanna della gerarchia ecclesiastica, che aveva classificato la lettura di un fotoromanzo tra i peccati da dichiarare in confessione, si aggiungeva la riprovazione degli ambienti culturali laici e di sinistra che consideravano negativamente il fenomeno per il sentimentalismo dolciastro e la spinta ad evadere dai problemi della società. Era inevitabile dunque che Grand Hotel fosse subito attaccato da chi, tra i cattolici, temeva lo stravolgimento dei valori propugnati dalla propria dottrina. A seguito degli anatemi ecclesiastici le case editrici accentuano così le tendenze moraleggianti delle trame dei fotoromanzi al punto di sottoporre diversi libri a catastrofici stravolgimenti pur di non prestare il fianco a critiche di alcun tipo. Esemplare è l’esempio del “Conte di Montecristo”, pubblicato su Bolero Film, dove l’eroe di Dumas è colpito da una crisi mistica che lo fa ravvedere. Non mancano però delle eccezioni, sia pur rare, come alcuni racconti divorzisti di Milena De Sotis, pseudonimo di Gabriella Parca e Marcello Argilli. L’atmosfera generale di condanna è ulteriormente dimostrata dall’esclusione, operata sia da Mondadori che da Rizzoli, di Bolero Film e Sogno dall’elenco ufficiale delle loro testate nonostante i sostanziosi contributi che le due riviste portavano ai bilanci. Si spiega facilmente così l’insistenza degli editori nel sottolineare le finalità educative delle pubblicazioni e l’estrema attenzione nel proporre storie che non urtassero in alcun modo la potente censura cattolica. 3.2.5 Sceicchi e angeli A seguito di queste pressioni i personaggi dei fotoromanzi si cristallizzano in ruoli predefiniti: il protagonista maschile deve essere forte, buono, generoso, una guida sicura per la famiglia che rappresenta il valore assoluto della sua esistenza; la donna, invece, deve mostrarsi tenera, dolce, materna, un perfetto “angelo del focolare”. Ogni trasgressione alle regole sociali viene punita dalla

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

collera divina che porta poi ad una redenzione sempre dolorosa e sofferta o ad una condanna eterna alla perdizione. A questi canoni si sottomettono Ivan e Wanda diventando essi stessi protagonisti ridicoli di una buffa comica. L’uomo forte che si batte per l’onore dei Cavalli finisce a letto con una prostituta dalle forme abbondanti, dopo essere fuggito senza ritegno dal commissariato dove era andato a denunciare la scomparsa della moglie 60; Wanda tenta il suicidio perché si considera una donna perduta e viene rinchiusa in manicomio come una povera isterica. Su questa farsa spicca il linguaggio asettico, irreale del fumetto. Wanda dopo essersi ripresa dalla sua disavventura, si riavvicina al marito dicendogli: “È stato il destino avverso... ma sono pura.... Pura e innocente. Ora....il mio sceicco bianco sei tu”. Le espressioni che usa sono ovviamente prese di forza dalle nuvolette dei fotoromanzi, ma rispecchiano esattamente la tipologia della lettrice di questo tipo di periodico emersa da un’inchiesta effettuata parecchi anni dopo, nel 1979.61 Dall’indagine risulta che molte lettrici trovano il linguaggio utilizzato da queste riviste così realistico al punto di dichiarare che: “A volte leggo i fotoromanzi per sapere cosa dire al mio ragazzo”. È certamente un caso estremo, ma non per questo meno significativo, che indica come, nonostante i quasi 30 anni trascorsi dal film, la figura della giovane sposina felliniana sia specchio abbastanza fedele della lettrici di quel tempo. Nando Rivoli, ultimo lato di questo patetico triangolo amoroso, è espressione di un fenomeno che ha toccato il punto massimo con il neorealismo quando, con il successo delle pellicole di De Sica, Rossellini e Visconti, si era ingenuamente ritenuto che gli unici attori credibili fossero i non professionisti per via della loro recitazione spontanea dovuta al fatto che essi “erano” ciò che recitavano. Per questo, in quegli anni, chiunque poteva sognare di assurgere agli onori della cronaca con un film, credendo così di aver raggiunto il successo.

60

J. Risset, L’incantatore, Ed. Schweiller, 1995, pag. 49. La scrittrice, riprendendo uno scritto di F. Burke, chiama questa reazione di Ivan “il dilemma provinciale”, vale a dire la sottomissione al mondo romano della autorità istituzionalizzata. 61

AA VV, ibidem pag. 129-138.

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L’ITALIA DI FELLINI

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I casi più clamorosi sono quelli di Lamberto Maggiorani, protagonista di Ladri di biciclette, che torna a fare l’operaio dopo alcune apparizioni cinematografiche poco fortunate, e di John Kitzmiller, l’attore di colore protagonista di diverse opere quali Paisà e Senza pietà, morto alcolizzato nel 1965. Nando Rivoli è dunque la caricatura di un fenomeno che aveva raggiunto dimensioni tali da suggerire a Visconti l’idea di Bellissima (1952), lo splendido film con Anna Magnani nella parte di una madre di borgata desiderosa di far entrare nel mondo dorato del cinematografo la figlia di cinque anni. Fellini stesso fa sapere allo spettatore chi è in realtà Nando e quale sarà il suo inevitabile destino; quando questi ritorna dalla sua disgraziata gita in barca il regista lo riempie di insulti dicendogli: “Come ti ho creato, ti distruggo. Così torni a fare il barbiere, il garzone del macellaio!” Alla speranza del cinematografo, di entrare in “arte”, si sostituisce presto il desiderio di apparire in televisione diventando ricchi e famosi grazie ai quiz di Mike Bongiorno o ai giochi condotti da personaggi emergenti come Tortora e Corrado. Se i Nando Rivoli finiscono nel dimenticatoio, entrano nella memoria di tutti i nomi dei campioni di Lascia o raddoppia. 3.2.6 Trionfo del melodramma I confini tra fotoromanzo e cinema sono stati, fin dall’inizio, estremamente confusi; i prestiti, i plagi e gli scambi tra l’uno e l’altro settore sono moltissimi. Il fotoromanzo ha preso dal cinema il linguaggio, a volte le ambientazioni, sempre le mode attraverso cui si cercava di carpire il gusto del pubblico. Molti sono i volti noti che hanno utilizzato questo mezzo per lanciarsi nel cinema o per rifiatare dopo un insuccesso. A parte il caso della rubrica, già citata, tenuta da Gina Lollobrigida su Bolero Film, si possono ricordare Sophia Loren, Walter Chiari, Claudia Cardinale, Sandra Milo, Raffaella Carrà, Giuliano Gemma e anche Renzo Arbore all’inizio degli anni ‘70. Anche il cinema, però, ha preso più volte spunto dai fumetti. Il caso più eclatante è la trilogia di Raffaello Matarazzo (Catene 1950, Tormento 1951, I figli di nessuno 1951) che recupera la

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

lezione del fotoromanzo non solo nei temi trattati ma anche nell’uso del titolo. Catene e Tormento sono stati due, infatti, tra i primi fotoromanzi di grande successo, pubblicati entrambi su Bolero Film nel 1947.62 Queste opere sono la punta dell’iceberg di una produzione in quegli anni estremamente viva grazie alla sapiente guida di alcuni registi di grande mestiere come Costa e Brignone, oltre all’indimenticato Matarazzo. In una situazione di questo genere era quasi inevitabile il fallimento commerciale dello Sceicco bianco. In una sola volta Fellini era riuscito ad indispettire pubblico, alcuni importanti produttori (Rizzoli era editore di Sogno), oltre che una certa critica miope e prevenuta. A dire il vero l’accoglienza degli addetti al lavoro non è molto negativa. Il CCC (Centro cattolico cinematografico) emette un giudizio non troppo pesante dicendo che “il film ha intenti positivi; ma comprende scene con donne in costumi succinti, episodi alquanto scabrosi, battute inopportune, che impongono riserve. il tentativo di suicidio è da non prendere sul serio. La visione è ammessa solo per adulti di piena maturità morale”. Vittorio Bonicelli, critico del Tempo, afferma che: “...bisogna rimproverare di non avere creduto abbastanza nelle possibilità che ha l’azione comica di esprimere il senso tragico o patetico della vita. Ma neppure tutto questo riesce a liquidare un film come Lo sceicco bianco [...] È un buon film, forse anche un ottimo film...”63 Altri giudizi lusinghieri sono espressi da Giulio Cesare Castello per Cinema - “un bilancio più che positivo, per una prima prova registica” - e da Callisto Cosulich “il primo film anarchico italiano”. Non mancano però delle stroncature terribili oltre ai dubbi espressi da autorevoli personaggi come Guido Aristarco. Nino Ghelli, recensore per la rivista Bianco e nero, anticipa le roventi polemiche che poi contraddistingueranno le pellicole felliniane del decennio con un giudizio impietoso. Egli, dunque, dichiara “film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative, per convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello [...] È ovvio che non può 62

È opportuno specificare che i films di Matarazzo erano influenzati notevolmente anche dal melodramma come è spiegato nel libro di G. Brunetta, Storia del cinema italiano a pag. 484-488 vol. III. 63

Tempo n. 42 del 1952.

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L’ITALIA DI FELLINI

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essere sufficiente la macchiettistica e superficiale descrizione di alcuni personaggi più o meno coerenti e credibili, e inquadrati in un ambiente superficialmente descritto, per rappresentare un mondo che dovrebbe essere indicativo addirittura di un momento storico, o almeno di un costume.”64 La critica fa seguito alla proiezione al festival di Venezia del 1952, manifestazione a cui era stato iscritto Lo sceicco bianco dopo l’inopinata e ingiustificata esclusione all’ultimo momento dal concorso di Cannes dove fu sostituito da Guardie e ladri di Monicelli.65 L’uscita viene così rimandata alla manifestazione lagunare dove il film passa praticamente inosservato. Fellini ricorda che nei giorni successivi alla proiezione si sentiva lapidato dalla critica e le parole di chi lo aveva difeso erano “sommerse da un torrente di insulti e di malvagità. - aggiungendo poi - Quel film fu distrutto, fu negata la sua stessa esistenza.”66 Fellini addebita l’insuccesso subito dallo Sceicco bianco all’atteggiamento della critica e al fallimento della casa che si doveva occupare della distribuzione della pellicola, ma come abbiamo detto le recensioni non erano state poi tutte così negative. È possibile ipotizzare che pochi abbiano voluto difendere il film per la posizione scomoda che l’autore aveva assunto? Fellini e Pinelli presentavano, infatti, un’opera che, nelle loro intenzioni, doveva essere una commedia surreale 67 in cui si rideva e si sorrideva della famiglia intesa come istituzione sacra ed inviolabile, inoltre le scelte estetiche erano ben lontane dai canoni neorealisti, allora imperanti. In un sol colpo i due si erano posti nella condizione di essere attaccati sia dalla critica cattolica che da quella marxista. Una posizione non certo invidiabile. In ogni modo il risultato finale è un disastro assoluto al botteghino. Lo sceicco bianco ha incassato al 31 agosto 1953 solo 33.700.000 piazzandosi al 140° posto nella classifica delle pellicole italiane nella stagione 1952/53. Alla stessa data hanno reso dieci 64

Cinema 9-10 1952, pp. 45-46.

65

Le altre opere italiane in concorso furono Due soldi di speranza di Castellani (Palma d’oro ex aequo con Othello di Welles), Il cappotto di Lattuada e Umberto D di De Sica. 66

C. Costantini, Conversation avec F. Fellini, ed. Denoel, 1995 pag. 73.

67

Conversazione telefonica con Tullio Pinelli del 25.6.1995.

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

volte di più films come Il cappotto (427 milioni e 14° posto) di Lattuada, Il brigante di Tacca del Lupo (378 e 21esima piazza) e Processo alla città (364 e 22°) sempre di Germi, Stazione Termini (343 e 27°) di De Sica, Europa 51 (223 milioni e 34°) e La signora senza camelie (137 milioni e 91esimo classificato). In quella stagione il campione d’incassi per il cinema italiano è Puccini di Carmine Gallone che raggiunge quota 763 milioni precedendo di poche migliaia di lire un altro film di ambientazione musicale: Canzoni di mezzo secolo di Domenico Paolella.68 Mentre la carriera di regista di Fellini sembrava già finita, imperversavano sugli schermi i melodrammi alla Matarazzo e si affermava sempre più impetuosamente la commedia all’italiana con i soliti noti (Totò, Fabrizi ecc.). Fellini, invece di adeguarsi, pensa di realizzare la storia di una coppia di girovaghi e la propone a diversi produttori ottenendo sempre rifiuti. I suoi insuccessi non invogliano ad investire in opere insolite, le vicende dei due vagabondi vengono così per il momento accantonate per essere utilizzate successivamente, quando il soggetto si trasformerà ne La strada. Un produttore, Pegoraro, si rende disponibile per produrre un film dell’autore romagnolo a condizione che si tratti di una commedia, genere più facilmente digeribile. Nascono così I vitelloni. 3.3 Malumori DC tra Guerra Fredda e nuova Europa 3.3.1 La parabola di De Gasperi Il 1951, data di inizio delle riprese, non fu un buon anno per l’Italia. L’inchiesta parlamentare sulla miseria, che doveva concludersi nel 1952, rivelò, come abbiamo visto nel capitolo precedente, una situazione di estremo disagio aggravata dalle ripercussioni nell’arena politica provocate dalla guerra di Corea. A tutto questo si aggiungevano una serie di catastrofi naturali come l’inondazione del Polesine e l’insicurezza della scena politica. Il governo De Gasperi vede diminuire inesorabilmente il suo consenso. Il timore di una vittoria delle sinistre è ormai 68

La battaglia delle cifre, Cinema nuovo n. 98 del 15.1.1957.

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L’ITALIA DI FELLINI

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svanito e l’elettorato di centro destra torna a distribuirsi nelle varie forze politiche dell’area. L’equilibrio interno della DC è minato dalle divisioni interne; la destra del partito, ormai apertamente alleata alle forze reazionarie esterne 69 agisce per impedire ogni variazione dell’assetto dello stato. Per evitare l’implosione del partito si deve imporre una correzione di rotta. Il campo d’azione prescelto è il Mezzogiorno. Tra il 1949 e il 1950 vengono convertite in legge la riforma agraria e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno. In entrambi i casi, le speranze che i due progetti avevano suscitato vanno rapidamente deluse. La riforma agraria incide solo minimamente sulla redistribuzione del reddito agricolo. Le aree interessate alla riforma sono abbastanza vaste, ma non sono sufficienti a determinare un risanamento complessivo. Inoltre, i terreni messi a disposizione dalla legge sono insufficienti e spesso dislocati in località irraggiungibili quando non sono ridotti allo stato selvaggio. Nonostante questo, la riforma agraria ha, come immediato riflesso, l’abbandono del governo da parte del Partito Liberale che preannuncia il ritorno delle destre. Le elezioni amministrative del 1951-52 confermano questa tendenza. I ceti agricoli del meridione, colpiti nei propri interessi, fanno convergere i loro voti sul Movimento Sociale Italiano e sul Partito Monarchico che ha trovato tra le proprie fila un leader: l’armatore napoletano Achille Lauro. Il timore dell’avanzata delle destre spinge il governo a rinviare le elezioni amministrative del sud al 1952, l’anno successivo a quelle tenute nel settentrione. Il dinamismo missino continua a preoccupare De Gasperi, convinto assertore del centrismo, tanto più che, tramite la mediazione di Don Sturzo e grazie all’assenso del Vaticano, si sta delineando alle comunali di Roma l’alleanza elettorale DC-MSI. Dopo essere riuscito a sventare questo tentativo politico che tanti problemi gli avrebbe creato, al governo non resta altro che prendere atto della trionfale tornata elettorale per le destre che hanno ricevuto notevoli consensi soprattutto nel sud. Per limitare la portata del successo dei missini, viene così emanata la legge Scelba, dal nome dell’allora ministro degli interni, concretizzando 69

S. Colarizi, Storia dei partiti dell’Italia Repubblicana, Ed. Laterza, 1994, pag. 136.

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

il dettato costituzionale che vieta la ricostituzione del partito fascista. La nuova norma costituisce una minaccia pesante per il MSI e serve da avvertimento in modo da costringerlo ad una maggiore cautela. L’anima dura del movimento sociale è avvisata, cresce di conseguenza in autorità la corrente moderata del neofascismo decisa a consolidare il successo alle amministrative con una politica che rassicuri l’elettorato reazionario-conservatore senza eccessivi estremismi.70 Le amministrative confermano così il calo dell’elettorato democristiano (dal 48.5% del 1948 al 35.1%) e pongono seri problemi sulla governabilità dell’Italia nella successiva legislatura. L’unica soluzione appare l’approvazione di una nuova legge elettorale che introduca un premio di maggioranza, la famosa “legge truffa” che entrerà in vigore nel marzo del 1953. Contemporaneamente prende il via il lungo cammino per la costruzione dell’Europa unita. Il 27 maggio 1952 viene firmato il trattato che istituisce la CED (Comunità Europea di difesa). Il trattato è duramente contestato dalla sinistra, ma viene affossato realmente dalla contrarietà del parlamento francese, con una maggioranza di centro-destra, timoroso del riarmo della Germania. Apparentemente lontano da questa confusione, Fellini esce nel 1953 con il suo terzo lungometraggio, I vitelloni, una fuga nel passato, nella sua Rimini e nei suoi ricordi così distanti dai problemi politici che attanagliano la capitale, ma profondamente impregnati dalla rivoluzione del costume in atto in Italia. 3.4

Lacrime e canzoni 3.4.1 Matrimonio all’italiana

Il rapporto di coppia, al centro di questa pellicola, è improntato alla più totale formalità; i due sposini non si scambiano mai effusioni, la prima notte di nozze li intimorisce e disturba. Più tardi, nel manicomio dove Ivan va a riprendere la moglie dopo il patetico tentativo di suicidio, quando lo sposo 70

S. Colarizi, ibidem, pag. 166.

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L’ITALIA DI FELLINI

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entra nella stanza dove è tenuta Wanda, questa si copre il costume di scena che solo poche ore prima aveva orgogliosamente mostrato in spiaggia a tutta la troupe. Ivan poi abbandona la camera, mentre la moglie si riveste, lanciandole sguardi pieni di indignazione per il suo comportamento, dimenticandosi che la notte precedente si era appartato con una prostituta. È l’ulteriore riprova di come l’etica dominante non imponesse un uguale codice comportamentale a femmine e maschi. Se per le une l’illibatezza ed il riserbo sono le virtù ideali, per gli altri la virilità è praticamente un dovere.71 Ė un tratto del carattere nazionale che il fascismo ha fortemente incoraggiato e che i governi a guida democristiana e il clero cattolico si guardano bene dal criticare. Ed è un aspetto che i fotoromanzi sottolineano 72 e approvano. 3.4.2 Gusti e tendenze Il fenomeno ha dei riflessi anche nel cinema. I già citati film di Matarazzo solleticano il gusto del pubblico proponendo ambienti quotidiani, di immediata riconoscibilità e modestia, in cui primeggiano passioni e peccati vietati alle donne rinchiuse nel loro “ghetto”. La conferma viene dalle classifiche degli incassi nelle stagioni 1951/52 e 1952/53 che premiano questo tipo di film. All’agosto 1952 tra le prime dieci pellicole della stagione ci sono ben quattro titoli che rientrano in questa categoria (I figli di nessuno, Core ‘ngrato, Trieste mia, Sensualità) e tre nel 1953 (Perdonami, La nemica, Chi è senza peccato). Spopola anche il musical all’italiana, affine per certi aspetti a questo filone cinematografico, e cioè le riduzioni di opere liriche (Rigoletto 1947, Aida 1954 di Fracassi), biografie di personaggi famosi (Caruso 1951 di Gentilomo, Puccini 1952 e Casa Ricordi 1955 di Carmine Gallone, Giuseppe Verdi 1954 di Matarazzo) e film che ripropongono, in una serie di quadri animati, canzoni di sicura presa (Canzoni di mezzo secolo 1953 e 71

S. Lanaro, ibidem, pag. 188.

72

Riportiamo a titolo di esempio un dialogo tra i protagonisti di Amore fra due spade pubblicato nel 1950 da Grand Hotel. Durante una partita di caccia Manola, che non è riuscita a colpire nulla, si rivolge mortificata al suo innamorato dicendogli: “Non ho preso niente. Siete deluso di me?” E l’ufficiale di rimando “Al contrario, sono entusiasta, come tutte le volte che vedo una donna fallire un’impresa da uomo.”

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3. LO SCEICCO BIANCO (1952)

Canzoni, canzoni, canzoni 1954 di Paolella, Città canora 1953 di Costa).73 Tutti questi film hanno una radice comune che si può far risalire alla lirica ottocentesca per tipo di rappresentazione delle passioni e degli intrecci e per l’enfatizzazione dei momenti topici del dramma. Il successo di questo genere di film è legato alla stabilità dei pubblici popolari e alla tenuta di una cultura che riesce a giocare a tutto campo, sul piano dei vari media, creando fenomeni macroscopici di confluenza e mobilità parallela di codici e ideologie. Di colpo, con la trasformazione economica ed industriale, questo tipo di cultura viene cancellato e sparisce dal ricordo del cinema popolare per antonomasia.74 È dunque la trasformazione economica e la conseguente evoluzione del ruolo della donna nella famiglia e nella società a determinare il tramonto di questo genere cinematografico contiguo al fotoromanzo. Peraltro il boom di queste riviste va esaurendosi e con esso il loro influsso sul comportamento degli italiani, condizionato ormai da un nuovo rivoluzionario media: la televisione. Altro motivo di riflessione sull’evoluzione dei gusti degli italiani è dato dal successo, abbastanza contenuto per il momento ma costante, dei film ambientati nell’antichità. Se Fabiola di Blasetti è stato il campione d’incassi nel 1949, Messalina di Gallone è solo decima nella classifica della stagione 1951-52 e La regina di Saba di Francisci non va oltre l’ottavo posto in quella del ‘52-’53. Un’ anticipazione del peplum-film che porta alla ribalta gli eroi muscolosi alla Maciste. Purtroppo, a far da contraltare, vi è la scomparsa delle pellicole di contenuto sociale dagli incassi stagionali. L’unico tipo di critica che filtra attraverso le maglie della censura ed il gusto di un pubblico stanco di lotte intestine e desideroso solo di svago, si manifesta in opere falsamente definite commerciali. Questo accade con pellicole drammatiche come Anna 1952 di Lattuada che raggiunge la seconda posizione tra gli incassi di opere italiane della stagione grazie all’apporto di Silvana Mangano, allora 73

La battaglia delle cifre, ibidem.

74

G. Brunetta, ibidem, pag. 489.

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famosissima; oppure attraverso commedie come Guardie e ladri 1952 di Steno e Monicelli. Gli incassi, insomma, rispecchiano una certa identità di vedute con il modello proposto dalla chiesa e dalla politica. Nel decennio successivo alla guerra i valori, infatti, erano la famiglia, la bandiera, la patria, Roma e la visita al Papa75 (durante l’anno santo ci sono circa tre milioni di pellegrini76), valori rispettabili ma vissuti in una dimensione così favolistica da essere inevitabilmente soggetti alla bonaria satira di Fellini. Qualcosa, però, non è certamente cambiato e non cambierà negli anni successivi. Un’altra delle pesanti eredità del ventennio fascista è, senza dubbio, una burocrazia elefantiaca, incapace e asfittica, gestita secondo criteri puramente clientelari. Tutto era insomma dipendente dalle pressioni che il cittadino poteva esercitare sui funzionari. I burocrati venivano “incoraggiati” a svolgere i compiti di loro spettanza attraverso una serie di allettamenti che andavano dall’uso, relativamente innocuo, della raccomandazione personale fino alla corruzione vera e propria.77 A questo rapporto deformato si adegua anche il protagonista dello Sceicco bianco che, tra i motivi che lo hanno portato a Roma in viaggio di nozze, ha l’appuntamento con lo zio, alto dirigente in Vaticano, in grado, secondo suo dire, di farlo diventare segretario comunale di Altavilla Marittima in poco tempo. È proprio in quel periodo che la burocrazia ministeriale aumenta a dismisura provocando la selva di sovrapposizioni e di sprechi che, appesantendo l’intero sistema politico-amministrativo, hanno portato l’Italia all’attuale situazione di sfascio morale ed organizzativo.

75

Intervista del 12.9.95 a T. Pinelli. Pinelli ricorda, tra l’altro che Pio XII aveva istituito delle visite collettive apposite per giovani sposi. 76

M. Boneschi, Poveri ma belli. I nostri anni cinquanta, ed. Mondadori 1995, pag. 73.

77

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, 1989 ed. Einaudi, pag. 199.

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Capitolo

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I VITELLONI (1953) 4.1 “Los Inutiles” I Vitelloni sono giovani di famiglie borghesi che passano la loro giornata nell’ozio più completo, sognando amori e avventure. Tali sono, in una piccola città che somiglia tanto a Rimini, Alberto (Alberto Sordi), Moraldo (Franco Interlenghi), Fausto (Franco Fabrizi), Leopoldo (Leopoldo Trieste) e Riccardo (Riccardo Fellini). Fausto ha una relazione con la sorella di Moraldo, Sandra, e la mette incinta. Costretto dal padre ad assumersi le sue responsabilità, Fausto accetta il matrimonio che si presenta fin dall’inizio molto fragile. Leopoldo vuole fare lo scrittore, ma si fa facilmente distrarre dalla servetta del palazzo accanto. Alberto vive con la madre e la sorella che intrattiene un rapporto con un uomo sposato. Riccardo spreca la sua bella voce tenorile. Moraldo, infine, avverte il disagio della sua condizione e trova conforto nell’amicizia con un ragazzino 14enne che incontra all’alba mentre questi si reca alla stazione dei treni dove lavora. Al veglione di carnevale Alberto si ubriaca. Quando Moraldo lo accompagna a casa, scopre che la sorella lascia la famiglia per andare a vivere con il suo uomo. Ad Alberto non resta che condividere il dolore della mamma disperata. Fausto, ritornato dalla luna di miele, si impiega presso il negozio di un antiquario e intanto continua a ricercare avventure galanti. Tenta, infatti, di approfittare della moglie dell’antiquario. La donna, però, oltre a rifiutarlo, racconta tutto al marito che lo licenzia su due piedi. Fausto vuole vendicarsi e convince con una bugia Moraldo a rubare la statua di un angelo che giace invenduto nel magazzino del negozio d’antiquariato. Dopo alcuni vani tentativi di vendere la statua, i due la affidano a Giudizio, il matto del paese. Scoperti dalla polizia vengono salvati solo dall’intervento del padre di Moraldo; il fatto però provoca grande scompiglio in casa e sconvolge Sandra. Giunge il momento di Leopoldo. Al teatro è di scena una rivista che vede la partecipazione di un grande attore di prosa, ormai decaduto, Sergio Natali. L’attore ha letto una commedia di Leopoldo e sembra intenzionato a portarla in scena. Dopo lo spettacolo la compagnia va a cena con gli amici. Mentre gli altri si uniscono alle ballerine, Leopoldo recita la sua commedia a Natali che lo invita al buio tra le cabine della spiaggia. L’aspirante

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4. I VITELLONI (1953)

commediografo si accorge delle reali intenzioni dell’individuo e scappa a gambe levate. Fausto, invece, dopo avere passato la notte con la soubrette della compagnia ritorna a casa con Moraldo che cerca di fargli la morale senza risultato. A seguito di quella notte Sandra prende il bambino con sé e fugge lasciando nella disperazione Fausto. Dopo una giornata di ricerche la donna viene ritrovata nell’abitazione del suocero che decide, una volte per tutte, di dare una sonora lezione al figlio scioperato. I due si riconciliano e la vita sembra tornare come prima. Non per Moraldo, però, che una mattina prende il treno e se ne va a Roma. 4.2 Da sogno a sogno 4.2.1 Sfaccendati di provincia Nel vocabolario della lingua italiana Zingarelli la parola “vitellone” viene così definita: “Giovane che trascorre il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo, senza cercare di uscire da un ambiente sociale mediocre e privo di stimoli intellettuali”. È un neologismo mutuato proprio dal titolo della terza opera registica di Fellini. Non sarà l’unico caso in cui il cineasta romagnolo conierà parole che poi entreranno a far parte del linguaggio quotidiano (Paparazzo e Dolce vita saranno i casi più eclatanti). La provenienza di questo vocabolo è ancora poco chiara; si dice che derivi dal riminese “vidlòn”, espressione dialettale con cui i lavoratori indicavano gli studenti e più in generale gli scioperati. Un’altra ipotesi lo fa invece scaturire dal dialetto marchigiano, come testimoniato da una lettera del 1971 di Ennio Flaiano che ne discetta l’origine: “il termine era usato ai miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato... Credo che sia una corruzione di vudellone, un grosso budello, persona portata alle grosse mangiate e passato in famiglia a indicare che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire.”78 Con quest’opera Fellini raffigura la realtà di una parte della provincia italiana mettendo contemporaneamente in scena il disagio che coglie i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. 78

T. Kezich, ibidem, pag. 191-192.

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Se per il ragazzino, l’amico di Moraldo figlio di un ferroviere, è assolutamente normale iniziare a lavorare a 14 anni, per gli sfaccendati piccoli borghesi che si aggirano per questa Rimini fantastica, frutto delle riprese effettuate in diversi luoghi d’Italia, il lavoro è uno spettro che disturba i loro sogni adolescenziali e li vuole costringere a prendersi carico delle responsabilità della vita. Come e più delle altre opere, vi è una forte connotazione biografica nei personaggi rappresentati e soprattutto nell’alter ego del regista. Ma sul fatto che i vitelloni fossero un fenomeno tipico della provincia non solo italiana, ma mondiale non esistono dubbi. Non si spiegherebbe, diversamente, il forte impatto emotivo che il film ha avuto sul pubblico e sui registi di tutto il mondo che lo hanno preso come modello. I casi più famosi, elencarli tutti sarebbe impossibile, sono: Calle Mayor (1956) dello spagnolo J. Bardem, I basilischi (1963) di Lina Wertmuller, Mean Streets (1973) di Martin Scorsese e American graffiti (1974) di George Lucas. La lavorazione del film è piuttosto travagliata. I soldi sono pochi e, in aggiunta, Sordi, voluto fortemente da Fellini nonostante fosse, nelle considerazioni dei produttori, un attore odiato dal pubblico, è impegnato nella tournèe teatrale della rivista di Wanda Osiris. Si rende necessario, allora, inseguirlo per le piazze italiane, un inseguimento che porta la troupe a girare alcune scene a Viterbo (il veglione di Carnevale) e a Firenze (il negozio dell’antiquario). Anche l’inquadratura che ci propone i vitelloni malinconici a scrutare dal pontile il mare d’inverno non è stata girata sulla riviera adriatica ma sul lungomare di Ostia. Oltre a Sordi, che da quel momento si impone come uno degli attori più amati del grande schermo, caratterizzato proprio dal personaggio “codardo, infido e adolescenziale cronico”79 che lo renderà famoso e così peculiarmente “italiano”, Fellini riesce ad imporre alla produzione anche la scelta di Franco Fabrizi nel ruolo di Fausto (doppiato però da Nino Manfredi), che aveva notato tra i boys di Wandissima. Il cast è poi completato dall’ex ragazzo prodigio Franco Interlenghi (salito alla cronaca con il ruolo da protagonista in Sciuscià), dal già conosciuto Leopoldo Trieste e da una serie di caratteristi provenienti dal teatro (Paola Borboni, 79

R.Cirio, Il mestiere del regista, ibidem, pag. 62.

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4. I VITELLONI (1953)

Enrico Viarisio), dal fratello di Fellini, Riccardo, e da una diva del terzo reich, la cecoslovacca Lyda Baarova, nota per essere stata l’amante di Goebbels e, a causa di questo, per essere stata perseguitata da Hitler prima e dall’esercito sovietico poi. La sfiducia verso la pellicola aumenta nei produttori a mano a mano che si avvicina il momento della fine delle riprese. Il produttore Pegoraro, dopo aver visto il materiale girato, si affretta a mettere in cantiere un film di sicuro esito commerciale che dovrebbe così permettergli di superare il previsto insuccesso de I vitelloni. I risultati del botteghino smentiranno ampiamente le previsioni: mentre Scampolo ‘53 (così si chiama la disgraziata pellicola “riparatrice”) è un disastro assoluto, il film di Fellini, a sorpresa, diventa uno dei maggiori successi della stagione. Incassa, infatti, nel 1953-54 ben 555 milioni e si piazza al nono posto della classifica delle pellicole italiane. Il notevole risultato commerciale è poi rafforzato dalla distribuzione all’estero dove I vitelloni spopola. In Argentina è campione d’incassi nel 1954, in Francia, Inghilterra e USA riscuote buoni consensi. Il successo è aiutato anche dall’affermazione ottenuta al Festival di Venezia del 1953 dove la giuria, presieduta da Eugenio Montale, gli assegna il Leone d’argento insieme ad altre cinque pellicole in un palmarès in cui il Leone d’Oro non è stato attribuito ad alcun film. La critica italiana esprime, però, riserve sull’ultima fatica di Fellini. Pur non negando la validità dell’opera e le potenzialità del regista, essa pretende dal cinema la corretta formulazione dei problemi sociali e un aiuto per la soluzione degli stessi. Così Fernaldo Di Giammatteo scrive sulla rivista Rassegna del film: “È indubbio che questo film svela una personalità nuova ed abbastanza autentica, ma è pure indubbio che le doti di questa personalità restino tuttora vaghe.” 80 Santarelli sulla Rivista del cinematografo osserva che “Fellini non ha lo spirito caustico della satira così come non ha lo spirito polemico della denuncia.”81 Moravia, critico allora dell’Europeo, pur non disprezzando l’opera segnala che “Tutte queste figure sono disegnate sulla falsariga di un mondo provinciale di marca deamicisiana per nulla 80

Rassegna del film n. 17/1953 pag. 21-23.

81

Rivista del cinematografo, n. 11/1953 pag. 26-27.

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convincente.”82 Non è da meno la recensione di Filippo Sacchi che, dalle pagine di Epoca, segnala che il personaggio di Moraldo (chiamato erroneamente Monaldo all’interno dell’articolo) è “assolutamente sbagliato nella sua uggiosa passività”83 facendo casualmente suo, sia pure partendo da basi diverse, il giudizio del CCC che esprime le proprie riserve sentenziando: “La condanna di un sistema di vita poco lodevole non è espressa con sufficiente chiarezza. Tale errore d’impostazione e la presenza di situazioni e scene scabrose fanno riservare la visione agli adulti di piena maturità morale.” Altre critiche esprimono consenso all’opera sottolineandone il realismo. Angelo Solmi, su Oggi, esprime la convinzione che “Fellini [..] ci ha dato un ritratto esattissimo della vita di certa società di provincia” 84, Vito Pandolfo ribadisce che “Fellini [...] possiede la capacità di rievocare un ambiente e di metterne a fuoco le scottanti alternative, le asprezze di quella vita e la debolezza congenita di certi strati sociali.”85 4.2.2 Il borgo: Rimini Come è già stato accennato sappiamo che i vitelloni che hanno ispirato l’opera erano un gruppo di giovinastri tra i 25 e 30 anni che Fellini aveva conosciuto a Rimini, ma che non aveva mai frequentato a causa della notevole diversità d’età che intercorreva tra di loro. Inoltre, i ricordi di Fellini sono contaminati da quelli di Flaiano, proveniente anche lui dalla provincia, in questo caso, pescarese. Infine gli aneddoti narrati erano avvenuti alla fine degli anni ‘30 quando sia Fellini che Flaiano erano poco più che adolescenti. Tuttavia il contesto sociale in cui si svolge il film è chiaramente quello dell’Italia postbellica (l’anno esatto è citato all’inizio quando Sandra viene premiata Miss Sirena 1953) che si sta velocemente portando tra le nazioni industrializzate e che ha già dimenticato - o cerca di rimuovere - la guerra. Rimini era uscita distrutta dall’evento bellico, i bombardamenti avevano quasi completamente sventrato la città 82

Europeo, 11.10.1953 pag. 37.

83

Epoca n. 156 del 29.7.1953

84

Oggi, n. 40 del 1953

85

Rivista del cinema italiano, n. 1/1954 pag. 53-54.

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4. I VITELLONI (1953)

vecchia che era poi rapidamente rifiorita grazie all’operosità dei suoi abitanti prima e dal turismo di massa che agli inizi degli anni ‘50 cominciava a delinearsi. La violenza e l’accanimento delle forze alleate sulla città romagnola è testimoniato dalla sorella di Fellini, Maddalena, che ricorda con terrore un bombardamento del dicembre 1943 in cui cadevano le “bombe come grappoli di uva nera.”86 Il turismo rappresenta per Rimini la soluzione dei propri problemi. Il progressivo benessere porta gli italiani in massa sulla riviera adriatica distruggendo il “borgo” per rimpiazzarlo con il regno del divertimento trasgressivo di giovani che si possono considerare, in qualche modo, eredi dei vitelloni felliniani. Gradualmente le pensioncine a conduzione familiare svaniscono, così come l’economia spicciola ed il rapporto estremamente solidale tra cittadini 87 che aveva caratterizzato Rimini fino ad allora. Un rapporto solidale che spingeva Giorgio Fabbri, marito di Maddalena Fellini, giovane medico pediatra a farsi pagare raramente le visite.88Il progresso prodigioso di quegli anni cancella impietosamente anche le antiche attività commerciali. Ecco che, sempre nei ricordi di Maddalena, appare il rimpianto per i vecchi negozi che caratterizzavano il centro della cittadina: il negozio di stoffe della Enia Bartolotti (la Enia delle “quattro stagioni”), quello dei fratelli Angelini, detti “I murin”, che vendevano cappelli di ogni tipo e foggia o il negozio dell’arrotino muto.89 La vita era ancora, usando un modo di dire ormai abusato, a misura d’uomo. La ricchezza era, invece, ancora da venire; un esempio emblematico viene dai costumi da bagno fatti molto spesso con la tela dei paracadute, un tessuto così spesso e duro da lasciare i segni sulla pelle di coloro che lo portavano. Le ragazze indossavano invece un costume di lana che non appena si bagnava diventava“tinco”, in dialetto significa rigido, staccandosi dal corpo.90 Le possibilità di divertimento per i giovani d’allora erano davvero poche, come si può facilmente desumere anche dalle 86

M. Fellini, Storia in briciole di una casalinga straripata, Ed. Guaraldi Rimini 1994, pag. 30.

87

Intervista con Titta Benzi (Rimini 1920) del 24.4.95. Famoso avvocato riminese e amico inseparabile di Fellini. Alla sua figura e alla sua famiglia, Fellini si ispirò per Amarcord. 88

M. Fellini, ibidem, pag. 25.

89

M. Fellini, ibidem, pag. 19.

90

M. Fellini, ibidem, pag. 45.

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immagini de I vitelloni e Amarcord (1973). Oltre alle solite feste per ragazzotti vi era ben poco d’altro da fare: c’era il biliardo, il bar, gli scherzi di buono e cattivo gusto, il cinema (il Fulgor che appare spesso nella mitologia felliniana) e, raramente, il varietà che viene riproposto anche in questa pellicola. Poi c’erano i sogni, la fuga a Roma, la capitale che così tanto fascino esercitava su questi giovinastri e verso cui si dirige Moraldo nel finale. Roma era allora difficilmente raggiungibile, quasi un’avventura. L’unica persona che Benzi sapeva esserci andato al momento in cui Fellini ci si reca, era suo nonno che, anni prima, aveva dovuto raggiungerla a piedi per trovare un lavoro.91 I collegamenti erano assai difficoltosi e lo resteranno per diverso tempo dopo la guerra. Fellini, infatti, perde quasi completamente i rapporti con la città d’origine e con i suoi amici d’infanzia per alcuni anni. Quando vi ritorna, si accorge della scomparsa del borgo, si rende conto che la fauna locale, fonte d’ispirazione per alcuni suoi famosissimi personaggi (Giudizio, Biscein, Gradisca, Saraghina), sta svanendo, inglobata dal boom economico. Si impossessa di lui una nostalgia che non lo abbandonerà più e che riappare nelle opere più disparate (Roma, I clown, Amarcord, Otto e mezzo) a distanza anche di decenni, sia pure nel modo trasfigurato e fumettistico che gli apparteneva. La discrasia esistente tra la Rimini dei suoi ricordi e quella reale rende difficile il rapporto tra lui e i riminesi anche a causa della sua timidezza che “lo portava a far gabellare per superbia l’opinione dei suoi concittadini.”92 La riconciliazione giunge solo dopo il primo dei due ictus che lo porteranno alla morte il 31 ottobre 1993. Sapendo che Fellini è gravemente malato, Rimini si stringe attorno a lui e lo riaccoglie nel proprio seno. La vita di Fellini, come quella di tutti d’altro canto, è a forma circolare come ci insegna Milan Kundera93: dal sogno infantile e adolescenziale riminese al sogno di Roma per tornare, alla fine, al sogno di una Rimini 94 che non c’è più e che, forse, non c’è mai stata. 91

Intervista con Benzi del 24.4.95.

92

Intervista con Benzi del 24.4.95.

93

M. Kundera, L’immortalità, Ed. Adelphi 1992.

94

Benzi, nell’intervista già richiamata, ricordava che Fellini gli aveva espresso, pochi giorni prima dell’ictus, l’intenzione di ritornare a vivere a Rimini.

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4.3

4. I VITELLONI (1953)

Per pochi voti 4.3.1 La visione di una democrazia protetta

La lavorazione del film, immersa in un’atmosfera gioiosa, non è disturbata dalla dura campagna, intrapresa dai partiti d’opposizione e da frange della stessa maggioranza, contro la cosiddetta “legge truffa” che assegnava i due terzi dei seggi alla coalizione di partiti che avesse ottenuto il 50 per cento più uno dei voti. Nel tentativo di impedirne l’approvazione, si scatena un durissimo ostruzionismo in parlamento superato solo da una forzatura dell’allora presidente del Senato Meuccio Ruini, succeduto a Giuseppe Paratore dimessosi per contrasti col governo che lo invitava ad usare questo tipo di procedura. La legge viene approvata il 29 marzo 1953, giusto in tempo per le elezioni che vengono indette per il 7 giugno dello stesso anno. È un’altra sconfitta per il Partito Comunista appena ripresosi dallo shock causato dalla morte di Stalin, scomparso il 5 marzo. La riforma della legge elettorale ha, però, provocato gravi lacerazioni anche all’interno della maggioranza. Dai partiti laici alleati alla DC escono personaggi che si presentano alle elezioni in formazioni nate appositamente per impedire alla coalizione formata da: DC, PSDI, PLI, PRI, Partito sardo d’azione, Sud Tiroler Volkspartei e Partito Popolare Sudtirolese di ottenere il quorum del 50% dei voti. La percentuale non viene, infatti, raggiunta anche in virtù dell’azione di queste piccole liste laiche di dissidenti - Adn (Alleanza democratica nazionale), guidata dal liberale Corbino, e Up (Unità popolare) con alla testa Calamandrei, Parri e Codignola - che raccolgono rispettivamente lo 0,5 e lo 0,6%. Una manciata di voti, dunque, che sono però sufficienti ad impedire la realizzazione del progetto di “democrazia protetta” che De Gasperi si proponeva di realizzare con la riforma della legge elettorale. Il cartello di partiti da lui guidato raggiunge solo il 49.8% e nel corso della seconda legislatura viene poi ripristinato il proporzionale puro con la cancellazione del premio di

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L’ITALIA DI FELLINI

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maggioranza appena introdotto. La sconfitta politica del progetto degasperiano comporta la caduta dell’anziano leader della Dc. La presidenza del consiglio viene così affidata al democristiano Giuseppe Pella che forma un governo monocolore con l’appoggio esterno di liberali, repubblicani e socialdemocratici. Un governo poco solido che si dissolverà sulla questione di Trieste. La città faceva parte dalla conclusione della seconda guerra mondiale di un territorio libero diviso in due zone controllate dalle forze vincitrici del conflitto. Nel tentativo di recuperare la sovranità su questa fetta di terra Pella chiede il 13 settembre un plebiscito in entrambe le zone; in cambio promette ai partner europei l’appoggio del governo per l’ingresso dell’Italia nella CED. La violenta reazione jugoslava costringe gli alleati a ritirare il proprio appoggio alla proposta italiana. In seguito all’uccisione di sei persone, nel corso di una manifestazione a Trieste, compiuta dalla polizia locale dipendente dall’amministrazione alleata, il governo italiano schiera il proprio esercito alla frontiera. L’intervento di Stati Uniti e Gran Bretagna porta ad un compromesso che lascia all’Italia la zona A mentre la zona B viene assegnata alla Jugoslavia. Incassato il risultato politico, Pella paga le tensioni che ha causato con la sua politica estera spregiudicata e viene dimissionato dalla Dc che lo definisce, attraverso le parole di De Gasperi, semplicemente un “governo amico”. Gli succede Mario Scelba, il “famigerato” ministro degli interni fino al ‘53, che forma un tripartito con i socialdemocratici e i liberali dopo un tentativo infruttuoso di Fanfani. Le tensioni politiche non si riverberano nell’opera felliniana di cui, peraltro, si erano già concluse le riprese alla fine di gennaio. Le questioni sociali che vengono toccate sono assai diverse. Appare comunque evidente l’angoscia delle giovani generazioni che si propongono alla società impreparate, incapaci di inserirsi nel mondo del lavoro. D’altro canto le possibilità che si presentano sono molto umili; Fausto si vergogna di lavorare nel negozio di arredi sacri che è ben diverso dai sogni di gloria che aveva, fino a quel momento, cullato nella sua fantasia ed il ragazzino amico di Moraldo è costretto, a soli 14 anni, a lavorare in ferrovia con orari e turni massacranti.

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4. I VITELLONI (1953)

4.3.2 Andiamo al mare! L’inquietudine modernizzatrice che si stava impossessando del popolo italiano non aveva ancora agito in profondità nella mentalità della provincia. Il Sud, in modo particolare, non riuscirà a ritrovare i legami con il resto d’Italia che gradualmente migliora le proprie condizioni di vita.. Rimini, invece, e la riviera romagnola risalgono la china grazie al turismo di massa che inizia ad imporsi dalla seconda metà degli anni cinquanta. Nel censimento del 1949 l’Emilia Romagna aveva 1.789 esercizi alberghieri e poteva contare su 34.459 posti letto, ben lontana quindi dalla Lombardia che disponeva di 4.267 esercizi con la possibilità di ospitare oltre cinquantamila persone. Davanti all’Emilia Romagna c’erano anche Piemonte, Trentino, Veneto e Toscana; il Lazio era sorprendentemente molto più indietro con soli 815 esercizi e con poco più di ventiseimila posti letto. Già nel 1954 il dato cambia: gli esercizi aumentano nella Romagna fino a raggiungere il numero di 2.590, portano la regione ad essere seconda solo alla Lombardia, detentrice del primato, e al Piemonte che però è sopravanzato nel numero di letti a disposizione. Il dato del 1958 è invece radicalmente diverso e testimonia il boom della vacanza di massa e le mutate condizioni economiche. In Emilia Romagna si registra, infatti, un aumento delle attività alberghiere di quasi il 70%, lo stesso fenomeno si registra in Liguria, altra regione balneare dove si indirizza quella parte di italiani che gode dei primi frutti di un insperato progresso economico. Ma l’espansione del turismo in questa zona è ancora più riscontrabile dall’aumento del numero dei posti letto che si raddoppiano nel corso di soli 4 anni (104.753 nel ‘58) fino a raggiungere la quota di 145.737 che da sola è il 17% dell’intero settore in Italia.95 95

Tutti i dati sono estrapolati dagli annuari ISTAT. Le rilevazioni sono state effettuate con il Ministero del Turismo e l’ENIT. Sono compresi tutti gli esercizi aperti, gli esercizi non funzionanti per motivi stagionali, nonchè quelli temporaneamente chiusi per altri motivi. Il letto matrimoniale è considerato come due letti.

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L’ITALIA DI FELLINI

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È facilmente comprensibile che questo incremento è dovuto quasi completamente allo sviluppo della riviera adriatica. È ovvio a questo punto affermare che Rimini e le zone limitrofe, il paesaggio naturale dell’infanzia di Fellini, avevano subito un cambiamento così radicale da sembrare totalmente trasformate. Il che era per di più avvenuto quando il regista frequentava raramente la sua città natale poiché era impegnatissimo sul set. 4.3.3 Partire per dove? I vitelloni felliniani non vivono l’abnorme crescita del turismo e dell’artigianato locale; certamente, però, subiscono l’incertezza tipica di ogni cambiamento epocale e la rivoluzione in atto nella provincia italiana. Questa trasformazione rendeva ogni giorno più difficile il rapporto tra padri e figli impostato in modo molto tradizionale.96 I problemi generazionali sono confermati anche da altre fonti. Eugenio Turri nel suo libro Miracolo economico, in cui ricostruisce la vita nel veronese del decennio, affronta un caso analogo. Narra, infatti, la storia di un proprietario di un negozio di generi alimentari, Giani Formagiar, con un figlio di nome Tranquillo che è descritto così: “inquieto, con poca voglia di studiare, ambizioso, con tendenza a fare il bullo [...] uno che stava bene in piazza. [...] Passava tutta la giornata al bar a sognare avventure impossibili. Gli piacevano molto le macchine sportive con cui pensava di fare colpo sulle ragazze.”97 Sembra il ritratto di uno dei protagonisti del film di Fellini, una riproduzione esatta di un fenomeno destinato a sedimentarsi negli usi della provincia fino a degenerare. Tranquillo finisce in prigione per truffa, ma si redime tornandosene a casa per rimettersi dietro il banco del negozio da cui credeva di allontanarsi. Chi invece fugge è Moraldo che, come emerge dalle stesse dichiarazioni di Fellini, è il personaggio che più si avvicina al 96

Esemplare a tal proposito il rapporto esistente tra Fausto e il padre. Non solo Fausto, che ha quasi 30 anni, si rivolge al babbo dandogli sempre del lei, ma quando questi lo punisce battendolo con la cinghia, Fausto subisce il castigo senza reagire minimamente. 97

E. Turri, Miracolo Economico. Dalla villa veneta al capannone industriale, ed. Cierre Verona 1995, pag. 160.

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4. I VITELLONI (1953)

regista. Prende il treno e se ne va a Roma, verso la capitale dove c’era, o si sperava ci fosse, il successo, l’affermazione nel mondo dello spettacolo o forse un luogo ove svelenire l’inquietudine. Come lui, molti altri. Si sa, infatti, che l’intensa emigrazione di quegli anni si volgeva soprattutto verso le regioni del nord in cui lo sviluppo economico progrediva incessantemente. Unica significativa eccezione era il Lazio. Nei due annuari ISTAT in cui sono segnate le cancellazioni e le iscrizioni anagrafiche per movimento migratorio tra Comuni italiani (1957 e 1960) il Lazio registra, oltre agli spostamenti all’interno della regione, l’insediamento di, rispettivamente, 49.240 e 62.729 persone - dato inferiore solo a quello registrato in Lombardia ed in Piemonte - in maggioranza provenienti dal centro-sud.98 Le spiegazioni del fenomeno sono ovvie. Il notevole rafforzamento dell’amministrazione centrale era stato visto nel sud dell’Italia, dove la disoccupazione era elevatissima, come una possibilità di carriera che era stata poi rapidamente sfruttata a fini elettorali, una volta compresane l’importanza. Nel 1954 il 56.3% degli impiegati e funzionari pubblici sono di origine meridionale.99 Su questo esodo c’è anche l’influenza del mondo dello spettacolo che, reinsediatosi a Roma, rappresenta per molti un sogno irraggiungibile anche se il fenomeno, comunque limitato, ricopre una reale importanza solo nel mondo della cultura. Le illusioni e le speranze degli italiani sono anche vittime dell’incertezza del quadro politico data dalla inadeguatezza delle coalizioni governative. La fragilità delle maggioranze parlamentari viene compensata dall’intervento dei partiti con un dinamismo che tende a saltare il momento istituzionale. Il Parlamento, infatti, diventa poco a poco solo la cassa di risonanza di decisioni, scelte ed alleanze maturate fuori da Montecitorio.100 Questo processo comporta l’occupazione dello stato da parte dei partiti, e della DC

98

Si deve anche considerare che la regolamentazione fascista sull’emigrazione, che era restrittiva della libertà di spostamento, è stata abrogata solo nel 1961 e perciò i dati forniti dovrebbero essere incompleti, seppure indicativi. Per dati più completi è consigliabile il libro di G. Galeotti, I movimenti migratori in Italia. Analisi statistica e programmi di politica, Bari, 1971. 99

P. Ginsborg, ibidem, pag. 195.

100

S. Colarizi, ibidem, pag. 178.

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L’ITALIA DI FELLINI

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in primo luogo, che nel suo processo degenerativo spingerà l’Italia nel baratro della inefficienza. Nasce, insomma, la partitocrazia. 4.4 Ridere di cosa? 4.4.1

Vittime del benessere

I Vitelloni rappresentano uno degli aspetti più deleteri della provincia italiana. Fellini, è vero, li identifica con la parte della sua adolescenza in cui questi giovinastri sembravano un modello a cui ispirarsi. Ma al di là della bonaria simpatia con cui il regista li tratta, essi rappresentano il rischio di degenerazione di una società che da agricola è, in pochissimi anni, divenuta industriale. L’improvviso benessere della media borghesia - ancora rigidamente aggrappata ai valori e alle tradizioni dell’Italia prebellica e, in molti modi, ottocentesca - non concede il tempo a molti ceti, soprattutto della provincia, di adeguarsi alla nuova mentalità che la rivoluzione industriale (e di rivoluzione nella nostra penisola si può parlare) porta con sé. Gli scompensi che ne derivano sono una delle ragioni della nascita di questi parassiti che sono comuni a tutta Italia come testimonia non solo il film di Fellini ma anche il già citato libro di Turri. Paradossalmente tale comportamento può essere riconosciuto come una forma di ribellione ad una società che non si riconosce più. La salvezza che i vitelloni inseguono, ma non raggiungono mai, assume l’aspetto della grande città a cui si aggiunge il sogno di sfondare nel mondo dell’arte - come per Leopoldo - o nello spettacolo. Ovviamente ciò riguarda quasi esclusivamente il centronord o le zone di questa parte d’Italia maggiormente toccate dallo sviluppo industriale degli anni ‘50. Al Sud, invece, non solo il fenomeno è assai più limitato per ragioni economiche, ma l’ancora di salvezza per molti giovani è rappresentata dall’emigrazione causata dalla mancanza di lavoro e considerata, peraltro, a livello governativo come “effetto positivo provocato dal libero gioco

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4. I VITELLONI (1953)

della domanda e dell’offerta e utile valvola di sfogo per la sovrappopolazione presente nel Meridione e nel nord-est” 101 4.4.2 Largo alla commedia Il successo che arride a questo film è forse attribuibile al fatto che l’italiano conosce e riconosce questa categoria di persone e, dunque, ne può ridere senza sentirsi bersaglio della pungente ironia e satira del regista, come era invece accaduto ne Lo sceicco bianco e accadrà anche successivamente con altre opere. I vitelloni, insieme a La spiaggia di Lattuada e Maddalena di Genina (che rientra, comunque, tra i melodrammi), è l’unico film d’autore che sfonda ai botteghini. Tuttavia anche quest’opera è assimilabile ai gusti del pubblico in quanto, in fondo, appartiene al filone della commedia all’italiana. La classifica del cinema italiano della stagione 53/54 vede poi solo commedie - divenute famosissime, come Pane amore e fantasia con la Loren e De Sica, Il ritorno di Don Camillo e Il turco napoletano con il solito Totò - e film di natura musicale, intervallati da altre opere in costume come Lucrezia Borgia per la regia di Christian Jacque. Il pubblico italiano continua insomma a rifuggire dal cosiddetto “cinema impegnato” fino al punto di rifiutare il tentativo di Zavattini di rilanciare il neorealismo con un film ad episodi - Amore in città - dove i migliori registi italiani, tra cui Fellini, girano dei cortometraggi su tematiche neorealiste. L’insuccesso è totale. Amore in città è solo 90° tra gli incassi stagionali, poco sopra I vinti di Antonioni. Un successo appena accettabile riscuote Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo di Pratolini, che con circa 224 milioni occupa il 56° posto. Il pubblico è ormai definitivamente ripiegato su se stesso, di fatto inizia a manifestarsi quello scollamento che porterà lo spettatore a rifiutare i modelli proposti dal nostro cinema per aderire a miti, gusti, mentalità dei prodotti statunitensi. Un’identificazione aiutata dall’invasione delle case produttrici 101

Il mondo contemporaneo, Storia d’Italia Vol. II, L’emigrazione, a cura di Brunello Martello. Ed. La Nuova Italia, 1980, pag. 294.

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L’ITALIA DI FELLINI

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americane a Cinecittà che, grazie all’economicità e alla resa dei propri artigiani, si presenta come una valida alternativa alle strutture esistenti negli USA. La presenza costante sugli schermi e sui rotocalchi italiani degli attori più famosi di Hollywood che si aggirano nei locali più rinomati della nostra penisola, rende ancora più familiare e raggiungibile lo stile di vita statunitense che, agli occhi di tutti, diventa l’Italia di un futuro ormai prossimo grazie alla industrializzazione e allo sviluppo economico. Il cinema italiano perde progressivamente contatto con la realtà esterna, se si eccettuano alcune commedie capaci di mantenere un rapporto con la quotidianità. Probabilmente questo processo è aiutato dalla rimozione, nella coscienza collettiva, del ventennio fascista e della guerra per cui si crea nell’immaginario la convinzione che il secondo conflitto mondiale sia stato combattuto fianco a fianco con gli americani. Grazie al successo de I vitelloni Fellini riesce ad imporre la storia che vuole girare da un paio di anni, la fiabesca vicenda di due poveri vagabondi, una fiaba che rifiuta ogni compromesso con l’ideologia neorealista: La strada.

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Capitolo

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LA STRADA (1954) 5.1

La purezza e la bestialità

Gelsomina (Giulietta Masina) è una povera orfana dall’animo semplice. La madre è costretta a cederla per 10.000 lire ad un artista da strada, il rozzo Zampanò (Anthony Quinn) a cui aveva già venduto la figlia maggiore che si scopre essere appena morta. Addestrata duramente dal girovago, la ragazza sembra prendere gusto alla nuova vita che la porta ad esibirsi nelle piazze dei paesi suonando la tromba e il tamburo e recitando. Gelsomina è a tutti gli effetti la compagna di Zampanò con cui vive a bordo di una strana automobile, ma questi la maltratta e umilia in continuazione; una notte la abbandona in un paese per andarsene con una prostituta. Il lavoro li porta in una cascina dove si sta festeggiando un matrimonio. Finita la loro esibizione, i due entrano per mangiare. Mentre Zampanò si allontana con la padrona di casa che è vedova, Gelsomina viene condotta dai bambini in uno stanzone dove trova un bambino infermo. Umiliata dal comportamento del suo compagno, Gelsomina fugge in un paese vicino dove si festeggia la festa della Madonna Immacolata. Lì vede per la prima volta il Matto (Richard Basehart), un equilibrista che si esibisce a circa 40 metri di altezza. Dopo la festa Gelsomina, ubriaca, cade a terra. In quel momento giunge Zampanò. L’uomo la butta a forza sulla sua strana roulotte e parte. Gelsomina si risveglia in un circo dove lavora anche il Matto. Subito iniziano i dissidi tra lui e Zampanò che sfociano in durissimi litigi. L’ultimo porta in prigione il bruto che viene, quindi, scacciato dal circo. Durante la notte la ragazza incontra il Matto che la convince a restare con il suo uomo dicendole: “Anche un sasso serve a qualcosa... Se non ci stai te con lui chi ci sta?”. Dopo il rilascio di Zampanò ricomincia il girovagare che li conduce ad un convento di suore che offrono ai due riparo per la notte nel loro fienile. Il ringraziamento per la generosità delle religiose dovrebbe essere il furto di alcuni ex-voto, ma Gelsomina rigetta inorridita la richiesta ed il colpo fallisce. Al momento del congedo una suora, con cui la ragazza ha fatto amicizia, le chiede se vuole restare al convento, ma lei rifiuta convinta che il proprio destino sia a fianco dell’uomo. Durante il viaggio i due incocciano nel Matto, intento a riparare il guasto della sua automobile. Zampanò, irritato dalle sue solite battute, lo

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5. LA STRADA (1954)

uccide sbattendogli la testa contro la macchina. Spaventato cerca poi di nascondere l’accaduto facendolo passare per un incidente. Gelsomina, però, è sconvolta: non mangia e non parla più se non per invocare un aiuto per il Matto. Esasperato, Zampanò la abbandona lasciandole la tromba ed un po’ di soldi. Sono passati alcuni anni, Zampanò, invecchiato, lavora nel Circo Medini ed ha un’altra compagna. Mentre sta passeggiando sente una donna intonare la melodia che Gelsomina suonava sempre con la tromba. La donna rivela di averla imparata da una ragazza morta alcuni anni prima. Zampanò cerca di tornare alla sua vita normale, ma la notizia della morte di Gelsomina ha acceso in lui un rimorso inestinguibile. Non serve a nulla anche ubriacarsi. Dopo essere stato scacciato da un’osteria, si rifugia nella spiaggia. Solo, si lascia andare ad un pianto disperato. 5.2

Guerra di trincea 5.2.1

La poesia dei vagabondi

Il copione de La strada nasce dall’amore che sia Fellini che Pinelli nutrono nei confronti dei vagabondi. Non è, tuttavia, chiaro di chi sia stato lo spunto iniziale. Tullio Kezich attribuisce l’idea a Fellini che avrebbe incontrato una famiglia di zingari somiglianti a Zampanò e Gelsomina durante le riprese di Luci del varietà.102 Pinelli, invece, racconta di essersi imbattuto nei due personaggi durante un viaggio in cui, in macchina, si recava a far visita alla famiglia, rimasta a Torino.103 Ad onor del vero lo stesso Pinelli aggiunge poi che anche Fellini aveva il desiderio di girare qualcosa sui vagabondi. La lavorazione li vide perfettamente concordi, nonostante il dissenso di Flaiano che riteneva l’idea una sciocchezza. La gestazione del film è stata, comunque, piuttosto lunga. Pinelli inizia, infatti, a stendere la sceneggiatura durante le riprese de I vitelloni e dopo quest’opera Fellini realizza anche le riprese dell’episodio che figurerà nel manifesto neorealista Amore in città.

102

T. Kezich, ibidem, pag. 190.

103

Intervista con Pinelli del 12.9.95.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Nel frattempo fatica ad imporre la Masina come protagonista. I produttori non credono in lei e più di una volta cercano di convincerlo a non utilizzarla proponendogli altre attrici affermate come Silvana Mangano. Fellini rifiuta decisamente e continua a reclutare il cast basandosi solo sul proprio istinto. Sul set del film Donne perdute di Peppino Amato trova i due protagonisti maschili. Nel corso di alcune chiacchierate rimane colpito dalla presenza fisica di Anthony Quinn che incarna perfettamente Zampanò. Nella stessa pellicola lavora anche Richard Basehart, già noto alle cronache per il matrimonio con Valentina Cortese, di cui il regista romagnolo apprezza la dolcezza e la simpatia. La lavorazione del film comincia nell’ottobre del ’53 e procede lentamente in mezzo a grossi problemi organizzativi dovuti al fatto che il film si realizza quasi esclusivamente in esterni. Quinn, poi, sta girando contemporaneamente il kolossal storico Attila, infine dopo poche settimane di riprese la Masina si infortuna. A completare il quadro, lo stress fa cadere il regista in una strana forma di depressione. La guarigione da questo disturbo psichico viene interpretata da Kezich come un momento determinante per la maturazione dell’uomo e dell’autore. 5.2.2

A Venezia equivoci e falsi dualismi

La prima avviene al Festival di Venezia il 6 settembre 1954 in un’atmosfera nervosa. Gira, infatti, la voce che ambienti politici stiano boicottando l’opera di Luchino Visconti Senso, considerato in quel periodo il leader della cinematografia marxista. In contrapposizione al rappresentante della sinistra, Fellini viene adottato dalla stampa cattolica e borghese come proprio campione in virtù dei contenuti più spirituali delle pellicole del regista romagnolo. Nasce così un falso dualismo, che durerà una decina d’anni, alimentato ad arte dalla stampa e dai media, tra due registi che nulla hanno in comune con le divisioni politiche e ideologiche del periodo. L’equivoco viscontiano è generato dalla realizzazione de La terra trema che viene additato quale esempio virtuoso di neorealismo, trascurando, invece, le ispirazioni pittoriche e

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5. LA STRADA (1954)

letterarie alla base non solo del film in questione ma di tutta l’opera di Visconti.104 Speculare la posizione di Fellini, eletto strumentalmente dalla critica cattolica a simbolo di un cinema spirituale e religioso. La contestazione alla premiazione del festival che vede Fellini premiato con il Leone d’argento - quello d’oro è stato assegnato a Giulietta e Romeo di Castellani - e Senso completamente escluso da ogni tipo di riconoscimento, provoca una gazzarra sedata solo grazie all’intervento della polizia. Inoltre l’amarezza per il boicottaggio subito, spinge Visconti a rilasciare dichiarazioni abbastanza velenose nei confronti dell’opera di Fellini. I due, dopo un periodo di freddezza reciproca durato anni, si riappacificano a Mosca durante il festival del 1963. Questa contrapposizione è alimentata anche dalla rivalità esistente tra le due “corti” che vivevano a fianco dei registi. Visconti era, infatti, “un signore rinascimentale che aveva una corte di cui la sinistra era il lusso, la ciliegina sulla torta. Prima veniva l’aristocrazia, poi l’estetismo e, infine, il comunismo”.105Anche attorno alla figura di Fellini ruotava una struttura che si potrebbe definire anch’essa cortigiana al pari di quella viscontiana. Per cui non è difficile immaginare che gelosie, invidie e divisioni ideologiche tra le due realtà abbiano giocato un ruolo importante nella presunta inimicizia tra i due autori. È probabile comunque che questa contrapposizione sia servita a molti per mascherare l’avversione profonda per la pellicola felliniana bollata in Italia come traditrice della causa neorealista. Mentre Pasolini la definisce un capolavoro, molti critici si affannano a cercare difetti ed imperfezioni. Se, nell’Italia degli anni ‘50, il potere è a destra, la cultura, egemonizzata dalla sinistra, si situa in una dura opposizione che non accetta i tentativi di affrancarsi da questa visione manichea della società. È da segnalare che il fenomeno ha assunto dimensioni abnormi soprattutto in Italia come dimostra la recensione moderatamente positiva che George Sadoul, santone della critica marxista

104

Per un discorso più completo vi rimandiamo al libro di Roberto Campari, Il fantasma del bello, ed. Marsilio 1994, pag. 51-68. 105

Intervista con Lina Wertmuller (Roma, 1926) Regista e sceneggiatrice. Ha collaborato per alcuni anni con Fellini prima di dedicarsi ad una lunga e fortunatissima carriera. del 30.4.1995.

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L’ITALIA DI FELLINI

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mondiale e noto per la sua feroce avversione verso il cinema da lui ritenuto borghese e commerciale, fa di La strada.106 In Italia, invece, la critica si scatena contro Fellini accusandolo di volta in volta di essersi ispirato a “deteriore letteratura”107o di insincerità (si possono citare, tra gli altri, Pasquale Ojetti, Gaetano Strazzulla, Lino Del Fra’). Qualcuno, come G. Marotta su L’Europeo, bolla il film come improbabile deridendo chi afferma che “si tratta della tragedia dell’incomunicabilità fra le creature” poiché, secondo lui, “la effettiva tragedia dell’incomunicabilità è solo quella in atto fra individui normali, pieni di intelligenza, di educazione, di sensibilità” e non tra “un bruto e una deficiente” che “è ovvio non abbiano un bel niente da comunicarsi.”108 I rilievi più articolati gli vengono mossi da due mostri sacri della critica militante italiana: Guido Aristarco e Luigi Chiarini. Il primo afferma che “Fellini è un regista anacronistico irretito com’è in problemi e dimensioni umane largamente superate. [..] È rimasto alla letteratura d’anteguerra, cerca giustificazioni e resta adolescente”.109 Il secondo ritiene che “i personaggi ridotti a simboli sono svuotati di una loro concreta e possibile umanità. [..] Mancando delle persone vengono a cadere i problemi su di esse astrattamente imperniati. I personaggi non sono immersi nella realtà.”110 Ci mette del suo anche il CCC che emette il seguente giudizio “La difficoltà di un’esatta comprensione del film da parte di un pubblico giovanile e l’assenza di freni morali nel protagonista consigliano di riservare la visione agli adulti.” Nonostante l’evidente opposizione della critica che tende a privilegiare l’assunto sociale sui contenuti morali di un film a forma di favola, La strada riscuote un buon successo nelle sale. Alla fine della stagione ‘54/’55 la classifica degli incassi la pone al 17esimo posto con un introito pari a 430 milioni. Ma il vero successo la pellicola lo coglie all’estero, trionfando quasi ovunque 106

G. Sadoul, Cinema nuovo 1955, n.71, pag. 386. “Se La strada è stato preso dalla maggioranza degli spettatori per un attacco alla concezione reazionaria e borghese dei rapporti tra uomo e donna, questo film non ha servito le forze retrograde e i suoi pregi superano i suoi difetti. [..] Non sono per niente convinto che il film sia l’apologia del misticismo o degli uomini-bruti.” 107

G.C. Castello in Cinema n. 141, 1954, pag. 516-517 o anche L. Gherardini, Storia generale del cinema, Ed. Marzorati, 1959. 108

L’Europeo, del 10.10.1954.

109

Cinema nuovo, n. 46, 1954, pag. 311.

110

Bianco e nero, 1957, pag. 140-141.

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5. LA STRADA (1954)

fino a conquistare l’Oscar per il miglior film straniero nel 1956. Oltre all’ambita statuetta, la fiaba di Gelsomina è premiata ripetutamente in tutto il mondo. La Danimarca lo considera il miglior film dell’anno; in Belgio gli viene riconosciuto il premio della critica. Persino in Giappone Fellini viene consacrato maestro del cinema; a New York stabilisce il record di visioni superando i due anni di programmazione e incassando la bellezza di 650 milioni.111 Questo successo non scalfisce minimamente le convinzioni della critica italiana che, anzi, ironizza sul ritardo culturale del resto del mondo. 5.2.3

Crisi del neorealismo

La polemica sorta intorno al film di Fellini porta ad un dibattito interno che trae la sua motivazione dalla crisi del neorealismo. Ai suoi epigoni critici non resta che cercare conforto e appoggio nella militarizzazione della cultura cinematografica da parte del PCI. Una militarizzazione nata in seguito all’uscita del volume di Andrei Zdanov, Politica e ideologia, nel 1949 che condiziona l’atteggiamento dei comunisti italiani nella cultura durante tutta la guerra fredda.112 Certo le rigidità delle teorie zdanoviane vengono attenuate e smussate, in parte, dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, ma resta manifesta la tendenza conformista di molta parte della critica di schierarsi da una parte del confronto con idee preconcette e forti pregiudizi. La crisi evidente in cui è caduto il neorealismo crea la necessità di trovare il modo di uscire da questa fase di immobilismo del cinema italiano portandolo dal neorealismo al realismo. Il disagio di questa scuola cinematografica si incrocia con la congiuntura negativa del realismo socialista che ancora non si vuole egualmente dichiarare e riconoscere.113

111

Nei quotidiani “La notte” del 18.7.57 e “Il giorno” del 22.7.1957.

112

Non bisogna però dimenticare la feroce polemica tra gli intellettuali organici al PCI, con interventi in prima persona di Togliatti, e Elio Vittorini sulla conduzione del Politecnico, la rivista fondata dallo stesso scrittore nel 1945. Per un resoconto più preciso delle vicende della rivista vi rimandiamo al libro di M. Zancan, Il progetto “Politecnico”. Cronaca e struttura di una rivista, Venezia 1984. 113

G. Brunetta, ibidem, pag. 155.

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L’ITALIA DI FELLINI

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L’acceso dibattito sul presunto tradimento del neorealismo da parte di Fellini mostra, alla fine, proprio le lacerazioni presenti in coloro che questa polemica hanno iniziato. Il fronte neorealista si frantuma quindi in diverse fonti di dissenso in una crisi aggravata dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 che produrrà un terremoto negli ambienti culturali vicini al PCI. Il processo di disgregazione della critica di sinistra è confermata anche dalle violente polemiche relative a due casi letterari: Vasco Pratolini e Beppe Fenoglio. Il primo esce nel 1955 con Metello, un romanzo molto atteso in quanto facente parte della trilogia Una storia italiana, che si proponeva di ricostruire la storia nazionale del ventesimo secolo. Il romanzo non corrisponde alle attese della critica marxista che si spezza immediatamente in due fronti. C’è chi, come Carlo Salinari, vede in Metello una svolta cruciale, vale a dire la fine del neorealismo e l’inizio del realismo. I detrattori, invece, non riconoscono nel personaggio di Metello un eroe positivo e criticano l’ottimismo superficiale della narrazione. Beppe Fenoglio esordisce, invece, nel 1952 con I 23 giorni della città di Alba, nella collana I Gettoni diretta da Elio Vittorini. Il romanzo, che rivela in tutta la sua crudezza la realtà della lotta partigiana, è attaccato da critiche di stampo ideologico che decreteranno l’emarginazione di Beppe Fenoglio dal mondo letterario italiano che lo riscoprirà parecchi anni dopo la morte, avvenuta nel 1963. 5.2.4 “Senza tetto né legge” In un’atmosfera così surriscaldata, in cui prevalevano le componenti ideologiche su quelle sociali e culturali, è completamente sfuggito agli occhi della critica che l’opera di Fellini descriveva un mondo in via di estinzione: i vagabondi. L’evoluzione economica dell’Italia stava, infatti, distruggendo ogni possibilità di vita a questi personaggi che, girovagando da una parte all’altra della nostra penisola, si inventavano i mestieri più improbabili oppure si trasformavano, come in questo caso, in artisti da strada.

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5. LA STRADA (1954)

Proprio l’atmosfera respirata in questo ambiente era stata oggetto di attenti studi da parte di Tullio Pinelli che aveva esordito in teatro con una pièce (La pulce d’oro) ambientata tra i vagabondi. Questo interessamento, oltre al desiderio mai realizzato di abbracciare questo tipo di vita, ha portato Pinelli ad avvicinare questi personaggi che ciondolavano da una sagra di paese ad un mercato di un altro. In tutte le piazze si potevano ammirare giocolieri, mangiafuoco oppure si potevano apprezzare le capacità oratorie di imbroglioni che vendevano finto oro a prezzi stracciati dicendo di averlo ricevuto da contrabbandieri peruviani; o ancora dei cosiddetti dulcamara che vendevano ai creduloni rimedi e consigli contro ogni tipo di malattia.114 Le strade di tutta Italia erano invase da questi personaggi che, privi di una casa, raccoglievano in ogni modo il poco che gli bastava da vivere. Giravano con il sacco a spalla sulle strade raramente asfaltate. Pinelli ritiene che la vita di questi vagabondi fosse frutto di una scelta, per il piacere di fare i saltimbanchi senza costrizioni sociali di alcun tipo e ricorda un anziano signore che passava la vita trasferendosi dalla casa di un figlio a quella dell’altro. Era il rifiuto di ogni tipo di responsabilità, di ogni preoccupazione e anche delle convenzioni a cui è sottoposta una normale persona. È difficile definire con precisione la sorte di questi personaggi, non esistono a proposito né statistiche né fonti a cui riferirsi. È probabile che l’avvento dell’era industriale li abbia confinati in spazi sempre più marginali e ristretti, quando non li abbia distrutti e ridotti alla fame. Il loro destino non poteva essere diverso da quello di Gelsomina: senza documenti, casa, soldi e con alle spalle una vita piena di fatica, privazioni che non poteva non aver lasciato dure tracce sul loro fisico, questi vagabondi sono finiti, con molta probabilità, in ospizi o ridotti all’accattonaggio. L’ancora di salvezza per pochi di loro era costituita da quei poveri circhi a conduzione familiare che campavano miseramente girando nei piccoli centri della provincia italiana. Quei circhi che sono patrimonio dell’infanzia di tutti i “provinciali incarnati 114

Intervista del 12.9.95. Pinelli rammenta di aver sentito un venditore spacciare l’aglio come cura per le carie. Secondo questi guaritori, infatti, uno spicchio d’aglio introdotto nella carie uccideva i germi cattivi che stavano rovinando il dente.

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L’ITALIA DI FELLINI

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idealmente da Fellini. Nell’immaginario felliniano, il circo occupa un posto di assoluto rilievo come dimostrano le numerose pellicole con una citazione. Sempre, questo mondo viene descritto nei termini proposti ne La strada: il tendone minuscolo, pochi posti a sedere, numeri banali e di scarsa spettacolarità. Il regista romagnolo conosceva bene quel mondo che lo aveva ammaliato sin da piccolo. Lo aveva studiato, analizzato, amato. Non a caso Zampanò nasce dall’assemblaggio di due nomi di famiglie circensi: Zamperla e Saltanò. 5.2.5 La diffusione del culto mariano Da Luci del varietà a La strada si possono notare significative differenze nella descrizione dell’ambiente circostante. Se il paesaggio mostrato nel film del debutto era ancora fortemente segnato dalle distruzioni belliche, Zampanò e Gelsomina vagano per i sobborghi delle città dove i palazzinari spadroneggiano costruendo casermoni uguali e monotoni. È in questo quadro urbano che si intravedono le modificazioni intervenute. Nel finale, infatti, ambientato su di un lungomare, quando Zampanò scopre che Gelsomina è morta, il girovago si aggira tra la folla che si gode la passeggiata domenicale, sintomo di una rinascita economica che comincia a farsi sentire. La provincia non ha ancora pienamente recuperato, come si evince dal povero abbigliamento mostrato durante la scene del matrimonio in campagna e nel corso della processione, ma certamente esiste un miglioramento sensibile che è evidente nel raffronto tra i due film in questione. Il progresso industriale e la rivoluzione sociale in atto collidevano con la politica sociale di Papa Pio XII. Il suo ruralismo, i suoi richiami alla frugalità e all’austerità sono un moto di reazione all’economia di mercato che non gli impediscono di avviare un forte processo di compenetrazione nella vita di tutti i giorni. Essenziale nell’azione politica e sociale del Papa è l’accentuazione del culto mariano. La Madonna viene fatta oggetto di una particolare venerazione al punto che nel 1954 - lo stesso

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5. LA STRADA (1954)

anno di produzione de La strada - viene indetto, per la prima volta nella storia della chiesa, un “anno santo mariano” e viene pubblicata l’enciclica Sacra virginitas, che fa seguito alla Fulgens corona, resa nota l’anno precedente. Fellini recepisce tale clima mostrandone gli aspetti a volte spirituali, a volte deleteri. Il culto della Madonna rientra, infatti, in tre pellicole di questo decennio: La strada, Le notti di Cabiria (1957) e La dolce vita (1960). Nel primo film è mostrata la processione della Madonna Immacolata in un piccolo paese; nel secondo il pellegrinaggio al santuario della Madonna del Divino Amore e, nell’opera più imponente della storia del cinema italiano, La dolce vita, è di grande importanza l’episodio dei due bambini che millantano l’apparizione miracolosa della madre di Gesù. Isolando i tre episodi dal contesto dell’opera in cui si trovano e legandoli tra loro è subito evidente come lo sguardo di un cattolico, sia pure sui generis come Fellini, passi da un’attenta e rispettosa descrizione del culto di un paese di provincia, in cui sono messi in risalto il legame forte e sincero della cultura contadina, alle parossistiche scene di isterismo religioso presenti nell’ultima pellicola qui considerata. Non è sfuggita, invece, all’attenzione della stampa la critica implicita all’istituzione matrimoniale insita nel film di Fellini. Questi aspetti non potevano non irritare sia la critica cattolica - in fondo il culto mariano era stato incrementato per sottolineare la sacralità della generazione all’interno dell’istituto del matrimonio sia la critica marxista che si mostrava ugualmente moralista e risoluta nel riprovare pubblicamente ogni tentativo di sollevare il problema del divorzio. Un atteggiamento di carattere propagandistico più che di sostanza, visti i trascorsi familiari di molti esponenti di spicco del partito. Questi motivi sono probabilmente alla radice dell’ancora più violenta battaglia che si scatena all’indomani dell’uscita del successivo film di Fellini Il bidone. Il suo insuccesso commerciale libera rancori sepolti e meschinità represse che approfittano dell’occasione per regolare i conti con il cinema felliniano, mal sopportato perché non riconducibile ad alcuna categoria.

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L’ITALIA DI FELLINI

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5.3

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L’Italia a motore 5.3.1

Dalla vespa all’utilitaria

Il simbolo più immediato di questo film è la motoretta. La stessa con cui Zampanò percorre l’Italia per raggiungere fiere, sagre, mercati e circhi, è anche il simbolo della motorizzazione di massa che avviene negli anni cinquanta. L’improbabile vettura a tre ruote che Zampanò usa non è certo protagonista di questo fenomeno - il girovago peraltro dice che è di fabbricazione americana - ma è sintomo dell’evoluzione dei mezzi di trasporto nella penisola. L’inizio di questo processo risale alla primavera del 1946 quando esce sul mercato un nuovo veicolo a due ruote: la Vespa, che montava il motorino d’avviamento per aerei costruito durante la guerra dalla fabbrica Piaggio e che costava solo 80.000 lire. L’anno successivo appare anche la Lambretta che si pone in concorrenza con il modello precedente e rende sempre più effervescente il settore che passa dai 106.095 motoveicoli in circolazione nel ‘46 ai 465.576 del 1949, anno del grande boom a cui segue un’ascesa continua fino agli oltre 3 milioni di motoveicoli su strada del 1957.115 Grazie allo sviluppo della motorizzazione, le possibilità di movimento dell’italiano medio aumentano considerevolmente e questo comporta una ridefinizione della concezione dello spazio ed una maggiore possibilità di allargare il raggio delle proprie conoscenze. L’automobile stenta invece ad imporsi per i costi ancora altamente proibitivi per la maggioranza degli italiani. Nel 1951 vengono, infatti, immatricolati solo 100.000 autoveicoli, un quinto degli esemplari in circolazione. Per quanto se ne sentisse la necessità, l’utilitaria, tuttavia, non arriva. La politica aziendale della FIAT non prevede la messa in circolazione di una vettura di tale genere in quanto non considera ancora giunto il momento e preferisce, insieme alle altre case produttrici, orientarsi su berline di media cilindrata. Solo nel 1955 esce la Seicento a cui fa seguito, nel 1957, la Nuova Cinquecento (la vecchia non è altro che la 115

A. Lepre, ibidem, pag.78-79.

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5. LA STRADA (1954)

rinomata Topolino) sull’onda del trionfale successo della precedente utilitaria. Il prezzo d’acquisto, di sole 480 mila lire, è alla portata di vasti strati della popolazione e gli effetti sono immediati. Nel 1958 circolano per le strade 1.392.525 vetture che diventano quasi 5 milioni e mezzo nel 1965.116 Il possesso dell’automobile diventa status simbol e si impone nell’immaginario collettivo. 5.3.2

Poveri e ignoranti

Certo la vicenda di Gelsomina è ambientata probabilmente alla fine degli anni quaranta, ma le condizioni della sua famiglia sono terribili. La ragazza è orfana di padre ed ha sette fratelli con cui vive in una piccola casa in riva al mare, senza introiti di alcun tipo. La sorte di questa ragazza, come d’altro canto della sorella che prima di lei ha subito analogo trattamento, è di essere venduta per sole 10.000 lire ad un bruto che non possiede un briciolo di pietà. Le condizioni della famiglia della giovane non sono un azzardo del regista, ma una realtà per centinaia di migliaia di italiani. A dimostrarlo urge ancora una volta richiamare i dati resi noti dalla Commissione Parlamentare sulla povertà che riferiva della situazione del 1953 in Basilicata in cui ogni vano costruito ricoverava in media due persone e mezza.117 Abbiamo già visto poi nel corso del primo capitolo i dati relativi all’alimentazione degli italiani all’indomani dell’evento bellico che confermano la miseria in cui ci si dibatteva. A questa condizione precaria si aggiungeva un livello di istruzione misero ed una condizione igienico-sanitaria difficile. Nel censimento del 1951 risulta, infatti, che nella popolazione superiore a sei anni i laureati non sono neppure l’un per cento, 0,99 per l’esattezza, mentre gli analfabeti sono quasi 5 milioni e mezzo, vale a dire il 12,89% degli italiani. Inoltre il 75% circa ha raggiunto al massimo la quinta elementare e non è difficile

116

S. Lanaro, ibidem, pag. 252.

117

M. Boneschi, ibidem, pag. 35.

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L’ITALIA DI FELLINI

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immaginare che parecchie di queste persone siano poi incorse nell’analfabetismo di ritorno.118 Da questi numeri si evince in tutta la sua gravità la drammatica situazione in cui si trova la scuola italiana dopo la seconda guerra mondiale. A questo quadro sconsolante si aggiunge il fatto che almeno 27 milioni di italiani non parlano la lingua nazionale, ma solo il dialetto. La situazione igienico-sanitaria non è certo migliore, nel 1950 pochissime famiglie dispongono di acqua corrente 119, e solo il 27% del gabinetto. L’igiene personale è affidata ai metodi tradizionali fatti in casa e l’abbandono di queste abitudini sta ad indicare la rapida maturazione degli italiani. Quello che nel dopoguerra era considerato un lusso nel 1960 è diventato di uso comune, come il dentifricio o i cosmetici. Tutte queste tare non sono solo frutto e conseguenza della guerra, che pure ha giocato un forte ruolo, ma sono anche figlie di una volontà precisa di mantenere in una condizione di estrema ignoranza gli strati più poveri della società. Ignoranza che colpisce soprattutto le persone più deboli come gli anziani o gli handicappati. Esemplare è il caso in cui Gelsomina incontra, nella cascina dove si sta tenendo il pranzo di nozze, un ragazzino, probabilmente ritardato, chiuso in camera da letto, isolato dal mondo esterno che lo considera un peso morto e una vergogna da occultare. O ancora una cosa da deridere come fanno i bambini che portano Gelsomina nella stanza. La ragazza - ma questa è poesia, non storia - riuscirà in un breve istante a penetrare il suo mondo ferito. I più deboli sono anche i bambini, così spesso protagonisti dei film realizzati nell’immediato dopoguerra, che assistono immobili e divertiti ai colpi di frusta che Zampanò infligge a Gelsomina quando questa non comprende cosa deve fare durante lo spettacolo. I più deboli sono questi poetici girovaghi condannati 118

Tutti i dati sono estrapolati dall’annuario ISTAT. Nel libro di M. Boneschi si riferisce che gli analfabeti di ritorno sono 14 su 100, dato che significherebbe che nel 1951 in Italia 1 italiano su 4 non sapeva nè leggere nè scrivere. M. Boneschi, ibidem, pag. 220. 119

M. Boneschi, ibidem, pag. 151. Il dato riportato dal libro è di 7 famiglie su 100 ma Silvio Lanaro, nel suo libro Storia dell’Italia repubblicana a pag. 165, afferma che il 52% delle case poteva disporre di tale servizio.

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5. LA STRADA (1954)

all’estinzione perché non conformi allo spirito di una nuova società che avanza. 5.4

L’Italia parcellizzata 5.4.1 Rossellini, maestro dimenticato

La polemica che coinvolge Fellini non porta poi così bene al film che non ripete, in Italia, il successo de I vitelloni. Va, invece, molto meglio a Senso di Visconti che raggiunge il nono posto della classifica stagionale delle pellicole italiane anche se con un costo di produzione decisamente superiore. Per il resto gli incassi stagionali premiano ancora la produzione cosiddetta commerciale ed in modo particolare la riduzione di “grandi classici” come l’Odissea di Omero che è trasposto cinematograficamente in Ulisse di Mario Camerini primo con un incasso di quasi un miliardo e quattrocento milioni di lire - e Giulietta e Romeo di Renato Castellani che ha introitato circa 700 milioni. È singolare poi il successo di tre pellicole che hanno Napoli e il suo entroterra al centro della vicenda anche se non esplicitamente citato nel titolo: Pane, amore e gelosia di Comencini; Carosello napoletano di Giannini; L’oro di napoli di Vittorio De Sica. A questi si potrebbe aggiungere anche Siamo uomini o caporali? per la regia di Mastrocinque che ha come protagonista assoluto Totò che rientra però in un fenomeno diverso, più attinente alla commedia all’italiana. Nella stesso anno il pubblico rifiuta (come aveva già fatto durante gli anni precedenti con opere del calibro di Germania anno zero, Francesco Giullare di Dio e Europa ‘51) in maniera netta e inconfutabile Roberto Rossellini, che esce nelle sale con tre diverse opere: Viaggio in Italia, Giovanna d’Arco al rogo e La paura. Il film che, si fa per dire, ottiene il maggior successo, o meglio il minor insuccesso è il primo, che incassa appena 50 milioni. È probabile che il battage pubblicitario, derivato dalla diatriba causata dalla contestazione sorta in occasione della premiazione del Festival di Venezia, abbia funzionato da richiamo per i film di Fellini e Visconti a differenza di altre opere d’autore più trascurate

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L’ITALIA DI FELLINI

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dall’opinione pubblica, ma questo non spiega il risultato delle opere rosselliniane. Rossellini, che si è da tempo avviato per una sua personalissima interpretazione della realtà e dell’arte cinematografica, è autore troppo scomodo per poter essere ridotto a simbolo, sia pure improprio come abbiamo visto per Fellini e Visconti, di una parte politica. Anzi si può dire che “senza recidere i legami con la materialità dello sguardo sul reale, il cinema rosselliniano ha cercato di percorrere alcune strade dell’astrazione e di una militanza cattolica che respirasse un clima meno intossicato ideologicamente da quello in cui si muoveranno chiesa e cattolici in quegli anni.” 120 Si può concludere che i film di Rossellini siano danneggiati dalla loro impoliticità? Non bisogna dimenticare che il pubblico accetta con molte difficoltà opere così impegnative e così pregne di sottintesi filosofici, ma è indubbio che il disconoscimento di colui che è il padre del neorealismo e unico maestro di Fellini, per sua stessa ammissione, è un fenomeno di rimozione che pesa sulla cultura italiana del periodo. Tutto ciò è causato dalla netta divisione che si crea nella cultura italiana, nelle istituzioni e nei luoghi di potere. Questo processo di parcellizzazione fa nascere tante piccole cellule corporative che si aggregano a seconda del referente politico a cui si rifanno per sopravvivere e che da questo sono utilizzate per attingere consensi elettorali e propagandistici. La nascente partitocrazia svolge negli anni ‘50 un intenso “lavoro di fondo per far diventare politicizzato ogni pezzo della vita degli italiani. Lavoro fatto molto a fondo, molto attentamente. Le strutture dei partiti si sono infilate in tutti i gangli della vita italiana e quindi anche del cinema. In tal senso la sinistra ha sempre lavorato per attrarre verso di sé gli intellettuali nonostante quasi tutti i registi fossero di quell’area politica. Anche se gli artisti poi sono totalmente anarchici, ognuno è iscritto al partito di se stesso.”121 Gli effetti sul pubblico sono comunque limitati al battage pubblicitario che si scatena in seguito alle polemiche e alle forti contrapposizioni. Come vedremo anche per La dolce vita, le diatribe ideologiche di

120

G. Brunetta, ibidem, vol. II pag. 381.

121

Intervista con Lina Wertmuller del 30.4.95.

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5. LA STRADA (1954)

qualsiasi tipo fanno incassare solo se portano con sé scandalo e morbosa curiosità. 5.4.2

Pubblici concubini

Il mondo politico si sta volgarmente spartendo il potere nei vari settori della vita economica e sociale, ma gli italiani sembrano concentrarsi solo sui benefici che lo sviluppo economico, non ancora giunto al suo culmine, sta portando. Tutto - abitudini, consumi, tradizioni - viene sconvolto da questa marea di novità che travolge chiunque grazie al fulmineo successo della televisione di stato. Questa rapida evoluzione colpisce anche l’istituto più sacro e intoccabile d’Italia: la famiglia. Tuttavia l’analisi che Fellini fa della vita di coppia viene sottaciuta, dimenticata, si preferisce confinarla nel campo della incomunicabilità tra esseri umani. Il clima avvelenato è evidente in un episodio del 1957 quando l’allora vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, classifica come “pubblici concubini” due giovani che si sono sposati solo civilmente in una lettera al loro parroco. La lettera, poi diffusa in parrocchia, provoca la denuncia del prelato che finisce sotto processo da cui viene assolto in appello dopo la condanna subita nel giudizio di primo grado. Ad influenzare pesantemente il processo intervengono importanti esponenti della DC come l’allora ministro delle finanze Andreotti che qualifica il processo come “un impressionante episodio di laicismo anticlericale, che dobbiamo combattere come il comunismo”. Anche il presidente del consiglio Adone Zoli interviene appoggiando il proprio ministro “perché sul caso del vescovo si è instaurata una speculazione politica.” Non sorprende allora che gli anni ‘50 abbiano visto una diminuzione dei casi di separazione legale, numero che aumenterà notevolmente non appena si alleggerirà la pressione ed il peso della chiesa nella vita pubblica.122

122

Nel decennio 1941/1950 risulta una media di 5.325 separazioni ogni anno, media che scende nel decennio successivo (4.781) per poi salire a 6.781 nel periodo 1961/1970. Dal momento, poi, della approvazione della legge sul divorzio, avvenuta nel 1970, la media sale a 20.190 separazioni con 15.493 divorzi divenuti effettivi. Tutti i dati sono estrapolati dagli annuari ISTAT.

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L’ITALIA DI FELLINI

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La grande libertà e le speranze che gli italiani avevano al momento della caduta del fascismo sono oramai un pallido ricordo. Ogni aspetto della società viene utilizzato in questa guerra sotterranea tra partiti governativi, in cui la DC troneggia, e l’opposizione, dove il Partito Comunista è leader incontrastato. Chi è fuori da questa logica viene attaccato, contestato. Fellini, che nel 1954 era l’alfiere del cinema cattolico, l’anno successivo viene abbandonato a se stesso dopo l’insuccesso de Il bidone, quando parte della critica si pone come obiettivo la distruzione del personaggio e del suo modo di fare cinema.

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Capitolo

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IL BIDONE (1955) 6.1

Gli artisti della truffa

Una macchina giunge in una cascina di campagna. A bordo della vettura ci sono tre truffatori Roberto (Franco Fabrizi), Picasso (Richard Basehart) e Augusto (Broderick Crawford) nei panni di un monsignore mandato da Roma. I tre fanno credere ai contadini che nel loro campo è sepolto il corpo di un assassinato con a fianco un tesoro del valore di 6/7 milioni. L’assassino, secondo il racconto dei bidonisti, si è pentito e ha lasciato l’oro ai proprietari del fondo in cambio di mille messe cioè 500.000 lire. I contadini cascano nell’imbroglio e i tre ritornano a Roma per spendere il ricavato della truffa. Picasso, un aspirante pittore, torna dalla famiglia (ha moglie e figlia), che però è all’oscuro della vera natura del suo lavoro. Augusto e Roberto vanno invece al night dove dilapidano parte del bottino in champagne e donne. La loro vita prosegue con altri bidoni, come quello in cui vendono finte case popolari ai baraccati della periferia di Roma; ma Augusto, che ha ormai 48 anni, comincia ad avvertire la vuotezza della propria esistenza. Un altro colpo alla sua dignità gli viene inferto dall’incontro con un suo vecchio complice, Rinaldo. Questi lo invita alla festa di capodanno a casa sua con Picasso e la moglie. Rinaldo sfotte e compatisce Augusto dall’alto della agiatezza conquistata con lo spaccio della cocaina. Durante la festa vengono umiliati a turno Picasso, che cerca inutilmente di vendere allo spacciatore un falso De Pisis, Augusto e anche Roberto giuntovi con una delle numerose anziane amanti da cui si fa mantenere. Roberto, infatti, ruba un portasigarette d’oro, ma viene scoperto dalla moglie di Riccardo che lo caccia insieme agli amici. Dopo l’umiliazione subita, Iris (Giulietta Masina), la moglie di Picasso, capisce la natura del lavoro del marito e minaccia di abbandonarlo. L’uomo le promette che cambierà vita. I tre, invece, tornano presto al lavoro insieme in un bidone ai benzinai. Durante questo ennesimo imbroglio Augusto incontra la giovane figlia che non vedeva ormai da molti anni. I due si danno appuntamento per la domenica successiva. Fermatisi in un paese nella pausa della loro truffa, i tre si aggirano a notte inoltrata in cerca di qualcosa da fare. Picasso, completamente ubriaco, ha una crisi di coscienza e decide di tornare dalla famiglia, gli altri due si appartano con una prostituta locale.

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110

6. IL BIDONE (1955)

La domenica dopo Augusto cerca di fare colpo sulla figlia promettendole di aiutarla a trovare le 300 mila lire che le servono come cauzione per fare la cassiera in un supermercato, lavoro che le permetterebbe di mantenersi all’università. La giornata si conclude in dramma: nel cinema in cui Augusto si reca con la giovane c’è anche una delle sue vittime che lo riconosce e lo fa arrestare. Uscito di prigione Augusto cerca di rientrare nel giro, ma non trova né Picasso né Roberto. Si aggrega invece ad altri con cui ripete il raggiro descritto all’inizio. Stavolta la vittima è una famiglia molto povera con una figlia poliomielitica che vuole parlare con il monsignore. Augusto rimane molto toccato dalle dolci parole della ragazza e rivela ai compagni di truffa di avere restituito i soldi alla giovane. I complici non gli credono e lo inseguono per le strade di montagna in cui si erano fermati per spartirsi il bottino. Ferito gravemente, Augusto si accascia al suolo, gli altri gli sono addosso e, dopo averlo perquisito, trovano in una scarpa il malloppo. Abbandonato nel dirupo dove era caduto Augusto si trascina moribondo fino al ciglio della strada. Lì vede due contadine, con delle fascine di legna sulla testa, accompagnate da due bambine. Le chiama flebilmente senza essere sentito, poi muore. 6.2

Non profeta in patria 6.2.1

Un film onesto

“Noi preferiamo IL BIDONE per quel suo coraggio nell’evitare soluzioni liriche, per quella precisa onestà nel rifiutare atteggiamenti simpatici o almeno accettabili nei personaggi, per quell’estrema obiettività di fronte al proprio assunto. Non è NEOREALISMO, d’accordo. Ma è umano. Forse per questo ha fatto paura un po’ a tutti e qualcuno ha detto che IL BIDONE delude”.123 Questa critica fa subito intuire quali difficoltà abbia incontrato il film al momento della sua uscita nelle sale. Abbiamo lasciato Fellini ai trionfi de La strada che, in giro per il mondo, continua anche nel 1955 a mietere premi e riconoscimenti. Questo 123

G.G. Carraresi, L’altro cinema, 1955, 21, pag.556-557.

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L’ITALIA DI FELLINI

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successo non viene assimilato dalla critica pervicacemente neorealista attestatasi nella definizione di Fellini e i suoi cosceneggiatori, Pinelli e Flaiano, come i “sorridenti affossatori del neorealismo”.124 Un’ostilità preconcetta accompagna la prima de Il Bidone a Venezia il 9 settembre 1955. Anche la stampa scandalistica fa la sua parte e pubblica pochi giorni prima del Festival la falsa notizia che Giulietta ha abbandonato il marito per Richard Basehart. Fellini ne esce brillantemente, ma i nervi sono a fior di pelle. È insoddisfatto di come sono stati conclusi i lavori, la necessità di portare il film in laguna gli ha tolto la possibilità di riflettere compiutamente sul montaggio. L’accoglienza conferma le mille perplessità: in un’atmosfera gelida ed ostile il pubblico, deluso, abbandona la sala. Nessun riconoscimento, poi dalla giuria del festival. L’insuccesso della pellicola è poi confermato dai bassi incassi al botteghino, risultato che incoraggia la critica marxista che non aspettava occasione migliore per rifarsi dello smacco subito l’anno precedente. Il bidone non dà, peraltro, fastidio solo ai dogmatici di sinistra, l’anticonformismo dell’opera sconcerta anche i recensori di altre posizioni politiche e ideologiche. Il CCC boccia il film con un giudizio tranchant e con critiche esplicite ad alcune scene come quella del capodanno o del night-club. Inoltre teme che “uno spettatore superficiale provi più che altro pietà per la triste storia del protagonista, che risulterebbe aureolato perché compie per un fine buono l’ultima azione illecita, o si soffermi con simpatia a considerare le figure dell’arricchito e di Roberto”. Un’avversione di entrambi gli schieramenti che stride e fa apparire ancora più paradossali e strumentali le posizioni critiche dell’anno precedente. Fellini conscio di questo afferma che “il problema con La strada fu che la Chiesa cercò di appropriarsene, di usarlo come una bandiera. Il ritorno della spiritualità. Così Cinema nuovo vi si oppose. Ve lo assicuro, se i critici di Cinema nuovo lo avessero elogiato per primi, allora sarebbe stato il turno della Chiesa a mettere il veto”.125

124

Intervista con Pinelli del 12.9.95.

125

Federico Fellini, An interview with Federico Fellini, in Fellini, “La strada”: Federico Fellini director, pag. 209.

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6. IL BIDONE (1955)

Il provincialismo tipico della stampa italiana è colto anche all’estero come si evince dalle parole di Peter Bondanella, professore di Italiano, Storia del Cinema e Letteratura comparata alla Indiana University: “C’è sempre stata da parte della critica italiana la tendenza a voler punire i registi che ottengono successo all’estero, come se questo fosse sempre e comunque indice di superficialità”.126 Proprio dall’estero, esattamente dalla Francia, vi è un tentativo per rivalutare il film che non sortirà tuttavia effetti in Italia dove l’aggressione verbale verso Fellini è fortissima. La serie di improperi rivolta all’ultima opera del regista romagnolo è lunga e composita. Guido Aristarco definisce il film “prefabbricato”127 e poi accusa Fellini di non riuscire a “svincolarsi dalla sua posizione sentimentale” che gli fa provare simpatia per i suoi protagonisti, simpatia per Aristarco “abbastanza discutibile se si considera che i bidonati sono della povera gente”. Tutte queste osservazioni per concludere che la latitanza di realismo dimostra la insincerità dell’autore. Moltissimi altri critici si adeguano e in un clima da caccia alle streghe stroncano la pellicola felliniana. La lista è lunghissima: Vinicio Marinucci si limita a dire che gli errori del film sono “nel copione, nell’impostazione, nel tono e nello svolgimento della materia” 128. Secondo Liverani i tre personaggi non acquistano mai un rilievo ben definito.129 Giulio Cesare Castello ritiene che in alcuni casi Il bidone sia artificioso, retorico e diseguale al punto da giudicarlo “un’opera mediocremente riuscita”130 ; Rossetti boccia in modo irrimediabile Fellini affermando che a lui il dramma non si addice 131; Paquale Ojetti, infine, lamenta la mancanza “di un preciso messaggio di condanna, una morale”.132 L’accanimento della critica è confermato da due recensioni, pubblicate alcuni anni dopo, di Umberto Barbaro e Carlo Lizzani.

126

Peter Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, ed. Guaraldi 1994, pag. 134.

127

G. Aristarco, Cinema nuovo, 1955, 67, pag. 208.

128

V. Marinucci, Teatro Scenario, 1955, 11, pag. 29.

129

M. Liverani, Paese sera, 1955, 4-5, pag. 45.

130

G.C. Castello, Il cinema neorealistico italiano, Ed. RAI, 1956, pag. 74-75.

131

E. Rossetti, Cronache del cinema e della televisione, 1955, 4-5, pag. 46.

132

P. Ojetti, Cinema t.s., 1955, 151, pag. 862.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Nella prima133 si svilisce il film definendolo un “pastiche estetico ed ideologico” in cui si evidenzia “la sovrapposizione di una modesta filosofia a un modesto racconto”, concludendo con l’affermazione che “il problema dell’uscita dall’isolamento è denunciato a chiare lettere e quindi non è interessante”. Ancora più duro è Umberto Barbaro che in suo libro 134 afferma che “L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati, dell’atteggiamento e delle parole dei personaggi, il gusto deteriore in caccia di effetti ultra-plateali, la costante falsità delle situazioni, dei nodi narrativi e delle soluzioni si sommano in una opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia, oltre ad essere la più goffamente presuntuosa”. Un attacco, come si vede, violentissimo e sopra le righec’era ben di peggio in programmazione nelle sale cinematografiche di quegli anni - da apparire immediatamente strumentale e che non tiene in minimo conto del grande lavoro di ricerca compiuto dagli sceneggiatori prima della stesura del copione. Il personaggio interpretato da Broderick Crawford attinge come al solito ad esperienze personali dell’autore ed è, anzi, costruito sulle confidenze di Eugenio Ricci detto anche Lupaccio, figura del sottobosco romano, che si autodefiniva artista della truffa, nonché da un incontro occasionale con un personaggio simile avvenuto durante le riprese de La strada. Tra le osservazioni più infelici, indicate dalla critica, vi era certamente il ritenere ingiusto mostrare sullo schermo imbrogli a persone povere e derelitte. Proprio tale tipo di esseri umani, emarginati e sprofondati nell’ignoranza, era oggetto della astuzia di questi manigoldi. Molte delle truffe mostrate nel film erano veritiere 135, come realistico era l’atteggiamento di Augusto che si vantava delle sue gesta e dei suoi bidoni spacciandole per vere e proprie opere d’arte. I bidonisti sono, nel loro modo meschino, personaggi romantici, lacerti di una società che si estingue, che vengono cancellati, stritolati dallo sviluppo industriale dell’Italia. Il loro posto viene preso da un nuovo tipo di malavita, dai criminali 133

C. Lizzani, Storia del cinema italiano, Firenze Parenti, 1961, pag. 205-206.

134

U. Barbaro, Servitù e grandezza del cinema, Editori riuniti, 1962, pag. 236.

135

Intervista con Pinelli del 12.9.95.

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6. IL BIDONE (1955)

dediti ad attività più remunerative come lo spaccio della cocaina che, grazie all’incremento del consumo di droghe e agli elevati guadagni, penetra negli alti livelli della società, ambienti vietati ad Augusto che è e resta invece ai margini del mondo “perbene”. Il vero bidonista è un essere solitario, non può permettersi una famiglia, come ammette a se stesso amaramente l’uomo in un colloquio con Picasso, e quindi è, inevitabilmente, un emarginato. 6.2.2

Il Marchese della stufa

L’aderenza alla realtà delle vicende narrate in questo film è confermata da un caso di cronaca del periodo in cui un certo Trento Manna si presentava presso alcuni piccoli conventi spacciandosi per il dottor Ranzetta, rappresentante della Pontificia Opera che distribuiva gioielli e ori per abbellire chiese di parrocchie povere e non autosufficienti. Una volta conquistata la fiducia dei religiosi, il Manna si recava da gioiellieri presentandosi come il Marchese della Stufa e acquistava, per conto del convento, un gioiello di grande valore predisponendone la consegna. All’ora prefissata il falso Marchese si faceva trovare presso il convento e, approfittando della fiducia di religiosi e negozianti, sgattaiolava via alla prima occasione136. La guerra ha, d’altro canto, notevolmente aumentato questo sottobosco di emarginati che per campare è disposto a qualunque cosa. L’esempio lampante è il personaggio di Roberto che vive facendo il gigolò e partecipando ad alcuni colpi di tanto in tanto. Egli ha molti aspetti in comune con il personaggio interpretato dallo stesso Fabrizi ne I vitelloni: Fausto. Di costui Roberto ne è la naturale evoluzione, la sorte che lo aspettava qualora fosse fuggito dalla provincia e dalle pastoie della famiglia. Per persone di tale fatta era un gioco da ragazzi burlarsi dell’ignoranza dei contadini o dei baraccati per carpirgli tutti i guadagni ed era inevitabile che costoro si gettassero a corpo morto in un settore della criminalità che era stato fino ad allora monopolio dei bidonisti puri alla stregua di Augusto.

136

M. Boneschi, ibidem, pag. 208-209.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Il Bidone porta alla luce un fenomeno diffusissimo nell’immediato dopoguerra. Questi “artisti” della truffa agiscono senza alcun controllo delle forze di polizia che si stanno riorganizzando con una certa difficoltà. Nel decennio che va dal 1941 al 1950 i reati denunciati presso l’autorità giudiziaria e di cui è stata avviata l’azione penale sono in media 843.281 all’anno. Un dato incredibile in quanto la guerra ha reso impossibile l’accertamento di molti di questi reati insieme, ovviamente, alla possibilità di compierli. Questa media assume diverso valore se si esamina la statistica anno per anno.137 Si va, infatti, dai 484.332 delitti del 1941 al 1.260.870 del 1946, anno in cui si è toccato il record di crimini nel decennio. Tutti i tipi di reati subiscono, dal 1945 al ‘50, un’impennata impressionante. Ma se alcuni sono anche riflesso della tormentata situazione politica, le truffe vivono un singolare periodo d’oro che termina solo nel 1961, dopo cioè che l’Italia è entrata nel boom economico. Negli anni successivi al sessanta, a fronte di un aumento esponenziale di molti tipi di reato (furti, percosse, rapine), il numero di frodi denunciate rimane più o meno invariato, diminuendo anzi a livello percentuale la loro incidenza sul totale annuale. Se, infatti, nel periodo 1945-1961 le truffe costituivano il 5% circa dei delitti perseguiti, subito dopo, questa percentuale crolla fino a rappresentare poco meno del 2,5% del totale nel 1985. Dalle statistiche appare evidente come i bidoni fossero un problema di notevole rilevanza nella società italiana degli anni cinquanta che sta risalendo lentamente la china dopo le distruzioni della guerra mondiale. L’elevato numero di denunce testimonia la redditività di questo settore della microcriminalità. Non può dunque essere casuale che con il 1960, data in cui viene situato il boom economico, si assiste al declino di questa forma di delinquenza. Fellini, da attento osservatore della realtà sociale, con Il bidone porta sotto l’occhio di tutti ancora una volta una parte d’Italia che si va estinguendo.

137

Annuario ISTAT.

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6. IL BIDONE (1955)

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6.2.3

Cinema e televisione

Il progresso che provoca la scomparsa di questi personaggi è simbolizzato dalla televisione le cui trasmissioni iniziano nel 1954. Essa conquista subito un gran pubblico e nel 1959 si contano già un milione e mezzo di abbonati. Che la televisione diventi immediatamente importante è confermato dal fatto che l’apparecchio televisivo appare subito nelle case mostrate dai film italiani del periodo. Ad un anno dalla sua apparizione, già i ceti più abbienti la considerano come un elemento indispensabile della vita quotidiana. Fellini sottolinea il fenomeno durante la scena del veglione di capodanno. A casa dello spacciatore di cocaina, mentre il party va degenerando, la televisione fa bella mostra di sé sintonizzata sul canale della Rai che trasmette il classico veglione televisivo e alcuni degli invitati si disinteressano della festa per seguire il programma sul piccolo schermo. L’influenza del televisore sul costume italiano non può però essere trascurata, soprattutto per l’aiuto fornito alla scuola nel diffondere l’italiano parlato, ancora largamente ignorato dalla popolazione. Infatti, dal censimento del 1951 si ricava che metà degli italiani parla ancora solo il dialetto. Qualche anno dopo, nel 1955, il numero degli spettatori televisivi supera già quello dei frequentatori delle sale cinematografiche.138 Ha qui inizio il predominio della televisione sul costume italiano. Anche gli intellettuali, dopo un primo momento di forte avversione, ostentato in dibattiti pubblici, superano il pregiudizio per accostarsi verso il nuovo media. Non solo, al rifiuto segue, quasi implacabile, un contrappasso: gli avversari della prima ora diventano in breve proprio i principali recensori di tale fenomeno. I rapporti tra cinema e televisione hanno avuto un andamento diverso nel corso degli anni. Dalla forte contrapposizione si è passati a una forma di collaborazione (la RAI che produce dei film) fino a giungere all’attuale situazione, in

138

M. Verdone, Storia del cinema italiano, Collana Il sapere, Ed. tascabili Newton, 1995, pag. 87.

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L’ITALIA DI FELLINI

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cui cinema e televisione sono semplicemente due comparti dell’unica industria audiovisiva.139 Agli inizi la RAI non si rapporta al cinema, ma invece alla radio che fino ad allora aveva costituito il più diffuso mezzo di comunicazione. La proiezione di film alla televisione è in genere utilizzata solo come riempitivo, per chiudere i vuoti del palinsesto, con deboli criteri di programmazione e con molta casualità.140 I film proiettati sono inoltre fondi di magazzino, opere fuori dal normale circuito distributivo, talvolta di scarso richiamo. A farla da padrone sono subito i quiz ed il loro profeta italiano, Mike Buongiorno, diventa rapidamente una sorta di eroe per la gente comune, a dispetto della feroce ironia rivolta dal mondo intellettuale a questo tipo di programma per via del modello di cultura che propone, basato su un nozionismo esasperato. La diffusione della televisione va di pari passo con l’apparizione sulla scena di nuovi elettrodomestici fabbricati in Italia. Frigoriferi, lavatrici e altri oggetti rivoluzionano le abitudini delle massaie e costituiscono l’orgoglio ed il vanto della nostra industria. Sono dei piccoli, ma significativi passi avanti nelle condizioni di vita della popolazione che ha sempre moti di meraviglia anche di fronte a semplici innovazioni. È il caso della reazione della prostituta di paese, ingaggiata da Augusto e Roberto, quando si accorge che la loro macchina ha, addirittura, l’autoradio. Questi benefici non raggiungono tuttavia la totalità degli abitanti. Vasti strati della popolazione sono costretti a vivere ancora in baracche o in alloggi di fortuna. L’emigrazione interna ha creato una massa di disperati in cerca di casa che pesa sulla situazione sociale delle grandi metropoli. Che il problema dei baraccati sia molto sentito è confermato dall’attenzione che il cinema riserva alla questione. De Sica, in collaborazione con l’infaticabile Zavattini, vi torna per almeno due volte con Miracolo a Milano (1951) e Il tetto (1954). Ma moltissime pellicole del decennio hanno per oggetto l’esigenza 139

A. Grasso, cinema e televisione: breve storia di un rapporto difficile in Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema nel dopoguerra a cura di Marino Livolsi, La nuova Italia editrice, 1988, pag. 159. 140

G. Bettetini, Cine teledipendente in Il sole 24 ore, 17.3.87.

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6. IL BIDONE (1955)

della casa di proprietà, fatto approfondito nel capitolo successivo. L’argomento in qualche modo si ricollega alle tematiche presenti nella successiva pellicola di Fellini che aveva conosciuto sul set de Il bidone il personaggio che servirà da spunto per Le notti di Cabiria. Nel frattempo, La strada continua a riscuotere successi in tutto il mondo fino a giungere al premio Oscar che viene consegnato a Fellini il 27 marzo 1957, pochi mesi prima dell’uscita del film che lo porrà, di nuovo, all’attenzione della critica mondiale. 6.3

La rottura del fronte delle sinistre 6.3.1

La generazione del ‘56

Nel 1955 si possono notare i primi frutti della maturazione culturale dell’Italia. È di quell’anno l’effettiva concretizzazione di parte del dettato costituzionale che ancora non era stato assolto dal Parlamento. Vedono la luce, infatti: la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Rimane, invece, irrealizzata la parte relativa alle regioni che verrà attuata solo 15 anni dopo. In Parlamento viene eletto Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente di rilievo della DC, con i voti favorevoli di socialisti e comunisti. Il 1956 è, invece, un anno molto “caldo” a livello mondiale. Alcuni avvenimenti scuotono l’opinione pubblica internazionale, già in tensione per la “guerra fredda”. Tre eventi si impongono su tutti: il rapporto segreto del XX congresso del Partito Comunista sovietico (reso noto dagli statunitensi) con cui Kruscev svela le nefandezze compiute da Stalin demolendone il culto della personalità; la crisi del canale di Suez (29 ottobre - 22 novembre); infine, l’intervento armato dell’Unione Sovietica in Ungheria per sopprimere il governo democratico di Imre Nagy (3 novembre). Questi avvenimenti rendono, per molti versi, il 1956 un anno essenziale nella storia della cultura italiana tanto da divenire un’etichetta per una generazione di poeti. La definizione “generazione del ‘56” si deve a Giovanni Raboni che sottolinea come “avere vent’anni (o, si capisce, qualcuno di

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L’ITALIA DI FELLINI

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più o qualcuno di meno) nel 1956 ha voluto dire formarsi e crescere in un clima fortemente segnato dalla caduta delle certezze ideologiche e dalle speranze di mutamento sociale che avevano caratterizzato il primo decennio postbellico e, d’altra parte, dall’affiorare di nuove diversissime certezze e speranze - quelle del progresso tecnologico e nell’internazionalizzazione della cultura - che avranno il loro più tipico rigoglio agli inizi degli anni sessanta”.141 Se la condanna del mito di Stalin e la rassicurante figura di Kruscev avevano dato nuove speranze di pace al mondo occidentale, l’intervento dei carri armati in Ungheria distrugge ogni illusione e provoca una serie di riflessioni di natura politica anche all’interno del monolitico partito comunista italiano. Sotto il rassicurante carisma del “migliore”, il PCI riesce a limitare i danni alla propria credibilità mantenendo in dimensioni accettabili il dissenso e perdendo solo alcuni parlamentari, sia pure autorevoli come Antonio Giolitti, considerato da molti il delfino di Togliatti. Più grave è, invece, la situazione della CGIL, il sindacato che fa riferimento al Partito Comunista. L’offensiva padronale riesce, infatti, ad ottenere importanti risultati tanto che nelle elezioni del 1955 per le commissioni interne alla Fiat, la CGIL, per la prima volta nel dopoguerra, perde la maggioranza assoluta. Parte da questa sconfitta la nuova strategia del sindacato che passa dalla contrattazione centralizzata del contratto di lavoro ad una articolata, con accordi decisi settore per settore e azienda per azienda, riavvicinando così la dirigenza sindacale alla base. A controbilanciare gli avvenimenti in terra d’Ungheria, ha, d’altro canto, pensato l’esplosiva situazione del Medio Oriente. Un attacco congiunto di Israele, Francia e Gran Bretagna tenta di togliere dalle mani di Nasser il controllo assoluto del Canale di Suez. Questa guerra fornisce un’ottima un’arma di propaganda contro l’”imperialismo” del blocco occidentale. Il contraccolpo più rilevante nella politica interna italiana viene comunque dall’invasione sovietica in Ungheria che fornisce al PSI la legittimazione a rompere l’alleanza politica con i comunisti. Iniziano così contatti e intermediazioni che hanno l’obiettivo di avvicinare il PSI alla Democrazia Cristiana, guidata in quel momento da un’esponente della sinistra interna Amintore 141

G. Raboni, Poeti del secondo novecento, in AA VV., Storia della letteratura italiana. Il novecento, vol. II, Milano, Garzanti, 1987, pag. 233.

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6. IL BIDONE (1955)

Fanfani. Il dibattito ha per fine la formazione un governo di centro-sinistra. Questi contatti danno il via ad una serrata polemica tra le due forze storiche della sinistra. Quando Togliatti paragona l’azione dell’esercito russo in Ungheria all’appoggio fornito alla Repubblica spagnola durante la guerra civile, Nenni insorge denunciando il confronto storico come assolutamente falso e ciò porta il PSI a non rinnovare il patto di unità d’azione per la prima volta dopo la guerra. 6.3.2 Nascono le partecipazioni statali Si rafforza, intanto, l’invadenza dei partiti nell’opinione pubblica. Con la legge del 22 dicembre 1956 viene istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali. Nonostante questo ministero si proponga di fungere da contraltare ai monopoli privati, la cooperazione tra azionisti pubblici e privati non entusiasma neppure uomini lontanissimi dal liberismo codino della Confindustria.142 Ernesto Rossi, fustigatore del malcostume italiano dalle pagine del Mondo, esprime la sua preferenza per le nazionalizzazioni secche piuttosto dell’ibrido costituito dalle partecipazioni statali. Egli afferma: “L’Istituto della società per azioni è nato e si è sviluppato quale strumento per scopi di carattere esclusivamente privato: volerlo adoperare per fini pubblici è assurdo [..] Il sistema dell’azionariato misto ha come necessaria conseguenza l’immeritato arricchimento degli azionisti privati, soci dello stato, tutte le volte che il governo, mosso da ragioni di interesse collettivo, aiuta le società di cui è azionista a reggersi in piedi od a sviluppare la produzione al di là di quanto potrebbe essere sviluppata con i loro mezzi ordinari. Inoltre è un sistema che rende allo stato molto più difficile chiudere gli stabilimenti situati nelle località non convenienti e concentrare la produzione per far raggiungere alle aziende le dimensioni ottime e tipizzare i prodotti.” 143 Sfugge all’opinione pubblica che, al di là dei proclami, la proliferazione di enti a partecipazione statale serve alla DC, ed in modo particolare ad Amintore Fanfani che incarna lo spirito della seconda generazione democristiana, per rimpinguare le scorte di 142

S. Lanaro, ibidem, pag. 182.

143

E. Rossi, Lo stato industriale, ed. Laterza, 1953, pag. 147-149.

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L’ITALIA DI FELLINI

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consenso e di potere venuto a mancare con il declino dell’età degasperiana.144 L’economia italiana continua, nonostante tutto, nei suoi progressi, anche se questi dipendono prevalentemente dalla domanda interna. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo è in media del 5,5% e i maggiori investimenti non sono nelle industrie esportatrici, ma nell’edilizia, nei lavori pubblici e nell’agricoltura. La mancanza di programmazione facilita l’iniziativa privata nelle regioni più ricche, ma crea al tempo stesso uno squilibrio delle infrastrutture tra nord e sud che è una delle cause principali della persistente ed irrisolta “Questione meridionale”. Questi problemi non sono però diffusi presso l’opinione pubblica che sta vivendo quello che sarà chiamato il “Boom economico”. 6.4

Hollywood sul Tevere

Mentre l’Italia è conquistata dalle innovazioni tecnologiche che sembrano ormai alla portata di tutti, Fellini insiste invece a mostrare personaggi ai margini della società, che si arrabattano a vivere in condizioni anomale, con crisi di coscienza che li rendono incapaci di accettare la propria vita. Come mai questa continuità sul medesimo soggetto, mentre sugli schermi gli altri registi si concentrano sulle forme delle maggiorate fisiche o sulle riflessioni sui massimi sistemi? In realtà Il bidone è l’ennesimo nostalgico saluto ad una parte della sua giovinezza e della storia d’Italia che se ne va, ultimo omaggio agli artisti dell’imbroglio. Ma quanto sia anacronistico nell’Italia del 1955 un personaggio di tale fatta è rimarcato dal scontro finale con i complici della truffa del Monsignore, viscidi e disgustosi, che considerano il bidone semplicemente un’alternativa al furto, alla rapina, allo spaccio, all’omicidio. Quanto sono emarginati i personaggi del film tanto lo stesso è emarginato dal pubblico italiano. Le classifiche dell’anno pongono in risalto il fenomeno Lollobrigida che è in testa agli 144

S. Lanaro, ibidem, pag. 183.

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6. IL BIDONE (1955)

incassi con La donna più bella del mondo, una coproduzione italoamericana diretta da R.Z. Leonard. A ruota seguono il celeberrimo Marcellino pan y vino di Vajda, apologo sentimental-religioso che ha commosso intere generazioni di parrocchiane. Nei primi dieci incassi, a parte il solito Totò presente con due film, figurano Pane amore e ... di Comencini, dove primeggia il fascino della Loren, e Don Camillo e l’on. Peppone di Gallone.145 Ė invece da considerare a parte Guerra e pace (anch’esso una coproduzione) di King Vidor, uscito da pochissimo e situato solo al settimo posto, nella classifica stagionale, con quasi 614 milioni introitati, ma che nelle prime visioni ha battuto ogni record. I dati degli incassi annuali danno però conto di un malessere dell’industria cinematografica. Diminuiscono le entrate e gli spettatori soprattutto dei film italiani. Inoltre tra i migliori successi dell’anno solo Il ferroviere di Germi si occupa di tematiche sociali rilevanti, mentre tutti gli altri rientrano nel filone della commedia all’italiana o sono polpettoni sentimentali che attingono al repertorio, ormai all’esaurimento, del melodramma. Trionfano, invece, le produzioni made in USA che costituiscono più della metà delle pellicole in circolazione in Italia nel 1956.146 I film statunitensi sono, infatti, 3.058 contro i 1.515 italiani, ma incassano il 63 per cento circa della spesa annuale del pubblico nel cinema, con una rendita media di poco inferiore ai 23 milioni e ottocentomila. Le pellicole italiane introitano, invece, mediamente circa 21 milioni e settecento mila Lire. Alle altre nazioni vanno le briciole e le cinematografie dell’intero blocco comunista, compresa la Cina, sono presenti con solo 69 film che rappresentano l’1,1 - 1,2% del totale. Da questi dati è facile dedurre quanto fossero fuorvianti e strumentali le polemiche tra la critica schierata a sinistra e quella di ispirazione cattolica o filogovernativa. La realtà è che, al di là degli schieramenti ideologici, l’industria Hollywoodiana era capace di fornire, insieme agli artigiani della commedia all’italiana, dei modelli e dei personaggi in cui per la popolazione era facile riconoscersi o per cui era possibile parteggiare. 145

Callisto Cosulich, Le cifre della crisi, Cinema nuovo, n. 127, 15.3.1958. Tutti i dati sono aggiornati al 31.3.1957. 146

Lo spettacolo in Italia, 1957, pag. 154.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Questo non riesce invece agli epigoni del cinema neorealista e al cinema cosiddetto d’autore (non a tutto ovviamente). Inizia, forse, una divaricazione tra pubblico e cinema italiano che è, probabilmente, tra le radici del disamore verso la produzione nostrana, mostrato dagli spettatori nei decenni successivi. Le riflessioni di natura ideologica o spirituale di fatto non riguardano la maggior parte della popolazione che solo in parte partecipa al confronto tra capitalismo e marxismo in atto negli anni cinquanta. Il lungo inseguimento alla ricchezza si sta, infatti, concludendo. Nessuno osa pronunciarsi ma ci sono i sintomi della ripresa della nazione che si avvia ad entrare nel mondo industrializzato, alla pari con le grandi potenze mondiali. Su questa “grande illusione”, che non tiene conto della influenza partitocratica e dei monopoli industriali che determinano ogni passo dell’economia nazionale, si basa l’equivoco dell’arretratezza strutturale dell’Italia nei confronti dell’ Europa. È un mondo che non prevede diritto di cittadinanza per gli emarginati - come il vagabondo Zampanò, il fucinatore d’ilarità Checco, il bidonista Augusto - e in cui gli ingenui - Gelsomina, Ivan e Wanda - soccombono di fronte a chi usa la forza e l’astuzia per ritagliarsi il proprio angolo di cielo nella nuova Italia. Come Cabiria.

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Capitolo

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LE NOTTI DI CABIRIA (1957) 7.1

La vita riprende

Cabiria (Giulietta Masina) è un’ingenua prostituta che vive alla periferia di Roma in un cubo di cemento che lei definisce impropriamente casa. Il film si apre con Cabiria gettata nel Tevere dal suo ragazzo, Giorgio, che la deruba della borsetta contenente solo 40 mila lire. Salvata da alcuni ragazzini, lei non sa nuotare, torna nella sua abitazione dove l’amica e vicina di casa Wanda (Franca Marzi), anche lei prostituta, le fa capire che la caduta non era accidentale, come Cabiria finge di credere, ma un tentativo di omicidio. Incredula caccia l’amica, ma poi prende le cose di Giorgio e le brucia. Il luogo dove la giovane batte è la passeggiata archeologica. Una delle lucciole, Marisa, si è comprata la seicento e la sta mostrando alle colleghe. Cabiria si lancia in uno sfrenato mambo sulla musica dell’autoradio, scatenando la reazione di Bomba atomica, un’anziana prostituta, che la prende a maleparole. Scoppia tra le due una rissa che viene sedata portando via Cabiria in seicento. Sulla macchina il pappone di Marisa cerca di convincerla a mettersi sotto la sua protezione, ma lei rifiuta e si fa lasciare in via Veneto. Arrivata davanti ad un night assiste ad una furiosa lite tra il divo Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari) e la sua donna Jessy (Dorian Gray). Abbandonato dalla donna, Lazzari si avvede di Cabiria e decide di portarla con sé prima in un night e poi nella sua lussuosissima villa sull’Appia antica. Rimasti soli nella stanza da letto il divo si informa sulla vita della prostituta che gli racconta con orgoglio della sua casa. Poi incredula per tanta fortuna piange perché sa che nessuno potrà mai crederle. Per ricordare la sua avventura gli chiede un autografo. In quel momento, però, arriva Jessy. Lazzari fa entrare Cabiria in bagno da dove questa osserva la riconciliazione tra i due. La mattina seguente Lazzari fa uscire la giovane dal bagno, pagandola al momento del commiato. Le prostitute si recano in gruppo al santuario del Divino amore in compagnia di un vecchio spacciatore di cocaina storpio che vuole la grazia della Madonna per tornare a camminare. Anche loro si fanno contagiare dall’atmosfera di devozione e si illudono di poter avere una grazia dalla Madonna. Ma non ci sono miracoli e Cabiria, ubriaca e amareggiata, insulta tutti perché capisce di non essere cambiata.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

Una sera la nostra eroina entra ad assistere ad uno spettacolo di varietà. L’illusionista che è sul palco la convince a salire. Ipnotizzatala, le fa credere di avere incontrato un giovane di nome Oscar che la ama. A questo punto Cabiria rinviene mentre il pubblico la deride e la insulta. All’uscita del teatro viene avvicinata da un giovane ragioniere, tale D’Onofrio, che le domanda timidamente di poterla incontrare nuovamente. È rimasto colpito dalla sensibilità della donna, inoltre il suo nome è Oscar, un segno del destino evidentemente. Cabiria si reca all’appuntamento e rimane colpita dai modi gentili dell’uomo. Ad un ennesimo incontro Oscar le chiede di sposarla. Cabiria sconvolta cerca di spiegargli che vita fa, ma l’uomo le dice che il passato per lui non conta. Cabiria accetta e pazza di felicità va a dirlo a Wanda. Cabiria vende tutto e si prepara a traslocare. Intanto racconta a Wanda che si trasferisce a Grottaferrata dove Oscar ha comprato un negozio. All’uscita dal cubo c’è già una famiglia di sei persone che aspetta di entrare. Salutata Wanda tra le lacrime, Cabiria raggiunge Oscar. Dopo aver cenato in una trattoria, Oscar la porta nel bosco dove la bacia. Arrivati ad un promontorio l’uomo cambia aspetto, comincia a sudare nervosamente. Cabiria lo guarda e capisce che la vuole uccidere. Distrutta gli chiede di mettere fine alle sue sofferenze perché non vuole più vivere. Oscar, impaurito, si limita a rubarle la borsetta, dove ci sono 350.000 lire, e fugge. È notte, Cabiria esce lacera e disperata dal bosco dove Oscar l’ha lasciata. Sulla strada che percorre, lo sguardo nel vuoto, incontra dei ragazzi provenienti da una festa. Le ballano intorno, le sorridono, la salutano. Cabiria risponde al saluto, si guarda attorno con riconoscenza e poi, rivolgendosi alla macchina da presa, abbozza un sorriso. 7.2

Il potere della porpora 7.2.1 Nuove relazioni

L’insuccesso precedente ha di molto diminuito la credibilità di Fellini nel mercato cinematografico. Il suo produttore Goffredo Lombardo, presidente della Titanus, lo prega di stracciare il contratto che prevedeva che l’autore romagnolo girasse un altro film. Senza lasciarsi influenzare dallo smacco subito, Fellini si mette alla ricerca di un nuovo soggetto e di un nuovo produttore. Li trova entrambi agli inizi del ‘56.

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L’ITALIA DI FELLINI

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La storia prende spunto da due incontri avvenuti nei mesi antecedenti. Sul set de Il bidone la troupe aveva fatto la conoscenza di una prostituta che viveva in una specie di pollaio nella baraccopoli sotto l’acquedotto Felice. Fellini rimane impressionato dalla vitalità di questa donna, di nome Wanda, che aveva tentato per tre volte il suicidio a seguito di delusioni amorose, riuscendo sempre ad uscirne con ottimismo. L’unica legge che riconosce è quella dell’amore: “Se nun voi bbene a l’antri che te resta?”147 D’altro canto il problema della prostituzione era già stato trattato dal cineasta romagnolo quando, nel 1951, aveva scritto la sceneggiatura di Persiane chiuse, di cui aveva girato alcune scene mentre si aspettava che la produzione trovasse un regista in sostituzione di Gianni Puccini, fuggito dal set in seguito ad una crisi personale. Il secondo determinante incontro è con Mario Tirabassi detto “l’uomo del sacco” che servirà ad ispirare un episodio, poi tagliato per le pressioni esercitate dagli ambienti ecclesiastici. Tirabassi era un personaggio molto singolare. Usciva ogni sera verso le 22 con dei sacchi che contenevano viveri, indumenti e medicine da distribuire agli sbandati di Roma di cui conosceva perfettamente nascondigli e abitudini. Credeva di aver avuto l’ordine di fare queste opere di bene direttamente da Dio, ma non apparteneva ad alcuna associazione religiosa e viveva di offerte di privati. Con queste donazioni è persino riuscito a costruire una chiesa piazzata in un luogo sperduto.148 La conoscenza di questo personaggio avviene tramite Pinelli che ha collaborato per qualche anno con lui. Durante la preparazione del film i due partecipano spesso alle incursioni notturne dell’uomo, ma ben presto Fellini si stanca e inizia ad approfondire la conoscenza di una parte di mondo molto meno filantropica. Accompagnato da Pasolini, Fellini può partecipare e assistere in prima persona alla vita notturna delle borgate romane, mondo che gli era stato svelato dalla lettura di Ragazzi di vita, romanzo scritto dallo stesso Pasolini. Insieme allo scrittore ed allo scenografo Gherardi scorazza per la passeggiata archeologica e 147

T. Kezich, ibidem, pag. 247.

148

Intervista con Pinelli del 12.9.95.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

per gli altri centri del malaffare capitolino dai nomi medievali: Guidonia, Tiburtino Terzo, Infernetto, Cessati spiriti. Il poeta lo aiuterà a rendere credibile i dialoghi, collaborando attivamente alla sceneggiatura e conducendo il regista “come se fosse Virgilio e Caronte insieme, di entrambi aveva l’aspetto”.149 La preparazione è attraversata da due importanti avvenimenti. Il più doloroso si verifica verso la fine di maggio quando improvvisamente muore per infarto il padre di Fellini: Urbano. Quanto sia significativa la sua scomparsa è facilmente intuibile dai richiami presenti in La dolce vita e in Otto e mezzo dove Fellini esplicita il proprio rimorso per non aver saputo dialogare con il genitore. L’altro episodio è il conferimento dell’Oscar, per il miglior film straniero, a La strada. Tuttavia, più che essere colpito dall’affermazione, Fellini ricorda maggiormente l’emozione di trovarsi spalla a spalla con le star del sistema hollywoodiano: Liz Taylor, Gary Cooper, Cary Grant, James Stewart, Frank Sinatra, Bing Crosby, Clark Gable. Per lui “la cerimonia della consegna dell’Oscar ha il fascino delle caricature; è la caricatura del Giudizio Universale, la resurrezione della carne”.150 Un atteggiamento, come si vede, assai disincantato che assume, nella descrizione, un tono quasi surreale. 7.2.2

Il sigillo cardinalizio

L’annuncio dell’inizio della lavorazione de Le notti di Cabiria crea preoccupazione negli ambienti culturali in quanto cade nel vivo del dibattito parlamentare in atto per l’abolizione delle case di tolleranza. Dopo uno sfortunato incontro con la senatrice Merlin, ideatrice della legge sulla prostituzione, la preparazione del film prosegue rapidamente (12 settimane di riprese) pur suscitando timori tra i politici e gli ambienti ecclesiastici. Qualcuno ipotizza che il regista, per facilitare il lavoro, firmi una carta in cui autorizza preventivamente ogni taglio della censura. 149

R. Cirio, ibidem, pag. 107.

150

C. Costantini, ibidem, pag. 76.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Mentre il film è in fase di montaggio germinano le prime polemiche. Nicola De Pirro, direttore generale dello spettacolo, fa trapelare che ci sono molte apprensioni per i presunti contenuti immorali e magari blasfemi del film.151 Inoltre il sindaco di Roma, il democristiano Salvatore Rebecchini, ha intenzione di protestare perché ritiene scandaloso mostrare una parte monumentale della città, la passeggiata archeologica, come centro del vizio e della criminalità. Ovviamente tace che il luogo è sede della prostituzione romana e dimentica che la stampa sta dando ampio rilievo al “martellatore della Passeggiata Archeologica”, uno psicopatico che ha già ucciso diverse donne. Questi elementi, oltre all’ovvia scabrosità del soggetto, spingono gli enti preposti a rinviare il visto che consentirebbe al film di partecipare al Festival di Cannes. Nessuno si sbilancia, ma è evidente che la possibilità di ottenere l’approvazione della censura è legata ad una serie di tagli concordati dopo una lunghissima contrattazione. Vista la situazione disperata, Fellini tenta l’ultima carta e si rivolge ad un padre gesuita, Angelo Arpa, un amico che gli era stato presentato alcuni anni prima da Brunello Rondi. Arpa, introdotto negli ambienti curiali genovesi, suggerisce di mostrare il film al Cardinale di Genova Giuseppe Siri, il più giovane cardinale d’Italia, che è anche il potentissimo presidente della Conferenza Episcopale Italiana da cui dipendeva il CCC e l’Azione Cattolica. L’opera viene mostrata segretamente al cardinale in una saletta vicina al porto di Genova. La proiezione avviene dopo la mezzanotte. Resta inteso che il prelato parlerà con Fellini solo se il film è di suo gradimento. L’intervento di Arpa, che durante la proiezione ha aiutato Siri a comprendere la vicenda umana e spirituale di Cabiria, convince il cardinale ad intercedere perché la censura elimini i veti precedentemente posti. L’assenso del cardinale spalanca tutte le porte. La censura concede immediatamente il visto e cade anche ogni resistenza ministeriale. L’unico sacrificio richiesto è il taglio dell’episodio in cui si mostra l’uomo del sacco. Le motivazioni sono misteriose. Kezich sostiene che il taglio è frutto di un compromesso con la 151

T. Kezich, ibidem, pag. 259.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

chiesa in quanto “la carità non va sottratta ai suoi canali legittimi”; padre Arpa152 sostiene, invece, che la decisione è stata presa in quanto l’episodio appariva fuori dall’ottica del film.153 Non appena si sparge la voce della visita a Siri, inizia una polemica contro Fellini e la sua presunta sottomissione al potere ecclesiastico. Ma anche i critici marxisti, come Aristarco, restano impressionati e sorpresi di fronte alla dimostrazione di potere data dalla chiesa italiana.154 Chi in precedenza si era scandalizzato per l’ambientazione del film, ora si trova senza argomenti ed è costretto a battere in ritirata dopo il sigillo cardinalizio. Ottenuto il visto di censura la pellicola va al festival di Cannes dove Le notti di Cabiria riscuote un enorme successo e Giulietta Masina riceve il premio quale miglior attrice protagonista. Il trionfo sulla croisette spiana la strada al film che, uscito in patria, riceve recensioni tutto sommato positive anche se non mancano rilievi ed appunti da parte di alcuni critici. A molti non piace la scena dell’ipnotizzatore, a taluni il finale, altri ancora rilevano come la narrazione sia discontinua e non sempre armonica.155 Aristarco muove a Fellini, una volta di più, l’accusa di cadere nell’artificio letterario in alcuni momenti del film. Ma, a sottolineare la debolezza sempre più manifesta di una parte della critica militante, la maggioranza dei giornalisti specializzati è positivamente colpita dall’ultima fatica felliniana e loda la maturazione compiuta dal regista. Estremamente favorevoli sono le posizioni espresse dai critici appartenenti al mondo cattolico come il padre gesuita Nazareno Taddei che su Letture, un periodico vicino alla Compagnia di Gesù, esprime la sua ammirazione per Le notti di Cabiria affermando che “La tematica di Fellini [...] sta portando a

152

Angelo Arpa (Castelminio di Resana -Treviso, 1909 - Roma, 2003) è stato un padre gesuita, filosofo e scrittore. 153

T. Kezich, ibidem, pag. 260. Intervista con Angelo Arpa del 5.11.1995.

154

G. Aristarco, Guido Aristarco answers Fellini, in Federico Fellini: essays in criticism, a cura di Peter Bondanella, pag. 63-64. Su di un articolo apparso su L’unità, 25.4.1957 di Rubens Tedeschi, Fellini viene paragonato a don Abbondio dicendo tra l’altro che “Il fascismo è fatto anche dalla mille piccole vigliaccherie di coloro che si adeguano per paura”. 155

U. Casiraghi, L’Unità del 10.10.1957.

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L’ITALIA DI FELLINI

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maturazione il germe del miglior Rossellini; finalmente in neorealismo più sincero e più valido spezza i confini del pessimismo senza fondo e prende per oggetto la realtà vera e completa.”156 Lo stesso CCC (Centro Cattolico Cinematografico) si schiera ovviamente a favore dell’opera di Fellini (non poteva certo smentire il presidente della CEI) affermando che “L’impostazione del film è positiva. Vengono infatti messi in risalto il calore della vita e il desiderio di redenzione anche in creature che le circostanze - più che la colpa personale - hanno ridotto all’abiezione. L’argomento e alcuni situazioni, quale ad esempio la sequenza del Santuario, che può destare qualche perplessità, fanno riservare il film agli adulti di piena maturità morale”. Il successo di Cannes lancia internazionalmente il film che comincia a ricevere premi e attestati da tutto il mondo. Le notti di Cabiria viene distribuito persino in Egitto nel 1958 e colpisce anche la fantasia di Nasser che invita la Masina nel palazzo presidenziale. Inoltre l’attrice riceve proposte amorose da parte di un importante uomo d’affari del Cairo che le offre dei gioielli. Nulla è vietato alla coppia regina del cinema italiano a cui sono aperte tutte le porte del jet set americano. Addirittura Jacqueline Kennedy organizza alcuni anni più tardi un party in onore di Fellini.157 A coronamento di tutto questo giunge il secondo Oscar consecutivo decretato dall’Academy Awards of films. 7.2.3

Lazzari o Nazzari?

Alcune ulteriori curiosità sono importanti per decifrare il film. L’idea dei due tentativi di omicidio che Cabiria subisce, scaturisce da un grave fatto di cronaca avvenuto poco tempo prima: il ritrovamento in un lago del cadavere di una donna, una prostituta, senza la testa. L’avvenimento aveva suscitato una viva impressione nell’opinione pubblica ed era stato al centro dell’attenzione della stampa per diverso tempo. Un altro importante spunto per la realizzazione della pellicola si deve al caso. L’idea dell’incontro tra la prostituta e il 156

N. Taddei, Letture, 1957, 6, pag. 454-455.

157

C. Costantini, ibidem, pag. 319-321.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

divo non era, infatti, nuova, ma risaliva ad alcuni anni prima, quando Fellini l’aveva proposta a Rossellini per il film a episodi L’amore. Il rifiuto della Magnani, protagonista del film, l’aveva fatta cadere nel dimenticatoio. Quando viene poi ripescata per Le notti di Cabiria la parte del divo viene affidata ad Amedeo Nazzari. Dopo un inizio diffidente, Nazzari, famosissimo per i suoi atteggiamenti divistici, si lascia disegnare il personaggio sulla propria pelle in un gioco di rispecchiamenti straordinario. Tutto quanto mostrato nel film - come conferma lo tesso Fellini corrispondeva al vero: l’interno della casa con armadi, vestiti, scarpe in numero impressionante. Nazzari aveva venti vestiti in Principe di Galles e possedeva almeno 500 paia di scarpe.158 Il gioco diventa talmente manifesto che, superate le perplessità iniziali di Nazzari, il personaggio viene chiamato Alberto Lazzari. I successi a ripetizione conferiscono sicurezza a Fellini che si getta nella realizzazione di Viaggio con Anita, racconto autobiografico ispirato alla recente morte del padre. Il progetto svanisce perché l’attrice prescelta per il ruolo di Anita, Sofia Loren, non è più disponibile a lavorare con De Laurentis dopo la rottura avvenuta tra questi ed il socio Carlo Ponti, produttore e marito della Loren. A questo punto il cineasta riminese matura l’idea di fare un affresco del mondo festaiolo di Roma, in poche parole decide di parlare di via Veneto, allora centro della vita notturna capitolina. Il cinema italiano ha intanto scoperto casualmente un nuovo filone che gli permette di allontanare la crisi produttiva e che apre un mercato internazionale imprevedibile: il film mitologico. Alla fine del 1956 esce un film a basso costo Le fatiche di Ercole diretto da Pietro Francisci. Questo genere cinematografico spezza “le catene del colonialismo cinematografico e apre una nuova era in cui i prodotti sono più differenziati [...] e lo scontro tra produzione nazionale e americana può finalmente cominciare a registrare una serie di round di relativa parità”.159

158

R. Cirio, ibidem, pag. 64.

159

G. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, ed. Laterza, 1991, pag. 298.

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L’ITALIA DI FELLINI

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7.3

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Guerre e silenzi 7.3.1

La “missione” di Lina Merlin

Allo scopo di facilitare la lavorazione e la distribuzione del film, Fellini e Pinelli si recano dalla senatrice Merlin promotrice del progetto di legge per la soppressione delle case chiuse. I due, esterrefatti, assistono ad una dimostrazione pratica della senatrice socialista che mostra loro sulla lavagna come le case di tolleranza fossero da abolire sulla base di un calcolo che aveva come elementi il numero di orgasmi di cui ha bisogno mediamente un uomo rapportato al numero di donne esistenti. Inoltre, la Merlin rammenta le parole che sua nonna le disse al momento del matrimonio: “Ringrazia le puttane se ti puoi sposare in bianco!” Questa affermazione era una delle molle che l’avevano spinta a presentare il progetto di legge.160 La personale guerra intrapresa da Lina Merlin contro le case di tolleranza è iniziata nel 1949, quando la senatrice socialista ha presentato per la prima volta in Parlamento una proposta di legge in tal senso. Decaduto nel corso della legislatura, il progetto viene ripresentato in Senato nel 1953 per essere approvato il 21 gennaio 1955. Nell’ottobre dello stesso anno passa alla Camera dove inizia una lunga discussione terminata solo tre anni dopo con la definitiva promulgazione della legge che porta ad uno sconvolgimento del costume degli italiani. L’iter parlamentare della legge è stato particolarmente tribolato. Se le forze di sinistra vedevano nella regolamentazione una forma di oppressione sociale che serviva solo a coprire i soprusi della borghesia che utilizzava il regolamento per sfogare i bassi istinti con donne ritenute di classe inferiore; per molti esponenti democristiani questo sistema diminuiva i rischi di contagio fisico e morale e costituiva uno scudo contro il disordine. Quindi, pur essendo obbligati, in quanto cattolici, a disapprovare la legalizzazione continuata del peccato da parte dello stato, mancava ogni volontà di facilitare la discussione della legge e la sua successiva approvazione. Altro argomento forte era la 160

Intervista con T. Pinelli del 12.9.95.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

risoluzione dell’ONU che nel 1947 aveva condannato le case chiuse e il fatto che l’Italia fosse rimasto il solo paese occidentale a possedere ancora una legislazione di tal genere. Mancano dati completi sul numero di prostitute in Italia nel periodo, tuttavia ad un convegno organizzato a Roma nell’aprile del 1950 dalla Società di Medicina Sociale, si afferma che le case aperte in Italia sono 717 con una presenza media di circa 4.000 meretrici.161La paura di una diffusione incontrollata delle malattie veneree, che si è verificata puntualmente nel 1959162, è uno degli argomenti a sostegno portati dagli antiabolizionisti. Prevalsero, ovviamente, gli abolizionisti che promettevano così di “porre fine alla schiavitù delle prostitute che garantiva gli interessi di un gruppo ricco, ben organizzato e seminascosto.” 163 Gli abolizionisti contavano anche sul fatto che molte prostitute scegliessero di cambiare tipo di esistenza se fosse stato mostrato loro che esistevano possibilità alternative di vita. Il voto finale alla Camera, 385 a favore del disegno di legge e 115 contrari, dimostra la spaccatura nel paese. L’alto numero dei voti contrari - solo il MSI ed alcuni esponenti del partito monarchico avevano espresso pubblicamente il loro dissenso mostra come parecchi deputati di tutte le estrazioni politiche fossero a favore della regolamentazione. Nella società civile moltissime furono le reazioni negative alla chiusura dei “casini”. Pinelli sostiene che è stato un trauma collettivo, la scomparsa di una istituzione che faceva parte integrante della società e del modo di pensare della gente. A prescindere dal parere di Pinelli, vale la pena di ricordare la posizione assunta da personaggi come Aldo Palazzeschi ed Indro Montanelli. La loro opinione e quella di altre importanti personalità fornisce una patente di credibilità all’episodio del divo mostrato nel film. Se anche un divo del cinema rimorchia una prostituta senza nessuno scr upolo o vergogna - un comportamento che peraltro si ripete ne La dolce vita - è evidente che nel costume degli italiani esisteva un atteggiamento ben 161

I. Lévi-Luxardo, Atti del convegno citato, pag. 56-86.

162

G. Perico, La legge Merlin. Validità sostanziale e opportunità di ritocchi, Centro Studi sociali, Milano 1962, pag. 9, tavola 20. 163

M. Gibson, ibidem, pag. 264.

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L’ITALIA DI FELLINI

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diverso (almeno per la parte maschile) verso il fenomeno da quello che la Merlin credeva o voleva far credere. Tutta questa discussione appare certo strumentale, come dimostra il film di Fellini, in quanto la prostituzione non era affare solo di 4.000 “lucciole” autorizzate. La passeggiata archeologica, dove si muove Cabiria, era popolata da donne e uomini disperatamente alla ricerca di un guadagno che, a prescindere da ogni tipo di regolamentazione, erano presenti sulle strade di tutta Italia. Questi esseri umani vivevano, come dice esplicitamente Cabiria, sotto i ponti, in case diroccate. Lei, invece, proclama orgogliosamente al divo che ha una casa tutta sua con l’acqua, la luce ed il gas. Un’abitazione che è un cubo di cemento, con una sola finestra, piazzato in mezzo alla campagna di Acilia, alla periferia di Roma: un vero e proprio buco così appetito da essere immediatamente acquistato quando la ragazza se ne disfa nel momento in cui accetta la proposta di matrimonio di Oscar. Quando abbandona la casa le subentra una famiglia di sette persone che ha portato tutti i mobili di casa su di un carretto trainato dal capofamiglia. 7.3.2

Il “sacco d’Italia”

È questo, infatti, il periodo del cosiddetto “sacco di Roma”. Durante il boom edilizio, durato dal ‘53 al ‘63, i grandi proprietari immobiliari, tra cui il Vaticano, si gettarono in una vorace speculazione edilizia con la complicità delle amministrazioni comunali. Ogni zona della capitale fu invasa dal cemento al punto che, ancora nel 1970, una casa su sei era abusiva.164 Il settimanale L’Espresso pubblica un’inchiesta dal titolo Capitale corrotta: nazione infetta. All’interno dell’articolo viene descritto l’Assessorato all’edilizia romano come un luogo dove “I funzionari sono quasi sempre fuori; al loro posto, lavorano privati cittadini che sono entrati per vedere a che punto stanno le loro pratiche [...] e fanno come se fossero in casa loro”.165 164

P. Ginsborg, ibidem, pag. 336.

165

M. Cancogni, Cicicov in Campidoglio, L’Espresso, n. 4, 22.1.1956.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

La speculazione edilizia non riguardava, d’altro canto, solo la capitale, ma tutta l’Italia. È il risultato di precise scelte politiche; il governo lascia la massima libertà agli imprenditori edili non volendo mettere mano ad alcun provvedimento per la tutela del territorio. Le case crescono rapidamente: dalle 73.400 edificate nel 1950 si passa alle 273.500 del 1957 e alle 450.000 del 1964.166 Il paesaggio urbano che Fellini mostra nelle sue opere è oltremodo esemplificativo. Da La strada in avanti la periferia di Roma è identificata con i casermoni costruiti in mezzo alla campagna deturpata: non ci sono, infatti, strade asfaltate; mancano totalmente le opere elementari di urbanizzazione; spesso, come ne La dolce vita, le fognature di questi appartamenti, che non erano ovviamente collegate ad alcuna rete fognaria regolare, si intasavano provocando immensi disagi. L’alternativa, però, non era certo migliore; la vita nella baraccopoli era molto più disagiata. Di fronte all’evidente immobilità delle istituzioni, il cittadino non poteva far altro che accettare queste condizioni. Il desiderio di avere una casa di proprietà era fortissimo e l’aumentato tenore di vita che rendeva possibile questo sogno a molte persone, fa il gioco degli speculatori. Se il migliorato livello dell’economia italiana consente alla popolazione di cullarsi in qualche illusione, il sistema politico, invece, offre solo segnali allarmanti. La legislatura che si sta per concludere è stata caratterizzata dalla palese debolezza dell’esecutivo. La formula del centrismo sembra non essere più sufficiente per garantire la stabilità politica e si rende necessaria la costruzione di una nuova alleanza. La Democrazia Cristiana si trova impossibilitata ad agire, divisa com’è tra chi preferirebbe orientarsi a destra, aggregando nel governo monarchici e missini, e chi agevolerebbe un’apertura a sinistra verso quel Partito Socialista che, seppure ancora rigorosamente marxista, ha fornito garanzie della sua democraticità con la ferma opposizione all’invasione sovietica in Ungheria. Nell’incertezza, la DC si tiene ancorata al centro e affronta le elezioni del 1958 con qualche timore. Le urne 166

P. Ginsborg, ibidem, pag. 335.

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L’ITALIA DI FELLINI

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premiano ancora la coalizione centrista. I partiti al governo aumentano la loro percentuale così come si rafforzano i socialisti mentre il PCI si mantiene al livello della precedente tornata elettorale. Calano sensibilmente le destre. Gli elettori sembrano così dare ragione a chi vuole un governo di centro sinistra e, sia pure molto faticosamente, in questo senso si comincia a lavorare. La terza legislatura si dovrebbe, visto i risultati del voto, configurare come di tutta tranquillità. Invece si presenta subito nel segno dell’incertezza. Una delle conseguenze dell’urbanizzazione massiccia dell’Italia è il drammatico declino della religiosità. È probabile che negli ambienti ecclesiastici si avvertisse chiaramente la situazione ed è prevedibile che tutto ciò comportasse una reazione furiosa contro tutte le forme di “deviazione” dal sentimento religioso. Tra queste non poteva non esserci il cinema e Fellini con La dolce vita entra involontariamente in una vera e propria “guerra di posizione”. 7.4

Fellini sul tetto del mondo 7.4.1

Alla ricerca di una nuova religiosità

Le notti di Cabiria ottiene un lusinghiero risultato realizzando circa 600 milioni. L’incasso dimostra la ritrovata vitalità del cinema italiano che sta trovando nuovi canali produttivi e nuovi generi in cui cimentarsi. L’insperato successo dei film mitologici rilancia la cinematografia nazionale depressa dopo un 1956 disastroso. Le fatiche di Ercole incassa circa un miliardo alla fine del suo sfruttamento commerciale con una spesa di produzione minima. Gli eroi proposti da questo filone - i vari Ercole, Maciste, Sansone, Ursus ecc. - sono senza paura e praticamente invincibili; portano con sé i valori della libertà e della giustizia, riportano la pace sconfiggendo i malvagi. Questi film sono pervasi da un sentimento religioso che ha valore positivo solo inteso come rispetto delle divinità familiari, tipiche della civiltà contadina.167 Se si considera questo con il fatto 167

G. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. II, pag. 505.

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7. LE NOTTI DI CABIRIA (1957)

che il più grande successo della stagione 1957/58 è il kolossal statunitense I dieci comandamenti, si può opinare che il pubblico delle sale cercasse di recuperare, tramite i mass media, una parte dei valori che si stavano perdendo nel passaggio alla società industriale. Il grande esodo dalle campagne e l’emigrazione al nord, dove esisteva una diversa concezione della vita religiosa rispetto al meridione, determinano una forte contrazione delle vocazioni sacerdotali ed un calo di presenze alle cerimonie religiose. Da una indagine Doxa del 1956, il 69 per cento degli italiani andava regolarmente a messa la domenica; nel 1962 si scende al 53 per cento.168 La potenza della Chiesa nella società civile resta però fortissima. L’approvazione di un cardinale basta a superare ogni tipo di pastoia burocratica e di censura. Tuttavia la potente chiesa non poteva tollerare che si propagandasse l’opera di un uomo, come il già citato Tirabassi, non legato alla loro organizzazione. La cosa era difficile da accettare al punto che forse (non esistono, infatti, prove al proposito) si è subordinato il taglio dell’episodio all’appoggio presso la censura. La diminuita religiosità dell’italiano viene controbilanciata dalla aumentata influenza nei mass-media e in primo luogo nella televisione su cui la Chiesa esercita un controllo assoluto grazie alla DC. È questo mezzo, infatti, che permette alla Chiesa di porre un freno alle libertà che il cittadino italiano sta scoprendo. Da questo nuovo pulpito si esercita una censura assoluta su tutto quello che non è conforme alla morale cattolica e al “comune senso del pudore”. I film di Fellini sono, perciò, di volta in volta buoni o cattivi se prevedono o meno il pentimento dei protagonisti o se hanno rispetto dei riti religiosi. Proprio l’atteggiamento del mondo cattolico verso l’opera del regista romagnolo nel corso degli anni cinquanta è simbolico dell’atteggiamento dell’altro versante ideologico che impera. Governo e chiesa, uniti, agiscono contro le deviazioni del consumismo, della modernità attaccando, di volta in volta, il film o il libro che getta ombre sul sistema di vita in atto.

168

P. Ginsborg, ibidem, pag. 333.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Tutto ciò avviene nel momento in cui il nome di Fellini è ormai noto in tutto il mondo. Mentre il mondo culturale si interroga sull’appartenenza di Fellini all’uno o all’altro schieramento, i suoi film sono ammiratii in ogni continente. Quando il parroco di Rimini lo considera come un diavolo per via de La dolce vita 169, Jacqueline Kennedy organizza un party in suo onore nel proprio appartamento di New York e Giulietta Masina è definita la “Chaplin-donna”. 7.4.2

Oltre l’estetica neorealista

Il cinema di Fellini rappresenta agli occhi del mondo il meglio della cultura italiana e, nonostante i pareri di parte della critica di sinistra, l’erede del neorealismo. A testimonianza di questo basta riportare la recensione del critico francese Andrè Bazin, uno dei punti di riferimento della nouvelle vague, che dice: “Ciò che non sono poi tanto lontano dal pensare è che Fellini va più in là nell’estetica neorealista, tanto in là da traversarla e trovarsi dall’altra parte.”170 Al di là delle polemiche, Fellini è comunque un personaggio estremamente celebre. Gli Oscar conquistati giocano un forte ruolo in questo. Le affermazioni degli italiani all’estero rafforzano l’orgoglio di una nazione che si è ricostruita nel giro di poco tempo e anche il Presidente del Consiglio Aldo Moro si fa riprendere mentre riconsegna, davanti alla macchina da presa della Settimana Incom, l’Oscar a Fellini nel momento in cui questi ritorna in patria. L’Italia affronta dunque l’arrivo del 1960 con i migliori presagi. Ma non sfugge a Fellini cosa si è perso in questo trapasso e le insidie presenti in uno sviluppo incontrollato che ha sì portato il benessere, ma che ha in sè i germi della sua distruzione. La dolce vita, probabilmente in modo involontario, non è solo il ritratto di una società, ne è la sua epigrafe funebre.

169

Intervista con T. Benzi del 24.4.95. Il parroco, saputo che il padrino del battesimo del figlio di Benzi, Federico, era Fellini, spaventato ha detto: “Ma è matto! Ma lei mi porta proprio un individuo così!”. Era l’aprile del 1960, due soli mesi dopo l’anteprima. 170

A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, 1994, pag. 329.

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Capitolo

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LA DOLCE VITA (1960) 8.1 “La bella confusione” La statua di Gesù è trasportata sopra Roma da un elicottero. La gente osserva l’insolito trasporto con curiosità. Al seguito della statua, su un altro elicottero, ci sono Marcello (Mastroianni), un giornalista, ed il fotografo Paparazzo (Walter Santesso). In un night club orientaleggiante Marcello, che lavora per un periodico scandalistico, si sta informando su cosa ha mangiato un famoso personaggio. Nel locale entra la ricchissima ereditiera Maddalena (Anouk Aimée) che ha appuntamento con qualcuno che non arriva. Marcello la corteggia e Maddalena esce con lui. Sfuggiti ai fotografi, l’improvvisata coppia si ferma a Piazza del Popolo dove decide di accompagnare a casa una prostituta appena conosciuta. La donna abita in un condominio a Cessati Spiriti. Nel suo appartamento i due si appartano a fare l’amore. La mattina seguente Maddalena lascia una lauta mancia alla prostituta sotto l’occhio vigile del pappone. Tornato a casa Marcello trova la sua compagna Emma (Yvonne Forneaux) che ha tentato il suicidio. La porta all’ospedale, dove viene salvata. All’aeroporto di Ciampino, in mezzo ad una selva di fotografi, arriva la diva americana Sylvia (Anita Ekberg) che la seguono passo passo con macchine e motorette. Durante la conferenza stampa di Sylvia, Marcello, che è l’addetto stampa del produttore italiano della diva, deve calmare per telefono la gelosia di Emma. Intanto arriva ubriaco il compagno della star, Robert (Lex Barker), che ironizza su tutti. Durante la visita a San Pietro, l’attrice sale di corsa i 700 gradini della cupola. Dietro a lei resta, sia pure ansimante, Marcello. Una volta giunti all’ultimo terrazzino il cappello di Sylvia vola via per il forte vento. Al night club Caracalla, Marcello balla con la star mentre al tavolo ci sono il produttore con alcuni giornalisti e Robert, già immusonito. Nel night entra un amico della diva (Alan Dijon) che, dopo averla salutata urlando, chiede al gruppo musicale di eseguire un cha-cha-cha. La canzone si trasforma poi in un rock and roll indiavolato intonato da Adriano Celentano. Quando Sylvia torna al tavolo Robert la insulta pesantemente. Umiliata, fugge via in lacrime inseguita da Marcello che la carica sulla sua macchina portandola in giro per Roma. Marcello cerca inutilmente un appartamento dove appartarsi con l’attrice e capita casualmente vicino alla

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8. LA DOLCE VITA (1960)

fontana di Trevi. Sylvia entra vestita nella fontana in una delle scene più famose della storia del cinema. Marcello si avvicina a lei e tutto sembra cristallizzarsi in un momento di bellezza straordinario. Improvvisamente la fontana si ferma, è l’alba: ogni incanto svanisce. Marcello immalinconito riaccompagna Sylvia in albergo dove trova Robert infuriato. L’attore americano, esasperato dall’attesa, schiaffeggia la donna, poi colpisce il giornalista tra i flash dei fotografi. Durante un servizio di moda che sta seguendo, Marcello vede entrare in chiesa un amico, Steiner (Alain Cuny), che lui venera e ammira. Lo raggiunge e gli parla affettuosamente. In una trattoria sulla spiaggia Marcello incontra Paolina (Valeria Ciangottini), una ragazzina simpatica che fa la cameriera e che il giornalista paragona ad un angioletto delle chiese umbre. Marcello e Paparazzo con Emma si recano nel luogo dove due bambini affermano di aver visto la Madonna. Intorno alla casa dei bimbi si accalca una folla immensa che attende speranzosa, ma non mancano giornalisti, fotografi, poliziotti e curiosi. Dopo una nottata farsesca con eccessi di fanatismo con tanto di violentissimo temporale, tutti fuggono dopo aver compreso trattarsi di un imbroglio. Sul prato resta un morto. Marcello ed Emma sono ospiti a casa di Steiner insieme a poeti, scrittori, pittori. Marcello e Steiner si scambiano delle confidenze. Marcello ammette di non pensare più di diventare scrittore, Steiner oscuramente lo mette al corrente di un suo disagio interiore. Una sera Marcello trova in via Veneto suo padre (Annibale Ninchi) che è venuto un paio di giorni nella capitale per lavoro. L’anziano genitore desidera passare una serata diversa da quelle noiose trascorse a Cesena e chiede di essere portato in un night di cui ha sentito parlare: il Kit Kat Club. Lì Marcello gli presenta una entreneuse Fanny (Magalì Noel). L’uomo comincia a corteggiare la ballerina che lo invita a casa sua. Marcello, che lo segue a breve distanza con altre due donne e Paparazzo, vuole andarsene, ma accompagna le ragazze all’appartamento che dividono con Fanny. Sotto casa scopre che suo padre sta male. Lo trova seduto su una sedia che si sta riprendendo, ma mortificato per la figura fatta. Di colpo si alza e decide di tornare immediatamente a casa con il treno nonostante il figlio lo supplichi di restare per potergli parlare. Via Veneto di sera, nel pieno del suo splendore. Marcello si unisce, invitato da una sua amica svedese, ad un gruppo che si reca a palazzo Mascalchi di Sutri per una festa. Alla festa, simbolo evidente della decadenza

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L’ITALIA DI FELLINI

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della nobiltà, trova Maddalena che si serve di una camera degli echi per fargli una singolare dichiarazione d’amore. Marcello la ricambia ma lei è già nelle braccia di un altro. Anche Marcello finisce con una donna appena conosciuta. La mattina seguente, la comitiva, reduce dal baccanale, incrocia la principessa madre che si reca a messa. Il principe Mascalchi e i figli abbandonano gli amici per seguirla. Una spaventosa tragedia sconvolge Marcello: Steiner ha sparato ai figli per poi togliersi a sua volta la vita. Incapace di comprendere i motivi del gesto, aiuta la polizia ad avvisare la moglie di Steiner ancora all’oscuro di tutto. Impietosamente i reporter riprendono tutta la scena. In una villa di Fregene si festeggia l’annullamento del matrimonio di Nadia (Gray). Alla festa c’è di tutto: cantanti, attori, ruffiani, travestiti, ballerini e Marcello. Per accendere l’ambiente Nadia improvvisa uno spogliarello, sul più bello arriva il suo ex marito. L’atmosfera degenera, Marcello insulta gli astanti e poi umilia una ragazza ubriaca. Il padrone di casa deve però dormire e caccia fuori tutti. All’alba i reduci dall’orgia sono sulla spiaggia dove è appena stato pescato un gigantesco ed orribile pesce. Marcello nota che una ragazzina lo chiama dall’altra parte del canale. È Paolina che lo ha riconosciuto e vorrebbe parlargli. Il rumore copre, però, le sue parole. Marcello non riuscendo a capire si allontana con gli amici. Paolina lo segue con lo sguardo sorridendo. 8.2

“L’evento del secolo” 8.2.1 Il mito di Via Veneto

Via Veneto si afferma come cuore mondano e intellettuale di Roma durante il periodo fascista. Negli anni cinquanta, però, viene “adottata” dal mondo dello spettacolo e dell’informazione. Ogni angolo della strada è luogo di discussioni animate. Al caffè Rosati ci si imbatte De Feo, Talarico, Flaiano, Pannunzio e altri. Nel bar si possono ascoltare con largo anticipo le polemiche sugli avvenimenti culturali che solo dopo qualche giorno verranno a conoscenza dell’Italia sulle colonne de Il Mondo e de L’Espresso. Sull’altro marciapiede nei bar “Strega” o da “Doney” vivacchia la

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8. LA DOLCE VITA (1960)

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gente del cinema. Durante le nottate infinite si discute delle anteprime e dei progetti futuri, delle critiche e dei pettegolezzi. L’esplosione della vita notturna romana coincide con l’agonia e la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, che non amava questo tipo di manifestazioni e che, si dice, le avesse sempre osteggiate. Coincide anche con il boom dei giornali scandalistici che mitizzano via Veneto rendendola così famosa da attrarre curiosi e esibizionisti. Lo spettacolo di quelle sere si insinua nella mente di Fellini e conquista facilmente i suoi collaboratori alla sceneggiatura: Flaiano, che frequenta da sempre la via, e Pinelli. L’idea si innesta su di un precedente copione mai realizzato - Moraldo in città - che parlava dell’iniziazione alla vita corrotta della capitale di un provinciale; una specie di diario dei primi anni a Roma di Fellini. L’atmosfera di via Veneto determina un cambiamento in Fellini che sull’idea base sovrappone l’intenzione di “dare un ritratto di questa società dei caffè che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. [...] Il film avrà per titolo La dolce vita e non ne abbiamo scritto ancora una riga.”172 Questa affermazione di Flaiano, scritta nel giugno del 1958, smentisce le voci che attribuiscono a Fellini indecisione sulla scelta del titolo che fin dal primo momento è definitivo. Via Veneto rappresenta, d’altro canto, per Flaiano un pezzo importante della sua vita e l’amarezza del film è anche la sua quando commenta il cambiamento avvenuto negli ultimi anni: “Com’è cambiata dal ‘50, da quando vi arrivavo a piedi ogni mattina, attraverso Villa Borghese e mi fermavo alla libreria di Rossetti, con Napolitano, Bartoli, Saffi, Brancati, Maccari e il poeta Cardarelli. [...] c’era una gaia animazione paesana, giornalisti e scrittori prendevano l’aperitivo. [...] Come può cambiare una strada! Ora che sta arrivando l’estate salta agli occhi che questa non è più una strada, ma una spiaggia. [...] Anche le conversazioni sono balneari, barocche e scherzose, e si riferiscono a una realtà esclusivamente gastro-sessuale.”173

171

T.Kezich, ibidem, pag. 272.

172

E. Flaiano, Opere. Scritti postumi, a cura di M. Corti e A. Longoni, Classici Bompiani, 1988, Volume I, pag. 623-624. 173

E. Flaiano, ibidem. pag. 624-625.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Sentimenti non dissimili dovevano appartenere a Fellini anche se, dai tempi del matrimonio, non era più stato un vero protagonista della mondanità capitolina. Dopo il consueto walzer dei produttori, il film è tra le mani di Peppino Amato che cerca, inutilmente, di trovare una parte per la propria amante, la famosa attrice statunitense Linda Darnell, nel film. Le finanze di Amato, folkloristico ma geniale produttore non bastano a coprire le spese che continuano a lievitare. A questo punto entra in gioco Angelo Rizzoli che inizia un simpatico rapporto con il regista romagnolo. La composizione del cast è altrettanto lunga e faticosa. Dopo aver scelto come protagonista Marcello Mastroianni, preferito anche a Paul Newman, Fellini si sbizzarrisce nella ricerca dei volti giusti. Vorrebbe Elio Vittorini nella parte di Steiner, ma non riesce a convincerlo. Trova invece un perfetto alter ego di suo padre: l’attore Annibale Ninchi che ricoprirà lo stesso ruolo in Otto e mezzo. Nel cast entra anche il nuovo fenomeno del rock and roll italiano: Adriano Cementano, sia pure in piccolo ruolo. Il rock and roll è arrivato in Italia solo nel 1956 e la notorietà di Elvis Presley, rimbalzata ormai in tutto il mondo, e quindi anche nella nostra penisola, ha lanciato definitivamente questo genere musicale. Sulla falsariga di questo successo anche in Italia si impongono i cosiddetti urlatori come Tony Dallara e il già citato Celentano. Intanto a Milano l’amico Rinaldo Geleng gli ha trovato una ragazza che è perfetta per interpretare il ruolo di Maddalena. La ragazza è la milanese Adriana Botti, ricchissima ereditiera che viveva esattamente come il personaggio cinematografico che doveva proporre sul grande schermo e cioè “praticando il libero amore e sdrogacchiandosi.”174 Tutto salta al momento della stesura del contratto per via delle richieste onerose della giovane (50 milioni), dovute alla minaccia del padre di diseredarla qualora si fosse messa a recitare, e della provocatoria controproposta di Fellini che è stata di sole 75.000 lire provocando l’interruzione delle trattative. L’ultima importante scelta è stata quella di Anita Ekberg, la bellissima attrice svedese che rappresentava agli occhi del regista il 174

Intervista con R. Geleng del 5.6.95.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

simbolo della donna.175 L’attrice era da tempo protagonista delle cronache rosa italiane e alcuni degli episodi mostrati nel lungometraggio sono tratti da avvenimenti che le sono realmente accaduti. Le riprese del film, che si annuncia subito come un evento straordinario, diventano immediatamente meta continua di visitatori, di curiosi, fino ad entrare nella vita mondana della città. L’atmosfera festaiola raggiunge il suo culmine durante le riprese del bagno della Ekberg nella fontana di Trevi. L’episodio entra talmente nella storia del costume della capitale che Ettore Scola ne inserirà una ricostruzione nella sua opera C’eravamo tanto amati (1974). Fellini ricorda che per girare quella scena furono necessarie otto o nove notti e che i proprietari delle case che davano sulla piazza avevano affittato ai curiosi balconi, finestre e terrazzi. Alla fine di ogni ciak la gente poi manifestava la sua approvazione urlando.176 Tutta la città vuole ammirare con i propri occhi la prorompente bellezza di Anita Ekberg. L’entusiasmo per l’attrice svedese è così alto che, durante un esterno a Tor di Schiavi, scoppiano tumulti quando la folla di curiosi accorsa scopre che lei non prende parte alle riprese che si stanno girando. 8.2.2 Più che un successo Dopo aver visionato l’immenso materiale girato Fellini appronta una copia campione che viene vista solo dai due produttori: Rizzoli e Amato. I due sconvolti, racconta Fellini, sembra che abbiano telefonato al presidente della Titanus, Goffredo Lombardo, nel corso della notte per cercare di svendere il film.177 Si giunge così alla tanto attesa anteprima romana presso il cinema Fiamma. Alla conclusione appena venti secondi di applausi e qualche isolato fischio.178 L’interesse reale è solo per Anita Ekberg, presente in sala. Tutti gli occhi sono puntati su Milano, 175

Intervista a Lina Wertmuller del 30.4.95.

176

C. Costantini, ibidem, pag. 82.

177

R. Cirio, ibidem, pag. 95-96.

178

T. Kezich, ibidem, pag. 291.

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L’ITALIA DI FELLINI

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piazza difficile, dove la serata di presentazione è fissata per il 5 febbraio 1960 al cinema Capitol. Sul film, intanto, pende fin da principio la spada di Damocle della censura, particolarmente attiva in quell’anno come dimostrano i brutali tagli apportati ad un’altra pellicola fondamentale del decennio Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Tutto è, però, filato liscio in quanto ancora una volta l’intervento di padre Arpa ha consentito di superare i veti. La pellicola era stata già mostrata al cardinal Siri che aveva concesso il suo benestare. Tuttavia, solo quando il gesuita ha scritto una lettera autografa al Presidente Gronchi, in cui si diceva che Siri aveva approvato il film, la censura ha concesso il visto classificando l’opera sotto la dicitura “adulti con riserva”.179 La prima milanese è, invece, un disastro. Il pubblico, prevenuto dalla campagna scandalistica montata precedentemente, comincia ad agitarsi e a rumoreggiare già dall’inizio. Alla fine solo qualche applauso convinto e molte grida di protesta. Qualcuno apostrofa Mastroianni come comunista, una persona sputa addosso a Fellini. La stampa segue passo passo le vicende del film. Il 5 febbraio, giorno dell’anteprima e vigilia dell’uscita dell’opera nelle sale, molti quotidiani commentano La dolce vita grazie alla visione riservata per i critici avvenuta il giorno prima. I commenti sono tiepidi, ma sufficientemente positivi. Piero Santi, dalle colonne del Giornale del mattino di Firenze, afferma che “non è un gran film, ma un film buono”.180 Tommaso Chiaretti è convinto che il crepuscolarismo sia la vera strada poetica di Fellini che “altrove aveva imboccato male, dalla parte del misticismo, cioè, dalla parte cieca.” Ma anche al critico del Paese appare evidente che ci si trova di fronte ad “una delle opere più nuove e, in un certo senso, rivoluzionarie del cinema mondiale degli ultimi anni”.181L’eccezionalità dell’avvenimento è colto da tutti i cronisti. Su La Nazione del 6 febbraio si dice, riferendosi al neologismo derivato da I vitelloni, che “l’espressione La dolce vita ha avuto un’accoglienza ancora più immediata: la si usa oralmente e per iscritto

179

Intervista con Angelo Arpa del 5.11.1995.

180

P. Santi, Giornale del mattino di Firenze, del 5.2.1960.

181

T. Chiaretti, Il Paese, del 5.2.1960.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

già da mesi, e il film di Fellini non è uscito che ieri.”182 Il giornalista lo definisce “una delle tre o quattro opere più forti del cinema italiano.” La dolce vita sconvolge tutti, suscita amore, odio, risentimento, preoccupazione; rende obsoleto ogni precedente concetto del cinema, spazza via il neorealismo al punto che Rossellini, che lo considerava una sua creatura, rompe ogni rapporto con Fellini, suo allievo prediletto, oltre che grande amico.183 Comunque l’anteprima milanese ha confermato le pessimistiche previsioni per l’esito commerciale del film che, non dimentichiamoci, era al tempo il più costoso mai prodotto in Italia. Il 6 febbraio, dunque, Fellini si reca a pranzo senza farsi eccessive illusioni per gli incassi della giornata. Quando fa ritorno al cinema Capitol si trova, invece, davanti ad uno spettacolo imprevedibile. La folla ha sfondato le porte del cinema, tutti vogliono vedere il film prima che venga sequestrato e quelli che non riescono ad entrare protestano calorosamente. È l’inizio di un trionfo che porterà La dolce vita ad essere il campione d’incassi del 1960 con oltre 2 miliardi di ricavato, una cifra che, rivalutata al 1993, supera i 58 milioni di euro. 8.2.3

“La schifosa vita”

Le reazioni non si fanno attendere. La prima interrogazione parlamentare è del 9 febbraio da parte di un deputato missino che stigmatizza “l’offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana e la banale canzonatura dell’alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà.”184 A questa interrogazione ne fanno seguito altre di esponenti della Democrazia Cristiana. Lo stesso giorno ha inizio la campagna di stampa denigratoria de L’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, che in un corsivo senza firma (opera forse del suo direttore il conte Della Torre) intitolato “Basta!” afferma che: “il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia [...] è incentivo al male, 182

S. Frosali, La Nazione, del 6.2.1960.

183

Intervista con Angelo Arpa del 5.11.1995.

184

T. Kezich, ibidem, pag. 292-293.

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L’ITALIA DI FELLINI

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al delitto, al vizio; ne è propaganda”.185 L’articolo prosegue con un violento attacco alla critica che ha lodato il film e conclude con un appello, appellandosi ai Basta! pronunciati nella serata dell’anteprima, richiamando al dovere i pubblici poteri “cui compete la sanità del costume, e il rispetto al buon nome di un popolo civile”. La reazione del quotidiano vaticano è l’espressione dell’intervento della parte più retriva del mondo ecclesiastico che si esprime in varie circostanze. Dopo l’intervento di padre Arpa presso il cardinal Siri, di cui abbiamo già detto, sembrava che tutto fosse chiarito. Il film dalla categoria “vietato per tutti” era passato in quella “adulti con riserva”; inoltre era stato proiettato presso il centro S. Fedele, centro culturale gesuita, dove era stato accolto con grande interesse; Arpa era, infine, riuscito a fissare un incontro tra Fellini e il cardinale Montini, il futuro Paolo VI. Il 9 febbraio esce, improvvisamente, l’articolo che abbiamo già citato: è il segnale che la cosiddetta “nobiltà nera” del Vaticano, la componente più reazionaria del mondo ecclesiastico, ha ripreso il controllo della situazione in modo deciso. Immediatamente la stampa cattolica si adegua al clima retrivo facendo una clamorosa marcia indietro rispetto alle opinioni già espresse. Il giorno stesso, infatti, Il Quotidiano, organo dell’Azione Cattolica, che pure aveva pubblicato una recensione favorevole della Dolce vita, si allinea alle posizioni romane. Il CCC reagisce riportando il film nella categoria delle pellicole “escluse per tutti”.186 L’intervento diretto della Segreteria di Stato Vaticana ha, dunque, probabilmente costretto Siri, da cui dipendevano sia il CCC che l’Azione Cattolica, a togliere la sua approvazione all’opera di Fellini. Anche Montini si adegua annullando l’incontro previsto con il regista romagnolo. Il film viene anche attaccato dalla Giunta Araldico-Genealogica del Corpo della Nobiltà Italiana, che deplora il conte Odescalchi per aver affittato il Castello di Bassano di Sutri. Vengono ripresi duramente i nobili che figurano nel film come comparse proprio nell’episodio della festa nel palazzo Odescalchi.

185

Basta!, L’Osservatore Romano, 9.2.1960, pag. 2.

186

Il Giorno, 10.2.1960.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

Alcuni di loro rispondono su un settimanale dicendo, a mo’ di scusa, di essere stati imbrogliati dal regista che aveva spiegato loro la scena e i dialoghi in modo diverso da come sono stati poi mostrati sullo schermo.187 Fellini risponde il giorno dopo in una conferenza stampa a Firenze affermando di non aver ingannato nessuno e che tutti erano a conoscenza della parte e di non aver “dato loro a credere nulla di diverso”.188 Le polemiche non sono ancora finite. Un lettore del foglio vaticano invita le autorità competenti ad incriminare Anita Ekberg per uso abusivo dell’abito talare a causa di un costume che ricorda molto la tonaca dei sacerdoti. Il successo ormai inarrestabile della pellicola spinge gli ambienti ecclesiastici a rincarare la dose contro Fellini e chi, all’interno della Chiesa, osa appoggiarlo. Se le proteste di alcuni parlamentari non ottengono risultati in quanto il governo, per bocca del sottosegretario Magrì, non intende prendere alcun provvedimento contro il film; durissima è invece la repressione nel mondo religioso. L’Osservatore Romano affida gli attacchi alla pellicola a otto articoli che ribattezzano La dolce vita in Schifosa vita. In uno di questi, pubblicato il 10 marzo, Cinecittà diventa la città dantesca di Dite e si spiega come la vera arte “è chiara, schietta, non induce in equivoco .. vale per tutti [..] è l’arte su cui non s’affatica, non si contorce la distinzione tra l’artista che indulge al male, sino a compiacersene si da incitare altrui al delitto, e l’artista che invece vi insinua tutto il proprio sdegno per sdegnare gli altri.”189 Concordemente il resto della stampa cattolica ammonisce a considerare il giudizio del Centro Cattolico Cinematografico, che aveva classificato La dolce vita “escluso per tutti”, come un giudizio normativo sulla coscienza dei fedeli.190 Questi articoli aggrediscono in modo particolare due gesuiti: padre Angelo Arpa e padre Nazareno Taddei. A padre Arpa, vittima degli strali dell’Osservatore Romano, viene imposto un anno di silenzio per l’appoggio dato alla pellicola.

187

Il Tirreno, 25.2.1960.

188

La Nazione, 26.2.1960.

189

L’Osservatore Romano, del 10.3.1960, pag. 2.

190

Settimanali cattolici, del 28.2.1960.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Anche la vicenda di padre Taddei è significativa. Taddei è uno dei responsabili del Centro San Fedele e del periodico, ad esso collegato, Letture, che pubblica nel mese di marzo una sua valutazione de La dolce vita. La firma di Taddei non è certo una novità per il cinema italiano che lo ha potuto apprezzare per gli importanti contributi critici apparsi su molte riviste specializzate tra cui Bianco e nero. Taddei riceve l’incarico dai suoi superiori di fare una lettura ponderata del film di Fellini. Dopo una serie di colloqui con il regista, Taddei scrive la sua critica che pone al vaglio di altri sette gesuiti. Il testo viene approvato a seguito dell’attenta analisi di ogni singolo periodo. L’articolo esce nel mese di marzo ed esprime una valutazione complessivamente positiva del film anche se “è da destinare a visioni limitate o almeno a persone opportunamente preparate”.191 Come si vede il giudizio è in linea con la posizione espressa inizialmente dal CCC stesso che lo aveva momentaneamente catalogato come “solo per adulti”. Nonostante sia evidente la condanna per il comportamento dei protagonisti, espressa da Taddei e dal regista, le reazioni a questo pezzo sono furibonde. Su Scena Illustrata ci si stupisce che padre Taddei non capisca che il film raggiunge finalità comuniste, “nel senso che fa il giuoco della propaganda comunista in un paese non comunista”.192 Secondo il giornalista La dolce vita e la stampa che difende la pellicola costituiscono “un ulteriore e efficace contributo a far dilagare il male” in quanto, prosegue, è facile intuire che le masse sono attratte da “dannosi e morbosi compiacimenti”. L’Osservatore Romano rincara la dose affermando che: “Si dice che l’autore di codesta fatica sia un religioso. Ma se ne dicono tante! Quante, come si vede, ne dicono i religiosi.”193 Gli attacchi continuano attraverso le massime autorità ecclesiastiche. Al Centro S. Fedele giunge, infatti, anche una lettera del cardinal Montini in cui si dice: “sono costretto a deplorare l’esaltazione che il rev. Taddei fa del film La dolce vita. La sua apologia rompe l’argine del nostro popolo alla dilagante immoralità delle scene”.194 191

Letture, marzo 1960.

192

R. Branca, Ministri e preti imparino cos’è il cinema, Scena illustrata, marzo 1960.

193

Osservatore Romano, 28.3.1960.

194

L’Arena, 20.4.1995.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

Alla dura reprimenda fanno seguito una chiarificazione che Letture pubblica nel luglio dello stesso anno e una serie di provvedimenti punitivi nei confronti di padre Bressan, direttore del periodico, che viene trasferito e di padre Taddei che viene spedito all’estero per essere, una volta rientrato in patria, delegato ad incarichi di diversa natura. Nel frattempo il film è giunto al XIII° Festival di Cannes dove è iscritto in concorso. La giuria, presieduta da Georges Simenon, lo premia con il massimo riconoscimento: la Palma d’oro. Non giunge, invece, l’Oscar per il miglior film straniero che va ad appannaggio di un’opera di Bergman. L’ambita statuetta viene vinta, però, da Piero Gherardi per la migliore scenografia. La cosa non colpisce più di tanto Fellini che, d’altro canto, sta riscuotendo successo in tutto il pianeta facendo divenire la fontana di Trevi e via Veneto tappe irrinunciabili dei turisti. L’impatto del film è talmente forte che riesce a modificare il linguaggio facendo entrare nei vocabolari di tutto il mondo neologismi come dolce vita e paparazzo. Oltre alla disapprovazione di Rossellini, l’ultima fatica felliniana scontenta molta parte della cinematografia italiana scesa in campo a fianco dell’autore riminese più per reazione verso la capziosa campagna moralizzatrice che per reale solidarietà verso Fellini. Altri due maestri del cinema italiano lasciano trapelare la loro insofferenza con alcuni frasi significative. De Sica considera Fellini un regista geniale ma ritiene che non sia mai riuscito a liberarsi “da un modo di vedere le cose un tantino cafone.” 195 Di Visconti si riporta, nel corso dello stesso articolo, una dichiarazione in cui afferma che i nobili di Fellini erano i nobili visti dalla sua donna di servizio. Pinelli ricorda anche furiose discussioni con il regista Pietro Germi che disapprovava La dolce vita.196 Ancora nel dicembre del Sessanta, d’altro canto, Flaiano scrive che spesso incontrava qualcuno che gli rimproverava di aver collaborato a mostrare Roma come una sentina di vizi.197 È evidente, insomma, che Fellini ha toccato un nervo scoperto della Roma di quegli anni che stava vivendo un periodo 195

Il giorno, 25.12.1960.

196

Intervista con T. Pinelli del 12.9.95.

197

E. Flaiano, ibidem, pag. 644.

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L’ITALIA DI FELLINI

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di splendore che “mascherava una certa putrefazione o perlomeno un’inquietudine.” 198 La vita di quella parte del mondo capitolino è stata comunque resa in modo edulcorato rispetto alla realtà di quei giorni.199 L’aristocrazia rappresentata era un ritratto quasi nostalgico della nobiltà romana che era, secondo Zapponi, tra le più grette, meschine, papaline e reazionarie. Non sorprende quindi l’alzata di scudi dopo l’uscita del film. 8.2.4

Dopo Anzio…Cinecittà

Molti episodi proposti ne La dolce vita sono tratti da avvenimenti realmente accaduti. Il via vai di attori, artisti e personaggi del jet-set internazionale in via Veneto era foriero di aneddoti facilmente traducibili sul grande schermo. Sono gli anni della famosa “Hollywood sul Tevere”.200 L’inizio di questa pacifica e fruttuosa invasione si può datare con la produzione di Quo Vadis (1952) di Mervyn Le Roy. L’afflusso continuo dei capitali statunitensi portano le più grandi stelle del firmamento cinematografico a Roma. Le avventure sentimentali di personaggi come Ursula Andress, Jayne Mansfield, Ava Gardner, del playboy sudamericano Baby Pignatari riempiono le colonne dei giornali scandalistici. Il punto più alto e, allo stesso tempo, l’inizio del declino dell’attività dei paparazzi vengono raggiunti con la tempestosa relazione tra Richard Burton ed Elizabeth Taylor durante le riprese del kolossal Cleopatra.201 Lo sfruttamento esacerbato del legame amoroso dei due attori causa una caduta di interesse nel pubblico che coincide con il ritorno dei finanziamenti americani in patria dopo che Hollywood è riuscita a superare la grave crisi produttiva che l’aveva colpita. Oltre alle baruffe tra divi, gli altri argomenti prediletti dalle riviste scandalistiche, come mostra lo stesso film, sono la cronaca nera e gli episodi di fanatismo religioso. Fellini, con i suoi cosceneggiatori Flaiano e Pinelli, ha inseguito e spiato la vita, il 198

Intervista con B. Zapponi del 5.6.1995.

199

Intervista con R. Geleng del 5.6.1995.

200

Per avere un quadro più esauriente di quello che viene dato in questo capitolo, consultare il libro di Hank Kaufman e Gene Lerner, Hollywood sul Tevere, Milano, Sperling & Kupfer, 1982. 201

P. Bondanella, ibidem. pag. 150.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

comportamento di questi fotoreporter che da questo film in poi assumeranno il nome di uno dei personaggi: Paparazzo. L’origine del neologismo è, come al solito, difficile da definire. Il cognome è realmente esistente ed è probabilmente la corruzione del termine papataceo che sta ad indicare una fastidiosa zanzara. Flaiano afferma, invece, di avere trovato il nome, per caso, in un libro di George Gissing, intitolato Sulle rive dello Jonio, e che tale nome appartiene ad un albergatore della Calabria di cui lo scrittore parla con riconoscenza e ammirazione.202 8.2.5

Cronaca nera

Questa spasmodica attenzione verso il morboso e la cronaca nera è probabilmente causata dalla censura esercitata durante tutto il periodo fascista su episodi di questo genere. Calato il velo di silenzio imposto dal regime, i giornalisti ed il pubblico si sono gettati a corpo morto su questi tragici fatti. Il primo importante fatto di cronaca del dopoguerra avviene nel novembre 1946 quando una giovane commessa trucida a Milano la moglie e i tre figli dell’amante.203 Ma i casi di delitti efferati sono, purtroppo, una tragica ineluttabilità del quotidiano. A volte la cronaca si interseca alla politica. È il caso della morte di Wilma Montesi, il cui cadavere viene rinvenuto sul lido di Ostia l’11 aprile 1953. Dopo una prima inchiesta che attribuisce la morte della giovane ad un banale malessere, appaiono sulla stampa le prime rivelazioni. Emerge così che la Montesi era presente ad un baccanale a cui aveva partecipato anche uno dei figli di Attilio Piccioni, uno dei maggiori esponenti della DC. Si avanzano sospetti sul figlio del ministro che viene accusato e poi prosciolto dell’omicidio della ragazza. Il processo che ne è seguito ha amplificato l’attenzione dell’opinione pubblica in un crescendo di colpi di scena che portano il capo della polizia a dimettersi e compromettono definitivamente Piccioni stesso. La campagna-stampa moralizzatrice scatenata dalla sinistra viene bloccata da Mario 202

E. Flaiano, ibidem, pag. 630.

203

S. Lanaro, ibidem, pag. 7.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Scelba che, sguinzagliando la polizia, riesce a trovare le prove che uno dei più implacabili accusatori comunisti amava assistere alle esibizioni erotiche della anziana moglie con dei giovani.204 Questa serie di squallide vicende evidenziano come anche lo scandalo fosse ormai divenuto arma di ricatto politico e come la commistione tra pubblico e privato si fosse definitivamente consumata. Peraltro, la morte di Wilma Montesi è ancora oggi avvolta nel mistero. L’episodio dell’omicidio-suicidio di Steiner, nonostante i disperati tentativi di Rizzoli per convincere Fellini ad eliminarlo dal film, è dunque una brutale realtà, un’anticipazione, anzi, di quello che accade in una società che ha raggiunto il benessere: ciò che Pinelli definisce la disperazione della felicità205 , un’efficace ricostruzione di un certo tipo di giornalismo, di cui il protagonista del film Marcello è rappresentante, che vive di insinuazioni e pettegolezzi, per cui ogni cosa è disumanamente “fotografabile”. Il cosiddetto “bel mondo” faceva di tutto, d’altro canto, per facilitare questo lavoro con una serie infinita di scandali, molti dei quali sono stati inseriti nella sceneggiatura del film. Tre episodi sono esplicitamente citati. Il primo risale all’estate del 1957 quando Pierluigi Praturlon, uno dei fotoreporter che servirono da modello per il personaggio di Paparazzo, immortala Anita Ekberg che fa il bagno in Fontana di Trevi in un servizio fotografico che fa il giro del pianeta. La Ekberg è protagonista delle cronache rosa anche per le violente scenate di alcool e gelosia con suo marito Anthony Steel. Un altro fotografo, Tazio Secchiaroli, riesce ad essere picchiato due volte nel corso della stessa giornata, il 18 agosto 1958, prima da Farouk, re d’Egitto, e poi da Anthony Franciosa, a quel tempo fidanzato di Ava Gardner. Lo stesso Secchiaroli è protagonista di numerose zuffe con Walter Chiari, anche lui legato sentimentalmente alla Gardner.206 Altro fondamentale episodio ispirato alla realtà è quello dello spogliarello finale che richiama lo strip-tease improvvisato nel novembre del ’58 dalla ballerina turca Aiché Nanà nel ristorante romano Il Rugantino. 204

A. Lepre, ibidem, pag. 160.

205

Intervista con T. Pinelli del 12.9.95.

206

P. Bondanella, ibidem, pag. 149-150 e T. Kezich, ibidem, pag. 272-273.

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Questa serie di scandali, riportati con dovizia di particolari dalla stampa, diventano addirittura argomento di discussione al Parlamento. Nell’estate del 1958 l’On. democristiano Giuseppe Brusasca chiede che sia vietata la diffusione di notizie riguardanti i divi e le loro storie d’amore in quanto bisogna far fronte “alle gravi conseguenze delle morbose curiosità, delle egoiste insofferenze, della svalutazione dei doveri coniugali e soprattutto del tradimento degli obblighi verso i figli che stanno diffondendosi tra il nostro popolo”.207 L’ultima fatica felliniana ingloba in sé miracolosamente gran parte dell’Italia del sessanta fino ad essere la descrizione, quasi psicanalitica, dei fasti e di alcuni rituali tipici della società romana e, di riflesso, dei sogni e delle illusioni dell’intera nazione. Eppure il nucleo di questo film è già oltre. Fellini, conscio della trasformazione del senso morale in atto, intravede i pericoli e le storture di questo sviluppo e li indica senza indugi, con sincerità. Via Veneto, raggiunto il suo culmine, comincia a sfiorire. La Hollywood sul Tevere tramonta, i divi si ritrovano in altri luoghi e i night club lentamente spariscono. “Via Veneto è sempre più irriconoscibile, travolta ormai dalla sua stessa fama, lasciata ai turisti, ai facili incontri e al cinematografo. Gli intellettuali hanno seguito i pittori a piazza del Popolo, topograficamente difesa dagli assalti della moda...” 208 8.3

Un ambiguo miracolo 8.3.1

Segnali contraddittori

Boom economico. Le parole magiche che vengono sempre ripetute riferendosi ai “mitici” anni sessanta divenuti, nella memoria collettiva, il momento d’oro della nazione. Si scopre, invece, che in termini meramente quantitativi - aumento del PIL, del reddito nazionale netto, del valore aggiunto industriale - il termine boom è parzialmente fuori luogo. In realtà la sensazione 207

M. Boneschi, ibidem, pag. 369.

208

E. Flaiano, ibidem, pag. 633.

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L’ITALIA DI FELLINI

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del benessere è causata da una serie di fenomeni che, sviluppatisi in precedenza, raggiungono il loro culmine tra il ‘58 e il ‘63. In questo periodo si registra, infatti, il raggiungimento della piena occupazione (3% nel 1962), la progressione costante dei salari e la notevole impennata dei consumi privati. Tuttavia il pieno impiego è tale solo sui diagrammi statistici 209 e lo sviluppo economico non solo non è stato supportato da un’offerta aggiuntiva di servizi (casa, scuole, ospedali), ma ha anche avuto profonde ripercussioni sul piano sociale determinando quello spaesamento, causato anche dalla fortissima immigrazione, così bene individuato da Fellini. Inoltre, l’incremento dei consumi risponde a bisogni ed esigenze materiali e non ad una crescita dell’utilizzo di beni superflui. Nel 1962, infatti, la spesa per commestibili e vivande è ancora pari al 47,5% delle uscite complessive della famiglia italiana e se vi si aggiunge il tabacco la percentuale sale al 51,4%.210 Le abitudini alimentari subiscono, invece, profonde modifiche. I cereali secondari (orzo, segala, mais, avena) vengono sostituiti dal pane bianco e dalla pasta di grano duro; i legumi perdono il requisito di piatto-base per divenire semplici contorni. È la carne a divenire l’alimento quotidiano degli italiani. Insomma, come disse Vittorio Valletta (amministratore delegato della FIAT) nel 1961, le cose sarebbero andate bene fino a quando gli italiani non avessero raggiunto il benessere detenuto dagli altri popoli occidentali. Il miracolo era per lui, come ebbe occasione di dichiarare l’anno seguente, solo il raccorciamento di distanze rispetto alle posizioni più avanzate dell’Occidente Europeo.211 Rimanevano, infatti, seri problemi da risolvere come lo squilibrio esistente tra il nord e il sud aggravato dalla fortissima emigrazione verso le regioni più industrializzate. È vero che tra il ‘56 e il ‘60 gli investimenti sono consistenti anche nel Mezzogiorno (poco più del 43% del totale), ma non toccano i problemi strutturali che sono alla radice delle difficoltà del meridione.

209

S. Lanaro, ibidem, pag. 224-226.

210

S. Lanaro, ibidem, pag. 253.

211

A. Lepre, ibidem, pag. 184.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

I problemi sopra elencati non fermano l’inarrestabile avanzata economica della nazione. Tra il ‘58 e il ‘63 il tasso di crescita annuo del prodotto interno lordo è del 6,3 per cento, gli investimenti in macchinari ed impianti industriali aumentano del 14% all’anno, la produzione industriale viene raddoppiata, con alla testa i settori metalmeccanico e petrolchimico dove IRI e ENI giocano un ruolo molto importante. Determinante per lo sviluppo economico italiano è anche l’effetto del Mercato Comune Europeo nato, dopo non poche difficoltà e defezioni, il 25 marzo 1957 a Roma con l’adesione di Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo ed entrato in vigore dal 1 gennaio 1958. Il trattato prevede l’abbassamento graduale delle tariffe doganali fino alla libera circolazione delle merci, della forza lavoro e dei capitali. L’esportazione verso i paesi della CEE, facilitata dal basso costo della manodopera che permette di entrare sul mercato con prezzi concorrenziali, passa dal 23% del 1953 al 29,8 del 1960, ad oltre il 40,2% nel 1965. Il miracolo economico porta con sé, ovviamente, anche un inizio di consumismo, che sia pure limitato ad una parte non ancora elevata della popolazione, manifesta il desiderio di mostrare il benessere raggiunto con lo sfoggio di qualche status symbol. Veicolo del consumismo è la pubblicità che, sia pure in forma limitata, fa la sua apparizione anche sui teleschermi. Nasce, infatti, il 3 febbraio 1957, Carosello che diventa immediatamente un appuntamento fisso nelle case degli italiani per la sua ironica e quasi fiabesca carica. Contemporaneamente si impongono anche nuove mode e comportamenti che si richiamano al cinema dove i nuovi idoli giovanili Marlon Brando e James Dean fanno della ribellione il loro motivo di vita. 8.3.2

Tra incertezze e speranze

Nel momento di massima forza economica è riscontrabile, invece, una situazione di estrema tensione a livello istituzionale. Mentre il mondo respira aria nuova con lo straordinario papato di Giovanni XXIII e l’avvento di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti insieme alla politica più umana, anche se con molte cadute, di Kruscev, l’Italia non riesce a trovare un governo stabile.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Papa Giovanni non svolge, come il suo predecessore, una politica sotterranea per impedire l’avvicinamento tra socialisti e democristiani anche se non lo favorisce. Il percorso che porta al centro sinistra è però notevolmente tormentato. Il tentativo di inizio legislatura (1958) di resuscitare il quadripartito fallisce miseramente. In attesa di trovare alleanze più stabili viene varato un debolissimo governo monocolore presieduto da Antonio Segni. Restando l’indisponibilità da parte del PRI e del PSDI che promuovono l’accordo con il Partito Socialista, in parte della DC si fa largo l’idea di formare un esecutivo con le destre coinvolgendo il MSI e i Monarchici. Questa ipotesi viene rafforzata dalla caduta del governo guidato da Amintore Fanfani nel gennaio ‘59 che subito dopo si dimette anche dalla carica di segretario della DC. Era proprio Fanfani, infatti, ad insistere per l’apertura ai socialisti e la sua forzatura non piaceva ai maggiorenti del partito che temevano le reazioni degli imprenditori e della gerarchia ecclesiastica. Il congresso elegge nuovo segretario Aldo Moro che inizia una politica pr udente cong elando, momentaneamente, ogni possibile svolta clamorosa. Si arriva così alla primavera del 1960 quando, all’ennesima crisi di governo, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nomina Fernando Tambroni, suo protetto ed esponente di secondo piano della DC, Presidente del Consiglio. Tambroni si presenta alle camere con un monocolore ancora più debole dei precedenti. Le destre intuiscono la possibilità di rientrare in gioco e appoggiano il governo risultando determinanti per ottenere la fiducia alla Camera dei Deputati. Il voto delle destre costringe Tambroni a rassegnare le dimissioni, ma Gronchi, forse influenzato dai successi ottenuti nello stesso periodo da De Gaulle in Francia, decide di forzare la mano riproponendo lo stesso esecutivo con lievi modifiche. Tambroni riesce ad ottenere una sia pur risicata fiducia. Ancora una volta essenziale è l’apporto del MSI che, dopo pochi mesi, presenta il conto al Presidente del Consiglio chiedendo, e ottenendo, il permesso di tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della resistenza. La decisione provoca una reazione delle forze antifasciste che scendono in piazza con “una determinazione e una violenza tale da

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8. LA DOLCE VITA (1960)

sconfinare quasi in rivolta.”212 Dal capoluogo ligure la contestazione si estende a tutta Italia. Gli scontri con la polizia si susseguono e provocano una decina di morti. Nel frattempo in Parlamento si assiste ad un durissimo scontro che vede in prima fila i partiti della sinistra con una parte della DC che plaude tacitamente. Tambroni, senza maggioranza alcuna, è costretto a dimettersi e lascia il posto al redivivo Fanfani che riesce a formare un governo centrista con una variante significativa: l’astensione del PSI. Di fatto l’accordo pone le fondamenta per un esecutivo di centro-sinistra. L’accordo tra socialisti e democristiani era visto come una sciagura da una buona fetta dell’opinione pubblica, come palesano i risultati elettorali del 1963. Molta preoccupazione in tal senso mostra la chiesa cattolica che non accetta l’idea di una collaborazione con un partito di ispirazione marxista. L’elezione di Angelo Roncalli al soglio pontificio non apporta grandi modifiche, inizialmente Giovanni XXIII si muove con prudenza. Nel febbraio del ‘59 il cardinale Ottaviani si esprime duramente contro Fanfani e nel maggio del ‘60 giunge dalle colonne dell’Osservatore Romano una condanna esplicita dell’apertura ai socialisti. Qualcosa si sta però muovendo come dimostrerà l’enciclica Pacem in terris dove si giunge alla famosa distinzione tra l’errore e l’errante. Rimane, certo, la condanna del marxismo come dottrina filosofica, ma poiché le dottrine restano ed i movimenti che ne derivano possono mutare sensibilmente, “il pericolo di dialogare con l’errore non sussisterebbe più”.213 Una affermazione di principio di questo tipo non poteva non essere che un, sia pur velato, assenso alla politica del centro-sinistra. La svolta operata da Giovanni XXIII giunge ovviamente troppo tardi per evitare le strumentali polemiche contro La dolce vita. Certo è che nel 1963 tutto quello che si era detto contro l’opera felliniana veniva a cadere di fronte ai vasti consensi raccolti dal film in tutto il mondo e dal successo economico ottenuto dalla pellicola, soprattutto in Italia, dove era stato il primo incasso della stagione 1960/61. L’arretramento dell’influenza del mondo 212

S. Colarizi, ibidem, pag. 228.

213

G. Carrara, In terra come in cielo, Ed. Grafica e arte Bergamo, 1976, pag.185.

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L’ITALIA DI FELLINI

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ecclesiastico era cosa evidente agli occhi di tutti come evidente era che un nuovo senso morale fosse patrimonio comune della maggioranza della popolazione. Tutto questo è colto da un uomo ispirato quale era Giovanni XXIII che capisce come sia giunto il momento per la Chiesa Cattolica Romana di dare nuova vitalità al proprio apostolato. È proprio lui, quindi, eletto al soglio pontificio come pontefice di transizione, data la sua età (77 anni), che cambia le sorti della chiesa annunciando con grande sorpresa al Sacro Collegio dei Cardinali, il 25 gennaio del 1959, la sua intenzione di celebrare un Concilio Ecumenico per la Chiesa Universale.214 L’Italia del 1960 è anche rappresentata dal più grande avvenimento sportivo mai celebratosi sul suolo della nazione: le Olimpiadi di Roma. Per qualche mese gli eroi dello sport si sostituiscono a quelli della celluloide ed i problemi politici sembrano passare in secondo piano. Tutto il paese si inebria delle vittorie azzurre anche se il ricordo più bello è probabilmente legato alle gesta di Livio Berruti che trionfa sui 200 metri piani nello stadio Olimpico mentre uno stormo di colombe, quasi a simboleggiare le speranze degli italiani, si libra in volo. 8.4

Qualcosa di totalmente nuovo 8.4.1

Pioggia di miliardi

Il 1960 non è solo una data simbolica in cui situare per comodità il miracolo economico. In questo anno si verificano diversi episodi che influenzano profondamente la storia del costume italiano. Questo non dipende ovviamente dalla Dolce vita anche se, direttamente o indirettamente, molta parte della vita sociale del paese viene toccata dalle polemiche e dalle discussioni relative al film. A fianco e a sfavore di Fellini si ritrovano, infatti, personaggi appartenenti a tutti gli schieramenti politici e di ogni ceto sociale. Con un ribaltamento di 180 gradi, tolte le dovute eccezioni, chi si batteva a favore di Fellini contro la cultura di 214

G. Carrara, ibidem, pag. 151-152.

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8. LA DOLCE VITA (1960)

sinistra ai tempi de Le notti di Cabiria si ritrova a deprecare il cineasta riminese additandolo come uno dei responsabili della diffusione del male. Chi, invece, usava toni duri verso di lui per il suo meschino misticismo e perché non sufficientemente realista, ora lo difende in nome della libertà dell’artista. Queste polemiche servono poi, di fatto, solo allo sfruttamento commerciale della pellicola. Le ridicole accuse di pornografia mosse dai moralisti non fanno altro che il gioco del regista attirando al cinema migliaia di curiosi che fanno incassare a La dolce vita una cifra che, rivalutata al 1993, supera i 58 milioni di euro. Un caso analogo può avere determinato gli ottimi risultati di un altro film al centro di polemiche e discussioni: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Il film di Visconti subisce, infatti, per opera della censura una serie di tagli. È tuttavia significativo che, intorno al 1960, i maggiori registi italiani escano con alcune tra le opere più importanti del cinema italiano: Fellini, Visconti ed Antonioni (insieme al Rossellini del Generale della Rovere) mostrano nuove vie attraverso cui il cinema può espandersi. Gli straordinari incassi registrati da La dolce vita non possono giustificarsi solo con l’impressionante e involontario battage pubblicitario provocato dalle polemiche, ma sono il segnale di una reale identificazione tra intellettuali e pubblico. Nel momento in cui si è inebriati dal successo economico e dal benessere raggiunto, questi registi sono riusciti ad individuare chiaramente i mali sotterranei, le inquietudini, le ansie che gli italiani avvertono esserci. 8.4.2

Il potere dal volto umano

La speranza di un avvenire migliore è destinato a svanire rapidamente. Gli anni sessanta che si annunciavano straordinari iniziano sotto il segno degli scontri di piazza, dal risvegliarsi delle lotte sindacali, dall’angosciante lavoro sotterraneo dei servizi segreti in collegamento con settori reazionari della nazione. Le speranze suscitate da Papa Giovanni XXIII e da John Kennedy si volatilizzano a seguito della loro scomparsa ed i due personaggi rimangono impressi nella memoria collettiva degli italiani fino al

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L’ITALIA DI FELLINI

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punto di essere rappresentati insieme, unitamente a Robert Kennedy ucciso nel 1968, in souvenir di tutti i generi e tipi. Tutto ciò appare ancora più evidente se si considera che uno di questi oggetti figura addirittura sulla credenza della casa dei fratelli Roncalli.215 I due personaggi svolsero il loro compito circondati da un affetto inusuale in quanto entrambi rappresentavano il volto umano del potere. La loro morte coincide con il ritorno alla realtà, il miracolo economico si esaurisce senza che dalle forze politiche giungano segnali confortanti. Una nuova morale è comunque delineata. O una amoralità come risultato dello straniamento culturale provocato dalle borgate così luminosamente espresse da Visconti, ma che hanno il loro cantore più lucido in Pasolini. O ancora l’immoralità voluta, cercata dai protagonisti della Dolce vita sprofondati nella ricchezza e nella disperazione. Il comune senso del pudore ne esce sconvolto ed irrimediabilmente sconfitto, per la censura da ora in poi è solo un limitare i danni. Nella Dolce vita si parla di libero amore, adulterio, droga, omosessualità, alcoolismo, fanatismo religioso e di tutto quello che fino ad allora era assoluto tabù. Fellini fa di più: mostra, riprende, denuda ogni cosa con sincerità. Nulla e nessuno viene risparmiato: non la chiesa, non il cinema, non la borghesia, né il proletariato. Niente appare positivo, neppure gli intellettuali sono esenti da abomini quali sono l’omicidio e il suicidio compiuti da Steiner: una cattedrale gotica così alta da non poter sentire nessuno. Eppure, in questo sfacelo, dalla miseria di questo sconfortante quadro della società italiana emerge e resta un sorriso, simbolo della purezza da cui Marcello si allontana senza poterne comprendere il significato.

215

G. Carrara, ibidem, pag. 240.

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Capitolo

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LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962) 9.1 La giornata di un moralista Quartiere dell’EUR, la gente si aggira tranquilla in una bella giornata. Una vocina fuori campo, quella di un amorino (Alighiero Noschese), si lamenta di essere tormentato solo da un signore. La persona in questione è il dottor Antonio Mazzuolo (Peppino De Filippo). Moralista a tempo pieno, passa le notti a disturbare le coppiette appartate insultandole e denunciandole alle forze dell’ordine; al varietà cerca di far calare il sipario per non far vedere le procacità delle ballerine; in un ristorante va a coprire con il tovagliolo la scollatura di una signora; acquista i giornali pornografici per stracciarli davanti all’edicola lamentando la decadenza dei costumi. Si dedica, però, anche alle opere di carità, raccogliendo i fondi per i carcerati durante la messa. Tra le sue attività benemerite vi è anche la premiazione di un gruppo di scout, disturbata da una ruspa. L’attenzione dell’uomo cade sui lavori in corsa, scoprendo che si tratta di un gigantesco cartellone pubblicitario che reclamizza un noto latte attraverso le procaci forme di un’inquietante figura femminile (Anita Ekberg) sdraiata su di un divano. Mazzuolo si reca immediatamente in diverse associazioni moraliste per esporre il caso e denunciare “l’offesa alla funzione più sacra della maternità, l’allattamento”. Il moralista è tormentato dal cartellone che è perfettamente visibile dalle finestre di casa sua. Inoltre sotto di esso si è creato un vero tourbillon con giostre e spettacoli vari. Per far scoppiare uno scandalo il dottor Antonio getta dell’inchiostro sul cartellone, provocando così la copertura del gigantesco manifesto. Durante la notte la pioggia fa staccare le strisce che coprono il corpo della donna che improvvisamente comincia a fargli delle smorfie Sceso per strada per capire cosa sta succedendo, Antonio non crede ai suoi occhi: la donna non è più sul cartellone. Anita si è materializzata nel formato enorme del manifesto e lo insegue pigliandolo in giro. Spaventato Antonio scappa, ma, catturato dalla donna che lo adagia sul suo gigantesco seno, comincia a cedere. Per baciarlo meglio, Anita si rimpicciolisce e Antonio, follemente innamorato le dichiara la sua intenzione di riportarla sulla retta via. Anita, per reazione, torna gigantessa e inizia uno spogliarello che Antonio cerca invano di

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9. LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962)

interrompere coprendo anche la cinepresa. Infine il moralista si trasforma in un cavaliere medievale che con una lancia colpisce il petto di Anita. La mattina successiva i pompieri lo trovano abbracciato al cartellone pubblicitario mentre pronuncia parole senza senso. Dopo l’intervento di un medico, viene caricato su di un’autoambulanza che lo porta al manicomio. 9.2

La dolce vendetta 9.2.1

Un’operazione commerciale

Boccaccio ‘70 è un’operazione che vede coinvolto Fellini insieme altri importanti autori come Visconti, De Sica e Monicelli. Il titolo richiama allusivamente immagini erotiche o licenziose. I produttori hanno deciso di puntare sul richiamo boccaccesco per sfruttare le polemiche moralisteggianti dell’anno precedente e per attaccare frontalmente la censura. Fellini, che ha appena fondato insieme a Rizzoli la casa produttrice “Federiz”, accetta di girare un episodio per sfuggire al lavoro di produttore, che ha scoperto di non amare, e ad una personale crisi creativa. Le tentazioni del dottor Antonio è così un semplice divertissement che gli consente di sperimentare per la prima volta nella sua carriera il colore e, contemporaneamente, gli permette di prendersi una piccola rivincita contro coloro che lo avevano attaccato per La dolce vita, deridendoli pubblicamente. Il titolo è una parodia delle Tentazioni di S. Antonio di Flaubert, ma al di là del richiamo letterario, l’episodio resta una semplice parodia che non ricopre enorme importanza nella cinematografia felliniana. Presentato a Cannes il film, che comprendendo gli altri tre episodi dura circa 4 ore, viene accolto senza particolare entusiasmo dalla critica. Diversa la reazione del pubblico che ne decreta il successo al botteghino. L’incasso finale è di 1 miliardo e 120 milioni, il terzo della stagione. Le recensioni sono abbastanza concordi nel dire che l’episodio diretto da Fellini ha nella prima parte il suo punto di forza, mentre il finale registra qualche caduta di tono. Complessivamente il giudizio resta positivo e anzi la parte felliniana risulta la più gradita alla stampa specializzata. Molto

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L’ITALIA DI FELLINI

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spesso i critici si schierano a fianco del regista contro i moralisti che cercano di aizzare l’opinione pubblica per attaccare un’opera d’arte. 9.2.2

“La miglior vendetta è il perdono”

Reazioni nettamente contrastanti, invece, giungono dai giornali e dai periodici vicini a Dc e Chiesa cattolica che reagiscono agli sberleffi con un’altezzosa sufficienza che nasconde malamente fastidio e, in alcuni casi, livore. Esemplare è un articolo di Gian Luigi Rondi216 che invita un altro critico, Ettore Della Giovanna, ad insegnare al cineasta che “la miglior vendetta è il perdono”. Rondi chiede di guardare a “quale rango di vendicativo libello, di acido pamphlet è sceso il cattolico Fellini nel suo episodio intitolato (solita mescolanza di sacro e profano) Le tentazioni del dottor Antonio.” Successivamente aggiunge: “Il pio Fellini si è buttato a capofitto a far la parodia più velenosa di tutti quanti detrattori della sua Dolce Vita [...] Caricaturando questo personaggio ha messo alla berlina gli ambienti cattolici, i boyscouts, i censori, le beghine, le funzioni religiose (senza la consulenza, speriamo, del suo Padre Arpa), l’On. Scalfaro217[...] e tutti quelli che non hanno speso un milione di parole elogiative per esaltare a suo tempo La dolce vita. [...] Non ci fa velo la sua scarsa carità cristiana tanto che ci sentiamo senz’altro di scrivere che, nelle prime pagine del suo racconto, anche là dove la caricatura è più malevola, se l’è cavata con molto humour [...] Dopo, però, casca l’asino, perché il pamphlétaire vendicativo si da anima e corpo al surrealismo e si abbandona a tali divagazioni da lasciarci a dir poco interdetti per il suo scarso buon gusto e per la vacuità della sua fantasia.” Rondi si distingue per la durezza anche rispetto a giornali più schierati come Il Popolo, quotidiano della DC, che mette in rilievo cadute di tono nel finale218 senza mai giungere alla veemenza mostrata dal critico di Rotosei. A proposito di Rondi è da far notare come fosse poco amato da molti registi. Sembra, 216

G.L. Rondi, Rotosei, del 11.3.1961.

217

La scena in cui De Filippo getta un tovagliolo sulla scollatura di una donna in un ristorante è direttamente ispirata ad un fatto realmente accaduto il cui protagonista era l’allora On. Oscar Luigi Scalfaro. La donna denunciò poi il parlamentare, ma non fu concessa l’autorizzazione a procedere dal Parlamento. 218

Il Popolo, 24.2.1962.

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9. LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962)

infatti, che Pasolini si potesse riferire a lui quando diceva: “Sei così ipocrita che quando arriverai all’Inferno crederai di essere in Paradiso.”219 Fellini, che non bada più alle vicende commerciali dell’episodio, cerca di superare la crisi personale sempre più grave che lo attanaglia realizzando un nuovo film. Tuttavia, sopralluoghi, discussioni e ricerca del cast gli confondono sempre più le idee; il personaggio fondamentale resta avvolto nella nebbia, indefinibile. Intanto si comincia a preparare i set in cui si dovrebbe girare, senza che Fellini riesca a trovare una idea risolutrice. Il problema fondamentale resta la professione del protagonista; inizialmente è un architetto, poi un romanziere, poi uno sceneggiatore, infine la rivelazione: è un regista.220 Fellini non vuole ammetterlo, ma quel regista è lui. 9.3 Censura o dell’arbitrio assoluto 9.3.1

Un controllo soffocante

Nei capitoli precedenti il problema della censura si è presentato diverse volte. Volutamente è stata evitata una valutazione complessiva del fenomeno proprio per poterne fornire un quadro più preciso in occasione di questo film che è praticamente centrato sulla tematica. Il regime censorio in vigore dai governi De Gasperi in poi è stato in larga misura peggiore di quello in atto nel ventennio fascista.221 La censura fascista occupava spazi ben definiti; quella democristiana, grazie alla sua capacità di centralizzazione, segna il trionfo dell’arbitrio più assoluto, del clientelismo, del ricatto ed è capace di colpire chiunque e in qualsiasi momento.222 Le pressioni non sono esercitate solo su registi e attori, ma soprattutto sui produttori che, in molti casi, fanno affidamento sui finanziamenti statali per ricavare un utile dai propri film.

219

Intervista con B. Zapponi del 5.6.1995.

220

T. Kezich, ibidem, pag. 321.

221

Intervista a T. Pinelli del 12.9.95.

222

G. Brunetta, Storia del cinema italiano, pag. 84.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Questo soffocante controllo deriva dalla convinzione che il cinema, che annovera molti artisti vicino alla sinistra, abbia in sé un forte potere di sovversione sociale e sia una delle cause del male che si estende nella nazione. A supportare e a rafforzare, se non a promuovere, queste posizioni c’è la Chiesa che, tramite le sue associazioni, vigila con attenzione sugli avvenimenti culturali. A questo si aggiunge la rigida sorveglianza che le sinistre, e in modo particolare i comunisti, esercitano sul cinema affinché non si esca dall’ortodossia marxista. Se il governo, con il silenzioso ma efficace lavoro oscuro di Andreotti (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), riesce a ridurre gli spazi di un cinema non allineato alla politica filogovernativa; gli intellettuali “liberali” di sinistra sopportano senza ribellarsi le nefandezze dello zdanovismo che ha imposto l’estetica del realismo socialista. I corifei di questo movimento riescono a definire Andre Gide “specialista in pederastia”, dileggiano Pablo Picasso, considerano il jazz “gillespismo decadente”, stroncano Chaplin e Dreyer e sviliscono personaggi come Camus (un falsario), Silone (poco di buono) e Gorresio (scarafaggio). Essi reputano il PCI, nonostante i difetti, l’unico argine che frena il dilagare delle parrocchie, dei comitati civici e degli abusi che restringono progressivamente la libertà d’espressione.223 9.3.2

Il regno dell’eufemismo

La censura governativa, di natura ovviamente più ampia, si estende invece a tutti gli aspetti sociali. Non solo il cinema e il varietà (come abbiamo già visto) sono sottoposti a controlli. Persino il linguaggio è purgato da ogni parola che possa, in qualche maniera evocare il sesso o qualcosa di sconveniente. L’eufemismo regna indisturbato nel linguaggio ufficiale dove scompaiono termini come “seno”, sostituito da “petto” e dove il sostantivo “coito”, proscritto, viene tradotto in un patetico “espansione sentimentale”.

223

S. Lanaro, ibidem, pag. 72.

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9. LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962)

Il cinema che è diventato ormai elemento indispensabile della vita dell’italiano è però il settore che più viene sorvegliato da Chiesa e DC uniti nella loro lotta moralizzatrice. Primo bersaglio degli strali della censura è ovviamente il neorealismo che, non appena vede calare il consenso del pubblico, diventa oggetto non solo di contestazioni episodiche, ma anche di azioni di ben maggiore efficacia. Giocando sulla motivazione che il cinema non dovrebbe offendere la dignità dell’Italia, Andreotti, così come i suoi successori nell’incarico, riesce ad impedire la produzione di alcune opere scomode, limita la distribuzione di altre, sfregia pellicole facendo tagliare tutti gli episodi che, in qualche modo, risultano scomodi. Che la vigilanza di Andreotti fosse costante è dimostrato da una sua circolare ai prefetti emessa il 23.6.50 dove il sottosegretario si preoccupa di bloccare la proiezione di pellicole senza il nullaosta governativo nei circoli privati. È ancora sua, nel 1952, la lettera al settimanale della DC, Libertas, in cui si condanna esplicitamente Umberto D. di Vittorio De Sica reo, secondo lui, di avere descritto gli aspetti più crudi dell’Italia rendendo così “un pessimo servizio alla patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale.”224 Insomma il film, che narra le vicissitudini di un pensionato statale impossibilitato a vivere con la sua misera diaria, non è, come si desume dall’accusa del politico democristiano, pervaso da un “ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l’umanità a camminare ed a sperare.” La lettera ottiene subito un risultato: il film Italia mia che De Sica e Zavattini volevano realizzare non sarà mai fatto. Dal 1953 Andreotti non ricopre più l’incarico, ma la pignoleria burocratica dei censori non verrà mai meno tanto che il senatore Busoni afferma in un intervento parlamentare: “Con l’Onorevole Scalfaro, tutore della morale artistica, noi signori ci meravigliamo soltanto, passando da piazza dell’Esedra, di non vedere ancora infilate le mutande alle naiadi della fontana.”225

224

S. Lanaro, ibidem, pag. 195-196

225

G. Brunetta, Storia del cinema italiano, ibidem, pag. 103

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L’ITALIA DI FELLINI

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La censura non risparmia nessuno e a volte colpisce con inusitata violenza. Chi osa solo ironizzare sul capo dello stato viene cacciato con ignominia. È famoso il caso di Tognazzi e Vianello che in uno sketch della trasmissione televisiva Bim Bum Bam hanno parodiato Gronchi venendo subito dopo oscurati e licenziati dalla RAI. È tristemente nota anche la condanna di Giovanni Guareschi ad un anno di prigione per calunnia verso De Gasperi. Nel cinema si può citare la vergognosa condanna inflitta da un tribunale militare a Renzo Renzi e Guido Aristarco per aver pubblicato un loro soggetto per un film dal titolo L’armata s’agapò su Cinema nuovo del febbraio 1953.226 L’arresto e la condanna avvengono quando Andreotti ha già passato l’incarico a Bubbio e forse sono da attribuirsi all’eccessivo zelo del nuovo sottosegretario. Rimane, però, una palese ed inammissibile violazione delle libertà individuali. Solo nel 1956 viene approvata la legge che, abolendo la regolamentazione fascista, riforma l’istituto della censura. Tuttavia l’attuazione di tale legge, nonostante mantenesse intatto il potere di intervento del governo sul cinema, viene fatta slittare al 1962. Gli interventi censori sono numerosissimi anche negli anni sessanta e raggiungono forse il loro culmine e fine con la messa al bando di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci che viene condannato al rogo nel 1974. Una decisione che viene ridicolizzata dalla storia. 9.4 Ultimi bagliori di un crepuscolo Il discreto realizzo di Boccaccio ‘70 è dovuto, probabilmente, anche alla curiosità che il titolo, associato all’aggettivo boccaccesco che evoca sottintesi erotici, ha provocato nell’ opinione pubblica. I quattro episodi sono infatti accantonati nella valutazione della filmografia dei rispettivi registi. A prescindere dalla casualità che è all’origine dell’idea produttiva, resta comunque il fatto che le polemiche relative a La dolce vita e a Rocco e i suoi fratelli sono state 226

Per notizie più dettagliate è consigliabile il libro di P. Calamandrei, R. Renzi e G. Aristarco, Dall’Arcadia a Peschiera, Bari, Laterza, 1954.

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9. LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO (1962)

avvertite anche nella gente comune. Nonostante la levata di scudi degli ambienti ecclesiastici e le sdegnate reazioni di politici vicini alla Chiesa, i due film circolano normalmente ed ottengono risultati sorprendenti. È il segno che l’italiano si allontana gradualmente dall’istituzione religiosa. Questa circostanza era già evidente da tempo e non è improbabile che la richiesta di una maggiore severità da parte della censura fosse un richiamo nostalgico dei tempi passati dove opinione pubblica e vita sociale erano rigidamente sottomessi al volere del Vaticano. La divisione della società non lascia, però, molti spazi ad aneliti libertari. Come abbiamo visto, se da una parte la Chiesa e la DC esercitano un controllo tramite la burocrazia, anche il PCI sottopone a rigidi controlli coloro che si rifanno agli ideali marxisti. Gli anni cinquanta e sessanta presentano una lista infinita di personaggi proscritti dall’uno o dall’altro schieramento che vengono molto spesso tacitati o emarginati dalla scena pubblica. Fellini rientra in questa lista, pur riuscendo miracolosamente ad uscire sempre rafforzato dalle polemiche. Durante il primo decennio di attività, l’autore è stato attaccato dalla sinistra, dai nobili, dalla Chiesa, dalla destra, dalla DC che a turno hanno ravvisato in lui il “male” o “l’errore”. Fellini, insomma, è stato definito in tutti i modi possibili. Una lunga serie di improperi che non hanno mai ottenuto effetti tanto il regista romagnolo era indifferente alla politica e alle divisioni per blocchi. Un caso, dunque, eccezionale di autonomia nel panorama artistico del dopoguerra che, in quanto non inquadrabile in alcuna definizione, ha goduto di una certa libertà d’azione. Una libertà che Fellini ha utilizzato per identificare e mostrare impietosamente i bubboni nati durante la ricostruzione. Nei suoi film, in filigrana, questi elementi appaiono nella loro icasticità ed assumono valore paradigmatico per la comprensione della identità culturale degli italiani. Così è anche per Le tentazioni del dottor Antonio che, pur essendo un’opera minore causata da un comprensibile spirito di rivalsa, sottolinea la grottesca funzione della censura. Le reazioni a questo film mostrano l’anacronismo dell’istituto come appare agli

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L’ITALIA DI FELLINI

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occhi degli italiani. Invano si affaccendano i moralisti o la nobiltà nera vaticana, ormai il loro controllo sulle masse si va indebolendo. È del 1962, lo stesso anno in cui Boccaccio ‘70 viene distribuito, l’attuazione della legge che ridefinisce l’istituto censorio creando i presupposti per il suo successivo indebolimento. Gli anni successivi sono solo una lenta agonia e il rogo di Ultimo tango a Parigi è l’ultimo colpo di coda di una burocrazia incancrenitasi ed incapace di comprendere i cambiamenti della morale comune. Quella morale che è servita per mascherare abusi ed ingiustizie, ma che non è più in grado di evitare il ridicolo, il grottesco, la derisione da parte della popolazione.

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Capitolo

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OTTO E MEZZO (1963) 10.1

Il girotondo dell’inconciliabile

Guido (Marcello Mastroianni) è intrappolato nella sua macchina durante un ingorgo. Riuscito a fuggire, inizia a volare prima di accorgersi di essere legato ad un piede. Il sogno si interrompe per l’ingresso nella camera dell’albergo termale dei dottori che si occupano delle sue cure. Entra anche Daumier, un critico assunto da Guido per revisionare la sceneggiatura del suo nuovo film. Guido va poi alla fonte delle terme dove la ragazza che gli porge da bere si trasfigura nell’attrice Claudia (Cardinale), subito dopo incontra l’amico produttore Mezzabotta (Mario Pisu) che ha lasciato la moglie per una coetanea della figlia. Guido attende la sua amante Carla (Sandra Milo) che sistema in un alberguccio. Dopo aver fatto all’amore, sogna la madre che, al cimitero, parla con il padre morto amareggiato per la sistemazione della tomba che considera troppo piccola. Sopraggiunge il produttore che si lamenta con il padre del comportamento di Guido. Nell’albergo termale il regista incontra casualmente il Cardinale, ospite anch’esso dell’hotel, poi viene circondato da tecnici, giornalisti stranieri e da un’attrice francese uggiolante perché non conosce ancora la sua parte. Sulle scale incrocia il produttore che gli regala un orologio e lo conduce in un night club. Al night club, mentre Mezzabotta si rende ridicolo ballando con l’amante, Guido è tormentato dalle domande dell’attrice francese; il direttore di produzione Conocchia si sfoga con il produttore per il comportamento del regista. Intanto si sta esibendo un telepata. L’uomo si avvicina a Guido, che conosce, e gli legge nel pensiero una strana frase: Asa NIsi MAsa. La frase riporta alla memoria del regista la sua infanzia quando faceva il bagno nelle tinozze del vino per poi essere portato a letto, avvolto nel lenzuolo. Nel buio della notte la nonna si aggirava tra i letti cercando di spaventare i ragazzini, alla sua uscita una bambina recitava una filastrocca in dialetto romagnolo con l’insolito modo di dire Più tardi, nell’hotel, Guido telefona alla moglie Luisa (Anouk Aimée) e le propone di venire a trovarlo. Prima di andare a letto ha un litigio con Conocchia, poi si addormenta con una visione di Claudia.

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10. OTTO E MEZZO (1963)

Guido vuole parlare con il Cardinale ed organizza presso le terme un incontro. Vorrebbe dal prelato un’ispirazione per il film, ma questi sposta il discorso sul verso di un uccello: il Diomedeo. Il discorso è noioso e Guido si lascia distrarre dalle gambe di una contadina che lo rimanda nei ricordi dell’infanzia quando, dopo essere fuggito dal Collegio religioso, vede Saraghina, una prostituta dall’aspetto spaventoso. La peripatetica, stranamente affascinante, invita il piccolo a danzare con lei, un ballo interrotto dall’arrivo dei preti che catturano il ragazzo riportandolo nel collegio per la punizione. Guido confessa tutti i propri peccati ma appena possibile torna da Saraghina che gli sorride. Luisa è arrivata con degli amici e gironzola per le vie della cittadina. Guido la osserva con discrezione, poi la donna lo vede e insieme vanno a raggiungere gli amici in un locale. Dopo aver ballato Luisa si innervosisce senza spiegazioni. Tutti insieme poi si recano sul set dove è stata eretta l’astronave che dovrebbe servire per il film. Il ritorno all’albergo si conclude con un litigio tra Guido e Luisa. Guido, Luisa e Rossella stanno chiacchierando quando compare Carla che imbarazzata si siede ad un tavolo. Il regista finge di non vederla e, dopo essere stato redarguito dalla moglie, nega decisamente di avere ancora una relazione con la donna. Luisa ovviamente non gli crede e lui, dopo aver chiuso gli occhi, sogna che le due donne diventano improvvisamente amiche. Tutte le donne della vita di Guido sono raccolte nella casa che aveva da bambino. Lo aspettano ansiose fino a quando lui entra con una serie di regali. Le donne lo coccolano, lo spogliano e poi lo lavano in una tinozza uguale a quella del bagno infantile. Dopo averlo avvolto in lenzuola calde lo stanno asciugando quando succede un parapiglia. Jacqueline, una soubrette, si rifiuta di obbedire alla regola stabilita dall’uomo che impone a chi ha superato i 26 anni l’esilio al piano superiore dove vivrà nel ricordo della passata felicità. Anche altre si uniscono alla ribellione ma Guido si improvvisa domatore e con la frustra riporta la calma. A questo punto Luisa, da brava donna di casa, rassetta l’immensa cucina. Il produttore ormai è arrabbiato, esige che Guido scelga il cast dando inizio alle riprese. Convoca tutti in sala provini e pretende che il regista decida. Alla proiezione assiste anche Luisa che dopo essersi riconosciuta in uno dei personaggi abbandona la sala infuriata. Daumier critica e Guido sogna di impiccarlo. Nel frattempo è arrivata Claudia. Guido la accoglie felice e la conduce in un luogo dove tenta di spiegarle il suo ruolo. Ma il sorriso di Claudia gli fa ammettere che non esiste il film.

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L’ITALIA DI FELLINI

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L’atmosfera magica viene interrotta dall’arrivo del produttore che ha già organizzato la conferenza stampa per il giorno dopo ai piedi dell’astronave. Guido vi è portato di forza. Assediato dalle domande dei giornalisti e dalle minacce del produttore, si rifugia sotto il tavolo e, per un attimo, sogna il proprio suicidio. Si smobilita il set; Daumier rivolge a Guido il suo primo complimento proprio perché ha avuto il coraggio di rinunciare. “Esistono già troppe cose superflue al mondo.” Mentre i due stanno per partire appare il telepata Maurice che annuncia che è tutto pronto. Stanno infatti giungendo tutti i personaggi del film accompagnati da una banda di clown. Guido non si trattiene, prende il megafono ed inizia a dirigere. Al suono allegro di una fanfara tutti si prendono per mano formando un girotondo festoso a cui si uniscono anche Guido e Luisa. Cala la notte, i riflettori si spengono accompagnati da un dolce suono di flauto. 10.2

Mille modi di dire IO 10.2.1 Le angosce dell’artista

L’autobiografismo del film appare fin dal titolo, Otto e mezzo, che dovrebbe essere riferito al numero di pellicole girate da Fellini come regista; il condizionale è d’obbligo in quanto non è molto chiaro quale calcolo stia alla base di questa numerazione. L’interprete prescelto per il ruolo da protagonista è, ancora una volta, Marcello Mastroianni che Fellini considera suo vero e proprio alter ego. Prima dell’inizio delle riprese Fellini ha ospitato l’attore romano per circa tre mesi. L’ha fatto dimagrire e gli ha detto di osservarlo in ogni suo movimento per entrare meglio nel “personaggio”. Il processo di assimilazione compiuto da Mastroianni raggiunge risultati eccellenti al punto che anche Rinaldo Geleng rimane meravigliato per quanto l’attore, nonostante le diversità fisiche, sia riuscito ad assomigliare al cineasta riminese in ogni atteggiamento e anche nel modo stesso di esprimersi.227 La ricerca del resto del cast avviene, come sempre, in modo abbastanza casuale. Spesso il regista ferma delle

227

Intervista con Geleng del 5.6.1995.

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10. OTTO E MEZZO (1963)

persone per strada che nota in atteggiamenti particolari, oppure mette annunci eccentrici sui giornali. Risolto il travaglio interiore e scelta la via autobiografica, tutto diventa più semplice. Le riprese iniziano il 9 maggio 1962 e si concludono nell’ottobre dello stesso anno. Il finale viene girato in settembre. In un primo momento il girotondo che conclude il film viene concepito come “prossimamente”, ma la scena è riuscita talmente bene che in fase di montaggio si decide di usarla come finale. Otto e mezzo giunge nelle sale cinematografiche il 15 febbraio del 1963. L’importanza del nuovo lavoro felliniano è evidente a tutti fin dal primo momento e in questo senso vanno anche i giudizi della stampa. A differenza delle due pellicole precedenti, non viene, inoltre, imbastita alcuna campagna moralista e anche la Chiesa Cattolica non oppone nessun tipo di pregiudizio al nuovo capolavoro di Fellini che viene comunque classificato dal CCC nella categoria “adulti con riserva” motivando tale decisione con l’assenza nel film di “una prospettiva integralmente cristiana” oltre che per “la presentazione unilaterale e ingiusta di una Chiesa archeologica assente nel mondo moderno”. Tuttavia si assiste al solito balletto dei distinguo che mirano a sminuire l’importanza di Otto e mezzo. La realizzazione del film “appare globalmente disomogenea, tanto scaltramente orchestrata”.228 Le osservazioni mosse all’opera sono innumerevoli al punto che conviene citarle in ordine sparso. Per Visentini il film “resta uno spettacolo esteriore e freddo”229; per Bruno i simboli sono “troppo elementari” e a Fellini è mancata “la visione storica dell’assieme”.230 Il parere di Pio Baldelli è che il film non riesce a dare “l’allegoria del nostro tempo” in quanto il regista, limitando la sua analisi al mondo del cinema, non parla degli “altri, i prossimi e i lontani coinvolti in qualche modo”.231 Durissima è la presa di posizione della rivista Cinema 60, nata nel luglio del 1960 sull’onda del successo internazionale della “nouvelle vague” francese, attraverso le parole di Lorenzo Quaglietti che definisce Fellini “retrivo” e 228

R. Buzzonetti, Rivista del cinematografo, n. 4 del 1963, pag. 121.

229

G. Visentini, Il Giornale d’Italia, 16.2.63.

230

E. Bruno, Filmcritica, 1963, 131, pag. 172-173.

231

P. Baldelli, Mondo Operaio, 1963, 2-3, pag. 56-57.

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L’ITALIA DI FELLINI

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incapace di uscire “dall’ambito di una del tutto personale, privata e [...] nemmeno sincera meditazione sulla natura umana.”232 E pensare che contemporaneamente Truffaut giudica in modo lusinghiero l’opera. Insomma, il concetto essenziale resta forse quello espresso da Aristarco che, pur non negando la validità della pellicola, ritiene che “Otto e mezzo rappresenta l’evasione dal mondo adulto e il ritorno al facile mito della fanciullezza. A quella che possiamo chiamare una democrazia sentimentale”.233 10.2.2

Da oltrecortina un applauso di 20 minuti

Il trionfo viene raggiunto al Festival di Mosca dove il film viene presentato in concorso il 18 luglio del 1963. L’attesa è enorme e alla conclusione il pubblico esprime la propria approvazione con un applauso che dura oltre 20 minuti e che resta per Fellini un’esperienza indimenticabile e commovente, tanto da essere ricordata dal regista come l’unico momento di grande emozione da lui provato alla proiezione di un suo film.234 L’affermazione di Otto e mezzo coglie di sorpresa la stampa ufficiale sovietica che reagisce definendo il film come “un’opera lontana dalla vita del popolo”.235 Cominciano anche le manovre per escludere il capolavoro italiano dai premi, ma la giuria, con una forzatura dei giurati occidentali che minacciano le dimissioni, le sventa e decreta il primo premio per la pellicola di Fellini. A suggellare il successo, giunge poi anche il terzo Oscar, oltre ad una infinita serie di riconoscimenti provenienti da tutto il mondo. Sul territorio nazionale l’incasso è soddisfacente (755 milioni e nono posto stagionale) considerando che Otto e mezzo è un film piuttosto difficile e che il pubblico non sempre lo capisce, come a Cosenza dove degli spettatori aggrediscono il proprietario del cinema, in cui è programmato, pretendendo il rimborso del biglietto.236

232

L. Quaglietti, Cinema60, 1963, 33, pag. 5-6.

233

G. Aristarco, La stampa, 28.2.1963.

234

Intervista con Titta Benzi del 24.4.1995.

235

A. Romanov, Izvestija, 31.7.1963, cit. in Film Selezione, 1963, 18, pag. 117-118.

236

C. Costantini, ibidem, pag. 94.

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10. OTTO E MEZZO (1963)

L’opera di Fellini resta tra le più importanti della storia del cinema, questa valenza viene confermata dalle innumerevoli pellicole che si ispirano a quella felliniana. L’elenco, lunghissimo, comprende film come Alex in Wonderland (Il mondo di Alex, 1970) di Paul Mazurski, La nuit americaine (Effetto notte, 1973) di François Truffaut, All that jazz (1983) di Bob Fosse, Stardust memories (1980) di Woody Allen e La pelicula del Rey (1986) dell’argentino Carlos Sorin. Otto e mezzo resta una tappa fondamentale della carriera di Fellini anche perché da questo film in poi inizia un periodo in cui, stimolato dagli incontri con degli psicanalisti di scuola junghiana e dalle letture dello stesso Jung, la psicanalisi diventa elemento essenziale per una maggiore comprensione delle sue opere 237, unitamente all’esoterismo che cominciava a dilagare come moda nell’Italia degli anni sessanta. 10.2.3

Verso l’eclisse

Il 1963 è anche l’anno in cui debutta nella regia con I basilischi Lina Wertmuller. La regista ricorda quel momento come l’ultimo fecondo per il cinema italiano. “In quel periodo - aggiunge esordivano due o tre bravi registi all’anno. Dopo di allora si è ammalato il rapporto tra pubblico e cinema italiano per una serie di motivi. Certamente c’entra la TV, la potenza americana, ma c’entra anche la scarsa preparazione delle nuove generazioni e un eccesso di politicizzazione.”238 Il numero dei biglietti venduti sta, infatti, calando sempre più dopo il vertice toccato nel 1955 con oltre 819 mila unità. Fino al ‘62, tuttavia, il calo è molto contenuto (728.572); dall’anno successivo ha invece inizio la vera e propria crisi con appena 697.480 tagliandi strappati. Nel 1968 i biglietti venduti sono solo 559.933, nel 1978 318.609, dall’88 in poi si scende sotto i centomila. La crisi, sempre più grave, coinvolge anche Fellini che dopo Giulietta degli spiriti (1965) vive il momento più difficile nella ricerca 237

Liliana Bettii (Cortefranca, 1937 - Adro, 1998) strettissima collaboratrice di Fellini per molti anni, racconta che Otto e mezzo ha avuto origine anche da un lungo rapporto di terapia con uno psicanalista di scuola junghiana. Intervista del 14.9.95. 238

Intervista con L. Wertmuller del 30.4.1995.

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L’ITALIA DI FELLINI

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di se stesso e nel confronto con la morte che la realizzazione de Il viaggio di G. Mastorna (1967), film mai concluso in seguito ad oscure premonizioni e ad una seria malattia, gli pone davanti. Una crisi più generale di una società che, dopo aver vissuto l’euforia della (presunta) ricchezza, si ritrova senza più certezze o punti di riferimento a cui rivolgersi. 10.3

La fine dei sogni 10.3.1

Il varo del centrosinistra

Nel febbraio 1962, dopo mesi di estenuanti trattative, si raggiunge un accordo che permette a Fanfani di varare un governo tripartito formato da DC, PSDI e PRI che ottiene l’astensione dei socialisti. La politica di avvicinamento al centro sinistra organico non subisce più rallentamenti, anche se Moro, eletto segretario della DC, offre come consolazione alla destra del partito l’elezione di Segni alla Presidenza della Repubblica. Segni viene, infatti, eletto con i voti determinanti di missini e monarchici e con l’opposizione delle sinistre. Il progetto è chiaro: Segni, che non vede di buon occhio l’accordo con i socialisti, funge da contrappeso e da garanzia ad uno sbilanciamento eccessivo verso sinistra. In effetti, lo stesso Fanfani ed i successivi governi che vedono l’apporto diretto del PSI annacquano notevolmente le riforme tanto sbandierate al momento del loro insediamento. Questa forma di governo è resa possibile anche dalla conversione al centrosinistra di alcuni grandi gruppi privati industriali come Fiat, Pirelli e Olivetti. Due sono gli aspetti che li spingono in questa direzione: la programmazione economica nazionale che sembra favorire la crescita dei loro settori e la presenza socialista che si ritiene capace di ridurre la tensione che aleggia nelle fabbriche del nord. Anzi Valletta stesso raccomanda al presidente USA Kennedy, in visita in Italia nel maggio ‘62, di fornire aiuto economico ai socialisti solo attraverso la DC in modo che quest’ultima possa usare il denaro come un’arma efficace di ricatto.239 239

P. Ginsborg, ibidem, pag. 357.

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10. OTTO E MEZZO (1963)

Il governo Fanfani riesce dunque ad ottenere la fiducia, ma Nenni, nel discorso alle camere, chiarisce che l’astensione dei socialisti è condizionata dalla attuazione di tre riforme prima delle elezioni del ‘63. Il PSI chiede la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la scuola media unica e la creazione delle regioni. In risposta a tali richieste viene varata rapidamente la scuola media unica. Mentre le regioni restano per il momento lettera morta, la questione della nazionalizzazione della industria elettrica diventa complessa ed intricata. Il vero scontro avviene sulla forma di indennizzo che bisogna versare. Il governatore della Banca d’Italia Guido Carli preme affinché il rimborso venga pagato direttamente alle vecchie aziende che così avrebbero la possibilità di reinvestire il denaro nell’industria. Riccardo Lombardi, importante esponente socialista presente nel comitato ristretto che si è occupato della nazionalizzazione, sostiene che l’indennizzo deve essere corrisposto dopo un certo numero di anni alle migliaia di azionisti. Dopo quattro giorni di discussione vince la linea propugnata da Carli.240 La nazionalizzazione dell’industria elettrica, nonostante la forte politica di investimento degli anni successivi, manca l’obiettivo per cui era sostanzialmente nata: ridurre i costi per il contribuente. Inoltre la linea sposata da Carli non ha prodotto gli effetti sperati in quanto “l’indennizzo delle società nazionalizzate è stato molto (troppo) generoso: ma le rate di questo indennizzo, mentre hanno appesantito fortemente il mercato delle obbligazioni, non sono state che in misura modesta indirizzate verso investimenti produttivi; in larga misura hanno finanziato investimenti di tipo speculativo, nel settore immobiliare e in quello della distribuzione.”241 Si va dunque alle elezioni con la chiara prospettiva dell’ingresso nei ministeri dei socialisti. Questo influisce sull’elettorato che, pur conferendo la maggioranza assoluta al centro sinistra, punisce pesantemente le principali forze di maggioranza. È la DC che paga il conto più salato perdendo il 4,1 per cento assestandosi così al 38,3% dei consensi. Anche il PSI 240

P. Ginsborg, ibidem, pag. 364.

241

P. Sylos-Labini, La politica monetaria resta deflazionistica, in L’economia italiana: 1945-1970, a cura di Augusto Graziani, ed. Il Mulino, 1972, pag. 302.

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L’ITALIA DI FELLINI

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subisce una flessione che lo porta al 13,8%. Aumentano sensibilmente i socialdemocratici (+1,5), mentre i repubblicani mantengono inalterata la loro percentuale di voti. Si rafforza notevolmente il PLI (+3,5) che, rigettando in toto l’accordo con i socialisti, raccoglie i voti dell’elettorato più reazionario fuggito dalla Democrazia Cristiana. 10.3.2

Trame nell’ombra

La debolezza istituzionale lascia grande spazio a manovre sotterranee che hanno come obiettivo il rovesciamento del sistema democratico. Una fitta rete di collegamenti tra servizi segreti, esercito, politica e settori dell’economia, mai veramente chiarita, si attiva con lo scopo di impedire l’ingresso della sinistra al governo. Protagonista di questa prima fase (ne seguono purtroppo diverse altre) è il generale Giovanni De Lorenzo, comandante dei carabinieri dal 1962, che, in precedenza, era stato per alcuni anni a capo del SIFAR, il servizio segreto dell’esercito italiano. Nel 1964, durante una grave crisi istituzionale seguita al fallimento del primo governo di centrosinistra con la presidenza di Moro, De Lorenzo prepara il piano “Solo” che ha come obiettivo l’insediamento di una giunta militare al governo e la soppressione delle libertà democratiche. Il piano, che viene a conoscenza dell’opinione pubblica tre anni dopo, presenta gravi lacune organizzative e prevede solo l’intervento dei carabinieri, ma non tiene in considerazione il comportamento del resto delle forze armate. Rimane misterioso anche il ruolo avuto da Segni che convoca, proprio durante la crisi, lo stesso De Lorenzo al Quirinale suscitando la perplessità di tutto l’arco costituzionale. Alla confusione del quadro istituzionale si aggiungono le difficoltà che l’economia italiana registra a partire dal 1961, nonostante l’incremento costante degli indici della produzione industriale non subisca rallentamenti fino al 1963. Il livello dei prezzi e dei salari cresce notevolmente dando luogo a un sensibile processo di inflazione; contemporaneamente, la bilancia dei pagamenti accresce il saldo passivo. In tutto questo gioca un ruolo importante l’incapacità dei governi in carica di gestire una crisi monetaria di tale portata. Dopo aver facilitato

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10. OTTO E MEZZO (1963)

l’accesso al sistema creditizio, la Banca d’Italia cambia improvvisamente atteggiamento provocando, in una congiuntura economica sfavorevole, una caduta degli investimenti (-28,8% nel 1964 e -25,1% nel 1965) e una fuga di capitali all’estero. Mentre la crisi economica ed istituzionale cresce, vengono a mancare proprio coloro che con la loro apparizione avevano dato fiducia nel futuro. Scompare, infatti, il 3 giugno 1963 Giovanni XXIII, il “Papa buono”, l’uomo che ha abbattuto le frontiere tra credenti e non credenti, che ha dato il via al Concilio Vaticano II, strumento indispensabile per una vera riforma della chiesa che riesce finalmente ad aprirsi al mondo e alla modernità.242 Pochi giorni dopo Kennedy giunge a Roma in visita ufficiale e, di fatto, approva il centro sinistra accettando di incontrare anche il leader socialista Pietro Nenni. Kennedy viene brutalmente ucciso a Dallas il 22 novembre dello stesso anno e il processo di distensione avviato con l’Unione Sovietica, dopo la drammatica crisi di Cuba del 1962, viene interrotto per essere definitivamente seppellito con la defenestrazione di Kruscev dai vertici dell’URSS l’anno seguente. Nonostante gli accenni di crisi, i consumi degli italiani non accennano a decrescere. Anche l’intervento del governo che si propone di diminuirli attraverso una serie di provvedimenti (tra cui l’aumento della benzina) non raggiunge risultati soddisfacenti. Nel 1964, anzi, il numero delle autovetture circolanti aumenta di 760.000 unità e le televisioni di 930.000. 10.3.3 Verso il ‘68 Ora l’apparecchio televisivo figura in tutte le case anche se il suo acquisto ha, a volte, sulla vita familiare un peso superiore a quello dell’affitto. Davanti alla televisione si realizza “una specie di uguaglianza magica col resto degli italiani.” 243 Nel 1961 nasce peraltro il secondo canale RAI ed aumenta progressivamente il raggio d’azione della televisione che nel 1969 copre il 90% del territorio nazionale. Lo sport, la musica e il cinema costruiscono nuovi miti 242

A. Lepre, ibidem, pag. 203.

243

A. Lepre, ibidem, pag. 220.

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L’ITALIA DI FELLINI

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che sono amplificati dalla televisione. Il calcio si trasforma nel contenitore spettacolare che dispensa soldi e fama a pochi privilegiati, diventando anche luogo di sfogo delle tensioni sociali. Il ‘63 è, tra l’altro, l’anno in cui la prima squadra italiana, il Milan, conquista la coppa campioni in forza del suo successo sui portoghesi del Benfica. Negli anni seguenti i successi si ripetono anche con altre formazioni ed il primato calcistico conquistato in Europa e nel Mondo crea un tale processo di mitizzazione dell’evento sportivo da farlo diventare una parte, ineliminabile, dell’identità culturale degli italiani. Oltre ai nuovi miti dello sport, si affermano anche personaggi nuovi nella musica e nello spettacolo. I Beatles, i Rolling Stones, oltre al già citato Priesley, rivoluzionano il mondo giovanile imponendo nuovi modelli che sono destinati a scontrarsi con la gretta e provinciale società italiana dei primi anni sessanta. Sono le prime avvisaglie di uno scontro generazionale destinato a sfociare nella contestazione giovanile del sessantotto. Gli anni sessanta si prospettano così in modo molto diverso dal decennio precedente che era pieno di speranze e si nutriva della convinzione che il peggio fosse passato. Costruita finalmente una società nuova, si presenta il problema di trovare un altro modello di integrazione sociale. Sul fallimento di questo tentativo si innestano molti dei problemi che travagliano l’Italia nei decenni successivi. Fellini vi partecipa con attenzione pur restando fuori dai blocchi ideologici che sono il riflesso dello strapotere dei partiti in ogni aspetto della vita sociale e che condizionano fin troppo pesantemente il cinema italiano. Proprio per questo la sua opera ci permette di capire alcuni aspetti della nazione che, in film troppo apertamente di parte, restano nascosti agli occhi di una pur attenta analisi storica. Proprio per questa sua “imparzialità” politica, Fellini rappresenta un importante elemento di conoscenza degli anni cinquanta che lo hanno visto, a differenza del prosieguo della sua carriera, in prima fila nelle polemiche e nelle scelte fondamentali del cinema italiano, a volte anche a dispetto della sua stessa volontà.

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Capitolo

11

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CONCLUSIONI Il pubblico sta cambiando. Gli anni sessanta portano nuovamente incertezza. Il quadro politico italiano, dopo l’avvento del centrosinistra, non registra sostanziali miglioramenti, anzi, le manovre sotterranee di cui abbiamo già parlato rendono tutto più torbido. Ad aggravare la situazione si registra un’inversione di tendenza anche nel processo di distensione a livello internazionale con l’improvvisa defenestrazione di Kruscev e la conseguente ridefinizione dei rapporti tra USA e URSS. La crisi del cinema, che subisce senza dubbi la forte concorrenza della televisione, è ormai in atto, ma alcuni generi cinematografici si impongono improvvisamente differendo la definitiva caduta della settima arte all’inizio degli anni settanta. La nascita del cosiddetto “spaghetti western” è un avvenimento clamoroso sulla scena cinematografica italiana, ma notevoli sono anche gli incassi registrati dalle pellicole che hanno come protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che sostituiscono nel cuore degli spettatori il Totò degli anni ‘50. Oltre alla commedia all’italiana, si affermano anche spy-stories alla James Bond, sul modello di quelle provenienti dall’Inghilterra con Sean Connery nelle vesti di protagonista. Ritornano, inoltre, gli pseudo musical all’italiana. Se negli anni cinquanta venivano saccheggiate opere liriche e canzoni folk, ora il genere si concentra sui nuovi idoli della canzone italiana: Gianni Morandi, Rita Pavone, Little Tony, Celentano, Mina e molti altri. Infine, come già sottolineato, produttori e registi, stimolati dagli scandali de La dolce vita e Boccaccio ‘70, si gettano su pellicole protoerotiche con titoli invitanti, ma dai contenuti scarsamente interessanti. Contemporaneamente, se si eccettuano i clamorosi casi della Dolce Vita e de Il Gattopardo, il cinema d’autore viene confinato negli angoli del mercato, se non dimenticato. È il caso di Rossellini che, prima di dedicarsi alla produzione televisiva, infila una serie di insuccessi commerciali spaventosi (Era notte a Roma, 1960; Vanina Vanini, 1961; Viva l’Italia, 1961), nonostante l’incoraggiante risultato del Generale della

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11. CONCLUSIONI

Rovere (1959) che lo aveva parzialmente rivalutato agli occhi dei produttori. Eppure il 1960 aveva decretato proprio l’affermazione di questo cinema proponendo alla testa della classifica degli incassi dei film italiani opere di Fellini, Visconti (Rocco e i suoi fratelli), De Sica (La ciociara), Comencini (Tutti a casa). Buoni risultati sono ottenuti anche da Lizzani, Pontecorvo e Florestano Vancini.244 La tendenza a premiare film d’autore 245 resiste fino al 1963 grazie a Germi (Divorzio all’italiana, 1961, 3° incasso dell’anno), Risi (Una vita difficile, 1961, 6° e Il sorpasso, 1962, capofila delle pellicole italiane con 1.293.000.000) e ancora Visconti, dominatore della scena nel 1963 con Il Gattopardo. Dal 1964 in avanti il film d’autore perde posizioni su posizioni. Resistono solo le commedie all’italiana dirette da grandi registi come De Sica, Scola, Monicelli, Germi, Risi. Nella stessa stagione Pasolini è solo 38° con Il vangelo secondo Matteo. Nel 1965 Fellini (Giulietta degli spiriti) e Visconti (Vaghe stelle dell’orsa) sono rispettivamente 21° e 22°, lontanissimi dai vertici degli incassi raggiunti dalle loro precedenti opere. Il fenomeno si ripete anche negli anni successivi quando pellicole importanti per la storia del cinema italiano risultano oltre la ventesima piazza degli introiti stagionali. È il caso della Battaglia di Algeri che nel ‘66 è solo 25° o di Blow up, 1967, di Antonioni che viaggia intorno alla trentesima posizione come Edipo Re di Pasolini. Solo nel 1968 si verificano segnali di un certo tipo con il ritorno del pubblico al cinema più impegnato nel sociale con Banditi a Milano di Lizzani e Il giorno della civetta di Damiani, rispettivamente all’ottavo e nono posto tra gli incassi dell’anno. Dal ‘64 al ‘68 dominano la scena cinematografica italiana i generi precedentemente elencati. Fino al ‘67 il primo incasso stagionale è sempre uno spaghetti western (Per un pugno di dollari; Per qualche dollaro in più; Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone Dio perdona, io no! di Tonino Valerii). Nel ‘68 il più grosso successo

244

M. Baroni, Platea in piedi 1959/1968, Bolelli editore, 1995.

245

Dalla definizione di cinema d’autore sono state, per semplificare l’analisi, escluse le pellicole appartenenti ad un genere più facilmente riconoscibile come i western o la commedia all’italiana, ma è ovvio che i films di Monicelli, Leone, Scola e molti altri sono da considerarsi, a tutti gli effetti, opere autoriali.

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L’ITALIA DI FELLINI

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è Serafino di Pietro Germi, ma il western è sempre in agguato con il terzo posto di C’era una volta il west, sempre di Leone. Nelle cinque stagioni considerate lo spaghetti western regna incontrastato. Tra i primi cinquanta incassi di ogni anno la loro presenza è sempre preponderante. Dagli 8 del 1964 si passa agli undici del 1965; nel ‘66 il record con ben 19 pellicole per scendere alle 15 del ‘67 e alle 10 del ‘68 (per non parlare delle decine di opere minori prodotte nello stesso periodo che hanno registrato introiti molto minori, tipo Pecos è qui: prega e muori - 1967 - di Maurizio Lucidi o Anche nel west c’era una volta Dio - 1968 - di Dario Silvestri). Fenomeno di grande successo, nello stesso periodo, sono le commedie che hanno come protagonisti il duo Franchi-Ingrassia, lanciati dalla televisione. Il loro momento migliore si registra nel 1964 quando addirittura cinque loro lavori figurano tra i primi 11 posti della classifica dei films italiani. Negli anni successivi il loro successo si attenuerà gradualmente. James Bond ha fatto scuola: decine di pellicole con improbabili agenti segreti imperversano per tutta la penisola con incassi limitati, ma evidentemente sufficienti per rientrare dalle spese di produzione. Che il modello sia l’eroe creato da Ian Fleming è manifesto fin dai titoli. Si possono portare alcuni esempi come Agente 3S3 Passaporto per l’inferno (1965), Da 077 intrigo a Lisbona (1965) o OSS 117 A Tokyo si muore (1966). Il fenomeno si esaurisce rapidamente, in quanto queste sottoproduzioni seguono le mode del mercato e abbandonano il genere spionistico non appena si affermano altri generi. Dopo le spy stories è, infatti, il turno dei film di guerra. Improvvisamente spuntano nelle classifiche titoli come Dalle Ardenne all’inferno (1967) e Testa di sbarco per otto implacabili (1968). L’offerta dell’industria cinema in Italia è dunque estremamente variegata, ma sfogliando le classifiche si può notare come, ad eccezione delle commedie, la stragrande maggioranza delle opere appartengano ad una dimensione culturale ibrida, frutto della colonizzazione americana. Nonostante all’inizio degli anni sessanta si fossero affacciati alla ribalta registi di ottimo valore, il grande pubblico ignora le loro opere e premia film frequentemente di pessima qualità

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11. CONCLUSIONI

artistica e formale. Deserto Rosso (1964) di Michelangelo Antonioni è preceduto da registi ormai dimenticati: Umberto Lenzi, Stegani Casorati, Primo Zeglio, Giorgio Simonelli, Franco Castellano, Tullio De Micheli. Quale enorme differenza solo con il 1960 dove ai primi venti posti figuravano nomi come Fellini, Visconti, De Sica, Camerini, Risi, Pietrangeli, Comencini, Bolognini e Mattoli! È acclarato che anche negli anni cinquanta i film di maggiore successo fossero altrettanto “commerciali” come quelli del decennio successivo, ma è altresì vero che queste opere affondavano le loro origini nel melodramma e nelle tradizioni letterarie e storiche nazionali e non erano, come nei meravigliosi ‘60, il risultato di una superficiale rimasticatura dell’american way of life. È evidente, quindi, lo scollamento esistente tra il pubblico e il prodotto cinematografico nazionale, uno scollamento che dovrebbe essere approfondito oggetto d’analisi e che diventa ancora più grave quando si considera che si è verificato nel giro di pochissimi anni. Certo l’influenza della cultura americana è notevole, certo la colpevole mancanza di una efficace legge sul cinema che tuteli una produzione tipicamente nazionale, sul modello di quella francese, è imperdonabile; tuttavia questo non spiega i motivi della scelta fatta dagli spettatori che si dedicano prevalentemente al cinema “commerciale” o che appare come tale 246 con radici culturali di questo tipo. Il quadro diventa ancora più sconfortante, poi, se si prende atto dei dati che riferiscono del periodo dal 1959 al 1982 in cui i film italiani che hanno superato il miliardo di incassi sono ben 249, mentre le produzioni americane sono appena 135.247 Quindi non si può parlare solo di crisi del cinema, ma è forse più giusto indagare nella direzione dell’identità culturale dell’italiano che non si riconosce più nel proprio cinema e, conseguentemente, in parte della propria cultura. Questo momento favorevole è stato una grande occasione persa per riallacciare un rapporto con il pubblico che aveva 246

Non si può, infatti, non sottolineare come le opere di Sergio Leone, assoluto dominatore del periodo ‘64/’68, abbiano diverse chiavi di lettura sottovalutate, nello stesso periodo, anche in sede critica. 247

G. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, pag. 434.

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iniziato a sfilacciarsi già durante gli anni cinquanta? Probabilmente sì. Non si può non notare, anche in considerazione dell’attuale momento del nostro cinema, che manca totalmente, se non in rari casi, un rapporto privilegiato con il pubblico che tende a preferire nettamente le pellicole provenienti dagli USA e a considerare le opere italiane pregiudizialmente di seconda categoria. È possibile che questo rapporto venga ora sublimato dalla televisione. Un elemento che può incidere in questa valutazione è il successo ottenuto da comici o personaggi del piccolo schermo nel momento in cui si sono affacciati nel cinema. Verdone, Benigni, Villaggio, Troisi, Pieraccioni, Salemme ed il trio milanese Aldo, Giovanni e Giacomo, tra gli altri, hanno potuto effettuare le loro scelte grazie agli spettatori che hanno conquistato con le performance televisive. Proprio le loro pellicole sono i campioni d’incasso dagli anni ‘80 ad oggi, i loro volti sono le garanzie di un successo in quanto esistono tuttora come personaggi televisivi e sono riconosciuti dall’immaginario collettivo. Queste “stelle del cinema italiano” risultano, dal punto di vista dell’analisi storica, gli eredi dei grandi maestri del passato che con la loro opera ci hanno permesso di studiare e comprendere l’Italia repubblicana. È difficile, ora, trovare un personaggio che come Fellini sia capace di attraversare la storia d’Italia con occhio lucido e penetrante. È più probabile che si renda necessaria un’analisi di “scuole”, tendenze, mode del sistema cinematografico della nostra penisola, piuttosto che singoli autori, per comprendere appieno la funzione di questa forma d’arte a livello storico. Certo, Fellini è stato una straordinaria eccezione nel panorama filmico non solo italiano, ma anche internazionale. La sua visionarietà ha trasfigurato la storia della nostra nazione e della sua popolazione, un atteggiamento che si è accentuato a partire da Otto e mezzo, ma questo non gli ha mai impedito di “sentire” le mutazioni, anche sotterranee, dell’Italia grazie al rapporto carnale che lo univa alla sua patria e, soprattutto, a Roma. La sua opera non può essere dimenticata, come quella di molti artisti che hanno condizionato l’evoluzione del nostro costume e della nostra identità, nel momento in cui si traccia la storia della nostra nazione. A maggior ragione nel periodo che abbiamo appena finito di esaminare, quando Fellini viveva

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11. CONCLUSIONI

attivamente la realtà che descriveva poi nei suoi film e il cinema era la forma di spettacolo più importante dell’Italia. Non bisogna trascurare, però, anche l’opera successiva. Sia pure tormentata e a volte non felicissima, sia pure relegata nei limitati confini del semplice avvenimento culturale e sempre più prodotto per pochi, la sua vena poetica ha tuttavia seguito passo passo ogni cambiamento della sua epoca. Il Sessantotto e il fenomeno hippy (Satyricon, Roma), il femminismo e l’emancipazione della donna (Giulietta degli spiriti, La città delle donne), il terrorismo (Prova d’orchestra) e molti altri argomenti sono dentro ed intorno ai suoi film. A volte i simboli sono più nascosti, in altre occasioni sono più visibili, ma sempre presenti. Nelle sue opere è sempre centrale il contenuto umano ed il tentativo di restituire, per immagini, l’Italia agli italiani, a prescindere dalle contingenze del momento, nella loro complessità, evidenziandone difetti, pregi e, soprattutto, origini e cultura. Questo senza mai piegarsi ai gusti del pubblico, ma solo seguendo il filo della sua ispirazione costantemente attenta alle trasformazioni della nazione e sempre pronta a sottolineare i cambiamenti della nostra identità culturale. La grandezza di Fellini dal punto di vista storico risiede però nella capacità che i suoi film hanno di permanere nell’immaginario collettivo. Ancora oggi, infatti, in modo quasi inconscio, ma costante, i suoi ricordi, le nostalgie, le sue ironiche macchiette sono diventati patrimonio ineliminabile della nostra esistenza, della nostra immaginazione che, senza di lui, sarebbe stata più povera. È forse giusto sottolineare come Fellini si schermisse affermando che “davanti all’obiettivo uno mette solo se stesso”.248 Tuttavia in un’altra sua dichiarazione si può trovare la risposta a quanto abbiamo scritto “L’unico e vero realista è l’artista visionario e creativo che meglio riesce a mostrare se stesso attraverso la propria arte”.249

248

F. Fellini, Block notes di un regista,Milano, Longanesi, 1988, pag. 62.

249

F. Fellini, Fare un film, Einaudi, 1980, pag. 113.

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Parte Seconda

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Intervista con padre Angelo Arpa del 5 novembre 1995

Angelo Arpa in primo luogo procede alla lettura di un suo brano su “Otto e mezzo”. Il piccolo Guido, riportiamoci al finale di Otto e mezzo, come sempre annunciato dalla fanfara del clown, è sul podio, vestito di bianco. Una luce dall’alto coinvolge la sua fragilità quando, a sipario aperto, una folla anonima di uomini e donne parlottando e sorridendo scendono da un’ampia scalinata. Sono gli attori del nuovo film. Guido è sul podio e gira il nuovo film. Immagine simbolo di un personaggio che come uomo è rimasto fanciullo e come artista è geniale. Diamo spazio nella nostra memoria ad un personaggio che ha avuto la timidezza, la fantasia, l’intelligenza delle cose, che ha viaggiato nel dubbio. Questo è il personaggio felliniano nella sua conclusione che è data anche dall’immagine stessa di questo fanciullo D - Lei ha facilitato l’incontro tra Siri e Fellini e ha reso possibile che venissero tolti i visti della censura a Le notti di Cabiria. La ricostruzione dell’incontro fatta da molti libri, compresa la biografia di Kezich, è esatta? R - Sì e no. La cosa era molto più semplice. Bisognava evitare che il Centro Cattolico definisse il film “escluso per tutti”. Allora abbiamo fatto vedere il film a Siri in questa saletta. Alla fine della proiezione il cardinale mi ha chiesto un parere. Io gli ho detto che era un film che toccava le fragilità di una creatura. La si può mettere così, senza troppi contorni: io ho avuto, se vuoi, l’intelligenza e la sensibilità di aiutare il cardinal Siri a capire il film e la storia di una creatura che aveva una sua grossa interiorità D - È vero anche l’aneddoto per cui Siri avrebbe detto a Fellini “Bisogna fare qualcosa” a proposito di Cabiria? R - Sì, quello è più applicabile alla Dolce Vita. Kezich è un po’ confusionario.

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INTERVISTA CON ANGELO ARPA

D - Il taglio dell’episodio dell’Uomo del Sacco è dovuto all’intervento del cardinal Siri? R - Non ha nessun senso. L’uomo del sacco fu tolto perché non entrava nella dinamica del film. Il taglio non c’entra con il cardinale. D - Siri era uno dei più aperti alla moderna tecnologia all’interno della chiesa, capiva meglio gli sviluppi mentre la curia papale era più chiusa rispetto a queste novità. R - Perché Siri ha avuto padre Arpa vicino. D - Il semplice intervento del cardinale elimina alla fine tutti i problemi di censura. R - Il cardinale allora era il capo della CEI, il capo dell’Azione Cattolica. Il CCC era dell’Azione Cattolica. Una parola di Siri era la verità per loro. Io conoscevo benissimo queste situazioni. Ho fatto in modo che il cardinal Siri desse l’avallo a quell’interpretazione del film che avesse una giustificazione di carattere morale. Essere il capo della CEI era anche un fatto di parapolitica, di sacra politica. La parola di Siri condizionava tutto l’apparato politico perché era il capo di tutti gli uomini cattolici, tra cui i politici. D - Era un potere limitato al cinema o era esteso a tutta la cultura? R - A tutta la cultura perché il capo della CEI presiede a quello che è il mondo culturale italiano. Qui c’è il bene, lì c’è il male, qui il giusto, lì c’è l’ingiusto. D - Dopo La Dolce Vita i comportamenti cambiano però. Le accuse rivolte a Fellini non ottengono risultati pratici

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L’ITALIA DI FELLINI

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R - Sulla Dolce vita non si è mai scritto tutto e hanno detto molte panzanate. La dolce vita era un film del tutto nuovo. Che cosa ha fatto Padre Arpa? Ha fatto vedere al Cardinal Siri privatamente in una sala dove insegnava una sera La dolce vita spiegandoglielo dal punto di vista della struttura. Ricordo che Siri disse queste parole: “Ė un film da far vedere ai teologi nelle scuole” Dopo, ho dovuto scrivere una lettera autografa al presidente Gronchi per dire che era vero che Siri aveva approvato il film nella serata in cui era con me. Questo ha bloccato la censura italiana oltre alla censura cattolica che lo ha inserito nella categoria adulti con riserva. Questa è tutta la storia. Dopo che Siri ebbe visto con me privatamente il film, io l’ho portato al centro S. Fedele con l’avallo della CEI. Allora Taddei era a Milano mentre io ero a Genova. Gli ho fatto vedere il film. Ci fu un padre che disse “il film approvato dalla porpora” che era il cardinale. La battuta ha avuto eco sui giornali. A quel punto ci fu la reazione. Sia Taddei, che Padre Arpa hanno avuto un anno di silenzio imposto dal Sant’ufficio. Taddei ha avuto i suoi guai, il direttore di S. Fedele fu spedito altrove. Il card. Montini aveva già fissato una visita con Fellini e me. Dal Vaticano è arrivato lo stop e non ci ha più ricevuto. Questa è la storia vera, di cui l’attore principale sono io. Tutte le altre cose sono coreografie. D - Come mai questa punizione nei suoi confronti? R - Dopo l’intervento di tutto l’apparato della nobiltà nera vaticana il film fu di nuovo rimesso vietato per tutti. È uscito sul quotidiano dell’Azione Cattolica in prima istanza vietato, in seconda istanza adulti con riserva, in terza istanza, per intervento diretto della segreteria di stato, di nuovo vietato per tutti. D - Era anche una lotta intestina all’interno della chiesa italiana? R - Chiaro. Della nobiltà nera vaticana.

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INTERVISTA CON ANGELO ARPA

D - Negli anni sessanta la debolezza dell’esecutivo ha portato ad una serie di compromessi. Da una parte l’ideologia marxista che proteggeva un certo tipo di cinema….. R - Il neorealismo. La dolce vita ha rotto l’incantesimo del neorealismo tanto che ci fu un conflitto radicale tra Rossellini e Fellini. Dopo La dolce vita l’amicizia tra Fellini e Rossellini venne interrotta perché Rossellini ha visto il suo allievo partire per una sua strada totalmente libera e piena di prospettive. Non si sono più parlati da allora, per dire a che punto si era arrivati. D - E sì che Rossellini non era un alfiere del neorealismo, lo aveva già abbandonato. R - Però era una sua creatura. D - Queste reazioni sono dovute al fatto che la Chiesa aveva paura di perdere il controllo sulla popolazione che stava cambiando a seguito delle trasformazioni economiche. Prevalse l’atteggiamento di condannare tutto. R - Certo. Per evitare che si creasse anche una sola ipotesi di cambiamento D – Appare allora evidente il collegamento diretto tra la censura di stato e la Chiesa R - Si sapeva che c’era un legame stretto tra il Centro Cattolico e la Segreteria di Stato. Si può scrivere tranquillamente. Quando La dolce vita fu di nuovo condannata c’è stato questo intervento molto deciso di alti poteri vaticani. Guarda la scena della Dolce vita con la vecchia principessa che mette in riga i suoi per andare a messa davanti a tutti quanti stanchi della nottata. La chiesa non aveva piacere perché era la critica ad un sistema che stava ormai esaurendosi. D - La nobiltà nera era come quella del film Roma? Era un mondo che stava scomparendo?

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L’ITALIA DI FELLINI

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R – Certo. Tuttavia messo a livello pubblico, stava a scoprire, no? Chi ammette di avere un cancro? No sto bene, risponderà. E poi la chiesa ha lo spirito santo con sé, cosa vuoi fare? Ti pare? Nessuno ha mai fatto la storia completa della dolce vita. Io non l’ho voluta fare perché non voglio contaminare questo mio spazio interiore, casomai si farà in seguito. Ma è tutta da rivedere la storia della Dolce vita. Hai i due lati estremi in questo film che convergono: politica e religione. Mi spiego. La sinistra allora era una sinistra radicale, quindi potere e verità erano uniti. Dall’altra parte, sappiamo cos’è la Chiesa, diciamo così, gerarchica: è potere e verità. I due elementi si sono incontrati e in questa opera di Fellini sono stati accusati. Tutti e due hanno reagito in contemporanea. Perché tutti i giornali compresi i grandi critici tra cui… D – Aristarco? R – Sì. Oh, che notti ho fatto con Aristarco, che dibattiti! Con lui ho avuto dei conflitti. Ad un certo punto mi ha detto: “Lei è troppo intelligente per poterla criticare.” “No, non sono troppo intelligente, è che non vuole accettare il confronto.” Dopo il film io fui attaccato dall’Osservatore Romano che è uscito con otto articoli, otto! Il conte Della Torre, che era il direttore del giornale vaticano, ha detto: “Quel Cagliostro di Fellini ha turbato anche l’equilibrio interiore di quell’uomo dolcissimo e intelligente che è padre Arpa. Quando io andai a parlare con lui gli dissi chiaramente: “Caro conte, lei ha toccato le corde dell’arpa che sono delicate. Cosa può dire?” “No, dico le mie osservazioni…” E io: “Lei ha visto La dolce vita, vero?” “No” “E come ha fatto a scriverne?” “Ma c’è bisogno di vedere le porcherie per parlarne?” Questo non si può scrivere ma è verità assoluta. D - Non si può scrivere? R - No.

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INTERVISTA CON ANGELO ARPA

D - Lei è indicato come l’esperto di Fellini per le questioni di natura spirituale. R - Non spirituale. Io ero amico di un uomo che aveva bisogno di complicità anche per le sue proiezioni a livello artistico. È stato un caso eccezionale. D - C’erano personaggi che si appoggiavano agli ambienti ecclesiastici? R - Ma certamente! Le piccole mafie sono dappertutto. Anche adesso la chiesa cattolica italiana ti condiziona. Cos’è la CEI? Questa è una realtà. Adesso perde quota ma, scusi la parola, se ne frega. Il potere c’è finché amministra la paura. Quando cadrà la paura e cadrà …. Io ho scritto un testo Papi e papato nel terzo millennio dell’era cristiana su questo tema. D - I giudizi della CEI erano giudizi di opportunità, allora non erano un valore culturale in sé? R - I giudizi non erano legati al valore in sé, ma a ciò che provocava all’interno di un sistema di valori guidato da un potere. D - Lei ha già accennato ad Aristarco. Quali erano i rapporti tra critica marxista e critica cattolica, filogovernativa. Come si strutturavano questi due mondi? R - La vertenza non era tanto sul cinema, questo è il punto chiave, era su quali problemi il cinema apriva. Non era tanto legato al valore ontologico del film, ma perché quel film con le sue idee, le sue proposte sradicava questa radicalità. Era un’ambiguità all’interno della critica cinematografica perché non era il valore in sé del cinema come tale, non si rifletteva sul linguaggio, ma sul fatto che il cinema provocava discussioni o analisi su valori che erano quelli che erano. Questo è il fatto. Bisogna distinguere tra valori e linguaggio. Mi spiego: allora si mettevano insieme

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L’ITALIA DI FELLINI

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linguaggio e valori. Si condannava il linguaggio valido perché il valore era contrario e viceversa. D - In quegli anni scompare Pio XII e il suo modo di intendere la chiesa. Appare Giovanni XXIII con la sua carica di novità. R - L’elezione di Giovanni XXIII è stato diciamo un imprevisto. Quando l’hanno eletto, i cardinali erano ridotti a pochissimi perché Pio XII aveva l’idea di eliminare per sempre il cardinalato dalla chiesa. Papa Giovanni, invece, l’ha aumentato. Tanto non si può eliminare, aumentiamo in modo di creare spazi alternativi all’interno della chiesa. In questo senso Giovanni ha fatto quello che nessun altro poteva fare essendo estraneo ai nobili della curia. La storia di Papa Giovanni è molto particolare. Lui era uno storico che aveva un certo peso, però dal punto di vista diplomatico il Vaticano non l’aveva considerato. Ed era sempre stato in Bulgaria, in quei paesi. Ad un certo punto gli arriva dalla Segreteria di Stato la notizia che era stato eletto nunzio a Parigi. Lui è andato a Roma alla Segreteria di Stato chiedendo chi avesse avuto quell’idea. Era stato Pio XII che aveva avuto un conflitto con De Gaulle. L’episcopato francese viene eletto con l’approvazione del governo francese. Pio XII voleva togliere questo potere al potere politico francese. De Gaulle si era opposto. Papa Pacelli si era talmente irritato per la risposta di De Gaulle che gli ha mandato un contadinotto. Poi Roncalli è diventato cardinale, è andato a Venezia. D - Controvoglia quasi. R - Sì, ma nessuno poteva prevedere… Io che ero molto amico di Siri, quando l’hanno fatto Papa, gli ho chiesto chi fosse questo Roncalli. Lui rispose che sarebbe stato lì due o tre anni, che non avrebbe dato fastidio a nessuno. Poi è arrivato il Concilio Vaticano secondo. D - Che ha stravolto tutto. Dopo è arrivato Montini.

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INTERVISTA CON ANGELO ARPA R - Montini è stato trent’anni e più nella curia. D - Conosceva tutto.

R - Non solo conosceva, ma quando uno sta così tanto tempo è anche ricattabile. Allora, quando dal Vaticano è arrivata la marcia indietro sul film di Fellini, lui si è ritirato. Fellini ci è rimasto male per questo. D – Non poteva neppure incontrarlo? R - Fellini era un mostro. Certo, sono film che rivisti adesso, come storia, sembrano incredibili. D - Si avvertiva nel tessuto sociale la divisione per blocchi. R - Certo, il blocco contrario era marxista. In questa vicenda, paradossalmente, marxisti e cattolici erano uniti contro il film perché aveva spiazzato tutti. C’era una radicalità a livello psicologico, prima che intellettuale, da una parte e dall’altra per cui erano incompatibili. D - In diverse opere felliniane degli anni cinquanta ci sono scene legate all’aspetto religioso popolare. Nello stesso periodo ci sono però il calo delle vocazioni sacerdotali, un calo di attenzione verso la religiosità. Di fronte a questo Pio XII ha incoraggiato il rito mariano. Le cose sono legate? R - Chiaro. Anche questo Papa, se hai visto il suo stemma…… D - Il rito mariano cala con l’arrivo di Papa Giovanni. È conseguente. R - Si, certo. Dove c’è la crisi, è la mamma che salva. D - Mi può parlare delle Tentazioni del dottor Antonio?

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L’ITALIA DI FELLINI

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R - È stata una risposta critica alla chiesa. D - Il personaggio di Peppino de Filippo è disegnato su molti personaggi, tra cui Oscar Luigi Scalfaro? R - Sì. D - C’era anche Gedda, il potente capo dell’Azione Cattolica? R - Sì, certo che c’era anche Gedda. Gedda forniva alla Democrazia Cristiana i suoi uomini per diventare ministri, deputati, era tutto un intreccio. D - Perché è stato scelto De Gasperi e non Gedda? R - Il Papa non ha scelto De Gasperi, se l’è trovato. D – Dopo gli anni cinquanta Fellini abbandona l’analisi di questi fenomeni. R - Anche lui ha fatto un cammino. Come si è liberato da questo amarcord, da questo pregresso, si è liberato per impatto da un cattolicesimo che era una forma di blocco, nel senso della sessualità. Dall’altra parte c’erano queste manifestazioni popolari in cui si riuniva tutto, anche la canaglia che aveva bisogno di scontare i propri peccati. L’aspetto popolare in Federico era legato sempre al concetto di peccato e il suo temperamento di artista tendeva a liberarsi da queste paratie della sua esistenza, del suo sviluppo esistenziale che però hanno lasciato in luce anche una certa tenerezza. Allora c’è la tenerezza critica, c’è la carità. Arpa legge un altro brano per spiegare Fellini. Il titolo è La religione e la religiosità. A modo suo Fellini credeva in Dio come credeva che la vita ha un senso quindi una luce, che l’uomo è solo ma non è

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INTERVISTA CON ANGELO ARPA

abbandonato, che il tempo è tutto ma non è l’unica realtà, che il pensiero è dono, ma è la poesia che lo esalta. Dunque Fellini era religioso? Come ogni italiano. Nato e cresciuto con la religione cattolica, Fellini era cattolico ma l’universo religioso di Fellini si è via via allontanato in una religiosità meno qualificata, perciò è passato dall’idea di vero all’idea di senso, dal mito all’incolto, dall’immanentismo orientale alle ridondanti e trascendenti proiezioni del mistero. In questo senso Fellini non ha mai conosciuto l’insecchimento del non credente, tanto meno la sufficienza del cosiddetto spirito laico. Quanta chiacchiera heidegerriana sulla stampa italiana a proposito della morte cristiana o meno di Fellini e quanto povero è il mondo laico se si riduce a difendere la sua libertà con queste paure. Il laicismo non rifiuta il sacro e non bandisce il normale proiettarsi entro se stessi. E piomba qui Steiner della “Dolce vita”, un narcisista che si trova a proprio agio sia con le fughe di Bach, sia con il sensorio della natura, il vento, la pioggia, il tuono, il canto dell’uccello notturno registrato su nastro magnetico. Che spaesamento in quelle note e che notte in quegli spazi senza stelle. Dice Federico “Credo che nella vita ci sia molto di più di quanto conosciamo e conosceremo mai: religione, misticismo, destino, fato, la cosiddetta terra dell’ignoto. So che mi hanno deriso perché ho detto che mentalmente sono aperto a tutto: Cavazzoni, lo zen, da Jung alle sfere di cristallo. Ma quello che mi affascina è la promessa della realtà, testimonianze invidiabili di una religiosità proiettata oltre se stessa come una vela a mare aperto.” R - Questo chiude lo spirito religioso di Federico. Quante volte abbiamo parlato con Federico. Lui sapeva benissimo che io sono un uomo religioso al di fuori dagli archetipi i quali hanno codificato un dio antropomorfico che si arrabbia, si pacifica. E molte volte si parlava di materia religiosa e della chiesa. Mi diceva: “Vedi Angelo, con tutti i limiti che ha questo mostro, questo orrido corpo della chiesa, esso svolge una sua missione nel senso che l’uomo non può vivere senza la proiezione di se stesso.”

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Intervista con Titta Benzi del 24 aprile 1995

D - Qual è stata la reazione dei riminesi, della gente comune ai primi successi di Fellini, agli Oscar che pare non interessassero molto? R - In effetti, il nemo profeta in patria non è mica una balla. Prima di tutto perché lui era schivo di manifestazioni di giubilo e di battimani. Rimini era allora un borgo. Pensi che quando veniva a Rimini la prima persona che veniva a trovare ero io e mi tirava i sassi alla finestra urlandomi: “Dormi pataccone?” E non voleva passare per il Corso, cioè la strada principale mostrata in Amarcord nella scena in cui le puttane passano in carrozza per farsi vedere. Io gli dicevo: “Patacca, perché non passi per il Corso?” e lui: “Perché poi magari pensano che passi per farmi vedere.” Federico era un uomo molto timido, schivo degli applausi. Penso che sia andato un’unica volta a ricevere dei premi oltre che a Los Angeles nel 1993 quando era già messo male con la salute. È andato assistito da cinque medici. Aveva questo aneurisma dell’aorta che l’ha portato per conseguenze successive alla morte. È andato una volta a Tokio perché c’era un premio di 150 milioni e non poteva lasciarlo là. Sicché, non è che Federico non avesse in amore Rimini perché in moltissimi dei suoi film c’è sempre il periodo felice della sua giovinezza. Era la sua timidezza che lo portava a far gabellare, viceversa, per superbia l’opinione dei cittadini. Solo da ultimo quando era stato male in quei 5 giorni in cui fu a Rimini tra il 28 luglio, quando arrivò da Zurigo dove era stato operato, e il 2 agosto, quando gli prese l’ictus al Grand Hotel, portandolo in giro, la gente lo toccava, lo applaudiva, chiamava gli altri perché venissero a fargli festa. Il riminese è fatto così. D - Ha raccontato la Rimini dei Vitelloni negli anni cinquanta… R - Ma Federico non c’era già più. I vitelloni sono tutti episodi antecedenti.

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INTERVISTA CON TITTA BENZI

D - Ma li inserisce nella società degli anni ’50. In Fare un film dice che l’Italia è rimasta allo stato di infantilismo tipico dell’anteguerra. Mi interessava sapere la mutazione di Rimini che passa da città distrutta a città del turismo. R - Ha avuto la mutazione per cui si è passati dal turismo delle pensioncine familiari, che era ancora gradito ai turisti, a quello moderno. L’evoluzione si è fatta perché il turismo ha fatto dei passi avanti anche come richiesta. Da quell’economia spicciola e da un rapporto più solidale tra i cittadini, si è passati viceversa alla Rimini di oggi. D - Era molto interessato ai personaggi emarginati, buffi. R - A dei poveracci, insomma. Giudizio ha fatto la guerra, o almeno diceva di averla fatta. Federico è stato molto felice quando ha parlato di sé in quegli anni. Io e lui studiavamo insieme, studiavo poi solo io perché lui non apriva un libro. Lui mi stava a sentire, suonava il mandolino intanto. Io andavo a casa sua a preparare i compiti. Alla fine lui diceva: “Mi hai rotto i coglioni abbastanza, adesso andiamo un po’ a spasso.” E compivamo quelle che lui chiamava le avventure. Che erano anche atti delinquenziali: rubavamo della roba. Ad esempio, c’era una signorina che telefonava sempre ai vigili quando noi giocavamo a pallone nelle piazzette qua attorno. Allora, arrivavano i vigili in bicicletta con i gambali di cuoio, e ci portavano via la palla. Era una modesta palla di gomma, ma per noi che eravamo in bolletta era terribile. La nostra infanzia è stata in bolletta. Una delle nostre avventure era andare a pisciare da qualche parte perché mingere è stato sempre un fatto importante nella vita di Federico. In Amarcord facevamo la pipì a scuola. La facevamo anche nella tasca del nostro amico davanti, Pistolone D’Ambrosio. Si chiamava pistolone perché ci ha portato per la prima volta al Casino. Era uno che aveva già i calzoni lunghi e il cappello a 15-16 anni. Aveva avuto un’evoluzione nel vestiario diversa dalla nostra che portavamo ancora i calzoni corti. Le avventure. Anche nell’ambito di queste mascalzonate era un individuo che si dimostrava creatore di vicende, sempre da un

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L’ITALIA DI FELLINI

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punto di vista buffo, ironico. Federico ha molta ironia nei suoi film, un’ironia buona. Le voglio raccontare un episodio degli ultimi anni della sua vita. Un giorno, era nel 1992, tornando a Roma, Giulietta voleva passare da Pescara per mangiare i maccheroni alla chitarra a L’Aquila. Facciamo l’autostrada Rimini Pescara, Federico telefona alle sorelle, si chiamava Le tre sorelle il ristorante o qualcosa di simile, per sentire se è aperto. Invece era chiuso. Decidiamo di andare a Chieti al ristorante Venturini dove sapevo che si mangiava bene. Arriviamo nel locale, pieno di gente. Appena riconoscono Giulietta e Federico naturalmente battimani ed esclamazioni. Allora, lui dice subito: “Togliamoci dal cazzo che io in questo casino non ho voglia di starci.” Il proprietario gli si è quasi buttato ai piedi. Federico ha visto un chiostro seicentesco appartato e gli ha chiesto se poteva apparecchiare lì. Mangiamo, beviamo. Alle 4 si sente una campanella, sono i bambini che escono dall’asilo vicino. Una donnetta che ne tiene due per mano guarda dentro e riconosce Federico e Giulietta. Cauta, cauta, ma decisa si avvicina e dice: “Ma non potrebbe fare per piacere a questi bambini…..”. Io le do un Resto del Carlino con un po’ di spazio libero. Lui chiede come si chiamano i bambini poi scrive “Ad Alessandro e Cristina, con simpatia Federico Fellini.” Lo porge alla donna e le dice “Sono 200 mila.” Questa qua finge di intascarsi il grembiule poi mormora dispiaciuta “Io non li ho adesso….” Lui ha riso, poi l’ha accompagnata fino alla fine del portico sottobraccio e le ha dato la mano. Ecco perché dicevo l’ironia gentile. Comunque, Federico l’ho abbandonato quando è partito per Roma. Allora non era come adesso che si viaggia con naturalezza, era una mezza impresa. Io avevo avuto solo mio nonno che era andato a lavorare a Roma a piedi. Che è poi il nonno di Amarcord. D - Suo nonno era esattamente così come raffigurato in Amarcord? R - Tutti siamo stati fotografati da Federico, anche il mio povero padre. Anzi, lui voleva che facessi io la parte di mio padre. Era seduto dov’è lei e mi diceva “Vieni pataccone, fai la parte di Ferruccio. Chi cazzo la può fare meglio di te la parte di tuo

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INTERVISTA CON TITTA BENZI

padre?” Poi mia moglie ha cominciato a dire dello studio, che non potevo lasciarlo…. È venuto due o tre volte anche con i produttori, anche con Mein, un coproduttore che poi è diventato suo amico intimo. Piangeva ai suoi funerali a Roma, al funerale suntuoso di stato celebrato a S. Maria degli Angeli. Federico era un individuo che viveva quasi sempre sul passato, sui ricordi riminesi autobiografici. Tentò di liberarsene con Amarcord, ma per me la sua produzione successiva non è stata così felice. D - Fellini rappresenta con i suoi film l’incarnazione dell’italiano vero poco interessato alla politica…… R - Lui se ne fregava, non ci credeva. D - Religioso, ma poi non così tanto. R - Lei ha colto i lati veri di Federico. Lui era soprattutto un grande egoista, se lo ricordi, ma nel senso buono. Nel senso che voleva della sua vita fare quello che voleva. E aveva trovato un argomento buono per fare il regista. Non ne ha fatti moltissimi di film. Non era di quelli che si buttano per fare quattrini perché non gli è mai importato nulla del denaro. In un mondo che viceversa si calpestava per racimolare più quattrini possibili, in quell’ambiente soprattutto. A lui del denaro non è mai interessato. Gli interessava non fare niente se non voleva fare niente. Fare se voleva fare. Quando decideva era un terremoto, sulla scena era un uomo attivissimo. D - Quando diceva che l’italiano è immaturo e infantile, raffigura se stesso vedendosi come la figura di un normale italiano medio. R - Diceva una cosa dell’italiano medio: ogni italiano è un ottimo attore, basta saper cogliere il carattere. Se tu individui la tendenza naturale di questo individuo e lo incammini in una parte che percorra queste tendenze connaturate, è un grande attore.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D - Non aveva un rapporto buono con il denaro. I produttori che lavoravano con lui erano diversamente molto interessati ai soldi. Che tipo di rapporto ne veniva fuori? R - Era un rapporto di conflitto a causa del principio che lo animava da quando andavamo a scuola fino all’ultimo della sua vita. Il suo interesse principale era fare in ogni momento quello che voleva lui. Andava all’albergo Patriarca di Chianciano, mi viene in mente alla rinfusa, e mi diceva: “Vieni, non stare in questo casino. Vieni che andiamo a pisciare nel bosco. Ma cazzo, non lo sai che c’è il ghiro che viene a vedere!” Secondo lui, quando si andava a fare pipì nel boschetto vicino a quell’albergo, il rumore che faceva la pipì cadendo sulle foglie secche richiamava l’attenzione di questo ghiro. E lui rimaneva affascinato dallo sguardo di questo animale. Si affannava alla dolcezza di queste cose piuttosto che al denaro. D - I produttori ci hanno marciato su di lui. R - Ma lui li assassinava. Federico non aveva intestato neanche un francobollo. Giulietta era la sua amministratrice, curava tutto. Federico non aveva neppure più la macchina da venti anni, non fumava. Ci teneva ad essere vestito bene, questo sì. Lui ricercava solo questo. Quando ebbe il coraggio di cominciare a girare Il viaggio di G. Mastorna, che è poi una riproduzione dell’Iliade e dell’Eneide, cioè un mortale che va a far visita all’oltretomba, non aveva una sceneggiatura perfetta, inventava molto lì per lì. Lui non aveva mai una sceneggiatura perfetta d’altro canto. Cominciò a girare il film. Mi diceva che non sapeva come andare avanti. Gli avevano dato 200 milioni, ma lui non aveva più idee, stava uscendo un pastrocchio. Finché trovò la ragione per non farlo più. Disse che, secondo lui, prima di andare nell’Averno Mastorna va a vedere il bagno degli angeli a Rawalpindi. E allora disse che bisognava andare a Rawalpindi e questi lo mandarono a quel paese. De Laurentis tentò di fare un’azione, ma lui non aveva niente… D - Come erano questi produttori?

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INTERVISTA CON TITTA BENZI

R - La strada l’ha fatto con Amato perché è stato l’unico che ha tollerato Giulietta come protagonista. Giulietta non era niente allora sul piano cinematografico. Aveva fatto qualche particina quando Federico era al Marc’Aurelio. Un produttore voleva che la parte la facesse la Lollobrigida. E lui diceva che era la parte di una poveraccia, una figura simpatica, ma scioccherella, ingenua che credeva a tutte le cose. “Questa parte la deve fare Giulietta che è fatta apposta.” diceva E nessuno lo voleva produrre. Lo fece Amato, ma ricordo che Federico percepì per quel film 5 milioni e basta. La strada è una delle favole più seducenti. D - In La strada c’è la scena del matrimonio in cascina. Sono i suoi ricordi? R - Sì, certo. Come la scena dei bambini che fanno il bagno prima del sonno in Otto e mezzo. Questo era della nostra Romagna. Tutti ricordi suoi, ma c’è anche la tristezza di non avere figli, Pierfederico…. (si riferisce al figlio di Fellini morto prematuramente n.d.A.) Federico, che divertente! Da ultimo, mi aveva riempito di gioia la prospettiva, tanto per dire come è rimasto legato alla sua città di allora, quando mi ha detto: “Ma poi che cazzo vado a fare adesso a Roma? I film non si fanno, nessuno ti paga. E poi che fai i film se non li va a vedere nessuno? Magari piglio un appartamentino qua a Rimini..” E io lo infuocavo. Poi, poveraccio, due o tre giorni dopo……… Io lo andavo a trovare due o tre volte al giorno in ospedale e mi rimproverava perché ero andato in giro. Era avvilito. D - Negli anni cinquanta sentiva l’entusiasmo della gente, nonostante la critica avversa? R - Io non l’ho mai sentito lamentarsi. Dopo che aveva fatto un film se ne liberava completamente, intellettivamente. Io gli chiedevo: “Beh, come va?” “Che cazzo vuoi che me ne freghi. Io l’ho fatto e adesso non è più un problema mio.” Lui la percentuale sugli incassi l’ebbe solo per La dolce vita che continuavano ad

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L’ITALIA DI FELLINI

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arrivargli i soldi dagli eschimesi fino all’ultimo. Nei riferimenti che fece a me, Federico solo una volta mi manifestò un’emozione violenta per il plauso. Quando cioè andò a Mosca e fu premiato per Otto e mezzo. Mi raccontò che c’erano state 8.000 persone che l’avevano applaudito per 40 minuti. “Credi – diceva - è stata una cosa enorme, indimenticabile. L’idea che noi avevamo dei russi era di gente di un altro mondo, di là dalla cortina. Vedere che avevano capito la mia idea, il mio modo di pensare e mi applaudivano tanto, mi commosse.” Per il resto rifuggiva dal plauso. Non mi parlava mai degli altri registi. Odiava il ministro Preti. Diceva “Non ho voluto fare un film con Addio giovinezza scritta da lui, ma vaffanculo!” D - Ha ricevuto pressioni da parte dei politici? R - Non credo. Quando io dovevo tenere il tribunale di Rimini, seppi che a casa sua ci andava Leone con cui avevo avuto rapporti professionali che me lo dipingevano come il presidente che poi è stato. Aveva rapporti anche con i comunisti, socialisti, tutti quelli che riteneva fossero utili al suo lavoro. D - Con Le notti di Cabiria lui ha avuto l’appoggio di Siri. R - Ecco, allora lo trovai servizievole. Negli ultimi tempi poteva far quel che voleva. Poteva telefonare al Papa direttamente, ad Andreotti che era suo amico. Dopo le gravi accuse, mi chiedeva che cosa pensavo di Andreotti. Io gli risposi che non sapevo niente. Lui non aveva resistito e gli aveva mandato due righe di partecipazione al suo dolore. Andreotti gli era stato molto grato, gli aveva telefonato. D – Che ricordi ha della Dolce Vita? R - Dopo La dolce vita nelle parrocchie hanno cominciato a dire che era il demonio. Tant’è vero che quando mi recai con mio figlio Federico appena nato per il battesimo, Don Campana, il parroco presso il quale dovevamo andare a fare il sacramento, appena saputo che era lui il padrino mi disse: “Ma è matto, ma lei mi porta

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INTERVISTA CON TITTA BENZI

proprio un individuo……” “Senta, facciamo poche pugnette Don Angelo, perché a casa un po’ di sale e acqua ce l’ho anche io.” Risposi. “Ma no, per carità. Ma sa il Credo?” domandò don Angelo “Se non lo sa, glielo insegna lei.” Mi ricordo che era commovente Federico con questo fantolino grasso in braccio mentre recitava il Credo. D - Ci sono state interrogazioni parlamentari nei suoi confronti, atteggiamenti contrastanti? R - Se ne fregava. Non gliene fregava niente. Io l’ho sentito fare solo dei rimproveri a me se difendevo gli spacciatori di droga. D - Andreotti fece una famosa lettera contro il neorealismo. In quell’occasione firmò un appello contro la censura per un film di Germi. È uno dei pochi atti pubblici che ha firmato. R - Ma fece anche causa contro Berlusconi e la perse. D - Sì, più recentemente. R - Infatti, in Ginger e Fred c’è un accanimento contro di lui. D - Per La dolce vita fu denunciato, attaccato. Affrontava tranquillamente queste cose? R - Sì, sì. Era un individuo a soggetto, cioè per lui contava tutto quello che gli piaceva. Anche stare una mezza giornata io e lui insieme senza dire una parola… o fare trenta volte in una notte Rimini e Riccione sulla litoranea. Per me era un godimento perché era un uomo veramente divertente, interessante anche nelle sue contraddizioni. Un giorno diceva “Finalmente i ragazzi anche in età minorile accampano diritti nei confronti dei genitori. I genitori che li vogliono percuotere. Siccome sono loro che ti hanno generato… questi stronzi.” Il giorno dopo andavamo in macchina e c’era un ragazzo che attraversava la strada e lui subito “Questi ruffiani, maleducati.” Non voleva essere turbato nel suo mondo.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D - In questo era completamente italiano. R - Sì, sì.

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Intervista con Liliana Betti del 14 settembre 1995

D - Vorrei sapere quali ambienti culturali Fellini frequentava negli anni sessanta. R - In Giulietta degli spiriti lui ha svolto delle ricerche nel mondo esoterico, ha incontrato parecchia di questa gente. C’era uno che si chiamava Talamonti, ha scritto anche dei libri, che gli aveva fatto molte ricerche su questi argomenti. Per lui, però, era solo un filo che prendeva in mano per creare. Io ho lavorato solo con lui per molti anni e dopo non ho conosciuto tanto del cinema perché tendo poi a lavorare continuativamente solo con una persona. Dopo di lui ho fatto gli ultimi tre film di Ferreri e la commedia all’italiana con Oldoini. D - Che rapporto aveva con i produttori dei suoi film? R - Fellini ha lavorato sempre con grossi produttori. Giulietta degli spiriti l’ha prodotto Rizzoli e a livello produttivo è stato tranquillo. Tutti gli altri (Mastorna ecc.) sono sempre passati tra due o tre produttori. I produttori hanno solo una preoccupazione, i soldi. Dopo La dolce vita Fellini era quello che poteva rinnovare, fare il colpaccio. In America un paio di produttori sono nati sulla dolce vita. Era stato un caso anche dal punto finanziario. Quando iniziavano avevano l’utopia di ripetere il colpo, poi subentrava la diffidenza, invece, perché capivano. Da una parte erano affascinati, attratti e dall’altra diffidavano anche perché poi si era fatto la fama di uno che rifaceva le cose per raggiungere una creatività; per quello che voleva raccontare non guardava in faccia nessuno. Questa cosa anche per lui è andata dilatando nel corso dei film. I costi non erano sempre controllabili. D - La Dolce vita ha avuto grossi problemi di censura. R - Padre Arpa ha avuto un ruolo essenziale in questo. È quello che gli è stato molto vicino, che l’ha portato a Milano da

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INTERVISTA CON LILIANA BETTI

Montini. Credo che Rizzoli fosse molto apparentato, era l’ultimo a cui era rimasta questa patata bollente del film in mano. D - Molti dicono che si era formata una corte intorno a lui. R - Lui era molto curioso delle persone, soprattutto quelle più anomale. Questi si riconoscevano in lui, ma spesso subentrava la delusione. La delusione dell’altro era subordinata al distacco da parte di Fellini che, una volta esaurita la curiosità, tendeva poi a chiudere. Era un uomo dagli interessi incendiari con le persone, sia uomini che donne, aveva una grande curiosità per cui si divertiva. Però dopo un certo periodo di tempo la curiosità si esauriva e lasciava dietro spesso grandi risentimenti. D - Anche Pasolini. R - Anche il rapporto con Flaiano che è stato ricucito, ma anni dopo perché era finito abbastanza male, in modo lacerato. Certo, non sai mai se l’aneddotica più esterna che ha causato la fine del rapporto era un pretesto perché alle spalle c’era già qualcosa d’altro. D - Il rapporto con Flaiano era dato dalla curiosità intellettuale? R - Fellini è sempre stato un isolato. Non frequentava gli intellettuali, li poteva incontrare. Frequentava i salotti da turista. Era incuriosito da uno come Flaiano perché era importante e penso che la loro collaborazione sia stata feconda. D - Come vedeva Fellini la Roma degli anni sessanta? R - Gli anni sessanta sono stati anni di grande vitalità, sono successe anche molte cose a livello sociale, politico come il divorzio. Non è che seguiva Roma …. Lui ne ha scritto quando ha fatto il film Roma in cui si sente una grande affinità. Era l’unico posto in cui potesse vivere.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Si divertiva molto con i romani per il loro grande scetticismo. Sono molto riduttivi i romani. Si divertiva con Roma e i romani, dicendo anche cose molto critiche. D - E lei cosa ricorda dello stesso periodo? R - Non è che uno ricorda, poi dipende sempre molto dalla tua età di allora. Se sei molto giovane ne hai un ricordo, poi con Fellini vivevi in ogni caso dentro uno spazio molto particolare, molto caratterizzato dal suo gruppo, da come si lavorava. Mi sembrava sempre di non stare dentro la città. Stavi sempre, non dico in convento, però un po’ l’equivalente. Stavi dentro una bolla. D - Durante la lavorazione del film? R - Era uno poi che stava sempre o a prepararli o a scriverli o a fare audizioni, quindi il lavoro era una dimensione costante. D - Lei ha assistito al tramonto della Roma della Dolce vita. R - Comincia con il ’68, certamente da un punto di vista politico. In quel periodo io ero di sinistra, ero addirittura maoista, pur non facendo nessun tipo di militanza. Mi ricordo ecco, allora c’era il maoismo, gli anni ’70 e mi ricordo anche le discussioni che sono continuate anche con le brigate rosse, con Moro. Ogni tanto c’erano degli scontri. Mi ricordo che durante il rapimento Moro in un ristorante avevamo avuto un battibecco. Io cercavo non dico di giustificare, ma di dire che se eravamo arrivati a quel punto, la responsabilità era anche della società che aveva prodotto le BR. Lui invece su questo era molto duro, non li capiva e forse aveva ragione. D - I collaboratori di Fellini venivano dalle situazioni più disparate. R - Lui era un personaggio affascinante, ti catturava, ti faceva entrare nel suo mondo. La gente tendeva ad allinearsi, ma non supinamente perché mentre stavi con lui finivi per sposare

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INTERVISTA CON LILIANA BETTI

quel mondo. Ricordo che sulla politica e su certi gusti anche letterari aveva delle chiusure incredibili a volte. A me piaceva molto Beckett allora, per lui era incomprensibile. “Non è un artista – diceva - è troppo vuoto di vita.” Io gli rispondevo che esistevano varie tipologie di artista, che non ce n’era solo una. È stato, insomma, un rapporto, come per tutti, molto nutriente. Io sono stata per molti anni, troppi forse, con lui. Molti stavano poco perché venivano lasciati per strada, mentre invece per venir via ho dovuto veramente creare una situazione di rottura. Diversamente non sarei riuscita normalmente a dire: “Voglio fare altre esperienze dopo 15 anni, questa è chiusa!” Il rapporto personale era sempre molto vivo, lo è rimasto anche dopo, anche durante gli anni in cui non ci siamo visti. I primi anni poi si viveva praticamente insieme. Mi aveva regalato una seicento, lo portavo in giro. Si stava insieme dalla mattina alla sera, io stavo spesso a Fregene a dormire. Già lì avevo sentito il bisogno di allentare questa frequentazione. Ricordo che dopo Giulietta degli spiriti, avevo saputo che Rosi doveva andare a fare un film su Che Guevara. Io, ingenuamente, gli avevo detto di chiedere a Rosi se potevo seguire il film. Mi ricordo che lui si era un po’ risentito, l’aveva nascosto dietro il suo solito modo di scherzare. Mi aveva detto: “Ma tu cosa credi? Che andare in mezzo alla giungla a comandare le comparse sia più interessante di farlo a Cinecittà?” Tanto, poi, Rosi non ha più fatto quel film. D - Come ha vissuto lo scontro ideologico nel corso di quegli anni? R - Non era uno che sposava cause ideologiche. D - Però era un momento in cui tutte le sposavano. Un uomo che non ne sposa affatto è ancora più significativo perché tutte queste ideologie gli passano attraverso, funziona da ricettore. R - Ma questo era un fatto suo anche di visione della vita. Quella di vedere che le differenze esistevano in natura secondo lui. In un’epoca in cui c’era l’idea dell’uguaglianza, per lui tutti gli

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L’ITALIA DI FELLINI

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individui, pur essendo uno diverso dall’altro, erano meritevoli e degni di una grande curiosità, di grande rispetto. Certo, io allora ero molto giovane ed ero obnubilata dall’ideologia, poi la cosa coincideva con i miei problemi personali a livello espressivo. Secondo lui dovevo scrivere. Ho scritto su di lui e poi continuo a scrivere per il cinema, ma secondo la sua testa continuavo a tradire una vocazione: dovevo scrivere libri! Sosteneva che tutta questa passionalità ideologica era un tentativo di compensare o di nascondermi dietro delle credenze collettive perché non volevo guardare in faccia la mia situazione personale, individuale. Questi discorsi sono sempre accettabili in senso generale. È vero che lui aveva ragione in questo, però anche quello che goffamente potevo rappresentare, cioè quell’ideologia, aveva una ragione allora. D - Erano gli anni della Hollywood sul Tevere. Che rapporto c’era tra lui, il cinema italiano e quello americano? R - Come artista è sempre stato solitario. Più ci ripenso… i contatti semmai nascevano sempre da una curiosità nei confronti dell’altro, da chi stava fuori dalla sua identità. Certo incontrava i divi americani, li vedeva perché era già famoso per La dolce vita. D - Era il simbolo dell’Italia all’estero in un momento in cui gli americani colonizzavano l’Italia. R - Dalla Dolce vita in poi si è creato il suo mito, da quel momento la cosa è aumentata con gli anni. Io ho scritto un libro, il primo, che è un suo ritratto. In Italia non è mai uscito; è uscito in Germania con Kehl, l’editore che ha pubblicato tutte le sceneggiature, quello che ha in mano un sacco di roba di Fellini, che la gestisce per gli eredi. È uscito in America, in Francia, ma non in Italia. I rapporti mutano costantemente anche se per me è rimasto un rapporto fondamentale della vita. Ad un certo punto io ero molto in imbarazzo che uscisse in Italia perché è un libro che ho scritto durante i primi 3 o 4 anni. C’era una grande devozione, un grande entusiasmo e un po’ di cose anche ironiche. L’ho

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INTERVISTA CON LILIANA BETTI

recuperato adesso dopo che è morto. Col passare degli anni se lo rileggo….. Io ho scritto un paio di cronache che sono però delle documentazioni in cui viene fuori il suo mondo di lavorare, di rapportarsi agli altri. Adesso, infatti, voglio togliere certe cose che mi sembrano invecchiate a questo ritrattone, cose che mi sembrano invecchiate perché le ho scritte 23/25 anni fa. Certe cose sono state anche ripetute, via via che scrivevano su di lui e quindi sono come invecchiate. E voglio fare una specie di piccola trilogia molto divertente. Una raccolta di aneddoti, avendolo poi seguito molto. Va beh che tutti hanno aneddoti su Fellini, però… A parte che in questo libro io avevo una visione molto cerebrale, però c’era un’analisi di lui anche abbastanza penetrante, molto analitica, a detta pure di altri. Io tendevo ad aggrapparmi a questa analisi per non venire travolta dal personaggio, tendevo a tenere questa distanza del tutto fittizia. Poi seguendolo, certe cose le metti a fuoco. Questa cosa è la parte che è invecchiata di più. Tutto sommato gli aneddoti, invece, conservano il massimo di significato riferito al suo carattere, al suo modo di lavorare. I tre libri. Uno con le lettere poiché ho delle lettere di personaggioni importanti e molte lettere di altre persone. Ci sono lettere meravigliose di gente comune perché Fellini era un personaggio che sollecitava, stimolava, riscattava le anomalie, le follie. Il secondo con i disegni perché io ho molti disegni di Fellini. Molti, insomma, ne ho abbastanza. Sono soprattutto mie caricature però mettendole tutte insieme sono molto significative riferite a Fellini. Sempre molto divertenti, oltretutto. È un mondo se non altro così, in superficie, molto scoppiettante, molto divertente. Io ho avuto una strana vicenda con Fellini. Noi ci siamo scritti per un anno. Io gli ho scritto una lettera, lui mi ha detto che mi voleva conoscere e sono venuta a Roma. Io però in quel periodo stavo lavorando con un mio cugino che aveva una ritorcitura. Una volta a Roma mi ha detto: “Io ti posso garantire soltanto di vivere a Roma, non ti posso pagare. Mettiti davanti ad una macchina da scrivere e fai.” Figurati, ero già venuta a Roma per questo incontro, era una cosa straordinaria. Gli ho detto che non potevo restare. Io sono molto lenta nel decidere e ho

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L’ITALIA DI FELLINI

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sbagliato perché il rapporto sarebbe cominciato su altre basi, chissà come sarebbe andato in questi termini. Io volevo fare regia allora. Uno coltiva un immaginario dentro di sé, poi deve fare i conti con la propria realtà perché magari sei portato a fare un’altra cosa che non quella. Fatto sta che sono tornata su, ci siamo scritti. Io scrivevo letterone chilometriche, le sue erano chiaramente telegrafiche, le ho ancora le sue. Lui mi avrebbe dovuto chiamare per Otto e mezzo. Evidentemente questa corrispondenza, le lettere che io gli scrivevo lo avevano un po’ spaventato perché erano deliranti. Lo capisco. Fatto sta che lui mi dice: “Io non credo che tu sia adatta a stare in una troupe cinematografica.” Lui era uno che quando doveva dirti una cosa spiacevole la camuffava dietro una cosa opposta. Insomma, tutta una sviolinata e io mi incazzai e gli scrissi una lettera durissima. In pratica, l’avevo già messo a fuoco prima di venire a Roma. Lui con me non aveva ancora messo in atto tutte le sue seduzioni e io mi difendevo ancora. Si era comportato male. E allora ricominciava davanti a questa mia risposta. Alla fine di Otto e mezzo, tutto questo è quasi un racconto, sono venuta a Roma e la prima cosa che mi ha detto è stata “Ma perché non sei venuta prima?” Da lì sono stata con lui: ho fatto l’assistente, l’autista, facevo tutto. Io non ci credo per niente che devo scrivere dei libri. Lui si era messo in testa questo perché ha sempre avuto un rapporto molto acceso, molto problematico con gli scrittori, la scrittura. Lui voleva fare lo scrittore. Infatti, ultimamente siccome lavorava meno, si occupava molto degli scrittori, leggeva, sosteneva, promuoveva. D - Mi hanno detto della Tamaro. R - Oh, molto, ma tutti, anche De Carlo. De Carlo poi l’ha molto deluso. D - Perché aveva fatto il libro su di lui? R - Perché gli aveva, in pratica, sottratto un progetto che lui voleva realizzare su Castaneda, su quel romanzo Yucatan.

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INTERVISTA CON LILIANA BETTI D - Ma poi avrebbe fatto un film del genere?

R - Non importa. Fatto sta che paradossalmente Fellini avrebbe dovuto comprare i diritti del libro di De Carlo. Ma come? Quello l’ha scritto perché Fellini l’ha portato giù! D - Anche negli anni sessanta aveva rapporti con gli scrittori. R - Sì, sì, me lo ricordo bene. Quell’aspetto era una zona che interessava anche a me. Ha sempre avuto un rapporto di grande attrazione, di grande fascinazione, quasi di timidezza allora, poi non più. Pensa a Fellini che ha realizzato in campo cinematografico quello che ha realizzato, eppure gli sembrava sempre che lo scrittore fosse di più. Era evidentemente una sua cosa che risaliva ad un fatto personale. Era molto buffo, ma anche molto tenero. D - Gli arrivavano offerte dall’estero? R - Le offerte degli americani erano sempre legate al fatto che lui andasse in America e la cosa si fermava lì. Anche De Laurentis ha tentato a lungo di portarlo giù. D - Da Otto e mezzo in poi si è riferito sempre di più al mondo interiore piuttosto che alla realtà circostante. R - Otto e mezzo coincide e nasce da una lunga frequentazione, anche terapia, con Bernhard, uno psicanalista junghiano che probabilmente in questo senso gli ha spalancato questo mondo. Credo che fosse inevitabile questo sbocco. D - C’era stato un cambiamento nel corso degli anni nel modo di avvicinarsi ai suoi film poiché ha abbandonato la parte più realistica per dedicarsi alla parte onirica? Nella lavorazione del soggetto, nella sceneggiatura?

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L’ITALIA DI FELLINI

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R - La dinamica è rimasta uguale. È variato il tema, il mondo a cui si è dedicato. Non è che Fellini si metteva lì e inventava un film. Era un personaggio che stava sempre dentro ad un flusso ideativo. In pratica secondo me è vero che i primi film erano più realisti, però, in questo senso è stato un artista fortunato, l’incontro con la psicanalisi gli ha permesso di entrare in contatto con se stesso. Per me sono più importanti i film che ha fatto dopo questa svolta. D - Otto e mezzo e La dolce vita sono i vertici espressivi della sua filmografia. R - Però lì siamo già in pieno passaggio. Otto e mezzo è proprio un taglio, anche come linguaggio. Infatti, lui lo ricordava per quello. D - In Amarcord, Roma e I clown parla della sua infanzia. Ricorda qualche aneddoto riguardo la sua gioventù per capire come aveva interpretato questi miti? R - Ne parla anche Kezich. Si inventava molti episodi, anche quello che era scappato di casa. D - Basta vedere i film per sapere come la pensava lui, insomma. R - Era una persona che coincideva perfettamente con quello che rappresentava.

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Intervista con Maddalena Fellini del 24 aprile 1995

D – Può raccontare del suo rapporto con Federico negli anni cinquanta? R - Di quel periodo mi viene in mente che quando mi sono sposata Giulietta non è potuta venire a seguito di una colica ed è venuto solo Federico. Credo che in quel periodo in cui lavorava moltissimo si fosse quasi dimenticato di avere una sorella. Penso che gli abbia fatto un grande effetto venire al matrimonio della sorellina. Ricordo che mi domandava: “Quanti soldi avete per il viaggio di nozze?” Mi ha accompagnata alla stazione dove abbiamo preso il Rimini-Bologna-Verona. Siamo stati al Grand Hotel di Verona e poi siamo andati in montagna. A Federico ho risposto che avevamo molti soldi. A me 150.000 lire sembravano moltissimi, avevo 23 anni. “Non sono mica molti.” diceva lui dal suo punto di vista. Solo in quel momento credo si sia accorto che la sorellina, quella che gli portava via il Corrierino dei Piccoli (per la verità era lui che lo portava via a me) era arrivata all’età di sposarsi. Sono andata a vedere quando girava La dolce vita. Ci sono andata con un mio amico che poi sarebbe diventato quel meraviglioso attore che ha fatto l’Arlecchino, Ferruccio Soleri. Voleva fare l’attore. Era bruttino, piccolino, Glielo abbiamo presentato perché voleva conoscere Federico. Lui l’aveva guardato come fosse una cosa inguardabile, inconsiderabile. Mia mamma gli ha detto: “Sai Federico, questo amico di Maddalena vorrebbe fare l’attore ed ha tanto piacere di conoscerti, di stringerti la mano.” Lui era stato un tempo lunghissimo a guardare Soleri. E invece poi è diventato il più grande Arlecchino di tutti i tempi. Il rapporto tra me e lui prima che compissi 40 anni era stato sempre un rapporto di soggezione. Più che soggezione, che forse non è la parola giusta, non ero in sintonia né in amicizia con Federico e con Riccardo. Questo fatto di avere tanti anni di differenza e poi io femmina loro maschi, mi ha influenzata molto. Non abbiamo fatto le cuscinate insieme come si fa tra fratelli. Io ero molto più amica con tanti altri. Per me andare a Roma a

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INTERVISTA CON MADDALENA FELLINI

vedere Federico girare un film era come se uno decidesse di andare a vedere un film di Sordi o De Sica. Poi, improvvisamente, crescendo e maturando, capendo di più i suoi film, rivedendoli, mi sono sentita immensamente orgogliosa di essere sua sorella. Si vede che c’era da sempre questa sintonia di pensiero e modo di vedere, ma io non ero riuscita a percepirla prima. Sono sempre stata, invece, in straordinaria sintonia con Giulietta fin dalla prima volta che l’ho vista. Ci volevamo molto bene, un affetto che è venuto fuori alla fine. Prima parlavamo di meno, ma l’affetto c’è sempre stato. D - Che peso hanno avuto gli Oscar per i riminesi? R - La gente lo dimenticava il giorno dopo che era uscito sul giornale. Ma anche per Federico i primi non hanno mai avuto nessuna importanza. Tant’è che due di questi cinque Oscar è andata a ritirarli Giulietta. Pensa che ci sono dei premi in Francia che lui non è mai andato a ritirare. Questo ti fa capire la quasi nessuna importanza che lui dava a questi premi. Tutti i premi di Federico sono qua in banca. I premi andranno poi alla Fondazione insieme a tutta la sua biblioteca: 5.000 volumi. Voglio che i giovani studino Federico.

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Intervista con Rinaldo Geleng del 5 giugno 1996

D - Mi può raccontare qualche episodio dei primi anni romani di Fellini? R - Vivevamo insieme stentatamente in una stanza alla pensione California. Pagavamo quando avevamo i soldi. Nel ferragosto del ’41 abbiamo fatto un brindisi per festeggiare. Mentre brindavamo si sono rotti i bicchieri. Fellini si è procurato un grande taglio. Lui bestemmiava. Io gli ho stretto una cravatta al braccio per fermare il sangue e l’ho portato a Piazza S. Silvestro. Io stringevo, ma il sangue usciva ugualmente così si è fatta una scia di sangue. Fellini continuava a bestemmiare mentre io gli dicevo “Non bestemmia’, fai una preghiera che stai per morire dissanguato!”. Alla fine arriviamo alla farmacia notturna, gli danno i punti, la sutura e ritorniamo alla pensione, lui pallido come un morto, io terrorizzato da quello che avevamo passato. Lì troviamo la polizia e tutta la gente in piedi. La nostra stanza, io non me ne ero reso conto, era ovunque insanguinata: il lavandino pieno di acqua e sangue, le lenzuola macchiate. Arrivati, la squadra notturna della polizia comincia a fare domande. Piano, piano ci rendiamo conto che il brigadiere ci aveva preso per omosessuali. Chiedeva: “Volevo sapere perché state tutti e due in una stanza, qui c’è un letto solo.” Allora la padrona della pensione “Brigadiere...” ma questo seguitava “Brigadiere…” e questo continuava a fare domande in modo imperioso. “Brigadiere, questi se so’ fatti tutta la pensione, tutte le ballerine.” La gente non concepiva che due, non avendo i mezzi, dormissero nella stessa stanza. Il problema nostro era quando avevamo le donne da portare. Una volta Fellini mi ha rovinato tutto con una. Si è presentato che io ancora non avevo combinato niente “Damme tempo, no?” gli dicevo io, ma lui mi ha risposto “Ma io c’ho da fare!!” Tra l’altro noi eravamo drogati senza saperlo. Gli studenti di allora e chi doveva lavorare prendeva la simpamina che è una

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

droga! Maccari, Fellini e Piero Poggi lavoravano di notte. Allora per stare svegli prendevano la simpamina. Ma chi parlava di droga allora! D – Ha lavorato al Funny face shop con Fellini? R – Assolutamente no. Io lavoravo con lui prima nelle caricature nei caffè, nei ristoranti. Quando nel ’39 insieme siamo andati a presentarci al Marc’Aurelio eravamo praticamente degli apprendisti. Lui è stato subito stimato perché risolveva certe situazioni umoristiche. Però ci davano due soldi, magari a lui due soldi, a me mezzo perché facevo molto meno di lui. E quindi arrotondavamo facendo le caricature, scrivendo sulle vetrine Buona Pasqua, facendo questo tipo di cose insomma. D – Com’era al tempo il personaggio? R – Era timidissimo! Nel 1941 c’era una rivista di studenti “Baffi 1941” al teatro Quattro fontane. Era una rivista di studenti in cui io avevo fatto i costumi e la pubblicità. Doveva durare una settimana; ha avuto tanto successo che è durata sette o otto mesi. La presentava Mario Riva, che cominciava allora, e Mario Ferretti, il famoso cronista sportivo. Ferretti aveva fatto i testi e la dirigeva. Uno dei pezzi forti dello spettacolo consisteva in questo: un personaggio famoso in platea era illuminato da uno spot, lui si doveva alzare, andare sul palcoscenico e dire due parole. L’idea ha avuto molto successo. Un giorno Ferretti mi chiese di portare Federico. Allora Federico, che nessuno conosceva fisicamente, era notissimo per le rubriche sul Marc’Aurelio. In fondo scriveva per gli studenti con Cico e Pallina o Seconda Liceo. Con un trucco e contro la sua volontà, lo portai allo spettacolo. Quando fummo là feci un segnale con il fazzoletto a Ferretti. Quelli gli buttarono i fari addosso. Federico fu costretto ad andare sul palco dove non riuscì a spiccicare una parola. Tornato al suo posto, bianco come un lenzuolo, mi ha dato un calcio agli stinchi che ne porto ancora il segno. Negli scontri con i giornalisti, invece, diventava un mostro perché azzittiva tutti quanti. Ma se lo mettevi di fronte ad un altro

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problema, all’infuori del suo lavoro, era muto, non riusciva a dir niente. Poteva parlare di letteratura, pittura ma diventava ad esempio banale quando doveva corteggiare una ragazza. Diceva sempre le stesse parole, non inventava più niente. Era proprio timido, nessuno può immaginare quanto. All’ultimo Oscar era traballante non solo per la malattia, ma per l’impaccio nonostante la vicinanza di Marcello e Sofia che erano dei compagnoni. D – Poi c’è stato il matrimonio R - Io mi sono sposato nel giugno del 43, lui a ottobre. Da quando si è sposato con Giulietta lui è cambiato. Mentre prima era un bohemien, Giulietta l’ha inquadrato. Lei aveva una zia molto ricca, che aveva possibilità finanziarie, quindi l’hanno tenuto in casa loro. Giulietta lo ha inquadrato, l’ha messo a posto, l’ha ordinato. Anche nelle foto del matrimonio era sbracato. L’ha inquadrato anche sul lavoro. Si è operato perché lei lo ha spinto a farlo. Giulietta, da donna pratica com’era, gli ha guardato anche la parte finanziaria. Non si occupava dei contratti ma amministrava bene. D – Mi potrebbe inquadrare la Roma dell’immediato dopoguerra quando Fellini faceva lo sceneggiatore? R – In quel periodo si incontrava raramente, si era isolato. Forse stava maturando la decisione di fare il regista. Artisticamente lui era molto, ma molto egoista. Questo è stato un suo pregio. Di fronte al lavoro non vedeva nessuno, non scendeva a compromessi mai. Non sopportava l’intromissione nelle sue idee. Era un po’ sparito dall’ambiente. D – In quel periodo collaborava con Rossellini, era uno dei suoi più importanti collaboratori. R – In Paisà ha girato molte scene. Anche la scena dei partigiani buttati nel fiume, anche il monastero. La scena del monastero è talmente felliniana che non si discute, l’ha ripetuta

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

poi ne La strada…eh le monachine, si ricorda… L’ha girata a Firenze. varietà?

D – Conosceva personaggi che hanno ispirato Luci del

R – Vittorio Senzani. Lui era un fenomeno dell’arte di arrangiarsi, ma mai con cattiveria. Quando faceva una seratina che prendeva i soldi, pagava. Quindi non era un truffatore, era uno che si arrangiava per vivere. Quando la gente andava in estate in vacanza, lui prendeva l’incarico di tenere i cani. Si aggirava con questi tre o quattro cani enormi ai ristoranti. Chiedeva da mangiare per quelle “povere bestie”. Gli davano il pacchetto e lui mangiava insieme ai cani. Era un tipo particolarissimo. Parlava come Tino Scotti, il cavaliere, che gli ha preso molte battute, pace all’anima sua. Se uno gli offriva il caffè, lui rispondeva: “Grazie, la caffeina attira la nicotina!”. Quindi chiedeva anche una sigaretta e lo faceva con una carica enorme di simpatia, tanto è vero che noi ci stavamo molto spesso insieme. È stato un uomo sfortunato per tutta la vita che è morto in un albergo senza che nessuno lo vedesse. Quando è morto Fabrizi piangeva perché sapeva cos’era la vita dell’avanspettacolo per uno che non riusciva. D – Sono stati questi personaggi ad ispirare Luci del varietà? R – Ma come no! Noi abbiamo conosciuto Raffaele Cutolo, quello che ha fatto Dove sta Zazà, che aveva una fame nera. Ad un certo punto ha trovato la sua fortuna perché la canzone, che lui ha scritto nel 1942, non l’ha voluta nessuno e ha dovuto tenerla. Nel 1946 insieme a Cioffi l’ha musicata bene e ha avuto il boom di questa canzone che la moglie, la vedova, ancora adesso ci vive con i diritti d’autore! Fino ad allora vendeva per campare ai comici canzoncine e tiritere. Loro le prendevano, ci mettevano la firma e incassavano i diritti. Cutolo ha fatto tante di quelle canzoni… Tutte le tiritere dei grandi comici napoletani le ha fatte lui, quasi tutte.

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D – Perché questa gente ha deciso di diventare artista d’avanspettacolo? R – Se uno nota, sono quasi tutti provinciali con il sogno del sesso, vicino alle ballerine che si concedevano tutte. Era una vita da nomadi. I giovani d’adesso vedono le ballerine che dopo le Bluebell sono diventate tutte belle. Ma nessuno si ricorda cosa erano le ballerine d’allora. Quando noi vedevamo le riviste di Wanda Osiris con le soubrettine restavamo meravigliati. Le altre erano strappone, come le chiamavo, delle ciccione che si perdevano i grassi, che andavano fuori tempo. Erano uno spettacolo magnifico solo a vedersi, c’era da morire dal ridere. Se uno pensa a Roma, al gatto morto che Federico fa buttare dalla platea, quello succedeva anche al Cola di Rienzo, al Principe dove c’era l’avanspettacolo serio. Io ho visto tanti gatti morti addosso a Rascel che quello, poveraccio, se li sognava anche di notte. All’inizio Rascel non faceva ridere nessuno, la sua comicità avanzata tipo Ė arrivata la bufera, faceva piangere. Gli urlavano di andare a lavorare. È uscito fuori quando ha cominciato a mantenersi le musichette sue. D - Quando scompare l’avanspettacolo? R – Con la grande rivista. L’avanspettacolo era fatto di numeretti, messi insieme in qualche modo. Tutti questi comici si incontravano alla Galleria Colonna. Uno diceva: “Voi fa’ ‘na serata a Salerno?” “Quanto me dai?” “ Te do la metà.” Poi magari andavano a Salerno e non pigliavano manco i soldi. D – La scomparsa di questa forma di spettacolo avviene allora nel dopoguerra? R – Nel dopoguerra c’era ancora qualche cosa. Già c’era stato il boom della rivista con la Osiris e Macario. Al Colle Oppio Rascel ha tentato la prima volta la grande rivista e ha fatto fiasco. Nessuno lo capiva perché era la sua era una comicità personale. Lui non puntava come gli altri sulle ballerine, ma sulla cantante del momento che poteva essere Elena Grey, che era la sua amichetta,

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

oppure Tina De Mola, un’altra delle sue amichette. Macario e la Osiris avevano le ballerine. D- Che fine hanno fatto questi personaggi quando è scomparso l’avanspettacolo? R – Certi erano spariti pure prima. Come Senzani che non riusciva a trovare lavoro, ma ci sarebbe da scrivere romanzi su di lui. Una volta si era messo insieme ad una ballerina ungherese che avrà avuto 60 anni. Con lei faceva un duetto al Cola di Rienzo. Lei ballava anche la Morte del Cigno. Ad un certo punto lui mi fa “Mo’ more davero!” perché non stava in piedi. In un’altra occasione io, Fellini, Fabrizi e Tellini andiamo a trovarlo al Cola di Rienzo. Entriamo. In sala c’erano solo tre persone. Lui diceva le battute e questi gli facevano qualche pernacchia. Allora Fabrizi disse: “Andiamo a salutare Vittorio” Federico, di rimando, “Beh, andiamo, ma facciamo finta che siamo arrivati adesso.” Entriamo nel camerino mentre lui si stava struccando. Ci vede e gli prende un piccolo accidente. Così comincia ad indagare “Avete visto lo spettacolo?” “Siamo entrati adesso, abbiamo fatto tardi. Mannaggia, che peccato” Lui si è ringalluzzito e ha cominciato a dire: “Un successone, la gente faceva a capocciate. Non sapeva più come applaudire.” Allora è uscita fuori in un momento tutta la cattiveria e la bonarietà di Fabrizi che l’ha freddato con questa frase: “Ah, Vittò, siamo entrati dal principio.” Poveraccio. Questo era Senzani. Un giorno ci invita a colazione e ci dice: “Se magna perché ho trovato le Tre Panze.” Entriamo in un ristorante e vicino c’era una farmacia. La padrona della farmacia era una cicciona con tre panze, era lei che pagava il pranzo per tutti. Lui si adattava anche a queste cose pur di mangiare, andava anche con le donne brutte e vecchie. D – Doveva avere una fame terribile. R – Lui diceva sempre: “Il tetto conta soprattutto. Da mangiare si rimedia sempre!” Infatti, è morto in un albergo a Milano dove non pagava l’affitto da pochi giorni. Lui ha sempre pagato l’affitto, magari una stanzetta ma aveva sempre un tetto. Da

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mangiare si rimedia sempre. Nel 1946 abitavo a Milano in un palazzo sfondato a Corso Vittorio. C’era solo la parete esterna, una scala a due piani dove entravano i pipistrelli. Lui passava la sera, era il periodo del referendum per la repubblica e la monarchia, e chiedeva se era pronto il minestrone. Si arrangiava così. In quel periodo debuttò, per merito mio, Walter Chiari al Mediolanum. Io avevo trovato questo soldato che raccontava barzellette e lo proposi a Mario Mazza, un capocomico, che cercava un comico per la sua compagnia. Walter raccontava le barzellette, durante la guerra, contro i tedeschi, faceva l’imitazione di Hitler, aveva questo coraggio. D – Lei poi si è trasferito in Francia e ha perso un po’ i contatti con Federico. Li ha ripresi con La strada, se non sbaglio. R – Sono partito nel 1951 e sono tornato nel 1959. Stavo a Parigi dove dirigevo il reparto disegnatori di Opera mundi, una società importante. Lo seguivo perché ci vedevamo ma non ero qua. Ho cominciato a lavorare ai suoi film solo al mio ritorno. Quando La strada è venuto a Parigi, dopo essere stato proiettato a Londra, io l’ho assistito alla presentazione del film perché abitavo in Francia e lui non parlava il francese. All’Hotel Raphael tutta la gente era venuta ad omaggiare questo nuovo regista. A Parigi sono diventati immediatamente matti per lui, mentre in Italia era ancora maltrattato e criticato. Tutti i grandi personaggi del cinema francese erano lì per chinarsi davanti a Fellini che allora era abbastanza giovane. C’erano Tati e tutti i registi più importanti perché lo ritenevano già un genio della cinematografia. Così anche agli Oscar. Io sono stato ad Hollywood con lui nel 1993. La sera della premiazione io sono rimasto allibito. La gente piangeva, urlava, applaudiva in piedi Sono convinto, invece, che anche alla sua morte gli italiani non lo consideravano tale. Adesso c’è uno sfruttamento della figura di Federico. Io sono contrario a queste mostre perché so che odiava queste cose.

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

D – Anche se lei era assente da Roma in quegli anni, vorrei chiederle una testimonianza della divisione ideologica in atto tra gli intellettuali. Il “cattolico” Fellini era oggetto di una forte polemica da parte della sinistra che gli contrapponeva come campione del marxismo Visconti. R - Accadeva anche in pittura. La sinistra è stata più abile perché ha imposto personaggi del tipo di Guttuso che era un pittore di talento, ma non questo genio. Perché la pittura non è né di destra né di sinistra. Io non credo neanche ai critici. La composizione viene per caso. Io dipingo da oltre sessant’anni ma non è che parto sapendo di creare una composizione diagonale o a piramide. Non se ne parla neppure. Ma quando mai? Come fai a mettere un pensiero di composizione a Van Gogh che era tutto istinto. La pittura è spontaneità. Io ho fatto un ritratto ad uno e gli ho fatto una mano appoggiata qua e, forse mi sono sbagliato nel tono, sembra che vola. D – Anche per Fellini era tutto istinto. R – Ma certo. Ad esempio i suoi sogni che non sono sogni. Io lo so. Ce li ho solo io i sogni di Federico. Io e il libro dei sogni che Giulietta ha messo in cassaforte e nessuno li doveva vedere. Lui li chiamava così, ma erano la sua insonnia. Di notte non dormiva, pensava e appuntava. Tanto è vero che io gli ho mandato il mio medico, un medicuzzo che azzecca sempre le diagnosi. Questo essendo un medicuzzo, non un furbastro, gli ha detto che non aveva niente, non dormiva solo perché si metteva a pensare. E si è incazzato Federico perché il medico gli ha detto che non aveva niente, ma lui non dormiva. D – Ho letto nel libro di Zapponi un brano in cui chiedeva a Fellini come mai non delegasse ad altri le piccole cose. Lui gli ha risposto che non esistono piccole cose. R – Non esistono piccole cose. Federico faceva tutto, anche le luci. La cosa più impressionante e che nessuno capiva, neanche gli attori, era che magari lui teneva tre giorni in scena uno per

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L’ITALIA DI FELLINI

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fargli dire le battute e poi lo tagliava. Io ho fatto tanti di quei lavori insieme ai miei figli, ma quando vedevo il film finito ne avrei avuto una delusione enorme se fossi stato un idiota. Era questa, secondo me, la perfezione di Federico. Non trascurava mai niente, non scendeva ma a compromessi. Durante un tournage di Roma, aveva fatto ricostruire piazza Re di Roma tutta in studio con i binari del tram vero che girava. Mi chiese cosa ne pensavo ed io gli risposi che era bellissima, ma si vedeva che era un fondale, che non era vero. Mi rispose: “Meno male che me l’hai detto. Era quello che volevo io.” Io gli chiesi il perché e lui: “Perché la gente quando sta al cinema deve capire che è uno spettacolo” Questa è la differenza che passa, secondo me, tra Federico e quelli che giravano dal vero. Lui il vero lo costruiva. Non era una sua mania. Amarcord, tutto il corso di Rimini era ricostruito ricordando Rimini, ma con certi appunti…. Come posso dire? ……. Chiamiamoli di esagerazione, ma non lo è. È come in pittura quando uno dà una pennellata forte al posto di una incerta. La ricostruzione di Federico era sempre uno spettacolo, anche le pubblicità messe in vetrina o le luci messe in un certo modo. Al contrario, e questo era lo scontro con Visconti il quale metteva un tappeto e voleva che fosse proprio un tappeto d’oriente, i tovaglioli dovevano essere veri tovaglioli. È una forma d’arte pura questa di Visconti, non si discute. Difatti, quando si sono capiti, si sono incontrati. D – A Mosca, alla presentazione di Otto e mezzo? R – Ma già prima io sentivo che non era un contrasto che poteva durare. D – Arriviamo alla Dolce vita. Come ha reagito l’italiano medio al film? R – Secondo me, Federico manco considerava l’italiano medio. I suoi film non hanno incassato niente proprio perché alla gente non frega niente dei suoi film. D – La Dolce vita sì.

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

R – Ma non è che ha incassato subito. È la polemica che ha spinto la gente a vederlo. Poi questo famoso spogliarello, che ora fa ridere, ha creato un casino tale alla prima di Milano ci hanno sputato addosso. A Milano ero io a trovare gli attori. L’ho fatto anche per Otto e mezzo insieme a Lina Wertmuller. Quando lui veniva al sabato, gli facevo trovare tutte le persone che avevo selezionato. Avevamo trovato una Maddalena straordinaria che non era Anouk Aimèe, ma Adriana Botti, una ragazza milanese milionaria. D – Ho letto un articolo in cui si dava per sicuro il suo ingaggio. R – Certo. Lei viveva come Maddalena, facendo sesso libero, sdrogacchiandosi perché aveva i soldi. È successa una cosa straordinaria all’Hotel Duomo quando c’è stata la riunione per fare il contratto a questa donna bellissima. Federico le disse: “Vabbè, quanto vuoi?” E lei rispose “50 milioni”, parliamo di soldi di allora…. “Perché 50 milioni?” ribattè Federico “Perché mio padre mi ha detto che se faccio il cinema mi disereda e perciò bisogna che mi crei un’altra situazione.” Allora Federico “Beh, veniamoci incontro.” “Mi dica” “Settantacinquemila” E cadde ogni possibilità di contratto. Devo dire una cosa. Nonostante io abbia fatto pubblicità a Parigi, non ho mai conosciuto nessuno al mondo che sapesse pubblicizzarsi come Fellini. Ogni titolo che tirava fuori è diventato storico, un fatto di vita. Lui era un medium. Aveva la mania di trattare sempre con psicanalisti, maghi, maghelle. Una volta mi lasciò la sua rubrica perché era sempre qua a telefonare. Su cento pagine, in 90 c’erano nomi di maghi e maghelle. Lui consultava tutti. Basta pensare all’amicizia con Rol. Lui amava queste cose. Era appassionato e anche condizionato. Il viaggio di G. Mastorna non l’ha fatto perché Rol gli ha detto che sarebbe morto se l’avesse fatto. Non si è reso conto di averlo fatto perché, in fondo, il fumetto di Manara è il film. Federico faceva a Manara il disegno di come doveva essere la vignetta. Gli ha fatto proprio il film. E subito dopo è morto.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Lui ad un certo momento si metteva in testa di fare una cosa in un certo modo, lo faceva. D – Tutti gli attori adorano Fellini. Era un medium, l’ho detto. Se uno avesse visto girare delle scene confrontandole al risultato del film. C’era da diventare matti. C’era un attore napoletano che doveva dire una battuta. Ci sono voluti tre giorni per fargliela dire e poi sembrava un grande attore. Sono stati tutti amici di Fellini perché lui riusciva con ognuno, pure con le comparse, a far sembrare che erano amici suoi. La conferma è stata quando ha avuto l’ictus che l’hanno portato da Ferrara a Roma e poi è entrato in coma, non ha voluto nessuno, solo me. Sentiva che non aveva amici. Un giorno, al teatro 4, stavamo aspettando un cavallo bianco che aveva chiesto per una scena. Il trovarobe pensava che avesse scherzato e non gliel’aveva trovato. Lui faceva spesso delle battute e l’attrezzista credeva fosse uno scherzo. Era la scena del tribunale delle femministe de La città delle donne. Tutti in movimento per attrezzare il set, ma il cavallo bianco non arrivava. Lui mi siede vicino e tutti continuavano a chiedergli se le cose andavano bene. Allora mi fa vedi questa gente qui? Il giorno che io non faccio più film manco mi salutano. Io allora ho sentito la sua tristezza, la solitudine. Non credeva a nessuno di questi perché non era un’amicizia spontanea, disinteressata. Quando c’è stato il funerale, c’è stata la veglia a Cinecittà e io ho passato la notte là per la veglia. Allora ho visto chi erano gli amici: tre operai e una persona che lui aveva allontanato perché aveva stampato un libro, Liliana Betti. D – C’era veramente la vita che Fellini ha descritto? R – Oh, anche di più. Una volta io e Federico eravamo invitati in un party di nobili. Siamo arrivati in ritardo e abbiamo trovato tutta la gente drogata per terra, in una stanza stavano ammucchiati. Però era limitata ad un certo mondo. Non c’era la droga del poveretto che si buca. Erano quelli che sniffavano. Avevano i soldi, non volevano fare niente, come adesso.

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

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D – Parliamo di Otto e mezzo R – Federico si è preso in casa Mastroianni per tre mesi, l’ha fatto dimagrire e gli ha detto di osservarlo, così lui ha preso tutte le mosse di Federico. Io sono rimasto meravigliato di come uno che non somiglia affatto a Federico, potesse assomigliargli così tanto, negli atteggiamenti, nel modo di dire una battuta, di tenere il cappello. Tenendoselo a casa per tre mesi l’ha, in un certo senso, spinto a farsi imitare. Federico si identificava con Mastroianni e viceversa. I produttori di oggi non sanno fare cinema. Io ho assistito personalmente ad un momento in cui Federico disse ad un produttore di far saltare fuori i soldi che aveva fatto sparire in Svizzera. Invece, Rizzoli era diverso. Ma durante Otto e mezzo a Fiumicino quando c’erano i tralicci da dove scendevano tutti i personaggi disse: “Va beh, se facciamo un bel fondale.” “Ma come un bel fondale! Ah, cummenda, devono scendere i personaggi!” Questa era la gente che metteva i soldi. Pensa a risparmiare, non a fare i film. Rizzoli è stato coinvolto da Peppino Amato, che era un produttore napoletano cinematografaro puro come pochi, per finanziare La Dolce Vita. Sennonché, quando c’era una pausa delle riprese e Federico stava a pensare una scena, Amato spegneva le luci e Federico s’incazzava. Rizzoli, che era un grande uomo d’affari, mise i soldi. Ha preso la maggioranza delle azioni e quindi il film. Perché Rizzoli ha fatto un altro conteggio. Mentre in Otto e mezzo preferiva il fondale ai tubi innocenti, ha capito che La dolce vita poteva funzionare. Peppino Amato aveva prodotto film con una bellissima donna, Linda Darnell, che poi è diventata la sua amante. Si sentiva importante, l’homo piacens. Così ha voluto fare questa avventura ma ad un certo punto stavano finendo i soldi e si è impressionato. Allora Rizzoli, come ogni uomo d’affari, è balzato sulla preda. D – Ha collaborato anche in Casanova. R – Sutherland, la sua storia è stata straordinaria. Sutherland è un grandissimo attore, puntualissimo, serissimo.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Federico lo ha maltrattato per tutto il film. Ha cominciato con il farlo pelato, mettergli il naso con la gobba, segargli i denti. In una scena gli ha buttato addosso tutto il vino, sporcandogli il vestito bianco e lui ci teneva ad essere bello. Io non sapevo più come fare: gli facevo trovare il pesce fresco di cui era appassionato, cercavo di consolarlo sempre. Fellini, però, mi diceva: “Siccome io odio Casanova, se non lo maltratto, se non ho un senso di antipatia del personaggio, non riesco a farlo lavorare come dico io.” Alla fine del film lo ha abbracciato, lo ha consolato, gli ha dato una medaglia d’oro, gli ha chiesto scusa in pratica. Ma è stato durissimo. Sutherland ha mantenuto una dignità estrema. Gli avevano offerto Redford per fare Casanova. Il produttore gli diceva “C’è mercato in America. Ti do 400 milioni se prendi Redford” “Guarda, non darmi 400 milioni, dammi 40 cm in più di Redford e gli faccio fare Casanova.” Ha risposto. Nel film collaboravamo per il carnevale di Venezia con il bucintoro e tutte le maschere. Tutti i giorni si complimentava con mio figlio Giuliano che stava facendo questa cosa, lo faceva arricchire, aggiungeva altro oro. L’ultimo giorno ha detto di levare tutto e di lasciare solo Venezia. Vuol dire che lui nei 25/30 giorni in cui veniva a constatare il lavoro che si faceva, maturava l’idea. All’ultimo ha capito che Venezia doveva essere vuota, mortale, senza feste. Ha fatto togliere tutto. Era una collaborazione continua al servizio di Fellini. Mai nessuno, tranne qualche scemo, si è mai permesso di arrabbiarsi per i cambiamenti che faceva Federico. Era come il padreterno. Fede o non fede. Se tu lo volevi aiutare, lo dovevi assolutamente servire. Lo stesso faceva Nino Rota. Quando ha avuto un contrasto con Peppino Rotunno, che è bravissimo non si discute, c’è stata la lotta perché Federico non transigeva, faceva tutto anche le luci. Questo era Fellini. D - Altri ricordi degli ultimi anni? R - Lui aveva trovato una grande comunicazione con la Tamaro. Nessuno ne parla. Mi aveva regalato il libro quando nessuno lo conosceva dicendomi che era una ragazza straordinaria. È molto importante il rapporto che aveva con la

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

Tamaro. Sono stato insieme a loro tre volte al ristorante e avevano un dialogo particolare. La stava curando per fare qualcosa, forse la voleva come collaboratrice. Lei aveva un’adorazione per Federico. E poi Cavazzoni per La voce della luna. Io francamente se avessi letto quel libro non avrei mai pensato, lui invece ci vide delle cose. Era senz’altro alla ricerca di un linguaggio nuovo all’ultimo. Infatti, non era felice quando girava La voce della luna, non era contento. D - In La voce della luna c’erano bellissimi momenti ma isolati gli uni agli altri. R - Casanova era straordinario, se uno pensa ai costumi, alle scene. In Intervista c’erano cose straordinarie come gli indiani che scendono con le antenne. Ma ultimamente non l’ho visto felice. Era però pieno d’entusiasmo per l’ultimo film che doveva fare e non ha fatto, Block notes di un attore. Era ritornato con una vena particolare perché aveva rimesso dentro un sacco di cose, il Corriere dei Piccoli, i personaggi strani. D - Prova d’orchestra? R - Gli orchestrali erano l’Italia che non andava d’accordo. Poi questa cosa che arriva e scassa tutto. Lui prevedeva il futuro. Adesso vedo dei film fatti con idee che Federico ha scartato dieci, venti anni fa. I film della Wertmuller sono la sintesi delle cose che Federico trovava esagerate. D – Era un personaggio dalle molte facce. R – Ad esempio chi conosce Federico nel doppiaggio, nel missaggio? Bisognerebbe sentire Cucciolla, Lionello per sapere cosa dicono del suo lavoro in quel momento della lavorazione. Peccato che non c’è più Nino Rota. D - Gli ultimi anni sono stati amari, contrassegnati dalla battaglia contro gli spot televisivi.

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L’ITALIA DI FELLINI

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R - Lui si incazzava perché interrompevano i film. Mi diceva che Berlusconi gli aveva comprato tutti i film per 10 miliardi.” Ci fa un sacco di soldi e non mi dà una lira.” Si lamentava “Ma perché non glieli chiedi?” gli rispondevo io. “Ma sì, io glieli vado a chiedere…” “E allora, che cazzo vuoi? Lui è un uomo d’affari e devi parlargli d’affari ad uno così, non puoi dirgli che ti rompe i coglioni perché mette gli spot.” Io ho parlato a Berlusconi di questo (Geleng gli ha fatto un ritratto n.d.A.). Lui mi ha risposto che Fellini doveva capire che era così il suo mestiere, senza gli spot non poteva avere i soldi per finanziare i film. Gli hanno fatto creare questo circolo vizioso di lotta continua. Io gli ho anche suggerito: “Andiamo in America, ti porto pure il caffè a letto. Non puoi stare tutto il tempo a lamentarti che qui tutti fanno i soldi. Gli altri li sanno fare.” “Leone fa un sacco di soldi!” si lamentava. “Ma Leone li sa fare i film per i soldi. Vuoi fare un film come ti pare? Andiamo in America che ti danno una montagna di soldi.” “Ma io l’America non la conosco.” Ribatteva. “Ma fa finta di conoscerla, no? Fatti dare una montagna di soldi.” “Ma poi se alle otto non vado sul set si incazzano. Gli americani poi vogliono la sceneggiatura e io la sceneggiatura non gliela faccio.” Per questo non è andato in America. D – Mi racconti degli ultimi giorni. R - Mi chiedeva consigli sull’operazione perché non voleva farla. Io non sapevo cosa rispondergli. Quando ho sentito che per complicazioni l’hanno anestetizzato tre volte in due giorni, ho pensato che l’avessero ammazzato. Difatti in convalescenza a Rimini ha avuto l’ictus. Quando io ho detto a Giulietta questa cosa lei ha urlato, è impazzita di rimorso e di dolore. Secondo me il male di Giulietta è venuto fuori da questa situazione perché è stata tre mesi senza mangiare: beveva whisky e fumava sigarette. Quello che covava è esploso. Io dico che Giulietta l’ha ammazzata il rimorso. Il cancro è fiorito in questa situazione dannosa per una donna che pesava niente, era uno scricciolo.

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG

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Intervista del 14 settembre 1995

D – Vorrei parlare dell’arrivo di Fellini a Roma, lo shock per il trasferimento nella capitale. R - Il seguito de I Vitelloni era Moraldo in città che poi è diventato La dolce vita. Lui ha sviluppato I vitelloni con episodi successi a Rimini ma li ha arricchiti. I ragazzi erano più grandi proprio perché evidentemente aveva in mente l’idea di trasferire il film a Roma. Se uno legge la sceneggiatura di Moraldo in città ritrova i personaggi che poi nella Dolce Vita ha modificato perché è passato oltre. In Moraldo per esempio c’è il mio personaggio che si chiama Rinaldo, il pittore che poi ha distribuito in un altro film, Il Bidone dove c’è Basehart che chiamano Picasso. Ad un certo momento questi personaggi li passava al setaccio e i più importanti li usava. D – Il mondo del Bidone l’ha conosciuto insieme a lei. R - Ma certo. Le bidonate che abbiamo preso pure noi. D – I bidonisti erano nati con la guerra? R - C’erano sempre stati. Poi c’erano quelli cattivi e quelli buoni. Per me Senzani era uno buono. I trattori lo sopportavano male perché non era più giovanissimo. A noi facevano credito perché avevamo 19/20 anni, eravamo simpatici, di belle speranze. Ma quando vedevano un 35enne si incazzavano. Dicevano: “Perché devo dare da mangiare a questo?” La vita di quegli anni era così. Uno tentava di avvicinarsi al mestiere e non prendeva a volte i soldi. D – Il mondo dei bidonisti e dello spettacolo erano collegati insomma. R - Erano collegati per necessità. Ma non erano bidonisti, era gente che cercava di sopravvivere. C’era di tutto. Alcuni erano più intelligenti e studiavano il colpo, che poi andava sempre male.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D – Quando è tornato dalla Francia questi personaggi erano spariti? R - Alcuni ancora resistevano. Io sono tornato nel ‘59, nel periodo in cui c’era ancora la rivista e addirittura l’avanspettacolo. Ricordo che c’era Marchesi che sfornava delle cose al Mediolanum a Milano. C’era ancora Wanda Osiris che funzionava. D – Quando lei torna c’era già il consumismo. R - Il consumismo è arrivato dopo. Io ero ricco allora perché ero riuscito a comprare una macchina, una Topolino siccome guadagnavo abbastanza con i manifesti del cinema. I miei figli, invece, si possono permettere macchine di 40 milioni. Vuole dire che è molto più facile guadagnare. Nel ‘59 c’era una distinzione tra le persone, le categorie erano ben distinte. E c’erano questi nuovi emergenti, giornalisti, pseudo attori, attori nuovi. C’era un fermento ma ancora non erano all’idea della macchina di 40 milioni. Tanto è vero che è molto ben rappresentato nella Dolce Vita il movimento delle vespe e della macchina sportiva in cui tutti stavano sopra, ammucchiati. D – Che differenza ha trovato tra la Roma che ha lasciato quando è andato in Francia e quando è tornato? R - Enorme. Sono tornato a Roma che c’era stato il boom economico. Quindi ho visto tutta gente arricchita, vestita bene. Io sono partito che le camicie dei politici erano tutte spiegazzate e unte. Sono tornato che avevano i colletti inamidati. Non so se questo è un riferimento alla politica come andava però…. Quando sono partito la mia visione del politico era quella che si vede guardando i documentari della liberazione di Milano dove i grandi politici erano malandati. Sono ritornato che ho trovato macchine blindate, di scorta, tutti ricchi, con le ville. Solo al ritorno da Parigi ho visto la differenza. A Parigi c’era una certa moda italiana che si vedeva dai turisti con le giacchette corte sopra il sedere. Vedevo che c’era una differenza ma non immaginavo.

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INTERVISTA CON RINALDO GELENG D – Come si era trasformata la città?

R - In maniera deleteria. Quando sviluppi la città verso il nord, verso la Cassia, rovini tutto. L’idea giusta era quella di Mussolini verso il mare. Se guardi la carta di Roma si capisce che verso il mare si poteva sviluppare, in tante direzioni. Roma era completamente modificata. Enormemente ingrandita. Cambiata negativamente anche dal punto di vista della mentalità. Quando io avevo 19 anni avevo una zia che abitava in via del Gambero che aveva un attico di 8 stanze. Mi hanno offerto questo attico ad 1 milione. Io ho preferito comprare una macchina fuoriserie piuttosto che l’attico. La donna di servizio che veniva a ore abitava in via Borgognona. Oggi uno che abita in via Borgognona deve avere i miliardi. Quella era la donna di servizio. La gente scappava dal centro e andava sulla Balduina, c’era la moda. Tutti i grandi professionisti si sono buttati sulla Balduina La Balduina era il limite di Roma. Le case del centro di Roma le chiamavano le topaie. D – Era un po’ come rinnegare la Roma antica. R - Tutto è cambiato in maniera assolutamente negativa. Il progresso serve ma bisogna pure saperlo manovrare. Ma Roma è bellissima. Dentro le mura è una roba straordinaria.

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Intervista con Tullio Pinelli del 12 settembre 1995

D - Ho parlato con Zapponi del mondo del giornalismo che ha conosciuto come giovane cronista. R - Zapponi è un uomo molto intelligente. Dopo la morte di Fellini ha scritto un articolo sul bollettino della SIAE intelligentissimo, giustissimo, coraggioso anche. Gliel’ho anche detto che aveva scritto una cosa bellissima. D - Lo sceicco bianco è basato molto sul fotoromanzo che aveva a quell’epoca un enorme successo. R - I fumetti in quel momento avevano la stessa funzione che hanno adesso i serial televisivi, basandosi sull’idea dei racconti a puntate televisivi romanzati per il grosso pubblico, solo che la televisione ha aumentato l’attesa. I fumetti in Italia rappresentavano allora un po’ il livello culturale della massa, con quei miti come l’onore familiare, la patria, la bandiera. Erano tutte cose anche molto rispettabili, ma venivano viste sotto un punto di vista diciamo fumettistico. Come lei sa, il soggetto iniziale su questo ambiente era di Antonioni. Avevano passato a me e Federico, che facevamo coppia fissa di sceneggiatori, questo soggetto di Antonioni perché ne facessimo un trattamento ed una sceneggiatura. A noi era piaciuta moltissimo l’idea dei fumetti, era una cosa che ci divertiva e rientrava nel nostro modo di vedere, particolarmente di Federico che era così scanzonato, pieno di fresche novità. In più il fumetto era un po’ il rimasticamento di sentimenti, di miti abbastanza abusati. Non ci piaceva il soggetto di Antonioni e ci siamo messi a pensare ad un’altra storia su questo ambiente. Quindi abbiamo cominciato a lavorare come facevamo noi: ci si vedeva tutti i giorni, il pomeriggio sovente, per lavorare un po’ qua e un po’ là. Quella volta eravamo alla Casina delle Rose che era un bellissimo caffè ai margini di villa Borghese e stavamo a guardarci in faccia senza sapere che cosa fare.

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

Stavamo cercando un’idea e uno dei due, non ricordo chi, ha detto: “Beh, facciamo che una sposina scappa durante il viaggio di nozze per andare a vedere lo sceicco bianco, il suo mito.” E l’altro dei due, in un ping pong che si faceva con lui, ha detto: “Facciamo che tutto quanto succede nello stesso giorno, dalla mattina alla sera, e che il marito vuole assolutamente tenere nascosto questo ai parenti.” A quel punto ci siamo detti: “Beh abbiamo fatto il soggetto, abbiamo sbracato.” E così è stato. Poi abbiamo naturalmente lavorato su questo. D - Il paese da dove vengono questi sposini è un’invenzione geografica o aveva un riferimento reale? R - È un’invenzione. Non mi ricordo da dove venissero esattamente, ma comunque erano degli sposi provinciali dell’Italia centro meridionale, molto ingenui e molto legati a questi miti di una borghesia minore. D - La vicenda è ambientata nel ‘50 durante l’anno santo. R - Uno dei miti della borghesia era quella della visita al Papa. Allora c’erano quelle udienze collettive. In quel periodo Papa Pio XII aveva istituito delle udienze collettive un giorno della settimana in cui riceveva tutti e specialmente gli sposi. Sono stato ad una di queste visite. Effettivamente a me Pio XII, malgrado quello che è stato detto, piaceva. Quindi è stato molto commovente, però questa cerimonia rientrava nella mitologia su cui noi volevamo, un po’ bonariamente e con molto affetto, ironizzare. Questo è stato lo spirito dello Sceicco Bianco. D - Con il neorealismo sono stati lanciati una serie di attori non professionisti, invero con scarso successo. Si è creata l’idea negli italiani che ognuno poteva essere un attore. Sordi interpreta uno di questi personaggi. Esisteva davvero nella testa degli italiani l’illusione di proporsi come attore? R - Sicuramente, perché in quel momento il cinema era molto più radicato nell’immaginario collettivo di adesso. Ora è la

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L’ITALIA DI FELLINI

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televisione che si è accaparrata quel posto. Allora il cinema era nel suo pieno fiore. C’erano molti produttori cinematografici che producevano una quantità enorme di film e il neorealismo aveva abituato la gente a pensare che l’uomo della strada potesse diventare in qualunque momento protagonista di un film o essere scelto da un regista per interpretare chissà cosa. Nel concetto, non estremamente ragionato, o nel subconscio di tutti c’era questa convinzione: più si era uomini della strada, più si aveva possibilità. Il neorealismo era prendere proprio la gente della strada. Zavattini sosteneva che bastava mettersi per strada e girare per fare un film. Falsissimo perché è chiaro che quando uno predilige questo o quell’altro fa una scelta creativa. Il documentario è tutta un’altra cosa. Comunque, sulla spinta del neorealismo e con l’enorme impatto che il cinema aveva in quel momento sulla gente, sul pubblico, sicuramente la possibilità che chiunque poteva essere scelto per essere attore o attrice c’era. D - Quanto è durato? R - È durato fino a quando la televisione ha preso il posto del cinematografo. D - Fine anni cinquanta, con il fenomeno Mike Buongiorno. R - Sì, certamente. D – In questo film e molti altri c’è stata la polemica sul neorealismo che vi ha investito. R - Queste sono cose che vengono teorizzate a posteriori. In quel periodo non è che si diceva facciamo il neorealismo o facciamo contro il neorealismo. Il neorealismo era stato un movimento eccezionalmente importante negli anni del primo dopoguerra, autentico, verissimo. Poi c’è stata la scuola del neorealismo che è una cosa diversa, cioè la teorizzazione e il lato programmatico del neorealismo. Ci sono stati diversi registi e autori che hanno insistito su questo tema e anche molti critici.

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

Aristarco è il primo che ricordo ma ce n’erano tanti a sostenere l’idea che chi era contro il neorealismo era cattolico, non si sa perché, e dunque reazionario. Ciò era dovuto al predominio nel mondo intellettuale italiano degli ideali marxisti di sinistra, cosa per me imperdonabile. Si è visto a posteriori come l’intellighenzia italiana si sia lasciata suggestionare e dominare dal mito marxista e socialista. Noi non eravamo né marxisti, né socialisti e non facevamo nessuna opera di propaganda. Non abbiamo mai pensato: “Adesso facciamo un film antineorealista.” Non c’è mai passato neanche per l’anticamera del cervello. Lo eravamo, eravamo passati e come per il neorealismo. Federico aveva lavorato con Rossellini, il più grande del neorealismo italiano, aveva fatto Roma città aperta, Paisà. Io avevo fatto con Lattuada Il bandito, poi abbiamo fatto insieme tutti e tre - Lattuada, Federico e io - Senza pietà. Tutti film sicuramente neorealisti perché sentivamo in quel momento la verità di questo movimento, di questo modo di vedere le cose che era legatissimo al modo di vivere degli italiani nell’immediato dopoguerra. È molto importante capire che il periodo dell’immediato dopoguerra in Italia è stato talmente eccezionale da essere estremamente difficile da gestire. Un periodo con una ricchezza di vitalità, di voglia di vivere, di scoprire perché era tutto da scoprire. La guerra, il fascismo avevano distrutto tutto. A me fanno ridere questi che vogliono fare i fascisti. Non sanno che l’Italia con la guerra era stata rasa al suolo, non c’era più niente. D – Tuttavia si può dire che la vitalità e l’entusiasmo si siano spenti rapidamente come mostrato dal film I vitelloni? R - Non tanto rapidamente. I vitelloni sono piuttosto i residui dell’Italia provinciale anteguerra. I vitelloni sono i ricordi personali della giovinezza di Fellini e Flaiano, dell’anteguerra. Nella provincia italiana sussisteva ancora questo modo di vivere e pensare. La grande spinta che il popolo italiano ha avuto non ha coinvolto tutti e non è andata a toccare certi centri particolarmente sordi, centri molto provinciali a cui questo senso di rinnovamento non arrivava.

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L’ITALIA DI FELLINI

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Nel complesso si viveva, specialmente quelli che stavano sulle barricate, un senso di rinnovamento e di scoperta per cui in Italia tutto era buono. Questo era verissimo perché le città, i porti venivano rifatti, le industrie. Ricordo ancora l’orgoglio degli italiani per cui gli elettrodomestici italiani erano i migliori d’Europa. Era vero perché l’Italia, con le batoste che avevano preso le grandi industrie messe a terra dai bombardamenti, si era ritrovata per iniziative individuali ad essere la migliore produttrice di elettrodomestici. Senza contare la scoperta dei nuovi atteggiamenti spirituali che sotto il fascismo e con la guerra erano stati impediti. come la scoperta del grande cinema americano, del cinema francese, inglese. I rapporti culturali con l’estero erano stati troncati così come i rapporti culturali tra italiani. Però, su questo bisogna essere giusti, il fascismo è stato quello che è stato ma nella vita culturale è stato di una larghezza incredibile. L’attività censoria esisteva ed era pesante, però, all’italiana. D - Era più dura quella del dopoguerra, impostata da De Gasperi. R - Senza dubbio. Sotto il fascismo ci fu un atteggiamento di umanismo. Bisognava proprio di proposito attaccare qualcosa del regime, se no lasciavano fare, lasciavano dire. Non è esatto che ci fosse un’oppressione in questo senso. C’era latente per cui non sapevi mai se quello che dicevi e scrivevi passava o non passava, se tu parlando con un tale in un certo modo venivi classificato come antifascista o no. Questo è il gravissimo guaio delle dittature: non sai mai se quello con cui parli è una spia o un fanatico del regime che ti denuncia o ti classifica come un nemico. Questa era la cosa gravissima delle dittature. Per questo il senso di rinnovamento era una scoperta formidabile che veniva fuori. Da questo è venuto il neorealismo che rifletteva esattamente questa febbre di rigenerazione, di scoperta, di autenticità. D - C’è stata insomma un’Italia a due velocità: la città più viva e la provincia che avverte il rinnovamento economico ma non quello culturale.

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

R - La provincia arriva sempre in ritardo, senz’altro. Nei Vitelloni si lavorava soprattutto sull’anteguerra perché erano i ricordi di Federico, molto meno miei. Io ho lavorato come costruttore e sceneggiatore, ma non ho vissuto quel tipo di provincia. Anzi io a Torino ho avuto un periodo di gioventù eccezionalmente vivo. Sono cresciuto con Ginzburg, con Bobbio, con cui ci sentiamo ancora adesso, il professor Monti, il nostro maestro, Argan. Eravamo tutti in uno stesso gruppo eccezionale. I vitelloni non esistevano. D - I Vitelloni è anche il malessere sentito da tutti i giovani. R - Certamente, la difficoltà di tutti i giovani. D - In quegli anni appare dai film che gli uomini si rivolgevano nell’avanspettacolo per avere una valvola di sfogo. Le donne invece si rifugiavano nei fumetti, in un mondo immaginario. R - Durante il fascismo le esibizioni femminili erano riservate a certe compagnie di riviste come quelle di Wanda Osiris, di Isa Bluette che erano vedette. Io mi ricordo che andare a vedere da studente una di queste riviste era qualcosa di peccaminoso. E comunque era l’unico posto in cui si vedevano delle gambe nude. Non si vedeva niente anche sulle spiagge, lei sa com’erano i costumi femminili. E non era dovuto al fascismo, ma al costume e alla morale dell’epoca. Il sesso era una specie di tabù, non se ne parlava proprio. Al Liceo abbiamo trovato tre o quattro ragazze nella nostra classe. Avevano il grembiule nero e nelle ore in cui non c’era lezione non restavano con noi, ma uscivano dalla classe per andare in uno stanzone in cui stavano tutte insieme sorvegliate dalla bidella. C’erano anche due uscite diverse e per noi era vietatissimo fermarsi all’uscita delle ragazze. Era il costume dell’epoca. Non era immaginabile avvicinare una ragazza perbene senza motivi seri e le ragazze perbene non si sognavano nemmeno quello che oggi fa correntemente una qualunque diciassettenne.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D – I vitelloni si apre su un concorso di bellezza. In quegli anni nasceva anche miss Italia. Tutto questo pochissimi anni dopo quanto mi ha detto. R - È la libertà. Le cose maturano lentamente. Si dice e si teorizza, ma le cose vengono fuori poco alla volta nella coscienza collettiva, non vengono mica tutte assieme e chiaramente. D - Perché le miss non rappresentavano più il modello di donna proposto dall’avanspettacolo? R - Perché la morale collettiva stava cambiando. I rapporti tra uomini e donne stavano diventando progressivamente più semplici. Pensi per un momento che ancora per molti anni sono sussistite le case di tolleranza. Quando queste sono state chiuse è stato un trauma collettivo perché era veramente un’istituzione che faceva parte integrante della società e del modo di pensare della gente. Quando si preparava la legge sulle case chiuse, sono andato con Fellini a parlare con la Merlin che era la relatrice. Una cosa disastrosa! Ha fatto sulla lavagna il calcolo di quanti orgasmi al mese aveva bisogno un uomo in relazione al numero di donne… Faceva i rapporti come una dimostrazione di matematica. Poi ha raccontato un episodio che bastava a far capire come non avesse capito niente. Ci disse che quando si era sposata, la nonna le aveva detto di ringraziare le puttane dei casini perché se si poteva sposare in bianco, era grazie a loro. Come a dire: grazie al cielo che ci sono i casini! Poi ci ha detto: “Questa è una delle spinte che mi ha portato a voler abolire le case di tolleranza!” Proprio il contrario di quello che aveva detto sua nonna. Era un lento e faticoso movimento di rinnovamento del pensiero e della morale collettiva, sociale. Sono cose che maturano molto lentamente e faticosamente, solo dopo vengono teorizzate. Quando si vivono non ci si rende neanche conto di quanto succede.

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D - Passiamo a La strada. Il film rientra nella mitologia felliniana con il circo. Ho letto che il film è nato dall’incontro di Fellini con una coppia di zingari. R - La coppia l’ho incontrata io. Dunque, lei sa che io ho fatto molto teatro prima di passare al cinema? Da sempre mi sono interessato come autore ai personaggi delle fiere, dei mercati. Andavo per fiere e mercati quando ero ancora molto giovane, molto lontano dal cinema e da Fellini. Prendevo appunti sui personaggi, eccetera. Una delle mie prime commedie fu la Pulce d’oro proprio sull’argomento. Mi era sempre rimasta l’idea dei vagabondi che allora c’erano e ora non ci sono più. D - Non esistono libri sui vagabondi, dati statistici, ma rappresentano secondo me un aspetto importante e dimenticato della società italiana dell’epoca. R - Certo, ha ragione. Era uno degli aspetti tipici dell’Italia agraria. Intanto le strade erano quello che erano, non erano asfaltate tutte, anche in città. Non erano percorse dalle macchine, ce n’erano pochissime. Giravano cavalli, carri e quelli che camminavano per le strade si trasferivano da un posto all’alto con il sacco a spalle e il bastone. Tantissimi li ho fermati e ci ho parlato. Mi ricordo di uno che non aveva più casa e trascorreva la vita passando da un figlio sposato all’altro. I figli abitavano tutti in posti diversi. Ne aveva sei, sette, non mi ricordo più, e passava la vita emigrando da una casa all’altra di questi figli. Si fermava 7/8 giorni, un mese poi ripartiva con il sacco in spalla. Quella era la sua vita. Poi c’erano tutti i ciarlatani delle fiere. Le fiere e i mercati erano divertentissime per la loro presenza come c’erano nelle piazze i fachiri che mangiavano il fuoco, oppure si puntavano gli spilli sul petto, o cadevano in ipnosi e si facevano chiudere dentro la cassa, o quello con i cani ammaestrati. Erano in tutte le piazze, in ambienti che a me interessavano moltissimo perché mi affascinava questo tipo di vita, di vagabondi, di saltimbanchi di strada, questi che suonavano le fisarmoniche. Erano bellissimi i dulcamara, quelli che vendevano rimedi. Mi ricordo di uno che

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L’ITALIA DI FELLINI

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aveva una scimmia sulla spalla. Se uno aveva male ad un dente diceva: “Perché vi fa male un dente? Perché dentro c’è un verme. Il verme muore con l’aglio, quindi non andate dal dentista. Basta che comprate uno spicchio di questo aglio con cui tappate il buco e il verme muore.” Oppure quello che vendeva il cosiddetto oro per quattro soldi. Diceva: “Come mai si deve pagare delle somme enormi e noi lo vendiamo così? Perché noi siamo in rapporto con i contrabbandieri delle frontiere tra il Perù ed il Cile che trasportano di nascosto delle grandi quantità d’oro e noi possiamo importarle e venderle per quattro soldi.” D - Avevano una fervida fantasia. R - Era bellissimo. Queste cose mi affascinavano proprio. Andavo sovente ai mercati di Torino e Ivrea. A Ivrea c’era un bel mercato. Alla sera tutti questi ambulanti prendevano la littorina, che era un treno molto rapido, in una classe unica. Io mi infilavo lì attentissimo, li sentivo parlare e scrivevo. C’era tutta una parte anche tragica, non era solo pittoresca. Alcuni morivano nei fossi e li trovavano chissà quando. Non sapevano neanche chi fossero perché non avevano carta d’identità. Assassinati anche. Delitti che restavano impuniti. Tutto un mondo affascinantissimo. Tornando al punto precedente io lavoravo qua a Roma con Fellini e altri per il cinema, ma la mia famiglia stava in Piemonte perché non mi sono trasferito subito. Io facevo l’avvocato e quindi non era proprio la stessa cosa. Tutti gli anni, almeno una volta l’anno, con la macchina andavo in Piemonte a trovare la famiglia. Allora non c’era l’autostrada del sole, si faceva il Bracco. In una di queste salite, adesso non ricordo più, ho visto proprio Zampanò e Gelsomina. C’era un omone che non aveva la motocarrozzella, ma tirava una specie di carretta pittoresca spinta da dietro da una donnina, Gelsomina. Mi sono fermato, ho chiacchierato oltre un’ora con loro. Quando sono tornato ho visto subito Federico e gli ho detto: “Senti Federico, ho avuto un’idea straordinaria per un bel film.” E lui mi ha risposto “Ma sai che l’ho avuta anch’io?” Uno dei due ha cominciato ha detto: “Sai, i vagabondi ecc.” e l’altro ha

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ribattuto: “La stessa idea che ho avuto io!” E ci siamo messi a lavorare. In quel momento c’era già Flaiano che aveva lavorato con noi per altri film, come collaboratore soltanto, non come coautore. Quando io ho scritto il soggetto de La strada, Flaiano l’ha letto e si è inalberato. Ha detto: “Federico, tu hai fatto dei film notevoli, se fai questo film ti rovini!” Anzi, gli ha scritto una lettera consigliandogli assolutamente di non fare il film. Poi ci siamo trovati tutti e tre e lui ha sostenuto “Guardate, questa è una stronzata. Questa, che voi dite Gelsomina, è una delle ragazzette che girano sulla spiaggia di Torvajanica facendo le marchette. Gelsomina non esiste. Non fate questo film.” Io gli ho risposto: “Sai, è una favola, un’invenzione.” Ho scritto la sceneggiatura mentre Federico girava I vitelloni. D - Perché i saltimbanchi facevano questo lavoro così pieno di privazioni? Era una tradizione di famiglia? R - Perché ci sono i barboni sotto i ponti? Era una scelta, un’esigenza vitale. Altri per il piacere di fare i saltimbanchi. Bisogna pensare alla società in cui vivevano che aveva delle possibilità di vita molto limitate. Io ho fatto il servizio militare e mi è piaciuto molto, l’ho fatto con entusiasmo. Lo sa che molti dei miei soldati non avevano mai dormito in un letto? Almeno il 10% non sapeva né leggere, né scrivere. Facevamo noi lezione per fargli imparare a leggere e scrivere. Molti non avevano mai dormito in un letto, sempre per terra, in una stalla o sul fieno perché quella era la società agricola. D - Era un fenomeno legato proprio a quel tipo di società. Con il boom economico i girovaghi scompaiono immediatamente. R - Per forza, automaticamente. Lo stesso spirito, sotto un’altra forma, si è travasato in quelli che scelgono di fare i barboni. C’è il rifiuto della società, delle preoccupazioni, della vita sociale, la rinuncia. È la stessa cosa adeguata a questa società. C’è un mio atto unico Mattutino che parla di questo: la tentazione

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dell’abbandono di tutto e del rifiuto. Cosa che a me personalmente ha sempre affascinato, non ho mai avuto il fegato di farlo. D - Come sono finiti? Non tutti sono morti, si sono forse reinventati? R - Chi lo sa, forse sono andati negli ospizi, nei circhi come c’erano ancora fino a pochi anni fa. Mi facevano una tenerezza incredibile. Ne ricordo uno con la madre di famiglia che, appena finito di lavare i piatti, si metteva a fare la danza indiana. Erano tre fratelli. Tutti gli animali del circo erano un cane ed una scimmietta. Il numero di attrazione maggiore era il cane che galoppava intorno alla pista con la scimmia sulla schiena. Era tutto lì. D - C’era gente? R - Poverini, no. Ridevano così. Noi gli abbiamo offerto delle cose, loro erano commossi, ma adesso non ci sono più. Per dire. Zampanò, il nome, viene dalla composizione di due nomi di vecchi circhi di questo genere, Zamperla e Saltanò. Erano due impresari, per modo di dire, di circhi di questo tipo. E abbiamo fatto Zampanò. D – Questi circhi erano mostrati in La strada con artisti provenienti da tutta Italia che venivano pagati dalle offerte del pubblico, non dal circo stesso. R - Racimolavano così. Per questo era affascinante. D - Un mondo che scompare, oltre ai vagabondi, è anche quello dei bidonisti. Era gente disperata che non mangiava e si riciclava in piccole truffe? R - Era anche il gusto dell’arte. Loro si consideravano artisti. Prima di fare il film, naturalmente come facevamo sempre, ci siamo documentati. Il personaggio di Crawford era uno dei più noti, il Lupo perché era un grosso truffatore. Ma grosso truffatore, allora, perché faceva quelle piccole truffe degli orologi

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patacca, i vestiti che si restringevano appena pioveva un po’, truffette. Quello del tesoro era autentico, non l’abbiamo inventato noi, si faceva. D - Diventano patetici rispetto alla nuova criminalità rappresentata dallo spacciatore ricco e ben vestito. R - Un vero criminale. È un passaggio di quegli anni. Vengono superati, schiacciati, sono fuori tempo. Nel finale Crawford che era abituato a queste truffe romantiche, tutto sommato, si trova a contatto con dei colleghi, diciamo, di una crudeltà estrema di cui lui stesso non aveva idea e che non usava prima tra colleghi. Era un mondo già cambiato, con la vera criminalità che veniva fuori. D - La strada ha un enorme successo, invece Il Bidone è un clamoroso flop. La critica come si era raffrontata rispetto al film, alcuni approfittano dell’insuccesso per accanirsi contro di voi. Per quale motivo? R - Noi eravamo, come tutte le persone libere, il bersaglio tanto della destra come della sinistra. Non parliamo poi della critica marxista che ci accusava di essere i sorridenti affossatori del neorealismo. Ma anche dai cattolici quando è uscita La dolce vita. Eravamo il bersaglio di tutti quelli che si facevano irreggimentare. D - Ricorda qualcosa in particolare, di strumentale? R - No, io non accuso nessuno. Ricordo il fenomeno, questo sì, perché anche La strada è stato attaccatissimo. Il Bidone, secondo me, è un buon film, l’insuccesso di Venezia è stato dovuto proprio all’ostilità della critica marxista. D – Nell’ambito della critica cattolica, ad esempio, Rondi è favorevole a Fellini quando il regista romagnolo è appoggiato dalla chiesa, però bombarda La dolce vita e Le tentazioni del Dr. Antonio per ritornare ad elogiare Fellini per Otto e mezzo.

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L’ITALIA DI FELLINI

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R - Certo, si partiva da posizioni preconcette. Devo dire che a noi non ce ne importava niente, veramente. Noi andavamo avanti. Certo, al momento non faceva piacere, ma io tutte queste critiche, destra o sinistra, devo dire che le ho lette pochissimo. D – La strada fu messo per di più in contrapposizione con Senso di Visconti. R - Infatti, c’è stata una grossa rivalità. Il partito di Visconti era appoggiatissimo dall’intellighenzia di sinistra: Noi non è che avessimo dietro le spalle un‘armata che ci sosteneva. Visconti sì. D – Fellini vince l’Oscar con La strada nel ‘56 e lo rivince l’anno dopo con Le notti di Cabiria. Per questo film Fellini supera i problemi della censura attraverso gli uffici di padre Arpa e l’intervento di Siri. È così? R - Sì, l’ho sentito. L’ho seguito collateralmente ma so che è successo. D - Le notti di Cabiria, prima della sua uscita, viene attaccato dai giornali, dal sindaco di Roma. Toccava un punto vivo della società. C’è stato prima un lungo lavoro di ricerca anche nel mondo della prostituzione? R - A parte il mondo della prostituzione, c’era sempre la nostra, soprattutto mia, ma anche di Federico, passione per gli appartati, i vagabondi. Noi abbiamo avuto un rapporto molto stretto, io specialmente, con l’uomo del sacco, Tirabassi che era malvisto dalla chiesa ufficiale perché era un indipendente, un personaggio molto strano, ma comunque molto tipico di quel periodo. Adesso non potrebbe più sussistere perché appena esce, lo fanno fuori subito. Allora si faceva se era possibile fare. Federico ed io per qualche notte siamo usciti con lui, quando l’ho conosciuto, poi per molti anni sono andato con lui. Di notte si usciva verso le 10 di sera con dei grandi sacchi, uno per macchina, e si andava in giro per Roma nei posti che lui conosceva dove erano ricoverati questi sbandati. È una cosa che mi ha molto

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toccato, infatti ho continuato a lavorare con lui per molti anni. Federico dopo un po’ si è stancato perché bisognava stare svegli tutta la notte. Una volta è venuto con noi anche Parise, lo scrittore, anche lui si è addormentato in macchina e non è più tornato. Per fare Cabiria abbiamo fatto un’inchiesta nel giro delle prostitute della Passeggiata Archeologica. Allora erano tutte lì. Le abbiamo viste, conosciute. Poi abbiamo fatto questa lunga pratica con Tirabassi per cui, saprà, nel film c’era tutta una sequenza eliminata. D - Perché Siri, la Chiesa non hanno voluto? R - Esatto. Esatto. D - Dove trovava i soldi Tirabassi per queste opere? R - Gli arrivavano. Aveva dei contributi tanto che con essi ha costruito una chiesa in un posto sperduto, vicino a Tordivalle, verso il Lago di Bracciano. Non so chi ci sia mai andato in quella chiesa che è nel deserto. I soldi, però, gli arrivavano. In questi sacchi si portava di tutto: viveri, indumenti, medicine. Questi disgraziati stavano nei cespugli dei giardini del centro, oppure nelle rovine romane, sotto il campidoglio, nelle vecchie tombe romane abbandonate. D - Perché la chiesa lo avversava? R - Lo sa come la chiesa sia sempre estremamente sospettosa di questi movimenti come è stato con S. Francesco. Sono gli stessi fenomeni. La chiesa guarda e dice: “Stiamo a vedere cosa succede, cosa fa ed intanto faccia per conto suo.” Non faceva parte dell’organizzazione ecclesiastica. Era un privato che, di sua iniziativa per una missione che credeva di aver avuto dal cielo, faceva questo. D - Ma perché tagliare il brano del film?

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R - Questo non l’ho mai capito. Probabilmente perché c’era questo tipo di sospettosa ostilità D - Cabiria è stato plasmato su di un personaggio incontrato vicino ad Ariccia. È così? R - Senz’altro l’avrà incontrata. Ne abbiamo viste tante. L’origine della storia di Cabiria è stato invece un fatto di cronaca, cioè una donna senza testa o una testa senza corpo, non ricordo più, che era stata trovata nel lago di Castel Gandolfo. Questo mi aveva colpito e da questo era partita l’idea. Ho detto: “Facciamo una storia di questo tipo: una prostituta che tutti vogliono derubare.” Comincia così il film. Allora, un fatto di questo genere, adesso trovano dieci corpi senza testa da tutte le parti, ha fatto epoca, aveva colpito tutti. E da questo è stata costruita la storia. D - In Cabiria c’è il pellegrinaggio al Santuario del Divin Amore e nella La dolce vita la scena dei bambini che vedono la Madonna. Era un momento in cui la religiosità veniva vissuta anche in tono morboso? R - Dell’ultrasensibile. Sa, adesso ci sono le madonnine che piangono. Sono sempre queste esplosioni di bisogno dell’ultrasensibile che vengono fuori spontaneamente. D - Può essere legato al culto mariano incoraggiato dalla chiesa? R - Certamente che influisce. Allora erano gli anni della Madonna pellegrina. Quella statua della Madonna che ha fatto il giro di tutta Italia accolta da cortei, fiaccolate in ogni città che arrivava. I butteri a cavallo o i carri siciliani…. D - I due Oscar hanno influenzato l’opinione pubblica? C’era un ritorno anche in Italia? R - Non credo, più probabilmente tra la gente dell’ambiente specializzato. La strada, però, ha avuto successo in Italia dopo il

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trionfo enorme avuto in Francia quando la critica l’ha accolto come un capolavoro. Ha avuto un successo di rimbalzo a seguito dell’uscita francese con un successo di pubblico enorme. Dopo l’hanno scoperto anche qui. D - Era dovuto all’influenza del cinema francese? R - Il cinema francese sicuramente ha avuto una grandissima influenza sul pubblico italiano, specialmente quando da noi nei film non si poteva fare quasi niente. Per gli addetti ai lavori erano stati una scoperta film come La grande illusione, Quai des brumes. D - Quindi in quegli anni era più forte l’influenza critica del cinema francese che quello americano. Il cinema americano era più importante per il pubblico. R - No, però bisogna dire che questo risale più indietro, prima della guerra, alla mia prima giovinezza. La scoperta dell’America attraverso il cinema americano ha avuto su di noi un impatto fortissimo perfino con i film comici. I film comici erano delle rivelazioni per vedere come erano vestiti e come lavoravano gli operai americani. Mi ricordo un dettaglio. Qui da noi le banane non si sapeva neanche cosa fossero, erano un articolo di gran lusso. Mi ricordo che un personaggio in una pausa, seduto su di un asse, sbucciava e mangiava la banana. Io e gli amici ci dicevamo: “Una banana! Un operaio che mangia la banana?” Era un mondo nuovo. Non parliamo del western, anche quelli muti con Tom Mix. Andavo sempre a vederli. Il cinema costava quattro soldi, le panche di legno. Durante la grande guerra la sala venne insonorizzata, c’era l’orchestra. Era insonorizzata dall’orchestra. Quando c’era la battaglia sullo schermo, le mitragliatrici, l’orchestra faceva il rumore dei colpi con la raganella. Erano tutte cose che ci incantavano e veramente ci impressionavano. Il cinema americano ci impressionava. E poi il grande rapporto della naturalezza della recitazione, della facilità di recitare. Qui da noi la recitazione era quasi tutta di stampo teatrale, molto teatrale, molto recitata. Lì abbiamo scoperto la naturalezza, recitavano come

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vivevano. Quindi è stata veramente la trasformazione del modo di vedere nostro. È una delle ragioni, io penso, del prevalere del cinematografo sul teatro, la recitazione. Io ho fatto tanto teatro e sono sempre stato appassionatissimo del teatro, però c’è un abisso con il cinema. Devo dire che è tanto tempo che non vado più a vedere gli spettacoli e so che sono molto diversi da allora. Per molto tempo hanno convissuto questi due tipi di spettacolo. Il cinema è facilità e verità di recitazione, il teatro è legato per forza di cosa ad una recitazione. D - Arriviamo alla Dolce Vita. È un film simbolo perché rappresenta il boom economico. Ha un impatto fortissimo con le polemiche che fanno da cassa di risonanza presso il pubblico. Ha raccontato la società di quegli anni. R - Un certo tipo di società. D – Certo, uno spaccato. Può raccontarmi qualcosa? R - Non so cosa dire. Come tutti gli altri film ci siamo messi lì e abbiamo fatto il film. Vale a dire abbiamo raccontato quello che si vedeva intorno a noi, soprattutto un tipo di società. È sempre tutto legato al protagonista, è tutto in funzione del protagonista Marcello Mastroianni. Avrà letto da qualche parte che dopo I vitelloni ci era stato chiesto da tante parti, visto il successo, di fare una specie di seguito poiché finiscono con Moraldo che parte. Allora, avevamo scritto un soggetto Moraldo in città che era un’anticipazione della Dolce vita, cioè questo personaggio senza spina dorsale, convinto di arrivare. Il film è stato tutto incentrato in funzione di questo personaggio ed è passato dal soggetto mai realizzato ad essere l’asse portante di un altro film. Tutti gli episodi sono legati all’iter del protagonista in una società rinata, senza sapere dove andava, con un certo desiderio, una certa ansia di qualcosa di più. Specialmente nel finale questo straziante saluto ad una purezza, a un qualcosa che non si può raggiungere. D - Era una corruzione che si avvertiva nella società?

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

R - Sì, esattamente. D - Era presente nella spietatezza dei reporter vista nell’episodio di Sylvia e in quello di Steiner. R - Lei crede che sia solo tipico di quegli anni il fatto di Steiner? È un’anticipazione di ciò che succede ogni giorno. È proprio un episodio tutto mio, l’ho suggerito e scritto io. Purtroppo, la serata in casa di Steiner è stata poi riscritta ed è tutta diversa da quella che avevo fatto, risultando uno dei peggiori episodi del film. Però, questo l’ho detto a Federico. “Guarda che qui hai fatto una cosa che si capisce che quello si suicida se i suoi amici sono di quello stampo lì. Per forza.” All’inizio, invece, era un’altra cosa: Steiner si toglieva la vita per la disperazione della felicità. Uno che arriva al massimo della felicità, della dolcezza della vita con la bella moglie fedele e innamorata, i bellissimi figli, sa che oltre questo non può più andare e quindi per disperazione uccide se stesso e i bambini. Quindi non è un fatto di per sé. È veramente l’anticipazione di quello che sta succedendo adesso su scala infinitamente più vasta. Questo è un episodio eccezionale del film, non è nel tono degli altri episodi, proprio esce. Secondo me è uno dei punti più anticipatori di quello che sta succedendo adesso. Tutti gli altri episodi sono stati scelti proprio per descrivere degli aspetti del protagonista, veda l’episodio con il padre per esempio, veda l’episodio con Anouk Aimèe. Questa mescolanza di sentimenti, di amore che non è amore, questa incertezza del muoversi in un mondo abbastanza cinico. Non è che abbiamo voluto fare un quadro della società, abbiamo scelto degli episodi per raccontare un personaggio. D - Non è che avete raccontato la società, però attraverso questi episodi si può interpretare una parte della società. R - Esattissimo, soprattutto una società tipicamente romana. D - Ma questo cinismo che contraddistingue tutti i personaggi a cosa era dovuto? Alle attese deluse del postfascismo,

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della politica o all’immensa ricchezza che non si era in grado di gestire? R – Al benessere molto diffuso in modo anche questo ingenuamente anticipatorio. Guardi la festa che ha creato lo scandalo ed anche il successo di pubblico con questa che si denuda. Non s’era mai vista una cosa del genere. D – Uno spogliarello molto casto, non si vedeva niente. R - Niente. E anche questo è un’anticipazione di quanto accade oggi su scala enorme. È un fenomeno che è dilagato. Quindi cominciava qualcosa di questo genere. D - Improvvisamente dalla Dolce Vita a Otto e mezzo il cinema di Fellini cambia radicalmente. Dallo sguardo al mondo esterno si passa ad una ricerca interiore. È stato un momento in cui il mondo della cultura ha avvertito il bisogno perché la società lo spingeva in tal senso, è anche iniziato il cinema dell’incomunicabilità di Antonioni. R - Ma guardi che secondo me non c’è una grande cesura. Il personaggio è lo stesso. La sua ricerca attraverso altri ambienti è identica a quella della Dolce vita. Lì è stato individuata e localizzata nel giovane aspirante a far qualcosa, in Otto e mezzo nel personaggio di un regista affermato che non sa più cosa deve fare. La sua ricerca attraverso i contatti con i personaggi, gli ambienti è uguale, è precisa. La scena delle terme di lui con il cardinale equivale ad uno degli episodi della Dolce Vita. C’è una chiave di lettura addirittura impressionante. È sempre la stessa strada che Fellini ha imboccato dalla Dolce Vita in poi. D - Tra i due film c’è una differenza dal punto di vista storico più che per le tematiche. Apparentemente perde contatto con la realtà storica che non viene più raccontata come prima. R - Guardi che la realtà di Otto e mezzo c’è perché è quella dell’ambiente strettamente cinematografico, presente anche in successivi film di Fellini tipo Intervista. Ci sono gli stessi personaggi

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

che lo circondano con lo squallore di quest’ambiente, è sempre la stessa cosa. D - Negli anni sessanta inizia la crisi del cinema prima per la mancanza di nuovi talenti, poi per il mancato riconoscimento del pubblico con il cinema italiano, cosa che non accade, o accade in misura minore, agli americani, ai francesi. Nella commedia all’italiana, almeno, il pubblico aveva un processo di rispecchiamento. R - È vero. Certamente da un certo punto in poi quello che è stato più vicino al gusto dell’italiano, gusto per così dire, è stata la commedia all’italiana. Si sono riconosciuti nei film di Germi, di Monicelli. D - Questo fenomeno comincia negli anni sessanta e poi si amplifica nei settanta. Ancora oggi c’è una scarsità di generi. R - Dipende anche dal fatto che il pubblico si identifica sempre meno nel film perché si ritrova nelle telenovelas. C’è stato un passaggio come c’è stato in precedenza tra teatro e cinema; adesso lo spettacolo per eccellenza è la televisione. La gente va meno al cinema per ragioni comprensibilissime, logistiche: traffico infernale, acrobazie per parcheggiare… D - Si ricorda qualche episodio di costume sulla Dolce vita? R - Mi ricordo della lavorazione. Ricordo che si stava girando l’episodio della festa dei nobili. Nella sceneggiatura c’era una scena d’amore tra Anouk Aimèe e Mastroianni. Fellini mi ha mandato a chiamare e mi ha fatto vedere che c’era in questo vecchio castello una sorta di telefono interno per cui da questa sala attraverso una specie di tubo si parlava con chi stava in un’altra stanza. Quella scena era stata scritta in un modo diverso, cioè viso a viso. Lui mi disse che sarebbe stata meglio farla così e l’abbiamo cambiata. Mi ricordo anche gli sdegni di Germi. Io ho lavorato molto con Germi. Era furioso contro il film. Lui era un socialista

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L’ITALIA DI FELLINI

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deamicisiano, romantico, tutto d’un pezzo e questa rappresentazione della società lo rivoltava. Soprattutto diceva che il successo del film dipendeva più che altro dalla scena della ragazza che si spogliava, che in un certo senso in molti posti di provincia è vero, andavano proprio per vedere questa cosa inedita ed inaudita. Però gli ripugnava il film. Mi ha attaccato violentemente perché era anche violento nelle sue cose. Eravamo molto amici ma bisognava lasciarlo sfogare perché era violentissimo. Ricordo che ha attaccato a fondo il film e quindi me che ci avevo lavorato. D - Nelle Tentazioni del Dr. Antonio c’è un episodio che ricorda Scalfaro. Era lui? R - È Scalfaro. Per me, devo dire, che Scalfaro è stato una scoperta. Io lo ammiro moltissimo, è stato bravissimo come fedelissimo difensore della costituzione. Non credevo avesse quella forza lì. Questo fideismo cattolico, da parrocchia direi, l’ha messo nella sua funzione di Presidente della Repubblica. D - La politica era pressante in quegli anni. R - Siccome ho lavorato, per modo di dire, sempre in casa mia come autore, come scrittore, sono sempre rimasto fuori da questi contatti. Era sempre Fellini che li seguiva, neanche Flaiano. Flaiano ed io eravamo al di fuori di tutto questo. Noi ridevamo, oppure ci incazzavamo, ma i rapporti e le ripercussioni sociali, diciamo, non cadevano direttamente su di noi. Sono stato molto estraneo a tutto questo. D - Avrà sentito qualche cosa? R - Naturalmente, sentito e risentito e anche tanto, però dal di fuori insomma. D - Ad esempio Fellini si lamentava dell’ingerenza politica?

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INTERVISTA CON TULLIO PINELLI

R - Sì, ingerenze ecclesiastiche in certi film, ingerenze politiche per altri, senz’altro. D – Chiesa e politica seguivano i film fin dalla loro gestazione? R - Certamente, soprattutto attraverso i produttori perché non agivano direttamente sul regista e sugli attori, semmai agivano sui produttori che di rimbalzo cercavano di eliminare o limitare certi aspetti del film. Federico è sempre stato inesorabile su queste cose. Veramente una forza di resistenza assolutamente intransigente. Questo è uno dei suoi grandi meriti. Non si è mai piegato, andava dritto per la sua strada. D - I premi, nastri d’argento risentivano di queste polemiche, dell’ingerenza della censura, qualunque essa fosse? R - Può darsi, ma non più di adesso. Le cose sono sempre le stesse. C’è sempre un clan che appoggia i suoi favoriti. Anche nelle giurie le decisioni sono molto legate ai gruppi. D – Fellini ha sempre parlato di un certo tipo di maschio italiano. R - Certamente. Io penso che ci sia un’unità creativa legata al personaggio principale che è in definitiva sempre Fellini, a partire dalla Dolce vita soprattutto. Ciascuno di noi ha molto di Zampanò, ma non è che io o Federico ci identificassimo con Zampanò. Invece, Dolce vita e Otto e mezzo – in parte anche I vitelloni ma in un quadro più ampio, più disperso – sono, in senso latissimo, autobiografici. È lui, con le sue incertezze, le sue esperienze, la sua sfaccettatura anche morale. Perché non era un personaggio come Germi, tutto d’un pezzo. Era proprio sfaccettatissimo: bianco, nero, rosa, era tutto. Quindi le esperienze raccontate nei due film riflettono direttamente questo modo suo di essere e i personaggi che sono l’asse portante delle due opere sono sempre lui. L’impossibilità creativa che denuncia tragicamente di se stesso in Otto e mezzo si è verificata nella realtà.

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Intervista con Lina Wertmuller del 30 aprile 1995

D – Il cinema può essere un documento storico? R - Sicuro che il cinema ha valore storico. Ha già condizionato e ancora condizionerà la storia nei suoi corsi e ricorsi, come hanno sempre fatto le opere di grande comunicazione culturale. Se l’ultima guerra è andata come è andata dipende anche da Hollywood. Nessuno poteva odiare Gary Cooper! Nel bene e nel male l’immagine dell’America affascinava con le sue incantevoli commedie, le avvincenti avventure dei cowboys, i grandi gialli e perfino con gli abomini raccontati dai film sociali, "impegnati" come si direbbe oggi. Ed è interessante che tutto questo avvenisse per merito di registi europei riparati a Los Angeles con dietro alle spalle chi Hitler, chi Stalin. Questi autori dovettero reinventarsi in USA, come il grande Lubitsch e tutti gli altri registi ebrei che hanno fatto la grandissima stagione di Hollywood. Erano loro a darci l’immagine dell’America che ci affascinava. Persino la visione di Brecht, pure se profondamente critica, era sempre piena di fascino. Diceva: “L’inferno e il paradiso sono Hollywood”. Il cinema è un’arte di grande comunicazione; ha cambiato la faccia del mondo e tanto più la cambierà per mezzo della televisione. Anche se oggi diciamo che il cinema è in crisi, dobbiamo riconoscere che la distribuzione televisiva contribuisce alla più straordinaria e capillare diffusione culturale da quando esiste l’umanità. Mai si è consumato tanto cinema come oggi. Con la TV il cinema ha conquistato una grande vetrina, un gran mercato. Quindi esporta mentalità, modi di vivere, culture. Ci sono delle dimostrazioni clamorose di questo, non solo nel dopoguerra, ma anche prima. Durante il fascismo, per esempio, lo sforzo fatto dal fascismo di dare vita ad una cinematografia italiana fu tutt’altro che inutile. D - Anzi, riuscito per molti versi.

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INTERVISTA CON LINA WERTMULLER

R - Spesso i film di quel tempo erano bellissimi. Molti erano di soggetto storico, molte erano le commedie dette dei “Telefoni bianchi” che sono state però anche ottimi film sociali e psicologici. Il fascismo diede vita alla cinematografia che in seguito produrrà il neorealismo. D - Ha fatto rinascere anche il divismo che si era perso negli anni precedenti. R - La cosa più intelligente del regime fu di chiamare a dirigere la Cines Emilio Cecchi, il grande critico letterario padre di Suso Cecchi D’Amico. Nonostante il fascismo fosse un fenomeno di sottocultura tanto drammaticamente legato al suo tempo, esso cercò di conquistare quel valore intellettuale, che non aveva, proprio attraverso la cultura di cui era in soggezione. La cultura, poi, si lasciò tranquillamente "rispettare" - anche troppo! facendosi del tutto ossequiente alla dittatura. Tornando al cinema e alle sue incidenze storiche, dopo la guerra le immagini di De Sica e di Rossellini aiutarono l’Italia più di tanti sforzi fatti in altre direzioni. Sono state straordinarie perché hanno fatto amare la tenacia del nostro popolo, il suo sottobosco vitalissimo. Furono grandi documenti ed ebbero la capacità di nutrirci della nostra stessa cultura, anche perché, allora, tutti gli italiani andavamo al cinema, proprio come è celebrato da film come Nuovo Cinema Paradiso. Per questo avvenne quella trasmissione di cultura, di civiltà, di informazione, di letteratura che aprì la mente a tutti come non era mai successo prima, dai paesi alle città. Tanto più quando è arrivato Fellini. Fellini a tutto questo ha messo una vena, la vena dell’arte, della poesia, la vena immaginifica del lusso dell’immagine. Un grande artista proveniente da quella bella costa romagnola che gli aveva infiammato la fantasia. Improvvisamente, dunque, è venuto lui con il suo potere visivo di cinema puro. Di colpo l’immagine dell’Italia volò nel mondo come non era accaduto mai. Con la sua classe, con il suo lusso ha raccontato le sciaguratezze e le meraviglie dell’Italia, inventando Via Veneto, facendo comprendere cos’era l’antichità e

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L’ITALIA DI FELLINI

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la nobiltà disfatta dell’aristocrazia, il mito folle del miracolo religioso, il giornalismo portato allo scandalo. Insomma, ha fatto palpitare di una straordinaria vita questa Roma in cui poi sono accorsi i turisti. Agli occhi del mondo l’immagine dell’Italia era cambiata. Voglio dire, fino ad allora vinceva su tutto il negativo; l’antica visione dei poveri emigranti giunti in America miserabili ed affamati; la mafia con le sue esportazioni di terrore. D’un tratto vinse un’altra cosa. L’Italia apparve come il paese della bellezza e dell’arte come è! Un paese di regge e parchi, di artisti poveracci e mascalzoni, di appassionate, strampalate, incoscienti cicale, quello che vi pare, però è così l’Italia. E lui l’ha presentata, offrendone una vetrina, una poesia, una musica tale che ha rivoltato il segno della nostra immagine nel mondo. Perché attraverso un’immagine di Fellini tu non puoi non ricordare che l’Italia è prima di tutto arte, cultura, bellezza. D - Vorrei sapere del suo rapporto con Fellini, magari partendo dalla collaborazione per Otto e mezzo. R - L’ho conosciuto perché ero compagna di scuola della moglie di Mastroianni. Con Flora e Marcello ho cominciato a frequentare casa Fellini. Naturalmente da parte mia è stata subito una passione, un amore totale. In quel periodo facevo soprattutto teatro. Poi Federico mi chiese di lavorare con lui; mollai tutto e corsi a fare l’esperienza che mi proponeva e che rimase una delle più belle della mia vita. È stata un’avventura di quelle che ti aprono ad altre prospettive. Federico era talmente fuori dalle regole: concepiva la vita come un grande gioco diviso tra la realtà e la sua rappresentazione. Ha sempre seguito queste due vele, anche quando raccontava della propria infanzia a Rimini. La vita come rappresentazione, come sogno. A questo univa la sua straordinaria ironia. Era sempre disponibile a lasciarsi incantare e ad incantare, ma sempre sdrammatizzando tutto. Federico viveva d’immagini. Ricordo una volta che passeggiavamo insieme per corso Trieste. Era d’estate e c’era un negozio con una bancarella che vendeva costumi da bagno e

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INTERVISTA CON LINA WERTMULLER

bikini. Federico non poté fare a meno di notare una signora, dal sedere enorme, che sembrava avere tutta l’intenzione di acquistare per sé un minuscolo bikini. Ecco, il contrasto tra l’ingombrante realtà di quel culo e l’esile, sognante mutandina scelta dalla signora pure se lo inteneriva moltissimo, ancora più irresistibilmente lo divertiva. D - Lei lo ha aiutato anche a comporre il cast, quale era il suo metodo? R - Ricordo che a Milano pubblicammo su tutti i giornali un annuncio così: “Siete voi una bellezza rinascimentale? Pensate che avreste potuto influenzare la flora di Tiziano? Immaginate che la vostra calda bellezza mediterranea possa....” E lì tutta una tiritera di riferimenti anche pittorici ed estetici. “Se vi considerate così, presentatevi dalle 5 alle 7 a Piazza 5 giornate. Forse sarete scelte per partecipare ad un film”. In quella piazza c’era la sede della “22 Dicembre”, la casa di produzione dove lavorava Kezich e che poi mi fece debuttare. Non è possibile immaginare cosa successe. Federico si squagliava, facendosi sostituire da me. E io mi ritrovavo una piazza veramente piena di donne di ogni tipo, genere, fisico e età. Bambine e vecchie paralitiche, supersventole, gobbe, storpie, qualunque cosa. Io le selezionavo per lui che poi si divertiva a parlare con le poche rimaste. D - Negli anni ‘50 Fellini usava molto attingere le fonti dei suoi film nel mondo esterno. Per Le notti di Cabiria aveva frequentato per molti mesi, grazie alla sapiente guida di Pasolini, il ritrovo delle prostitute romane, la passeggiata archeologica, e le borgate della capitale. Per La dolce vita ha vissuto fianco a fianco ai fotoreporter, ai paparazzi. Ma da Otto e mezzo il modo di preparare le sue opere cambia. R - In Otto e mezzo raccontava la propria profonda crisi esistenziale ed artistica.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D - Certo. Ma è possibile che questo significasse, oltre all’analisi interiore di Fellini, un momento del cinema italiano, cioè il passaggio dal tentativo neorealista di rappresentare fedelmente la realtà ad una chiusura nei confronti del mondo esterno? R – Una crisi dell’autore nel senso dell’introspezione? Perché no? Federico andava per la sua strada. Tuttavia il parallelo si può tentare. In quel periodo l’Italia cominciava a perdere la serenità nel raccontarsi. Era come se uno scoglio avesse fatto frangere l’onda del cinema italiano in diverse direzioni. Quella politica, ad esempio, di cui si occupavano Francesco Rosi e Visconti che trattava, in realtà, della storia raccontandone tutte le decadenze presenti e passate. Quella di Federico: dominata dall’introspezione, dalla lotta fra la paura della morte, i giochi infantili, i sogni, l’eros, la magia. E quella esistenzialista di Antonioni, soggiogata dall’enigmatica spirale dell’incomunicabilità. Ora la televisione ha sostituito quell’articolato raccontare non solo con dei notiziari, che sarebbe poco male, ma con la lotta politica, la dura lotta per conquistare il potere. E questo ha ammalato tutto, ha fatto diventare i quiz e la politica le due grandi vele del tempo libero degli italiani sviandoli da quel raccontare che avrebbe in sè una qualità ben più formativa e profonda. D - Nella sua opera degli anni ‘50 Fellini ha descritto l’emarginazione della società italiana del dopoguerra. Ha descritto la poesia della povertà contrapposta alla decadenza e alla corruzione della ricchezza. Poi arriva La Dolce Vita in cui c’è questa Roma disarticolata, confusa in cui la periferia della città è rappresentata con casermoni, senza strutture, abbandonata alla miseria. E in contrapposizione la Fontana di Trevi che appartiene ad un mondo magico. Non esiste una via di mezzo tra questi due stati d’animo. R - Si stava realizzando il delitto di cui parlavo prima e questo lui lo sapeva benissimo. D - Mi sembra che le lotte politiche abbiano diviso anche il mondo intellettuale. La critica di parte doveva, infatti,

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INTERVISTA CON LINA WERTMULLER

necessariamente trovare un simbolo da contrapporre agli “altri”, al “nemico”. R - In qualche maniera Visconti era il fiore all’occhiello del Partito Comunista. E, in qualche maniera, Fellini di Dio se ne occupava di più anche se lo faceva per raccontare i suoi meravigliosi cardinali. Insomma, comunicando le sue paure. Certamente li contrapponevano; erano personalità folgoranti e con loro c’erano le rispettive corti. D -. Erano le corti il motivo di scontro? R - Anche! Cortigiani vil razza dannata. Alla fine cosa succedeva? Mastroianni lavorava con l’uno e con l’altro. I due registi avevano grande classe e usavano gli stessi artisti. Ma sotto, sotto c’era un “rosichino”, certamente le due corti si guardavano in cagnesco. Luchino era un signore rinascimentale e aveva una corte che era il lusso della sinistra, la ciliegina sulla torta. Prima della sinistra c’erano l’aristocrazia e l’estetismo. Quella corte era nata in teatro, ma certamente era presente anche nel cinema, sebbene fosse più protetta dal teatro. Federico, invece, era tutto al contrario. Le sue corti erano sgangherate, piene di puttane e ballerine, clown e intellettuali ritorti. Federico si circondava di stimoli che lo divertivano. Di Luchino lo incuriosiva soprattutto il personaggio che ammirava molto. “Ce l’ha tutte. - diceva – Ė bello, è ricco e nobile, è bravo e ha anche tutti i capelli.” L’amicizia scattò più tardi a Mosca su uno scalone del Cremlino. Uno scendeva, l’altro saliva e fecero amicizia ridendo di quella finta polemica che si voleva ci fosse tra loro. D - E Antonioni? R - Antonioni era più solitario, non aveva corti. Aveva la Vitti. Antonioni è stato il primo che è uscito dall’Italia. Quando Federico cerca la dea della bellezza dei nostri tempi la prende a Hollywood, ma la porta a Roma. Visconti, invece, naviga in Europa, si rivolge al passato ed alla sua decadenza.

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D - Questa grande divisione del mondo intellettuale aveva degli effetti sulla popolazione? R - Il pubblico quando era al cinema non pensava a niente. Andava al cinema e basta. Anche oggi. Nonostante il lavoro di fondo fatto da certi partiti per far diventare politicizzato ogni pezzo della vita degli italiani: un lavoro fatto in modo molto accurato. Come sempre le strutture dei partiti sono strutture di potere e si sono infilate in tutti i gangli della vita italiana e, soprattutto, nel cinema. Tutti gli intellettuali sono stati sempre di sinistra. Secondo me, però, solo apparentemente perché, come lei sa, gli artisti sono in realtà totalmente anarchici. Ognuno è iscritto solo al partito di se stesso. Non è nella mente di un artista di appartenere interamente ad un’ideologia. Ciò non toglie che l’artista debba sempre lavorare grazie al potere che glielo permette. Il fascismo riuscì a portare tutti i giovani letterati al cinema e dette vita così ad un grandissimo cinema. Questo è successo anche nel dopoguerra; molti dei nostri grandi registi sono nati scrittori, solo dopo sono diventati registi. Certamente c’è un grande legame tra il narrare e il cinema. C’è chi narra attraverso la parola, appunto lo scrittore; c’è chi narra attraverso l’immagine ed è magari pittore o fotografo; c’è chi narra attraverso la realtà cioè il giornalismo. E da questo humus, spesso, gli autori sono pervenuti al cinema. D - Mi parli del personaggio Fellini. È vero che si disinteressava delle critiche che gli venivano mosse dagli ambienti ecclesiastici e politici? R - Se ne disinteressava tanto che aveva, praticamente, il suo gesuita personale, padre Arpa, che andava a vedere sempre tutto e lo consigliava. Federico era cattolico com’era spiritista. Subiva tutti i fascini, le paure e le curiosità e le imprudenze dell’irrazionale, senza mai nessuna sicurezza. Anche in politica solo in apparenza se ne fregava. D - Ma era politicizzato?

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INTERVISTA CON LINA WERTMULLER

R- No, lo hanno strumentalizzato tutti, ma lui non si interessava della politica in senso ideologico, solo in quello dello spettacolo. Insomma si interessava più dell’uomo che dei giochi di potere. D - Altri problemi Fellini li ha avuti dalla censura. Com’era il regime censorio di quegli anni? R - Si sentiva, eccome si sentiva. Fortunatamente ho cominciato a lavorare nel ‘61 e il peggio era già passato. Tuttavia si avvertiva moltissimo. Però lo si riconosceva più nelle paure e nelle prudenze autocensorie che non propriamente in campo politico. Ma certe cose si sono fatte lo stesso: i film di Rosi sono state delle belle denunce. Le Mani sulla città credo sia uno dei più bei film politici mai fatti, una forte denuncia di che cos’era un consiglio comunale corrotto. Ricordo ancora, sarà stato il 1966, quando ho fatto Gianburrasca in televisione. Avevo scritto una canzone che era dedicata a Marx. Quel tango generò una crisi terribile. Insomma, mi fecero cambiare le parole e sparì ogni riferimento a Marx. D - Fin dal suo apparire Fellini individua la televisione come un fattore negativo. In quegli anni la televisione stava vivendo la sua esplosione. Forse in concomitanza con questa comparsa c’è una certa volgarizzazione e una mitizzazione distorta della vita che sono descritte efficacemente nella Dolce vita. La televisione ha orientato negativamente la mentalità degli italiani fin dalla sua apparizione? R - Sì, anche se sicuramente la nostra tv è cominciata privilegiando la qualità rispetto alle altre televisioni. Allora la nostra piccola televisione in bianco e nero faceva del buon teatro, della buona rivista, dei buoni sceneggiati. Era un po’ come il cinema del ‘30. Aveva qualità e classe nonostante la volgarità del periodo.

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L’ITALIA DI FELLINI

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D - Aveva il merito di essere pienamente italiana, non scimmiottata sulle tendenze di altri paesi. R - Esatto, Gianburrasca andava il sabato sera. D - Era facilmente riconoscibile dal pubblico. Quando è venuto a mancare questo rapporto tra il nostro cinema e il pubblico? R - Quando si è ammalato il rapporto tra il pubblico e il cinema italiano, si è ammalato tutto. Perché si è ammalato? Dicono che è colpa delle mancanze di idee. Per me è accaduto per un coacervo di ragioni. Certamente c’entra la televisione, c’entra la potenza degli americani che fanno sempre del cinema molto gradevole, certamente c’entra una non preparazione, avvenuta negli anni ‘70 e ‘80, delle nuove generazioni e la loro presunzione. Certamente c’era un eccesso di politicizzazione e tanti altri motivi. Adesso bisogna assolutamente ritrovare questo rapporto perché se no si diventa veramente un paese di serie B. Se un paese non si rappresenta e non si identifica, non si racconta, non si conosce, non si ama con il suo stesso cinema che è, con la letteratura e il teatro, il segno dei nostri tempi, la situazione è gravissima. D - È possibile dire che con il boom economico inizia il declino di tutte le forme artistiche? R - Non con il boom economico, dopo. Il declino ha cominciato ad evidenziarsi paurosamente alla metà degli anni ‘70. D - Non si potrebbe far comunque coincidere questi due momenti? R - Non saprei. Certo coincide con un momento di confusione sociale. Prima era tutto più semplice. Si sapeva chi era il nemico, si era tutti in squadre ben definite. C’era la licenza, il permesso, la possibilità di divertirsi senza vergognarsi. Voglio dire, il cinema aveva un tale ventaglio di proposte che c’era posto per tutti. Si consideravano volgari i popolarissimi film di Totò e quelli

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INTERVISTA CON LINA WERTMULLER

di Franchi e Ingrassia. Si considerava la commedia all’italiana un buon secondo piatto in cui gli italiani potevano riconoscersi e così il giallo all’italiana. E oltre a tutto questo c’erano i film più importanti. Allora gli italiani tutte le sere andavano al cinema, tutte le sere! Grazie a questa varietà d’offerta finirono con andare a vedere il cinema italiano, più che quello americano. Questo pubblico era la grande qualità del nostro paese. D - La scelta di Fellini come simbolo dell’Italia degli anni ‘50 parte dal presupposto che, per assurdo, il regista che meno si è occupato della realtà quotidiana è quello che più rappresenta l’italiano. R - Beh, in qualche modo è vero. Infatti, il film più politico fatto in Italia negli ultimi sessant’anni, è Prova d’orchestra. Non c’è ombra di dubbio. Lì capisce che l’artista deve trasformare, deve parlare per allusioni, deve parlare per simboli. Per il realismo c’è già la televisione. Perché Rosi è grande e si rifiuta di fare un film a caldo? Perché non gli va di fare la televisione, vuole continuare a fare cinema. D - Ė ardito allora dire che Fellini rappresenta l’italiano medio? R - Direi che lui ha portato al massimo di incandescenza il pentagramma su cui si muoveva l’italiano medio, la piccola borghesia, la donna, la chiesa, la provincia. Questo pentagramma, tradotto nel lusso dell’immagine e del racconto, era solo apparentemente la sua autobiografia con le sue paure, i sogni, l’infanzia riminese, la cultura romana. La sua avventura romana è stata molto più divertente di come l’ha raccontata. Nel famoso Moraldo in città che non ha mai fatto, c’era tutto il racconto della guerra: Roma invasa dagli americani, il negozio di caricature, il mondo del Marc’Aurelio. Insomma, I Vitelloni finiscono con la partenza da Rimini, La Dolce Vita nel ‘60, poi c’è Otto e mezzo: la crisi dell’autore. In mezzo ci sono quei dieci anni del Moraldo in città che non ha mai fatto.

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Perché? Per paura credo. Era il vero film che doveva fare Federico. Mi sarebbe piaciuto vederlo.

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Intervista con Bernardino Zapponi del 5 giugno 1995

D – Che tipo di rapporto c’era tra il cinema italiano e la realtà sociale nel secondo dopoguerra? R - Il cinema non può mai prescindere dalla realtà. All’inizio il neorealismo è cominciato raccontando gli stracci, i bombardamenti, la miseria, le prostitute, i sciuscià, tutto quel mondo lì. Un’immagine disastrosa di un tipo di società che esisteva, ma gli italiani sono come le lucertole che continuano a vivere lo stesso anche se tagli la corda. Così hanno cominciato a ricostruire, la gente ha cominciato a mangiare regolarmente, non più comprando la roba alla borsa nera, ma nei negozi. E allora per forza di cose con Castellani (Due soldi di speranza e Sotto il sole di Roma), con Germi ed i suoi primi film, con Fellini (Lo sceicco bianco) è nata quella che si chiama la commedia all’italiana che c’era già in germe anche nel neorealismo. Aristarco non era molto d’accordo, però secondo me ci sono delle scene nei classici come Ladri di biciclette e Paisà che sono già commedia all’italiana. Se si pensa alla scena bellissima nella pizzeria a Trastevere dove vanno a mangiare Maggiorani e suo figlio in Ladri di biciclette in cui c’è quel bambino che mangia la pizza, il calzone, e si guarda intorno con aria di superiorità. Oppure l’episodio della mensa dei poveri con quei personaggi ridicoli, quella è già commedia all’italiana. La scena del bambino che mangia la pizza poteva essere in un film di Risi. Io gliel’ho detto ,ma lui mi ha risposto che non l’avrebbe saputa girare così. Anche in Paisà l’episodio di Firenze del colonnello testa di cazzo che sta sul terrazzo e dice “Io ho fatto la grande guerra, quella vera!” Insomma, c’erano già i generi che poi si sono sviluppati. Certo, si è perso lo slancio, ogni desiderio di impegno sociale che c’era ad esempio in Rossellini. Fellini, invece, recepiva tutto quello che c’era intorno anche se più che altro perseguiva un suo scopo, un suo itinerario. Naturalmente Fellini raccontava il suo mondo di Rimini, la sua esperienza dei vitelloni. In Lo sceicco bianco c’erano i fotoromanzi perché uno si serve di quello che c’è intorno, però è soltanto la

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

storia di una piccola provinciale. Arrivata a Roma, la prima cosa che ha fatto è andare a vedere il suo idolo, il suo divo che allora era uno dei fumetti, oggi potrebbe essere, che ne so, Kim Rossi Stuart. La società del dopoguerra era quella lì. Era molto allegra, molto libera, non c’erano ancora le leggi, il mondo della censura come capita sempre in quel tipo di periodi. C’era uno slancio vitale, ottimistico che poi si è un po’ spento. Sono subentrati altri personaggi, altri ambienti come quelli che ha raccontato Alberto Sordi con la commedia all’italiana che sono tutti mostri. La critica francese, che approva molto la commedia all’italiana, ci chiede perché non facciamo più quel tipo di film. Hanno anche detto, però, che nella commedia all’italiana, era molto complice l’atteggiamento del nostro cinema. io sono d’accordo. In fondo facendo rappresentare da Sordi, in modo comico e simpatico, certi mostri di palazzinari, sfruttatori, abbietti, volgarissimi si diventa anche complici: Sordi stesso era complice dei suoi personaggi, c’era un ammiccamento, mancava la durezza di uno Stroheim. D - Un autore imparagonabile a Sordi…. R - Proprio l’opposto, lui bombardava. Ma tornando a Fellini si può dire che fossero tutti i suoi amori quelli lì. In Luci del varietà raccontava le sue esperienze personali nel mondo dell’avanspettacolo. D – In Fellini la stampa è sempre mostrata con atteggiamenti patologici, soprattutto nei fatti di cronaca nera. La gente approvava e seguiva con altrettanta morbosità? R - Mi ricordo che a Roma cominciavo a collaborare ai giornali e certi quotidiani negli anni ‘50, anche prima. Io facevo la cronaca, avevo 18 anni. Era un fenomeno nuovo per gli italiani perché prima nel tempo fascista, con la censura sulla stampa, la cronaca nera era abolita. Sa che non c’era la cronaca nera? Soltanto qualche piccola cosa. Invece dei suicidi si diceva: “Sbagliando con la varechina ecc….” Non c’era, oppure davano 5-10 righe al massimo perciò la

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gente non sapeva bene cosa accadesse. Dopo la guerra ci si è buttati voracemente sulla libertà di stampa e si raccontavano gli scandali come quello della morte di Wilma Montesi. Poi è nato tutto un giornalismo scandalistico. C’era un giornale come Lo specchio, anche lo stesso Il borghese che vivevano del pettegolezzo, delle insinuazioni, del ricatto fino ad arrivare a Pecorelli che c’ha lasciato la pelle su questa voglia di fare scandalo, di scoprire le magagne. D - Come sono nati i paparazzi, il mondo della stampa che ha appena detto? Tra l’altro non tutti i fotografi raccontati da Fellini sono romani, ad esempio Paparazzo è veneto. R - Venivano a Roma dalla provincia a cominciare da Fellini stesso. Era il periodo in cui c’era l’allegria a Roma, il clima da miracolo economico, perché c’erano gli americani che venivano a girare a Cinecittà e portavano molti divi. Roma era piena di questi grandi attori. Via Veneto era un po’ un punto di ritrovo, non dico la piazza del paese, ma era una strada bella. C’erano dei bei ristoranti, locali notturni, dei caffè. Era proprio bella come strada con questa curva che sembra quasi una sciarpa. Quindi ci si ritrovava lì. Quello era il mondo della dolce vita, ossia di gente che viveva allegramente piena di soldi o con la speranza di farne senza tanti problemi. Era quella società che Schopenauer ha definito formata da quelli che esorcizzano il nulla, una bella espressione. Vivono esorcizzando il nulla. Prendevano la cocaina che c’era già al tempo fascista, la prendevano i gerarchi. Fellini non ha potuto non sentire, ci viveva anche lui in mezzo. In un certo senso c’è anche il suo rimpianto di giornalista per una carriera che aveva cominciato e poi non ha fatto. E forse il cinema è anche un po’ una distrazione perché lui si sentiva colpevole, chissà. Lui scriveva molto bene. Allora si creava la morbosità, la richiesta della foto scandalosa, la famosa posa di Walter Chiari che insegue il fotografo. C’e una mitologia su questo che ha colpito Fellini. Roma viveva in un periodo fortunato, di grande decadenza ed uno scintillio un po’ macabro, apparente che mascherava una certa putrefazione, o perlomeno una inquietudine.

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

Tanto è vero che Mastroianni è un personaggio inquieto, non è uno che si adagia in quel mondo, tutt’altro. Ha dei problemi, va da Steiner, dal prete….. D - Cerca un modo di sfuggire questa vita ma non riesce a trovarlo. R - Certo, infatti Steiner gli chiede di tornare a scrivere un romanzo piuttosto che lavorare su giornaletti fascisti. Però Steiner, d’altro canto, è uno che si uccide. Infatti, Rizzoli diceva “Maestro, non puoi farmi questa scena. Un poeta che mi fa questa scena terrificante!” In effetti è molto forte. Non è molto realistico il salotto di Steiner che risulta un po’ fasullo, un po’ per sentito dire. D’altro canto quel mondo lì è difficilissimo da rappresentare: il mondo borghese, il mondo ricco. Soltanto Bunuel c’è riuscito, anche Antonioni. Il lato debole del film è proprio questo episodio, anche quello dei nobili. Anche se in quello dei nobili c’è un’altra luminosità. D - L’ordine araldico si è scagliato contro il film. R - L’aristocrazia romana è una delle più meschine, più grette, papaline e reazionarie. L’aristocrazia nera: più che monarchici, sono papalini. Sono una minoranza, ma c’è ancora quella mentalità gretta per cui non c’è da meravigliarsi che si siano offesi. Dappertutto questi nobili sono suscettibili e chiusi. Anche in Roma abbiamo raccontato questi nobili. Non mi ricordo se c’è oppure se è stata tagliata la scena in cui una signora dice “Si è persa l’amicizia con la chiesa.” È una frase vera che abbiamo sentito dire. Insomma era molto legata al Papa. D - Come si è perso l’ambiente di via Veneto? R – Ė passato di moda negli anni sessanta, settanta. È passata di moda, non c’erano più i divi, quelli che c’erano non ci andavano più. È cambiata la società. Sono passati di moda quel tipo di locali notturni, i night. Ce n’erano tanti: il Gitti Club, la Rupe Tarpea. Facevano tanti spettacoli, spogliarelli, le entreneuse.

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D - Gli spettacoli esotici mostrati nella Dolce Vita come nella scena iniziale. R - Il locale notturno tristissimo dove vanno con Paparazzo è stato ispirato al Florida, ma non era quello. Però lo squallore, il tipo di locale è quello lì. Ci andavano i provinciali, arrivavano con il treno…. D - Il mito della capitale era molto forte. R - Certo. Roma è una città che ha sempre attirato molto. Ha un suo fascino, anche torbido inteso nel senso di lascivo. Erano richiamate ragazze che volevano fare foto, le modelle, il cinema, la televisione, insomma esibirsi. Non attira chi vuole fare gli affari, anche se gli affari si fanno. Non è però Milano. A Milano ci va la gente che vuole fare quattrini, oppure le ragazze per la moda. A Roma c’è un misto di tutto questo, ma c’è anche un fascino antico. Una città bella, per gran parte degradata. È facile fare amicizia, non ti senti solo. Ho vissuto parecchi anni a Milano. Ricordo che a Milano se non avevo programmato la serata, ad un certo momento sparivano tutti. Non è che c’era un punto dove potevo trovare qualcuno. Qui, uno se si trova solo va a Piazza del Popolo, al Pantheon, a Piazza Navona….. D – Può parlarmi della divisione tra critici marxisti e i cattolici nei confronti del cinema felliniano con il conseguente dualismo Visconti- Fellini? R - Visconti piaceva molto alle sinistre perché lui si è sempre professato comunista. Si è sempre appoggiato a questo. Ha sempre avuto dalla parte sua Aristarco, i vari Miccichè. Fellini non era allineato affatto. D - La critica cattolica ha difeso Fellini, salvo attaccarlo massicciamente per La dolce vita.

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

R - Lo ritenevano un autore cattolico per certi versi lo è. Ma è un cattolico come lo poteva essere Bunuel, un cattolicesimo ambiguo, più che altro di carattere nevrotico, anarchico. Era una cosa molto composita. Lui ha fatto sempre quello che pensava. Era anche scaltro, però, non era mica uno sprovveduto. Si dava da fare, capiva chi doveva circuire. Per cui quando Le notti di Cabiria ebbe il parere negativo della censura, fece vedere il film a Siri. Siri ha detto “Povera Cabiria, dobbiamo fare qualcosa” E poi ha dato il placet. Naturalmente poiché era uno spirito libero, uno spirito disubbidiente e dispettoso come i gatti, ha fatto quello che gli pareva. Quando ha visto il mondo della Dolce vita ha seguito l’ispirazione, l’istinto. Quelle cose che scandalizzavano allora, quando non c’era da scandalizzarsi, come Anita Ekberg che sale le scale di S. Pietro vestita da prete, non erano un oltraggio ad una rappresentazione divina. Allora c’erano queste forme di moda, questa ostentazione, questo cattivo gusto. Mi sembra che La dolce vita sia un film se non cattolico, molto cristiano. C’è il senso della colpa, del peccato, del castigo. Ha sempre avuto questi soggetti nella sua filmografia. La punizione anche in Otto e mezzo, ma la chiesa la vedeva come qualcosa di punitivo, di ostile. Non c’è amore per la chiesa. Piuttosto la nostalgia di uno che ha avuto un’educazione cattolica e si ricorda di quando è stato in collegio con certe atmosfere con queste grandi chiese, l’incenso, il buio del confessionale. Sono cose che si portava dietro dalla sua infanzia. È diventato un po’ la bestia nera della critica di sinistra perché era uno che non andava alle riunioni, da nessuna parte. La cosa poi è sfociata in una specie di antipatia tra Fellini e Visconti. Fellini accusava Visconti di aver organizzato una claque negativa, un concerto di fischi a Venezia. Otto e mezzo è piaciuto alla critica cattolica? D - Sì, Rondi ne parlava molto bene. R - Ne ha sempre parlato bene. D - Tranne che per La dolce vita

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R - Come diceva Pasolini: “Sei talmente ipocrita che quando sarai all’inferno, ti crederai in paradiso.” D - Fellini ha avuto tantissime collaborazioni con personaggi della letteratura; lei, Pasolini, Zanzotto e altri. R - Seguiva molto gli autori nuovi, tanto è vero che a me ha telefonato dopo aver letto i miei racconti. Fino alla fine leggeva molti libri che uscivano. Recentemente aveva telefonato a Marco Lodoli di cui gli avevo fatto leggere I fannulloni. Un libro molto carino Lui disse che gli era piaciuto però erano personaggi che aveva già raccontato. Gli ha comunque telefonato, si sono visti, forse hanno fatto qualche progetto. Aveva telefonato anche alla Tamaro, gli interessava scovare nuovi autori. Con Pasolini c’era un rapporto molto sprezzante. Pasolini era rimasto malissimo quando Fellini non gli ha più prodotto il film. Voleva fare Accattone. Era una bellissima sceneggiatura in cui dava l’idea di una certa Roma e di certi personaggi. È stato un grande dolore per Pasolini, stava quasi per uccidersi perché era un fallimento di un progetto a cui teneva molto. Dopo l’uscita del film non c’è più stata grande amicizia tra di loro. Pasolini era una specie di pastore luterano divorato come il personaggio della Lettera scarlatta. Un personaggio un po’ così: omosessuale senza poterlo dire allegramente, mascherato. Io credo alla versione di Pelosi che corrisponde perfettamente a ciò che sappiamo di lui. Era un tipo molto violento nelle passioni, privo del senso dell’umorismo. Non rideva mai. D - Lei ha conosciuto il mondo dell’avanspettacolo? R - Io ho fatto l’avanspettacolo. Le due grandi scuole negli anni cinquanta erano Marc’Aurelio e l’avanspettacolo. D - I personaggi di molti film di Fellini. R - Quelli splendidi dei Vitelloni. Lo splendido personaggio di Maieroni. Perfetto nei due boys che sono uno pelato, l’altro con gli occhi storti. L’avanspettacolo si chiamava così perché era prima

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del film. In molte sale c’era l’avanspettacolo e il film. Lo spettacolo durava mezz’ora, tre quarti d’ora che potevano diventare anche un’ora e mezza, due quando andavano in provincia e si trasformavano in una rivista. Insomma, quando uno andava al cinema era un movimento di tre, quattro ore. D - C’erano delle ballerine non particolarmente attraenti R - C’erano i diversi livelli. A Milano c’era lo Smeraldo che era ad alto livello. A Roma c’era il Quattro Fontane. Io ricordo che c’era un teatrino osceno a Trastevere dove una ballerina girando cascò di sotto, uno squallore. Fischi, gente che parlava in continuazione, buttavano le noccioline, spietati. A Roma questo diventava anche un po’ l’eredità del Circo Massimo con la cattiveria, la violenza contro l’attore, il mimo. Contro quelli che rappresentavano c’era proprio una cattiveria particolare. Anche L’episodio del gatto morto che viene buttato era vero. Era vero anche il gatto perché Fellini non ha trovato un gatto finto che lo soddisfacesse. Non ci ha messo due volte a trovarlo. Anche in altri episodi di film ha fatto dei massacri di bestie. Non c’è una cosa con i vitelli morti, sul raccordo anulare? D - In Roma. R - Ecco in Roma. D - Questi personaggi dell’avanspettacolo…. R - Venivano da piccoli teatri provinciali. C’erano moltissimi napoletani. I napoletani hanno una forza comica innata. Sono sempre bravissimi. Quello che conta è avere i tempi giusti, la comicità è fatta di questo. E loro ce l’hanno. Sono nati con l’istinto del palcoscenico. Ricordo che Orson Welles diceva: “L’Italia è un paese di 50 milioni di attori. Sono tutti bravi tranne quelli che fanno gli attori” C’erano insomma di vari livelli. Io mi ricordo di aver fatto una cosa con un certo Pippo Volpe, un comico, i fratelli Martana che erano di livello importante. Facevano ridere, avevano belle

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ragazze. Insomma belle ragazze….culone, ragazze grosse con tettone, ammiccanti e anche simpatiche. Pessime cantanti, pessime ballerine…… D - In provincia impazzivano per queste ballerine R – Beh, le ragazze, essendo dello spettacolo, erano connotate come disponibili, come mignotte. Quindi le si poteva corteggiare come nei Vitelloni. Questo mondo è scomparso perché sono passati di moda i piccoli spettacoli un po’ squallidi, non si accettavano più. C’erano ormai le belle riviste al Sistina, nei grandi teatri con Wanda Osiris, Rascel, Dapporto. Il gusto si era un po’ raffinato, poi non sono più venute le nuove leve ed hanno trasformato l’avanspettacolo nello strip tease, nello spogliarello. Ma non credo neanche che gli abbia nuociuto la rivista. È morto perché questi attori sono diventati protagonisti come Rascel, Tognazzi, Dante Maggio, Dapporto. Hanno fatto compagnia e si è sempre più impoverita la riserva. Altri nuovi non ne sono venuti perché mancava la scuola oppure stava diventando tutto inattuale. C’è nell’aria qualcosa per cui decade un certo genere, per lo stesso motivo oggi nessuno scriverebbe più un poema in ottave. Sono finiti così anche autori di copioni per mancanza di una scuola come Marc’Aurelio. Devi avere un orecchio perfetto per far ridere. Le sceneggiature erano fatte con gran cura, adesso vedo una grande sciatteria. C’è solo il genere comico, poi c’è Moretti e certi che fanno comicità a loro modo come Nichetti. Benigni è un caso a parte, non assomiglia a nessuno e non farà certo scuola. A volte mi chiedo perché la gente lo vada a vedere, fa cose strampalate, senza senso. Ad esempio fa degli errori di grammatica come nel Mostro. È un caso a parte, ma possiamo dire che è qualcosa di nuovo. Anche lui appartiene alla tradizione della commedia dell’arte con Stenterello, le marionette, Pinocchio. Ci sono tanti richiami. Lo conoscono anche in America in certi ambienti. D - Si può collegare la scomparsa al fattore economico.

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

R - Certo, era un po’ miserabile come soddisfazione. Poi l’escalation erotica…….. D - Nell’immediato dopoguerra quando non c’era lavoro, molta gente si è riciclata così non per disperazione, ma perché non aveva altre opportunità. R - Nell’avanspettacolo non ci si poteva improvvisare. D - Le ballerine? R - Le ballerine sì, sono sempre state improvvisate. Erano l’amica di quello, quella che andava con qualcuno, la bonona. Era un po’ come andare al casino, l’avanspettacolo. Poi c’era il clima della passerella dove urlavano “Bona!” in mezzo al fumo…… D - La prostituzione, la legge Merlin. R - È stata una perdita tremenda. Storicamente non poteva più esistere perché il Casino era legato ad un periodo storico, non tanto come abitudini, ma proprio come atmosfera, come rapporto tra uomo e donna. Era un rapporto molto più semplice, ingenuo. La donna era una presenza di tipo materna, somigliava di più ad una donna di servizio, alla balia, alla lavandaia, all’infermiera che all’immagine del peccato. Era un posto dove sfogarsi con il sesso tra le braccia di una donna che ti capiva, ti coccolava. Non c’era neppure il rischio di malattie perché erano sorvegliate. È finito questo ed è finito l’ambiente del Casino, splendido dal punto di vista dell’arredamento. Erano tutti arredamenti molto datati. Ma anche quando c’erano i Casini c’erano le donne per strada, forse non c’erano nel periodo fascista perché era tutto molto sorvegliato. Le notti di Cabiria raccontava quel periodo. Erano ancora aperti i Casini Era tutto molto più innocente, non come adesso. D – Passiamo al Bidone. Nel film il mondo dei bidonari viene contrapposto al mondo dello spacciatore di cocaina, alla festa di fine anno.

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R - Il personaggio dello spacciatore era stupendo, doppiato da Manfredi se non sbaglio, stupendo per la sua spietatezza. D - La delinquenza dovuta alla fame, alla borsa nera stava definitivamente scomparendo. R - La stonatura del film era legato alla presenza di Broderick Crawford. Era un volto troppo americano. Il suo sorriso di amarezza era quello dei bar metropolitani americani in cui si va ad ubriacarsi da soli. È tutto un altro tipo di cupezza. Non è romano, non fa parte della nostra cultura. Si vede che la produzione ha chiesto un attore importante. Era una stonatura. Franco Fabrizi, invece, era credibile. Quello è il bidonista vero, ci crede. Si crede anche a Nazzari quando fa il divo. D - Faceva se stesso, fin troppo facile. R - Anche Perier fa benissimo, latino, francese, faccia delle nostre, italiano. Federico forse se ne sarà accorto di Crawford e poi era ubriaco dalla mattina alla sera. Federico mi diceva, la cosa è probabile ma con Federico non si sa mai se una cosa è vera o no, che quando è arrivato sono andati a cena insieme. Al momento del vino Crawford ha detto di no perché non beveva più. Poi sono andati a girare nei castelli romani, terra di vini buoni, bianchi che danno facilmente alla testa. Lui si è trovato ad una di queste feste che fanno alla vendemmia, una festa in cui ballano, girano i fiaschi. Ha visto questo mondo vinoso, bacchico e festaiolo. Insomma, l’hanno ritrovato ubriaco e da allora non ha più smesso. Anche Basehart, che andava meglio, però si sentiva che era un po’ troppo americano. Nella Strada non mi piaceva per niente, un personaggio finto, il Matto. Spesso Fellini aveva delle cose che a me davano fastidio come spettatore, sentivo un certo cattivo gusto, una compiacenza di certi vezzi, certi infantilismi: il Matto per fare i discorsi poetici… Aveva questo gusto infantile, giocare a fare il bambino.

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

D –Torniamo indietro a Luci del varietà, all’avanspettacolo e alle compagnie. Come erano organizzate? R – C’erano degli impresari che mettevano insieme una compagnia. Io ho fatto una cosa che era organizzata da Ezio Radaelli con i fratelli Martana, una coppia di comici. Organizzavano le cose. Dicevano: “Facciamo tre giorni a Viterbo, una cosa ad Empoli, una settimana a Genova” Occorrevano pochi soldi per partire perché questi poveracci prendevano due lire. Poi ne feci un altro con Achille Togliani che aveva messo lui stesso i soldi. Faceva il teatrale nei piccoli centri e l’avanspettacolo nei grandi centri. D - In Luci di varietà quando cade la gonna c’è una reazione entusiastica. R - Il fatto della nudità ……. C’era una censura molto rigorosa allora, anche sui copioni. Ricordo di essere andato al Ministero dello spettacolo con i copioni di rivista. La censura leggeva i copioni poi li approvava o meno. C’era una certa signora Tovini che aveva il suo aiutante, il dottor Faeta o Faita. C’erano due scrivanie, in una sedeva la signora alta, magra, molto distinta, bella donna. Lo scopo era di farsi approvare il copione senza tagli perché se tagliavano c’era il pericolo che venissero quelli della polizia per controllare se il taglio era stato fatto o no. Se il copione era approvato, non controllavano. Allora loro dicevano: “Chi dice questa battuta?” “Questa la dice Raffaele Pisu”. “Capito signora. La dice Pisu”. “Vabbè, Pisu sì allora. Ma mi raccomando che non calchi troppo…..” Questo era il clima. E se uno si azzardava ad andare fuori erano dolori. Quando si accorgevano poi… Ricordo uno spettacolo in cui Mario Riva quando arrivava la soubrette diceva “Come un sole che sorge (una frase di questo tipo) e poi aggiungeva – Che sorga!” Che innocenza eh! D - La censura era più di carattere morale, sul costume o sulla politica.

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R – Erano i tempi di De Gasperi, bisognava stare attenti a non sfottere il palazzo. Questo anche alla Rai. La televisione degli anni sessanta era tremenda. Io ho fatto L’amico del giaguaro a Milano. Telefonavano da Roma e riferivano “Questa battuta non si può dire, l’ha detto Palmieri che non la passa.” Allora tentavamo di controbattere ma loro dicevano “Si sfottono i tedeschi, è una cosa che non va bene… ” D - Come la famosa cacciata di Tognazzi e Vianello con Un, due, tre. R - Successe la fine del mondo. Noi abbiamo passato dei guai per una battuta che disse Corrado, scritta mi pare da Mino Zucconi. È rimasta famosa perché disse “Nel primo articolo della costituzione italiana c’è scritto che la repubblica italiana si regge sugli scioperi”. Ci dissero “Sfottere la costituzione! Ma siete pazzi!!” Il povero Corrado quasi lo cacciano via. La rivista era presa di mira perché era più popolare. D - Anche il cinema….. R - Erano molto rigorosi soprattutto sulle scene di nudo o sulla famosa scena dello stupro di Visconti che è stato tagliata. D - Le scene di massa di carattere religioso sono mostrate più volte da Fellini. R – Era pieno di bambini che vedevano la Madonna. Questi fenomeni, lo stesso Padre Pio, sono ricorrenti, ad ondate nella società italiana. Mi pare che in quegli anni erano successi dei casi tipo quelli della Dolce vita. Quelle erano le cose che davano più fastidio alla censura, quando Fellini andava a stuzzicare le cose religiose, furono le più osteggiate perché non bisognava irridere le credenze popolari. D - C’era un’attenzione forte da parte dei media? R - Forse c’era un po’ più di scetticismo di adesso.

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INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

D - La crisi dell’Ungheria e la pubblicazione del rapporto segreto su Stalin. Che riflessi avevano avuto questi avvenimenti sulla cultura italiana? R – Vede, sono sbalordito che il comunismo sia finito nel disinteresse generale. Io non me l’aspettavo. A parte il fatto che il comunismo, anche per me, ha un fascino di tipo epico, poetico. Ci sono cose bellissime come “Proletari di tutto il mondo, unitevi”. Mi aspettavo gente che si sparasse. Perfino quando è caduto Mussolini si è ammazzato Stefani. Invece, è finito un mondo storico, illusorio, quello che ti pare, e non è fregato niente a nessuno. Se pensi all’importanza che ha avuto questo mito comunista in tutto il mondo per tanti anni. Il rapporto su Stalin fu la prima crepa nel partito comunista, ma in realtà non era una cosa che ha meravigliato molto eh. Di Stalin si sapeva, non aveva l’aspetto dell’agnello. Si dicevano già le cose dei gulag. D - Tornando ai film di Fellini, che ricordo ne conserva? R – Per me Otto e mezzo è il migliore di tutti, il più profondo. È proprio la tragedia dell’uomo arrivato ad una certa età che lui ha simbolizzato molto bene conferendo al cinema l’atmosfera della vita. Tutti ad una certa età entrano in crisi, cominciano a perdere colpi, a zoppicare, ti senti con delle riflessioni tragiche, ma intorno a te tutto continua, ci sono i figli, la moglie, la rata da pagare. E tu cominci ad annaspare, vorresti ammazzarti, scappare. In qualunque film di Fellini ci sono due o tre scene magistrali da salvare. A me molti non sono piaciuti come Giulietta degli spiriti, La città delle donne, E la nave va…… Ginger e Fred. Poi dipende da come uno vede il film, il momento, l’atmosfera stessa.

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BIBLIOGRAFIA Fonti scritte Annuario SIAE, Anni: 1994 Annuari ISTAT, Anni: dal 1948 al 1963 “L’Arena”, Anni: 1995 “L’Avanti”, Anni: 1957/’59/’60/’62/’63/’64 “Corriere della Sera”, Anni: 1957/’61/’62/’63/’95 “Giornale del mattino di Firenze”, Anni: 1960 “Il Giornale d’Italia”, Anni: 1963 “Il Giorno”, Anni: 1956/’57/’58/’60/’62/’63/’64 “Il Messaggero”, Anni: 1962 “La Nazione”, Anni: 1956/’60 “La Notte”, Anni: 1957/’58/’59/’61/’62/’63/’64 “L’Osservatore Romano”, Anni: 1960 “Paese sera”, Anni: 1955/’60/’63 “Il Paese”, Anni: 1960 “Il Popolo”, Anni: 1959/’62/’63 “Il sole 24 ore”, Anni: 1987 “La Stampa”, Anni: 1962/’63/’65 “Il Tempo”, Anni: 1955/’60/’63/’64/’95 “Il Tirreno”, Anni: 1960 “L’Unità”, Anni: 1957/’60/’62/’63/’64/’65/’66 Fonti filmiche Amarcord, regia di F. Fellini, 1973 L’amorosa menzogna, regia di M. Antonioni, doc., 1949 Bellissima, di L. Visconti, 1951 Il bidone, regia di F. Fellini, 1955 Boccaccio ‘70, regia di F. Fellini, L. Visconti, M. Monicelli, V. De Sica, 1962 La città delle donne, regia di F. Fellini, 1980 La dolce vita, regia di F. Fellini, 1960 Fellini racconta, di Vincenzo Mollica, doc., 1995 Giulietta degli spiriti, regia di F. Fellini, 1965 Guardie e ladri, regia di M. Monicelli, 1951 Ladri di biciclette, regia di V. De Sica, 1948 Luci del varietà, regia di A. Lattuada e F. Fellini, 1950 Il mito di Cinecittà, regia di G. Gagliardo, doc., 1995 Le notti di Cabiria, regia di F. Fellini, 1957 Otto e mezzo, regia di F. Fellini, 1963 Paisà, regia di R. Rossellini, 1946 Riso amaro, regia di P. De Santis, 1949

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BIBLIOGRAFIA

Rocco e i suoi fratelli, regia di L. Visconti, 1960 Roma, regia di F. Fellini, 1971 Roma città aperta, regia di R. Rossellini, 1945 Satyricon, regia di F. Fellini, 1969 Lo sceicco bianco, regia di F. Fellini, 1952 Senso, regia di L. Visconti, 1954 Senza pietà, regia di A. Lattuada, 1948 La strada, regia di F. Fellini, 1954 La terra trema, regia di L. Visconti, 1948 Umberto D., regia di V. De Sica, 1951 I vitelloni, regia di F. Fellini, 1953 Bibliografia generale AA. VV., Fotoromanzo: fascino e pregiudizio, Savelli, 1990 AA. VV., Il mondo contemporaneo, La Nuova Italia, 1980 AA. VV., Storia della letteratura italiana. Il novecento, Milano, Garzanti, 1987 AA. VV., Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1972/1976 Barthes R., L’écriture de l’événement, Communication, 1968 Boneschi M., Poveri ma belli. I nostri anni cinquanta, Mondadori, 1995 Boorstin, L’image, Juilliard, Paris, 1963 Calamandrei Piero, Renzi Renzo e Aristarco Guido, Dall’Arcadia a Peschiera, Bari, Laterza, 1954. Carrara C., In terra come in cielo, Grafica e arte, Bergamo, 1976 Colarizi S., Storia dei partiti dell’Italia Repubblicana, Laterza, 1994 Detti E., Le carte rosa, La nuova Italia, 1979 Dorfles G., Il divenire delle arti, Torino, Einaudi, 1967 Dorfles G., Nuovi riti, nuovi miti, Torino, Einaudi, 1965 Dorfles G., Le oscillazioni del gusto:l’arte d’oggi tra tecnocrazia e consumismo, Torino, Einaudi, 1970 Dorfles G., Simbolo, comunicazione, consumo, Torino, Einaudi, 1962 Fenoglio B., Opere, Einaudi, 1978 Ferro M., Cinema e storia, Milano, Feltrinelli,1980 Fortini F., Dieci inverni:1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957 Flaiano E., Opere. Scritti postumi, a cura di M. Corti e A. Longoni, Classici Bompiani, 1988 Galeotti G., I movimenti migratori in Italia. Analisi statistica e programmi di politica, Bari, 1971 Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, Il saggiatore, 1995 Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989 Graziani A. (a cura di), L’economia italiana: 1945-1970, Il Mulino, 1972 Kundera M., L’immortalità, Adelphi, 1992 Inchiesta sulla miseria in Italia 1951-1952. Materiali della Commissione parlamentare, a cura di P. Braghin, Torino, 1978

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L’ITALIA DI FELLINI

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Lagny M., De l’Histoire du Cinéma. Methode historique et histoire du cinéma, Paris, Colin, 1992 Lanaro S., Storia dell’Italia repubblicana, Laterza, 1994 Le Goff Jacques e Nora Pierre (a cura di), Fare Storia. Teorie e metodi della nuova storiografia, Einaudi, 1981 Lepre A., Storia della prima repubblica, Il Mulino, 1993 Lévi-Luxardo I. (a cura di), Atti del convegno di Società di Medicina Sociale, Roma, 1950 Moles A., Sociodinamica della cultura, Guaraldi, Bologna, 1971 Perico G., La legge Merlin. Validità sostanziale e opportunità di ritocchi, Centro Studi sociali, Milano, 1962 Polacci A., Il teatro di rivista, Corso, 1990 Pratolini V., Metello, Mondadori, 1966 Rossi E., Lo stato industriale, Laterza, 1953 Salvadori M., L’età contemporanea, Loescher,1990 Segre Cesare e Martignoni Clelia, Testi nella storia. La letteratura italiana dalle origini al novecento, Bruno Mondadori, 1992 Sorlin P., Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979 Tarantini D., Processo allo spettacolo, Milano, 1961 Turri E., Miracolo Economico. Dalla villa veneta al capannone industriale, Cierre, Verona, 1995 Vittorini E., Gli anni del Politecnico. Lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977 Zancan M., Il progetto “Politecnico”. Cronaca e struttura di una rivista, Venezia, 1984 Bibliografia cinematografica Barbaro U., Servitù e grandezza del cinema, Editori riuniti, 1962 Baroni M., Platea in piedi 1959/1968, Bolelli, 1995. Bazin A., Che cosa è il cinema?, Garzanti, 1994 Brunetta G., Buio in sala, Venezia, Marsilio, 1989 Brunetta G., Storia del cinema italiano, Editori Uniti 1982 Brunetta G., Cent’anni di cinema italiano, Laterza, 1991 Campari R., Il fantasma del bello, Marsilio, 1994 Casetti F., Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, 1993 Castello G.C., Il cinema neorealistico italiano, Ed. RAI, 1956 Cosulich C., La battaglia delle cifre, in Cinema Nuovo, 98/1957 Cosulich C., Le cifre della crisi, in Cinema Nuovo, 127/1958 Deleuze G., L’immagine movimento, Milano, Ubulibri, 1983 Deleuze G., L’immagine tempo, Milano, Ubulibri, 1985 Gherardini L., Storia generale del cinema, Marzorati, 1959 Kaufman Hank e Lerner Gene, Hollywood sul Tevere, Milano, Sperling & Kupfer, 1982 Livolsi M. (a cura di), Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema nel dopoguerra , La nuova Italia, 1988 Lizzani C., Storia del cinema italiano, Firenze, Parenti, 1961

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BIBLIOGRAFIA

Quaglietti L., Il cinema italiano del dopoguerra. Leggi, produzione, distribuzione, esercizio, Pesaro, 1974 Verdone M., Storia del cinema italiano, Collana Il Sapere, Newton Compton, 1995 Riviste “Bianco e nero”, Anni: 1951/’53/’55/’56/’57/’63 “Cahiers du cinema”, Anni: 1954/’55/’56/’57/’63 “Cinema”, Anni: 1951/’52/’53/’54/’55 “Cinema Nuovo”, Anni: 1953/’54/’55/’57/’58/’59/’63 “Cinema60”, Anni: 1963 “Cine Forum”, Anni: 1962/’63 “Cronache del cinema e della televisione”, Anni: 1955 “Eco del cinema”, Anni: 1953 “Edav”, Anni: 1993/’95 “Epoca”, Anni: 1950/’52/’53/’55/’57/’62/’63 “L’Espresso”, Anni: 1956/’60/’61/’63/’64/’65 “L’Europeo”, Anni: 1950/’53/’54/’55/’62/’63/’64 “Ferrania”, Anni: 1953/’54/’55/’57/’63 “Filmcritica”, Anni: 1963 “Film Selezione”, Anni: 1963 “Il mondo”, Anni: 1954/’63 “La civiltà cattolica”, Anni: 1955/’60 “L ‘altro cinema”, Anni: 1955 “Letture”, Anni: 1957/’60/’63 “Lo spettacolo in Italia”, Anni: 1957 “Mondo Operaio”, Anni: 1963 “Oggi”, Anni: 1951/’53/’61/’63 “Rassegna del film”, Anni: 1953/’54 “Rivista del cinematografo”, Anni: 1953/’54/’57/’63 “Rivista del cinema italiano”, Anni: 1954 “Rotosei”, Anni: 1957/’60/’61 “Scena illustrata”, Anni: 1960 “Segnocinema”, Anni: 1995 “Settimana Incom”, Anni: 1952/’53/’54/’55/’62 “Settimanali cattolici”, Anni: 1960 “Sipario”, Anni: 1954/’55/’57 “Teatro Scenario”, Anni: 1954/’55 “Tempo”, Anni: 1954/’55/’62 Bibliografia specifica Bondanella P., Il cinema di Federico Fellini, Guaraldi, 1994 Bondanella P. (a cura di), Federico Fellini: essays in criticism, New York, Oxford University Press, 1978 Cattini A. (a cura di), Luci del varietà, Mantova, 1994

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L’ITALIA DI FELLINI

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Cirio R., Il mestiere di regista, Garzanti, 1994 Costantini C. , Conversation avec Federico Fellini, Denoel, 1995 Fellini F., Block notes di un regista, Milano, Longanesi, 1988 Fellini F., Fare un film, Einaudi, 1980 Fellini F., “La strada”: Federico Fellini director, New Brunswick N.J. Rutgers University Press, 1987 Fellini F., Quattro film, Torino, Einaudi, 1974 Fellini M., Storia in briciole di una casalinga straripata, Guaraldi, Rimini, 1994 Kezich T., Fellini, Rizzoli, 1988 Pecori F., Federico Fellini, Il castoro, 1974 Risset J., L’incantatore, Schweiller, 1995 Verdone M., Federico Fellini, Il castoro, 1994 Zapponi B., Il mio Fellini, Marsilio, 1995 Fonti orali Intervista con Arpa Angelo del 5.11.1995 Intervista con Benzi Titta del 24.4.95. Intervista con Betti Liliana del 14.9.95 Intervista con Fellini Maddalena del 24.4.95 Intervista con Geleng Rinaldo del 5.6.95 e del 14.9.95 Intervista con Pinelli Tullio del 25.6.1995, effettuata telefonicamente, e del 12.9.95 Intervista con Wertmuller Lina del 30.4.95 Intervista con Zapponi Bernardino del 5.6.1995

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Collana Cinema Italiano Tullio Pinelli - L’uomo a cavallo Gian Gaspare Napolitano - Il Venditore di fumo Giovanni Scolari - L’Italia di Fellini Alida Valli - La mia storia Simone Casavecchia - Rondi visto da vicino Maria Evelina Buffa - Amedeo Buffa in arte Nazzari D.Monetti/L.Pallanch/P.De Sanctis - Non solo Gomorra. Tutto il cinema di Matteo Garrone Simone Perugini - Nino Rota e le musiche per il Casanova di Fellini

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Finito di stampare nel mese di settembre 2008 presso la Tipografia DPS s.r.l., per conto delle Edizioni Sabinæ, I caratteri di stampa utilizzati sono il Didot ed il Garamond. Printed in Italy.

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