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Italian Pages 480 [399] Year 2020
LE BOE
© 2020 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano ISBN 978-88-9388-702-1 Prima edizione Baldini&Castoldi - La nave di Teseo maggio 2020 www.baldinicastoldi.it
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Marina Ceratto Boratto
La cartomante di Fellini L’uomo, il genio, l’amico
La realtà di Fellini è un mondo misterioso, o orrendamente nemico o perdutamente dolce e l’uomo è una creatura altrettanto misteriosa che vive in balia di quell’orrore o di quella dolcezza. Il territorio resterebbe inesplorato se Fellini stesso non mandasse a guidarti un uccellino magico. Pier Paolo Pasolini
SOMMARIO
Il Maestro L’incontro Un monello che trasgredisce La psicoanalisi La prima volta sul set di 8½ La svolta de La dolce vita Dietro le quinte/1 L’harem Fantasmi di morte L’importanza dei sogni Tra la scuola e Cinecittà La sequenza del treno Giulietta Quando Fellini scoprì Fellini La sperimentazione psicotropa Giulietta degli spiriti I demoni Capire Giulietta Masina Il circo Un incontro del destino Dietro le quinte/2
Mia madre, mio padre L’altrove La fine dello spiritismo «A Federico piace vivere nel caos» Un film faticoso La fine di una grande amicizia Anna Giovannini, l’amante Il viaggio di G. Mastorna Segnali negativi In bilico tra la vita e la morte Il papa salvatore Tre passi nel delirio Block-notes di un regista Il provino Preparando il Satyricon I «mostri» Roma avanti Cristo. Roma dopo Fellini La scelta di Petronio Incrinature La cena di Trimalcione La villa dei suicidi Dietro le quinte/3 Love Duet Dopo il Satyricon Addio, Federico!
1 Il Maestro
Lo chiamavano The Big, Il Faro o Il Mago, Il Medium, Lo Stregone, soprannominavano in mille modi il dispotico e assoluto protagonista del set di cui si impossessava in un attimo, ma per tutti era ormai indiscutibilmente Il Maestro. Quando lo conobbi era già l’italiano più famoso del mondo, certamente uno che gli stranieri ci invidiavano. Era Federico Fellini, e stava per diventare una leggenda. Oltre a questa mitologia circolava però l’idea che fosse un mentitore inveterato, un contafavole, un grande mistificatore. Scoprii pian piano su di lui anche un’altra cosa: di solito una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso ma reale. Le sue, invece, non nascondevano nulla. Erano assolutamente gratuite. Solo così, in cambio, ti regalava un prolungato sortilegio. Lo avvicinavano scrittrici, giornaliste, studentesse, attrici, fotografe e femministe che arrivavano da ogni parte del mondo: di lui si diceva tutto e il contrario di tutto. Françoise Sagan lo descriveva come un imperatore, un re, un tiranno. Camilla Cederna, più vicina al vero, lo considerava un viaggiatore senza bagaglio. Intanto la sua immagine continua a frantumarsi in una serie di specchi: Fellini-attore, Fellini-caricaturista, Fellini-scrittore, Fellini-guaritore. Ma quanti Fellini esistono? Non appartiene forse al nostro inconscio, perché se riesce a rappresentare tutto ciò che noi desideriamo lui sia, e il suo contrario, forse Fellini siamo noi, l’Italia che abbiamo imparato a guardare attraverso i suoi film
con occhi nuovi, senza lasciarci distrarre dalle ideologie e dalle apparenze. Le nostre paure, l’inadeguatezza degli uomini, l’incanto e la paura della donna, in fondo una piccola luce, una tenue speranza, ciò che potremmo essere e non siamo. A Germaine Greer, che si era rifatta viva dopo anni di silenzio, affidò per Annabella un’affascinante quanto improbabile confessione di quindici ore. Lei la pubblicò e sparì per tracciarne un ritratto crudele dopo la morte: un borghese piccolo-piccolo che indossava il pigiama ed era pervicacemente attaccato alla moglie Giulietta Masina. Cosa si immaginava l’affascinante e acrobatica femminista? Di avere a che fare con un latin lover alla Porfirio Rubirosa? Federico Fellini forse era un provinciale, sì, ma infinitamente internazionale! Coerente al punto che nel privato non ha mai cercato di presentarsi diverso da come era. E a me, una sedicenne ingenua e profondamente religiosa come apparve? Un testimone, un profeta o un apprendista stregone? Forse tutto questo insieme e ne rimasi turbata e affascinata insieme. Dal primo incontro, lo ammetto, sospettai che fosse il diavolo incarnato, perché aveva la capacità di mettere in discussione e cancellare ogni preconcetto, ogni idea banale. Messa alle strette farfugliavo, balbettavo, e lui trionfava senza fatica con le sue argomentazioni ironiche e suadenti. Il Maestro, visto soprattutto attraverso il caleidoscopico talento memorialistico di Liliana Betti, sembra voler sfuggire a ogni definizione. L’unica cosa certa di lui è che, progettando un film, viveva con i produttori singolari odissee, veri e propri terremoti per imporre opere che quelli ritenevano fallite in partenza e invece nascevano e si rivelavano come veri e propri capolavori. Fellini a Roma era molto amato, soprattutto dal popolo, letteralmente adorato dai tassisti e dai posteggiatori che lo
salutavano con una deferenza speciale, lo prendevano a bordo gratis, trattandolo come una specie di sceriffo di contea. Il Maestro era più che simpatico e così ironico e carezzevole che per sopravvivere al suo fianco dovevi un po’ sottrarti ai suoi suadenti e avvolgenti modi. Sempre in cerca di una donna arcaica, della luna del mito. Io fingevo una punta di distratto snobismo. Perché tutte volevano incontrarlo, conoscerlo, girare un film con lui. Mai visto qualcuno di più assediato. Tra le tante cose scritte e pubblicate, ho voluto raccogliere le mie memorie sincere da persona che ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo dal 1962 fino alla sua infausta partenza per curarsi in Svizzera, da dove sarebbe tornato più malconcio di prima, praticamente solo per il definitivo commiato dalla vita e per diventare il Disperso dei dispersi. Con il corpo schiacciato dall’angoscia, non era più lui e si preparò a vivere la sua notte del Getsemani, quando la vita ti si mostra nella sua più totale inermità e temi di non poter più far esistere le cose per prodigio, di crearle e dissolverle, trattenerle con la logica, la concretezza e la razionalità, allora è la fine di tutto. Ma una vita baciata dal talento e dalla fortuna può pretendere una morte benevola e dolce? C’è sempre un tempo in cui anche un grande Incantatore si confronta con la malattia, boa inaggirabile di noi mortali. «Ho una mano simile a un mazzo di asparagi!» ripeteva Federico negli ultimi tempi, prostrato e afflitto da una semiparesi. Tutto gli apparve un Gran Nulla. Possibile? Lui, così attaccato alla vita e appassionato, lui capace di mostrarti sempre il risvolto positivo di ogni angoscia! Lui così ironico e spiritoso e poetico! Invece era annichilito dalla notte senza più sogni e sonni… «Ma questo sarebbe il minimo, già dormivo poco prima!» Nemmeno io lo potevo immaginare negli ultimi tempi in balìa del mare e del vento. Trasformato fisicamente, con un volto
gonfio su un corpo pesante. Nemmeno io avrei potuto pensare un Fellini che attraversava il silenzio inumano di Dio. Il suo ultimo viaggio si prospettava assai lungo. Se ne andrà in silenzio, in punta dei piedi, in una stanza del Policlinico Umberto I di Roma. Il suo aiutoregista, Maurizio Mein, resterà lì, dal mattino alla sera, notte e giorno, senza un attimo di cedimento, per quindici lunghissimi giorni di coma irreversibile, a piantonare un fantasma, gli occhi pieni di pianto, simile a un doloroso soldato fedele al generale morente. E fu in tal modo che ebbi praticamente un sogno nel sogno: Federico riviveva. Ricordi e immagini e sensazioni scaturirono finalmente dalla mia anima per narrare la storia di un artista che, come un milite glorioso, non era mai sceso a compromessi con la propria arte.
2 L’incontro
Negli anni Sessanta Roma era popolata da talenti. Se ti sedevi da Rosati in piazza del Popolo incontravi i più famosi registi e sceneggiatori italiani, da Ennio Flaiano a scrittori come Alberto Moravia ed Elsa Morante, potevi conoscerli tutti, tranne forse il più aristocratico: Luchino Visconti. Ma primo fra tutti potevi incontrare proprio lui: Federico Fellini. Roma era una pentola in ebollizione, un laboratorio di artisti geniali che sarebbe durato fino alla sua morte nel 1993, subito seguita da quella dell’attore italiano più amato e famoso nel mondo, Marcello Mastroianni. Ma a sedici anni ero troppo giovane per andare a mangiare un gelato e sedermi da Rosati. Frequentavo la scuola cattolica più severa di Roma, l’Istituto Cabrini. Eppure quel giorno in cui incontrai per la prima volta Federico Fellini, soprannominato anni dopo, dal suo massaggiatore Ettore Bevilacqua, Il Faro, successe un miracolo. Mia madre, l’attrice Caterina Boratto, chiese alla Madre Superiora, suor Agostina, il permesso per farmi uscire un’ora prima dalla scuola per raggiungerla in taxi fino all’Eur dove giravano 8½, le cui riprese si protrassero dal 9 maggio 1962 fino a metà ottobre. Desiderava conoscessi chi l’aveva riscoperta e tolta da un lungo oblio cinematografico, Federico Fellini e soprattutto
Piero Gherardi che l’aveva stupendamente vestita con abiti anni Venti per quello che sarebbe diventato il capolavoro di Fellini. Caterina era letteralmente pazza di gioia quando parlava di loro. A ogni scena girata era un brivido, un’emozione indescrivibile. «Marina, devi vederlo girare. Dicono che Federico diriga i suoi film in modo diverso da tutti gli altri registi, e io stessa mi emoziono a ogni scena.» Fellini e Gherardi erano a quel tempo una persona sola, vivevano in simbiosi e il loro profondo affetto trapelava a ogni passo. Per La dolce vita Piero gli aveva ricostruito un tratto di via Veneto nel Teatro 5 di Cinecittà, un genio! Vero art director, era celebre per la pulizia grafica, la nitidezza del tratto. Testardo e deciso, intenso e contradditorio, del segno dello Scorpione, fu il primo grande interprete dell’impressionismo minimalista del cinema italiano degli anni Sessanta. Architetto, scenografo, costumista si era formato alla scuola di Gastone Medin (scenografo di Vittorio De Sica, e di altri registi degli anni Trenta) e di Gino Carlo Sensani. Adorava le invenzioni figurative di Klimt. Fellini l’aveva incontrato nel 1948 sul set di Senza pietà di Lattuada. Tornando a casa da scuola mi resi conto che avevo un solo vestito degno dell’occasione, verde smeraldo. Dentro quell’abito non mi sentivo più una sperduta giovinetta e il colore si abbinava bene ai miei capelli castani. Mamma me l’aveva fatto cucire dalla sua sarta. Avevamo pochi soldi e conducevamo una vita fatta di molte rinunce, ma indossandolo mi sentivo ricca e padrona di me. Infatti al Cabrini dovevamo sempre indossare una divisa nera un po’ funerea. Un amico di papà, forse il più bell’uomo che abbia mai visto, Dadi Bergamo, campione di golf, mi voleva venire a
prendere a scuola, e ogni volta mi schermivo, dicendogli che non potevo mentire alle suore, non era il caso di presentarlo come uno zio. In realtà mi vergognavo che mi vedesse con quella divisa. Pregavo molto, non ambivo a nulla, mi pareva di non avere nessuna vera vocazione. L’incontro fortuito fra mamma e Fellini all’uscita della Standa di via Frattina, dalle parti del Corso, aveva prodotto un vero e proprio prodigio: dopo quindici anni in cui era stata lontana dagli schermi, per essere una moglie e madre altoborghese, la Boratto tornava a recitare con il regista de La dolce vita, interpretando la Signora Misteriosa in 8½, un personaggio inventato lì per lì dal regista, la sera stessa che l’aveva rincontrata, rimanendone fulminato. Il problema era che nostro padre non ne sapeva nulla ed era gelosissimo. Mamma e Fellini si erano incrociati fortunosamente per strada, lei quarantaseienne, ancora molto bella e resa ancor più fascinosa da un gran cappello, lui molto cambiato rispetto al ragazzo magrissimo, alto e con una fluente chioma, che con Aldo Fabrizi aveva scritto la sceneggiatura di Campo dei fiori (1944) di cui Caterina era stata l’interprete principale insieme ad Anna Magnani. «Bella signora, quanti pacchi, pacchetti, pacchettini! Posso aiutarla?» «Oh non è niente di che, ho comprato un bustino per mia madre, un pentolino, una cerniera lampo…» Cominciò a elencare ogni cosa, facendo sorridere il regista e al tempo stesso incantandolo. «Ma, ma… non mi riconosce? Mi guardi meglio!» «Sì, ecco, no… mi sembra… mi sembra di ricordare vagamente, non vorrei sbagliare… lei… tu… forse… sei per caso… Federico Fellini?» Caterina era appena tornata a Roma dopo molti anni, sognava di riprendere a recitare, e, come una ragazza, era ancora piena di desideri e sogni irrealizzati. La sua carriera
cinematografica, nata alla fine degli anni Trenta, si era infatti interrotta dopo il romantico matrimonio con un ingegnere torinese, intelligente e affascinante, ma geloso come un siciliano. Sospirava raccontando con ironia: «Sarà che mio marito casualmente è nato ad Asmara, molto più a sud di Palermo!» Prima o poi, però, doveva capitare questo evento propizio, grazie a quell’aria dolcissima e malandrina che soffia solo a Roma. Notti stellate trapunte di zaffiri e seta, la primavera si imperlava ed esplodevano i fiori di ciliegi selvatici di via Ammannati dove abitavamo dopo che papà e mamma si erano separati. Un grande astrologo torinese, lo stesso di Adriano Olivetti, Segato, aveva interrogato l’oracolo in tempi non sospetti: era scritto che Caterina, malgrado due figli e un marito possessivo, avrebbe ripreso a recitare. E tornando a Roma avrebbe riconquistato il proprio posto nell’ordine misterioso che occupiamo nella Costellazione della Vita. L’opportunità gliela garantiva l’ascendente Leone, lei era dei Pesci e, parlando di se stessa, diceva sempre: «Sono solo una povera pesciolina». Ed ora sia gli astri dei Pesci che quelli del Leone parevano sfavillare alti nel cielo come non mai, leggeva nel suo oroscopo l’astrologa e amica carissima Lucia Alberti. «Davvero avrò ancora un po’ di successo? Ma se nessuno pensa a me e a Roma non conosco nessuno…» chiedeva mamma, parafrasando un famoso libro di Giuseppe Berto. «Vedrai sarà questa persona a volerti! Avrà bisogno di te!» Chi mai poteva essere questo misterioso Lui? Aveva bussato anche alla porta di Vittorio De Sica, con cui aveva girato nel 1938 Hanno rapito un uomo e di cui era stata amica quando era sposato a Giuditta Rissone. Vittorio, invitandola a pranzo, sempre charmeur le aveva spiegato: «In quale film posso mettere una donna bella come te, così bionda e così incredibilmente eterea?» Lo sapevano tutti che De Sica preferiva le brune…
Un amico di famiglia, Guido Sacerdote, non voleva che si perdesse d’animo, la invitava spesso a pranzo nei pressi della Rai e la spronava a uscire di casa tutti i giorni, sempre più sicura, indossando i suoi grandi cappelli. «In centro puoi imbatterti in Bolognini, Risi, Patroni Griffi, Visconti, Antonioni, Zeffirelli… io farei pazzie per una donna incantevole come te, vedrai… abbi fiducia in te, Caterina. Dimostri quindici anni di meno.» «Per forza, a Torino, mi sono ibernata!» replicava ironica lei. L’incontro con Fellini era scritto in cielo. «Caterina, ma davvero non mi riconosci più? E pensare che con Aldo Fabrizi andavamo a cenare sempre nella stessa latteria a credito in via Frattina, vicina all’antiquario Apollonio… tempi di fame… Anna Magnani diceva che ti atteggiavi a diva e invece scoprii che eri solo molto timida.» «Tu, tu hai fatto film straordinari, Il bidone, La strada, La dolce vita, veri capolavori!» «Devi sapere che Mario Bonnard era un mio mito! Ho lavorato e ho scritto per lui Avanti c’è posto con Aldo Fabrizi nei panni di un bigliettaio. In qualche modo eri già dentro il mio cuore, eri nel mio destino.» Disse proprio così «eri nel mio destino»! Caterina si sentì mancare, poi il regista chiese una penna a un passante per annotare il suo numero di telefono e scoprì che abitavano entrambi ai Parioli: Fellini in via Archimede e lei in via Ammannati. E non si erano mai incrociati. «Caterina sei ancora più bella di allora, molto più bella, ti assicuro!» E lei: «Federico, ne ho viste di tutti i colori e forse Dio mi ha conservato!» Fellini esplose in una franca risata. Pochi fortunati scoprirono quanto lei fosse spiritosa e tra questi ci fu il Maestro. Il regista possedeva una rara dote con le donne,
quella di farle sentire uniche con poche parole. Affettuosissimo con tutte, comprese sarte, parrucchiere e comparse, le avvolgeva di attenzioni, simpatia e affetto, e alla fine chiedeva sornione: «Sei sposata? Fidanzata? Dove abiti? Dove ti ho incontrato, forse in un’altra vita? Chi sei? Una misteriosa fata buona o una briccona?»
3 Un monello che trasgredisce
Ma ben presto capii che restava inafferrabile, forse per difendersi dagli sciami di questuanti, cui al telefono rispondeva con voce in falsetto, fingendosi la cameriera o la segretaria Liliana o Giulietta stessa. Di lei parlava pochissimo a parte ripetere: «Il rapporto fra Giulietta e me è fatale, profondo, indiscutibile, le sue autentiche ragioni affondano in una zona dell’anima per me rimasta sconosciuta». Ma se gli andava di sentirti, ecco che non miagolava più e tornava decisamente alla sua vera voce. Solido e sfuggente. Quando lo pensavi lontano era vicinissimo e, quando lo credevi vicino, era invece assai lontano. Un uomo complesso e contraddittorio, come capita ai geni veri. Amava anche occultare la sua cultura. Non aveva letto nulla, sapeva ben poco… «Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so niente di niente», eppure alcuni scrittori l’avevano letteralmente affascinato, Kafka, ad esempio, e Dostoevskij. E poi l’Orlando furioso, le Mille e una notte, Pinocchio, I viaggi di Gulliver, Don Chisciotte. Fingeva una naïveté, un candore, uno stupore permanente nei confronti del mondo. Lo sorpresi una volta con Tullio Pinelli a sparlare degli italiani, riferendosi addirittura a ciò che ne aveva scritto Giacomo Leopardi che li considerava inaffidabili perché freddi, indifferenti, insensibili. Perciò se Guido, il protagonista di 8½, avesse mostrato insensibilità e indifferenza, quel suo
lato gli sarebbe calzato a pennello: era anche un suo modo di essere, forse il più segreto. Dagli anni Ottanta l’avrebbe irritato la volgarità dell’Italia postmoderna, degradata e volgare. Pensava che la cultura, quando è autentica, incide misteriosamente e profondamente, non risparmiando, i pigri, gli indifferenti, gli ignavi. Credeva che i veri fatti culturali si respirassero nell’aria, e diventassero addirittura scenografie, prospettive della città, e talvolta chiavi dei tuoi rapporti privati. Certo, gli intellettuali nei suoi film facevano una brutta fine, come Steiner ne La dolce vita che uccide i figli e si suicida, o come Daumier in 8½ che forse si ispira al critico Guido Aristarco, condannato a morte. Tanto da far dire a Indro Montanelli che il salotto intellettuale di Steiner, con la pittrice Anna Salvatore e lo scrittore Leonida Rèpaci, pieno di fasullume, fosse in qualche modo, autentico. Siamo noi quei tipi? Esso ha dato a me che non ne frequento alcuno, un vago anelito di cambiar mestiere e iscrivermi alla Coltivatori diretti. Fellini fece di Rèpaci una vittima, descrivendolo come «privo di ogni fantasia creatrice». E pensare che era lui quello che non sapeva niente di niente, mentre visitò per tutta la vita un grande e raffinato intellettuale come Pietro Citati. Di tutti e tutto era curiosissimo. Odiava viaggiare e fare qualsiasi sport. Privilegiava nel rapporto il gioco, la fantasia, lo scherzo, pur pensando che dio stabilmente ci abitasse, questo almeno, non lo sostenevano forse la Cabbala, sant’Agostino, san Giovanni della Croce, Malebranche e infiniti altri mistici? Lo sosteneva anche padre Angelo Arpa, una figura centrale nella sua carriera, tanto quanto padre Félix Morlion lo fu in quella di Roberto Rossellini. L’Inferno non era niente altro che l’Assenza di Dio. Non si può capire Fellini e i suoi film prescindendo da questa considerazione e dal suo essere cattolico, magari non troppo osservante ma senz’altro credente. Credeva nel logos giovanneo come primigenio di ogni realtà che si fa luce e sorgente di luce. La sua è stata una continua domanda di trascendenza, pur essendo «un monello che trasgredisce».
La morte è di casa in ogni film del regista, il nonno di Titta, bloccato dalla nebbia dice: «Ma se questa è la morte, non è una cosa bella». Come l’infanzia, solitamente un canto alla vita. La chiesa cattolica lo attraeva per le sue coreografie immutabili e ipnotiche, il suo grandioso apparato. In Roma la configurò come cerimonia e addobbo, celebrando al tempo stesso la morte e la moda. Quasi fosse un emblema di avvilimento su tutto ciò che di libero e illusorio sperimentano il pensiero e il cuore dell’uomo. A Ferrara nel settembre del 1993, disse a padre Arpa che «non sapeva se era preghiera o qualcosa d’altro che lo portava a rivolgersi a Colui che lui chiamava il Buon Dio». Si confessò, rivelò i suoi tormenti. Erano un tormento le sue giornate senza fine, più che le sue notti. Né si sbaglia dicendo che nel pieno delle sue forze ridusse le sue pretese di felicità, sulla scia del suo inconfondibile humor. Sempre un po’ vittima di schiavitù domestiche, un po’ succube di Giulietta e delle sfumature delle parole fra loro, ora leggere ora veri e propri macigni, pareva avvolto da una stupenda omertà. Tradiva tutti, spesso e volentieri, magari con una bugia, per una telefonata, una cena, in modo mai traumatico, se ne accorgeva e allora cercava una qualche condivisione della colpa. O, ancora meglio, di essere assolto per aver cancellato o dimenticato un appuntamento. Poteva anche succedere che se la svignasse, lasciandoti una misericordiosa traccia della sua benevolenza. A sentirlo non sapeva mai bene cosa gli poteva succedere nel rapporto con una donna e tanto meno con una ragazza, quasi cercasse, invano, la melodia giusta. A muoverlo era essenzialmente la curiosità. Ma non lasciava mai passare un Natale o un compleanno senza mandare una cartolina, un mazzo di fiori o una pianta. Lottava contro un dolore cervicale insanabile, qualcosa di più di una fantasia nevrotica. Bastava poco a scatenargli un attacco: lo stress, un’allergia, la stanchezza dell’insonnia, un brusco cambio di pressione atmosferica. Unico sollievo era ricorrere ai massaggi osteopatici di una
nostra lontana parente, una De Vecchi. Ma provò anche sedute di agopuntura. Era un uomo antico, gli era bastato vedere Giulietta per capire che l’avrebbe sposata. Non importa se metteva in atto varie strategie di sopravvivenza per starne talvolta lontano. Nell’universo felliniano la donna è protagonista di un immaginario sconfinato: donne prosperose e giunoniche. Forse aspirava ad affondare nel loro corpo e tornare bambino. La Ninola o la Gradisca di Amarcord, la Carla di 8½, o Sylva, futile stella americana de La dolce vita: non sono forse tutte donne intrise di infinita malinconia, anche le più appetibili? Come le libere donne de La città delle donne? Pensate a molte altre figure minori dei suoi film, ognuna ha un fardello, una pena, ognuna crede di meritare di meglio, invece sono inesorabilmente sole. Come Emma in La dolce vita, infinitamente depressa, o Cabiria e Gelsomina, entrambe vittime innocenti della crudeltà del mondo. Anche Paola, incrociata sulla spiaggia di Passoscuro, la dolce camerierina de La dolce vita, nemmeno lei riesce a far sentire la sua voce melodiosa coperta dalle onde del mare, lei che personifica la Grazia e la Speranza. Molte donne dei suoi film spesso restano lì, mute, a galleggiare sotto una tenda di nylon che si gonfia al vento dell’estate. Eppure esistono con una forza simbolica dirompente come la Saraghina di 8½. Come l’attrice americana de La dolce vita, cui Marcello dice: «Tu sei la madre, la sorella, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa. Ecco cosa sei, la casa». Fellini o tiene viva la sessualità all’apice del suo impeto, o le guarda tutte con pietà, quasi con un sorriso religioso, sapendo benissimo che la donna è la più sconfitta delle creature. Si tratta di un lettore inquieto che cambia sguardo, muove, racconta sempre il lato più lontano dal primo superficiale strato di realtà. Scava: onirico, amaro, grottesco. Vuol scoprire qualcosa di più profondo del rapporto uomodonna. E studia la violenza fra vittima e carnefice proprio ne
La strada grazie a Gelsomina, venduta dalla madre a un rozzo saltimbanco e mangiafuoco, Zampanò. Fellini ci ha straziato raccontandoci la paziente attesa di Gelsomina che avvenga qualcosa di miracoloso, che la violenza si stemperasse. Ma la natura di Zampanò è spietata, anche quando la sua stanchezza sembra disperazione. Nei film di Fellini, anche gli uomini sono oggetto d’amore e di guerra, possono specchiarsi, come nel Bidone, storia di tre truffatori incalliti, senza alcuna possibilità di redenzione. Gelsomina è un personaggio che è quasi costato la vita a Giulietta Masina. E avrebbe potuto farle smarrire anche l’equilibrio. L’economia delle proprie emozioni, aveva sempre rappresentato la sua luce guida. Per un breve momento la attraversò il pensiero che, se fosse fuggita con il Matto (l’attore Richard Basehart), la sua vita avrebbe potuto andare diversamente. Magari non rimanendo con Fellini-Zampanò, avrebbe avuto un altro figlio. Non dubitava della verità di quel ricordo, per un breve momento l’aveva amato. Dik le aveva fatto battere il cuore. Con lui gli sembrava tutto nuovo e misterioso. E ancora si emozionava nel trovare una sua cartolina nella cassetta delle lettere… Dik! Fellini ne era gelosissimo. Era un attore così grande e l’aveva aiutata a diventare un’umile creatura, quasi la personificazione della desolazione, della solitudine e della poesia. Un giorno Giulietta mi confessò: «Arriva sempre una parte, un nuovo ruolo e questo mi aiuta a risolvere l’intrico della mia vita, un intrico non da poco». Ma Federico durante le riprese del film non aveva smesso di bisbigliarle: «Amore mio, coraggio amore mio». Compresi subito che tre fotografi erano perennemente sul set, Paul Ronald, Tazio Secchiaroli, che aveva ispirato il Paparazzo di La dolce vita, e Gideon Bachmann, che coprì le
scene più poetiche: l’harem, la sequenza del treno e quella finale. Solo lui poté mostrare che il film si sviluppa come una continua epifania. Era anche un critico e un regista, amico di Pier Paolo Pasolini. Sul set, sempre meta di veri e propri pellegrinaggi e autentiche feste mobili, il Maestro spargeva miele e ironia, era un conquistatore, un re di gag e battute fulminanti.
4 La psicoanalisi
Ma soprattutto Fellini era un poeta. Aveva fascino da vendere, penetrato da un’invisibile aurea magica e una grande gioia di vivere, dava allora l’impressione di aver fatto pace con gran parte delle sue angosce e dei suoi incubi, grazie a Ernst Bernhard, psicoterapeuta junghiano berlinese, astrologo e attento lettore di I-Ching. Una frequentazione che il regista teneva accuratamente segreta. Ne ero venuta a conoscenza attraverso la più raffinata delle maghe, la viennese Lucia Alberti, moglie di Guido, ideatore con Goffredo e Maria Bellonci del Premio Strega. Lucia era informatissima sul Maestro e su casa FelliniMasina. Ma Fellini come aveva avuto il numero telefonico di Bernhard? Era stato – secondo lui – frutto del caso: quel numero glielo aveva dato Vittorio De Seta e lui l’aveva messo distrattamente nel portafoglio; pensando che fosse quello di una misteriosa e avvenente ragazza, una certa Maria, il Maestro l’aveva chiamata colpito dalla sua bellezza ed ecco rispondergli uno psicoterapeuta! Un’altra meravigliosa fandonia architettata dal regista. Bernhard era l’autore di Mitobiografia ma soprattutto di Il Complesso della Grande Madre, un saggio rivoluzionario che aveva fotografato il problema principe degli italiani. Uno scritto che fulminò il regista. Per Bernhard si trattava di un problema di ombra. «L’ombra italiana dà subito all’occhio a chi appartiene alla civiltà occidentale».
Dal suo punto di vista l’italiano è un uomo di cui non ci si può fidare, senza princìpi, ipersessuale, incontrollato, vanesio, viziato e sentimentale. La chiave che permette di svelare l’enigma è la constatazione che in Italia regna la Grande Madre mediterranea, la quale, nonostante le molte civiltà sovrappostesi, non ha perduto nei millenni né potenza né influenza, premessa archetipica che si ravviva in ogni singola donna italiana quando si fa appello alle sue qualità materne. La Grande Madre non è però vincolata a una madre concreta, agisce endopsichicamente nell’uomo così come nella donna, nel figlio e nella figlia, e in ogni altra manifestazione che influenza: nella struttura sociale, nel diritto, nell’arte e nel costume, nella morale, nella filosofia e nella religione. Ma la Grande Madre mediterranea in Italia è una madre primitiva che può diventare pericolosa e punitiva, che vizia i figli con la massima naturalezza. Quanto più li vizia tanto più li rende dipendenti da sé, tanto più naturale le sembra la sua pretesa sui figli e tanto più questi si sentono a lei legati. A questo punto la buona madre nutrice e protettrice si trasforma nel proprio aspetto negativo, nella Cattiva Madre che con le sue pretese ormai egoistiche impedisce ai figli il raggiungimento dell’indipendenza e li rende infermi e infelici. Riuscite a immaginare quali idee scatenarono in Fellini queste parole? Fu come scoprire dentro di sé un tesoro infinito da cui attingere a piene mani. Anche come disegnatore e caricaturista. Per questo per Fellini era importante salire al tramonto nello studio di Bernhard in via Gregoriana 12, interno 15 e da lì sentire tutte le campane di Roma suonare l’Ave Maria. Appena aveva di fronte lo psicoterapeuta, figlio di medici e rabbini il cui nome significa Vita e Conforto, al regista confuso o magari un po’ ubriaco di malinconia ecco che gli si placava come per incanto ogni demone. In quel salotto, che era anche studio e camera da letto, Federico ritrovava immediatamente un grande
benessere. Lo stesso fenomeno avveniva nella Casa Sabotina sul lago di Bracciano, dove Bernhard lo nascondeva al mondo nei momenti più difficili. Era un uomo molto buono, il padre era morto in un campo di concentramento polacco, quando egli stesso fu arrestato e internato al Ferramonti di Tarsia, in Calabria, dove venne liberato grazie all’intervento di Giuseppe Tucci. Era un uomo di grande valore scientifico. Lui e Fellini appartenevano a due mondi lontani, eppure empaticamente vicini. Era come se non ci fossero barriere. La loro fu, in qualche modo, una storia d’amore. Il regista poteva essere finalmente se stesso, sapeva di non essere mai giudicato. Alto, possente, calvo e quasi simile a un monaco buddista, Bernhard era un maestro dell’arte maieutica, un ardente sciamano ma anche provvisto di pace interiore, caratteristiche che stimolavano Fellini. E gli consegnò, un Dio, un Tao, un Senso, quello dell’abbandono alla Divina Provvidenza. Dal suo hassidismo imparò che Dio è presente in ogni cosa e azione pura, infatti lo studio della Torah, pur rimanendo fondamentale per lo psicoterapeuta, passava in secondo piano rispetto alla pietà del cuore. Fellini nascondeva a tutti questo suo rito settimanale, quasi religioso, che gli dava modo di scoprire le proprie fragilità, ma anche le sue infinite potenzialità creative. Gli pareva di star sospeso su una mongolfiera, fra gli ori e le luci del tramonto, immerso al suono di mille campane. E, come avevano fatto Bernhard e Jung, tutti i giorni si mise a tirare le monetine e a consultare il libro degli I-Ching per cercare il vaticinio dello spirito del mondo. Stiamo parlando di un testo antichissimo considerato sacro in Cina: il Libro dei Mutamenti, composto da 64 esagrammi e utilizzato da oltre 4500 anni per ottenere un saggio consiglio prima di prendere una decisione, il cui significato, però, si svela solo a un animo giusto. Gli I-Ching erano considerati attendibili non solo da Confucio, ma anche da Taoisti e Buddisti.
Esisteva un’altra curiosa assonanza, molto segreta ma essenziale, quella fra il professor Bernhard e il padre di Federico, Urbano Fellini. Me la rivelò sempre Lucia Alberti. Tutti e due erano stati rinchiusi in un campo di concentramento dai tedeschi. Sicuramente a Federico sembrò di aver ritrovato in qualche modo un padre putativo, che era comprensivo come lo era il suo, ma forse più acuto e percettivo. L’analista aveva un modo di parlare suadente e carezzevole. Il padre di Fellini era morto otto anni prima, causandogli un dolore profondo e lacerante. E anche Bernhard sente il tempo restringersi, assottigliarsi. Non vuole però che il regista perda il suo oggetto d’amore, la sua Fantasia, Dio, il sesso e la speranza. In poche parole, il proprio mitologema, cioè la sua grande capacità di raccontare favole.
5 La prima volta sul set di 8½
Il magico incontro avvenne all’Eur durante le riprese di 8½. Indossai quell’unico vestito che mi donava, tubino verde su calze di nylon, inaugurai le scarpe con un po’ di tacco e misi al collo la bellissima spilla a forma di rosa di Tiffany regalatami da una cara amica americana, Hope Finney Botti. Avevo sul volto ancora qualche traccia di acne giovanile e la coprii con il fondotinta di mamma, Elizabeth Arden. Quando raggiunsi in taxi il Palazzo della Civiltà, dentro di me tremava un’indicibile emozione. Mi sentivo una debuttante invitata al suo primo ballo. In realtà non era proprio così, ma tale mi pareva quell’appuntamento, e attanagliata da una timidezza senza rimedio, ero del tutto impreparata ad affrontare la situazione. Cosa mai avrebbe potuto dire una sedicenne a un così grande Mago? Percorsi un lungo corridoio pieno di ritratti di uomini cipigliosi e inquietanti, chi erano? Mi chiedevo questo e altro e la testa cominciò a girarmi un po’ quando vidi un uomo a poco a poco avvicinarsi, alto, magro, la camicia bianca e una giacca nera sbadatamente gettata sulla schiena. Man mano che si approssimava, aumentava il mio batticuore, era lui: il Faro, Federico Fellini. «Tu, sei Marina, vero?» esclamò il Maestro a colpo sicuro. Mi sembrò bellissimo. «Sì, sono Marina, disturbo?» «No, no, ma che dici, tesorino. Anzi, dobbiamo fare una festa per te, accomodati… siamo in pausa. Fatti vedere, fammi
un sorrisino, no? Un po’ tesa?» «Sì, a dir la verità, maestro, non sono usa di mondo.» Mi guardò ridendo, poi mi afferrò sollevandomi in alto. «Sei solo una pastrocchia!» esclamò, riponendomi a terra. Io intanto sentivo battermi forte il cuore, mentre osservavo tutti quei ritratti, che ritraevano i presidi della scuola immaginaria vissuta da Federico bambino. Incutevano un certo terrore. Per non parlare di due confessionali da incubo di un singolare barocco che si ergevano ai lati. Veloci passarono, quasi volando, alcune donne spigolose e anziane vestite da preti. Non lo sapevo ancora, ma per Fellini i preti erano sempre stati dei marziani inquietanti, esponenti ambigui di un terzo sesso con sottana e che l’avevano impressionato fin da piccolo. «Ti confessi spesso?» mi chiese, spiazzandomi subito con una domanda inaspettata. «Sì, certo, tutte le mattine alle sette e mezza.» «Tutte le mattine? Avete ancora quella sorta di tenda in legno cigolante che ripara il volto verso l’esterno? E il soffio caldo del confessore non ti investe? Non ti pesa farlo ogni giorno?» «No! Mio padre è molto cattolico e mi portava ancora bambina alla Consolata di Torino, poi stava a lungo inginocchiato a confessarsi. Mi piaceva aspettarlo e pensavo che un giorno l’avrei fatto anche io. Amo confessarmi.» Fellini rise. «E mamma, si confessa anche lei?» «Ehm, non tanto! Ma quando sta in pena si inginocchia ai piedi del letto in preghiera. Ha degli impeti d’amore verso Dio e Gesù e piange. L’aveva fatto spesso prima di rincontrarla, sa?»
«Tua madre assomiglia molto alla Madonna che c’era nella mia scuola di Fano da bambino e manderò uno scultore bolognese a casa vostra per farla ritrarre, è un uomo simpatico, si chiama Angelo Bragalini.» «Sì, anche mio padre in una lettera d’amore che le scrisse quando erano fidanzati la paragonò alla Madonna di via Pietro Micca a Torino.» «Davvero? Lo sentivo, perché quando scelgo qualcuno per un ruolo è come se ne vedessi tutta la vita precedente. Marina perché sei così bloccata? Diamoci del tu no, bamboccia?» «Di solito il tu non mi viene facile, devo prima fidarmi.» Fellini sorrise e mi abbracciò «Bambocciona! Vuoi fare l’attrice anche tu?» «No! Il mio papà non vuole, una in famiglia basta, ma quest’estate ho fatto di nascosto, Madame Récamier per aiutare mamma, Fenoglio e Zardi dicevano che le somigliavo molto. Ma non sento il sacro fuoco del palcoscenico dentro di me.» Fellini questa volta mi guardò con più interesse. «Non esiste il sacro fuoco, perché non indossi questo grembiulino bianco e mi fai una particina magari senza pensarci su troppo, dopodomani torni e…» Tergiversai, allora mi portò verso un tavolo vuoto, chiese una macchina fotografica e mi scattò alcune fotografie. In alcune mi rividi molto triste. Le ho perdute tutte. Però ho capito da quelle foto che non avevo un’adolescenza. Mai pranzi o feste con le mie compagne di scuola, mai momenti di svago o allegria. Quante feste c’erano state a Torino con le mie amichette! Com’ero spensierata un tempo, desiderosa solo di ridere e ballare e così orgogliosa di avere un padre simile a un Principe azzurro. Ho capito che ero diventata una ragazzina infelice e che il Maestro aveva dispensato un po’ della sua luce e del suo interesse anche sulla mia adolescenza solitaria.
Eravamo diventati di colpo poveri, e io potevo frequentare il costoso liceo Cabrini di Roma solo perché il preside, il grande giornalista Igino Giordani, fondatore del Movimento dei Focolarini, non aveva voluto perdermi come alunna o che andassi a studiare al vicino liceo Mameli, una scuola pubblica mai! Pensava che avrei potuto diventare una giornalista. Mentre mi parlava, Federico Fellini continuava a dare ordini alla troupe per la scena dell’harem. Gli sottoposero anche un fascio di fotografie di attori: volti di donne belle, brutte, o mostruose, una ragazza nera, il regista cercava disperatamente una negretta allegra e sculettante! «Non deve essere bella, Maestro?» chiese l’aiuto regista Liliana Betti. «No, non m’importa che sia bella, deve saper ballare a tempo ed essere anche lievemente clownesca! Non seducente ma agile, scattante.» Si toccava spesso la testa, stava cominciando a perdere i capelli e se ne dolse subito anche con me. «Conosci per caso un filtro, un rimedio, una soluzione, qualcosa di miracoloso che rallenti la caduta dei capelli? Dimmi che lo scoprirai, t’informerai in giro, lo farai per me, vero? Me lo giuri?» Lo guardai spassosamente divertita dalla inverosimile richiesta, quasi fossi una maga orientale o un’imbrogliona capace di inventare intrugli ed elisir miracolosi. Risoluto, sapeva esattamente cosa voleva e se c’era bisogno sgridava quei collaboratori che reagivano come bambini sorpresi e impacciati. La sua attenzione durava pochi minuti, ti osservava con sguardo intenso, quasi un atto d’amore. Come se avesse tutto il tempo del mondo e non desiderasse altro. Compresi subito che non era amore, bensì una singolare curiosità degli uomini e delle cose.
Mi sorpresi di poter parlare con lui così apertamente su molti argomenti, mi ascoltava tenendo gli occhi socchiusi. Sembrava che volesse capire chi fossi e non desiderasse essere da nessun’altra parte. «Parlami ancora della tua scuola», mi chiese, già distratto e altrove. Sentendomi un grande niente, continuai a raccontare. «E le suore le sopporti? Non hanno un leggero sadismo per aver rinunciato alla vita? Io sono stato male con i preti!» Solo molti anni dopo scoprii dal fratello Riccardo che Federico non aveva mai frequentato una scuola di preti, invece c’era stato lui. Un’altra bugia. «No, assolutamente, le Cabriniane sono le suore degli emigranti, ma in qualche modo sono anche delle intellettuali. I professori di greco e latino sono laici, una soltanto è una suora, la professoressa di italiano, Madre Benedetta. Leopardi lo chiama il grande Assente da Dio, ma lo ritiene un genio.» «Tua madre dice che è una scuola severa, perché ci vai volentieri?» «A volte non è così, faccio fatica, ma ho professori straordinari. Il nostro preside ogni giorno ci parla di Gesù, dice che o lo si incontra negli altri o non esiste.» «Credo abbia ragione, ma non saprei darmi un traguardo tanto ambizioso, tu invece, ci riesci?» «Ci provo, zoppico, ma a volte penso che dovrei proprio farmi suora, diventare una mistica. Non sarebbe bellissimo?» «Ma no! Sarebbe una decisione avventata. Prima comunque vorrei parlarne con te a lungo», fece scrutandomi con un’attenzione improvvisamente diversa. «Forse lo penso perché in questo periodo ho un rapporto difficile con mio papà», dissi. «Perché?» «Continua a essere assurdamente geloso di mamma. La gelosia lo ha accecato tutta la vita. Mia nonna, quando ero
piccina, mi nascondeva negli armadi perché non ascoltassi le sue scenate notturne, si ripetevano ogni notte. Riesce a immaginare la mia infanzia? Ma posso continuare a parlargliene? Vedo che sta lavorando e guarda delle foto.» «Ti ascolto, dimmi ancora di loro due. Come li vedi coi tuoi occhi giovani e intensi.» «Sono molto diversi, lui è un uomo pieno di inventiva che disperde sé e le sue ricchezze, lei è una donna con i piedi per terra, saggia ed economa, mamma gli ha sempre dato buoni consigli che non ha mai seguito. Anche l’ultimo suo brevetto, l’Ospedale mobile, è troppo in anticipo sui tempi, non fa che pensare ai disperati del mondo, agli schiavi d’Africa che prima o poi fuggiranno dalla loro terra, alle case prefabbricate dei giapponesi, è un inventore geniale, ma intanto sperpera l’eredità paterna.» «Cerca di capire chi è adesso. E poi devi assolutamente leggere Kafka e Dostoevskij: loro hanno avuto entrambi un rapporto molto contrastato con il padre.» «Da bambina quando mi davano da svolgere il tema Racconta il mestiere di tuo padre, scrivevo che non lo sapevo. In realtà, non so chi sia, è un ingegnere, un inventore, un poeta, un novelliere, uno sportivo, un golfista, insomma è un mucchio di cose, ma non ha mai lavorato un solo giorno della sua vita. Il mestiere che fa meglio è quello di Principe azzurro. Detesta quasi tutto il cinema, tranne Charlie Chaplin.» Sospirai liberata dal difficile racconto famigliare. «Be’ devo dargli ragione, Charlot è come la neve, Chaplin è il Natale.» Rimasi di stucco, basita, a bocca spalancata. E forse fu proprio in quel momento che accettai Fellini per sempre, per quello che era, difetti e qualità compresi. Aveva delle battute fulminanti che lasciavano senza parole, dopo non potevi aggiungere niente, lui aveva detto tutto. Era la prima volta che parlavo con tanta sincerità di mio padre a qualcuno che si rivolgeva a me non come fossi una
ragazzina di sedici anni. «Caterina, tua madre, a volte arriva tremando, piena di paura. Ha paura che suo marito piombi improvvisamente sul set e le faccia una scenata. O che addirittura la uccida. Le ho detto di recitare proprio con quella paura di venir scoperta, come se lo tradisse… la paura le dona… anche la voce è tremula, la voglio così, la trovo molto più bella di quando aveva trent’anni. Forse il suo matrimonio, i problemi che ha dovuto affrontare, hanno aggiunto un mistero e una luce interiore che allora non possedeva.» «Però è grave che papà non sappia che sta girando un film. Non gliel’ha detto. Altrimenti lo avrebbe impedito. Trovo sbagliato nascondere la verità a chi ci vuole bene.» «Certo, ma si tratta di una situazione molto dolorosa. Poi è difficile essere madri. Capisco meglio, ma non vuoi metterti il grembiulino bianco e tornare qui venerdì? Gireremo la scena dell’harem e andremo a pranzo insieme. Potresti entrare nella danza, svagarti, e soprattutto basta darmi del lei, ti fidi un po’ di più adesso?» «Non molto!» replicai, e questo lo fece alzare in piedi per sollevarmi nuovamente tra le braccia e dirmi con aria sorniona: «Ma sai che tu sei una vera bambocciona nel senso vero del termine?» Più tardi mi domandò quale dei suoi film mi avesse colpito maggiormente, sebbene li avessi visti quasi tutti risposi La dolce vita. «Per quale motivo?» «Per la presenza del Deus absconditus e della Grazia!» «Cioè?» «Sì, Paolina, la cameriera, chiama Marcello, lui non la sente, ma da allora si capisce che è lei la Grazia e lo aspetterà sempre, ho pianto, a quel punto ho pianto.» Da allora diventai per lui Marina la bella, Marinella o Marinotta, bambocciona o Tesorino.
Fino agli ultimi mesi della sua vita non smise di sollevarmi tra le braccia con aria festosa ogni volta che mi incontrava. Spesso usava chiedermi perché Dio fosse così infinitamente discreto e che, se si fosse manifestato, avrebbe tolto all’uomo ogni libertà, tutti avremmo ceduto davanti a un’apparizione. Invece davanti al silenzio occorreva continuare a cercarlo con occhi pieni di stupore. Fellini sperava costantemente che Dio gli si rivelasse. «Anche perché mi sentirei protetto, mi sentirei soprattutto perdonato.» Eppure fra noi negli anni, non tutto fu facile o semplice. Compresi attraverso di lui che aveva integrato al suo essere un vero cineasta, l’Arte in quanto espressione della propria anima, dell’animus e dell’ombra, e con la tenacia di un grande pioniere junghiano aveva solcato la strada della propria individuazione. Non c’era uno solo dei suoi film che non descrivesse la fragilità umana e che, emozionando, non aiutasse a diventare ciò che uno avrebbe dovuto essere: sprigionava cioè un vero e proprio effetto catartico. Federico era umbratile, un po’ saturnino, poteva dimenticarsi di te all’improvviso, senza motivo. Doveva passare qualche tempo prima di scoprire che non l’avevi perduto, non l’avevi mai perduto del tutto, come avevi potuto anche solo pensarlo? Sapere di essere importanti per lui e che lui riservava sempre un angolino per te era un balsamo vitale. Era un uomo molto forte e inavvertitamente spingeva gli altri a diventarlo. «Che storia racconta in questo film, Maestro?» chiesi appena ridiscesa a terra, ridendo, incuriosita e più fiduciosa. «La storia di un uomo sui quaranta anni e con il fegato molto stanco, sono vecchio, no? Ma non è un film di cui si può spiegare la trama. Ecco, è un uomo come ce ne sono tanti, un uomo giunto a un punto di stasi, a un ingorgo che lo strozza, così confessa tutte le proprie paure, i propri dubbi e le proprie canagliate, magagne, viltà, ipocrisie. Dimentica tutte queste
cose che ti ho detto, io faccio i film alla maniera in cui vivo un sogno.» Poi sparì e dopo poco si presentò l’operatore Gianni Di Venanzo. «Tu sei Marina, la figlia di Caterina, vero? Attenta a non farti sedurre da Federico, perché con la scusa della sua infanzia, di rimorsi e rimpianti, conquista il mondo, intendo il mondo delle donne e dà l’impressione a ciascuna che qualcosa di insolito e straordinario stia veramente per accadere. È un grande manipolatore!» «Scusi è amico suo o del giaguaro? Non crede che, a volte, accada davvero qualcosa di magico con lui? Non pensa sia una sorta di sciamano che cambi la vita delle persone? Ad esempio, ha ridato la speranza alla mia mamma che vuole ricominciare a fare cinema, qualche mese fa pensava solo a suicidarsi.» «Sarà che a volte lo sento talmente bugiardo nelle dichiarazioni d’amore che fa che lo prenderei a pugni. Ma tu continua a fare la tua vita, sei una studentessa? Non distrarti dallo studio, domani se torni voglio farti una foto come si deve! Per ricordo del set di 8½.» Sopraggiunse Federico. «Che fai qui, Di Venanzo, a perdere tempo con le bambine belle? Visto il materiale girato? Vieni a dirmi quante sono le scene buone. Marina, tu pensa alla proposta che ti ho fatto.» Fellini lo rimise subito al suo posto, ma lui negò con la testa, non aveva pronto molto girato. Perché c’era questo antagonismo fra loro? Perché Di Venanzo aveva parlato così di Fellini a una ragazzina appena conosciuta? Le sue parole accrebbero una mia naturale diffidenza per entrambi. Che ne sapevo allora del complicato mondo del cinema? Tutti mi sembravano ombre fugaci, dovevo soprattutto ascoltare. Quando tornò il Maestro ero di umor nero. «Tesorino, non c’è niente di male, cerca di ambientarti e di conoscere persone. E comincia dal peggiore», mi disse
leggendomi nel pensiero e sembrò acchiapparne sorridendo uno a caso, alto, magro, con gli occhiali, il produttore esecutivo Clemente Fracassi. Un tipo assai pessimista, forse perché in lotta perenne per far quadrare i preventivi di spesa. Il produttore vero era Angelo Rizzoli, famoso per la celebre battuta: ma quel Dostoevskij lì, l’è mica il Tolstoj? Fracassi era capace di far miracoli con i bilanci. Aveva lavorato con Federico ne La dolce vita, e avrebbe cercato di far quadrare i conti anche per Giulietta degli spiriti. Possedeva un talento poliedrico, era stato regista e sceneggiatore «Conti, sempre e solo conti, io vivo solo così! E lui invece beato, fotte e se ne fotte, pardon!» esclamò, forse capendo all’improvviso che ero poco più che una bambina. Lo disse con un briciolo di invidia? Credo di sì, ma era l’uomo che risolveva a Fellini tutti i problemi di produzione e anche lui ne era stregato. Il grande press agent e aiuto regista di Fellini, Guidarino Guidi, si era intanto fermato ad ammirare mamma che stava parlottando proprio di fronte a noi con Piero Gherardi. La guardava letteralmente rapito. Non l’avevo ancora salutata e lei mi mandava baci da lontano, ma non sapevo se avvicinandomi l’avrei disturbata. Da toscanaccio che era, Guidarino fece qualche battuta sul fatto che Caterina stava corrompendo anche la figlia portandola sul set di Fellini. Lo rassicurai subito quando mi fu accanto e mi accennò brevemente alla storia del film. «Un uomo è costretto per una quindicina di giorni ad arrestare il ritmo solito della sua vita, per una malattia non grave. Una sorta di campanello d’allarme: qualcosa si è ingorgato nel suo organismo, questo scopre a Chianciano. Il tizio ha una specialità, è incastrato fra una moglie e un’amante, non solo, tiene in piedi un’infinità di storie femminili nelle quali si dibatte come una mosca in una ragnatela, situazioni a volte pesantissime. Chi pensi che sia?» E sull’onda dell’ultima battuta uscì di scena. Come mi stavo divertendo!
Quando arrivò Gherardi, il grande scenografo, costumista e amico rabdomantico di Federico, mi sembrava ormai di essere salita su una festosa giostra. Scoprii in seguito che proprio con lui Fellini andava perlustrando la Roma notturna, fermandosi a parlare con tutti, anche con papponi e prostitute. Piero mi abbracciò, mi fece un sacco di complimenti, e nacque una simpatia reciproca che si trasformò in amicizia profonda. Piero aveva gesti, modi di fare, di apparire e nascondersi tipici dei folletti del bosco, bizzarro, benevolo o malevolo a seconda dei casi. Subito cominciò a decantarmi la bellezza di mia madre: i suoi meravigliosi occhi d’incanto ridente e la classe, il sorriso, il portamento. Disse che doveva vestire sempre di violetto e mettere il viola sopra quegli occhi così pieni di un qualche amore rimpianto. Sapevo qualcosa, e mi schiacciò l’occhiolino, complice. Ma adesso Caterina non avrebbe dovuto rimpiangere nulla del passato, e ricominciare a sorridere alla vita. Aggiunse qualcosa che mi fece rabbrividire. «La amo a tal punto che la vorrei al mio letto di morte.» E così fu. Arrivò mia madre con un grande cappello di crine bianco a ruota di carrozza e una sciarpa che scendeva dal cappello ad avvolgerle il collo, lo baciò e disse con voce flautata: «Grazie, sono tornata a casa! Senza te e Federico non ce l’avrei mai fatta, questa è la mia bella figlia, Marina». Piero mi strinse ancora a sé, ma come poteva fare un fanciullo sbadato, sempre continuando a parlare con lei: «Caterina non è che l’inizio, tornerai a recitare a tempo pieno. Federico sta facendo il film più originale e al tempo stesso più autentico della sua carriera, un capolavoro! Più grande e profondo de La dolce vita secondo me». Mia madre mi disse: «Dovresti conoscere Anouk Aimée che Federico chiama Annuchina o Cipressino, si è fatta sforbiciare
i suoi meravigliosi capelli. Gherardi le ha fatto tagliare anche le lunghe ciglia. Federico la vuole magra e spigolosa. Interpreta sua moglie, Giulietta. Lei lo chiama, Le Magicien, si lascia fare qualsiasi cosa da Federico, noi donne siamo tutte ai suoi piedi. Dunque tutti e tutte erano ipnotizzati dalla personalità del Maestro? Era veramente un idolo splendente? Le parole di mia madre mi risvegliarono da uno strano torpore, temevo che a me sarebbe successo lo stesso, era dunque così facile restare impigliate nel fascino di quel regista metà romano e metà romagnolo? Come nella Genesi, c’era il racconto del sonno di Adamo e della creazione di Eva da una costola: la donna nasce dal suo fianco, senza quasi che lui se ne accorga, una parte inconscia, completamente dipendente da lui? Il Mito rappresentava l’atteggiamento fondamentale dell’uomo verso la donna. E il desiderio di piacere di quest’ultima, di conformarsi all’idea che l’uomo aveva di lei. Misi in atto in un sol colpo, tutte le mie difese. Ero in un momento di fragilità, rimuginavo le parole di mio padre che, prima che cercasse di medicare con l’alcool la sua vita, era molto acuto e intelligente. «Marina, devi soprattutto imparare a stare con te stessa, sapere e capire cosa realmente vuoi. Ridimensionare i tuoi sogni. Anch’io, proprietario di una clinica, avrei voluto salvare il mondo e ancora meglio avrei desiderato farlo con i nuclei chirurgici mobili, ma sappi che la gente non vuole assolutamente farsi salvare.» Tenevo per me ciò che provavo, ma vedevo lui, il mio sole, scomparire lentamente sopra l’orizzonte e autodistruggersi: che potevo fare? Ero impotente di fronte a tanto masochismo. Grazie a questa doppia illuminazione intuii però che Fellini forse poteva portare una misteriosa luce nei miei sogni e nei miei progetti ancora confusi. Una delle prime cose che
compresi era che c’erano donne che avevano una particolare attitudine a riflettere l’anima dell’uomo. E una di queste era Sandra Milo. Dopo un po’ apparve l’attrice dalla voce mielosa e dal vitino di vespa, truccata un po’ démodé, genere vecchio Almanacco Bertelli, una testa da Pavoncina su un corpo da Rubens, bianca e burrosa, paltoncino di velluto nero su una scollatura da capogiro. Salutò con allegria. Suo marito, Moris Ergas, aveva prima osteggiato e poi favorito il suo rientro nel cinema con Fellini. Si raccontava che fosse gelosissimo, non era lontano il film Vanina Vanini e il suo disastroso flop (tanto da venir soprannominata Canina Canini). Invece Sandra nei panni della Signora Carla, avrebbe dato un’interpretazione da Oscar, vincendo un più nostrano Nastro d’argento. Federico l’avrebbe diretta con mano ferma, facendola recitare con la stessa vocetta melodiosa che ormai da sei anni albergava, misteriosa e segreta a tutti, nel suo cuore, la voce della Paciocca, la dolce e orgogliosa Anna Giovannini, di cui parlerò più avanti. Fellini aveva cercato una donna come Sandra, quasi avesse in mente una fisionomia precisa e a lui nota. La voleva profumata di eros, che non entrasse facilmente in una Seicento e facesse fatica a salire su un tram. Ed ecco Sandra ridere con quelle cascatelle da bambina felice, magari mentre addentava voracemente una coscia di pollo. Fellini al provino non ebbe dubbi: era proprio la Signora Carla tanto sognata, soprattutto ne fu sicuro quando le fecero indossare un colbacco e una veletta. «Devi ingrassare Sandrocchia!» la incitava. A Marcello Mastroianni, invece, otto chili di meno e a regime con un solo pasto al giorno, era stato dato un volto cereo e gli avevano disegnato sotto gli occhi miriadi di piccole rughe.
Era vestito di nero con mèche grigio verdi, invenzione del parrucchiere Filippo. Il grande attore assumeva così qualcosa di metallico e un po’ spettrale nel bianco e nero della fotografia di Di Venanzo. Era un uomo apparentemente tanto pigro e fatalista quanto Fellini era esuberante e lavoratore, eppure era destinato a diventare, nell’immaginario mondiale, l’alter ego del regista. Scoprimmo poi che Marcello amava complicarsi la vita con amori divistici, mentre Federico rifuggiva da ogni complicazione sentimentale e in qualche modo era fedele a Giulietta, perché le sue scappatelle restavano avvolte da un totale segreto. Mastroianni, soprannominato Snaporaz, possedeva un’aria di malinconia rassegnata e ripeteva fra sé e sé un mantra o forse una filastrocca: «Slap, Slap, Slap!» Lo avresti detto assonnato, ma era solo un’impressione, al primo ciak risorgeva, sembrava scoprire a poco a poco la sua natura di antieroe, il suo vero essere. «Ma è tutto più complicato della Dolce vita!» Come si vedeva colui che è considerato l’incarnazione del latin lover? «La verità è che non mi piaccio, non mi piaccio nemmeno un po’. Ho il nasino corto e la bocca cicciuta, lo vorrei aquilino e con una bocca dalle labbra sottili, insomma, sono al massimo “carino”. Più ci penso e più non capisco come una faccia simile mi dia da mangiare. Ma Federico è di un’intelligenza eccezionale, con lui mi sento più uomo, sicuro di me.» E così ingoia avidamente tutto il Fellini che può, ne studia i gesti e le movenze, attraverso un’assoluta e apparentemente svogliata camaraderie. Man mano che Marcello e Sandra si avvicinavano, formavano una coppia avvolta da un indecifrabile incanto. Mamma mi aveva spiegato che l’attore più rassicurante che Fellini potesse avere accanto, in un film ancora indefinito, era
Marcello, un vero amico per Federico. Infatti dopo otto mesi di incertezze in cui Fellini cercava un altro attore, arrivando addirittura a pensare a Laurence Olivier, la scelta cadde su Marcello, “nasetto di triglia” come lo chiamava per prenderlo in giro. Il suo commento fu: «Da me è infatti tornato, perché? Sono anti-nevrosi! Poi sono ignorante e non ho mai amato studiare, in fondo so le cose nel modo in cui un animale fiuta il cibo e la strada che conduce all’abbeveraggio, capto tutto per istinto ecco, sono totalmente incapace di gesti definitivi.» Così l’inizio del film era stato festeggiato dai due con gioia e Pommery. Anche Giulietta, che mai comparve sul set per non condizionare la fantasia il marito, desiderava che il prescelto fosse Marcello. Tifava per lui. E adesso anche Fellini non faceva che ripetere: «Ho fatto benissimo a obbedire a questa seduzione irrazionale che mi diceva che Marcello sarebbe stato il compagno di viaggio più fidato! Una sorta di compagno di banco un po’ lazzarone! Ma deve dimagrire di più. Me lo trovo davanti ancora appesantito dalla pasta e fagioli!» Marcello invece parlava sempre amorevolmente di lui: «Mi fido ciecamente! So che è onesto tutto ciò che fa!» E Federico lo incalzava di continuo: «Marcellino, rosicchiati il mignolo, rosicchiatelo… te ne dimentichi». Eppure Mastroianni aveva capito molto bene che interpretava l’alter ego di Fellini, come Jean-Pierre Léaud faceva per Truffaut, ma era teso per il ruolo e di nascosto, in camerino, fumava come un turco. Scoprii subito che era un set affollato di personaggi interessanti, anche se non volevo farmi irretire troppo da quel fascino… «Forse questa bella fanciulla non ha mangiato, vado a cercarti un cestino in bianco, arrosto e minerale», mi disse Gherardi, arrotolandosi alla vita i pantaloni di gabardine che tendevano sempre a scendere come a Charlot. In effetti avevo
una gran fame e nessuno ci aveva ancora pensato, nemmeno Di Venanzo. Uno degli aiuto registi, Giulio Paradisi, chiese a mamma se fossi sua figlia. «Sì, mi ha fatto una sorpresa, è venuta a trovarci, si chiama Marina!» «Benvenuta in questo caravanserraglio. Se ti serve aiuto, chiedi, sono qui apposta», mi disse con calore. Sarebbe diventato un bravo regista di Caroselli. Tornò Fellini. «Che bella Paciocca hai Caterina, ma non mi sembra desideri interpretare la sorella di Luisa, è davvero una particina, un cammeo.» «Ha paura che suo padre non approvi. Lei gli dice tutto e lui verrebbe sul set», confessò mamma che non avrebbe voluto rifiutare quella proposta, ma accettarla senza dire nulla. E di nuovo Fellini sparì, commentando: «Caterinona, come sono felice di averti incontrata, che giornate speciali son sempre quelle con te! Che bel confettone rosa sei!» E fuggì, forse a telefonare a qualche signora misteriosa. Sia lui che Marcello non facevano altro, lasciando un improvviso vuoto intorno a loro. Stavo in disparte ferma e attonita, sovrappensiero, aspettandomi qualche altra visione, quando un volto noto si avvicinò e si presentò, apparentemente, come un uomo candido. Era Leopoldo Trieste, il protagonista de Lo sceicco bianco e de I vitelloni, lui veramente si definì con me un drammaturgo e non un attore. Adorava Pirandello. Avevo letto Uno, nessuno, centomila, l’ultimo suo romanzo che narrava la vita di Vitangelo Moscarda? «No! Purtroppo no!» Non l’avessi mai detto, da lì partì un turbinio di mimica facciale sulla scomposizione e decomposizione della vita dello stesso Moscarda che, lasciandosi tutto alle spalle, finiva folle in un ospizio. Mi guardavo intorno, rendendomi conto che la solfa avrebbe potuto diventare lunghissima e cominciai a balbettare
scusandomi di essere troppo ignorante su quell’autore per capirlo profondamente, ma fu tutto inutile. Trieste martellava che la vita era nient’altro che un albero, una nuvola, vento e poi più nulla, spariva, dovevo far presto a vivere tutto in pochi secondi. Compresi che non sarei uscita dal racconto della vita di Vitangelo Moscarda, se qualcuno non mi fosse venuto a salvare. Lo fece provvidenzialmente ancora Federico, salutando affettuosamente Leopoldino e trascinandomi via. Trieste per un po’ mi rincorse dicendo: «Ma non hai capito che è un libro umoristico!» No, non l’avevo capito. Soprattutto non avevo capito il temperamento ossessivo e affascinato dalle donne di Leopoldo Trieste. Potei notare, però, come la sola presenza di Fellini facesse prendere corpo a tutto: ai preti che scoprii essere delle donne anziane, filiformi e nervose, alle scenografie dell’infausto collegio, al piccolo e fragile bambinello alter ego di Fellini da piccolo con mantellina e berretto, che per altro lascerà la scena finale del film per ultimo sparendo nel cono d’ombra della pista del circo. Non un bimbo come gli altri, ma bello, spirituale e poetico. Un piccolo ed eterno eroe, un puer aeternus che di lì a poco sarebbe morto di leucemia fulminante, proprio lui che prendeva commiato al suono della struggente musica di Rota. Federico come mi appariva? Lo trovavo dotato di una personalità fortissima, seducente. La sua musica investiva il corpo dell’attore o dell’attrice e lo rivestiva. Compresi d’istinto che la vera vita per lui era quella, quella dei grandi teatri di posa di Cinecittà. Il quotidiano non esisteva, per creare se ne era quasi privato o l’aveva relegato in strategici spazi segreti. Fu così, quasi all’improvviso, che prese a raccontarmi pezzi della sua esistenza, brevissimi stralci. Sogni, ricordi, impressioni. I suoi genitori non l’avevano certo viziato da bambino, viziavano Riccardino non lui. Ricordava di essere stato in braccio soprattutto a suo padre, più raramente alla madre.
Brunello Rondi aveva con sé un taccuino e sedette in attesa del ritorno del regista. Assumeva spesso un’aria lievemente corrucciata e sofferente. Appena Fellini uscì dalla sala costumi, si mise a discutere con lui. «No, Brunellaccio, il vescovo lo voglio vecchissimo, quasi incartapecorito. Poi la scena in cui per punizione sto in ginocchio sul granturco, l’hai scritta? Quando la dovrei girare secondo te? Avrei voluto farla oggi stesso. Che fate? Butta giù, dai, buttala giù subito su un foglietto.» Che piglio! Ma chi si credeva di essere? Rondi sospirò e come parlando a se stesso esclamò: «Mi dà queste paginette da scrivere subito e ti incalza, ti toglie il respiro! Inventa lì per lì, mi dice, metti questo, metti quello, oppure togli questo e quest’altro». Federico sbuffò, scrutandolo con benevolo sospetto e sorridendo fra sé e sé. Io intanto, silenziosa e affascinata da quella sarabanda, cercavo di mangiare il cestino della giornata, una fetta d’arrosto e della purea gelata, ignorata da tutti e standomene tranquilla nel mio angolino, pensavo alla svolta che Federico Fellini, artista visionario, aveva già determinato nel cinema con La dolce vita.
6 La svolta de La dolce vita
I miei genitori erano andati a vederlo con il giornalista Domenico Meccoli e sua moglie ed erano rientrati dalla prima assai confusi, non sapendo se apprezzarlo o meno, divisi fra fascino e estraneità. Come se La dolce vita coinvolgesse tutti e cinque i sensi. Era uno spaccato della società? L’intimo ritratto di ogni italiano? Un film al tempo stesso lieve e forte come un pugno. Il film si apre con l’immagine della statua del Cristo che sorvola Roma, mentre il resto del mondo assiste indifferente. Come nel cinegiornale Ciac sui festeggiamenti del 1° maggio 1956, quando una statua del Redentore, dono di Milano al Santo Padre, venne portata in elicottero da piazza del Duomo in Vaticano. Fellini, ispirato da quell’evento, mescola sacro e profano e utilizza lo stesso tipo di elicottero Bel 47. Papà non lo digerì, per lui fu come il cenone di Capodanno. Mamma, condizionata dal giudizio del marito, era turbata e perplessa, più silenziosa del solito. Era comunque il ritratto più terribile che un artista avesse prodotto della società italiana del dopoguerra che sembrava vivere alla giornata in modo amorale, avvolta da un cinismo che accomunava sottoproletari, intellettuali e borghesi. «Ma è un capolavoro, Caterina!» le telefonò il giorno dopo Lucia Alberti. «Ha fotografato la Roma notturna, prendendola dalle pagine dei rotocalchi, la frenesia del divismo e la disperazione dell’intellettuale, quadri fulminei raccontati da un giornalista scandalistico, Marcello Rubini e un fotoreporter qualsiasi, Paparazzo.»
Grazie a Flaiano e a Pasolini, era uscito un film sorprendente. Tazio Secchiaroli era Paparazzo, l’eroe scoperto da Fellini, l’autore di tanti scatti famosi. Ava Gardner ripresa mentre usciva dalla doccia a Cinecittà o fuggiva con un rabbioso Walter Chiari, Anita Ekberg che si sbaciucchiava o prendeva schiaffi dal marito Anthony Steel, l’avvocato Agnelli un po’ brillo fotografato con una giovanissima Monica. Il regista l’aveva convocato per fargli interpretare se stesso, ma Tazio non si sentiva un attore perciò diventò il fotografo di scena di molti suoi film. Il suo luogo di lavoro era la strada: girava in Vespa e tutte le sere si piazzava in via Veneto, scattava e scattava. Papà aveva bocciato il film, facendo prevalere il suo cattolicesimo, e io ero andata a vederlo di nascosto per poi confessarmi imbarazzata a un sacerdote ancora più turbato di me. Lo avevo visto con il mio amico d’infanzia Duccio Dugoni, che aveva commentato: «Dove è stato ancorato il cinema italiano fino ad ora? Allo storicismo neorealista. Credimi, questo è un film epocale!» Sorprendente, perché Duccio avrebbe esordito nel cinema come attore proprio con Roberto Rossellini, che Federico aveva accompagnato dalla Sicilia fino al Delta del Po per le riprese di Paisà, scoprendo così la sua vocazione alla regia e al cinema. Allora nei salotti, per strada, nei caffè e perfino sugli autobus ci si scontrava tra chi era a favore o contro La dolce vita. Per non parlare di mio padre, quasi fuori dalla grazia di Dio per lo scandalo del Rugantino, lo spogliarello improvvisato di Aïché Nanà e il fior fiore della nobiltà romana coinvolta in una serata libertina. «Non fu niente di che», sostenne Olghina de Robilant. Niente di che lo spettacolo senza pudore di «una ballerina disgraziata» diventata celebre suo malgrado? Comunque possa venir raccontata, si era trattato di una serata decadente a cui aveva preso parte molta gente del cinema, della nobiltà e della
cultura romani, altrimenti non avrebbe mai ispirato Fellini e Flaiano. Papà lesse i nomi dei partecipanti e vi trovò tout le monde. Continuò a inveire contro mamma che aveva voluto trasferirsi da Torino a Roma. «Fellini ha capito evidentemente che Roma è marcia! Lo dice anche Mario Soldati che è una città corrotta e tu hai voluto venire ad abitare proprio qui! Me lo ripete anche Arpino.» Invece non tutta Roma era così, anzi una parte della città che sfuggiva all’occhio vigile di mio padre era democristiana e bigotta. Mamma replicò che il cinema, fino a prova contraria, era a Roma e finora non aveva conosciuto nulla di depravato, solo artisti o letterati e questi ultimi, a parte Indro Montanelli, non la divertivano troppo. Sì, frequentava soprattutto Lucia e Guido Alberti, l’industriale mecenate del Premio Strega, e Guido Sacerdote, lo scopritore delle Kessler e molto dopo di Paolo Villaggio. E avevamo amici giornalisti simpatici come Domenico Meccoli di «Epoca», che sarebbe diventato direttore della Mostra di Venezia. Mamma e papà, convinto europeista, erano spesso invitati nella splendida casa a piazza del Popolo di Angelo e Cristina Magliano, una coppia affascinante. Fellini commentava a proposito del suo film: «Ho inventato una Dolce vita e una via Veneto inesistenti. E questa perpetua ribalta di scandali, risse, esibizionismi, prima o poi crollerà, perché totalmente fittizia! Infatti quella fatidica serata lo spogliarello è avvenuto a Trastevere, non a via Veneto». Come ho già raccontato era stato Guido Sacerdote a spingere mamma ad andare ogni giorno in centro, esibendo ogni volta un diverso cappello. Un giorno venne a trovarci e assistetti a una scenetta esilarante: «Guido, non ho quasi più cappelli da indossare, quelli del mio periodo d’oro torinese li ho esauriti tutti».
«Insisti!» Telefonò anche sua moglie Olga: «Caterina, è vero, tutto il cinema italiano va in centro, Fellini staziona fisso alla Posta Centrale di piazza San Silvestro». «Scusa ma che ci va a fare?» aveva chiesto. «Telefona o scrive a una donna misteriosa.» Ora che l’incontro era avvenuto e lei era sul set, pensavo quanto fossero stati lungimiranti e me ne stavo appartata per non disturbare un lavoro così impegnativo. Mamma era bellissima, fatata, di immacolato chiffon vestita, ma compresi quel pomeriggio qualcosa del mio destino: sarebbe stato difficile non essere etichettata per sempre come la figlia di tale beltà, insomma mi sarebbe stato difficile diventare me stessa, Marina Ceratto. Forse non dovevo farmi troppe domande, era ancora presto per arrovellarmi, mi dicevo. Rondi intanto si tamponava il sudore e arrischiò con il Maestro: «Ma questo tipo che va a Chianciano e rivede tutta la sua vita, sei tu, no? Stai affabulando sul tuo privato o sbaglio?» Il regista spudoratamente negò: «Macché, può essere un impresario teatrale, uno scrittore, uno sceneggiatore, insomma Brunellaccio è uno di noi, il tizio può essere tutto, a un certo punto le sue fantasie si incarnano e invadono la scena. Fai conto che s’incontri un amico in vena di confidenze e questo ci racconti sgangheratamente ciò che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d’infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, i dubbi spirituali e anche qualche nefandezza». «Quali nefandezze?» Lo sceneggiatore abbozzò un sorriso poco convinto come a dire: «Sì, sì va bene, ti conosco mascherina». Chianciano intanto fu ricostruita pezzo per pezzo da Gherardi, l’unica cosa che non fu ricreata all’interno fu il Parco delle Terme, per il quale Fellini utilizzò un boschetto di eucalipti dell’Eur.
Comunque Fellini due giorni dopo crollò e ammise che in effetti Mastroianni altri non era che lui. Che la storia era quella di un regista che pensa di mandare tutto a farsi benedire, perché lui temeva sempre di non riuscire ad arrivare alla fine di quel film: un film nel film, un racconto dolce, sensuale e al tempo stesso aurorale. Scattante e melanconico come certi tramonti torinesi. Voleva soprattutto cancellare la Roma de La dolce vita. Troppo smargiassa. E invece, con questo film, nascondersi, far intravedere una sua vita più profonda e segreta. «Capisci che voglio piantarla una volta per tutte di problematizzarmi? Che tutti sappiano il peggio di me.» Il peggio di lui? Sarebbe stato capace di mostrarlo? A quel tempo avevo ali veloci e, dopo aver baciato mamma, salutai tutti alla svelta, compreso Fellini che avrebbe voluto trattenermi, e mi precipitai fuori alla ricerca di un taxi. Promisi che sarei tornata il giorno seguente. Ma dovevo prima misurarmi con una versione di greco. Chiamai un po’ preoccupata la mia compagna di banco, Rita Mattioli, o avrebbe potuto aiutarmi un’altra cara amica del Cabrini, Maria Felice Paludetti? Papà telefonò da Torino, chiedendo dov’era mamma. Era appena uscita con Lalla Bo, amica che si prestava spesso a fare da ammortizzatore. Bugie, bugie, sempre bugie, come avrei potuto recitare senza farglielo sapere? Avevo una natura più sincera. Mamma tornò stanca e andò subito a letto. Al mattino mi preparai due tazze di tè forte, controllai velocemente la versione di greco ed ebbi l’impressione, tornando a scuola, di essere un viaggiatore che era stato un giorno su Marte. Nel pomeriggio, stavo di nuovo felicemente percorrendo il corridoio del collegio all’Eur quando l’aria sembrò tremare e qualcuno mi agguantò da dietro e mi sollevò in alto.
«Dove te ne stai andando, Bamboccia? Mi eviti! Insomma ci credi veramente a Dio?» «Io sì, e lei Maestro?» «Dio di Sé lascia intravedere quanto basta perché l’uomo sia spinto a cercarlo, è estremamente discreto. Se si manifestasse costantemente, che libertà avrebbe l’uomo di credere, di guardare alla vita con occhi innocenti e pieni di stupore?» Fellini! Impossibile sfuggire al suo abbraccio. Pensai che, frequentando quel set, sarei riuscita a capire molto di me: chi ero, quali erano i miei sogni e forse anche cosa avrei voluto fare nella vita. Fellini era in qualche modo uno sciamano e prima o poi forse mi avrebbe messo di fronte a me stessa. Ma dopo poco avanzò a timidi passi un nuovo personaggio, lunare e misterioso! Un uomo pallido, quasi smunto dal caldo. Indossava un abito di lino, una camicia color testa di moro e una cravatta con dei bachi finemente disegnati. Hermès, Vuitton? Il regista gli andò incontro festoso, era Nino Rota. Stretto nell’abbraccio del regista, sembrò ancora più piccolo. Quale magistrale musica avrebbe creato per 8½? Avrebbe evocato fantasmi, marcette che calavano dallo chapiteau di un circo per spandersi intorno felici, danze per notti magiche dove i folletti carezzavano le nuvole, oppure valzer e carillon maudits? Rota aveva un sorriso tenero, dolce e indifeso. Lo sentii dire: «No, no ti ringrazio, Federico, non voglio andare a mangiare da Cesarina stasera, non è la mia cucina. Desidero solo un po’ d’acqua, grazie, grazie, grazie tante». Avrei scoperto, conoscendolo meglio, che Rota ringraziava almeno tre volte chi era gentile con lui e mangiava poco, quasi fosse un Angelo che non aveva bisogno di cibo, sempre a fare qualche dieta a noi umani incomprensibile, una dieta mistica? Che comunicasse con l’Aldilà era risaputo, e forse Fellini l’amava proprio per il suo esoterismo – non a caso Rota possedeva circa tremila libri sul tema. Quando il musicista si liberò dall’abbraccio, si avvicinò a mamma pieno d’affetto, così la Signora Misteriosa me lo
presentò. Caterina sembrava in qualche modo aver ritrovato la grande famiglia che da bambina aveva avuto e poi in parte perso. Rota mi fece una carezza paterna. Ebbi un’improvvisa sensazione di benessere, mi comunicò un’immediata serenità e pace. E avremmo avuto modo di frequentarci molto e conoscerci meglio. Poi si rivolse a mia madre: «Caterina, evita fin che puoi la gramigna alla salsiccia da Cesarina, è mortale, di una tale pesantezza». «Non ci penso proprio ad assaggiarla!» «Ma Federico insisterà.» «Non si preoccupi. Mamma digerisce anche una suola di scarpone, ha uno stomaco di ferro!» gli spiegai rendendolo all’improvviso radioso come un Angiolone. Si mise a ridere. «Davvero, Caterina, sei così forte? Ha ragione?» «Be’, quasi, non proprio di ferro… Nino, non so le battute per l’harem, Federico non me le ha date tranne dirmi di continuo che desidera una donna carezzevole, una geisha occidentale», flautò smarrita. «Te le darà all’ultimo momento, non preoccuparti, sii te stessa, ti ha voluta per come sei, non l’hai capito che reciti tutto il tempo te stessa? Federico mi ha subito parlato di te, il giorno stesso che ti ha rivisto! Mi ha detto: “Nino ho incontrato una donna speciale, è la Fata della comprensione e della bellezza al tempo stesso”, ha detto così di te, capisci? «Davvero mi vede così?» Federico ci sorprese, arrivando alle nostre spalle, amava farlo, tiranneggiando i suoi fedeli. «Di che state parlottando voi tre? Non credi, Ninetto, che durante il fascismo abbiamo subìto un’educazione ipocrita e totalmente irreale? Un vero miracolo se non siamo cresciuti completamente stupidi, dei veri grulli. Spiegaglielo anche tu, Caterina! Come ci siamo ritrovati prima e dopo quella assurda guerra? Siamo rimasti degli italiani rozzi, un po’ ridicoli e immaturi. Abbiamo passato la seconda metà della vita, a cancellare i guasti che quell’educazione aveva fatto nella
prima. Sai, Ninetto, che brindisi faccio fare a Marcello immerso nella tinozza dell’harem, circondato da tutte le sue donne? Marcello dirà che la felicità sarebbe poter dire la verità senza far piangere nessuna!» «Mettilo in pratica anche tu allora, che continui a sognarlo!» gli disse Rota scherzoso. «A proposito, Federico, per la ribellione delle donne nell’harem, ho pensato e ripensato e cedo a Richard Wagner, ha la rabbia e la furia necessarie, userò la Cavalcata delle Valchirie.» Fellini sussultò, ebbe un breve attimo di rifiuto a quel nome, reazione che gli durò poco, ben presto gli si stampò in volto una sorta di vera e propria estasi, tanto che quasi strinse Rota al cuore e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, diventando improvvisamente felice. Rota era un genio! Una cosa era certa, su quel set Fellini aveva collaboratori di eccezionale qualità. «Buona giornata Caterina, buon lavoro, ciao Marina, sono stanco», disse all’improvviso il Maestro, salutando tutti e andando via. Cercò inutilmente di fermarlo Guidarino Guidi detto il Toscanaccio, un altro aiuto regista che mi parve subito di infinita simpatia. «Dov’è Billy Burke? Dov’è la mia Billy Burke?» si mise a chiedere, quasi fingendo di non vedere mamma e facendomi un ganascino complice. «Tu non sai, non puoi sapere», mi fece mamma divertita, «Scoprirai da sola che gran personaggio è Guidarino.» E poi disse a lui: «Guidarino, ti presento mia figlia!» «L’avevo immaginato! Ha un’aria di casa, ma vaga, molto vaga, mi raccomando, fanciulla, non ti esaltare! Come si chiama? Ah, già Marina, bene Marina, non ti montare la testa! E tu, Caterina, sei identica a un’attrice comica degli anni Trenta, Billie Burke. Era un’attrice geniale, sempre altrove, distratta, vaga. Allora Caterina ricorda soprattutto cosa diceva
Billie: l’età non ha alcuna importanza a meno che tu non sia un formaggio!» Mamma fece tesoro di questa frase, e lavorò fino agli anni Novanta. Non si sentì mai tanto anziana da smettere. «Ho perso la memoria», disse un giorno a un amico regista, Emidio Greco, quando le propose di interpretare il suo terzo film. «È un ruolo facilissimo, dovrai fare la madre di Giancarlo Giannini e recitare comodamente nel tuo letto!» «Adoro Giancarlo, ma Emidio non ho più memoria! Mi è sparita di colpo.» «Che importa? Ti piazziamo il gobbo! Potrai leggere le battute.» Ma c’era qualcosa di più profondo, qualcosa che sembrava un vero e proprio rifiuto, perché stazzonava il copione e sembrava cercare l’entusiasmo di continuare a recitare, negli angoli più bui di casa. Forse il cinema è anche così, a un certo punto ti satura, lo rifiuti, e dici basta.
7 Dietro le quinte/1
Guidarino come era apparso si dileguò. Gian Luigi Rondi parlava con qualcuno della navicella spaziale che si innalzava verso una località segreta, diretti su un altro pianeta, solo che durante il viaggio gli uomini dell’equipaggio si rendevano conto di avere, là, gli stessi problemi che speravano di lasciare sulla terra. Era vero o si trattava dello sforzo che stava facendo Fellini per rendere il film il più libero possibile dalla schiavitù del reale? Si diceva addirittura che avrebbe potuto concludersi con il suicidio del protagonista. Ma un uomo in cerca della propria individuazione avrebbe mai potuto suicidarsi? Tra l’altro, sentii Federico fare proprio a Rondi un discorso fiducioso da cattolico illuminato. «Cosa c’entra Dio con i pasticci che combiniamo noi esseri umani? Abbiamo il libero arbitrio e penso che il disegno finale di Dio e dell’Universo sia provvidenziale e possa prevedere solo il Paradiso che abbiamo perduto con Adamo ed Eva.» Secondo Federico noi italiani avevamo il cattolicesimo nel sangue da secoli e allora perché liberarsene? Aveva fatto sicuramente alcuni danni separando il corpo dallo spirito e svilendo il primo perché corrotto e corruttore. Quante domande mi aveva rivolto il regista sulla confessione, nessuna sulla preghiera, ma ero sicura che avesse una sorta di colloquio intimo con Dio. Tutti avevano notato che Fellini negli ultimi tempi era molto cambiato: più tranquillo, meno teso, sembrava invaso da un
senso di pace e soprattutto carico di energia vitale. Doveva tutto ciò allo psicanalista Bernhard o a infondergli tanta forza era stato il successo de La dolce vita? Ma cosa si aspettava una ragazza come me da lui? Da qualcuno che avrebbe potuto eclissarmi solo per la sua grandezza? Non so cosa cercassi, speravo però di essere planata accanto a una sorta di zio putativo. Così quando mi si avvicinò ne approfittai per chiedergli: «Lei non si preoccuperebbe dunque per la mia vita futura?» Mentre lo dicevo, la voce mi moriva in gola, avevo osato troppo? Invece fu veloce nel rispondermi. «No! Credo che per ciascuno di noi ci sia già una strada segnata, Bamboccia. Occorre far coincidere i nostri talenti con questo disegno. Ma me la fai questa particina?» Sembrava vivere in una sorta di trance ed era come se fosse il film stesso a prendersi cura di lui e non il contrario. Era come se lo vitalizzasse il solo portarlo a termine e studiare scena per scena. Non faceva che ripetere che nella vita era vago, confuso, opaco, banale. Odiava il quotidiano o tutto ciò che non lo legasse alla creatività. Preferiva accamparsi negli studi di Cinecittà che far ritorno a Fregene la sera. Eppure tutti dicevano che Giulietta aveva bisogno di lui. In qualche modo somigliava a Guido, il protagonista del film: si sarebbe salvato, se avesse cercato l’aiuto di uno psicoanalista come aveva fatto Giuseppe Berto. Berto aveva scritto un romanzo sorprendente dopo l’approdo all’analisi, Il male oscuro. Lucia Alberti aveva più volte spinto mio padre a fare altrettanto, poiché amava molto le novelle piemontesi scritte da papà. Si diventa senz’altro un po’ eroi, se si riesce a mantenere il controllo della propria vita senza lasciarsi accecare dalla disperazione. Ma non è da tutti capire il senso del proprio passaggio e del proprio destino sulla terra. Quante cose ero riuscita ad afferrare in nemmeno tre giorni? Forse il cinema, o almeno quel tipo di cinema, faceva crescere.
Non sapevo dove fosse andata a finire mia madre, forse era andata semplicemente a cambiarsi. Dopo poco mi fermò Clemente Fracassi. «Marina, tua madre ti sta cercando, raggiungila in camerino.» «Dove ti eri cacciata?» mi chiese lei come mi vide. «Sai mamma quanto mi piace osservare tutto e tutti. Guardavo gli operai che allestivano la scena dell’harem.» «Dai chiudimi la zip. Stasera ho preparato per voi una sorpresa, petti di pollo alla salvia e patate al forno e vino bianco.» «Come mai non il solito triste cappuccino con biscotti? «Ieri ho preso la paghetta e ho pensato che dovevamo festeggiare insieme, Paolo ne sarà felice.» Aveva un tono un po’ provato. «Sei stanca?» «Ho bisogno soprattutto di farmi una doccia. Tuo padre vuole che frequenti l’università e non abbiamo nemmeno i soldi per mangiare.» «Pensa all’essenziale, lui.» «L’università sarebbe l’essenziale? Ma che dici? Impari di più lavorando. Guarda Federico! Ha sempre lavorato come un matto e dopo il liceo classico non ha più studiato, eppure parla come un romanziere.» «Ma come puoi paragonare un uomo speciale come Federico a una come me, mom, lui non è come tutti gli altri.» Lei allora si alzò e cominciò a raccogliere in una sacca alcuni vestiti senza rispondermi. Sembrava posseduta da una lancinante urgenza di rientrare, temeva che l’avrebbe chiamata papà. Era ormai tempo di pensare ai compiti dopo che mia madre aveva ultimato la sua giornata di riprese sul set.
Avrei voluto che lei avesse una vita più felice e serena, un marito più risolto e in grado di darle sicurezza economica e non solo un amore possessivo. Da quando si era imbarcato nel folle progetto dei Nuclei Chirurgici Mobili non era più riuscito a risalire la china delle spese incontrollate. «Mamma, che gli dirai di aver fatto oggi?» «La verità, quello che so.» «Cioè?» «Banalità, gli parlerò degli Alberti. È stata una bellissima giornata, quante ne ho di giornate simili, con la vita che faccio? E dovrei ancora dire la verità a un uomo che ha cancellato tutti i miei sogni?» Incrociammo Federico che si fermò per abbracciarci. «Dove fuggono le mie bambine?» «Ciao carissimo, come al solito ho vissuto il mistero, l’allegria, l’amore, tutti i sentimenti in una giornata. E questo solo grazie a te!» «E tu, Marinotta, tutto bene? Ma sei sempre così taciturna?» «È stato tutto sorprendentemente bello.» «Guarda Caterina che domani verrà a trovarti a casa lo scultore Angelo Bragalini per fotografarti e modellare il calco del tuo viso per la statua della Madonna.» Alla notizia il volto le si distese all’improvviso, per la promessa di incarnare la Madre di tutti gli italiani: la Madonna. «Mi spiace che alla fine non riusciamo mai a parlare. Dobbiamo forse andare una sera da Cesarina. Allora Caterinona, ci vediamo dopodomani! E tu, Marina, mi farai quella particina che ti ho chiesto?» Mentre tornavamo a casa con la macchina della produzione, mamma mi spiegò che Guido Alberti avrebbe interpretato il produttore nel film anche se non possedeva la dolcezza disarmante di Angelo Rizzoli.
Guido era il marito di Lucia Alberti, uno dei nostri più cari amici. Fellini aveva sedotto anche lui. «Non trovi che Federico sia affascinante alla decima potenza? Non dici nulla?» mi domandò arrivate a casa. «Sì certo, e ha anche una voce incantatrice, da Sirena. È intelligente però, mamma, ti prego, non farti sedurre come tutte le donne che ha intorno.» Ma lei era già immersa in un sogno che per fortuna non durò a lungo. Erano le dieci di sera quando la Sirena chiamò per parlarmi. «Ma che ragazzona piena di salute sei! Vorrei rivederti dopodomani. Potrei chiamare il preside e chiedergli di lasciarti recitare uno sbuffo di parte? Ti giuro che è proprio un’apparizione.» «Senza chiederlo a papà? Non è possibile.» «E che aspetti? Fallo subito!» Ebbene, non era facile smarcarmi anche dal ruolo di figlia. Mio padre mi scriveva lettere dolorose. Abbandonato da una sorella appropriatasi dei suoi beni di famiglia, riusciva a farmi singhiozzare mentre studiavo china sui libri. Quella sera tentai di scrivergli una lettera per dirgli tutto, poi non ebbi la forza di ultimarla e spedirla. Il risultato fu un litigio con mamma che voleva seguissi le sue orme, facessi cinema e invece davanti a un debutto in un film di Fellini tentennavo per non ferire mio padre! «Non hai nessun bisogno di dirglielo, forse ti si vedrà solo per un secondo!» Ne parlai il mattino dopo con il preside. Disse di rinunciare perché mio padre ne avrebbe sofferto troppo. Mi costò dire di no al regista, perché in quella allegra confusione sarebbe stato un debutto in sordina nel più bel film del secolo, ma non potevo non chiedere il permesso a mio padre, e la vita è fatta di scelte. Fellini in qualche modo mi obbligò a scegliere, a crescere.
Il Maestro richiamò nel pomeriggio, insistendo ancora e mi fece promettere che sarei andata comunque a vederlo girare il giorno seguente. Ero fresca di lettura dell’Odissea e sapevo che il mito delle Sirene aveva abbagliato sia Odisseo che Orfeo, che riuscì a stento a salvare il suo equipaggio di Argonauti. Erano figlie di Eracle o di Acheloo? Comunque pericolosissime. E negli anni scoprii che il regista, magari involontariamente, seducendo e incantando, avrebbe anche seminato il suo passaggio di qualche cadavere. Mamma infatti ne era completamente abbagliata, Federico le aveva ridato la vita e il futuro con la sua bacchetta magica. Quella sera la scoprii a scrivergli una letterina adorante che mi spezzò il cuore. «Non farlo!» le dissi e, poiché non ebbi modo di dissuaderla, ne corressi almeno il tiro. Con abilità Fellini scantonò le profferte con un’altra letterina di affetto infinito. Proprio come immaginavo. Amava l’attrice riscoperta, il fantasma della sua giovinezza, non la donna reale. Ne nacque un’amicizia cui rimasero per anni fedeli entrambi. Soprattutto mamma superò ogni sua viltà, Fellini infatti era un artista geniale, ma non era un cuor di leone. Caterina aveva qualcosa di commovente, aveva fatto molta fatica a essere moglie e madre e a crescerci. Chissà quanti sentimenti contrastanti agitavano il suo cuore. Aveva dovuto sopportare per tutta la vita discussioni e litigi coniugali, per l’assurda gelosia del marito, senza mai perdere la sua grazia e pazienza. Di una sola cosa avevo certezza: era stato il suo Angelo Custode a non lasciarla sola in quella disperata situazione e a fargli incontrare Federico Fellini. Nel pomeriggio venne a conoscere mamma e a fotografarla lo scultore Angelo Bragalini. Ci spiegò di aver già dato corpo
a molte ossessioni oniriche di Fellini, scolpendo una trentina di statue di donne in polistirolo per 8½. Donne con foreste di braccia e gambe, creature monumentali e inquietanti. Era stato un allievo di Cleto Tomba. E ora si apprestava a rendere immortale il bellissimo volto di Caterina. Le fece accostare al corpo la tenda di lino del salone, quasi fosse un manto bianco e le scattò decine di foto. Il risultato fu il viso più bello che avessimo mai visto. Ma mi dimenticai di chiedere sia a Fellini che allo scultore di poter tenere quella magnifica Madonna per ricordo, ci sono rimaste solo le foto in bianco e nero. Il giorno seguente Fellini volle ugualmente farmi indossare il grembiule bianco per la scena dell’harem. «Ma non reciterò!» mormorai dispiaciuta da morire, mordendomi la lingua. «Almeno ti vedrò come ti avevo immaginata.» Gianni Di Venanzo mi scattò la più bella foto del mondo, che un giorno per recuperarne il nitore rovinai per sempre. Ci mise tutto l’incanto dei miei sedici anni. «Federico ha già assegnato la tua parte a Elisabetta Catalano, l’ha già detto a Fabio Mauri. Lui promette sempre a tutti, poi decide come gli pare…» mi confessò Gianni. «Ti sbagli, la parte l’ho rifiutata tre giorni fa.» «Che ingenuità!» concluse lui non del tutto convinto. Mi chiesi come mai i rapporti fra i due continuassero a essere così tesi. Gianni stava quasi sempre a parlare fitto con Sandra Milo. Per avere lui alle luci Federico aveva tradito l’adorato Otello Martelli. Di Venanzo, era l’ultimo dei maestri del bianco e nero e forse il più grande di tutti. Era un uomo integro. Anche Elisabetta Catalano, che ebbe il mio ruolo, era giovanissima e non aveva velleità di attrice, partecipava a quel film soprattutto per dare spessore alla sua carriera di fotografa e ritrarre con comodo Mastroianni, Fellini e attrici come Anouk Aimée, Claudia Cardinale, Sandra Milo, Rossella Falk, Barbara Steel.
Di tutte fece ritratti magici. Lì per lì non ci badai, mamma invece ne fu profondamente addolorata: «Dovevi salire su quel treno al volo! E senza dire niente a tuo padre!» «Bambocciona bella, eccoti qui finalmente! Ti fai desiderare, fai la preziosa», mi disse il Maestro sollevandomi in un abbraccio dei suoi. Preferivo pensasse questo, perché non mi fidavo mai al cento per cento. «Sai, con tua madre ho l’impressione che non devo chiederle troppe cose, altrimenti si mette a piangere! Ha bisogno di parlare, di sfogarsi, per questo qualche volta la porto a Ostia, è così protettiva con me, quasi fossi per lei un figlio.» Una volta portò anche me a Ostia per dissuadermi dal farmi suora. A suo dire cercavo una sorta di regalità, ignorando le prove di umiltà che una suora deve accettare e subire. Sublimavo. Possedeva una grande automobile foderata di pelle color crema, era una Lancia Flaminia o una Mercedes? Faceva parte della sua sfida con Mastroianni a chi avesse le automobili più belle e veloci. Marcello comprava una Jaguar e Fellini una Triumph, Marcello passava alla Triumph, e Federico alla Porsche, se la comprava anche Marcello allora Federico passava alla Bmw. «Scriteriatamente abbiamo arricchito il vecchio Bornigia che adesso dal sarto ordina un vestito al giorno, sempre più elegante, quanti soldi gli abbiamo dato Snaporaz e io!» Com’era divertente e spiazzante Federico, aveva molte anime e tanti volti! Un Minotauro a più teste! Non sapevi dove guardare per vedere quello vero. Amava guidare per le strade di Roma con un amico o un’amica, aprirgli il suo cuore. «Ma quale è stata la tua prima automobile?» gli chiesi un giorno.
«Be’ il camioncino Fiat 505 di mio padre!» confessò a me e a Clemente Fracassi, infiorettando una bellissima storia d’amore con il padre. «Avevo nove anni. Mio padre lasciava il camioncino in garage e un giorno ci saltai su per vedere se ero capace di farlo camminare. Per accedere al garage bisognava fare una salita ripida, avevo visto che per metterlo in moto girava una manovella, e sapevo togliere il freno, ho fatto esattamente i suoi gesti, solo che la marcia era quella che aveva ingranato papà e quindi il camioncino fece tutta la discesa, seminando il panico nella piazzetta dove vi erano riuniti una cinquantina di salesiani!» «E sei riuscito a fermarti?» domandò Fracassi. «Sì, ma contro un pilastro! Subito sopraggiunse mio padre furibondo che mi tirò fuori ancora inebetito dall’abitacolo.» «Credo abbia inventato questo ricordo lì per lì a nostro uso e consumo», commentò Clemente appena Federico se ne fu andato. «Poco importa, quando in una stanza entra lui, entra la primavera», aggiunse. Federico era vitalissimo, allegro, e parlava spesso del padre. Della madre poco. Avevo notato quanto Ida Fellini fosse poco femminile. Invece in 8½ per lui bambino cantano, mentre lo accudiscono, le amorose e prosperose zie. Possedeva un’energia che credo nessun regista abbia mai avuto. Eppure pochi anni prima aveva intessuto sogni cattivi, infernali. Diceva di aver avuto uno scivolone e ne avrebbe sofferto ancora per la malinconia estrema del suo segno zodiacale, era un Capricorno esiliato in Saturno. Di tormentosi incubi notturni ne ebbe molti. Come quello che apriva 8½, in cui il regista, imbottigliato nel congelato traffico romano, fu preso da un vero e proprio attacco di panico e iniziò a librarsi su, su, sempre più in alto, fino a quando un laccio non lo riportava bruscamente in basso, alla cupa realtà. Il sogno non se lo era inventato, anzi continuò a farlo per anni.
Ogni volta che ti vedeva era un happening, un modo di celebrare una festa, di esserci solo per te, soprattutto se ti incontrava per strada. Chi aveva propiziato il sortilegio di un simile incontro? Avermi conosciuto senz’altro gli dette modo di capire le fragilità dei ragazzi del sessantotto, le loro utopie, i loro sogni. Quel giorno confessò a Rondi che avrebbe voluto fermare l’immenso baraccone del film tante volte, scrivendo una letterina al povero Angelo Rizzoli che, dopo aver già affrontato costi ingenti per le varie costruzioni negli Studi Scalera sull’Appia Nuova, viveva temendo il peggio. Dall’ufficetto da dove scriveva sentiva il martello dei carpentieri che costruivano fondali e scenografie. «Perché volevo mandar tutto all’aria, scappar via? Cos’era successo? Soltanto questo: non ricordavo più il film che volevo fare. Il sentimento, l’essenza, il profumo, quell’ombra, quel guizzo di luce che mi avevano sedotto e affascinato erano scomparsi, dissolti, non li ritrovavo da nessuna parte.» Per non parlare della superstiziosa fuga notturna del regista dagli uffici di via della Croce, per trasferirsi in via Po, attraverso un periplo di luoghi magici, le sette chiese che gli autotrasportatori furono costretti a sfiorare per scongiurare il malocchio che lo stava inseguendo. Il tutto era, secondo Fracassi che lo raccontava con angoscia, un vero e proprio film nel film. Ma Fellini sembrava sempre trovare all’improvviso magiche soluzioni che gli regalavano un po’ di pace. Insomma era superstiziosissimo e, quando un luogo gli appariva negativo e abitato da entità funeste, riteneva inutile bonificarlo o benedirlo. Di 8½ non si sapeva quasi nulla, l’ultima pellicola in cui il Maestro aveva voluto fare delle anticipazioni, era stata Le notti di Cabiria . A cominciare dalla Dolce vita aveva elaborato un’altra strategia: non far mancare l’elemento sorpresa.
Anche per i critici era meglio. Prima arrivavano preparati, trovando sempre parti su cui arricciare il naso. Alla fine aveva adottato una strategia perfetta: la congiura del silenzio. «Mi spiace, non posso dirvi nulla. La regola vale per tutti, vi prego di scusarmi.» Non tardai ad accorgermi che era un genio della autopromozione. Stava rivoluzionando l’immagine dell’autore cinematografico. Non per niente il finale di 8½ era stato pensato come un trailer. Comunque ben presto si diffuse ugualmente la voce che Federico avrebbe approfondito in 8½ i temi fondamentali della psicologia analitica: sogni e incubi, come la discesa negli abissi, la lotta tra il bene e il male, la risalita e l’autorealizzazione attraverso la presa di coscienza di problemi personali. Insomma, il cinema acquistava un profeta, un Dante moderno! Fellini avrebbe tracciato l’itinerario, verso Dio e dentro l’uomo, del senso della vita e della morte, dell’amore e della solitudine, della luce e della tenebra, della libertà e del destino, della speranza e della disperazione e tutto questo grazie a Jung. In realtà, Fellini aveva fatto sua la lezione dello psicoanalista svizzero, e cioè che i più importanti problemi della vita erano tutti insolubili. E così devono essere perché esprimono la fondamentale polarità di ogni sistema che si regoli da sé. Essi non si possono mai risolvere, solo oltrepassare. Perché la Signora Misteriosa era così carezzevole? Mamma si era abituata agli arrivi improvvisi di mio padre da Torino, sempre più ferito dalle liti continue con la sorella che non solo non voleva saperne di spartire i beni di famiglia, ma nemmeno lo riceveva nella villa di Castellamonte, che pure apparteneva a entrambi. Come era prevedibile per una donna degli anni Quaranta lo tranquillizzava dicendogli: «Su, Armando, tesoro, non fare così. Vuoi una camomilla o preferisci un tè? Perché
non ti stendi sul letto e smetti di pensare a tua sorella e ti riposi un po’?» Tale e quale la ritrovai in 8½ nella scena dell’harem dove suggeriva a Marcello: «Vuoi una crema, un unguento?» In un’altra, la Signora Misteriosa è al telefono nella hall dell’Hotel delle Terme quando Mastroianni, passando, la guarda affascinato e la sente dire: «Tutto, ti perdono tutto!» Potrebbe essere lei la donna tanto desiderata dal regista, e mai raggiunta, o è un sogno? Mi chiesi se Fellini fosse una carta assorbente che prendeva le parole e gli umori delle persone intorno a lui. Rubava le vite altrui. Poco importava se t’infilzava come una farfalla con uno spillone per la sua collezione di memorie. Prima di tutto lo faceva attraverso lo schizzo, il disegno. Parlare finalmente di sé non era stato facile, l’aveva deciso in un momento in cui il film sembrava essergli sfuggito di mano. «Basta, basta», confidò a Gherardi che avrebbe volentieri smantellato tutto, qualcosa del film non funzionava pienamente, mancava qualcosa di indefinito e misterioso. Cos’era? Perché gli mancava la forza e il coraggio di essere finalmente se stesso fino in fondo? Brunello Rondi continuava a spingerlo verso la verità e alla fine l’ebbe vinta. «Federico, ammettilo una buona volta: Guido sei tu!» Non c’era motivo di perdere tempo, di prolungare quella sorta di adolescenza. Credo che lo abbia deciso d’impeto di mettersi a nudo, di mostrare tutta la paura di deludere le aspettative altrui e lo smarrimento e la fatica di regolare i conti con il proprio passato. Guido-Marcello, un bugiardo senza estro e talento, infatti, si divideva tra una moglie borghese, apparentemente perfetta, e una sensuale amante un po’ vieux jeu e tante donne diverse. Sì, le donne lo attraevano a volte per un giorno, un mese, a volte più. Me lo confidò anni dopo.
«Un’unica donna “per sempre”? Non ho mai creduto fosse possibile per me. Mi ci vorrebbe una prova inequivocabile, una rivelazione finale.» «Ma Giulietta cos’è per te?» «Giulietta ha saputo conservare il suo incanto intatto. È una creatura misteriosa che può riflettere nel suo rapporto con me una struggente nostalgia di innocenza, di una moralità più compiuta.» Ma adesso stava girando 8½ e fissava Sandra Milo con desiderio e vaga ironia, nei suoi profondi occhi, sempre strizzati come se non potessero fare a meno di scrutare tutto, contenere il mondo che lo circondava, scintillanti tanto erano penetranti. Occhi marroni e gialli, come di un leone sempre all’erta, un felino in caccia. Così era Fellini? Faticavo a pensare alla sua vita così complicata, ma in effetti più andava avanti il film e più sembrava ritrarsi nel personaggio. Lui, il Mago, il Faro. Era dunque così pasticciata la sua esistenza quotidiana? Era troppo intelligente per non afferrare la fragilità delle donne, troppo malizioso per non capire con una sorta di benignità di fondo, il tipo di femminilità nascosta in ognuna e quanto quell’aspetto potesse essere comico o solenne, intenso e magari anche un po’ fuggevole e ridicolo. Ne faceva chiare imitazioni, a volte. Per questo cercavo di sparire dalla sua presenza, per non rivedere un certo mio esagerato sorriso, un fuggevole palpito, un sopracciglio troppo inarcato, un moto di insofferenza all’ambiente di caciara che mi circondava. A volte mi turbava, cercando di modificarmi qualche ciocca, mi rifaceva il verso, la vocetta… io… io? Ero dunque quella cosetta lì, proprio io? Ero dunque solo una caricatura? Sì! Non mi lesinava le sue imitazioni, ma avevo l’impressione che qualunque donna si fosse trovata nei paraggi sarebbe caduta facilmente nella sua rete. Quello che cercava era scaricare la tensione, che immagazzinava nel girare il film della sua vita. Ma con ogni donna giocava, giocava sempre, tranne forse con Giulietta.
Anche Marcello aveva un’amante cui era molto affezionato e che tenterà di lasciare per far piacere alla moglie Flora e a Lina Wertmüller, una bella donna, la soubrette Mirella Gagliardi. Ma non ce la farà… In un momento di pausa, mamma non seppe resistere alla curiosità e chiese a Gherardi se Sandrocchia interpretasse se stessa e la risposta di Piero fu sibillina. «No! Guidata da Federico fa una burrosa Signora che fatica a entrare nella Seicento, ha addirittura assunto la sua voce – pare – sempre grazie a Federico, interpreta un’Entità muliebre misteriosa che esiste, ma nessuno di noi conosce. Ma Sandrocchia si è forse troppo identificata nel ruolo e si è innamorata di Federico. E questo è un male!» «Perché è un male?» domandò incuriosita mamma. «L’uomo sul set si muove come uno spirito libero, si muove come Ariel, ma non lo è per nulla», ribatté il costumista, che lo conosceva profondamente e sapeva quanto fosse legato a Giulietta. Per il ruolo di Sandra, Fellini aveva prima corteggiato la soprano Marcella Pobbe, poi aveva promulgato una sorta di bando in mezza Italia per trovare una donna dall’aria d’altri tempi, garrula, opima. A chi si ispirava chiamando a raccolta le donne ritratte da Rubens e Tiziano? Aveva anche organizzato una sorta di giro d’Italia alla ricerca della Signora Carla, proprio quando la Milo era già stata ampiamente e segretamente provinata? Sospendemmo ogni curiosità. Avere a che fare con Fellini significava anche capire che le sue attrici contenevano sempre altre donne, vere e proprie matrioske, entità misteriose, dee antiche. Comunque Fellini non tornerà mai più in uno stato di ispirazione totale come quello in cui si trovava durante le riprese di 8½. Sembrava camminare a pochi centimetri da terra, innamorato e felice.
Con Giulietta degli spiriti comincerà infatti a farsi più impaziente, meno aperto agli altri, assorto in problemi che faticherà a comunicare in immagini. Era stato profondamente segnato dalla morte di Ernst Bernhard che, il 29 giugno 1965, non resse a un nuovo infarto. La scomparsa del suo mentore gli era stata anticipata da due angosciosi sogni premonitori. E solo di lui conservò una piccola foto appesa, prima nello studio di via Sistina, poi nell’ufficio di corso Italia. Si sentirà orfano, anche se continuerà l’analisi con la moglie di Bernhard, Dora, e vedrà altri analisti junghiani come Mario Trevi, tenendo a bada i suoi scivoloni. Una volta, molto tempo dopo, mi confidò però che era stata sempre e solo la vita a tirarlo fuori dai guai, mai l’analisi.
8 L’harem
Sul set faceva delle improvvisate anche Gideon Bachmann, regista e fotografo tedesco che sembrava avere uno spirito meticoloso e preciso, ma Federico si era dimenticato l’appuntamento che gli aveva dato e si mostrava quasi sempre evasivo. Bachmann era sfuggito alla Shoah, aveva fortunosamente raggiunto gli Stati Uniti, era poliglotta e raffinato. A partire dal 1961 si era trasferito a Roma e ben presto era diventato un volto conosciuto sui più importanti set italiani, fino a quello del Salò di Pasolini. Girò Dietro le quinte di 8½ e, durante il Satyricon, il documentario Ciao, Federico!. Vedere Fellini dirigere le scene dell’harem mi diede modo di assistere a una sorta di magia che forse all’epoca non aveva nulla di paragonabile. O almeno nessun regista filmava a quel modo, con quell’estro e piglio, né con simile inventiva, forza e sicurezza. Sembrava avido di vita. Mi resi conto anche di quanto il cinema, il suo cinema, fosse un lavoro faticosissimo. Da come gestiva la frusta per la scena dell’harem con movimenti da vero domatore mentre faceva vedere a Marcello come avrebbe dovuto fare. Marcello invece era assai meno forte e sicuro nel ripetere gli stessi gesti del Maestro. Occorreva molta salute e un impeto da autentico dominatore, per farlo bene. Bisognava essere un po’ Zampanò. Federico era anche un domatore di belve, un direttore d’orchestra, un imperatore. Mi accorsi, stando sul set a osservarlo che rifaceva esattamente il verso e la voce di ogni attrice e di ogni attore,
recitava le parti di tutti, muovendo le mani femmineo e seduttivo, uno spettacolo straordinario! Ma all’improvviso, con l’harem, mi apparve un vero uomo, del tutto padrone del suo territorio. Quante erano le persone ai suoi ordini? Duecento, trecento? Lo ignoravo ma fu quel giorno, in un momento di pausa che, armandomi di coraggio, feci la fatidica domanda. «Maestro mi perdoni, lei di che segno è?» «Bilancia, ascendente Bilancia», esclamò beffardo e sorridente. Rimasi senza parole, e un po’ trasecolai, l’avrei sicuramente detto Leone o Capricorno. Mi ero sbagliata? No! Mentiva! Avrei avuto tempo per scoprirlo. Comunque il Domatore teneva sotto il suo controllo, e nel suo cerchio magico, un mondo fra attori, comparse e maestranze e tutti l’adoravano. «Brunellone, hai scritto la scena dell’invertito che viaggia con il suo cupo amante?» «Rendiamolo eterosessuale, Federico, ci ho pensato sai, è meglio, dammi retta, già il film turba di per sé, Pisu gira l’Italia con una ragazza bizzarra, cupa e sensuale, una posatrice che lo ha incastrato con giochetti erotici e sentimentali. Per lei lascia la moglie dopo quarant’anni di matrimonio. Regge bene, è successo a un mio caro amico.» Mi meravigliavo di come Federico e i suoi collaboratori continuassero a scrivere il film mentre lo giravano e mi sorprendeva anche il feeling del tutto speciale che Fellini aveva con Rondi, un uomo paziente che, come un illusionista, estraeva dal suo magico cappello un’idea dopo l’altra su richiesta. Si capivano in un attimo. Anche con Tullio Pinelli era così, ma Rondi buttava giù sul momento i dialoghi, l’occhio fisso sul set, disponibile quasi di ora in ora, un’abilità non da poco per governare l’estro felliniano.
«Bamboccia, che fai sempre nascosta? Capisci che nulla ha peso senza un alone di mistero, senza una nebbia che lo avvolga. Eppure noi siamo avviati verso una realtà priva di chiaroscuri, una realtà brutale, il mondo verrà banalizzato, tutto diventerà spettacolo.» Cosa rispondevo? Di solito ero vaga o surreale. «Guardo, osservo la sua capacità di rendere il mistero…» o «Immagino che lei parli per esperienza personale» – non cominciai a dare a Fellini del tu che durante le riprese di Block-notes di un regista. A volte non rispondevo, rimanendo pietrificata dalle pillole di saggezza che mi offriva sfiorandomi al suo passaggio. Lui in realtà sembrava un estroso giocoliere, mai fermo, mai zitto, dava molteplici ordini, quando non suggeriva o non improvvisava battute, spuntando dal nulla. Eccolo mimare la risatina di Sandrocchia o la vocina straziata di Caterinona, per magari esclamare all’improvviso: «Per favore fate i bravi! Zitti un po’! Ciak, si gira! Giù la capoccia, Paradisi! Però questa è l’ultima, poi vi mando tutti a casa, prometto! Su, siate buonini…» Anch’io potevo esprimermi in modo autenticamente ridicolo o troppo enfatico con frasi come «Maestro, dunque anche per lei il nostro passaggio sulla terra non è interamente vano?» «Nulla è vano, nemmeno un filo d’erba, un granello di polvere o una vita e soprattutto i ricordi non sono inutili. Ma torna domani, scemina, e vedrai Gambettola e la mia amata nonna paterna, Franzchilina, quanto l’ho amata!» Ma chissà come rise di me, della mia ingenuità di sedicenne. Non so cosa inventai a scuola per poter tornare anche il giorno seguente. Così insieme alla nonna vidi girare anche l’harem. La genialità del regista fu di fondere l’ambiente della sua infanzia, cioè via Soprarigossa con la garrula festosità delle zie e della tata, insieme a quella delle donne della sua vita. Cosa poteva essere il simbolo di Gambettola se non una vastissima
cucina secentesca? Era bellissima, ispirata alla casa di Piero Gherardi a Poppi. Piero ci prometteva sempre di farcela vedere, di farci visitare la sua amata città, dove Dante aveva composto il xxxiii canto dell’Inferno, invece l’aveva ricostruita lì, di fronte ai nostri occhi. Il soffitto era sostenuto da travi di legno. Una grande fiamma ardeva in un camino dall’alta cappa. In quello spazio non c’erano che donne, sei, sette, otto, nove donne in un’atmosfera di gioia e complicità. La nonna e le zie: risate, scherzi e canti. Mamma era un po’ tesa, non sapeva cosa avrebbe dovuto dire, per la scena ottomana dell’harem, non aveva il copione, la moglie stava davanti al camino a cucinare, era Anouk Aimée, Anoucchina, la moglie di Guido: con un foulard ancillare legato in testa, si muoveva lieve, elegante, graziosissima. La neretta ballava. Sandra Milo, Carla nel film, suonava l’arpa in un angolo, vestita di piume e di una vestaglia trasparente. In un soppalco occhieggiava ironica e sempre un po’ sfottente la cognata, Rossella Falk. Un’attrice diversa da tutte, una donna aristocratica, forte, simpatica. Allora, silenzio. Si gira. Ciak, motore. Azione! Lentamente, lentamente Azione. Stop. «No! No!» Qualcosa non andava. Allora si iniziò daccapo e poi ancora. Il Maestro parlò fitto a Marcello che scomparve misteriosamente. Federico sembrava sovrappensiero, lasciava sfumare nell’aria ogni domanda, quel giorno pensava con laboriosa lentezza, stava per girare una scena molto complessa, difficile. Ne era consapevole. Cauto si avvicinò a Sandra e ad Anouk e disse loro qualcosa di incomprensibile agli altri, forse un mantra? O le aveva caricate di energia? Non erano forse loro le due donne centrali e più importanti della sua vita? La moglie e l’amante!
Mentre Fava sistemava il trucco di mia madre, sfumandole gli occhi, mi avvicinai, la sapevo angosciata. «Non so che dire, che fare.» «Fai Caterina! Interpreta te stessa, inventa.» Ma poiché niente sfuggiva al suo sguardo s’avvicinò anche il Maestro. «Non ti preoccupare, Caterina, ti dirò tutto io, mi raccomando, meravigliata, anzi, incantata, tu sei innamorata di Guido. Il bellissimo vocino tuo fammelo ancora più straziato.» Ed ecco Marcello-Guido entrò, anzi spalancò la porta all’improvviso, coperto di neve e portando con sé un’infinità di regali e fu un’immagine dorata da albero natalizio, ma inimmaginabile e imprevedibile. Ecco la sorpresa del genio, il clima natalizio dei doni che trasforma un harem in una famiglia. Qualcosa che non potrò più dimenticare, un brivido infatti corse nella schiena di tutti. «Buongiorno a tutte! Eccomi qua! Come state? State bene?» recitò divinamente Marcello. «È arrivato ragazze, c’è Guido!» ripeteva infantile Luisa, la brava, bravissima Anouk. Intanto Guido distribuiva, beato, regali a tutte le sue donne. Aveva pensieri per ognuna. «Ciao Luisa… ciao Claretta… ciao Rita… dov’è Carla? Questo per te! Quest’altro per te! Dov’è Giuliana?» Altro stop. Fellini spiegò a Marcello. «No, no, offri il diadema a Caterina e tu, Anouk, reagisci un po’ arrabbiata che abbia dato a lei questo dono. “Quel diadema è mio!” Anoucchina devi dirlo con rabbia, capito? Ciak, motore, azione!» Donne tutte in coro. «Splendido! Grazie tesoro. Cos’hai, tu? Fammi vedere? Oh grazie, un amore!» Fellini fece un altro stop e ordinò al protagonista: «Più leggero Marcellino, quasi inconsapevole, più distratto anche,
come quando mi vedi altrove, che proprio non esisto, sono vago e sto avvolto in me stesso.» Silenzio. «Si gira. Motore! Azione! Ciak: harem!» Il regista fece ripetere la scena allo sfinimento, fino a quando non fu soddisfatto. E girò la scena di mamma sul momento. «Entra lieve Caterina, in punta dei piedi, su su… Caterinona e tu Marcello suadente devi mormorarle: “Chi è lei, bella signora?” E tu Caterina: “Non ha importanza chi sono… vuoi una crema, un unguento?” Improvvisa lì per lì, quello che potresti dire a me, no? Una vocina più lamentosa, più amorosa, Caterina, e avvolgi Marcello nel telo. Più tensione interiore… vai sicura Caterina, sei bella!» La neretta intanto ballava avvolta anche lei in un telo. Mastroianni, informandosi su di lei, chiese: «E questa chi è?» «Una nuova! L’ho portata a casa stamattina, vero che è carina?» chiese Anouk. Si ripeté ancora. Alla fine Fellini disse: «Va bene. Stop. Stampa le ultime due.» Sapeva sempre cosa tenere, quale scena funzionasse. Così il ruolo di mamma venne inventato lì per lì, non esisteva nella sceneggiatura. Fu girata anche la scena del bagno di Marcello, nudo dentro una tinozza, ma con cappello e occhiali, mentre a ritmo di rumba le donne gli passavano spugna, sapone, talco e accappatoio. C’era Rossella Falk, un Grillo Parlante che disapprova la scena dell’harem. Fellini, alla fine, si appoggiò a una colonna, asciugandosi il sudore, poi si lasciò andare su un divano disfatto dalla fatica. Il suo spirito fulgido e indomabile era scalfito. Nessuno osava avvicinarglisi.
«Pensavo di divertimi, invece sono stanco, infelice, forse dovrei smettere di fumare, ho la gola infiammata, mi è sembrato un sogno di quelli che uno fa da sveglio però. C’è in tutta questa sazietà anche un certo dolore.» Gli era costata fatica l’harem, eppure poco prima sembrava euforico di girare quello splendido delirio maschilista. E io pensavo che il destino stesse abbozzando strani disegni per me, non solo per mamma, mi sembrava di aver trovato anch’io una sorta di famiglia, magari stramba, ma l’avevo trovata. Come se mi vedesse per la prima volta, Federico s’alzò e s’avvicinò ritemprato. «Ho pensato molto a tuo padre stanotte, non so perché. Era un uomo che aveva tutto, solo la fortuna gli è mancata. Però è ammirevole lo stesso. Comunque ti insegno una tattica quando si tratta di scegliere fra mentire o dire la verità, parola di cui ti riempi la bocca. Usa il tatto. E se vuoi vedere i tuoi problemi in una giusta prospettiva impara a considerare i fatti impersonalmente, senza perdere di vista la tua sensibilità.» Un’altra lezione di vita? «Su, si ricomincia, volete muovervi? Si gira. Motore! Azione! Guarda Caterina che non hai finito, dove te ne stai andando?» Attenzione: un urlo straziante. Arriva Jacqueline Bonbon, una vera soubrette dell’Ambra Jovinelli, che interpreta Yvonne. Arriva dalle cantine, sculettando, con ciuffi di piume sul seno e sul sedere, e anche ragnatele, bravissima. «Non è giusto, io sono ancora bella voglio essere amata fino a sessant’anni.» Si muoveva facendo un po’ la bambina, un po’ la più scafata delle vamp. «Recito, canto, ballo ma soprattutto sono molto sexy. Io gli uomini dal palcoscenico li guardo come un cobra, nello spettacolo in cartellone faccio la Sirena con una coda lunga così», ripeteva facendosi un po’ il verso. Io la ascoltavo rapita e affascinata e mi domandavo come e dove li scoprisse Federico simili personaggi. Ma non era finita. Mentre lei si disperava, le altre donne cominciarono a
ribellarsi al loro Barbablù, e Fellini continuava a schioccare la frusta come fossero state delle tigri. «Più veloce, Caterina, su svelta, corri a preparare la tavola!» Vidi mamma dirigersi in fondo al palcoscenico, lesta e gentile. Apparecchiò una lunga fratina, tutte le donne si sedettero apparentemente soddisfatte fino a quando Yvonne, ricoperta di perle e lustrini, piangente e disperata fu mandata ai piani superiori dove venivano spedite le amanti in disuso. I vecchi amori, le donne anziane lui le confinava in soffitta, ma anche da lì erano sempre presenti nella sua vita. Era però una condanna senza appello perché, come ordinò Marcello, «Il regolamento è il regolamento». Trasecolai, che barbarie sentimentale! Mi ritrovai Giulio Paradisi accanto che sorridendomi commentò: «Be’, di solito il maschio latino è così!» «Davvero?» risposi preoccupata. Assaporai quindi il momento della ribellione di tutte le donne dell’harem sulla musica della Cavalcata delle Valchirie. Fellini fece un largo uso di Wagner in tutto il film, forse tre o quattro volte la Cavalcata, da Rossini invece utilizzò per la scena del concertino alle Terme Il barbiere di Siviglia e Lo schiaccianoci di Caikovskij. La poetica del motivetto e della memoria è stata una costante in tutto il lungo lavoro che Fellini e Rota hanno realizzato in ben sedici film. Nella scena finale, tutte le donne fuggono invase dalla paura della musica incalzante. Nino riusciva a essere struggente, epico, demistificante. Non c’era ripetitività pur nella riconoscibilità delle marcette. Poi mamma a tavola, pronunciò la fatidica battuta: «Ecco vedete, gli abbiamo fatto venire i rimorsi». «Mah! Pensavo fosse la scena più divertente, invece è tristissima», commentò Fellini. Osservavo da dietro la macchina da presa inchiodata alle pareti dello studio. Alla fine raggiunsi con un po’ di batticuore
mia madre per complimentarmi. Di giorno in giorno diventava più sicura. Mi spiegò che Federico soffriva di sensi di colpa continui, soprattutto nei riguardi di Giulietta che immaginavo come una povera anima derelitta e sola. Sul set non l’avevo ancora mai incontrata e non vedevo l’ora di conoscerla. Mi parve strano, però, che dopo così tanti anni di matrimonio ancora non si conoscessero a fondo. Speravo di vedere sotto un’altra prospettiva il matrimonio, non più come immobilità, incastro e inganno. Invece un matrimonio a volte è proprio così: metti sotto il tappeto ciò che temi dia fastidio all’altro.
9 Fantasmi di morte
Fellini amava molto i bambini, li dirigeva senza mai perdere la pazienza, nemmeno con Riccardino che era scatenato nella scena dei ricordi su Gambettola e correva di qua e di là proprio come forse faceva da piccolo lo stesso Federico. Il regista mi spiegò che era felice di tornare ogni estate dalla nonna e dalle zie e che era lì che nottetempo durante le sue singolari allucinazioni e gli incontri con i fantasmi infantili, inventerà con la cuginetta la frase magica: Asa nisi masa. Pensavano che prima o poi, grazie alla zia Faustina, ormai venuta a mancare, avrebbero scoperto dove era stato sepolto un tesoro. Questa frase costituirà lo snodo del film: neri sono il frac, il cilindro e il bastone di Yan Dallas, il mago Maurice della telepatia che rincorre Guido alle terme e, con la sua compagna Maya, gli legge il pensiero. Il mago in realtà era un commediografo e il suo ultimo lavoro su Gilles de Rais fu proibito al Festival di Edimburgo. Fellini, estasiato dalla sua leggerezza, mi spiegò che fin da bambino si era costruito un vero e proprio mondo notturno di gnomi e folletti. Quella stanza fatata di Gambettola era il suo inconscio profondo, in cui si proiettavano le ombre degli antenati, la nonna, i genitori, l’io di Marcello-Federico, che attraverso la formula Asa nisi masa fondeva la sua anima individuale con quella collettiva, attuando il suo processo di individuazione. Lucia Alberti mi diceva spesso che Federico credeva a quel mondo fatto di troll, elfi, coboldi. Da bambino pare fosse stato visitato dalle Fiammelle, piccole scintille e palline di fuoco. Considerava gli elfi le anime dei defunti e credeva che i
Folletti fossero piccoli esseri misteriosi, a volte dispettosi, che abitano le corolle dei fiori o sotto gli ombrelli dei funghi. Descriveva gli gnomi nel loro tipico abito e cappello a cono scarlatto, con gli stivali ai piedi. Naturalmente Federico ne parlava solo con Lucia, perché lei era nata a Vienna e conosceva le foreste austriache e i miti popolari nordici. Il giorno seguente tornammo alla Cecchignola e non ricordo perché mi unii al gruppo, probabilmente perché il mio interesse verso il mondo spirituale di Fellini stava crescendo di giorno in giorno. Due braccia di donna immergevano un ragazzino di otto anni in una tinozza di legno, piena di vino e poi toccava anche a un altro ragazzino, il fratello o un cuginetto? Gli strilli di gioia ed eccitazione dei due riempirono la grande cucina rustica, piena di ombre, ma illuminata da una lampada a petrolio che ardeva nel camino, lanciando bagliori del fuoco. Due donne anziane, la nonna, con un volto coperto di rughe e la balia, robusta e ancora bionda, strofinavano vigorosamente i due corpi nudi che prima sguazzavano nel vino. L’eccitazione dionisiaca dei bimbi sembra aumentare. «A letto, su a dormire», i ragazzini vengono portati verso le scale semibuie. È l’ora della beatitudine primordiale, ma anche dei fantasmi e in questo modo Fellini staglia un ritratto vivido della propria fatata infanzia, l’età in cui nascono i sogni e le speranze. Il giorno seguente, tra i fiori di cardo e gli sterpi e qualche bianca farfalla, si innalzò un’edicola funebre bianca, oltre i cui cristalli si scorgeva una grande arca di marmo. Annibale Ninchi interpretava, per la seconda volta dopo La dolce vita, Urbano Fellini, il padre di Federico: un commerciante di liquori e generi alimentari. Gli somigliava molto e Fellini aveva scoperto che, proprio il giorno della sua nascita, il 20 gennaio 1920, a Rimini, a pochi passi dal Politeama, Ninchi vi recitava nel Glauco di Morselli. Era
destino? Il regista credeva nelle coincidenze. Ora, prima di iniziare, Ninchi dormicchiava su di una sedia a dondolo, in attesa del ciak. Mi avvicinai cauta. «Le occorre qualcosa?» «No, grazie molte, nulla.» Tra una scena e l’altra, vedevo Marcello sempre calmo con il regista, mentre subiva stoicamente parecchi rimproveri. Una volta Federico lo riprendeva per la pappagorgia, un’altra per l’occhio destro che gli pendeva. «Ma sei sicuro che penda?» obiettava sconcertato l’attore. Federico chiamò Otello Fava, che gli applicò dei tiranti al viso, e finalmente si rasserenò. Per un attimo intravidi anche Mastroianni vestito in divisa da collegiale. Ninchi era in grisaglia e Rissone in paltoncino blu e chemisier à jour. Gherardi esigeva che questa madre e padre rivisitati fossero perfetti, perciò li ritoccava ancora in scena. Federico trovava che somigliassero ai suoi veri genitori, li guardava e sembrava estasiato. Si succedettero azioni un po’ sgangherate che capirò solo alla visione ultima del film: la Rissone parlava da sola spolverando il vetro della tomba, Mastroianni improvvisamente riconosceva in lei la madre e la baciava sulla bocca, finché al suo posto non appariva Anouk, la moglie, vestita esattamente come lei. Annibale Ninchi intanto lentamente scompariva oltre la siepe nella Tomba, senza provare timore per un luogo così tristemente emblematico. Del resto, lui e la Rissone parlavano con il linguaggio dei sogni. Il regista mi confidò che sognava spesso suo padre e sperava ogni volta che gli dicesse qualcosa di significativo ed essenziale, qualche cosa di utile per la sua vita ma non succedeva mai. «Lo sappiamo tutti, i morti non ci affidano mai ricordi particolarmente emblematici. Soltanto sognandoli capiamo che non sono più fra noi, che sono realmente morti.» Mi spiegò. Recentemente Federico aveva fatto un altro sogno particolare: in questo, suo padre era arrivato da Rimini
in automobile e si sarebbe dovuto sentire prima il motore poi la frenata, quindi lo sbattere della portiera, ma i passi che si avvicinavano avevano un ritmo anomalo, disarmonico. Nel contempo Federico percepì il bisbiglio di una voce femminile: era sua madre che accorreva, solerte e desiderosa di abbracciarlo al suo arrivo. Fellini ne dedusse che negli ultimi tempi – anche se non gli era stato detto – suo padre non stesse bene e che forse gli erano sfuggiti alcuni segnali preoccupanti riguardo alla sua salute. «Avevo tante domande da farti. Abbiamo parlato così poco io e te», una frase che appartiene ormai a tutti noi, al rapporto mancato che abbiamo avuto con i nostri genitori. E che io riferisco soprattutto al dialogo con mio padre che la sua morte ha bruscamente interrotto. Eppure ho sentito la sua presenza con una tale intensità da non saperlo nemmeno più descrivere a parte i suoi occhi verdi. Subii negli anni a venire ondate di intensa nostalgia, ripescando qua e là dettagli che mi erano sfuggiti. Ma la mia fantasticheria di rivederlo e dargli finalmente quel bacio che gli avevo negato, non fu mai basato su di un principio di realtà, bensì unicamente sul dolore del mio desiderio. Mastroianni venne informato che stava morendo il padre e si coprì il volto addolorato, ma finita la scena fu chiaro che aveva avuto un attacco di fame, troppi giorni di rinunce e di yogurt avevano lasciato il segno e, non troppo di nascosto, chiamava gli amici più cari a raccolta, Conocchia, Alberti, Ninchi, al diavolo la dieta! Voleva andare a pranzo in una trattoria lì vicino, l’avrebbe fatta aprire. Il menu? Pasta al tonno in cui Mario Conocchia era maestro, baveuse, in cui si sarebbe cimentato il beneventano Guido Alberti, ormai entrato nei panni di Angelo Rizzoli, e macedonia con gelato preparata da Annibale Ninchi, cui fu riservato il compito più facile. Il pranzo era stato organizzato da Marcello che, simile a un cospiratore, spedì tutti in avanscoperta, attori e qualche comparsa, mentre lui si
fermò lì, alla Tomba, ingolfato nel dolore, a ripetere innumerevoli volte la scena dell’estremo addio. Che grandissimo attore, il dolore nel volto e il languore nello stomaco che pregustava di soddisfare ben presto. Infatti si trovava sul set dal mattino presto e questa sarebbe stata la scena più difficile del giorno. Al termine della scena, mamma si avvicinò a Giuditta Rissone e restarono abbracciate a lungo, perse nei ricordi degli anni Quaranta, quando uscivano insieme a Vittorio De Sica e Guido Guidi, un pilota che Caterina avrebbe dovuto sposare e che invece, mentre rientrava a Roma per incontrarla, era morto per un incidente aereo. Anche il Maestro ebbe un colpo di fame, sul set si nutriva quasi solo di mozzarella e prosciutto crudo. Ci invitò a pranzo insieme ad altri della troupe. Fu in quell’occasione che mi parlò per la prima volta di Magda Fabi, la veggente che cadeva per terra con gli occhi rivoltati e prediceva il futuro. Ma se volevo interrogare il futuro, per non spaventarmi, mi suggeriva di rivolgermi alla Gina, la maga più casareccia di Giulietta. Le conobbi entrambe anni dopo. A tavola, Federico parlava con mamma di come si fosse liberato in sogno dai lacci che lo tenevano legato all’angoscia. «Nel buio dell’ingorgo automobilistico, riesco a crearmi un nuovo punto di vista, praticamente con un colpo di tallone. L’importante è cercare di salire, il film inizia così, su, su, su mi libro verso l’alto!» spiegava, e Caterina lo ascoltava rapita, più cosciente e meno sperduta che durante le riprese. Con il passare del tempo stava diventando sempre più consapevole perché fece notare: «Ma non stai facendo come il protagonista dell’Ulisse di Joyce?» Federico diventò tutto rosso in volto, il suo confettone rosa aveva centrato in qualche modo l’accostamento, forse l’aveva un po’ sottovalutata. Le sorrise grato e le chiese sorpreso: «Caterina non dirmi che l’hai letto?» «Certo!» mentì lei spudorata e sorrise dolcemente.
«Mi porti bene, Caterinona!» ripeteva il regista, quasi la ritenesse un suo amuleto, e aggiunse: «Sai che da quando ti ho incontrato tutto mi va meglio?» In realtà, mamma aveva un prodigioso effetto calmante sulle menti in ebollizione, anche Pier Paolo Pasolini mi avrebbe confessato un decennio dopo la stessa cosa. Tanto che lei disse: «A quanto pare vengo considerata la camomilla degli artisti». Forse nel film c’erano anche influssi di T. S. Eliot, di Terre desolate e qualcosa di Kafka: Madeleine LeBeau, nel ruolo di un’esigente attrice francese, ricorda vagamente l’episodio realmente vissuto da Fellini durante La dolce vita con Luise Rainer, una bizzosa attrice americana e puritana, che aveva vinto due Oscar e che avrebbe dovuto interpretare un’amante stagionata di Marcello, ma il suo personaggio, scritto e riscritto pazientemente da Flaiano e Pinelli, fu poi definitivamente cancellato da Fellini. Il giorno seguente, il set si spostò agli Stabilimenti Scalera e io scoprii che non riuscivo più a scollarmi da quel magico film. Lo stato di letizia di Federico era evidente, il suo incedere era sempre elastico e allegro, con camicia bianca e pantaloni neri. Insisteva per sapere quali progetti di vita avessi. «Ma se non vuoi fare l’attrice che cosa ti piacerebbe fare, Marinotta?» «So ciò che mi sarebbe piaciuto fare: la ballerina, adoravo ballare. Attilia Radice mi avrebbe voluta all’Opera di Roma quando avevo sette anni, ma i miei genitori mi tolsero dalla scuola di ballo.» «Perché mai?» «Svenivo a volte e non mi hanno mai saputo spiegare perché!» Mi guardò intensamente come per mettermi a fuoco, come se conservassi un segreto che doveva scoprire, un leggero palpito di comprensione era affiorato, forse chiusi gli occhi per vivere in pieno quella piacevole sensazione di essere
importante ai suoi occhi, quando li riaprii il regista era altrove e anche questo sentimento di godere di una sua vaga protezione se n’era andato, sottile e impalpabile come un alito di brezza. Tutti i bambini si erano ormai zittiti, ma nella fattoria avevano fatto una grande caciara, tanto che Guidarino Guidi invocava il ritorno del regno di Erode. C’era un’attrice anziana e un po’ gobba che interpretava la nonna di Federico a Gambettola: di lei il regista parlava estasiato, felice di ricordare il periodo più bello della sua infanzia.
10 L’importanza dei sogni
Eravamo ancora tutti seduti a mangiare e stavamo perlopiù in silenzio, quando per la prima volta sentii Federico parlare dell’importanza dei sogni. Disse che lui li annotava al risveglio, poiché duravano pochissimo, e in quegli attimi spesso aveva quasi l’impressione di prenderli per la coda prima che fuggissero in qualche anfratto della mente. L’ingorgo automobilistico con cui aveva deciso di aprire il film era per lui un sogno ricorrente. Sarebbe lentamente entrato a far parte del suo rapporto di odio e amore per il traffico di Roma. Anche a tavola si alzava, si sedeva, non poteva star fermo e dispensava sorrisi e complimenti a tutti, credendo o fingendo di credere che il povero Marcello Mastroianni, ormai disfatto dai digiuni, si fosse chiuso in camerino, a mangiare uno yogurt con il fratello Ruggero. Seppe invece del succulento pranzetto che si stava consumando alla Cecchignola. «Mi ha beffato lo Snaporaz, il vile, interrompe in questo modo subdolo la dieta?» Credo che i sogni di Marcello durante 8½ siano stati perennemente costellati dalla visione di un piatto di pasta e fagioli o di spaghetti al tonno. «Che mascalzone, il mio Marcellino!» finse di dolersi Federico, come non lo avesse già strapazzato abbastanza e, dopo un attimo, fu preso da un irrefrenabile fou rire pensando a quello che considerava «l’uomo meno spirituale del mondo,
che io lo vorrei tanto spedire qualche mese a meditare in India, a Pondichérry, nell’ashram di Sri Aurobindo!» Come Federico, Marcello non si piaceva fisicamente, eppure già dopo La dolce vita era considerato un latin lover. «Non ho torace, ho due gambe da uccellino!» ripeteva come una nenia, parlando di sé. Il latin lover era un eroe fragile, anzi un antieroe. Molto lontano dal modello di invincibile virilità del fascismo. Ne La dolce vita echeggiava vagamente anche un cicisbeo che svolazzava intorno alle donne senza conquistarne nessuna, accompagnatore di giovani aristocratiche annoiate, come Maddalena, o di bellissime attrici, come Silvia, nonostante sia fidanzato con Emma. Marcello possedeva un candore innato, fumava settanta sigarette al giorno e, anche se aveva l’armadio pieno di vestiti, non aveva nessun atteggiamento da divo. Si muoveva con ostentata nonchalance. Una cosa lo differenziava da Fellini: amava viaggiare. In comune avevano la capacità di ammantare la realtà di bugie e l’uso smodato che facevano del telefono, ma una complicità li legava indissolubilmente, tanto che le differenze di statura, cultura e di capelli – soprattutto! – non bastavano a dividerli! Era stata Giulietta a farli conoscere prima ancora de La dolce vita, quando De Laurentiis avrebbe desiderato come interprete il costosissimo Paul Newman. Marcello a volte si doleva ancora della miseria vissuta da bambino. Un giorno a tavola fece un’improvvisa e sincera confessione che fece ammutolire i presenti. «Ci si lavava in cucina in una tinozza, a pezzi, mio padre faceva il falegname. Aveva una botteguccia. Mi mandavano nei negozi a chiedere cibo a credito. I miei genitori erano così poveri che non si preoccupavano affatto del mio futuro. Mi iscrissero all’Istituto industriale, sarei potuto diventare un operaio specializzato e forse un geometra. Non ho mai studiato greco, latino, né filosofia, m’innamoravo di scarpe che non potevo comprare, e andavo a letto col maglione per il gran freddo che si pativa in casa. L’infanzia l’ho passata con gli
amici per strada e dopo non riesci più a stare solo, questo spiega il mio attaccamento al lavoro. Quando non sono occupato giro come un lupo, vado a cercare mio fratello, il mio sarto. E a cena ho sempre amici intorno, e nel letto deve esserci una donna. Sarà perché da ragazzo dormivo con mamma, mio padre stava da solo, la brutalità della miseria consuma ogni legame. Eppure, quando ho vicino la donna che amo, divento più intelligente e mi sento anche più ricco.» Su due piedi non riusciva a ricordare i suoi giochi preferiti, e ne era imbarazzato, gli sembrava che avrebbe dovuto tenere a mente tutto ciò che riguardava la sua triste infanzia. Mastroianni aveva fatto un bel sospiro di sollievo quando, grazie al lenzuolo indossato nella scena dell’harem, aveva potuto nascondere le sue gambe, anzi le sue gambette.
All’epoca non potevo sapere se Fellini si inoltrava nell’universo onirico con gli strumenti affidategli da Ernst Bernhard. Ero una ragazzina, ammiravo tutto ciò che succedeva intorno a me e mi sembrava di vivere in una fiaba. Forse perché la mia adolescenza era molto malinconica, l’incontro con Federico fu per me un balsamo. Il Fellini segreto l’avrei scoperto solo dieci anni più tardi, facendo sedute di psicoanalisi con Helen Herba Tissot, l’erede di Bernhard, colei che scrisse la prefazione e fece pubblicare la sua Mitobiografia. Avrei scoperto solo allora che il regista si ritirava spesso in una villa di Manziana a scrivere le sue sceneggiature, perché Bernhard aveva una villa poco distante sul lago di Bracciano. Fellini lo frequentò dal 1961 fino al 1965, l’anno della morte, ma un veloce ritratto ne era stato fatto da Natalia Ginzburg in Mai devi domandarmi. Con poche frasi aveva descritto con abilità il dottor B. che aveva cercato di lenire il suo cuore straziato dalla morte
dell’amatissimo marito, il martire della Resistenza Leone Ginzburg. Ma senza grande successo. Mi ero distratta ascoltando i racconti di Marcello Mastroianni, eravamo ancora a tavola. Caterina disse che sicuramente c’era un destino, glielo aveva spiegato, a Hollywood, Marlene Dietrich: tutto era già scritto come sul rullo di una pianola, le nostre gioie, i nostri dolori e anche le nostre resurrezioni. Anche lei si sentiva in una strada senza via d’uscita e senza speranza, proprio come Fellini prima di girare 8½. Poi era avvenuto l’incontro con il Maestro e tutto sembrava essersi rimesso in moto, anche se nulla era avvenuto al di là di questo avvenimento, che tuttavia le aveva insegnato a sperare, a guardare alla vita con nuovo ottimismo. Il regista l’ascoltava e aggiunse che, secondo lui, eravamo fondamentalmente incapaci di modificare il nostro destino o di sfuggirgli, a causa della nostra personalità. Piero Gherardi era piuttosto distratto o rifiutava di gettarsi in una conversazione così impegnativa, conservava sempre le sue dolci oasi di silenzio e di distrazione, mi guardava e sorrideva, facendomi spesso l’occhiolino, mangiando come un pascià, passandomi anche cibo e pietanzine, una dietro l’altra. «Sei troppo magra, mangia più verdura, se la carne non ti piace. Ma le polpette qui sono speciali, davvero molto buone, le ha fatte Giulietta, Federico?» chiese un po’ ironico. «Ma certo che no, che idea!» «Pensavo che ti seguisse anche qui…» commentò aspro. Mirella Gamacchio, la segretaria di edizione, invece pensava che il regista non tenesse in nessun conto il copione, reinventava ogni dialogo e situazione lì per lì, scrivendo su foglietti volanti. A seconda dell’ispirazione. Brunello Rondi annuì, ma parlò a voce così bassa che non riuscii a sentire nulla. Era serio, assorto, quasi ieratico, una ruga gli attraversava la fronte. Come se non potesse mai permettersi un momento di relax.
Circolava voce che Guidarino Guidi tenesse sotto la camicia l’unico copione di 8½. Lui a tavola rideva e negava sarcastico, poi aprendo la camicia all’improvviso e mostrando il petto nudo esclamò: «Eccomi a voi, ammiratemi in tutto il mio splendore, sono uguale a Hedy Lamarr in Estasi!» Nel gruppo c’era anche Jean Rougeul, Il Corvaccio, cioè Daumier Carini, l’intellettuale che cercava di mettere in crisi Guido nel film. Magrolino, pallido e con gli occhiali, in realtà era l’autore di bellissimi testi di canzoni. Molto diverso dall’antipatico critico ammazzatutti, il Grillo Parlante che Federico gli aveva fatto interpretare. In qualche modo gli dispiaceva di rappresentare la critica militante o marxista che violentava sempre la fantasia del Maestro, ma la simbologia che rappresentava era ben più profonda. Daumier era anche il Super-Io del regista che gli impediva ogni libertà creativa, sollecitando l’eterno conflitto animus/anima, che lo faceva infierire contro se stesso in modo devastante. «Ricorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? Se uno non può avere tutto, il nulla è la vera perfezione, e vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato lascia dietro di sé la sua impronta deforme? E a lei cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, i volti delle persone che non ha saputo amare mai?» Improvvisamente Federico confessò davanti a tutti noi: «Con questo film vorrei uscire quasi di nascosto, senza rullio di tamburi e quel senso di attesa che precede i miei film. Spero di non sembrare immodesto!» «Ma tu non sei umile Federico!» replicò Rougeul. «Mi sembra però di aver le idee più chiare da quando ho fatto diventare un regista il mio protagonista! Grazie Brunellaccio, è merito tuo!» Brunellaccio lo guardava come a dire. «Però, ce ne hai messo di tempo a riconoscerlo…»
«Federico a questo punto ha maggiore consapevolezza dei suoi conflitti.» Il regista l’ammise: «Perché la donna ci aiuta sempre, madre, sorella, fata o anche strega. Anche il personaggio della moglie deve apparire estraneo alla vita del protagonista, eppure indiscutibile. La moglie giusta è Anouk, siete d’accordo?» Annuimmo, chiedendoci quanto l’attrice fosse disponibile e comprensiva o diversa da Giulietta. Sospirò guardandoci tutti: «Una giornata davvero speciale che passo insieme a tutti voi, cari amici! Che atmosfera sacra sento intorno a me, ho una sensazione impalpabile e leggera che quasi mi frastorna, perché, perché tutto è così bello e fermo come in un quadro? Perché sono così felice con voi amici miei? Sembra… mi sembra proprio Pasqua!» Il Maestro aveva questi lampi improvvisi di poesia, e il suo cinema è poesia. Intanto sul set era arrivata Claudia Cardinale, producendo un certo scombussolamento, quasi un mormorio di ammirazione: era bellissima, fatata, al culmine della carriera. Sarà lei la «ragazza della fonte». Stupenda, giovane e antica, bambina e già donna. Fellini la descrive con le stesse parole con cui Jung descrive l’Anima. Mi metti soggezione, mi fai battere il cuore come a un collegiale. Si diceva che il regista si fosse veramente innamorato di Claudia Cardinale che nel film interpreta se stessa, piena di incanto e pudore. Ha accettato il ruolo anche se stava girando Il gattopardo con Visconti. Si divideva fra due maestri e due parrucchieri, e se il problema dei capelli fu solo di colore, quello della rivalità tra Fellini e Visconti fu ben più difficile da gestire. «Che bella gatta sorniona! Eccolo il sogno del mio riscatto.» «Solo il sogno?» ribattè lei, ironica.
Parlava poco e con una voce arrochita da fumatrice che a Fellini piaceva così tanto che non la farà doppiare. Claudia si guardava intorno stupita. Sembrava chiedersi cosa devo fare? Fellini inventerà anche con lei, ma il suo personaggio esisteva nella sceneggiatura. Federico la circondava, la riempiva di sorrisi compiaciuti e di complimenti, le sussurrava che apparteneva alla terra, la corteggiava, la voleva almeno quanto lei gli sfuggiva. Claudia non posava mai insieme a Marcello. Anche in auto con lei c’è sempre stato solo e soltanto il Maestro. Voleva proprio l’attrice Claudia Cardinale, la donna dei suoi sogni. «Saresti capace di piantare tutto e ricominciare daccapo?» le chiede all’improvviso Guido nel film. Lui non ne era capace, ma lei potrebbe far pulizia nella sua vita ingarbugliata. La ragazza della fonte è un simbolo di purezza e rinascita, simile in qualche modo, alla Paola della Dolce vita. È un addio alla giovinezza e alle sue dolci promesse.
11 Tra la scuola e Cinecittà
«Ceratto com’è che sei così fuori fase da un po’ di tempo? L’anno scorso eri brava in matematica, quest’anno ti vedo altrove, svagata, a che pensi? Vieni un po’ alla lavagna», m’intimò la suora che insegnava matematica al Cabrini, un neo baffuto a un lato della bocca. Fellini era riuscito a farmi descrivere tutti i miei insegnanti, prediligendo fra tutti, la segaligna Madre Agostina e il mio dolce preside, Igino Giordani. Ne aveva preteso una lista. Potevo rispondere che un film stava cambiando la mia visione della vita? Di nascosto andavo a vedere tutti i suoi film, li guardavo e riguardavo soprattutto i più importanti, La dolce vita, Le notti di Cabiria , I vitelloni. Li divoravo come succede alle cose che amiamo e facciamo nostre. In qualche modo sentivo che mi apparteneva e lo difendevo contro tutti. Mi rendevo conto che bisogna possedere molte qualità per essere un grande artista. Avere talento, forza, tenacia, coraggio e soprattutto narcisismo. Non pensare troppo alla moglie e alla famiglia, trascurare gli amici. E quante promesse infrante? E poi avere una caratteristica in cui Fellini eccelleva, rubare le storie degli altri. Federico un giorno mi chiese a bruciapelo: «Cosa vuoi dalla vita, Marinotta?» Sembrava volermi mettere alla prova con una domanda inaspettata. Risposi a bomba: «La libertà!» «Oh, per conquistarla e poi gettarla via.» «Non farei mai così!»
«Si fa sempre così, voi donne soprattutto siete solite farlo.» «Perché, cosa dovrei fare?» «La prudenza dovrebbe essere la tua unica guida, sei troppo impulsiva.» Questa parola mi fece tornare in mente un episodio di quando nel 1951 mamma girava Il tradimento, diretta da Riccardo Freda. Le aveva proposto un ritorno al cinema, ma per la gelosia di mio padre erano nati un sacco di fraintendimenti. Non temeva il regista, bensì Amedeo Nazzari. In breve, Freda aveva promesso che non ci sarebbe stato nemmeno un bacio o una scena di passione, poi durante le riprese si rese conto che lei e Nazzari, suo marito, sembravano due statuine. Come mancava una scena d’amore! E papà arrivò sul set proprio durante quel bacio galeotto. Finì tutto a tarallucci e champagne, del resto il titolo prometteva di peggio… Fellini trovava l’episodio imperdibile. Anche Freda disegnava molto bene, dipingeva, era scenografo, aveva molte doti ed era stato molto amico di Federico, nel 1943 aveva scritto con lui soggetto e sceneggiatura di Tutta la città canta con Steno, Marcello Marchesi e Vittorio Metz, la divertente storia di un uomo spiantato che eredita un teatro di varietà da un ricco zio. Riccardo veniva a prenderci e ci portava a spasso, o a mangiare un gelato o allo zoo. Era uno zio affettuoso. Conoscendo il carattere di Fellini, durante le riprese di 8½ mise in guardia mia madre. Guardava ammirato e forse un po’ invidioso alcune foto scattate sul set. «Non ti fidare di Federico, Caterina, dammi retta.» «Ma caro, senza di lui cosa avrei fatto? Tu mi avresti fatto girare un altro film?» «No, hai ragione. Ti ha indamascata nel modo giusto, nelle foto sei un cigno, sei bellissima.»
«Allora ti prego, non venire a raccontarmi come e perché hai litigato con Federico, non lo voglio sapere, io ero finita prima di rincontrarlo, con lui ho ritrovato la speranza. Aveva ragione di essere a grata a Federico e inflessibile nel difenderlo. La scuola stava finendo, avevo voti abbastanza buoni e mia madre mi invitò a veder girare la scena del cardinale al parco dell’Hotel delle Terme all’Eur, popolato per l’occasione di panchine bianche di un liberty stilizzato. Sul set era arrivato padre Arpa, il gesuita che Federico aveva conosciuto dopo la lavorazione de La strada, tramite Brunello Rondi. Fu lui a difenderlo dai duri attacchi dell’«Osservatore Romano» all’uscita de La dolce vita. All’epoca un critico severissimo aveva attaccato il film su «Avvenire» chiamandolo in due articoli, La sconcia vita e basta! Si supponeva che l’autore fosse il cattolicissimo Oscar Luigi Scalfaro: Fellini espresse tutta la sua rabbia, quando anni dopo l’onorevole schiaffeggiò in un ristorante romano una donna per la scollatura eccessiva. Quando confesserà al cardinale di non essere felice, è padre Arpa a suggerire a Fellini la frase di San Cipriano che il prelato dirà poi in 8½: extra ecclesiam nulla salus, fuori dalla chiesa nessuna salvezza. Ma anche: «Chi l’ha detto che nella vita bisogna essere felici?» Tito Masini interpretava il Cardinale: era un impiegato in pensione, altissimo e scheletrico, con sbiaditi occhi azzurri. Indossava una tonaca nera profilata di rosso con i canonici trenta bottoni, lo zucchetto, le calze rosse e l’alta fascia moiré stretta in vita. Camminava emanando grazia e carisma. Un anziano meraviglioso che Fellini trascinò giocondamente nel girotondo finale. L’aveva scoperto l’aiuto regista Giulio Paradisi, ma lui ebbe parecchi dubbi prima di accettare e consultò figli e nipoti prima di decidersi. Ora si muoveva con la disinvoltura di un attore consumato. E Fellini per Masini aveva lo stesso rispetto che per un vero cardinale.
Presi nota mentalmente del fatto che il regista sembrava amare molto i vecchi e i bambini. Aveva con loro una grande pazienza, gli si sedeva vicino e, come un vero coach, insegnava loro ogni battuta. Era commovente scoprire questo suo lato di comprensione dell’umana fragilità. Trentadue gradi fuori e non meno di quaranta dentro, nelle celle sudatorie dalle pareti grigie che grondavano insopportabile vapore, volute di fumo grigio e denso avanzavano come onde sul pavimento della sala vasta e appartata. La cella era stata copiata alla perfezione da Gherardi da quella dove, ad Agnano, soleva sudare e fare il bagno turco Vittorio Emanuele III. Mi mostrò piantine e studi. Era ammirevole la sua filologica esattezza. Un denso fumo emanava da blocchi di ghiaccio secco, immersi a tratti nell’acqua bollente. Tra fumi sempre più asfissianti potei assistere a una scena fra le più sorprendenti: la svestizione di un Cardinale. Fra vari giochi di lenzuola che facevano da fluttuante paravento, il Cardinale emerse a torso nudo e scalzo. Quindi, dignitosamente, incedette verso la vasca, contando a bassissima voce da uno a trenta, quasi in un bisbiglio, per simulare un’inintelligibile preghiera. Il suo nudo scheletro pareva quello di san Girolamo nel deserto dopo che si era nutrito per mesi di sole locuste. Marcello, che tornava spesso rinfrancato dai suoi segreti pranzetti, dopo i saluti era di nuovo sparito, forse era andato a telefonare a casa o alla sua Mirella. O a schiacciare un breve sonnellino, c’era nell’aria un vento leggero. Straordinaria quella luce netta in cui Di Venanzo era maestro. Si allestiva il set e l’atmosfera era quasi religiosa. Dopo il gorgheggio di un uccellino, il Cardinale chiede a Guido: «Sente questo cantore?» «No!» «Si chiama diomedea. La leggenda dice che quando morì Diomede, tutti gli altri uccellini lo accompagnassero alla
sepoltura.» La scena si ripeté molte volte, Marcello era stanco o distratto. Giulio Paradisi faceva il verso dell’uccellino, in cima a uno sgabello fra gli eucalipti, gorgheggiava divinamente. Certe scene di 8½ Fellini le avrebbe volute prive di sonoro, confessò che un film muto aveva una sua misteriosa bellezza, «una potente seduzione evocativa che lo rendeva più vero del film sonoro, perché più vicino alle immagini di un sogno, che sono sempre più vive e reali di ciò che vediamo e tocchiamo da svegli». La recitazione di Anouk Aimée era diventata fremente e sprezzante. Fellini la chiamava con ogni vezzeggiativo possibile, la sua tecnica di conquista era di far sentire ogni attrice indispensabile. «Dove ci siamo incontrati? Forse in un’altra vita? Sicuramente, lo so sei una strega! Mi sento con te un diciottenne o uno spensierato ventenne, ho la stessa mancanza di responsabilità, ma tu non mi vuoi bene nemmeno un po’, vero?» Oppure: «Ciao bella tettona a chi stai pensando? Occhi seducenti e labbra invitanti, più passa il tempo e più scopro che sei una vera mascalzona. Di chi sei innamorata? di me spero…» Anouk lo guardava con amore totale, anche se tutti la sapevano invaghita di Mastroianni fin dai tempi de La dolce vita, e sul Maestro confessava: «Je l’adore! C’è qualcosa di speciale in quella testa, è un genio, genio puro». Eppure tutti e due talvolta la prendevano un po’ in giro chiamandola «la nostra cuginetta francese». Forse perché appariva di un candore totale. Già allora mi piaceva leggere le riviste femminili, perché ci trovavi articoli su ogni argomento, e non è per caso che finii per lavorare a «Gioia», ma Madre Agostina, la direttrice del Cabrini, era molto severa e mi chiamò alla cattedra mentre sfogliavo proprio «Annabella». Me la sequestrò e convocò mia madre a colloquio. Poiché non contenevano immagini oscene,
ma articoli di moda e costume, Fellini, quando glielo raccontai, trovò l’episodio crudelmente assurdo, visto che mi era stato chiesto di meditare sui voti che avevano fatto le suore, di povertà, castità, obbedienza vi aggiunsi quello per me più difficile: la prigionia. «E tu vorresti farti suora! Ecco come sarebbe la tua vita!» mi rinfacciò Fellini con durezza. Gli occhi severi di Madre Agostina sprizzavano una tale veemenza che giurai a me stessa che non le avrei mai più dato occasione di punirmi. Mi chiamò un mattino in sala insegnanti. «Forse pensi che invado una parte del tuo cuore, il fatto è che ho stima di te, e mi aspetto grandi cose.» «Madre, negli ultimi tempi le devo confessare che la mia vocazione ha subìto un arresto, non mi sento di entrare in convento da novizia.» Facendole la riverenza sfiorai le sue mani gelate e questo me la rese più umana. Feci diversi atti di mortificazione, rinunciai per un mese al cioccolato. Ma confessai a Fellini che tutto questo mi rendeva stranamente felice. Il regista mi guardò perplesso, pensava che il mio desiderio di farmi suora fosse una fuga dalla disperazione familiare e dall’infelicità che vivevo, non aveva torto. Era sempre velocissimo a capire. Intanto continuavo a frequentare il set e con una macchina della produzione raggiunsi attraverso il Passo della Sentinella l’Isola Sacra, a Ostia. Qui assistetti all’inquietante episodio della Saraghina. Eddra Gale era una cantante lirica con una certa fama negli Stati Uniti quando accettò di interpretare questo difficile ruolo in 8½ e iniziò una nuova carriera, tanto da apparire anche ne Il laureato di Mike Nichols. Finalmente affrontava la scena primaria della vita del regista: l’esperienza del sesso.
La Saraghina in realtà era una prostituta dal corpo gigantesco che Fellini scoprì a nove anni sulla spiaggia di Fano, «dove passavo le vacanze nel collegio dei Salesiani», ecco un altro ricordo a prestito, perché a Fano ci stava il fratello Riccardo e forse, un giorno in cui andò a trovarlo, poté vedere la rumba erotica e invitante della donna, che fissò l’immagine della donna originaria e delle sue future proiezioni femminili. Era un gigantessa che diventerà modello in tanti film successivi, da Il Casanova a La città delle donne. Del resto, per un bambino eterno come Federico, la madre mediterranea non può che essere fuori misura, immensa, come nei tanti disegni del suo Diario. Negli anni Quaranta l’esperienza sessuale era affidata o agli amori ancillari o alla prostituta, che avrebbe rivestito un ruolo primario fin da Lo sceicco bianco, all’ombra del cupolone del Vaticano, o ne I vitelloni quando gli amici deridono una prostituta, o ne La strada, dove Zampanò lascia Gelsomina sola a disperarsi per appartarsi con una meretrice. Così ne Le notti di Cabiria la stessa Giulietta Masina interpreta una bella di notte dal cuore generoso che un uomo malvagio, fingendo di volerla sposare, deruba dei risparmi. Come dimenticare poi il pellegrinaggio delle “lucciole” al Santuario del Divino Amore? La Saraghina fu chiamata così perché otteneva i favori dei marinai per un chilo del pesce più modesto, i saraghi. Con i bambini, per alzare la gonna, si accontenta di poco, anche di caldarroste. Fellini ricorda di aver racimolato qualche soldo e di esserla andata a vedere verso i nove anni. Abitava in una casamatta sulla spiaggia, una specie di tana che sapeva di catrame, legno marcio e pesce. Intorno vi crescevano l’ortica, l’acetosella, il trifoglio e la romice. «Con due soldi faceva vedere un sedere che copriva il cielo. Con un soldo in più lo moveva poco poco e con quattro, si voltava. Che panciona immensa!» «Da adolescente amavi la donna generosa di forme, grande e possente?»
«Ma sì, devi tenere conto che si tratta di una rappresentazione infantile! Per il piccolo Guido la Saraghina è una donna animalesca, immensa e inafferrabile! Così la vede un ragazzino bloccato e represso dalla chiesa, dalla famiglia e da un’educazione religiosa repressiva. Io ricordo una giornata luminosissima, c’era un mare calmo e profumato e io ero vestito da collegiale.» Era veramente la sua infanzia o continuava a rubarla a Flaiano e al fratello? Saranno i preti del collegio a catturare il giovane GuidoFederico e a sottoporlo a un vero processo. «Ma lo sai che la Saraghina è il diavolo?» Come se la Chiesa volesse cancellare il significato più profondo della femminilità, stabilendo l’equazione sessotentazione-peccato-dannazione eterna. In modo inesorabile. «Dov’è tua madre?» mi chiese Giulio Paradisi. Arrivava un po’ trafelata, ma agile e bellissima come un tempo, con la pelle luminosa, gli occhi resi quasi violetti dall’ombretto, un cappello a tesa larga bianco che ricordava quello di Leonor Fini di una celebre foto, e si affrettava sorridendo nella scia del suo profumo, l’Heure Bleue di Guerlain. Entrando, produsse un palpito unanime di ammirazione. «Perdonatemi, perdonatemi il ritardo.» «Non innervosite la Boratto, casomai applauditela per la sua bellezza.» «Darling, you look so gorgeous!» esclamò il coach inglese Neil Robinson, sorridendole. «Hai una mentina per l’alito?» mi chiese mamma. Quel giorno mi sentivo strana, mi girava un po’ la testa. Anche l’atmosfera sul set era tesa. Federico era nervoso. Motore. Ciak. Azione. Scena del treno. «Siete di mezza età e sposati, tu Marcello e tu Anouk. Tutto sembra consumato, usurato, ogni felicità è alle vostre spalle,
ogni entusiasmo spento. State mettendo a fuoco? Avete solo tre minuti per farlo, il vostro cuore è pieno di dolore. Più largo, Gianni. Stop. Va bene, Mirella.» Non avevo voluto perdermi a nessun costo il finale del film, la scena del treno, l’art director Piero Gherardi l’aveva ricostruito pezzo per pezzo, a imitazione dell’Orient Express. Alla stazione con il treno che sbuffava c’era un dialogo straziante fra Guido e Luisa. «Continuare così per sempre, perché… perché sei il solito egoista?» Parlava con voce sottile, tesa e inclemente. E Marcello: «Sei proprio convinta che con un altro marito e un altro uomo saresti stata più felice?» Federico l’avrà detto mai a Giulietta? Sicuramente e lo stesso si sarà detto per sé. Un gran mare di luce avviluppò d’un tratto il volto da sultano del regista. Alzò gli occhi, mi vide e sorrise. Ma com’era Fellini in famiglia, com’era come marito, e come figlio? Si diceva che Ida Fellini non osasse più rivolgergli un rimprovero ora che era un uomo sposato e per di più famoso. Fu quella la prima volta che me lo domandai. Appena c’era un momento di calma pensavo di chiedergli qualcosa del rapporto con la madre, ma poi il film finiva per monopolizzare tutto il mio interesse.
12 La sequenza del treno
Il treno appare in fondo ai binari e avanza veloce con i fanali accesi. Marcello e Anouk siedono a un tavolo, silenziosi, assorti ed emozionati. Si guardano, si studiano, strane ombre e sagome di cavalli occhieggiano, si muovono come fantasmi nella notte. Anouk si riavvia i capelli, incantevole, gli occhi creano sul volto sofferto uno strano bagliore teatrale. Come avrei voluto essere seduta su quel treno! «Non sorridere, Anouk, e sta’ zitta, no! Azione.» Si andava avanti lentamente. Mamma era bella da far paura, e Federico la fece sedere accanto al Cardinale. «Tu sei la purezza e la Madonna, ti affido a un degno compagno, Caterinona! Il Cardinale!» Masini parve elettrizzato di avere accanto nientemeno che Maria Vergine. «Lei interpreta anche la Madonna, nel film vero?» le domandò. «Nel tempo perso, Eminenza!» replicò con arguzia lei senza mai prendersi troppo sul serio. Entrò Sandra Milo. Federico l’abbracciò ridendo e la sculacciò chiamandola «pavoncina d’oro, bella culona». Sandra era incinta di Deborah, avuta da Moris Ergas, però sul set si sussurrava di una sua storia con Federico.
Nel treno entrarono la Rissone e Ninchi, il padre e la madre, la Saraghina, Carla, e le altre donne dell’harem, il fachiro e il telepata Maurice, il Mago Polidor, il critico Jean Rougeul, sfilarono proprio tutti i meravigliosi personaggi di 8½. E la macchina da presa si posava su ognuno con lunghi primi piani. L’interno del vagone con i suoi tavolini illuminati dagli abat-jour era bellissimo. Io guardavo incantata. Una ricostruzione di Piero Gherardi fine Ottocento. E Guido che, dopo essersi guardato intorno, comprende di aver bisogno di tutta quella scombiccherata folla di personaggi, che avrebbe dovuto ringraziarli tutti di esistere. Lo alimentavano, davano modo a lui di vivere, magari arrancando, magari sentendosi pieno di limiti e difetti. Questo aveva scoperto Fellini nelle sue sedute di analisi con Bernhard: l’accesso al numinoso, a un mondo sacro che non conosceva bene, ma non poteva cancellare, distruggere. Il treno fuggiva nel tempo ed ecco che tutti i personaggi erano fissati dalla cinepresa, marmorizzati, inquadrati uno a uno. Guido fa una dichiarazione d’amore alla moglie. Pausa. Trattenni il fiato, sapendo che questo momento non si sarebbe ripetuto mai più, come renderlo eterno? Gianni Di Venanzo alla fine delle riprese si avvicinò a mamma e le disse che era la donna più bella di tutte in assoluto. Fu il suo solo premio, ma ne fu orgogliosissima. Il giorno seguente Fellini ci invitò in proiezione. «Come stai tesorino?» mi chiese venendomi incontro. Eravamo lì per vedere la scena che chiudeva il film: restammo letteralmente sbalordite, scioccate. Il treno era una scena metafisica, religiosa, surreale. Ma Fellini aveva già detto a Gherardi di averla vista e rivista da solo molte volte e di averla trovata eccessivamente bergmaniana. Piero invece immaginava che l’avesse mostrata a Bernhard di nascosto e lo psicoanalista gli avesse sconsigliato di chiudere in questo modo 8½, doveva assolutamente eliminare gallerie buie,
cavalli nella notte, sguardi di addio, cos’era quel treno di immobili fantasmi? Un film doveva essere solo fonte di vita! Non doveva sembrare un viaggio nell’Ade! Al contrario far procedere verso una rinascita. E perciò diventò Maurice, il Telepata, il tramite fra mondo fantastico e mondo reale, colui che indicava la via maestra a Guido, coadiuvato dalla sua partner, Mary Indovino. Fellini cancellò la magica sequenza del treno e mise come finale l’allegra marcetta insieme a tutti i personaggi, il film si chiude con quello che doveva essere il trailer. Pare avesse chiesto perdono a mamma il giorno seguente. Di fronte a lui non lasciò trasparire la delusione, ma appena tornò a casa scoppiò in singhiozzi, sgomenta e frustrata, aveva tagliato proprio la scena in cui era la più bella! Scagliò lontano i suoi cappelli, emblema del suo fascino proustiano. Pianse a lungo. Fu il primo screzio a scoppiare tra loro. Caterina recriminava: «Già non mi si vede quasi, credi che si capisca che io sono la Madonna? E mi toglie proprio questo primo piano da sogno! Vigliacco! Chi gli ha bruciato nel cuore ogni sentimento? Non ci lavorerò mai più.» La calmai ricordandole che ora, al di fuori di lui, purtroppo, non lavorava proprio con nessun altro, anzi, doveva incrociare le dita per continuare in qualche modo, a recitare almeno con lui. Per alcuni giorni comunque Caterina sembrò una donna uscita dalle lamiere contorte di un incidente d’auto. Fu uno dei periodi più infelici della sua vita. Poi le passò, si inginocchiò e pregò per trovare la forza di tirare avanti. Anche Piero se la prese molto. Sembrava che avesse quasi un contatto medianico con Fellini. Pare che i due avessero discusso non poco, Gherardi cercava di salvare quel finale solenne e onirico cui aveva dedicato mesi di lavoro. E Fellini aveva tagliato proprio il suo treno! Per la prima volta cominciò a incrinarsi il loro rapporto di collaborazione. Ma solo dopo le riprese di Giulietta degli spiriti, tra i due avverrà la rottura definitiva.
Temo che quel finale di 8½ Federico invece di conservarlo lo abbia distrutto. Fellini stracciava tutto, lettere, cartoline, biglietti, figuriamoci la pellicola di un finale così bello, quasi scaramanticamente evitato all’ultimo momento. Dopo circa venti giorni, Gherardi invitò mamma a mangiare al Fico, venendola a prendere esultante, con quel suo indimenticabile sorriso, le disse di smettere il lutto e cominciare invece a fare salti di gioia. Si era pacificato con il regista e le confidò una notizia riservata, Federico pensava a lei per una parte più ampia per il prossimo film. «Ma guarda che io non ti ho detto niente! Tu non sai nulla, mi raccomando, Caterina, acqua in bocca! Mi sembra rapito dal tuo candore, ma potrebbe anche avvenire il contrario…» «Cioè, cioè?» chiese mamma, temendo l’imprevedibilità del Maestro. «Scusa, ma io stesso ho sollevato qualche dubbio proprio sulla tua celestialità, ma per il tuo bene, per fortuna non ti farà più fare la Madonna. Vuole immortalare la tua grande bellezza. E io concorrerò in tutti i modi a renderti immortale! Ma devo tacere sul ruolo, ti sorprenderà.» Così Federico con il suo vocino suadente riprese a telefonarle: «Marina bella che gioia sentirti, come stai carissima?» «Bene, anche per me è bello sapere che ci sei.» «Mi ha detto Piero che Caterina è rimasta malissimo di essere stata tagliata nella scena del treno e che ha pianto a dirotto, vero tesorino? Ma perché mai? Me la passi un momentino questa madre bella, forse troppo bella? Non la devi far piangere per nessuna ragione.» «Federico, non sono stata io a farla piangere! Forse non avresti dovuto mostrarle quanto fosse bella, lei si è ammirata
come non si era vista mai. Comunque quella scena l’hai tagliata, tu sei il regista, e tu decidi.» «Ma quanta ragionevolezza alla tua età. Che testolina matura. Cosa ti fa avere vent’anni in più?» «Federico Zardi mi ha detto che ne ho trenta di più, ma sinceramente mi tengo i miei fragilissimi diciassette anni.» Chiamai Lucia per raccontarle tutto e lei commentò: «Che ipocrita! Ma tacerò, Guido gli deve tutto, Federico è così cattolico, non trovi?» «Non è ancora dimostrato che essere cattolici sia un male, prima o poi i cattolici potrebbero essere in via di estinzione.» «Sì, hai ragione, poi desidero che Guido continui a lavorare, la vita tra gli intellettuali, di solito poco credenti, non è sempre facile, pare che Flaiano ce l’abbia a morte con Federico, a causa di Lelé, una figlia malata di encefalopatia e che Federico si rifiuta di vedere, quando la porta a Fregene con sé la evita addirittura.» «Lucia, ma come può essere? Ama i malati, fa sempre la carità per strada, dà anche diecimila lire.» «Pare abbia detto all’infermiera: ma i genitori non pensano di rinchiudere la ragazza in un istituto?» Era davvero anomala e dolorosa questa storia, sapevo che Fellini appena qualcuno stava male si faceva in quattro per farlo curare e questo strideva con l’immagine che me ne dava Lucia Alberti, possedeva forse sia la generosità che l’autodifesa, per non farsi invadere dal tragico e dal dramma personale? Quando vedemmo 8½ montato restammo senza parole. Come nella Dolce vita la grazia e la speranza erano rappresentate da Valeria Ciangottini, qui a incarnarle era la radiosa Claudia Cardinale. Per questo Fellini volle che le sequenze della «ragazza della fonte» fossero sovraesposte.
Sentimmo l’orma del genio quando Daumier Carini, l’infallibile critico pronto a compiere la sua opera demolitrice, riesce con il suo pessimismo a distruggere tutte le strutture innalzate per il film, compresa l’Astronave, costruita all’Idroscalo di Ostia e attacca Guido con parole aspre, incitandolo a mandare a monte l’intera opera, e spronandolo al silenzio e alla morte. Sembra già altrove e ascoltiamo i suoi pensieri di pura creazione. «Ma cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare? Che mi ridà forza, vita? Vi domando scusa, dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi… e com’è semplice. Tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero! Ah come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire… è una festa la vita! Viviamola insieme! Non so dirti altro Luisa, né a te, né agli altri, accettami come sono, se puoi, è l’unico modo per tentare di ritrovarci.» Era un ponte lanciato verso Giulietta, verso il desiderio di starle vicino. Qualcuno ci disse che in sala di doppiaggio Marcello Mastroianni per la prima volta avesse pianto, l’Arte aveva vinto sulla pasta e fagioli. Federico riprese a portare a cena mamma a Ostia e tutto tornò come un tempo. Le raccontava della sua giovinezza a Rimini, così simile al paesaggio di Ostia, della Saraghina, quasi una rivelazione della bieca potenza femminile, dei suoi innamoramenti a catena, delle sue infedeltà, della sua inguaribile ammirazione per le donne, di Giulietta così diversa da tutte, e che con lei aveva un debito ancora da saldare, un rapporto che poteva sembrare lacerante, ma che in verità era tenerissimo. Mamma notò soprattutto quel senso di attesa che lo abitava, come se da un momento all’altro dovesse succedere qualcosa di straordinario, una festa, un miracolo. Non diceva mai che sua moglie era infelice e compensava l’insicurezza affettiva con un bicchierino di whisky.
La proteggeva, era la sua creatura. Questo lo capimmo subito. Capimmo poi, poco per volta, come i coniugi nascondessero le incomprensioni, le distanze culturali, le ambizioni diverse, per non litigare. Alla prima mondiale al cinema Fiamma gli invitati erano selezionatissimi, la sala non era colma, e non ci furono grandi applausi. Federico era arrivato sottobraccio a Giulietta e insieme ad Anouk Aimèe. Marcello Mastroianni al braccio di Flora Carabella e Rossella Falk, la migliore amica di Flora. Michelangelo Antonioni e Monica Vitti alla fine del film si alzarono silenziosi e quasi indispettiti. Vittorio Gassman, in compagnia di Annette Strøyberg, si guardava intorno un po’ incredulo che il film mescolasse la caoticità del presente, i fantasmi del passato e le visioni deliranti del futuro. Mi confessò anni dopo che l’aveva lasciato senza fiato, era un tipo di cinema che in Italia nessuno aveva mai realizzato. Capimmo da molti segnali che il film aveva fatto centro. Anna Magnani aveva al suo fianco un’amica e commentò con una sola parola – «Tosto!». Claudia Cardinale era arrivata senza Cristaldi. La solitudine di una donna così bella mi colpì, eppure durante la lavorazione sembrava che tutti gli attori fossero legati gli uni agli altri. Finalmente Giulietta e Federico la fecero sedere alla destra di Rizzoli. Il film avrebbe ricevuto un Oscar come miglior film straniero e uno lo avrebbe vinto Piero Gherardi per i costumi. «Mi spiace non parlo inglese», avrebbe balbettato lui emozionatissimo. «Thank, thank a lot!» Per me fu un’esperienza incancellabile e ancora adesso, quando sogno mamma, la sogno sempre e solo vestita di bianco, con lo stesso abito che indossava in 8½. Si siede sul mio letto come incantata e dico a me stessa: «Marina, non è lei! Lei è morta!» Non riesco mai a chiederle perché indossi solo e sempre quel vestito, immagino che sia
perché lei non è mai più stata così felice come quando girava 8½. E vuole farmelo sapere. Chissà se il Maestro ha mai sognato, almeno per un attimo, di amare la Signora Misteriosa? Mi piace pensarlo. Aprii quasi a caso una pagina di Storia di un’anima, la santa preferita da mio papà che andava spesso a Lisieux, da Santa Teresina del Bambino Gesù e meditai. «La mia vita è istante, un’ora che passa, un momento che mi sfugge e se ne va. Tu lo sai, mio Dio che per amarti sulla terra, non ho altro che l’oggi. Ti amo Gesù. Che miracolo di perfezione! Solo i mistici e i santi hanno questa percezione che il tempo è breve, fugace, evasivo, che oggi è già ieri. Ma anche i grandi artisti sentono che il tempo è fuggitivo come un cervo.» Scrissi a mio padre che lo capivo, avevo finalmente capito il suo trasporto per questa santa bellissima, di cui porto il secondo nome. Che la vita fosse inafferrabile, misteriosa e piena di complicazioni l’avevo scoperto solo vedendo 8½. E colpevolmente glielo tacqui.
13 Giulietta
Una sera, poco prima che terminasse il film, fummo per la prima volta invitati a cena dai Fellini a Fregene. Non avevamo mai incontrato Giulietta. Sul set non era mai venuta. Forse la considerava un’opera da cui, per qualche ragione segreta, era stata esclusa. Per noi era una persona misteriosa. Eravamo emozionate. Guido Alberti ne parlava sempre con grande affetto e una sorta di preoccupazione da quando, forse due o tre anni prima, aveva avuto un forte esaurimento nervoso a causa della fine della sua infatuazione per l’attore Richard Basehart. Come chiamarla altrimenti? La colpa era stata di Federico, ci disse, si era distratto da lei durante la lavorazione de Il bidone e La strada. Ma era stata un’illusione dolorosa per entrambi. L’attrice era finita in una casa di cura svizzera e il regista in preda a una forte depressione era entrato in analisi con Emilio Servadio. Stranamente nessuno sembrava prendere in considerazione la morte del padre Urbano avvenuta proprio in quegli anni e precisamente nel 1956, come origine della crisi. Comunque Lucia e Guido avevano idee diverse sui Fellini. Per Lucia, la moglie era una streghetta, mentre per Guido solo una povera vittima del marito. Chi aveva ragione? Non lo capimmo mai del tutto, a causa dei suoi sbalzi d’umore: a volte era adorabile come una sorella, altre inspiegabilmente ritirava la fiducia che ti aveva appena concesso. Di sicuro era umorale, ti sorrideva e poi magari plaf! Smetteva all’improvviso ogni amabilità. Arrivati nella villa di Fregene
intravedemmo i raggi ultimi del sole al tramonto, attraverso i pini. Ci sentimmo in famiglia, essendo arrivati insieme a Lucia e Guido Alberti. Casa Fellini era bianca con le finestre verdi. Fummo subito immersi in un’atmosfera irreale, da favola. Alla casa si accedeva seguendo un viottolo di travertino che attraversava il giardino. Gli alberelli, il prato verde, i gatti in attesa, i fiori delle aiuole. «Ecco, questo è Baffetto!» disse Guido, chinandosi ad accarezzare un gattino. «Baffetto queste sono Caterina e Marina.» Tutto pareva fermo e immobile, quasi in attesa di un set. A farci gli onori di casa fu Salvato Cappelli, giornalista e commediografo, un amico di Giulietta che ci avvisò che «Giulietta è occupata a preparare i tortelli e ci avrebbe raggiunti appena possibile». Lui abitava in una villetta poco distante ed era felice di fare da padrone di casa. Ci sedemmo nel salottino un po’ imbarazzati dell’inattesa accoglienza. Cappelli aveva un eloquio allusivo e salace. Ci avevano preceduti Felice Fulchignoni con la sua bella moglie. Salvato era stato giornalista a «Le Ore» e raccontava pettegolezzi su attrici celebri, alcuni sgradevoli sulle avventure erotiche di Rosanna Schiaffino e la madre. Era stata Anna Salvatore a presentarlo a Giulietta, perché sosteneva che lei fosse troppo sola e lui di antica e nobile schiatta. La pittrice voleva far distrarre l’amica dal suo eccessivo attaccamento al marito. «Certi trovano divertente frequentare casa Fellini, altri lo trovano eccitante, ma ci sono anche dei traditori che perseguono bieche finalità.» Ci guardammo perplessi restando in silenzio. Poi cominciò a raccontare la sua vita di giornalista scandalistico con una sorta di amaro compiacimento. Alla fine ci abituammo alla sua presenza, al fatto che andasse a ripescare di proposito nella memoria di cronista cose imbarazzanti su questo o quell’altro personaggio pubblico.
Lucia ci guardava a disagio, quando finalmente Giulietta fece il suo ingresso, scusandosi di non esserci venuta a ricevere. La guardavo con attenzione, infatti per me era forse la più grande attrice italiana, avevo nei suoi riguardi una ammirazione reverenziale. Feci l’errore di fare all’attrice quasi una dichiarazione d’amore, questo scatenò a tavola un attacco violento contro Anna Magnani. Intanto, accesasi una sigaretta, cominciò a tossire. Fumava troppo, era molto pallida. Iniziò una vera e propria arringa contro la Magnani, che per lei e Cappelli era stata perfida durante le riprese del film di Renato Castellani, Nella città l’inferno. Giulietta e Anna erano le attrici principali e quest’ultima aveva voluto girare tutte le scene in sottoveste per mostrare il suo bellissimo décolleté. Non solo, l’aveva umiliata per tutta la durata del film, era stata insopportabile! Quando proprio grazie alla generosità di Giulietta le era stato affidato quel ruolo. Anche mamma l’aveva avuta contro ai tempi di Campo dei fiori. Per strapparla al grande dolore di aver perso il fidanzato Guido, abbattuto in volo nel 1944, il produttore Peppino Amato l’aveva superpagata, affiancandola a una agguerrita Magnani invidiosa del compenso eccessivo della Boratto. «Anna, purtroppo, non ha grazia nei rapporti personali, hai ragione Giulietta, ma l’ho perdonata. Perché è una donna ferita dall’abbandono di Rossellini, in più con un figlio malato. Perdonala.» «Ma manco pe’ gnente! Sapete che c’è? C’è che io dovevo essere la protagonista assoluta, poi De Laurentiis chiese per Silvana Mangano un cachet troppo alto e chi mi viene in mente, che pensata del cavolo ti faccio? Devo esse’ proprio ’na scema col botto. Propongo Anna. Tutti i primi piani per lei, tutte le meglio scene a lei! Tanto che gliel’ho pure detto: “Ahooo ma che te credi de esse? Datte ’na calmata. Tu sei qui solo grazie a me!”» «Non ci pensare più, ormai è tutto passato, cara», le fece eco untuoso Salvato Cappelli. Fu a quel punto che si intromise
Guido Alberti per cambiare discorso. «Scusa Giulietta, ma Federico ti ha fatto fare dei personaggi così grandi, che restano nella storia del cinema, immortali. Ripeto immortali! Che ti importa di un film secondario? Non è un gran film e tu sei Gelsomina, sei Cabiria per il mondo intero! Ti pare poco?» «E che mi fa fare adesso? Che sto facendo, secondo te? La cuoca me fa fare! Non c’è stato un solo ruolo adatto a me in 8½. A proposito, stasera servi e maggiordomi sono in libera uscita, ve dovete accontenta’!» Eravamo ammutoliti, ci avevano stranito i modi della padrona di casa, così infelice. Tutto mi sarei aspettata tranne conoscere una donna così dolorosamente alterata. Non sapevamo nulla delle discussioni accese che scoppiavano ogni sera tra i due coniugi. Eravamo ormai quasi al secondo e di Federico non c’era nemmeno l’ombra, sembrava essersi volatilizzato, però nessuno osava chiedere dove fosse. Mi alzai, sparecchiai e andai in cucina per aiutare Giulietta. Stava preparando delle fettine alla pizzaiola, «di tenerissimo vitello» sottolineava con orgoglio. Al primo assaggio sembravano di un manzo attempato, nonostante il generoso sugo che le ricopriva interamente. «Dove si sarà cacciato Federico?» «Sarà andato con Gherardi a fare dei sopralluoghi», aggiunsi incautamente. «E sì! I sopralluoghi dei miei…!» sbottò, lasciandomi a bocca aperta. «Ho visto finalmente Fortunella. Sei bravissima!» cercai di distrarla. «Non ne vojo parla’, quel baccalà di Eduardo, me metteva in cerchio a provare, come a teatro, te lo immagini? Comunque, io non me ne sto con le mani in mano, so stata in Polonia e Germania a recitare con Richard Basehart ne La donna dell’altro e Duvivier m’ha fatta diventà sexy e biondo platino ne La gran vita! L’hai visto?»
«No, mi spiace.» «Parevo n’antra! Non so’ mai un granché co’ Federico. Spero che a Diky vada tutto meglio, è un gran signore ma un uomo così sfortunato…» Immaginai che Diky fosse Richard Basehart e per nessuna ragione al mondo avrei voluto sfiorare l’argomento. All’improvviso si attaccò a una misteriosa bottiglia con l’etichetta di un frantoio. Finsi di non vedere, aiutandola a portare i piatti a tavola. Pare che invece l’alcool producesse su Cappelli effetti soporiferi, obbligato a scortare Giulietta al night e a ballare, ordinava un whiskey on the rocks solo per dormire. Giulietta mi impedì di tornare in sala da pranzo. Continuava a tossire e a fumare. E riprese a raccontare. «Sai che appena sposata con Federico e incinta, sò caduta giù dalle scale? Ho abortito. Poi è arrivato Pier Federichino, vissuto solo tre settimane… poi, poi… per lui, nun sò esistita più, intendo come donna… te rendi conto? Sembrava un marito tanto devoto invece ha cominciato ad andare in camporella.» Non mi piaceva la piega che stava prendendo la serata. «Guarda Giulietta che è un marito affettuoso, dice su di te cose sublimi.» «Ma va là, ma a chi la racconti?» Come rassicurarla, nel silenzio spiccava il ticchettio di una sveglia, messa lì forse per la cottura dei suoi piatti. Dopo circa un quarto d’ora Federico fece il suo ingresso trionfale festeggiato da tutti. Aveva tenuto il cappotto con il bavero alzato, ma quando entrava in una stanza era capace di cambiare l’atmosfera e l’umore di tutti i presenti. Stava dritto quasi volesse sembrare più alto. Tutti tirammo un sospiro di sollievo, avrebbe ripreso con il suo stile e la sua autorità il controllo della situazione. «Chi ha telefonato, Giuliettina? Non hai fatto le polpette, sai che mi piacciono tanto…» chiese mellifluo e aggiunse: «Ah
questo film, quanti problemi!» «Ndò sei stato Ninì?» gli domandò lei, senza rispondergli. «Per un piccolo sforamento del badget sono stato a parlare tutto il tempo con Fracassi, pessimista ma risolutivo come sempre», replicò soffiando ansia per il troppo lavoro e aggiunse: «Qualcosina mangiucchio, forse solo la carne e il dolce! Che begli amici, che allegra brigata, raccontatemi tutti qualcosina di voi! Che bello ritrovarvi. Come sei in forma, Caterina! Ciao Marina bella! Lucia, che occhi magnifici da assassina». «E già, eri con Fracassi o co ‘na mignotta, Ninì? Torni sempre con gli occhi bassi sul piatto e te metti a mangià e non dici mai niente di dove sei stato. Ma in realtà hai già mangiato…» continuò ostinata. Arrossimmo tutti. «Su, Giuliettina, sai che è un film complesso, ho continue grane. Rogne spaventose con Rizzoli. Devo elencarti tutte le difficoltà, giorno per giorno? Dovresti essere contenta che te ne tengo fuori, te le evito, vivi qui beata, fra boschi e ruscelli, in compagnia dell’ottimo Salvato. E voi invece cosa avete fatto, avete sparlato del sottoscritto?» Mentiva o diceva la verità sulla sua serata fuori casa? Lucia ci aveva avvertito che era un bugiardo congenito, comunque nessuno dei presenti voleva indagare, desideravamo solo che tornasse un po’ di pace e leggerezza. Era uno spettacolo triste vedere una moglie sbottare a quel modo. Non immaginavamo certo che lei e Federico fossero due sposini in viaggio di nozze, ma che fossero a questo punto, mai. Poi Giulietta, quasi con gli occhi iniettati di sangue, si scagliò a parole contro Federico, dimostrando un temperamento degno di una popolana di Roma e un talento drammatico superiore a quello della Magnani. «Ma che sei ’n omo tu? Sei ’n omo tu che non me tocchi da otto anni? O sei uno che se fa tutte, ma proprio tutte l’artre? Pensi che nun te vedo? Non fai che maneggià le chiappe di questa e di quella! Che deve fa ’na poveraccia come me? Che
me ne frega che tu sei un artista, se sei solo ’na parvenza d’omo? A me non m’incanti, sai? Dove sei stato a arzà porvere? Dimmelo!» Stranamente Giulietta non tossiva più. Guido Alberti si alzò da tavola e si schiarì la voce, sembrava un tribuno: «No, vi prego non fate così, dovete andare d’accordo, avete dato dei capolavori al cinema mondiale e ne darete altri, così ci rendete infelici stasera, dovete far pace, perché voi due… voi due siete immensi… siete entrambi una risorsa per il mondo». Fellini si alzò e abbracciò Guido. «Guidone che farei senza di te?» Ma Giulietta continuò imperterrita. «Infame! Perché te sei ridotto così? Perché quando l’ho sposato me voleva bene, sapete? Era normale, allora! Adesso è un mezz’omo.» Federico sembrava accettare rassegnato tutto ciò che usciva da quella bocca, rimproveri e insulti, ossessionato dai complessi di colpa o forse altrove, serafico. Salvato Cappelli continuava a fissarli con gli occhi socchiusi, gongolando in cuor suo, aspirando brevi boccate di fumo. In realtà tutti fumavano in quella stanza, rendendo l’aria irrespirabile. Mi afferrò un grande fastidio. Non sopportavo i litigi, ne avevo sentiti troppi in casa mia, e pregavo, Dio! Falli smettere. «E che dicono gli astri su di me, Lucia? Che dicono, bella strega?» chiedeva Federico, cercando di riportare un po’ di normale conversazione conviviale. «Stai girando il tuo capolavoro!» disse lei, che aveva saputo da Anna Salvatore la vera data di nascita di Fellini e leggeva la sua reale carta del cielo: Fellini era un Capricorno con ascendente in Vergine. «Sai, Lucia, che Guido è meraviglioso? Deve continuare a recitare, perché interpreta il produttore con una tale naturalezza mista a quel po’ di antipatia che ispirano tutti i produttori. Guidone adorato lascia un po’ il Premio Strega, e
mettiti sotto, vi dirò che se non avessi fatto il regista, avrei voluto essere attore.» Quasi subito si alzò da tavola per stendersi sul divano. Evidentemente aveva già mangiato in qualche casa accogliente. Sparecchiai una seconda volta e andai in cucina dove si era rifugiata Giulietta. Quello era il suo Regno. La trovai nuovamente attaccata alla bottiglia con l’etichetta di olio extravergine che teneva nascosta per le crisi di amor proprio ferito. «Giulietta, fare un film di questa portata è un’impresa ardua, non credo che abbia tempo per tradirti.» «Ma nun lo sai che tutti i suoi collaboratori lo mettono contro di me? C’è pure Piero Gherardi che me dice “Non esse sempre così prosaica e terra terra, Giulietta. Federico è un grande artista, è un poeta, è un genio, deve essere lasciato in pace. E lascialo tranquillo!” Me dice che non capisco l’arte. Non lo sai che Lena j’ha fatto na fattura? È stata quella che poi è finita al manicomio. Me chiamava tutti i giorni, me diceva che dovevo morì, l’infame, caso mai doveva morì lei!» «Ma Federico la vedeva così spesso?» «E come no! Ma io l’ho aspettato fuori dal portone di casa di lei e gli ho dato uno schiaffone e lui zitto, bono, un vero vigliacco. Però nun è stato più lui dopo la fattura de sta bastarda. Ma con le altre va che è un piacere. I miei fratelli e le mie sorelle so’ pieni di figli. Anch’io ne desideravo. Chi è sto psicoanalista che gli schiarisce il subconscio?» «Non so niente del suo privato, Giulietta, te lo giuro. Un tedesco, uno junghiano, pare molto bravo, Ernst Bernhard.» E cercai di farla ridere. Era arrabbiata e con gli occhi pieni di lacrime. «Io ci ho pure una laurea in archeologia con centodieci e lode e lui no! E tu ce l’hai ’na laurea?» «Veramente devo ancora finire il liceo.»
«Ma è vero che tuo padre ostacola il lavoro di Caterina con la gelosia?» «Be’, è geloso da sempre, e non ha più potuto recitare. Una situazione che ha sbloccato Federico ma, a dirti la verità, papà non ne sa nulla!» «Come? Nun sa che lei sta a girà 8½?» «No, non glielo farebbe fare.» «Mamma mia, che storiaccia! Poveri fiji!» Com’era simpatica quando si distraeva dalla sua ossessione per i tradimenti di Federico. Il regista per curiosare entrò in cucina. «Cosa vi state raccontando?» Gli occhi di Giulietta rimasero freddi. «Ho sempre presente le mie colpe, ma soprattutto la sua frustrazione profonda.» Questo confidava a Gherardi o agli amici più intimi. L’infelicità di Giulietta lo straziava. Tornati tutti in salotto, Salvato, rendendosi conto che gli ospiti erano sconcertati, continuò a intrattenerci con sgangherate storie sentimentali di attori e attrici. Federico disse che toglieva il disturbo e andava a telefonare, ha incrociato il mio sguardo e mi ha strizzato l’occhio. Giulietta cominciò a chiedere a mamma che crema per la pelle usasse, rinunciò a dar sfogo alla sua violenza e la serata si spense a poco a poco parlando di profumi e belletti. «Ma non è giusto, non è normale questo matrimonio», continuò a ripetere Lucia il giorno dopo mentre passeggiavamo per Villa Balestra. Era desolata. «Occorre disintossicarla, Giulietta è per lui più dannosa del rapporto con la madre, non se ne libererà mai.» Veramente della madre Federico si era liberato, almeno fisicamente, allontanandosi da Rimini prima e con le sedute di
psicoanalisi poi. Ma da Giulietta nessuno immaginava che avesse la forza di separarsi. Un regista cattolico? Perché avrebbe dovuto? Mamma pensava addirittura che il loro legame fosse così antico da essere indistruttibile. «È un matrimonio di guerra, come il mio con tuo padre Armando, amore e tenebra.» Quattro anni dopo Fellini mi disse, sorprendendomi: «Anche se lasciassi Giulietta e andassi a vivere con un’altra donna, mi conosco, prima o poi tradirei anche questa. Ricomincerei la stessa manfrina. Sarei insensato.» «Federico, perché lo dici a me, non penso affatto che devi fare questo passo, più che altro dovreste chiarire il limite delle vostre reciproche libertà. Non può fartene una colpa, se non arrivi per cena.» Mi confessò tempo dopo che un giorno aveva deciso di andarsene veramente di casa. Andò come prima cosa al cinema, poi entrò in un grande magazzino, e ancora in un caffè-ristorante, ma poi non era riuscito a sopportare l’odore dolciastro del corridoio e della stanza dell’albergo che aveva prenotato. Sconfitto era tornato la sera stessa da Giulietta. «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» «A parte l’odore di biscotti appena sfornati, la carta da parati dell’albergo era strappata e mancavano alcuni listelli del parquet.» «Perché hai scelto una pensione e non l’Excelsior?» «Cercavo un rifugio segreto, la cui intimità fosse eccitante.» «Non credi piuttosto che Giulietta sia per te figlia e madre?» «Mi hai smascherato, è l’una e l’altra e nessuna ha mai saputo esserlo contemporaneamente come lei.»
Lucia mi disse in seguito che il conte Cappelli viveva stabilmente in casa Fellini, e non capiva perché Giulietta si lamentasse tanto della solitudine, dato che aveva un cavalier servente che non le piaceva proprio, infatti era stato lui a insistere che Federico conoscesse Sandra Milo e gliel’aveva presentata per una parte in 8½. Insomma Lucia considerava Cappelli un amico interessato. Molti anni dopo andai una sera a cena con Federico da Cesarina, era appena uscito il libro di Sandra Milo, Caro Federico, e lei entrò intenzionalmente nella sala. Fellini la riempì di improperi e insulti. Sandra non replicò, non disse nulla, avanzò lenta e impassibile attraverso il ristorante. Mi stupì il suo totale sangue freddo. Anche Cesarina uscì dalle cucine e corse in soccorso di Federico che era diventato paonazzo di rabbia. «Non hai nessun ritegno, nessun pudore!» continuava a ripetere. Non riusciva a darsi pace. L’ostessa lo accarezzò e gli fece bere un liquore all’anice stellato, con camomilla, grappa e cumino e piano piano sembrò placarsi. «Stai tranquillo, il mondo ha di meglio da leggere.» Come mai la Alberti sapeva sempre tutto dei Fellini? Ad esempio che lui e Giulietta avessero litigato appena sposati e che Federico mantenesse un legame soi disant importante con la pittrice Anna Salvatore? Dato che il regista aveva un rapporto superstizioso con l’Aldilà pare che proprio grazie a lei avesse cominciato a fare delle sedute spiritiche e ad addentrarsi pericolosamente nella magia bianca, vi aveva coinvolto pure Giulietta e Sandra. Temeva che accadesse qualcosa a Giulietta. Sarebbe stato sopraffatto da troppi rimorsi e forse anche questa paura lo portò a girare il film successivo centrandolo tutto su di lei fin dal titolo: Giulietta degli spiriti.
Lucia ci informò anche del difficile rapporto di Federico con la madre Ida. Ogni volta che si vedevano, gli ricordava quanto fosse antipatico da piccolo e quanto fosse adorabile il fratello Riccardo. «Io voglio bene a mia madre e desidero saperla serena, mia sorella Maddalena, abita vicino e si occupa di lei. Certo temo sempre che si deprima e ho la mia buona dose di sensi di colpa.» La fonte era sempre Anna Salvatore che andava da Lucia per farsi fare l’oroscopo e, evidentemente, raccontava molti segreti di Federico. «Anna è una femminista ante litteram, non crede a tutto quanto le dice Federico. Lui giura di amarla, la chiama Streghetta o Confetto drogato. Lei scrive un romanzo spiritistico su tutto ciò, lo considera un uomo incredibile. La cosa migliore, Caterina, è stare un passo indietro. Se ti lasci prendere da Federico, ti sbrana.» Mamma già l’aveva capito da Gherardi e cercava di sfuggirgli il più possibile. Forse il regista venne a conoscenza dei pettegolezzi della Salvatore, perché cominciò a dubitare delle doti di veggente di Lucia. La nostra amica invece in quel periodo studiava il quadro astrologico dei Kennedy e vide per prima la tragedia aleggiare su tutta la famiglia. Profetizzò che il futuro era drammatico per tutti e tre i Kennedy. E che la loro stella sarebbe stata una sfortunata stella cadente. Lo disse durante un’altra cena a casa Fellini dove c’erano Felice Fulchignoni, il dottor Luciano Di Nepi e anche il ministro socialdemocratico Luigi Preti. Vedeva malissimo anche il futuro di Aldo Moro. Giulietta stava molto meglio e reagì con forza, spavalda. «Aoooh Lucia! Che fai, l’uccello del malaugurio? Tié! Tié! Pija e porta a casa.» A volte, quando era in vena e non troppo abbattuta dalle bugie del marito, poteva risultare simpaticissima, più concreta di Federico che ti fregava sempre con la magia delle invenzioni.
Non ci spiegavamo il motivo per cui Federico non avesse detto a Lucia la sua vera data di nascita: come astrologa raramente sbagliava, era stata proprio lei a dire alla mamma che la sua vita sarebbe cambiata per l’irrompere improvviso di una fortuna insperata degli astri e grazie al suo ascendente Leone sarebbe tornata al cinema. E questo era accaduto. E io? Ero insicura, immersa nei miei pensieri, e piena di dubbi, tanto che Federico, che tendeva a fagocitare chi trovava simpatico, con la sua manona mi afferrava il braccio, cercando di strapparmi ai miei sogni chiedendomi: «Buffoncella, a cosa pensi tutto il tempo, me lo dici?» «Sì, che tu e Giulietta dovreste adorarvi, siete essenziali l’uno per l’altro.» Insomma un’altra famiglia infelice mi faceva dubitare delle scelte e del futuro, per questo chiesi di parlare con il mio Preside. Gli raccontai l’infelicità della Masina, la solitudine di mia madre e la disperazione di mio padre. Che cosa mi consigliava di studiare dopo il liceo? Non avevo una sola certezza. Lui mi rinfrancò con poche parole. «Marina, mi piacciono molto i tuoi temi. L’ultimo su quel violento temporale che credi ti porti via la vita e l’anima e invece scopri che ha solo messo ordine nei tuoi pensieri, è veramente bello. La vita è simile al tuo temporale. Grazie a Dio, nessuno può rubarti la speranza. Cosa ti consiglio? Di scrivere sui giornali, o solo per te stessa.» Rimasi senza parole, a mio padre sarebbe piaciuto e glielo comunicai subito. «Meglio che diventare avvocato!» concluse ben contento, pensò di iscrivermi dopo il liceo, alla facoltà di Sociologia di Trento, per studiare giornalismo, ma non fece in tempo.
14 Quando Fellini scoprì Fellini
Da dove nasceva la sicurezza di Fellini sul set? Dalla lunga gavetta fatta come sceneggiatore. Quattro sceneggiature con Mario Mattoli, il regista di Totò, a partire dal 1939 e iniziate con Imputato alzatevi, protagonista Macario, altre con Lattuada e un magnifico film con Pietro Germi, Il cammino della speranza. Proprio allora Germi veniva ricoverato a Villa Giulia insieme a mio padre e Don Piero Pintus, il cappellano di Sant’Eugenio, faceva la spola tra i due. Lo dissi a Federico, gli vidi per un attimo inumidirsi gli occhi, andò mai a trovarlo? Mi mancò sempre il coraggio di chiederglielo. Sapevo che Germi stava morendo di cirrosi epatica. Fellini da sceneggiatore guadagnava assai poco e molta era la fame, perché tutti i registi tradivano un po’ le sue idee, e svolgere quel lavoro l’aveva svilito, fatto arrabbiare. La molla che lo spingeva fu a un certo punto soprattutto il varietà, che a quel tempo precedeva sempre la visione dei film, da qui il regista traeva spunti, fin quando molte delle sue idee finirono in Luci del varietà, firmato con Lattuada. Il regista riminese amava la rivista «Za-bum», Mattoli era diventato anche segretario degli impresari Suvini e Zerboni. A Fellini si era aperto all’improvviso un altro mondo: quello dell’avanspettacolo. Fu lui a mettere in contatto Roberto Rossellini con Aldo Fabrizi, per Roma città aperta, vivevano entrambi vicino alle mura di San Giovanni, uno in via Sannio e l’altro in via Albalonga e insieme vagavano per la Roma notturna.
Spesso a loro s’univa anche il geniale sceneggiatore Ruggero Maccari. «Ma a ben pensarci la coppia Magnani-Fabrizi s’era già formata in Campo dei fiori, dove la diva è Caterina Boratto quindi non è casuale – scrive Tullio Kezich – che questa attrice ritorni nella sua sfolgorante maturità, come epitome della bellezza femminile, in 8½». Nel regista molto è frutto della memoria, del ricordo, grazie a un meraviglioso Plutone in Cancro. Fabrizi si lamentò di essere stato trascurato dal regista diventato famoso, eppure gli doveva la sua più grande interpretazione: l’eroico prete di Roma città aperta. Anche se a me sembrò che sarebbe stato un perfetto Trimalcione nel Satyricon. Ma Fellini da Capricorno raramente si voltava indietro, era implacabile e lontano anche nei confronti dei suoi stessi film. Eppure quando l’aveva conosciuto Fabrizi era considerato il comico moderno. Ennio Flaiano ne aveva fatto una suprema descrizione in un articolo del 1939. Dopo un pagliaccio che rischiava ogni attimo di strozzarsi con una sciarpa, entrava in scena Fabrizi, in marsina e cappello floscio, preceduto dal suono degli ottoni e riempiendo la sala di battute e frizzi. A gonfie vele procedeva la lavorazione del film, diretto da Mario Bonnard, Avanti c’è posto, cosceneggiato da Fellini e interpretato da Aldo Fabrizi, ormai famoso per le sue creazioni di personaggi diversi presi dalla vita quotidiana e trasferiti sulla scena. Fellini raccontava di non avere allora, alcuna voglia di dirigere un film, disegnava caricature per la bottega Funny Face Shop, costruiva battute e dialoghi per Fabrizi e non pensava di essere capace di dirigere un film, soprattutto dopo avere visto all’opera Alessandro Blasetti, che aveva ammirato mentre, in cima a una gru, dava ordini calzando gambali di cuoio scintillanti, un foulard di seta indiana al collo, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti appesi al collo, e pensò di non essere tagliato per
quel lavoro, mancandogli il gusto della sopraffazione tirannica e la capacità di affrontare una simile fatica. Fu grazie a Roberto Rossellini che scoprì che dirigere era anche altro. Ne parlava raramente, ma con profondo affetto e un lieve imbarazzo. «Seguendo Rossellini, mentre girava Paisà, mi parve all’improvviso chiaro, una gioiosa rivelazione, che si poteva fare cinema con la stessa libertà, la stessa leggerezza con cui si disegna o si scrive. Se il cinema era così, se poteva essere vissuto come un happening continuo fra la vita e la rappresentazione della vita, allora mi parve all’improvviso che mi appartenesse di più. Roberto aveva la capacità di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di inafferrabile e di arcano e magico ha la vita.» Con Rossellini che cercava i suoi personaggi in mezzo a strade polverose capì l’arte del cinema. Il cinema come avventura! A volte anche scommessa! E magia! Girarono tra Napoli, Firenze, Roma e problemi di ogni tipo. Rossellini lo spronò a farsi sorprendere dalla vita. Peccato che anni dopo, quando Fellini gli mostrò Lo sceicco bianco, Rossellini non ne fosse ammirato, e fece l’errore di dirgli ciò che pensava, avvenne su questo il distacco, la rottura? Chi dei due ripudiò l’altro? L’allievo o il maestro? La cosa più importante è che Fellini avesse scoperto che poteva avere con un film «lo stesso rapporto segreto, ansioso ed esaltante che uno ha con le proprie nevrosi, e che gli impedimenti, i dubbi, i drammi, i ripensamenti, le fatiche, non erano poi molto diversi da quelli di cui soffre il pittore, quando cerca sulla tela un tono e lo scrittore che cancella e riscrive», come confesserà in Fare un film.
15 La sperimentazione psicotropa
Fu verso la fine di 8½ che venimmo a sapere da Federico stesso che aveva fatto un esperimento assumendo lsd-25, sotto la guida dello psicoterapeuta Emilio Servadio e di un suo collaboratore. Era un farmaco che riproduceva chimicamente sintetico la sostanza psicotrope di funghi allucinogeni in uso nelle tribù messicane. Era stato impressionato dalle esperienze dello scrittore Carlos Castaneda, ancor prima di inoltrarsi un po’ sciaguratamente sulle sue tracce, anni dopo. O forse aveva trovato un divano segreto dove restaurare le energie disperse a causa dell’insonnia? O forse pensava a Giulietta degli spiriti e ne cercava i colori, l’azzurro polvere di una nube alta nel cielo, e il rosso dei gerani sul davanzale della finestra, e ancora le foglie e la trama fibrillante del tessuto di una tenda mossa dal vento? Cercava l’effetto che avrebbe avuto sugli spettatori quel nido immacolato di Fregene? Cosa voleva trovare il Maestro dentro di sé? I colori di una favola? Parlava di questo esperimento come di un’impresa fatta con uno psicologo-scienziato che abitava ai Parioli, immaginai facilmente chi fosse e una pletora di assistenti, in realtà mai esistiti, un cardiologo e degli infermieri, con una batteria di stenografi e microfoni. L’elettrocardiogramma al suo risveglio era perfetto. Lo andarono a prendere verso mezzogiorno, era digiuno e gli venne somministrato un centesimo di sostanza su una zolletta di zucchero. Avrebbe dovuto dare un effetto di sette, otto ore ma in lui durò molto di più. L’lsd era stato ormai
derubricato da droga a farmaco, Cary Grant ne fece uso regolarmente per curare la sua grave nevrosi. Non tutti credevano agli effetti liberatori della pasticca psichedelica. Federico si era offerto come cavia e, quando avrebbe voluto tirarsi indietro, non poteva più farlo. Era uno strenuo sperimentatore dell’inconscio. «Mi attrae la gola dell’ignoto», ripeteva. Era in buona compagnia, anche Elsa Morante si era accodata a questa moda. Questa la storia, certo raccontata da lui era tutt’altra cosa, ma le sue parole furono queste: «Era come se non sapessi quanto grande fosse la mia casa, non l’avessi visitata bene, l’entrata, la veranda, lo studio, la sala da pranzo e la cantina e proprio nella cantina giacevano enormi ricchezze mai messe a frutto che mi riguardavano…» Dopo un’ora gli chiesero cosa provasse. «Nulla! Non provavo proprio niente, ma tutti questi signori continuavano a osservarmi benignamente e mi domandarono di commentare una biografia di Manet e quella di altri pittori, mi fecero ascoltare Bach, Mozart fino alle due, ero calmo, quando di colpo, ebbi la sensazione che una lucertola mi corresse dal cervello alla spina dorsale e allora balzai in piedi!» E aggiungeva altri particolari poco rassicuranti «Huxley ha descritto meravigliosamente lo stato di coscienza descritto dall’lsd: gli oggetti diventano improvvisamente confortanti per la loro gratuità, la loro assenza-presenza. Una sorta di nube azzurra di beatitudine. Ma improvvisamente essere traghettato fuori dalla mediazione concettuale ti fa sprofondare nell’angoscia esistenziale, l’estasi diventa un inferno e quella nube rassicurante ti strangola in un orrore senza fine.» Fellini, fino alle nove di sera non riuscì più a fermare l’effetto psicomotorio, il desiderio di passeggiare, avrà percorso decine di chilometri circumnavigando un unico
luogo. Tutto era stato registrato e mandato in America in forma anonima. Per sedare l’effetto gli dovettero fare un’endovena di un calmante. Alle dieci di sera venne riaccompagnato a casa. Al mattino si risvegliò privo di ricordi. Aveva parlato per ore, andando su e giù per la stanza. Aveva anche lungamente dialogato con gli spiriti, gli rivelò Servadio. Era impossibilitato a stare fermo e ciò fu interpretato come una fuga da se stesso. Il regista invece suggerì un’altra ipotesi per lui più convincente: era un grande flâneur, doveva sempre essere in moto, a Cinecittà, o dentro Roma, che attraversava velocemente in cerca di personaggi e storie. Comunque non voleva riascoltarsi per un invincibile pudore di sé. Quando Fellini me lo raccontò gli chiesi: «Cosa ne pensa Giulietta di questo tuo esperimento?» Ma non ottenni risposta.
Pensammo però che nemmeno con 8½ avesse superato la crisi e lo sconforto: il suo matrimonio era in qualche modo ancora un sacco pieno di dolore e forse aveva bisogno di conoscere un’altra dimensione della propria creatività, di scoprire un lato più fiducioso della propria psiche. O voleva rischiare di più? Per questo si era tuffato in un esperimento in cui nulla era prevedibile? Non disse mai se gli avesse portato dei benefici o se avesse preteso troppo da sé. Era stato questo il suo personale Viaggio di Mastorna, un’immersione totale nel profondo della psiche, per trovare i tesori dell’inconscio e farne nuova materia per le sue immagini filmiche? Alla fine confessò di non aver resistito, di aver riascoltato parte della registrazione di ciò che era avvenuto. «Provai la sensazione di essere nudo, lievemente osceno. Mi colpì la mia voce! Non solo era cangiante ma troppe creature si esprimevano attraverso di me: l’adulto, il bambino, le mie
donne, mio padre, mia madre, un’esperienza terribile, come se qualcuno m’avesse sfondato l’anima…» «Federico, ma quando sei sul set fai mille voci.» «Già, vero, e tu che pensi di simile pastrocchio?» «Si è scatenata solo una tempesta, la tempesta del tuo cuore.» Il frutto di questo esperimento fu che, dopo 8½, Fellini realizzò Giulietta degli spiriti, il suo primo film a colori, a parte l’episodio di Boccaccio 70, un esperimento psichedelico sia per forme che per colori. Il 19 giugno del 1963 ricevetti una cartolina spedita tra le nuvole e firmata da Marcello Mastroianni, Guido Alberti e con un inaspettato AHM! di Federico. Erano in volo verso New York. 8½ ricevette cinque nomination agli Oscar per la miglior regia, miglior film straniero, migliore sceneggiatura originale, migliore scenografia, migliori costumi. Ne vinse due ma li avrebbe meritati tutti. Intanto continuava nel Maestro un certo compiacimento di sé, un continuo riaffiorare di dubbi, rimorsi, rimpianti, il gusto mai cessato dello spettacolo e la sua smisurata e cronica ammirazione per le donne. Accanto a lui pensavi sempre che qualcosa di straordinario e d’insolito stesse per succedere. E così era. Nel ricordare Federico Fellini ho ripreso a vivere e a scrivere. E ho eliminato l’incubo di essere riassalita da un male inesorabile. Grazie alla psicoterapia junghiana ho imparato a capire quanto della mia vita avevo rimosso per amore di mia madre, abbagliata dal suo splendore. Ho realizzato anche quale potente ostacolo sia stata all’attuazione di molti miei sogni. Per lei ho rinunciato a vivere a Los Angeles, la città delle stelle.
Ora grazie a te, Federico, ho la convinzione di non aver mai vissuto, eppure vedo un cielo sconfinato, dove mio marito è l’unico re, l’unico ponte con il quotidiano. Però quante stelle dietro e davanti, ma tu sei la stella più grande.
16 Giulietta degli spiriti
Giulietta degli spiriti cominciò ufficialmente il 27 luglio 1964, con le scene girate al Kursaal di San Pellegrino Terme. Io intanto mi godevo la ritrovata beatitudine di mia madre. Tutto ciò che le aveva negato il destino stava attuandosi. Lucia Alberti era raggiante della fausta previsione. Intanto Fellini incontrava decine di persone nello studiolo al primo piano della palazzina degli uffici cinematografici Rizzoli, in piazza san Giovanni, per completare il cast. Esaminava donne e uomini di ogni età e attori professionisti, prendeva appunti, programmava provini mentre Piero Gherardi gli passava le foto delle bambine che avrebbero dovuto interpretare le nipotine di Giulietta Masina. Sopra la sceneggiatura era scritto chiaramente che aveva solo il valore di un appunto provvisorio per iniziare la preparazione e l’organizzazione del film. Con una precisazione di Fellini: come è mia abitudine, man mano che il film procede, mi riservo di rivedere, cambiare e sostituire scene, personaggi, arricchire situazioni, determinare il ritmo, il dialogo, il clima a volte comico, a volte angosciato, a volte stupefatto della storia. Quando ultimava il lavoro di passare in rassegna qualche attore bussava con due nocche delle dita contro il muro per far capire a Norma o a Liliana, appostate nella stanza vicina che era il momento di introdurre un altro candidato. Infinite buste di foto giacevano sul suo scrittoio con relative definizioni scritte di pugno dal maestro, come: vecchie
signore, belle ragazze, facce buffe. Mae West era un’attrice che affascinava e divertiva molto Fellini, ne aveva disegnato una caricatura bellissima e, quando spiegava qualcosa sul film che doveva nascere, il suo volto proiettava l’idea di un film buffo, una sorta di scherzo fiabesco. La Masina sarebbe diventata una attrice comica? Comunque avrebbe dovuto interpretare una donna che aveva finalmente piena consapevolezza di sé e non più una vittima brutalizzata dalla vita. Il regista era perfettamente cosciente che quello dell’indipendenza della donna sarebbe stato un tema trainante degli anni futuri. Jung aveva detto che «la donna sentiva che il matrimonio non le offriva più una piena sicurezza. Infatti a che le serve la fedeltà del marito, se essa sa che i pensieri e i sentimenti sono assenti e che egli è soltanto o troppo ragionevole o troppo vile per seguirli?» Dopo l’episodio delle tentazioni del dottor Antonio, in Boccaccio 70, il regista non aveva più pensato a fondere il cinema, che è movimento, con il colore, che è immobilità. Questo sarebbe stato il problema di Gianni Di Venanzo che con questo film lasciò un testamento cromatico di sconvolgente complessità e bellezza. Gianni era adorabile. Ansioso e timoroso aveva paura di tutto, dell’aereo e delle malattie, ma non della macchina da presa, una sua protesi naturale, possedeva rapide e rivoluzionarie capacità inventive. Era il più grande direttore di fotografia del cinema italiano, perché era stato l’aiuto dei migliori, come Tonti, Arata, Martelli. Aveva superato le formule classiche della illuminazione, basate sulle cosiddette tre regole, rinunciando spesso all’edulcorazione del controluce. Il risultato furono contrasti vigorosi ma perfettamente dominati. Di Venanzo adottò soluzioni raffinatissime come sempre, grazie alla sua capacità di rendere spettacolare il mondo surreale e fantastico di Giulietta degli spiriti. Eppure sul set aveva a che dire e bisticciava con Fellini, tanto che il film non arrivò in tempo alla Mostra del cinema di Venezia. Una volta
lo vidi asciugarsi il sudore, mentre Federico parlava, parlava… questo film gli costò moltissimo. Sembrava che loro due non riuscissero mai a capirsi, perché erano così distanti e lontani? Ma ottenne alla memoria un Nastro d’argento per la miglior fotografia a colori. Caro Gianni, gli ho voluto bene. Giulietta degli spiriti fu comunque un film jettatorio. Di Venanzo fu un altro dei tanti amici spazzati via da una morte improvvisa. Federico Fellini, intanto, aveva appena circumnavigato l’Italia, intervistando maghi, indovini, guaritori. Altro che Magda Fabi che, rivoltando gli occhi all’insù e perdendo conoscenza, ti spiegava la moria inspiegabile di molti amici e parenti, altro che la Gina, con la nera crocchia, maga rassicurante di Giulietta che congedandoti ti suggeriva tre goccine di Valium. Fellini incontrò prima Pasqualina Pezzolla, in grado secondo lui di radiografare ogni male fisico e già in odore di santità ne rimase incantato. Poi vide zio Nardù, un sensitivo che si trasformava, a suo dire, in cavallo e a volte anche nel demonio scalpitando e nitrendo. Fatale fu l’incontro a Torino con Gustavo Rol, un insolito sensitivo e frequentatore dell’occulto, che mai potevi ridurre a questa sola dimensione. Era infatti un raffinato e colto piemontese laureato in biologia e anche un apprezzato antiquario. Un uomo molto alto, elegante, gli occhi di un blu cobalto scintillante, che definirà Federico un «essere completamente angelico». Mentre Fellini di lui dirà: «È l’essere più sconcertante che io abbia conosciuto. Sono talmente enormi le sue possibilità da superare anche l’altrui facoltà di stupirsene». Fellini lo vide più volte mutare aspetto, come trasformare a suo piacimento le carte da gioco e parlare con gli spiriti dei grandi del passato. Per me Rol, che avevo conosciuto bambina, era inquietante. Tutti ascoltavamo affascinati Fellini quando anticipava la storia di un suo nuovo film, persi nel racconto e curiosissimi di
capire quale singolare opera avrebbe partorito. Così dopo un giro in automobile e una cena all’Eur, Federico spiegò a mamma la trama. «È un film semplice: la storia di una signora borghese, Giulietta, che ha una bella villa a Fregene. Per l’anniversario del suo matrimonio con Giorgio, un marito brillante, invita gli amici per una festa e fa una seduta spiritica. Giulietta è una donna abitata dai fantasmi, sente le voci dell’oltretomba e ha il dubbio che il marito la tradisca. Il film in poche parole è lo svolgersi e il prendere forma di questi spiriti che la invadono senza sosta. Reagirà con l’aiuto di una psicoanalista, combattendo una vera e propria battaglia contro i suoi infiniti condizionamenti. Lotta anche contro una madre troppo bella, fin quando non ne infrange il mito. Tu impersonerai la madre. Quando il marito se ne va, lei non teme più nulla, ha ritrovato se stessa e la propria autonomia.» Mamma rabbrividì. Federico meditava dunque di lasciare Giulietta? «Ma che ti salta in mente, Caterinona, succede solo nel film!» Già, come poteva averlo pensato? Non erano forse una cosa sola? Tornò a casa emozionata e lieta di annunciarmi la bella notizia: aveva ragione Gherardi. Avrebbe avuto un ruolo importante. Ma il film, con il suo contesto da fiaba, non fu per nulla semplice. Fin dall’inizio ci fu una collaborazione meno intensa degli sceneggiatori al progetto, erano sempre i soliti Flaiano, Pinelli e Rondi. Ma bisognava far uscire Giulietta dall’ombra troppo invadente di Fellini-Zampanò, liquidare con leggerezza la sua educazione cattolica e borghese, di una scuola di suore, renderla capace di ribellarsi alla soggezione materna. Trasmetterle un’anima junghiana. Così almeno sarebbero spariti i fantasmi che la perseguitavano: uccidendo la madre invasiva. Caterina sulle prime pensò che Giulietta avesse iniziato anche lei a fare sedute di psicoanalisi, ma non era così, come si sarebbe liberata allora? Attraverso la catarsi di recitare se stessa? O
perché il marito alla fine se ne sarebbe andato lasciandola in grado di camminare sulle proprie gambe? Lei avrebbe invece dovuto interpretare una madre superbamente bella, anzi, doveva essere più bella che mai. Federico mi disse affettuosamente che avrei potuto andare sul set quando volevo. Lo feci per un certo tempo finché ero in vacanza, un po’ meno quando riprese la scuola. Mario Pisu faceva il marito, cioè Federico. Avevo lavorato con lui ne I grandi camaleonti, era un bravo attore e un uomo mite e simpatico. «Come marito sono un vero pezzo di merda. Mi metto la mascherina nera e i tappi per dormire, vedo appena mia moglie, la saluto quasi con distacco… credo che recitare tutto questo renda infelice Giulietta. Federico è un marito più empatico, non è questa sorta di Zampanò moderno e anaffettivo. Ma non ho modo di farglielo capire, sembra quasi che goda a dipingersi nel modo umanamente peggiore.» Ero felice del bellissimo ruolo che Federico aveva affidato a mia madre, anche se la trama mi apparve meno interessante di 8½, Giulietta mi sembrò un regalo che il regista faceva alla moglie, una sorta di risarcimento, e capii subito che avrebbe avuto qualcosa di eccessivo. Federico ci telefonava spesso e quando rispondevo io mi diceva: «Marina, mascalzona bella, buffoncella, fai la preziosa con me?» Scherzava, ma Gherardi, ormai un amico sincero, mi spiegò che con lui era molto meglio apparire e sparire piuttosto che trovarsi spesso al suo fianco. Insomma, per dirla alla Moretti, mi si notava di più se sul set non ci andavo. Seguirono altre cene a casa Fellini, dove anch’io venivo invitata, cambiavano gli ospiti, non l’atmosfera pesante, però man mano che Giulietta degli spiriti prendeva forma, sembravano attenuarsi fra i coniugi le liti. Certe volte uscendo da quella villa, mi pareva di aver fatto uno di quei brutti sogni
da non potermi più alzare, di avere le gambe pesanti come il piombo. Senz’altro si continuava a respirare un disagio diffuso. Cappelli ammirava Federico, ma al tempo stesso lo invidiava, perché possedeva tutto ciò che lui non aveva: il talento, il successo, il fascino. Di certo succedevano sempre stranezze, come quando una volta Federico all’improvviso ci salutò tutti, ci disse «Arrivederci a presto, amici carissimi!» e se ne andò a dormire. Io mi sforzavo di sorridere e assumere un tono leggero. Una sera, presenti Lucia e Guido Alberti, Salvato Cappelli pronunciò la frase fatidica che gelò tutto l’uditorio: «Niente è più eccitante che frequentare la moglie casta di un genio.» Guido Alberti ne rimase talmente scioccato da voler sfidare a duello Cappelli. «Come si permette questa sorta di cicisbeo a insultare Giulietta e Federico? Lo voglio vedere morto.» Federico abilmente cambiò subito discorso e chiese a mamma di spiegare a tutti chi fosse Gustavo Rol, visto che lo conoscevamo da anni, infatti il sensitivo si faceva curare nella clinica in collina costruita da mio nonno e poi ereditata da papà, la Sanatrix. Appoggiando le mani sul corpo dei malati, poteva fare delle diagnosi precise. Ma ciò non avveniva mai davanti a mio padre, che aveva in odio tutto ciò che non era più che scientifico. Chiese di andare a trovare Fausto Coppi nel pieno della sua fama, ricoverato da noi per la frattura della clavicola e operato da Achille Mario Dogliotti. Ne uscì visibilmente provato. Solo mia madre, insistendo molto, riuscì a farsi spiegare il motivo. «Vedo una vita tragica per un uomo così buono, il fratello Serse morirà presto. E anche lui.» Mamma nascose il vaticinio a tutti, soprattutto a mio padre, ma avvenne esattamente tutto ciò che aveva predetto. Gustavo Rol viveva a Torino in via Silvio Pellico e, ripeto, possedeva degli incredibili occhi blu-azzurri, sfavillanti e
scrutatori. Io lo temevo un po’. Da bambina fui sorpresa più volte da lui a mangiare di nascosto lo zuccotto al cioccolato in una antica pasticceria, da Pfatish. Non rivelò mai la cosa ai miei genitori. Solo a me ripeteva: «Fame di dolci, fame d’amore…» Era un grosso collezionista di cimeli napoleonici, anzi si vociferava che avesse come spirito-guida proprio Napoleone. Per quanto riguardava invece la materializzazione dei quadri di grandi impressionisti, di cui pure faceva collezione, pare che a guidarlo fosse un pittore francese morto nel 1895, François-Auguste Ravier. Rol aveva incontrato le più grandi personalità del secolo, da Mussolini a Hitler fino ai Kennedy, su tutti era però abbottonatissimo. Dopo averti fatto accomodare, poteva solo per amicizia portarti in un’altra dimensione o farti giochi di prestigio di alta magia, i più incredibili. Non solo sapeva far sparire le carte poste all’interno di un libro e poi farle riapparire in un altro, ma poteva anche spostare gli oggetti nella stanza senza toccarli. Era in grado di far materializzare un quadro di Renoir o di Chagall, più raramente un Picasso: la sua simpatia andava sempre e comunque agli Impressionisti. Da restarci senza parole. Era indubbiamente anche un veggente e un mago bianco. Gustavo Rol aveva anche visto in anticipo l’errore che mio padre aveva fatto a vendere la Sanatrix, la prestigiosa clinica fondata da mio nonno. Avendolo invitato a cena, su di un tovagliolo, aveva fatto comparire la perfetta firma del genitore che lo avvertiva: Stai per fare un’autentica corbelleria! Non vendere! Tuo padre Martino. Il prodigio avvenne nel ristorante della clinica davanti al cuoco Mabrito, a me e a mia madre. Niente riuscì a fermare mio padre. Mamma era rimasta legata a Rol, tramite gli amici Elsa e Nino Farina, il campione automobilistico, cui il sensitivo consigliava come impostare le gare sulle piste di tutto il mondo, tappa dopo tappa.
Quella sera mia madre raccontò, fra lo stupore generale, che Rol, da Torino, aveva fatto risorgere un cugino deceduto durante la Targa Florio a Palermo. Dato per morto da due medici diversi e mentre già era stata allestita la cerimonia funebre nella Cattedrale, mio padre vide il defunto sollevarsi piano piano dalla cassa, e le candele vibrare per il suo respiro improvviso. Gli amici intorno riuniti fecero appena in tempo a dire «Mai visto Franco con una così bella cera!» che rimasero senza parole. Il morto si era seduto nella bara e si guardava intorno disperato e stupito. Tanto che si era ridisteso, desiderando in cuor suo esser morto per sempre, poiché pur essendo un uomo di grande ingegno e fortuna economica, era sommamente infelice e anni dopo si suicidò gettandosi in mare. Rol ebbe a dire: «Ho potuto salvarlo una volta, non due! Decide sempre e solo Dio il nostro destino». Mi disse come il miracolo fosse stato ottenuto prevedendone la morte e supplicando la sua salvezza da Gesù. In seguito il cugino era completamente sfuggito alla sua vista e al suo potere. E immagino che, da fervente cattolico, avesse condannato il suo gesto estremo. Anni dopo mamma ebbe il sospetto che suo fratello non fosse morto fucilato con gli ufficiali italiani a Cefalonia nel settembre del 1943. Infatti sul settimanale «Oggi» era stata pubblicata la foto di un soldato italiano che gli somigliava molto, scattata in un campo di concentramento in Albania e perciò chiese a Rol se poteva essere lui. Il veggente sentì e fece sentire il grido del fratello Filiberto al momento della fucilazione avvenuta a Cefalonia proprio il 22 settembre del 1943. Mamma mi passò il telefono, non potendo sopportare questo ulteriore dolore. Fu un momento terribile quando, tra ripetuti ordini tedeschi, in mezzo al rimbombo delle mitragliatrici, udii quel vano e straziante grido, suo e di altri ufficiali: «Dio dove sei? Aiutaci!» Rol aveva la capacità di navigare nel tempo e aveva recuperato il dramma di Cefalonia.
«Mi perdoni, perché mi credesse ho dovuto riportarla a Cefalonia dove è morto il fratello. Fu una feroce strage e la si può accettare solo con una grande fede in Dio.» Ma Caterina aveva davvero tanti ricordi sul grande sensitivo. Una volta, ad esempio, era andata a fare una passeggiata in riva al Po, veramente lei non ci andava mai e non sapeva perché l’avesse fatto… tra l’altro era una triste giornata di pioggia, l’unica immagine che aveva conservato era quella di essersi trovata davanti a quella figura nera e imponente in riva al fiume e di aver balbettato un po’ spaventata: «Ah, anche lei qui, Rol?» Al che lui aveva risposto: «La vita è lunga e imprevedibile, non le consiglio di farlo!» «Di far cosa?» «Di fare la sciocchezza di buttarsi nel Po!» A Fregene, il Maestro non si sentiva molto libero di esprimersi, poiché si sentiva giudicato da Cappelli e Giulietta, che spesso si lanciavano ironiche occhiate di intesa. Dopo pochi giorni, Federico, incontrandoci in via Piemonte, ci portò a cena da Cesarina. Ci raccontò come aveva conosciuto la padrona del ristorante. Da giovane a Rimini era andato a mangiare da lei, ma era senza un soldo e non aveva potuto pagare. Era stato cacciato dalla burbera ostessa che dopo qualche giorno l’aveva poi incontrato in condizioni pietose e l’aveva invitato a servirsi nel suo ristorante di tutto ciò che desiderava. Per gratitudine, una volta diventato famoso, aveva voluto festeggiare l’uscita de La dolce vita proprio nel suo locale. L’aneddoto era vero o inventato lì per lì? Cesarina aveva mai avuto un locale a Rimini o era successo a Bologna? Ce lo chiedemmo senza aver mai cercato di appurare la verità, cosa sarebbe cambiato? Dopo aver afferrato un pezzettino di parmigiano ci raccontò di aver sfiorato con Rol una misteriosa forma di trascendenza.
«Non so, non capisco, sembra Fra Ginepro…» e raccontò del primo esperimento che chiameremo del Calamaio d’argento, fattogli dal sensitivo su di una scrivania dell’albergo Principi di Piemonte di Torino. Rol gli chiese di fissarlo e l’oggetto sparì. Poi domandò: «Quel signore laggiù ci sta guardando, lo conosci?» Fellini si girò, riguardò la scrivania e il calamaio era tornato al suo posto. Gli dissi che questo mi sembrava un banale gioco di prestigio che anche Silvan, il mago che papà chiamava per animare le mie feste di compleanno torinesi, poteva fare. Passò non convinto a parlarci dell’ammirazione che il sensitivo nutriva per Napoleone Bonaparte. Molti avevano pensato che dipendesse dal fatto che era nato il 5 maggio, invece Rol era del 20 giugno. Era un Gemelli in cuspide con il segno del Cancro. Tra i tanti cimeli che negli anni aveva accumulato, figurava anche la carrozza dorata con la quale Napoleone si recò a Milano per essere incoronato re d’Italia. Fellini gli chiese se fosse davvero Napoleone a renderlo capace dei più svariati fenomeni soprannaturali e lui gli rispose che una sua caratteristica era rimanere con i piedi ben piantati in terra. Ma ben presto il paranormale lasciò posto al racconto del suo recente viaggio in Russia. Ci fece morire dal ridere. Era un viaggiatore curiosissimo, Fellini sembrava portare sempre con sé un’invisibile cinepresa. «Cesarina!» chiamò. «Sai che sono stati i Russi gli inventori dei cappelletti?» «Boia d’un mond leder!» commentò, chiedendogli perché non avesse mangiato la solita noce beneaugurale. Allora Federico si fece servire noci e crocchette di patate, infatti amava cibi semplici, spaghetti al pomodoro e basilico, insalate condite con molto limone e senza aceto oppure ovoline di mozzarella e prosciutto. Dopo aver saputo che il merito dell’invenzione dei cappelletti era russo, Cesarina si era
ritirata avvilita in cucina, mentre il regista continuò a raccontare. «Caterina, Marina, sappiatelo… i russi non hanno inventato solo i cappelletti, ma anche il senso religioso. Tutto in Russia è imbevuto di religiosità. A Mosca ti senti ancora nel cuore di un mondo implacabilmente contadino, dove pende l’icona di Tolstoj. Se non sei dotato della pazienza russa non ne sopporti i riti.» «Lenti?» «Lentissimi, i pranzi, che allietano il Festival del cinema, durano quasi otto ore. Dopo ogni portata c’era un brindisi, preceduto da un discorso interminabile, poi toccavano il bicchiere dell’amico che aveva l’obbligo di restituire il tocco leggermente al di sotto del vetro, l’altro, a sua volta, sfiorerà ancora più giù, sembrava una gara spasmodica tra orli di bicchieri sempre più bassi e a poco a poco, si finiva ubriachi sul pavimento.» «Ma un vero russo vuol sempre andare ancora più giù…» Io e mamma lo ascoltavamo affascinate. «L’artista straniero è adorato e purtroppo c’è l’uso di baciarlo in bocca. Ti sembra di cenare con dei mafiosi. Funzionari di stato, scrittori, poeti, pittori, non si placano fin quando non ti hanno inoculato un po’ della loro saliva…» Aggiunse che, per non premiare 8½ che non piaceva all’apparato, cercarono di persuaderlo a ritirarlo dal Festival con questo sfibrante sistema. «Sbucò da non so dove un regista allineato ai dettami del regime, un certo Gerasimov, che mi portò in giro per Mosca tutta la notte, ogni tanto mi faceva scendere e mi mostrava qualche meraviglia della città. L’Università, lo stadio, un grattacielo, un istituto per le autopsie. L’interprete affannato mi spiegava che lì, prima del regime, non c’era che fame, miseria, analfabetismo, sifilide. Ero congelato e sentivo venir meno le forze. Un’altra infernale fatica fu un interminabile ricevimento al settimo piano dell’Hotel Moskva.»
L’astronauta Titov e il poeta Evtušenko gli si erano avvicinati per riempirlo di complimenti e dargli grandi pacche sulle spalle, il pubblico si era alzato ad applaudire, sfrenato ed entusiasta. «Si levava intanto l’alba e Gerasimov, quasi non più consapevole di parlare con un italiano, aveva preso a parlare fitto fitto in russo. Mi disse che il popolo russo, abituato a cose sicure, certe, temeva un film come il mio, bellissimo ma slegato, sconcertante, senza capo né coda, moralmente nocivo… mentre Gerasimov parlava mi abbracciava singhiozzando, rimpiangendo, sembrava, la miseria passata, ero sfinito, infelice e sconcertato. Ma gli amici mi esortavano a tener duro e finirono per andare al Cremlino da Krusciov, supplicandolo di darmi il premio. Krusciov chiamò il ministro della Cultura, l’implacabile Ekaterina Furceva, che ordinò bestemmiando che mi fosse dato il premio e che della cosa non se ne parlasse più.» A fine cena, io e mamma eravamo sotto il tavolo per il gran ridere, anche se Federico si dimenticò di dirci che doveva quel premio alle intemperanze di un comunista non allineato: Sergio Amidei. Lo sceneggiatore, come mi confessò lui stesso anni dopo, aveva abbandonato i lavori della giuria terrorizzando i sovietici e gridando: «Se un film viene ritenuto un capolavoro a New York, figuriamoci a Mosca! Quali dubbi avete ancora?» Federico avrebbe iniziato presto la lavorazione di Giulietta degli spiriti. Ci accomiatammo controvoglia dopo una serata di allegria e festa. Succedeva sempre così con lui, separandoti dopo aver condiviso la festa della sua ironia, ti sembrava di perdere anche una parte di te stesso. «Verrai a trovarmi sul set?» «Verrò!» «Promesso?» «Promesso.»
Mi ha sorriso. «Bella anzi, indimenticabile serata!» «Anche per me.» «Vi voglio bene!» Ho cominciato a provare una strana sensazione quella sera, ripensavo a un sogno recente: facevo il numero dell’ufficio di Federico e lui non rispondeva, insistevo ma il numero suonava a vuoto. Perché angosciarmi? In fondo era solo uno stupido sogno. Eppure mi capitava sovente di avere delle anticipazioni. Tristi pensieri continuavano a frenare la mia gioia. La situazione a Fregene rimaneva stabile. Non si capiva se Salvato Cappelli migliorava o peggiorava il rapporto fra Giulietta e Federico. Comunque, le disfunzioni dell’uno e dell’altra erano in qualche modo funzionali alla coppia, e gran parte di quel caos familiare si placò quando padre Arpa, a un certo punto, prese in mano la situazione. Si mangiava bene a casa Fellini, ma Giulietta, malgrado i complimenti sperticati e a volte eccessivi dei commensali, era sempre in ritardo sulla preparazione dei piatti. La sua pasta e fagioli era ottima, lo sosteneva anche Mastroianni. Poi le si perdonavano molte cose, visto che sembrava voler guarire dalla sua solitudine e tornare davanti alla macchina da presa in perfetta forma. Per dire la verità, anche se Cappelli era considerato un arrivista, lui e Giulietta si facevano buona compagnia. Sarà lui a spingerla a inaugurare una rubrica radiofonica, Lettere aperte a Giulietta Masina, a lavorare per «La Stampa» e a farla recitare scrivendo a sua misura degli sceneggiati per la televisione. In qualche modo, Salvato era dalla parte di Giulietta più di quanto lo fosse Fellini. Giulietta coltivò tutta la vita un ambizioso progetto: interpretare un film sulla vita di santa Francesca Cabrini, ma, malgrado a questo copione avesse dato tutto il suo cuore, non vi riuscì.
Non si sentiva più parlare di Riccardo, il fratello di Federico. A sentire Giulietta, dava “autentiche sòle», firmava assegni col nome del fratello. Un giorno ci chiamò proprio lui dicendoci che aveva esordito come regista in Storie sulla sabbia, ma solo Giuseppe Marotta, fra tanti critici, aveva scritto una recensione favorevole. Federico gli aveva chiesto di cambiare cognome, per non creare ambiguità. Lui parlava con grande rispetto del fratello e un po’ lo temeva. Sì, decisamente era singolare, ma tra fratelli talvolta per gelosie segrete possono scoppiare conflitti feroci e incontrollabili. Così Riccardo venne a pranzo da noi. Mia madre, che aveva un sesto senso nei rapporti interpersonali, lo consigliò di continuare a fare l’attore, ma lui disse che non era più una strada per lui praticabile, aveva sempre meno proposte e doveva pur vivere. A chiamarlo come interprete in ruoli di spicco non c’era che il geniale Marco Ferreri. In seguito, essendo un uomo mite e sconfitto, prese l’abitudine di venire da noi per parlare dei suoi documentari girati per la Rai, ma a volte veniva solo per sfogarsi e stare in compagnia di persone amiche. Gli volevamo bene. Era un Fellini dimezzato nel vero senso della parola, piccolo tanto quanto Federico era alto, ma piacevolissimo. La somiglianza del volto era impressionante e l’affabilità forse maggiore. «Ti volevo conoscere Caterina, sei così bella e hai un’aria così buona, tornerò perché vivo fra mille disagi, ho anche una figlia con seri problemi di salute. So che hai perso un fratello a Cefalonia e ho scritto una sceneggiatura che devi leggere sull’eccidio, te la lascio e tornerò per sapere cosa ne pensi.» Ne fummo toccate profondamente e mamma tentò in ogni modo di ripristinare un contatto fra i fratelli, raccontando a Federico che casualmente si erano incontrati per strada e che Riccardo le aveva spedito questo copione bellissimo, un film di guerra e di dolore su Cefalonia. Si sentiva investita da qualcosa che la riguardava profondamente, ma Federico non
tornava mai sui propri passi. Poteva anzi manifestare una sottile crudeltà. Perché il progetto su Cefalonia prendesse forma, Riccardo avrebbe avuto bisogno di una spinta istituzionale o politica, magari dall’amico del fratello Giulio Andreotti con cui si sentiva quasi quotidianamente. Anche se Caterina dubitava che la Rai avrebbe mai osato sfiorare quella atroce pagina sull’abbandono dell’esercito italiano dopo l’8 settembre. Quando scriveva a qualcuno di far luce su quell’immane tragedia, riceveva sempre risposte vaghe. Era una vicenda che l’Italia aveva cercato di insabbiare e dimenticare. L’inferno di Cefalonia era toccato solo ai poveri soldati che pensavano di trovarsi al sicuro in quell’isola dell’Egeo e invece erano stati crudelmente sterminati dai nazisti. Il copione di Riccardo era davvero notevole, ma rischiava di rimanere un progetto sulla carta. E così fu. Quando furono letti i diari alla morte del maestro, scoprimmo che Riccardino era stato il figlio più amato in famiglia, il più bello e atletico. Federico aveva sempre sofferto di una sorta di gelosia retroattiva nei suoi confronti. Ma ormai era tardi per tutto, non si poteva più ricomporre alcun tassello delle loro vite. Una cosa era certa: il Genio, a Fregene, aveva spesso la fronte aggrottata, parlava meno del solito, era pensieroso. Capace di mettersi a leggere per cinque minuti un saggio di psicologia junghiana o scorrere «il Messaggero», o magari sfogliare Viaggio in America di Kafka, oppure Le libere donne di Magliano di Tobino o la cronaca di qualche processo. Ma era agguantato dalla noia. Abbandonava il divano all’improvviso e chiedeva quasi supplicando: «Chi viene a fare un giretto con me in giardino? Vieni tu, Marinotta?» Di solito mi afferrava con la sua manona. Era come se all’improvviso volesse sfogare una certa sua intollerabilità
verso i discorsi di Salvato Cappelli o mettersi in salvo da segreti lacci e tagliole. «La cosa più piacevole a Fregene è il fresco…» esordiva vago Federico, era un po’ preoccupato dell’intesa tra Giulietta e Cappelli. «Dentro casa mi pareva di soffocare, mi annoio così grandemente a sentire parlare gli altri di fatti mondani, in maniera vaga e al tempo stesso assoluta. Ognuno crede di essere il più forte, di avere una certa sovranità, non siamo niente tutti. La perpetua girandola della paura della morte affiora sempre, non credi? C’è un modo di rendere il male di vivere più tollerabile, non credi?» In realtà lo annoiava la vita sociale con la sua cortina di buone maniere, il tipico salotto romano. Insomma tutto ciò che era un vago parlottio, al contrario, i pettegolezzi lo incuriosivano. Federico era un rapace, piombava nella tua intimità in maniera così veloce che, quando cominciavi a difenderti, era già tardi. Con il tempo imparai che il suo era un metodo artistico per saggiare le tue reazioni. Cercava sempre di annullare la distanza, di trasformarla in qualche tipo di attrazione reciproca. Momenti di fascino o di rifiuto che si riflettevano sul fondale di una camera oscura. Si trattava sempre di cinema. Quella del ritrattista era una sua vocazione innata, d’altronde. Sfidava la sua naturale indolenza delle cose e delle persone, costringendoti a scoprirne l’essenza più misteriosa e rara. «Giulietta degli spiriti avrà la naturale cadenza del sogno e della favola». Le facciate delle villette che ci circondavano erano buie e sopra di noi le chiome degli alberi erano così folte che a stento lasciavano filtrare i raggi della luna. Oggi mi rammarico di averlo a volte abbandonato solo in giardino, rientrando velocemente in casa, per non offendere Giulietta, attardandomi in chiacchiere che non erano mai futili con lui.
17 I demoni
Salvato, in quel periodo, forse anche in preda a una certa mitomania, comprava cascine, titoli in borsa, apriva giornali che subito dopo fallivano. Ero sinceramente preoccupata anche io di quanto poco il Maestro si occupasse degli investimenti finanziari di Giulietta, distratta per fortuna dalla sua grande arte e tutta intenta a studiare il suo ruolo. Meditai sulla nascita sventurata di molti dei suoi film: Luci del varietà, che fu considerato a lungo un fiasco, Lo sceicco bianco, un filmetto, e I vitelloni, una commedia amara che nessuno voleva distribuire. Tutti dopo il successo della Dolce vita vennero osannati dalla critica. Di Sordi obiettavano che facesse scappare la gente e risultasse antipatico, anche se Fellini ogni volta sbottava: «Non l’ho preso perché simpatico!» Una sera spiegò a Caterina: «Con i miei due ultimi film, sono divenuto prigioniero di me stesso, ostaggio di tutti, devo andare verso Giulietta». «Intendi dire verso i suoi demoni?» «Sì, perché, in qualche modo, sono anche i miei! O no? Comunque Giulietta degli spiriti, sarà una cavalcata festosa.» Sulla cavalcata festosa nutrivamo qualche dubbio, come sul fatto che quelli fossero i demoni di Giulietta. Era una donna molto semplice, un po’ infantile, ma Fellini, ormai considerato il Mago, sarebbe stato capace di altri sublimi incanti e favole.
Giulietta era comunque lo specchio in cui il regista voleva guardarsi, un’impresa difficile, perché le aveva sempre fatto interpretare creature molto lontane da lei, donne emarginate e clownesche, che parevano nate direttamente dal suo grembo come Gelsomina e Cabiria. Personaggi a cui Federico era legatissimo. E capivamo che separarsi dalla moglie avrebbe voluto dire separarsi dalle sue creature, dai suoi unici figli. Impossibile. Dopo La strada era stato malissimo. Per la sua identificazione con Zampanò, o per aver capito che Giulietta aveva preso una sbandata per Richard Basehart, che lei aveva creduto un uomo poetico, simile al personaggio del Matto? Forse fu attratta dalla malinconia romantica che aveva il grande attore, ferito nel profondo per aver trascorso in un orfanatrofio gran parte dell’infanzia. Era un privilegio vedere nascere un film del Maestro, chiaro che non sceglieva gli attori, per la loro bravura come faceva Orson Welles. Essendo al tempo stesso un viaggio e un work in progress, quando girava una scena e si accorgeva che era superata, faceva dire agli attori i numeri, per riscrivere poi liberamente i dialoghi appropriati. Decideva solo in fase di doppiaggio e al montaggio cosa mettere o non mettere in bocca ai personaggi. Li osservava durante le pause tra un ciak e l’altro e li sceglieva per un ruolo diverso. A Caterina, consegnando una paginetta mentre mangiava distrattamente, Fellini disse: «La madre di Giulietta è un personaggio tuo, calati dentro con sicurezza, proprio come fai indossando gli abiti leggiadri di Piero. Sei stata una signora della buona società torinese, no? Tu sospetti che questa madre sia un po’ stronza, io la vedo più come una madre castrante». Sapeva come parlare a tutti e gli bastavano pochissime parole per farsi intendere. Mamma non immaginò mai di essere stata scelta per recitare un’ipertrofica se stessa.
Fellini soffriva la popolarità, si sentiva accerchiato, intravedeva a volte la trama di una congiura, confondendo fra pettegoli che venivano a spiarlo e ammiratori che piombavano sul set da tutto il mondo. «Marina, chi è quel tizio laggiù in fondo? T’informi e mi dici che ci fa qui?» mi chiedeva all’improvviso durante la lavorazione di un film. La sua capigliatura, un tempo foltissima, era diradata e poi quasi del tutto sparita, capitava d’incontrarci dal tricologo inglese Goodman, andando l’uno all’insaputa dell’altro. Cercava, oltre che una magica pozione, di mettere ordine nel suo universo personale così confuso. E naturalmente pensava alla propria evoluzione artistica, rendendosi conto che il tempo stringeva e doveva governare l’ansia del futuro. Sembrava che non gli importasse nulla dei premi e dei giudizi. Era generosissimo. Giulietta, più economa, dava a Federico una paghetta giornaliera che lui facilmente disperdeva tra i primi questuanti che incontrava, poveri o folli. Mentre aspettava la macchina che lo portasse a Cinecittà, a piazza del Popolo di solito aveva già dilapidato con degli avventori bisognosi il suo piccolo capitale di diecimila lire. A quel punto chiedeva soldi al primo amico che incontrava. «Mi presteresti qualche soldino?» Lo incontravo spesso nella libreria Feltrinelli di via del Babuino, era un lettore onnivoro, ma fingeva di non leggere nulla, forse per tenere lontano critici e scrittori in cerca di prefazioni o raccomandazioni. Facevo due passi con lui e a quel punto mi chiedeva qualche spicciolo per un taxi magari per accompagnarmi verso i Parioli, dove ridendo mi parlava di una bella signora che lo aspettava lì vicino. La Donna Misteriosa esisteva realmente. «No, io continuo verso via Lima!» diceva al tassista, avvolgendo il nome di quella strada in un fitto mistero. Quale Signora andava a incontrare in via Lima?
Comunque trovavo buffo che il grande Fellini avesse sempre pochi soldi in tasca. Lui non se ne lamentava. Andava al cinema da solo, magari per dieci minuti, un quarto d’ora, Alfred Hitchcock, Akira Kurosawa, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, appena capiva dove andava a parare il film usciva. Con Visconti, poi, milanese e aristocratico, il romagnolo-romano Fellini ebbe una continua rivalità. Si rubavano gli attori, i tecnici, i costumisti, gli operatori a vicenda. Una differenza fondamentale tra loro era che Visconti prendeva spunto dalla grande storia, da eroi aristocratici in caduta libera o dalla denuncia dello sfruttamento delle classi popolari. Fellini era invece un caricaturista visionario che faceva largo uso dell’introspezione onirica. Il commiato dalla vita stranamente li accomunò: furono colpiti entrambi da un ictus all’emisfero destro. Visconti non ebbe però nemmeno un Oscar, Federico fu più bravo e forse fortunato, ne conquistò cinque. Sia Visconti, che pretendeva sul set un perfezionismo addirittura maniacale, che Fellini, che più confusione e rumore aveva intorno e più si esaltava, furono due accaniti fumatori, quattro pacchetti Visconti, due Fellini. Solo che Federico, spaventato da una seria insufficienza respiratoria e circolatoria, a un certo punto ebbe l’accortezza di smettere. Faceva ancora sonni agitati, preoccupato dal suo primo film a colori sulla crisi troppo personale di un matrimonio, e in sogno si vide asportare l’occhio destro con un cucchiaino, un sogno molto surrealista, pensai, in un altro era accucciato all’interno di una caverna e partoriva tanti cuccioli come una cagna. «Un bel sogno», cercai di rincuorarlo. «Be’, meglio che restare intrappolato come un topo in un barattolo di automobile!» Gli sembrò di buon auspicio per il suo futuro, ma la cervicalgia non gli dava pace, continuava le sue sedute dalla
De Vecchi, insieme all’agopuntura. Giulietta si lamentava. «Ninì, quando t’addormi russi, e parli pure nel sonno.» Federico sul film in cantiere, su cui aleggiava al solito grande segretezza, disse che la moglie sarebbe stata la protagonista assoluta e questo pareva averla tranquillizzata e doveva dire grazie ai benefici effetti delle Terme di Chianciano. Dalla cura delle acque erano tornati entrambi in gran forma e dimagriti. A Federico il vestito nero cadeva addosso. Il suo massaggiatore, Ettore Bevilacqua, diceva che era tutto merito suo. «Che gli faccio? Be’, il Faro prima lo massaggio ben bene, poi lo metto nel fornetto, una botte dorata, da cui può tenere fuori solo la testa e i piedi, mentre lo riempio di fumo e di calore.» Fellini di certo amava sottoporsi a quella sorta di supplizi medievali, purché qualcuno si occupasse di lui e del suo benessere, tornava il bambino accudito e amato che desiderava essere. Avanzai qualche dubbio che i fornetti gli facessero bene, era come sottoporsi a una continua sauna e forse non erano l’ideale per il suo cuore. Ettore era un tipo incredibile, allenatore di pugilato e caratterista in cento film. Mentre l’aiuto regista Maurizio Mein gli girava le scene acrobatiche più difficili. Se Fellini si teneva in forma con i massaggi e la sauna, Salvato Cappelli, detto l’Ortolano, perché gli piaceva occuparsi nel giardino della villetta di Fregene, lo vedevi fare le flessioni la domenica mattina nel prato, insieme al compagno di Anna Salvatore, Harrison, pelato come un bonzo, in chimono rosso. Federico preferiva giocare a cavalluccio portando Anna Salvatore in spalla e vorticando felice per il giardino, tutta questa attività sportiva avveniva sotto gli occhi di Lucia Alberti, io mai vidi simili scene da un matrimonio.
A proposito, Fellini del matrimonio aveva questa idea: «Fin da bambini ci hanno abituati alla favola che termina con “si sposarono e vissero felici e contenti”. L’errore dell’educazione tradizionalista è scambiare il primo capitolo per la conclusione del libro. Tutti affrontiamo la vita coniugale profondamente impreparati, perché l’atto viene mitizzato, raccontato in maniera traditrice, diventa un catalizzatore di delusioni, di pensieri funesti e nevrosi. Nei miei film ho narrato quasi sempre scene da un matrimonio: Luci del varietà, Lo sceicco bianco, I vitelloni, Agenzia matrimoniale, La strada e anche La dolce vita. Perché? Perché è l’esperienza che conosco meglio. C’è qualcosa di eterno, di necessario nell’unione di due esseri. Ma da come lo si considera ancora oggi è la legalizzazione di tendenze oscure, quasi la caricatura e la degenerazione di un rapporto più complesso. Non bisognerebbe dare nulla per scontato, mai sedersi su di un matrimonio. Lo scopo più alto, occorre ricordarlo sempre, è realizzare una vera unione». Eppure lui per primo non l’aveva fatto! Diceva queste cose a tavola e Giulietta lo guardava torva, ma per fortuna si era del tutto spenta la smania di insultarlo, aveva assunto un atteggiamento più sereno e positivo, pronta a mettere tutte le sue energie nel nuovo film, anche perché Federico sembrava parlare solo di questo. Non erano mai invitati insieme a noi Sandra Milo, Moris Ergas e Anna Salvatore e credo che questo salvò i nostri rapporti. Con loro Giulietta e Federico evocavano gli spiriti, cosa a cui mamma era assolutamente estranea, anzi per lei le sedute spiritiche non andavano proprio fatte, non si devono destare i morti da quel sonno che ai viventi pare irrevocabile. Lucia Alberti ci spiegò come avvenivano grazie al solito tavolino a tre gambe. Nel buio più completo si accendevano le candele, Giulietta, Salvato, Sandra e Federico formavano, congiungendo le dita una catena d’amore. Poiché si volevano bene, lo spirito guida sarebbe giunto confortante.
Federico evocava lo spirito e il tavolo prendeva a oscillare fortemente, potevano anche essere avvolti da una corrente d’aria fredda che spegneva tutte le candele, allora e solo allora il regista era in grado di scacciare lo spirito malefico. Le luci venivano riaccese all’improvviso, veniva bruciato dell’incenso e fatto il segno della croce sul tavolo. «Sono convinta che tutto ciò sprigioni grandi energie negative!» notò saggiamente Caterina. Stranamente anche la «maga» per antonomasia Lucia Alberti era d’accordo, secondo lei gli spiriti potevano vendicarsi, «soprattutto alcuni gnomi». Dunque esistevano anche loro? Gli gnomi? Mi sembrò d’un tratto di non sentire più la terra sotto i piedi e di precipitare in un universo assurdo e un po’ irreale. Il regista disse che tre quarti dei matrimoni italiani erano come quello rappresentato nel suo film: «Il marito che torna a casa e non parla, la moglie che abbassa gli occhi infelice e risentita. Esigere dagli altri una fedeltà a noi stessi è una mostruosità, un pensiero antireligioso. L’unica fedeltà vera è quella a se stessi e al proprio destino nel rispetto assoluto di ogni individualità. Lo so che la morale corrente, le leggi, sono spesso fondati su concetti antitetici ma non ho neppure dubbi che tutto debba cambiare». E infatti oggi è tutto cambiato con il divorzio. Ma allora in Matteo, 19, 3-6 la legge di Cristo prescrive l’esatto contrario. Ai farisei che volevano metterlo alla prova Gesù aveva detto che all’inizio il Creatore, li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Non sono più due, ma una carne sola. Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non separi. Per un cattolico vero simili parole non valgono dunque più?
18 Capire Giulietta Masina
Io studiavo il buffo e cangiante carattere di Giulietta, mai simile a quella che avevi incontrato solo una settimana prima e la compresi meglio anni dopo, quando conobbi Elsa Morante. A prima vista sembravano diversissime. Ma Giulietta ed Elsa scontavano lo stesso problema, quasi un demone masochista, non essersi potute realizzare nella maternità, sempre evocata e rimpianta o rinnegata. Lasciamo parlare Garboli. I romanzi della Morante appartengono quasi meno alla psicologia che alla biologia, e descrivono un percorso insieme veggente e cieco, una terribile e coerente fuga di specchi in un luogo buio. I libri della Morante sarebbero, sempre secondo il critico, la stupefacente metamorfosi del loro autore. Anche Giulietta si ripensa, si riforma, rinasce diversa spesso artisticamente. Se la Morante viveva isolata in compagnia dei suoi gatti, agli albori del ’68, ruppe il suo gioco segreto e si mescolò al mondo, scrivendo Il mondo salvato dai ragazzini, dice sempre Garboli. S’immaginò come un vate, un maestro. E anche per Giulietta esisteva questo infinito bisogno di maternità, seppure ferita. Una si chiedeva: «Ma questo lo farebbe Federichino?» E l’altra: «Ma cosa farebbe in tal caso, Useppe?» Erano domande strazianti su due oggetti-figli, il primo un bimbo morto, il secondo un personaggio di pura invenzione. Erano state due donne molto privilegiate, una aveva incontrato Alberto Moravia, l’autore de Gli indifferenti, l’altra
Federico Fellini. Due uomini che permettono loro di abbandonarsi alla propria vocazione, di oziare e di sognare, ma anche di esprimersi ai massimi livelli, una come attrice, l’altra come scrittrice. Una scrive Menzogna e sortilegio, l’altra impersona Gelsomina ne La strada. Una interpretazione da Oscar. Si poteva essere scrittrici o attrici più grandi di così? Due opere al tempo stesso favolose e realistiche. La Morante avanza favoleggiando da una profondità remota, racconta l’infima borghesia, cancella quasi il tempo. Anche Gelsomina usciva fuori dal buio, testimoniando della disperazione degli ultimi. Nella vita dipingono entrambe una tela lacerata e dolorosa. «La mia colpa? Non essere mai amata, non avere amici, non essere felice.» Proprio come Giulietta, che quando stava male arrivava a pensare di annullarsi e morire. Uomini o due figli, Moravia e Fellini? Non mi addentro, di certo, in personaggi così complessi con i quali entrambe debbono fare i conti. Moravia abbandona nel 1963 il tetto coniugale per convivere con una donna più giovane, Dacia Maraini. Fellini resiste imperterrito su una roccaforte mitragliata. Poi entrambe incontrano due infauste stelle, una il pittore Bill Morrow, l’altra l’attore Richard Basehart. Entrambe sono le figlie di due maestre e sono molto cattoliche. Soprattutto Elsa che citava interi passi biblici o evangelici a memoria e per questo non concesse mai il divorzio a Moravia. Non essere diventate madri era una ferita, una carenza, quasi una lesione della femminilità. Ma erano riuscite a essere materne nei riguardi delle altre donne? La Morante non le amava e Giulietta forse un po’ le disprezzava. Elsa si identificava soprattutto nei giovani fanciulli e Giulietta negli uomini tout court. Difficilmente le sentivo parlar bene di qualche donna di cultura, preferivano le analfabete. Elsa gli omosessuali. Ma quando montava la loro rabbia, potevano trasformarsi in un ciclone. Salvo che proprio nel bellissimo Aracoeli, Elsa scoprirà che non c’è maternità che basti a legittimare il mondo, ma cosa può mai sostituirla allora? Nulla! Così anche tra madre e figlio
nel romanzo si estende un arido deserto e il figlio viene riavvolto nella placenta, come ingoiato. L’unica grande differenza con Giulietta era che Elsa non aveva alcuna velleità di dimostrarsi una brava cuoca, amava però frequentare buoni ristoranti e l’infelicità esistenziale era la stessa. Per Fellini la moglie fu senz’altro uno spunto essenziale alla sua inventiva, e per Moravia fu lo stesso, anche se mi confidò di essere sottoposto quotidianamente e crudelmente alla severa critica della moglie che si sedeva sulla scrivania per ricordargli ogni mattina che scriveva romanzi indigeribili e pesanti come il calcestruzzo. Ma alcuni inferni coniugali sono anche benefici. Attraverso Gelsomina e la sua eterna infanzia e il suo sacrificio, Federico ebbe accesso a un’illuminazione, al trasalimento della propria coscienza. Scoprì con Zampanò le sue zone d’ombra. Prima ne fu spaventato, poi ne prese coscienza e le accettò. E si rialzò da una mortale depressione. Perché appena terminata La strada stette malissimo ed ebbe uno scivolone. Comprese ancor meglio, un anno dopo, che la cosa giusta era appoggiarsi a una psicoterapia e dopo Servadio raccontava la favola di essersi trovato in tasca il numero di Ernst Bernhard, pensando che fosse quello di una bella ragazza. Federico sapeva bene perché Giulietta era insofferente verso di lui, era stufa di essere considerata solo una moglie e una cuoca, una donna trascurata sessualmente. Lo capiva dal suo tono depresso, piatto come un’asse da stiro. Pare che da un po’ di tempo lo facesse anche pedinare. Ogni tanto, davvero sopravvalutando le mie facoltà di sensitiva, mi chiedeva se percepivo che potesse accadere qualcosa di grave a Giulietta. Lo tranquillizzavo e mi domandavo perché sempre immaginasse la tragedia aleggiare non su di sé, bensì sulla moglie. Desiderio di liberarsene? O
vero terrore che le succedesse qualcosa di brutto? O entrambe le cose? Nessuno sapeva perché si fosse spezzato il rapporto fra i due e quando ciò fosse successo, forse otto o nove anni prima con la morte di Pier Federico, il loro primo e unico figlio, il dramma non li aveva aiutati a capirsi meglio. Da quel dolore Giulietta non si rialzò più. A lei faceva male essere ancora giovane ma non più viva, non più la Giulietta di cui Federico si era innamorato, quando l’aveva scoperta allegra, un peperino e piena di vita. Giulietta e Federico, quando si sposarono il 31 ottobre 1943, avevano vissuto tutti gli effetti devastanti della guerra, su Roma, come canta De Gregori cadevano le bombe come neve. Dopo il primo bombardamento del luglio del ‘43, Roma fu colpita dagli alleati altre 51 volte. Quando andarono a nozze erano due giovani poco più che ventenni, lei ne aveva ventidue, lui ventitrè, pieni di sogni, illusioni e speranze. «Sai avevo il viso arrossato dai suoi baci! Volevo fare tutto e di tutto per renderlo felice! Allora mi amava», mi rivelò una sera, facendomi conoscere un Federico che non riuscivo a immaginare: come mai la loro intesa sessuale era finita così presto? A quanto pare Giulietta aveva affrontato circostanze e drammi che superavano la sua capacità di incassare tutto col sorriso. Si sarà sentita mortificata e ferita dalle bugie che Federico gli raccontava a getto continuo, per essere libero di vivere le curiosità e le esperienze erotiche di un adolescente in ritardo anagrafico. Era come se i tradimenti del marito l’avessero chetata, comunque il Maestro non l’avrebbe mai lasciata. Questo si sapeva. A volte un matrimonio diventa come calpestare un tappeto di macerie, frammenti di stanchezza e disperazione, un terreno arido e su cui si cammina a stento, ossa, calcinacci… dove scompaiono l’allegria, la vita, il piacere e la bellezza. Tutto viene come ingoiato da un grande mare insondabile. Vengono
meno anche i ricordi. Ci sono persone che con la loro sola esistenza e per sommo narcisismo occupano troppo spazio, e soffocano l’altro. Immagino che Federico fosse una di queste. «Tu sai di essere veramente la mia vita», gli scriverà cinquant’anni dopo, il 31 ottobre del 1993, rinnovando la festa di averla conosciuta e amata. Che grande e misterioso miracolo è stata in qualche modo, la loro storia! Ma anche che pastrocchio! Non dimenticherò mai quando Giulietta, seduta davanti a me in uno stanco pomeriggio inoltrato, confessò con parole terribili quanto aveva saputo da chi pedinava il marito. «C’ha ’n’artra sai,’na carciofa, ’na pantegana!» «È brutta?» chiesi, pensando a chi mai potesse essere l’intrusa. Forse Anna Salvatore che lei considerava una vera amica? «Be’… bella non è! Ho visto la foto, è grassa.» «Ma ti vuole così bene da scrivere un film solo per te, che t’importa?» «Le costa e le costerà sempre di più, ’sta carciofa.» Dopo essersi sfogata con l’amarezza che le scintillava negli occhi ed essere tornata a tavola, diventava più dolce. Divertentissima. «Che te so’ sembrati sti funghetti al sughetto con la cipolla?» «Molto buoni!» «E che aspetti? Non fai la zuppetta?» Mi affrettai a intingere il pane nel sugo del piatto, pensando quanto fosse vitale questo esserino che pareva giocarsi la sua stessa sopravvivenza ai fornelli, quasi per esistere anche come moglie. L’amante di Fellini, la carciofa-pantegana, non la conoscevo, ma un radar mi avrebbe condotto da lei come vi racconterò più avanti, dimostrando quelle doti da sensitiva che stupirono nel 1975 anche Alberto Moravia.
Era ormai stata archiviata la famosa Lea Giacomini di San Marino, definita da Federico Chiappe Gloriose e incontrata a piazzale delle Muse splendente e sotto la pioggia, mentre usciva da una seduta con Servadio. L’incontro avvenne durante il periodo di depressione subito dopo La strada, ma era stata una storia breve simile a quella con la disturbata Emma celebrata ne La dolce vita. Lea era ormai rinchiusa nel manicomio di Imola, pare che il regista ci facesse litigate furibonde e che nell’ultima, per poco, lei non gli avesse distrutto l’automobile con il cric. Tanto lui aveva una tattica apparentemente vincente, attraverso un racconto serrato, negava, negava sempre. Mentre il primo amore di Federico, quello per Bianca Soriano, detta Bianchina, era stato davvero una passione, subito troncata dall’oppressiva mamma Ida. La storia con questa dolce fidanzatina, resa ancora più drammatica dal suicidio del marito pittore di lei, diventò nel tempo anche straziante. Tanto per regalare a Fellini un senso di colpa in più. Ero ormai convinta di una cosa: il linguaggio fin troppo realistico di Giulietta era in qualche modo terapeutico per il poeta e sognatore Fellini. Potevano a volte sembrare due estranei, costretti dal destino a dormire nello stesso letto. Ma Giulietta era la sua realtà e finalmente Federico l’avrebbe fronteggiata in un film chiarificatore. D’altra parte, il regista diceva spesso che non era capace di amare nessuna donna nel segno dell’assoluto e di tradirle sempre tutte. Come già Casanova, sosteneva che essere fedele a una sola donna voleva dire essere infedele a tutte le altre! Non si poteva dunque prendere troppo sul serio qualche sua passioncella. Giulietta aveva una funzione: di riportarlo con i piedi a terra. Avrebbe dovuto comprendere che si era sposata con un traditore seriale, ma, in qualche modo fedele al primo «sì». In questa contraddizione Federico assomigliava a Marcello
Mastroianni. Giulietta degli spiriti fu in un certo senso l’inizio di una terapia di coppia fra i due. Fra loro si era inserita da tempo la pittrice Anna Salvatore che, tra un fantasma e l’altro, da protofemminista, dopo aver affrontato la tartufaggine di Salvato Cappelli, aveva chiesto più libertà e autonomia per sé e Federico. Anna accusò Giulietta di essere una piccoloborghese, mentre lei si librava tra visioni antropomorfiche di Dio, pilotata da migliaia di spiriti guida. Ma perché, perché? Che inferno perenne per Federico, pensai. Sicuramente fu padre Arpa a far ragionare Giulietta, dicendole che questa guerra incruenta non sarebbe servita né a lei né a lui. Per Federico non c’era pace, se ne era innamorata anche Sandra Milo. La sua vita rischiava di divenire un caos ingestibile come quello di 8½. Lo vedevo avanzare come un equilibrista che ama il brivido della catastrofe incombente, simile all’Herman Broder, il protagonista di Nemici di Singer. Ci ritrovammo ancora a casa Fellini. Quella sera gustammo le famose polpette della Masina, l’eccesso di mollica di pane sulla carne era occultato da molto aglio, comunque il profumo era fantastico. Giulietta si muoveva in fretta e a passo di danza, i tacchetti ritmavano sul pavimento un foxtrot, con un abitino senza maniche, fresca di doccia, profumata di Bienêtre. La guardai inforcare una polpetta e assaggiarla. Uscì dalla cucina che l’olio ancora le luccicava sul mento, pensai che proprio questa sua passione forse l’aveva messa in salvo dalla frustrazione di vivere con un uomo geniale ma talvolta anche distante, comunque spesso pensoso. Federico entrò in cucina, scosse la testa e inghiottì una polpettina. «Giuliettina, ho sentito l’odore d’aglio dal giardino, mi ha stordito, non esageri un po’ con i condimenti?»
Quando tutti stavamo tranquillamente mangiando e assaporando queste mitiche polpette, Lucia Alberti all’improvviso se ne uscì che mamma e Giulietta erano entrambe del segno dei Pesci e anche Sandrocchia. Il Maestro si arrestò con la forchetta in aria, indispettito. Erano tanto gravi le parole di Lucia da suscitarne l’ira? «Cosa vuoi dire, devo voler bene a Caterina o aver nei suoi riguardi diffidenza? O dovrei innamorarmi di quella patata di Sandra? O amarle tutte e tre, come se fossero un mazzo di carciofi?» chiedeva, spazientito per l’involontaria gaffe di un’amica che aveva fatto una considerazione astrologica senza alcuna malizia. «Figurati, non volevo dire questo!» Il buonumore svanì di colpo. Mamma restava sempre di stucco al vedere che occorreva così poco per surriscaldare l’ambiente. Lei soppesava sempre le parole ed evitava arguzie, metafore o calembour. A volte sembrava veramente, sì, un’isola, la famiglia Fellini, ma misteriosa. «Marinotta, nemmeno un po’ di vino? Lo bevi come fosse una medicina!» Che osservatore era, non capiva perché in pubblico sembrassi sempre un po’ distaccata. Temevo di fare delle gaffe anch’io. «Secondo te il demonio esiste, tesorino?» mi abbranchiò dopo il gelato, trascinandomi in giardino al freddo, perché la notte gli era in qualche modo dolce e salutare. «Allora? Non mi rispondi?» «Certo è nel mondo e il Credo è la preghiera più forte per scacciare le forze del male, ma perché mi fai questa domanda?» «Puoi chiederlo al tuo confessore, vorrei un parere, scusami, più autorevole.»
«No, Federico. Non vorrei pensasse che… che … io… io… lo frequento!» Esplose in una risata liberatoria. L’aveva forse incontrato, da mago bianco qual era, il diavolo? Per lui sarà sicuramente una sinistra e misteriosa bambina dalle unghie laccate che gioca a palla con la testa di Toby Dammit, in Tre passi del delirio. Fellini aveva letto e amato la novella gotica Giro di vite di Henry James, la storia di due bambini che parlano con i fantasmi di due defunti, lo considerava uno scrittore mirabile. Penso che fosse tipico di entrambi, sia di James che di Fellini, osservare la società da una certa distanza, senza mai condannarne le dinamiche. Ogni volta che andavo a cena dai Fellini, tornando a casa faticavo ad addormentarmi. Non so perché. Ripensavo a quanto era stata felice la mia infanzia, a quanta riconoscenza dovessi a mio padre per avermela regalata, così poetica, quasi perfetta. Entrambi i miei genitori erano stati un privilegio. Lui, però, era più caldo e affettuoso di mia madre. E adesso speravo che ogni volta che andavo a cena dai Fellini potessi ancora trovarli lì, a stuzzicarsi, insomma che non sparissero con la loro buona dose di tenerezza e infelicità. Eppure così autentici.
19 Il circo
Un’altra sera Lucia Alberti ci disse, tornando a Roma, che i rapporti tra Flaiano e Fellini si andavano sempre più deteriorando. Lo sceneggiatore pareva poco interessato a quella storia borghese con spruzzate di soprannaturale, come gli sembrava la trama di Giulietta degli spiriti, ma la maga raccontava un’altra versione del distacco. Federico, a Fregene, trovandosi di fronte alla figlia di Flaiano, Luisa, affetta da un grave handicap, continuava a ripetere all’infermiera frasi infelici, pare imperdonabili, che lei riferiva ai due poveri genitori, e l’amicizia si ruppe per sempre. Il racconto ci offrì l’immagine di un regista stranamente distratto e lontano dal dolore degli amici. Il pescarese dal genio multiforme e dagli articoli satirici e pungenti era un uomo depresso e malinconico. La sua infanzia era stata tristissima, sballottato da un collegio all’altro. Come se non bastasse aveva avuto il dramma di una figlia cerebrolesa, una croce segreta. Lelé era l’amore di suo padre anche se «diversamente abile» si direbbe oggi. Non parlava e a fatica camminava. Flaiano teneva un diario segreto, lo si scoprì da alcune lettere che spedì alla moglie Rosetta Rota, la splendida donna che si era autoesiliata in Svizzera per poter accudire meglio la piccola Lelé. La loro fu una famiglia eroica per quei tempi. Ma Fellini pescava ormai altrove, intorno a sé. Ad esempio, spingeva mamma a parlare di suo nonno vagabondo, fuggito a Baltimora con un’artista da circo, lasciando una moglie bellissima e i due figli. Una storia che Caterina raccontava con
vaga dolcezza, facendo sempre ridere i presenti. Il mio bisnonno, alla fine, era tornato a Torino a morire, immemore e vecchissimo. Se l’erano trovati davanti casa con una valigia di cartone su cui aveva le etichette di tutte le capitali del mondo, pareva un fantasma malmesso, ma muto come un pesce sulla vita avventurosa con la cavallerizza che evidentemente o era morta o l’aveva scaricato. Fatto sta che sbucarono molti Boratto all’improvviso, anche Mimì Piovene aveva conosciuto a New York una Marina Boratto che, mi disse, «Sembra te!» Il nonno della mia mamma acquistò l’aspetto divertito di Lou Gilbert in Giulietta degli spiriti, la cavallerizza sarebbe stata Sandra Milo, che indossò calze e scarpe bianche, un body di pizzo grigio molto provocante, un collarino bianco e sui riccioli biondi un cilindro cui stava attaccato un velo da sposa. A Cinecittà, nel Teatro 5, era stato ricostruito anche il circo: soffiavano cavalli impennacchiati di bianco, dalle selle adorne di rose e la madre di Giulietta, cioè Caterina Boratto, guardava adorante e vogliosa un muscoloso domatore con Giulietta bambina accanto, tutta vestita di pizzi. «Rabbrividisci di desiderio, Caterinona! Ciak, motore! Si gira!» «Pure questo mi tocca fare», fingeva di lamentarsi mamma alla sera tornando a casa, in realtà felicissima di partecipare a quella meravigliosa festa che era lavorare con un artista come Federico Fellini. Contenta di cambiare vita, dopo anni da madamina borghese, si divertiva anche con la troupe. Caterina adorava mangiare il cestino raccontando la sua vita a Piero Gherardi. O rassicurando Gianni Di Venanzo. O magari ascoltando i problemi quotidiani della vita grama dei macchinisti. Aveva sempre una parola buona per ognuno. Uno di questi, diventato infermiere del 118, l’avrebbe riconosciuta molti anni dopo portandola con l’ambulanza al San Giacomo a sirene spiegate al grido: «Questa è la grande Boratto e me la dovete salvare!»
Gherardi aveva ideato anche un velivolo monoposto, sul quale planava il nonno dal cielo. In realtà avrebbe dovuto scendere da una mongolfiera, fin quando Fellini non scoprì che era un simbolo troppo sfruttato, addirittura, logoro. Questo dopo che Fracassi era andato perfino in Svizzera a studiarle e a fotografarle. Sandra si dondolava sull’altalena con il velo svolazzante e bellissima. Piero adorava vestirla e ogni tanto esclamava «Stupenda! Demoniaca e stupenda!» Ma, quando un mattino Fellini decise di farle interpretare anche il ruolo di Iris, il costumista le fece indossare degli stivaletti numero 38, invece che 40, l’attrice sofferente abbandonò la scena per il dolore. Fellini con il suo megafono spadroneggiava su tutti: il nonno, Caterina e l’oggetto di desiderio sessuale dell’intero film, Sandra Milo, che faceva la cavallerizza e anche la sensuale Susy. Susy era l’incarnazione della femminilità mortificata della protagonista, che si proiettava in una figura ipocompensata, inflazionata e tutta sesso. Una sorta di maga dell’amore, di maestra d’erotismo. Talvolta il Maestro poteva sembrare insensibile al mal di piedi, ma vezzeggiava Sandrocchia, chiamandola in mille modi: «Patatona mia! Tenera culona! Meravigliosa porca, dolcissima buffona!» Per lei fece costruire una casa fra gli alberi, in cima a un pino, montando sotto il grande cappello di aghi una piattaforma circolare, il nido degli amori di Susy. Giulietta e Sandra salivano e scendevano dentro una cesta, divertendosi un mondo. Venne costruita anche un’altra casa sontuosa dalle atmosfere liberty che con uno scivolo luminoso conduceva a lei, simbolo di ogni desiderio, e terminava nella piscina. Susy amante di un miliardario, era la provocante vicina di casa di Giulietta. E la spingeva in ogni modo a peccare, ma lei fuggiva davanti all’apparizione di un indiano bellissimo che avrebbe voluto amarla, per restare fedele al marito. Il personaggio di Susy candido e al tempo stesso perverso, secondo Gherardi, era una copia della signora Carla, solo
meno poetica. Fu a questo punto che a fin di bene, solo a fin di bene, il saggio Piero consigliò a Sandra di allentare un po’ la serrata corte nei confronti del maestro, fedele al motto quando ti piace molto qualcuno, cerca di vederlo il meno possibile… Ecco, apparentemente Giulietta sembrava non accorgersi affatto della storia che stava nascendo sotto i suoi occhi. Federico diceva a sua moglie solo ciò che era bene che lei sapesse. Pur di non farle del male, glissava sui rapporti che in un set nascono e crescono. Fellini spiegò tante cose sul matrimonio ma non quella essenziale, cioè che dopo l’eccitamento delle nozze, terminata la luna di miele il primo fenomeno che dovranno fronteggiare è la solitudine a due. E il film Giulietta degli spiriti parla proprio di due solitudini, quella di una moglie e di un marito, di due mondi a volte estranei, di quella noia e incomprensione in cui si può trasformare il matrimonio.
20 Un incontro del destino
Cos’era tutta quella festa di sorelle e nipoti intorno a Giulietta? Era la famiglia d’origine di Giulietta, ma resa paradigmatica e poetica. In un’altra scena, una macchina si ferma a pochi passi da lei: escono due frugolini che le vanno incontro festosi. Sono i nipoti, figli di sua sorella Sylva (una bella e vaporosa Sylva Koscina). L’altra sorella era una grande attrice, Luisa Della Noce, purtroppo quel ruolo ingrato non le permise di dimostrare tutto il suo talento. Seduta nella limousine sta la madre di Giulietta, una magnifica signora dall’aspetto autoritario e distante. Caterina non sembrava far troppa fatica a interpretare una donna così egoista e poco materna. «Zia, ciao zia!» grida Giulietta, baciandole, e poi torna all’automobile. «Mamma! Ciao, ciao Adele!» Si china verso la madre per baciarla, ma lei si ritrae. «Dov’eri? Quando vengo a trovarti non ci sei mai!» la Madre si scosta di nuovo sussiegosa: «No! Sei tutta sudata!» «Venivo da casa appunto andiamo… prendete un caffè?» «Adesso è tardi! A che ora dobbiamo stare da Luciana?» (rivolgendosi ad Adele) «Alle quattro e prima dobbiamo passare dalla bustaia.» «Giorgio non ti ha avvertita? Gli ho telefonato io!»
«Dov’è tuo marito?» «Ma in ufficio, lavora!» Adele ironica e ostile: «Quanto lavora… non si riesce mai a vederlo… mai una domenica… mai una vacanza». «Cosa c’è? Ho qualcosa sul volto?» «No, niente! Guardavo. Non ti dai un po’ di crema? Ti curi proprio poco. Salutami Giorgio, domani fammi un colpo di telefono…» Che mi curassi poco e non mi dessi mai la crema era una fissazione di mamma che Fellini proiettò sulla schizzinosa madre di Giulietta. Lei si faceva ogni sera un massaggio di almeno venti minuti al viso con la crema creata per tutte le donne belle di Torino da Nina Francis. Giulietta aveva avuto una madre simile? No! Eppure anche Flavia, una maestra di scuola, era stata una madre affettivamente assente. E forse non era nemmeno la sua vera madre. «Assomigli alla tua mamma?» chiesi una sera a Giulietta facendomi coraggio, dato che non ne accennava mai. «No, nessuna di noi sorelle e nemmeno mio fratello somigliamo a lei. Abbiamo preso tutti da papà, per fortuna.» L’attrice, era la primogenita parlava volentieri solo del padre, violinista dell’Orchestra Ghione, raramente accennava alla madre. Raccontava invece incantata che il padre aveva suonato nei maggiori teatri d’Italia ed era stato un uomo bellissimo. Si dilungava anche sulla zia, Giulia Sardi, facoltosa milanese che abitava in via Lutezia a Roma e da cui era stata di fatto adottata all’età di quattro anni. Tratteggiava un passato familiare un po’ immaginario, dove le parentele parevano di cartapesta, da fondale di teatro. «Sono stata allevata come una signorina ricca! Ma so’ io il maschio di casa, eh… li ho sistemati tutti, fratello e sorelle!» ripeteva sovente, stendendo un velo su ciò che le era mancato
maggiormente, un affetto genitoriale solido e vero. Il motivo del suo spostamento a Roma lo addebitava alle difficoltà economiche del padre, costretto a impiegarsi alla Montecatini. Ma la zia l’aveva allevata con tutti i riguardi, mandandola a scuola dalle Orsoline e di questo pareva assai orgogliosa e faceva infinita tenerezza quando ne parlava. Adorava egualmente fratello e sorelle, ma la cosa davvero singolare era che solo lei era stata tenuta lontana dalla famiglia d’origine e cresciuta dalla zia. «Ma… mica sono stata scaricata, eh! Mia madre d’estate mi faceva dare gli esami da privatista, me preparava. Solo d’inverno stavo rimpannucciata da zia a fare la bella vita! » Giulietta raccontava con allegria un’esistenza da orfana, creando a volte un sottile e rabbrividente imbarazzo tra i presenti. Ci guardavamo con Lucia Alberti chiedendoci che singolare infanzia avesse avuto e quanto avesse pescato in essa Federico per delineare delle povere orfane «senza famiglia» come Gelsomina, o come Cabiria. A questo proposito Gianfranco Angelucci, scrivendo la vita della Masina, dopo un’accurata indagine, Giulietta Masina, attrice e sposa di Federico Fellini, ha tratteggiato non solo una biografia appassionante, ma una serie di interessanti ipotesi sulla sua nascita. La verità? Ebbene la verità è sempre difficile da scoprire con personaggi così grandi e complessi. Una volta Giulietta aprì il frigorifero con gesto brusco e tirò fuori una bottiglia. Poi si riempì il bicchiere. Federico le lanciò uno sguardo severo, ma non fiatò. «Com’ero, dimmi com’ero quando mi hai conosciuta? Dillo!» «Eri bella!» «No, non la pensavi così quand’ero giovane… non t’interessavo nemmeno allora.»
«Non è vero!» «Ma sì, confessa che non ero il tuo tipo.» «Ma se ti ho amata e sposata.» No, non ho mai assistito a un simile dialogo fra Giulietta e Federico, ma perché allora l’ho sognato come fosse reale? Chi era Giulietta prima del matrimonio? E chi era lui? Non facevo che chiedermelo. «Ero una ragazza brava, onesta, ma devo metterti in guardia su Federico. A volte Ninì per come inventa mi fa paura!» Sì, la sua inventiva era quella di un genio. L’aveva subito colpita quel ragazzo con quella fiammeggiante chioma e quegli occhi leonini così vivi e intelligenti. Da quando l’aveva incontrato alla radio e avevano cominciato a provare Le avventure di Cico e Pallina non pensava che a lui. Sembrava uno scartafaccio abborracciato quel copione, invece «vedi te, se c’era del talento in quella zucca!» Il telefono aveva cominciato a squillare per giorni, era lui che la cercava. E anche il nome della strada dove lei abitava con la zia, via Lutezia, era parso a Federico un nome improvvisamente salvifico e poetico. Avevano fatto una deviazione per raggiungere quello che lei chiamava, con una certa enfasi, «il mio domicilio». A ogni passo si sentivano invadere da una dolce amnesia. Richiudendo la porta, lei lo prendeva sottobraccio e lo spingeva verso le scale. «Ninì, stai attento a non farti sentire che in casa c’è zia.» «Ma tanto ti sposo, non capisci che ti sposo?» E da lì iniziò un rapporto vita-arte sancito dal film Luci del varietà. Ma già prima Fellini aveva scritto per lei il
personaggio femminile di Senza pietà di Lattuada. Poi erano venuti i film più famosi senza contare le apparizioni di Giulietta ne Lo sceicco bianco e Il bidone. «Ho sempre considerato l’incontro con Giulietta un incontro del destino. Non mi pare che le cose potessero andare diversamente. Si tratta di un rapporto antico che sarei portato a considerare preesistente al giorno in cui si è verificato. Fu alla radio, dove Giulietta recitava le scenette che io scrivevo, come è stato raccontato più volte… poi la vita insieme è fonte di osservazione continua. Si tratta di un tipo d’attrice molto congeniale alle mie intenzioni, al mio gusto, il viso, l’atteggiamento, i toni. Giulietta è un’attrice dalle cadenze, dai modi clowneschi. Ma è anche un personaggio abbastanza misterioso che può incarnare, nel rapporto con me, una struggente nostalgia di innocenza, di perfezione.»
21 Dietro le quinte/2
Una presenza rassicurante e intelligente sul set di Giulietta degli spiriti era il ragazzo Liliana Betti, l’alter ego tuttofare del Maestro. La chiamo così per l’aspetto e i modi, era leale e di una grande simpatia. Federico l’adorava e lei scriveva su di lui pagine ora barocche ora ironiche nel suo diario. Il loro sembrava un rapporto destinato a durare in eterno. Il Maestro si lamentava solo della sua pigrizia, a volte Liliana del segno del Cancro, era un po’ assente o sognante, o forse solo immersa in amori che s’inventava o poco felici. Un giorno mi fermò e mi disse che le era parso che fra Federico e Giulietta fosse tornata l’armonia e soprattutto l’allegria, lui l’aveva rimessa al centro dei suoi pensieri. Che bellissima notizia! Durante la lavorazione di Giulietta degli spiriti si era aggiunta una nuova segretaria di produzione, Norma Giacchero, toscana di Montevarchi. Era la moglie di un generale, aveva figlie e nipoti, ma continuava a mantenere un’aria sensuale, allegra, gioiosa ed era libera come l’aria. Al contrario di Liliana era curiosa tanto da risultare invadente, e gelosa di qualunque donna gravitasse intorno a Fellini. Non faceva che parlare di sesso, naturalmente scherzando, ma talvolta risultava importuna. Minuta e tutta curve, secondo Fellini poteva rimbalzare come una palla di gomma. «Norma è una pantera, una leonessa, davanti a un’altra donna si trasforma, qualcosa in lei si arriccia fisiologicamente. Vorrebbe essere la sola donna al mondo.» Così appariva al regista.
Liliana era stata assunta da Fellini dopo una lunga corrispondenza. Vivendo a Bergamo, non ancora ventenne, cominciò a scrivere lunghe lettere al regista che le rispondeva divertito e poi la invitò ad andarlo a trovare quando aveva il suo ufficio in via della Croce. Lui voleva che si mettesse alla macchina da scrivere e buttasse giù tutti i suoi pensieri, Liliana tornò a casa, ma la loro corrispondenza epistolare continuò più fitta di prima. Fin quando il regista si rese conto di aver di fronte un vero e proprio talento letterario. E Liliana venne strapazzata come «la tizia che dovrebbe scrivere dal mattino alla sera e si rifiuta di farlo!» O «la bella addormentata nel bosco». Povera Liliana! Federico traeva spunti e idee anche dalla posta, leggeva tutto e poi stracciava. Da Liliana pretendeva un’obbedienza assoluta e lei, mite e buona, aveva assunto molte funzioni oltre quella di segretaria. Comunque era lei, solo lei, che Federico cercava appena arrivato in ufficio… Invece Norma e Federico si erano incrociati e conosciuti nei corridoi della Rai, si erano piaciuti, una sorta di coup de foudre. Poiché il regista le aveva promesso vagamente un posto di lavoro, lei non aveva fatto altro che presentarsi sul set di Giulietta degli spiriti, e, con una buona dose di faccia tosta, si era fatta assumere seduta stante. Ogni mattina Fellini attraversava Roma da piazza del Popolo a Poggio delle Rose, per prelevare Norma e portarla a Cinecittà. Occupava ormai un posto privilegiato accanto a lui, guai a chi si fosse intromesso, se ne sarebbe risentita più di una moglie possessiva. Ma tanto si offendeva in ogni modo. Feci un sorriso appena accennato, come se mi sentissi a disagio nell’entrare nell’ufficio di Fellini. Non mi era mai capitato. «Siediti Marinotta, ti cercano sia tua madre che Angelo Rizzoli.»
Fece capolino il torinese Tullio Pinelli e, vistolo occupato, lestamente sparì. «Torno più tardi, Federico.» Pinelli era il più fedele fra gli sceneggiatori, veniva dagli studi blasonati dove era stato allievo di Augusto Monti come Cesare Pavese, che ricordava sempre con uno straziante rimpianto. Dai tempi di 8½ aveva accanto a sé l’attrice Madeleine LeBau, la bella amante di Humphrey Bogart in Casablanca, elegante e riservata come lui. «Immaginavo già cinematograficamente la scena, tendevo a suggerire al regista, puntigliosamente, pignolescamente, tutti i particolari di ogni situazione. Già allora pensavo che il dialogo in cinema contasse poco: la cravatta di quello che parlava poteva essere più importante delle sue battute. Perciò mentre io pensavo al colore e al nodo di quella cravatta, che non spettava a me imporre al personaggio, Pinelli scriveva. Ha sempre scritto molto più di me quando lavoravamo in tandem. La sua valida formazione teatrale gli permetteva di risolvere la scena con un buon dialogo. Ecco, Pinelli sì che è un bravo sceneggiatore», confessava con ammirazione e pari sincerità Federico, parlando con entusiasmo e affetto di lui. Raggiunsi mia madre e Rizzoli, con cui ci intendevamo a meraviglia, spesso ci invitava a pranzo, era cordiale e gentile. Era affascinato dalle storie sulla Hollywood degli anni Quaranta che mamma raccontava, facendo ridere tutti, o parlando della sua traversata di ritorno in Italia, quando in piena guerra rischiò di finire agli arresti degli inglesi a Port of Spain, perché scambiata per una spia tedesca. Una volta che andammo a mangiare con lui e la troupe, ci invitò a Ischia, al Regina Isabella di Lacco Ameno, passammo una settimana in un lusso che non godevamo da tempo. Per Giulietta degli spiriti il produttore non veniva sul set a controllare, come aveva fatto per 8½, quando non si fidava del
tutto di Federico, non aveva più paura che non finisse il nuovo film o che avrebbe sforato i tempi di lavorazione e soprattutto il budget.. Accanto a lui spesso c’era un’attrice sorridente e discreta, Graziella Granata. Giulietta, quando iniziarono le riprese del circo, protestò: «Ma io nun c’ho ‘sto nonno! Ma che inventiva se ritrova Federico!» Mamma si guardò bene dallo spiegare che quel nonno era il suo. Il Maestro ascoltava e prendeva storie di vita da amici o conoscenti, anche a me diceva spesso: «Ma questa madre così bella non è un gran peso?» «No, io l’adoro!» Non avevo capito che stava delineando il personaggio della madre di Giulietta, ispirandosi a mia madre, rendendola di una eccessiva e algida bellezza. E il nonno? Era un po’ come il Matto de La strada. Fellini di un personaggio simile, affettuoso e stravagante aveva bisogno in ogni film. Il lavoro che faceva era quello dello scrittore, se è vero che Madame Bovary è Flaubert, può essere vero anche che sia un’immaginaria Signora Flaubert. Anche Moravia costruiva i personaggi femminili di un romanzo non ispirandosi a un unico modello, ma dalla fusione delle parti migliori e più curiose di moltissime donne. Federico non era più abitato dall’incanto che sembrava farlo camminare sospeso da terra. Era preoccupato, presagiva di doversi separare da Ernst Bernhard, gravemente malato. Lo psicoanalista aveva assunto nei suoi confronti una funzione creativa importante: il solo colloquio tra loro liberava energie sepolte nell’inconscio profondo. Ma il tempo dell’addio si avvicinava sempre più. Osservando Fellini scoprivo che la vita era per lui anche una sostanza da laboratorio, un’avventura creativa incendiaria che lo costringeva a esorcizzare il maligno, e a intrattenere rapporti complicati con il sesso, ovvero la vita, e la morte. I
due principi fondamentali della realtà e delle pulsioni psichiche. Altrimenti come spiegarsi il suo transitare continuamente nei regni della magia? Si sarebbe sempre meno interessato alla messinscena storica e alla sceneggiatura. Non so perché, ma questo allievo dei cabalisti e degli alchimisti, già lo vedevo liberarsi da tutti i pesi, presago di quel che lo attendeva. Piero Gherardi disegnava schizzi e bozzetti con mano veloce e Fellini, disegnatore e caricaturista eccelso, ne era ammirato. L’aiuto dell’art director era Bruna Parmesan, brava e simpatica. Il Maestro aveva sempre disegnato insieme all’inseparabile amico l’aspetto figurativo passo passo, giorno per giorno, di ogni film. Tanto da delineare uno storyboard a fumetti la cui pubblicazione farebbe oggi la fortuna di un editore. Piero, intanto, sembrava impazzito per l’uso di materiali a colori per il film, chiffon malva e viola che finalmente facevano risaltare l’incarnato candido e perfetto di Caterina e i suoi occhi che assumevano nuance di violetto. Il sorriso si era fatto più ampio, lo sguardo più dolce. Il trucco meno pesante. Non l’ho mai vista così felice, passava ore in sartoria a misurare cappelli d’ogni foggia, stoffe sgargianti, tulle e voile bianchi e a fiori, chiedendosi quale angelo custode le avesse fatto incontrare Fellini e un costumista come Gherardi. Da esteta che adorava il bello, da amica di uno stilista come Roberto Capucci, ebbe l’impressione di essere una miracolata. Piero invece era sempre più spazientito e nervoso con Giulietta per la fatica di inventare costumi che ne migliorassero l’aspetto. Eppure l’aveva vestita con facilità nei film precedenti, scegliendo abiti un po’ stravaganti e clowneschi. Mamma, ascoltandolo con attenzione, restava in silenzio, chiudendo gli occhi, poi consigliò: «Non va bene, Piero, sei troppo insofferente, devi portare pazienza con Giulietta».
Ma lui insisteva. «Come farla diventare bella, non ha le physique du rôle. Federico la vuole affascinante come una fatina. Il marito Mario Pisu non dovrebbe avere alcun desiderio di tradirla. Invece lo spettatore pensa: “Fa proprio bene a cercare un’altra donna…”» «Ti prego, non dire simili cattiverie, sai quanto Federico tenga a Giulietta.» Tentò di farlo ragionare più volte, preoccupata dello scontro imminente. Avveniva un fenomeno nuovo, il costumista di solito distribuiva consigli saggi a tutti, ora sembrava morso da una tarantola e parlava a mitraglietta. «Non riesco, non riesco proprio a farla diventare bella. Adesso le ho messo un foularino in testa alla Audrey Hepburn…» «Ma non basta, Piero… proprio tu così pieno di risorse, fatti venire qualche altra folgorante idea.» «Non mi viene nulla in mente, non ci dormo la notte.» Mamma gli ricordò certe sue intuizioni geniali come il giubbotto di penne che aveva trovato a Porta Portese per Le notti di Cabiria. Giulietta, che aveva un potente radar psicologico, intuiva le difficoltà, e recalcitrava a entrare nel ruolo, come le capitava all’inizio di ogni nuovo film, non si amava nemmeno lei. Federico sosteneva che faceva sempre così, all’inizio detestava la creatura che avrebbe dovuto impersonare, odiava i vestiti che Gherardi le faceva provare, come la parrucca e anche la maschera malinconica del suo personaggio piccolo-borghese. Non si piaceva, non le piaceva quella moglie che non faceva mai una bella risata e stava con quel mammalucco di marito che dormiva con la mascherina! Si ribellò. Volle il suo truccatore al posto di Fava. Si ribellò anche per il cappello a fungo e litigò di brutto con Gherardi. «Ma che sono un pinocchietto? Qualche tocco di femminilità mai, vero Gherardi?»
Lo chiamava col solo cognome. E Piero: «Sai Giulietta, Federico vuole immagini da Corriere dei Piccoli, da Alice nel Paese delle Meraviglie, un tono infantile e inquietante… ci si ispira ai disegni di Rubino, per questo ho inventato il cappello a fungo. Sei una sorta di Gelsomina borghese». Apriti cielo! Temevo il gesto decisivo o la parola irrimediabile. Com’era possibile, se Federico le gridava di continuo il contrario? «Giuliettina, ti prego, niente sorrisi o pallori da Gelsomina o Cabiria o da cagnolino sperduto. Ma disagio interiore! Meno filodrammatica, Giulietta, me vuoi na buona volta guardà?» La reazione quel giorno, mentre stava girando, fu del tutto inaspettata. «Ma quando mai son stata un cagnolino sperduto? Ma va’ a morì ammazzato! E questi orecchini te li metti tu!» concluse, liberandosi anche degli orecchini e abbandonando il set. Doveva esserci stata una spiegazione fra marito e moglie e il giorno seguente fu più collaborativa. O forse lui, conciliante, le chiedeva più spesso: «Cosa diresti? Cosa faresti? Una cosa era certa, con lei Fellini era più esigente che con tutti gli altri attori. Perdeva più spesso la pazienza. Perché Giulietta abitava dentro di lui più di ogni altra persona, gli sembrava non le fosse consentito di sbagliare o avere dei dubbi. Una volta lasciò lui il set insofferente per i risultati attoriali della moglie. «Oggi che ha Giulietta, pare una mummia! Prima mi recita troppo, poi si congela come uno stoccafisso.» Federico sapeva che insieme all’attrice docile, ce n’era un’altra, quella che diceva sempre no. In realtà lei si sottometteva dopo una lunga resistenza, come se avvertisse di dover dar vita a qualcosa che nel profondo rifiutava. Solo quando il regista scoprì che le resistenze di sua moglie al personaggio in realtà erano sempre funzionali alla costruzione del personaggio, e non le ritenne più un intralcio, bensì una benedizione, si calmò.
Ero molto discreta con lei, considerando anche la sua fatica interpretativa. Una volta andai a salutarla in camerino e la trovai di cattivo umore, perché Federico non la faceva mai ridere e si chiedeva: «Ma la tizia che interpreto, e che dovrei essere io, ci ha per caso un padre con un’azienda di pompe funebri? E poi io non sono mai stata succube di nessuno, di mia madre o mia sorella, mai, hai capito? E devo disobbedì a mia madre? Ma mai m’avesse detto una volta fai così, fai colà, mai!» «Immagino, che la parte te l’abbiano scritta così.» «A Marì, a me Federico me fa mette sulla graticola dalle suore, dalle Orsoline che m’hanno adorata! Anche a te le Cabrine t’adorano o sbaglio?» «No, no non sbagli.» «E te sembro schiacciata dalle ossessioni del sesso? Ci sono troppi simboli, troppa psicoanalisi, ecco… le apparizioni che mi perseguitano e alla fine m’invadono.» «Tu recitala sobriamente, sofferta e anche un po’ comica, imponiti!» Federico non faceva che incitarla. «Giuliettina, svezzati dai complessi, meno soggezione, liberati dai condizionamenti rilassati, guardami con dolcezza anche se io non ti ascolto e sono uno stronzo. E dillo quanto sono stronzo!» E quando lei non lo poteva sentire, aggiungeva: «Mi sento un ipocrita senza redenzione». «Sei sicuro che questo marito non sia troppo corretto? Non si ricorda una sola cosa di questa donna di quando l’ha incontrata ragazza e se ne è innamorato?» Tacevo, ma questo avrei voluto dirgli. C’è una scena nel film, in cui Giulietta e Giorgio festeggiano l’anniversario di matrimonio e si capisce che il loro legame è ormai ridotto a una cortesia formale e distratta.
Insomma il matrimonio è in crisi, Giorgio-Federico ha un nuovo amore. E da lì a poco la moglie, incitata dalla sorella, farà pedinare il marito per scoprire il tradimento. Quel giorno in camerino non sapevo più come confortarla, non compresi perché Federico non traesse mai spunto dalle sue dolorose baruffe coniugali. Ne parlai con Gherardi con l’intenzione di migliorare il rapporto fra i due. Piero ormai scalpitava come un cavallo imbizzarrito e mi rispose che Federico era un genio, e che se Giulietta voleva ridere si sarebbe notato che non aveva mento. Quindi non poteva ridere, lo capivo o no? «Be’, non mi pare grave, se lo può far aggiungere, o no? Lei può essere davvero molto spiritosa, perché la protagonista di Giulietta degli spiriti deve risultare tanto noiosa?» Piero fece spallucce come se dicessi una sciocchezza. In fondo Federico, quando l’aveva conosciuta, girava con le scarpe di tela bianche in pieno inverno, tentava di fare caricature ai clienti del caffè Aragno e si lavava all’Albergo diurno Cobianchi. Era rimasto colpito dal temperamento di Giulietta incontrandola in Rai perché era un peperino pieno di vita e l’aveva messo subito di buon umore. Anzi, lo aveva fatto rinascere. Dove era andata a finire nel film quella voglia di vivere di Giulietta? Federico mi aiutò a comprendere meglio la sua protagonista. Mi confidò che aveva avuto molte idee su di lei, avrebbe voluto farle interpretare una suorina, in odore di santità, perché durante le riprese de La strada ne aveva trovato il diario in un convento e ne era rimasto colpito. Perché, gli chiesi, la vedeva sempre come un’innocente creatura, ignara della vita e la idealizzava tanto? Forse per questo l’attore Mario Pisu non riusciva più ad amarla? Eppure non faceva che ripetere che «una moglie non deve essere la Madonna e men che meno una serva!»
Giulietta viveva anima e corpo per il suo uomo, da borghese apparentemente soddisfatta, ma con picchi di infantilismo. Federico aveva avuto anche l’idea di farle interpretare tanti personaggi in un solo film, la saponificatrice, la chiromante, una donna avara e prepotente, una miliardaria, alla fine aveva scartato il progetto. Ero pienamente d’accordo e ne avevo un esempio in famiglia, mio padre considerava Caterina una Madonna e questo aveva reso il legame quasi mistico e poco erotico. Comunque, dopo una visita di padre Arpa sul set, Giulietta diventò docilissima. Sembrò improvvisamente più lieta e pacificata. Intravidi solo una volta Ennio Flaiano durante le riprese e fuori dal teatro di posa, camminava insieme a Federico, mi colpì la sua aria da cane bastonato, stava finendo una grande storia d’amore e d’amicizia, che si era trasformata in una storia d’odio. The honeymoon it’s over, sembravano dirsi, per sempre tramontate le affinità elettive e il buonumore. Flaiano era stato accanto al regista dall’ultima fase de Lo sceicco bianco in poi, Federico l’aveva conosciuto entrando al «Marc’Aurelio», la redazione accanto a quella di «Omnibus» con cui collaborava lo scrittore. La licenza ironica e lo sberleffo era stato l’importante contributo dello sceneggiatore pescarese ai suoi film, pare ad esempio, che non facessero che ridere e scherzare, durante le riprese de I vitelloni. Mentre si dimostrò restio a sceneggiare La strada e Le notti di Cabiria. Durante La dolce vita, al romagnolo sembrò che Flaiano si schierasse troppo dalla parte del produttore. Vari avvicendamenti con sceneggiatori come Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini infastidiranno il romanziere, assai permaloso. Con Giulietta degli spiriti, invece, non entrerà in crisi solo il rapporto con Flaiano, ma tutta una serie di altre amicizie. Infatti, subito dopo, il regista cambierà il gruppo degli sceneggiatori, l’operatore, l’art director, l’organizzatore e il produttore.
Perché si determinarono tante e tali incomprensioni, difficoltà, ritardi? Tutto può concorrere a creare un filmsortilegio come 8½ ma tutto può andare storto come fu per Giulietta degli spiriti. Ogni film fa i conti con l’Imponderabile.
22 Mia madre, mio padre
Mamma fu costretta a confessare al marito che interpretava il personaggio della madre della Masina in Giulietta degli spiriti. Le rispose allarmato: «Non voglio che lasci i bambini in balia di se stessi». Ma potevo essere considerata una bambina a quasi diciotto anni? Dopo pochi giorni piombò a Roma e mamma entrò nel panico. Non capiva più niente, non sapeva quale scena doveva interpretare il giorno seguente. Tutto le apparì all’improvviso vuoto di senso, il film, il copione e il suo ruolo. Poiché questa volta aveva una sceneggiatura a disposizione, prendeva lezioni di dizione da una brava attrice di teatro, Laura Carli, che avevo conosciuto durante I grandi camaleonti. «Non lo far venire sul set, distrailo», mi supplicava. Provai non solo dispiacere per lui, ma dolore. Era incontrollabile, in preda a una depressione maniacale. Passai giorni e un’intera notte a cercare di chiarirgli la situazione. Mia nonna cercava di sottrarmi alle sue ossessioni. Non c’era modo di farlo ragionare su un’attività normale e che solo a lui pareva anomala: mamma doveva riprendere a recitare anche perché così avremmo potuto sopravvivere. Fiero e infantile, papà era un amante della dissipazione, ignorava il domani. Mamma aveva dovuto vendere anche il suo pianoforte a coda Steinway. «Mamma, perché hai venduto il piano? Avresti potuto dare lezioni di musica.» Pensavo a Fernanda Pivano che, meno brava di lei, viveva a Milano grazie alla musica.
«Armando, devi far causa a tua sorella, è l’unica strada, ti ha raggirato sull’eredità.» «Non posso, se lo faccio si ucciderebbe.» «Non credo, preferisce siano gli altri a morire.» Parlare con papà era imbarazzante e difficile, era un uomo che adorava la moglie e temeva di perderla, ugualmente voleva bene a una sorella avida e egoista che avrebbe dovuto trascinare in causa, di Fellini e del suo cinema gli importava fino a un certo punto. Soffriva della sindrome di Otello. Al suo fianco c’era infatti un vero e proprio Iago, il suo avvocato che gli insinuava il sospetto su ogni scelta di Caterina. Papà era stato un miliardario romantico che l’aveva sposata quando fu costretta dalla guerra a tornare da Hollywood, dopo Campo dei fiori. L’aveva resa la sua Madonna personale e ora la vedeva contaminarsi e allontanarsi verso una piccola autonomia artistica ed economica. Poteva trascorrere insonne intere notti. Fellini propose di farlo parlare con padre Arpa per tranquillizzarlo. Ma mia madre pensò che parlare con un prete l’avrebbe forse inquietato ancora di più, come a voler suggerire che ci fosse qualche dramma da nascondere sul loro matrimonio, mentre lei non stava consumando alcun adulterio: tentava solo con fatica di riprendere in mano la sua vita, lavorando con un maestro del cinema. In qualche modo, però, sottovalutai papà che si presentò a Fregene da Giulietta senza che nessuno potesse avvisarla. Chi meglio della moglie di Fellini poteva informarlo? Per fortuna, le avevo accennato alla situazione coniugale di mamma. Lui, inquieto e disperato, portò con sé due bottiglie di champagne. Venimmo a sapere tutto da Federico, quando la visita si era già conclusa. Era molto preoccupato solo per il nostro futuro. Caterina aveva un secondo figlio di quasi dieci anni, Paolo, un bellissimo bambino biondo di dieci anni. Fellini, rientrando a casa, aveva sorpreso Giulietta e papà in un colloquio ad alto
tasso alcolico insieme al solito Salvato Cappelli, più sobrio ma anche più nervoso. Che poteva fare? Aveva rassicurato nostro padre: la moglie era una donna bellissima, ma lui aveva altri problemi soprattutto aveva quello dei costi di produzione e di un set faticoso per le rivalità con i collaboratori. Poteva finanziare il suo film insieme a Rizzoli?, gli domandò spiazzandolo. Insomma, aveva trovato un regista forse a corto di mezzi, una coppia unita e un’attrice il cui unico sogno era interpretare madre Cabrini. «Una santa, una vera santa! Fellini ha sposato una santa! Ma chi è quel segretario petulante, di nome Cappelli?» «Un segretario tuttofare, a volte troppo zelante», gli rispose mia madre, troncando ogni supposizione malevola. Non abbiamo mai saputo cosa si siano raccontati in privato papà e Giulietta. Il regista fece buon viso a cattivo gioco e consigliò a mia madre di non perdersi d’animo, consapevole del dramma che stava vivendo. Tutto sembrava concludersi senza troppe tensioni. Ma lei si avvilì ancora di più, tornando sul set due giorni dopo. Papà per farsi perdonare da Fellini mandò casse di champagne a tutta la troupe. Il film procedeva e l’entusiasmo di Gherardi e Fellini la distrassero, anche se si chiedeva perché dopo 8½ non avesse ancora ricevuto nessuna proposta di lavoro da qualche altro regista. Federico suggeriva tra il serio e lo scherzoso: «Telefona a Gina, la maga di Giulietta, o vai da Magda Fabi, forse loro riescono a vedere quando riprenderai a lavorare! Sono certo che ricomincerai a farlo». Glissava, non aveva soldi da buttar via con le maghe. Federico era molto affettuoso anche con nostra nonna, una tipica piemontese. Era curioso di accenti diversi, finché un
giorno fece una delle sue improvvisate, salì in casa, le portò una pianta di ortensie e la sbaciucchiò. «Metterò anche lei in un film prima o poi.» E lei, andando subito al sodo: «No, Maestro, preferisco che continui a far lavorare mia figlia». E aggiungeva in dialetto: «Ma che bel om ca l’è, chiel!» In effetti Federico non era fotogenico e di persona a quel tempo era atletico e attraente. E nonna era rimasta sorpresa. Gli spiegò, sempre in dialetto, che sua figlia aveva atteso troppo prima di andarsene da Torino. «Ma signora non decidiamo noi la nostra vita, se non ha lasciato prima Torino vuol dire che era meglio così e adesso lei non deve che esserne felice, ha un altro nipote, no?» le rispose. Nonna era una sorta di carabiniere con tutti: amorosa solo con me, perché mi aveva allevata. Non dimenticava che papà solo pochi anni prima, avrebbe potuto comprare decine di case ai Parioli, ma aveva preferito investire una fortuna nella progettazione dei Nuclei chirurgici mobili, degli ospedali su ruote che potevano soccorrere la popolazione in caso di calamità. Un idealista, quasi un precursore della Protezione civile. Era troppo severa nel giudicarlo. La ricordo tiepida anche verso la figlia, perché non aveva attuato prima quello strappo dal coniuge che l’avrebbe fatta tornare a Roma e al cinema. Fin da quando ero molto piccola, avevo assistito a continui battibecchi fra madre e figlia affinché non perdesse altro tempo. Mamma passava intere giornate a suonare il piano. Si decise solo quando papà abbandonò la casa di corso Stati Uniti per portarci a vivere in campagna. Allora la sua esistenza le apparve triste e difficile, e il futuro precario. Così attuò una fuga rocambolesca e notturna, allontanandosi da chi era stato anche il suo primo amore, una mossa di immenso coraggio, dettata dalla disperazione.
Quando cercai di spiegare meglio a Federico la situazione aveva già capito tutto. «Ma i piemontesi sono tutti un po’ così, come tua nonna, non si discostano dall’idea che lo sperpero contenga in sé qualcosa di diabolico, tuo padre invece sembra un americano, non ha nulla di torinese, a parte forse una gelosia così possessiva che lo dilania. Ma mi hai detto che la tua bisnonna è cresciuta in Egitto, sei sicura che tua nonna paterna sia figlia di un italiano?» mi chiese. «La gelosia patologica è di origine genetica, l’aveva anche mio nonno», risposi, ma Federico forse aveva ragione. Anch’io quasi sognavo che la mia bellissima nonna fosse la figlia del maragià, dal momento che sua madre era stata ricevuta a corte con tutti gli onori. La sera, verso le nove, mio padre usciva, dicendo che provava un «vuoto» interiore. Andava in quei locali dove la musica di Fred Buongusto, il bere e le conversazioni alle quali aveva l’illusione di partecipare gli facevano superare, «quel cupo vuoto». Spesso mi portava con sé, precipitando nello sconforto il mio padrino Mario Cora, che aveva già tentato in vari modi di aiutarlo, e il suo affetto fu senz’altro un grande sostegno. Per me era stato meraviglioso ascoltare dal vivo Fred Buscaglione a Rimini, e pensavo che non avrei mai più provato un’emozione simile. Una sera mi aveva dedicato Che bambola. A Torino potevo andare ad ascoltarlo sempre, grazie al fratello di mio padre, Tullio, suo amico personale che gli aveva ispirato molte canzoni. Poi Fred aveva avuto quell’incidente mortale poco lontano da casa nostra, all’alba tornando all’Hotel Rivoli. Fu un anno orribile, quello, in cui morirono tanti nostri idoli e affetti, da Adriano Olivetti a Fausto Coppi. Morì anche lo zio da me più amato, Armando, il fratello della mamma.
23 L’altrove
Giulietta degli spiriti è un film fantastico, senza epoca né tempo. Federico continuava a fare sedute spiritiche, a sentire Lucia Alberti, interessato alla natura del peccato e del demonio. Da buon cattolico era convinto che il peccato esistesse. Anna Salvatore no, lei pensava di rinascere su questa terra, credeva nella reincarnazione. Federico e Giulietta invece speravano nel Paradiso o nel Purgatorio. La pittrice Anna Salvatore, nei panni di una scultrice ninfomane, fu interpretata da un’attrice degli anni Trenta, Silvana Jachino, figlia del compositore di Ladri di biciclette (tutto il cinema di Fellini è pieno di rimandi), che senza trucco le somigliava ben poco. La Salvatore era infatti pittatissima. Silvana però somigliava ben poco alla Salvatore non solo fisicamente. Molto amica di mamma, l’attrice era dolce e remissiva e non era un’intellettuale. Comunque The Big One, come l’aveva soprannominato, era capace di cambiare idea mille volte e forse la stava abilmente sfuggendo, non amava sentirsi in trappola, era furbo oltre che intelligente. I tempi lunghi di un romanzo con lei, stavano finendo. Una costante, poi, del regista era sentire sempre uno struggente rimpianto per un mondo diverso, come l’idea che avrebbe potuto vivere in modo più innocente. Questa aspirazione la doveva solo a Giulietta. Il film, comunque, gli costò un dispendio di forze maggiore di 8½ e quando era esausto, si metteva sotto il portico di Fregene ad ascoltare le cicale e il gatto Baffetto gli si acciambellava sulle ginocchia. Anna Salvatore aveva scoperto
anche la scrittura automatica, fenomeno a cui Federico credeva molto meno. «Io traggo ispirazione da chi amo! E quindi nel prossimo film ci sarai anche tu!» le disse. La Salvatore parlò di saccheggio abituale e disse di non capire come una donna come Giulietta potesse apprezzare il Conte e continuare a essere al tempo stesso gelosa del marito. Mamma invece si sarebbe fatta volentieri saccheggiare dal regista tutta la famiglia acquisita, soprattutto la feroce cognata. In Giulietta degli spiriti i fantasmi incalzavano simili a mostri marini. Orde di barbari da fantastoria. E Giulietta seduta sotto l’ombrellone in spiaggia, assisteva al loro fantasmatico sbarco. Ma le sembravano quelli del marito e non i suoi! Lo disse anche a mamma: «Io non ho ‘sti incubi! Ti giuro, dormo come un angelo. Invece dovrei chiudere gli occhi ed ecco che l’oscurità mi si squarcia: vedrei paesaggi, giardini, castelli, ma anche delle faccette piccolissime che mi fissano in silenzio, ma è a lui che capita, è Ninì che vede le fiammelle, non io!» Federico forse voleva comunicarle la consapevolezza del proprio diritto a esistere. Rivelazioni semplici, un alfabeto che comprendeva un nuovo dialogo fra marito e moglie e che era tutto da ritrovare, non importava se si parlava di punti luminosi, sfere, cerchi lucentissimi, stelle, fiamme, vetri colorati, una fantasmagoria che stordiva e che adesso Fellini desiderava trasferire quasi di peso nel mondo adolescenziale di Giulietta. All’improvviso ci trovammo tutti alla marina. Fu come una sorta di turbolenza climatica. Con i gabbiani sopra la testa. Come se Fellini avesse voluto riaccendere il mare de La dolce vita e volesse lasciare il campo a pensieri più tranquilli. Federico era aperto alle confidenze: «Tutte le volte che avverto negli altri un senso di fiducia nei miei confronti sono soddisfatto. La cosa mi lusinga, anche se sconto i limiti di un’incapacità. Ciò che non sopporto è invece l’aspetto decorativo, i premi, salire su un palcoscenico e afferrare la
statuetta. O andare a cena in ristoranti affollati con gente che conosco appena. Allora il conversare mondano diventa una tortura, dover scambiare informazioni o vani sorrisi. Le chiacchiere inutili per me sono un vero tormento». Era sincero quando diceva queste cose? Credo di sì. Lui stesso temeva di apparire ipocritamente modesto mentre ne parlava. Adesso tendeva a proteggere il film, ma non aveva una metodologia, né segreti di bottega. Con Fellini era sempre come se un romanziere dovesse scrivere il suo film in fieri, con gente sempre nuova che sbirciava il libro alle sue spalle, aveva intorno sempre troppi curiosi, qualcuno commentava i fatti del giorno, altri facevano grazie a lui incontri interessanti. Non esisteva al mondo un regista più accerchiato di lui. O un set più affollato. Ed era sempre simile a uno sperimentatore, un esploratore che ribadiva la sua eterna vocazione di cantastorie. Il più grande condizionamento, Federico l’aveva dal produttore, anche se Rizzoli veniva poco a trovarlo sul set, perché ogni volta era come se gli facesse respirare una profonda sensazione di inferiorità, come se lo facesse tornare ragazzino. Un’altra frase che ripeteva di frequente era che la sua generazione aveva passato la seconda metà della vita a cancellare quei tabù che l’educazione aveva prodotto nella prima. «Sapessi come è vero! Che educazione repressiva abbiamo avuto!» gli faceva eco mamma. In questo periodo Federico faceva sogni poco confortanti anche su Giulietta. Nell’ultimo, sua moglie stava al centro di una stanza vuota, la macchina da presa le girava intorno su di un carrello pieno di buffoni e di gente che schiamazzava, mentre intanto lui dava ordini ma il vociare di quelli che facevano casino sovrastava le sue parole. Fino a quando non crollavano tutti per terra. Questo sogno l’aveva lasciato stordito e confuso e s’era risvegliato pieno di paura con la
sensazione di andare incontro a un naufragio. Rimasi colpita dal tono che aveva assunto la sua voce. «Questi sogni a volte, sono terribili. Giulietta potrebbe anche uccidersi.» «Cosa vai a pensare!» Federico aveva le palpebre pesanti. Non parlava più di Alice nel Paese delle Meraviglie o dei disegni di Rubino. Non desiderava nel film simboli esoterici o occultistici, o apparizioni nevrotiche, causate magari da sobbalzi psicologici. E, mentendo come il suo solito, raccontava a Tullio Kezich che era contrario alle sedute spiritiche. Nino Rota aveva composto la musica prima del previsto, motivi diversi in chiave di concerto da camera, con pochi strumenti, ariette settecentesche un po’ mozartiane. Si chiamavano La Pineta o Giornata al mare, quasi facevano da contrappunto al film, erano di una grazia incantevole, elegantissime. Un giorno arrivò sul set Anthony Quinn. Ne rimasi abbagliata. Non immaginavo che fosse un così bell’uomo. Federico ci presentò nel suo ufficio. Mi afferrò con la sua manona. «Marinotta, resta qui.» Ero imbarazzata, perché Quinn sembrava cercare un qualche conforto per non aver avuto il ruolo del marito in Giulietta degli spiriti. L’avrebbe voluto tanto e Federico lo consolava così: «Non c’è film che rappresenti le mie zone d’ombra più de La strada, e avresti ricordato troppo Zampanò, so che sei un attore fantastico, ma lo spettatore ti vede e pensa a quel personaggio che hai reso immortale. Pisu invece è un attore più anonimo, non devi offenderti se ho fatto questa scelta». «Come sta Giulietta?» cambiò discorso l’attore. «Bene! Bene! Chiamala alla fine del film, avrà piacere di rivederti, adesso non è il caso, è troppo tesa per la parte.» Evidentemente Fellini non desiderava che il ricordo di quel film così faticoso e doloroso si frapponesse alle riprese di Giulietta degli spiriti e sua moglie fosse riassorbita dal passato.
Federico non era contento della visita, perché lo aveva riportato indietro nel tempo. Confessò che non sapeva mai bene se era abbastanza onesto con se stesso, se non continuava a idealizzare la donna per spingerla fuori dall’interesse maschile. La donna doveva guadagnarsi l’indipendenza, ma non come volevano le suffragette: doveva scoprire una realtà diversa, una realtà totalmente sua. Mi chiedevo come potessero farlo tutte le donne, in una società maschilista. Esistevano forse in Italia grandi modelli di femmes savantes, insomma di capostipiti, di letterate, romanziere, narratrici, saggiste? Forse per questo motivo scrissi anni dopo Il “Chi è?” delle donne italiane per Mondadori. Jung tra l’altro metteva anche in discussione la fedeltà reciproca dei coniugi: «Che vale una fedeltà senza sentimento e che vale se la nostra anima intristisce sempre più nel matrimonio?» L’unica fedeltà che sembra contare è quella verso se stessi. La fine del film rappresenta la scoperta dell’individualità, Giulietta uscirà dall’ombra del marito. E proprio in quel momento supremo la luce del sole mi travolse, rovesciando il suo calore sulle mie spalle e penetrando sotto la lieve camicetta bianca. Era piena estate, e in vacanza, seguivo un film appassionante, che altro contava se non la felicità? Pensavo che il Maestro non avesse mai smesso di guardare verso l’infanzia e verso l’amore, luoghi dove le percezioni sono più acute e vive. Forse in qualche modo avvertì che stavo pensando proprio a lui, perché insieme a Liliana mi si avvicinò dicendomi: «Lascialo andare via!» «Cosa devo lasciare andare via?» «Be’, il dolore per tuo padre! Non puoi farci nulla.» Detto questo si dileguò con Liliana che ebbe la sensibilità di aggiungere: «Comunque, non smettere di sperare! Un successo inatteso potrebbe risollevarlo. La vita è anche illusione, magia e sorpresa».
24 La fine dello spiritismo
Ad allietare il set arrivò come un bizzarro e allegro soffio vitale Valentina Cortese, attrice sublime, più finta di ogni finzione, aerea, vaporosa, in una parola divina, come gli abiti in cui Piero Gherardi la racchiuse, come dentro un bozzolo di tulle a pois neri e taffettà grigi e bianchi. Interpretava l’amica intellettuale e un po’ svampita di Giulietta. Doveva contenere dentro di sé qualche elegante rancore e stizza verso chi, in qualche modo, aveva desiderato suo marito, ma da attrice eccelsa seppe fingere una sincera amicizia. Il costumista Gherardi stava sempre a un passo dal regista e questa era la differenza fondamentale rispetto agli art director che prenderanno il suo posto, onnipresente, protettivo. Nel film, Valentina, che interpreta se stessa, si aggiunge alla corte delle amiche con cui Giulietta faceva le sedute spiritiche. Mentre Giulietta sbuccia le mele, Valentina sussurra: «Che meraviglia! Che meraviglia, tesoro! Guarda, la rugiada!» «Ma è pioggia!» «Che purezza! Oh la pioggia… la rugiada!» È con lei che Giulietta va all’Hotel Plaza ad ascoltare il santone Bishima, che nel buio più totale avrà, a detta delle signore presenti, una trance da far rabbrividire. Valentina, Giulietta e Alba (cioè, Anna Salvatore) entrate al seguito dell’assistente del santone, rimangono a interrogarsi e
a guardarsi intorno, silenti e un po’ smarrite. La stanza era in un gran disordine, il letto sfatto e Bishima, sempre sorridendo, se ne lamentava. «Siamo zingari» e mostra alle sue assistenti il libro de I-Ching. «Si siedano care, il thè è benefico. La bevanda degli antichi saggi orientali.» Poi si assenta e le donne si guardano sempre più smarrite chiedendosi che messaggio potrebbero ricevere. L’assistente dice infine: «È molto stanco, ha avuto una trance lunga e faticosa. Maestro nel thè ho messo la grappa». Bishima continua a fissare soprattutto Giulietta in assoluto mutismo. «C’è un’atmosfera erotica tremenda qui dentro…» dice Alba e, indicando il letto, sottovoce aggiunge: «Sono amanti, certamente lui e l’assistente sono amanti!» Valentina si rivolge al Santone dicendo: «Maestro, la mia amica vuole proprio parlarvi. Voi potete veramente aiutarla» e facendo pressione su Giulietta la esorta: «Digli, digli… vuoi che ti lasciamo sola con lui? Parlaci!» Giulietta timida sussurra a mezza voce: «Niente… c’è stato, un fatto… una cosa che…» Poi finalmente trova il coraggio di vuotare il sacco. «Da ieri notte mi sembra che tutto mi manchi… ho paura che tutto mi manchi. Ho paura che mio marito abbia un’altra donna.» Bishima continua a sorridere, calmo e quasi astratto. Ma adesso l’Assistente gli versa un balsamo sulle mani e gli friziona il capo pelato. Lui farfuglia cose strane, parla di un’altra dimensione, del Lapis Philosophorum, poi socchiude gli occhi e tace assorto.
Alba sempre più eccitata propone di tornare il giorno dopo a disegnare una mano del maestro che sembra librarsi in un’altra dimensione. Improvvisamente Bishima comincia a muoversi, ad atteggiarsi in modo femmineo e lievemente mostruoso, mentre si nota anche un cambiamento dei tratti del volto che assumono via via i tratti di una maschera indefinibile. L’Assistente fa cenno alle donne di non muoversi: evidentemente la trance è ricominciata. Con voce sapiente l’Assistente chiede: «Chi sei spirito?» Una strana vocina, dolce e sensuale, esce dalle labbra di Bishima. «Sono Iris!» E rivolgendosi a Giulietta le chiede: «Perché non impari a piacere di più a tuo marito?» Giulietta si offende e in modo aggressivo risponde: «Ma io piaccio moltissimo a Giorgio!» Appare spaventata, perché dentro il Santone percepisca una presenza femminile molto conturbante e forte, quella di Iris. Dopo averla quasi insultata, le spiega che lei è una donna raffinata, una vera donna, e che non deve avere paura. E ecco che, dopo uno strano gorgoglio, si risveglia Bishima. Questo dialogo di Giulietta degli spiriti rappresenta la sintesi della liquidazione dello spiritismo da parte del regista. E forse anche la cessazione della storia con Anna Salvatore. Dimostra anche quanto Fellini fosse in anticipo sulla cultura corrente e modaiola.
A quell’epoca a Roma erano molto in voga i thè giapponesi, ma anche le avvolgenti conferenze del filosofo indiano, Jiddu Krishnamurti, sul Tempo, l’Amore e il Pensiero, erano sempre affollatissime e frequentate, tra gli altri, da Dado Ruspoli, anticipatore di ogni moda. Era chic anche mangiare
macrobiotico dopo essere stati visitati dal celebre medico omeopatico Nyoiti Sakurazawa, cioè George Osawa. Visitandoti le mani e le unghie ti trovava sempre molto yin e ti spronava a essere più yang, grazie a una dieta appropriata che avrebbe migliorato la tua salute. Fellini amava tutto ciò che proveniva dall’Oriente ed entusiasta incontrò George Osawa, che gli profetizzò che era prossimo all’infarto e che aveva le unghie di un uomo di settant’anni! Il regista si allarmò soprattutto quando, dopo accurati esami del sangue, scoprì veramente di avere un colesterolo altissimo e mangiò per qualche tempo solo cereali, riso integrale, alghe, verdure, germogli e cipolle, spingendo anche una Giulietta refrattaria e ribelle a farlo. Io fui una delle prime vittime. Avevamo infatti un’amica comune, la marchesa Parvolo, direttrice e proprietaria del Centro macrobiotico di via della Vite, che tutti frequentavano al tempo. Fin quando un giorno Giulietta chiese a Caterina: «Ma sto Osawa che sembra mi nonno, da dove esce? Come fa a scoprirti er tasso di colesterolo alto tastandoti i polsi e le unghie?» «Per carità, Giulietta, lascia perdere!» replicò mamma. «Mario Sposito l’epatologo del San Giacomo ha ricoverato Marina per il sale ingurgitato per diventare più yang. Faceva anche dei bagni nel sale grosso!» «Ma dici davvero? Sai che te dico, Caterì? Io a Ninì continuo a faje mangià i rigatoni con un sughetto che fa svenì, vero conte?» Oltre al colesterolo, a tormentare Fellini verso la fine di Giulietta degli spiriti, furono i fischi alle orecchie e, partendo dalla convinzione che il matrimonio fosse assolutamente sacro, ripresero ad assillarlo tutti i complessi di colpa che aveva liberato con 8½. Giulietta era una moglie all’antica e quindi il torto era evidentemente suo!
«I miei film esistono perché esistono le donne!» e aggiungeva: «Mi stupisce come alcuni dei miei colleghi riescano a fare film privi di donne, magari film civili, accigliati, virili, per carità ottimi film, ma senza nemmeno una donna! Come è possibile? La donna è tutto, sei tu, il tuo rapporto con te stesso e le zone più buie di questo rapporto, le interruzioni più malate, le rivelazioni e le visitazioni più sfolgoranti, la donna è il mondo, il tuo scambio con il mondo, l’angoscia e la felicità di questo baratto, la donna è l’Aldilà e il Prima!» Una volta capito che non avrebbe mai potuto trasferirsi nella stanza di un motel e voltare le spalle a Giulietta, Federico continuò a vivere tra Cinecittà e passioni che ignoravamo. Però trascorreva quasi tutte le domeniche a Fregene dove giocava a dama o a pallone con l’antropologo Walter Harrison, compagno della Salvatore, oppure fumava, fumava troppo sotto i pini, o almeno così ci veniva detto. Lucia Alberti ci riferì inoltre che Anna Salvatore aveva ripreso le sedute spiritiche per regalare ancora un po’ di forza al regista e fargli finalmente capire che anche una donna poteva essere una grande artista. Le sedute diventavano sempre più deleterie e liberavano negatività. «Le chiamano le Cosine sante, evocano uno spirito-guida detto Home.» «Cosa, cosa?» chiedevamo perplesse. Partecipavano anche Giulietta, Cappelli e Harrison. Sembrava che a Federico desse fastidio anche solo la voce del giornalista, altre volte, invece, diventava quasi un ronzio rassicurante. Una sera domandò all’improvviso a mamma: «Salvato ti sembra un pederasta?» «No, non credo proprio, però non lo conosco bene per giudicarlo», replicò imbarazzata. Giulietta gli aveva forse fatto intendere che fosse gay? Il regista comunque era indiscutibilmente attratto dall’Oriente, faceva I-Ching, aveva letto le Upanishad,
dov’era scritto che «ti puoi salvare solo attraverso il cibo, il cibo è una medicina universale» e affascinato dalla dialettica tra yin e yang, quindi incuriosito dalla mia singolare vicenda, si fece raccontare il rischio che avevo corso con la dieta macrobiotica e l’uso scriteriato del sale come essenziale alimento. Prima rise a crepapelle, poi mi guardò pensoso, quasi fossi una cartina di tornasole, il suo Nettuno infatti era in Cancro come mi spiegò Lucia Alberti. Ci legava il senso del mistero delle cose. Osawa avrebbe marcato sicuramente un punto a suo favore nell’universo del regista, se da lì a poco non fosse morto di infarto, stecchito a soli settantadue anni e grazie alla sua dieta ne dimostrava cento. Mi chiamò una domenica mattina insolitamente allegro il Maestro. «Tesorino, ma sai che Osawa è morto di infarto? Pensare che l’infarto l’aveva pronosticato a me!» aggiunse non senza soddisfazione. «Si vede che da grande mago bianco respingi la malasorte al mittente», conclusi facendolo ridere. Ancora non era esplosa la cultura psichedelica che da lì a poco, ci giungerà dai Beatles, seguaci del Maharishi Mahesh Yogi e adepti di una tecnica trascendentale capace di agire positivamente su disturbi quali l’ipertensione, l’asma, l’insonnia e l’emicrania. Anch’io ero stata allieva del Centro di Self-Realization Fellowship, fondato a Los Angeles da Paramahnsa Yogananda ma senza ottenere smaglianti risultati. E proprio con Fellini, tempo dopo, al ritorno dal mio avventuroso viaggio americano, discussi di quanto labili mi sembrassero anche le massime del Guru dei Beatles: Non combattere l’oscurità, parla con la luce e l’oscurità scomparirà. «Che vuol dire?» commentò alzando la voce e aggiunse: «Non è meglio Sant’Agostino? Eravate tenebre ma Egli vi ha resi luce, vi ha resi giorno. Perché in te o Dio, è la sorgente della vita e alla tua luce, vedremo la luce. E ancor meglio Dante. L’inferno dantesco non è forse dominato dal buio? E
Dante non rintroduce il tema della luce nel terzo canto del Purgatorio?» Mi lasciò senza fiato. Ammirai la sua cultura insieme cattolica e dantesca, non potei più obiettare nulla tranne commentare a sproposito. «Perché non giri un film sulla Commedia?» «Mi sono specializzato nell’Inferno in vari film e nemmeno te ne sei accorta?» Mi azzittii con la coda tra le gambe.
25 «A Federico piace vivere nel caos»
Milena Vukotic interpretava nel film due ruoli, la cameriera e la santa sulla graticola. Amava i Fellini e portava loro crostate molto buone. Giulietta degli spiriti sembrava marciare con buona lena. Era un film patinato e meraviglioso, ma dov’era l’ispirazione feroce che aveva animato 8½? Qui era assente. Nella sceneggiatura si legge: Alba: «Che stupenda donna è tua madre, Giulietta, perché non le dici di venire a posare?» Giulietta: «Sì, è bellissima, una notte mi sono alzata dal letto mi sono affacciata in corridoio e… l’ho vista proprio così… come una regina! Forse andava a un ballo con papà… restavo a guardarla delle ore quando le sarte le provavano i vestiti». Ecco una delle mie frasi messe in bocca a Giulietta. Fellini me le aveva rubate quando gli parlavo della mia infanzia, e mi chiedeva cosa significasse essere figlia di una donna così bella… «Un po’ castrante, esser figlia di una donna simile, no?» chiedeva, stupito che non fossi per nulla competitiva. «No anzi, mi veniva a dare la buonanotte e usciva con papà, indossando abiti da fata, infilata nei suoi rasi, profumata all’Heure Bleue, e temevo quelle sue uscite, a volte rientrava piangente e disperata, credo di aver sviluppato un forte senso
di protezione per lei, per questo non sono competitiva, la bellezza è fragile e si rompe.» «Si rompe?» chiedeva Fellini, sempre più attonito. «Mamma può godere solo adesso della sua bellezza grazie a te e a Piero, prima non poteva esprimerla. Aveva un marito geloso e a Torino era assai invidiata.» «Già, com’è la società piemontese?» «Ha sofferto molto per le pepie.» «E chi sarebbero?» «Le pie dame.» «Vostro padre invece parla solo di questa città! Gli è cara.» «L’adora, ci è nato e cresciuto, frequenta Arpino e Soldati che sta scrivendo un inno a Torino, il libro si chiamerà, Le due città. Papà mi porta tutti gli anni al Premio Strega. Quest’anno ha vinto Natalia Ginzburg con un romanzo formidabile, Lessico famigliare, leggero e divertente!» «Leggi di tutto.» «Grazie a papà leggo molto, ma non di tutto. Ha detto sì al romanzo della Ginzburg perché è educativo. Ha temuto Il male oscuro di Berto, che mi ha voluto consegnare personalmente con dedica una mattina a Villa Balestra. Ha scritto il suo augurio per me: Ciao Marina, sii felice!» «E com’è?» chiedeva distratto. «Un capolavoro! Almeno secondo Gadda. Sono sicura che l’hai letto tutto d’un fiato!» «Berto ti ha corteggiato?» «Non l’ho più visto! Lui e la moglie si amano troppo, così da pedinarsi a vicenda.» «Si pedinano?» ripeté, grattandosi la testa. «Per gelosia reciproca, me l’ha confidato un’amica comune.»
Anche il rapporto fra Gianni Di Venanzo e Fellini in qualche modo peggiorò durante le riprese. Gianni era un uomo diretto, abituato a dire pane al pane, anche Giulietta non l’amava e la notizia che Otello Martelli fosse venuto di nascosto sul set di notte a girare i primi piani dell’attrice, prese pian piano forma, diventò quasi una certezza. Voleva essere ripresa solo da Martelli. Un giorno Leopoldo Triste si avvicinò con passo spedito verso di me. Sbiancai, memore di ciò che era successo l’ultima volta, quando ero rimasta incastrata in una sua prolissa conversazione letteraria. Cercai di fingere distacco e indifferenza. Ma era impossibile sfuggirgli e soprattutto sfuggire alle sue ossessioni, prima fra tutte, il suo amore per Pirandello. E così ricominciò la lezione. «Il nostro io si può disgregare in mille frammenti e ricomporre così in una nuova personalità, te ne rendi conto? Non credo che tu abbia capito profondamente Pirandello, il maggior commediografo del mondo, sovente rappresentato a Broadway, ha vinto il Nobel nel 1934. E soffriva d’insonnia come Federico. Spiritista come lui. Sua moglie, Maria Antonietta Portulano, era figlia di un ricco socio del padre, si combinò il matrimonio e fra loro scattò una travolgente passione, ne sei al corrente? Ma piano piano Pirandello non riuscì più a vivere accanto alla moglie, che impazzì di gelosia. Com’era per te Maria Antonietta?» «Non so… com’era? Mi sembri Mike Bongiorno, forse era disperata di vivere con Pirandello.» «Eh, purtroppo aveva gli incubi. Con te bisogna tenere alto il livello di discussione, anzi, altissimo. Ho avuto un attimo di traballio. La Portulano era di una gelosia delirante, paranoica. Prestami un attimo di attenzione, e rispondimi, perché il protagonista di Il fu Mattia Pascal, dopo essere diventato milionario al Casinò, si crea una doppia vita e una doppia personalità?»
Ebbi il desiderio di ficcargli due dita negli occhi. «Perdonami, Leopoldo, devo assolutamente andare ad aiutare la mamma che mi aspetta in camerino…» Non riuscii a interromperlo. «Perché? Be’, Pascal aveva letto che era stato ritrovato il suo cadavere, immagino… ebbene rinacque come Adriano Meis!» «Dove scappa questa mascalzona? Leopoldino cosa ti stava raccontando? Me lo dici? Di chi sei innamorata Marina bella?» Federico m’interrogava senza che me l’aspettassi e mi fissava, facendomi un po’ il verso o copiandomi il sorriso, da caricaturista quale era. «Faccio tutte queste smorfie?» chiedevo interdetta. Ogni tanto Lucia telefonava dicendoci che Federico non poteva continuare a vivere come un commendatore dei Parioli, con una moglie che gli preparava la passata di zucca, un amico scimunito come Cappelli e una cameriera in casa che lo controllava passo passo. Ma io difendevo Giulietta, faceva profondamente e anche dolorosamente parte dell’universo del maestro. Federico diceva: «A volte mi prende per mano e mi porta in zone in cui non sarei mai arrivato!» Non credo mentisse. Insomma anche se la tradiva, chi aveva un marito capace di dirti cose simili? La metteva sempre su un piedistallo, avendo lei conservato un grande mistero. Io la trovavo a volte molto naïf non però di disarmante candore, era spesso ovvia al limite dell’offesa soprattutto verso le donne, cui regalava spillate cattivelle. Lucia la riteneva specializzata in adulteri casalinghi. «La farsa che lei si sbronza e il conte è un gentiluomo romantico non regge! Non sai che, se Federico non torna per cena, Giulietta telefona a tutta Roma. Ma perché continuano a recitare la sceneggiata della coppia fedele? Salvato Cappelli è un giornalista frustrato e si paragona a Fellini, un regista dal talento abbagliante? Ma andiamo!» O ancora: «Se devo
continuare ad assistere a questa manfrina, non andrò più a cena da loro! Perché è lui il Manovratore di tutti, il grande Burattinaio. Gira continuamente il film della propria vita.» Mamma rispondeva che proprio per questo motivo Federico stava facendo un’opera di grande equilibrismo e provava pena per entrambi. «Pena?» si meravigliava Lucia. «Che viva in modo così complicato!» «No, a Federico piace vivere nel caos. Si sente al di sopra di tutti… 8½ gli ha dato alla testa. Quando ho scoperto che è un Capricorno con ascendente Vergine ho capito tutto, è un segno di un’aridità affettiva totale, ha anche la Luna in Capricorno, Marte in quadrato con Mercurio lo rende imprevedibile. Non mi aveva mai detto la sua vera data di nascita, ma l’ho avuta da Anna Salvatore. A sentir lei Giulietta, pur cresciuta in mezzo a donne, ne parla sempre male. La zia milanese l’ha allevata con un’assurda pruderie piccolo-borghese.» «Sono cose che ti dice la Salvatore?» replicava mia madre. «Non lo prenderei per oro colato! Anch’io non mi sono emancipata da mio marito, è un’attitudine delle donne italiane, figuriamoci avendo Fellini per marito. Penso che al posto di Giulietta sarei ridotta peggio, un’oca in salamoia.» Mamma perdonava tutto a Federico, dovendogli la propria rinascita professionale. Sapere Federico fra Giulietta, la Salvatore e Sandrocchia e una quarta donna misteriosa che interpretava proprio la Milo nei suoi ultimi due film e che nel piccolo clan era soprannominata la Sublime Chimera, però non la rendeva serena, perché gli voleva veramente bene. Come poteva il Maestro gestire il suo harem? Venimmo anche a sapere che Sandra, innamorata follemente, aveva tentato il suicidio, con successiva cura del sonno in clinica. Il tutto era avvolto dal più completo silenzio, ci dissero.
Quando Federico la sgridava perché fumava troppo, Giulietta replicava «Devo tirarmi su, e famme almeno bere n’artro whischetto…» e lo nascondeva nei luoghi più impensati, anche nella bottiglia dell’olio. Sembrava una donna poco affamata di cultura, non aveva un palco all’Opera, non andava ai concerti, raramente a teatro, se non per vedere Valentina Cortese o Giorgio Strehler e nemmeno al cinema. Mi meravigliavo inoltre che in casa non possedessero nessun quadro d’autore. Lucia, in buona fede e notando che a Federico piacevano i bambini, aveva provato a dire a Giulietta di adottarne uno, ma fu aspramente rimproverata. «Che te salta in mente, Lucì? Ci ho già da pensà ai nipoti miei che crescono belli e sani e mi prendo in casa degli sconosciuti? Ho la tenuta, ma devo stare attenta, tenere gli occhi puntati sulla roba mia, altrimenti ’sti contadini me fregano. Guarda le patate! Ve le volevo fà col rosmarino, ma mi hanno dato quelle marce, con tutti i milioni che spendo, prima o poi io e Ninì annammo pe’ stracci, me lo sento!» concludeva Giulietta, accendendosi un’altra sigaretta, l’ennesima, non senza commentare con autolesionismo: «Ninì co me s’annoia a morte!» Anche Federico, d’altronde, fumava troppo. Trascorrevano domeniche malinconiche tutti insieme! Federico con Giulietta e Cappelli, Anna Salvatore con Harrison e Sandra Milo con Moris Ergas a giocare a scopone, sotto i pini di Fregene. Giulietta, intanto, aveva affittato una mansarda a Parigi e partì con Salvato Cappelli per comprarsi eleganti toilette. Tornò a Fregene più elegante e rinfrancata.
26 Un film faticoso
Quando uscì in Italia, Giulietta degli spiriti non venne accolto come 8½. Se ne parlava con cautela, si faceva riferimento soprattutto ai valori formali. Goffredo Fofi nei Quaderni piacentini l’attaccò senza riserve, definendolo, un po’ crudelmente, un pasticcio colorato, facendo quasi intendere che il regista «dominando l’insopportabile pazienza di Giulietta, si era esercitato in una sorta di sadismo sentimentale». La protagonista era vista come una Cenerentola fallimentare. Ma il regista pareva contento di aver reso un tributo al talento della moglie. Alla volta di New York partì tutto il clan felliniano e scesero all’Hotel Pierre, anche mamma che mi chiamò felice ed eccitata. Tutti tranne Flaiano, che, essendo stato sistemato in seconda classe in aereo, e non per colpa di Fellini, appena sceso a New York, risalì su un volo di ritorno per Roma. E così chiuse ogni rapporto con il regista mettendo tra loro un oceano. La sua collaborazione con Fellini finì per sempre, ma non per la seconda classe, come tutti pensarono, diciamo che lo scrittore afferrò la palla al balzo. In realtà, forse sembrò a Flaiano di aver perso troppo tempo con il cinema, mettendo a segno due capolavori, La dolce vita e 8½ e temeva che l’anima picaresca e vagabonda di Fellini, superata la boa dei quaranta, fosse ormai al tramonto, o almeno così disse a me, una volta che lo incontrai per caso
seduto, da solo ai tavolini di un bar al Pantheon. Flaiano mi sembrò volesse affrontare scelte per lui più decisive. Finalmente scrivere il romanzo della sua vita dopo l’esordio con il Premio Strega? Comunque soffermarsi sui torti subiti non era rasserenante. L’aveva segnato anche l’insuccesso teatrale di Un marziano a Roma, e alla fine lo scrittore mi rivelò di non godere più nemmeno di una buona salute! Sandrocchia, pimpantissima, sembrava invece essersi completamente ripresa nel viaggio a New York, e mi raccontò mamma che era stata vestita di celeste da Jole Veneziani, come una magica fatina, quasi a volerla adeguare al gusto americano. Le giornate si susseguivano piene di incontri con giornalisti e fotografi, un pranzo con 450 invitati che avrebbe dovuto svolgersi sulla Leonardo Da Vinci, fu spostato all’Hilton. Com’era successo già alla prima di 8½ per la Signora Misteriosa, anche qui il pubblico americano si alzò in piedi facendo un prolungato «Oooh» quando è inquadrata in primo piano la madre di Giulietta, forse troppo breve, si rammaricava ancora Caterina. Davvero stupenda! «Vuoi sapere perché ti riprende solo per pochi attimi, è perché Fellini ama le donne mostruose!» ironizzava malevolo il regista Riccardo Freda. Il film Tutta la città canta, riedito con il titolo Sei per otto quarantotto, fu cosceneggiato anche da Federico Fellini, con Freda, Steno, Marcello Marchesi, Vittorio Metz. Freda e Fellini erano stati molto amici. «Ho visto i sorci verdi con lui!» questo diceva Freda di lui, parlandone in privato. Mamma pensava che Giulietta degli spiriti fosse il suo canto del cigno! Invece Pier Paolo Pasolini e Danilo Donati la resero indimenticabile anche in Salò dieci anni dopo: mai era stata così crudele e bella con una interpretazione che avrebbe dovuto essere premiata da un Nastro d’Argento. Ma il film-
scandalo uscì in sordina come fosse un peccato mortale e poi fu sequestrato. Caterina da New York, parlando un perfetto inglese, fece da chaperon a Giulietta nei grandi magazzini e l’aiutò a destreggiarsi con i giornalisti. Giulietta le confidò che con le sue cameriere era risoluta e attiva, già di primo mattino metteva in campo una strategia di attacco. Redigeva dei veri e propri bollettini: lunedì bucato, martedì rammendo, mercoledì stiro, giovedì vetri, venerdì cera ai pavimenti, sabato pulizia a fondo della cucina. «Ma è un piano di lavoro da forzati!» esclamò mamma. «Per quale motivo credi che Ninì mi apprezzi come donna di casa?» «Brava, però non potrei mai programmare così attivamente le mie giornate.» Le sue telefonate intercontinentali sprizzavano di risate e ne ero felice. Giulietta e Federico parteciparono a un party sulla Fifth Avenue con Jacqueline Kennedy. Mamma aiutò Giulietta a scegliere un elegantissimo tailleur per l’occasione e venne omaggiata con un primo grandioso ricevimento a casa di Giovan Battista e Letizia Buitoni e un secondo dalla sua migliore amica, ex cantante lirica che aveva sposato un facoltoso banchiere, Hélène Finney Brandwein. Poté anche riabbracciare e ringraziare il pellicciaio russo Manuel Ravicovich che aveva deciso della sua vita di artista, quando quattordicenne era rimasta orfana. Si era battuto contro una madre che la voleva piccinina di bottega. Il pellicciaio, amico del padre, rispettandone le ultime volontà, l’aveva invece messa a studiare pianoforte e a prendere lezioni di canto e dizione. Ravicovich aveva pianto ritrovandola ancora nel pieno della sua bellezza. Insieme alla pianista Raissa Liftschitz, era
sfuggito alle leggi razziali del 1938, abbandonando l’Italia e aprendo una grande pellicceria a New York. Giulietta degli spiriti era stato un film faticoso da terminare, al doppiaggio si era lavorato dal marzo 1965 fino alla metà di aprile. Quando vedevo Fellini notavo sul suo volto i segni di un singolare sfinimento, aveva le occhiaie, era molto stressato. Adesso mi capitava anche di incontrarlo spesso a via del Gambero o in via della Vite, com’era sua abitudine andava in piazza San Silvestro a telefonare o a scrivere dalla Posta Centrale. Sapeva sempre comunicarti molta gioia, cambiarti la giornata, non so spiegare come riuscisse a trasmetterti l’ardore del suo spirito. Possedeva un incanto e una affettuosità che non ho mai ritrovato altrove, in quel breve momento che ti aveva lì eri il suo paradiso e la sua ragione di vita, non c’era nessun altro al di fuori di te. «Marinotta, potresti volermi bene per tutta la vita? Dimmelo, dimmelo almeno una volta, mascalzona!» «Non te lo dirò mai! E nemmeno tu, contafavole che non sei altro, lo faresti per più di un mese!» lo sfottevo. Ma quel giorno mi rivolse un sorriso che avrei potuto definire pallido. Ci furono giorni in cui non rispondeva più al telefono come nei miei sogni. Anche se si trattava di un dettaglio, provavo un senso di privazione, mi appariva come la tessera smarrita di un puzzle. Mi chiesi se avesse cambiato numero. Pensavo al mio lontano incubo, o era stato come un avvertimento? Purtroppo gli spiriti cattivi si erano risvegliati. Guai a sfidarli, o sfiorarli. All’orizzonte si stava profilando il Mastorna e anche qui tanti spiritelli stavano organizzando un bel groviglio di atti mancati. I diavoli si vendicavano tutti del mago?
27 La fine di una grande amicizia
«Ma perché sei andato a finire con quel produttore napoletano?» chiese stordito dalla delusione e con gli occhi lucidi Angelo Rizzoli, venendo a sapere che da tempo Federico s’era impegnato con De Laurentiis e aveva firmato per un film di fantascienza, dal titolo Assurdo universo. Il produttore milanese non se ne dava pace, prevedendo un disastro. «Ma quei due non sono mica mai andati d’accordo! Lo sapete che è proprio la materia, la pasta di cui sono fatti a essere diversa», si lamentava deluso Rizzoli, quando ci invitava a cena. Strano, Federico faceva raramente passi falsi ma questo lo era stato fin dall’inizio. Guarda caso, eravamo dello stesso parere di Rizzoli. Mi chiedevo come facesse un uomo mite come Federico a dimostrarsi a volte freddo e crudele. Succedeva o almeno poteva capitare che, mentre ti parlava, ti provocasse una tempesta dentro il cuore o con una sola frase sentissi partire un fremito lungo la schiena. Era infatti uno sciamano provvisto di infiniti doni, compresa una grazia e un’ironia assoluta. Ma poi che brevi crudeltà e improvvisi abissi di dimenticanza! De Laurentiis si era anche spostato nei suoi monumentali studi sulla Pontina, orgogliosamente chiamati Dinocittà, dove realizzò La Bibbia e altre superproduzioni. Eppure con lui Federico aveva già avuto una pessima esperienza con La dolce
vita, che il produttore aveva definito un film incoerente, falso e pessimista. E invece era stato un successo e un capolavoro. Piero Gherardi spingeva mia madre ad aprire una boutique ai Parioli, in via Guido D’Arezzo. L’avrebbe aiutata, visto che all’orizzonte non compariva un nuovo film, da girare, tranne Io, io e gli altri di Alessandro Blasetti. Anche questo regista, come il Fellini di 8½, la trasferì nel personaggio dello schermo tale e quale. Ma arrivò un giorno maledettamente sfortunato, quando fu, mio dio? Ricordo solo un dispettoso vento primaverile, o era ancora febbraio? Piero ebbe un improvviso colpo di luna, diede un’intervista alla rivista «Grazia» in cui parlò fuori dai denti di Giulietta degli spiriti e di quanto fosse stato difficile vestire Giulietta. Disse che era stato quasi impossibile renderla elegante e bella. Soddisfatto di aver dato fiato alle trombe, portò subito la rivista a mamma. Appena la lesse sbiancò e quasi svenne. «Ma Piero che cosa ti è preso, sei forse impazzito? Non hai capito che hai perso Federico per sempre?» disse poi, consigliandogli di smentire seccamente subito tutto, anche a costo di querelare la giornalista, accusandola di essersi inventata tutto. «Ma come faccio, queste cose le ho dette davvero!» replicò, non rendendosi pienamente conto che a Fellini potevi dire con gentilezza quasi tutto, ma guai a toccargli Giulietta! In questo consisteva la sua disarmante e complicatissima semplicità. Se lo facevi, ti cancellava dalla sua agenda. «Non trovate esorbitante nel film lo shock figurativo? Tutte quelle donne iperpennacchiate? Troppo, troppo, troppo di tutto!» commentò non molto tempo dopo il Maestro parlando del suo ultimo film. Buttò lì questa frase un giorno come un altro, parlandoci improvvisamente dei costumi e della scenografia di Giulietta degli spiriti, da Cesarina. Mamma accennò al fatto che lei ne aveva goduto ampiamente, doveva a
Piero anche la sua grande bellezza e balbettando quasi non le riuscì di difendere come avrebbe desiderato il suo più caro amico. Ma pensò che fosse ancora troppo presto per gettare acqua sul fuoco. Federico infatti era furente e ferito. Ma dopo non molto mia madre ci ripensò e andò direttamente in ufficio da Fellini, a spiegargli che Piero era disperato e aveva dato quell’intervista probabilmente ubriaco e gli strinse addirittura le mani per baciargliele. «Ti scongiuro, è proprio come un bambino, perdonalo!» Ma lui troncò brutalmente il discorso: adesso desiderava girare un film scarno, essenziale. E crudelmente inferse un colpo di mannaia al suo art director. Gherardi non s’accorse subito d’aver la testa staccata dal collo. Così cominciarono a sgretolarsi tanti rapporti d’amicizia, uno dopo l’altro e Federico Fellini iniziò un suo personale Purgatorio inaugurando una autentica Via Crucis con il Mastorna. Non so se Fellini fosse soddisfatto del risultato raggiunto con Giulietta degli spiriti, il suo intento era stato di girare una fiaba buffa che liberasse le donne dai condizionamenti dell’educazione sentimentale, secondo lui rimasta ottocentesca, ma i critici si rivelarono cauti nelle loro recensioni. Forse lui stesso si sentì un po’ tradito da un film sui fantasmi e gli incubi di una donna sposata. Eppure la sua genialità risiedeva nell’avere una forte componente femminile, sapeva capire di che umore eri, e quando t’incontrava era capace di dirti quali sogni e speranze abitassero in quel momento il tuo cuore. Tra le varie doti e gli infiniti doni di cui era provvisto non c’era però l’attitudine al perdono. Mamma era praticamente disoccupata e invece di perdersi d’animo, con infinito coraggio, dote che dimostrò per tutta la
vita, dopo qualche mese aprì proprio una boutique a via Guido D’Arezzo, inventando con Gherardi magnifici cappotti invernali alla russa. La stoffa era quella usata solitamente per i divani dai tappezzieri. Confezionò e disegnò lei stessa molti capi, aveva un talento naturale, ma operava sempre su suggerimento dell’art director. Giulietta Masina fu la prima cliente di mamma. Anch’io ebbi in regalo un cappotto alla Lara del Dottor Živago. Che bei tempi! Ero magrissima. Federico aveva completamente rotto il rapporto con Gherardi e ogni volta che mia madre diceva «Ho visto Piero! Sono stata a pranzo con Piero! Piero ha un’infinita nostalgia di te!» non replicava, come se il suo ex grande amico, fosse solo un fantasma. Una sera in cui era particolarmente triste, a Fregene, mi disse che aveva così tanti problemi che talvolta desiderava fortemente morire. «Ma va là! Ma che stai dicendo? I più celebri film del dopoguerra sono i tuoi.» «Sono stato attore, sceneggiatore, disegnatore, secondo te cosa mi manca?» «Di certo non un’altra donna.» «Perché no? Che ne sai tu?» «Piantala! Polanski ha detto che 8½ è degno di stare alla pari con Quarto potere. Ma tu lo sai e fingi…» «Pastrocchiona bella, ma perché non vuoi recitare?» Non riuscivo a capire la sua fatica quotidiana di affrontare ogni giorno la troupe in attesa, simile a un esercito di centinaia di umili fanti prima di una battaglia decisiva. Un esercito appostato intorno al suo re, che a volte diveniva clown, mimo, seduttore che urlava e si sbracciava o sussurrava o taceva mentre Di Venanzo installava le sue magiche luci.
Fellini senz’altro avrebbe intrapreso un nuovo corso, il suo narrare fiabesco sarebbe diventato più elegante ed elaborato. Ma prima ci sarebbe stata un’esplosione di tutto quel materiale infiammabile che aveva per troppo tempo custodito nel segreto del suo cuore.
28 Anna Giovannini, l’amante
Un giorno, mentre camminavo per il centro di Roma dalle parti di piazza Argentina per comprare del velluto viola da Bises e farmi cucire una giacca, una forza misteriosa mi spinse ad addentrarmi nei vicoli e vicoletti dietro alle Botteghe Oscure. Mi apparve una piccola farmacia in via dei Delfini o in vicolo Morgana. Sembrava finta, cinematografica. Fui irresistibilmente attratta a entrare. Mi parve di transitare dalla realtà a un mondo irreale, e mi sembrò di fare il mio ingresso in un luogo incantato, eppure era solo una piccola e anonima farmacia. Era una magia simile a quelle che avvenivano in Giulietta degli spiriti? Sì, perché improvvisamente mi si parò innanzi, lei, la Grande Chimera. Oppure secondo Giulietta, la Pantegana! In realtà non sapevo nulla della signora che mi si mostrò oltre il bancone. Sembrava uscita da un calendario degli anni Trenta, una signora Grandi Firme dalla voce avvolgente e melodiosa, la voce che hanno gli angeli. «Signorina, posso aiutarla?» «Sì, dottoressa, non so nemmeno perché sono entrata qui e non sono andata nella mia abituale farmacia ai Parioli. Ho spesso stati d’ansia.» «Causati da cosa?» «Dalla mia famiglia.» «Purtroppo per certi prodotti occorre la ricetta medica, ma credo che se prende quindici gocce di Rescue Remedy, un
rimedio omeopatico che dà ottimi risultati, starà meglio. Mi faccia però sapere se si sente meglio, perché non torna a trovarmi il prossimo sabato? Lei è così bella. Ho altri prodotti a base di fiori.» La guardavo affascinata e sorpresa. Non riuscivo a dirle neppure «Buogiorno» o «Grazie»! Chi era? Aveva una pelle trasparente, simile a quella di mia madre e gli occhi turchini come di un mare in tempesta. «Lei ha una voce unica, ha mai pensato di fare l’attrice?» «Ma che dice, sa… io l’aspettavo.» «Mi aspettava?» «Sì.» Dietro di lei si agitò lievemente una tendina ed ebbi un brivido, come se qualcuno di nascosto ci spiasse. Sarei dovuta tornare o no? I suoi magnifici occhi azzurri sembravano poter anche diventare freddi e crudeli. Tornai a ringraziarla della cura efficace che ho usato per tutta la vita. Mi affascinava quella donna completamente terrena nelle forme ma celestiale nella voce, che mi garantiva che bere una camomilla e quelle gocce avevano un effetto identico, l’importante era crederci. Ci tornai più volte e alla terza dalla tendina del retrobottega inaspettatamente sbucò fuori Federico Fellini che travolgendomi in un abbraccio mi disse: «La mia bella buffona che non sa di essere una veggente! Questa è la mia Paciocca, la Chimera, la donna misteriosa che cura tutti i miei mali! Mi vuoi dar retta e finalmente farmi i tarocchi? Le dico da tempo che è una sensitiva, ma lei non mi crede. Diglielo anche tu, Annina». Anna sorrideva complice. «Questa donna ha una voce meravigliosa, da Sirena.» «Hai capito l’essenziale!»
Ero sorpresa e spaventata dalla rivelazione di un incontro che mai mi sarei atteso. «Venga a fare i tarocchi da me, così mi dirà se questo lazzarone mi tradisce o no…» «Ecco, sì, sì, vai a trovare Anna, è una creatura solare e solitaria! Abita vicino a te in via Lima.» In via Lima? Ecco dove spesso si faceva lasciare il Maestro! Era la Bella signora! Così, grazie al mio sesto senso conobbi Anna Giovannini, la donna che per trentasette anni fu la compagna segreta del regista e che divenne anche nostra amica. Era una donna davvero molto sola, perché il regista l’amava in modo esclusivo e ne era gelosissimo. Federico ci chiese di farle compagnia e di sostenerla nei momenti difficili. A parte la farmacia, di cui si stancò ben presto, io e mia madre, notammo subito che Anna era una donna fuori dal mondo e priva di senso pratico. Immaginava che tutti fossero buoni e pronti ad amarla proprio come l’amava il suo Federico. Ma la realtà non era questa. Fellini mandò anche lei a vestirsi nella boutique di Caterina. Avere la moglie e l’amante come clienti per mia madre non fu la migliore delle situazioni e per questo perdemmo l’affetto di Giulietta, poiché Federico a quell’epoca era pedinato! A volte gli appuntamenti delle due si sovrapponevano e mamma doveva chiamare l’una o l’altra per spostare la prova. La Paciocca fu la testimone più autorevole della vita di Fellini? Non proprio, per sua fortuna le sfuggì la sua tendenza al tradimento, magari solo per curiosità. E le sue frequentazioni troppo strette, come quelle con la segretaria di edizione, ad Anna le tacemmo sempre. Così poté vivere accanto a lui una vita appassionante, fare brevi viaggi e vacanze, quasi fino alla sua morte. Perché dopo si aprì il vaso di Pandora e fu un tormento. Gli ultimi suoi anni furono drammatici. Lei a quel tempo si lamentava solo della
sua impazienza e del suo disordine. Due difetti che, più o meno, possiedono molti uomini d’ingegno. «Non lo vorrei mai come marito», mi ripeteva. Anna aveva la fierezza e il biancore di un cigno, era regale e tenebrosa, amante della stabilità, determinata tanto da chiudersi a riccio. Se la contrariavi, magari involontariamente, poteva sferrarti beccate che ferivano. Come i cigni sembrava esiliata in una condizione soprannaturale e malgrado le sue forme abbondanti, mangiava poco e aveva da fanciulla sognato un amore passionale. Il suo appartamento in via Lima, dono di Fellini, era pieno di allegria. Era lo specchio di questa donna, apparentemente semplice e del segno del Sagittario, in realtà dotata di una natura assai complessa. Aveva una biblioteca, rifornita di libri esoterici che le girava il regista, ma l’elemento che incuriosiva maggiormente era il suo bel ritratto, opera di Geleng, che trionfava in salone: il pittore ne aveva colto bene il carattere contrastante, a volte altero e duro da gran dama asburgica, altre dolce e suadente. Anna poteva inalberarsi per un minimo fraintendimento o per ciò che riteneva una mancanza di riguardo o tatto nei suoi confronti. Scoppiò una discussione su chi le avesse fatto conoscere il nostro dentista, Giuseppe Cerquetti, lei sosteneva di averlo conosciuto prima di noi. Mi scrisse una lettera di fuoco. Perché si offendeva tanto facilmente? Forse per ferite antiche, mai rivelate. Quando si accennava alla sua infanzia diventava misteriosa. Fellini sospettava fosse di origini istriane, per il tipo di fiera bellezza e per quegli occhi azzurri che sembravano contenere il rimpianto struggente di una terra perduta e del mare più bello del mondo. Anna faceva brevi accenni a privazioni, distacchi e affronti familiari. A un padre sempre sottrattole da eventi tragici. Era comunque cresciuta a Trento. E ci chiedevamo se per caso fosse stata tra quelle 350mila italiane che nel 1947 con Tito, avevano dovuto prendere la via dell’esilio. Il padre lo descriveva come un uomo bello, ma era stato il primo a ripudiarla, non riconoscendola, lo stesso aveva fatto il suo
fidanzato, un noto medico che non aveva riconosciuto la figlia nata dal loro amore. Nel narrare questa storia, Federico scuoteva la testa e concludeva: «Povera Anna, non meritava tutti questi dolori, lei è una regina nel cuore». Il regista aveva curiosità da filologo e aveva scoperto che Giovannini, il suo cognome, significava «regalo di Dio» e poteva derivare da Jovanovich. Il padre era dunque slavo. Anna l’aveva cancellato e nemmeno il regista, nel suo perenne lavoro di scavo, riuscì a riportarlo alla luce. Insistette anche ripetutamente che lei facesse un’analisi junghiana con Eleonora Trevi, ma Anna andò a un solo appuntamento con la moglie di Mario Trevi e poi scappò via. «L’analisi adesso, adesso che sono anziana? Sono così poco nevrotica! Da Sagittario mi ribello», ci disse. A causa del suo peso, le ginocchia la tradivano. Quando c’erano degli attriti o un litigio, Federico mandava ad Anna una pianta, delle rose e a volte un gioiello di Giansanti, orafo che aveva sotto casa. Per le vacanze, Anna preferiva soggiornare alle Terme di Ischia, alternando il mare con un soggiorno alle Alpi di Trento, dove andava ogni anno. Mamma era colpita da quanto il regista fosse esigente, come poteva pretendere di averla continuamente a sua disposizione? Infatti c’erano delle volte che Anna doveva abbandonare immediatamente mari e monti e tornare precipitosamente a Roma da Federico. «Paciocca, a volte mi manchi come l’aria, divento prepotente e ansioso, ho bisogno di te, non posso aspettare. Devo sapere che non sei un sogno e che esisti veramente, ho paura tu possa sparire dalla mia vita d’improvviso così come sei apparsa!» Anna, alzando gli occhi al cielo in un gesto di paziente sopportazione e rassegnazione, raccontava. «Una volta mi scrisse una lettera in cui mi spiegava che era agitato, non poteva più dormire, cominciò a tempestarmi di lettere e
telegrammi. Aveva sognato che avevo incontrato un ricchissimo maragià che mi voleva portare via. Federico è meravigliosamente infantile, della vita vede soprattutto il lato fiabesco. Forse per questo ho sentito Amarcord come il suo film più vero.» Stavo ad ascoltare i suoi racconti, incantata dalla voce avvolgente. Anna nutriva un rancore per la propria madre, ma continuava a mantenerla. Spesso sorprendevo Caterina e Anna a parlare delle rispettive genitrici, di quanto fossero state esigenti e autoritarie. Parlavano soprattutto degli schiaffi ricevuti. In quell’appartamento dove tutto rispecchiava un ordine quasi maniacale, c’erano sempre bellissime piante o rose rosse, inviate da Federico e rifulgevano vari oggetti di vetro, delfini, cigni, gondole e ricordi di Murano, disposti sul tavolinetto basso del salone. Mi facevano un’infinita tenerezza i souvenir dei loro viaggi: Firenze, Bologna, Venezia, Londra, Parigi, Vienna, dove Federico costrinse Anna a mangiare ben due torte sacher una dopo l’altra per vederla corrispondere alla donna del suo immaginario, immensa e avvolgente. Sembrava volerla sempre più grassa. Ecco come lei ricordava le vacanze con lui: «Non chiedermi di monumenti, piazze o musei. Mi tornano in mente solo una lunga teoria di camere d’albergo dove per giorni rimanevamo sequestrati e lontano dal mondo, senza smettere di amarci». Era un legame totale e assoluto. Quale piacere nuovo Fellini traeva da quella donna? Perché non se ne era ancora stancato? Altre statuine che brillavano in salotto erano i doni di Nino Rota, che spesso andava a visitarla portandole riviste femminili e di moda, ma anche l’Autobiografia di uno Yogi di Yogananda Paramahansa. Le serate che trascorsi da lei con Rota e Fellini sembrano provenire direttamente da una novella di Gogol. Arrivavamo in via Lima nel tardo pomeriggio, Rota simile a un santo
bizantino, portava con sé otto o nove bustine di camomilla. Immagino per difendersi dagli effetti negativi di quelle serate gastronomiche. Anna solitamente non si aspettava andassimo così presto da lei e, disorganizzata e distratta, lontana anni luce dall’efficienza culinaria di Giulietta, non aveva comprato nulla e non aveva in frigorifero nemmeno un po’ d’insalata, come domandava nervoso Federico. «Non hai nemmeno un cespo d’insalata? Nemmeno uno?» Mi offrivo di andarlo a comprare, al che mi bloccava. «Eh, no! Tocca a lei farcelo trovare!» «Dai, Federico, non farmi una paternale, è che non vi aspettavo così presto, tra un po’ sarei scesa al supermercato, ma la mattina mi rilasso, vado solo dal parrucchiere, che però mi ha fatto di uno strano biondo argenteo questa volta…» «Sei bellissima, Annina», si complimentava Rota. «Ho un impegno in via Lutezia e ti lascio con Nino e Marina a farti compagnia, poi torno e facciamo l’omelette baveuse, quante uova hai?» incalzava il regista «Nove o dieci!» «Benissimo! Che c’è di meglio? Nino non ama i ristoranti, lo sai ormai, sembra che tu mi abbia conosciuto tre o quattro giorni fa. Annina cadi sempre dalle nuvole.» «Me l’ha rimproverato anche padre Arpa, ieri pomeriggio.» «Ah è venuto a trovarti e non mi dici nulla? Insomma a volte non ricordi nemmeno quello che mi piace mangiare? Un’insalata e un po’ di formaggio, mi accontento di poco. O è troppo difficile averli pronti in frigo quando arrivo?» «Insomma, Federico, non rimproverarla, in fondo le siamo piombati fra capo e collo», concludeva Rota, celestiale, accarezzando con affetto una mano di Anna. «Sì, perdonami, ti aspettiamo, fai tutto con calma, le improvvisate non sono il mio forte, lo sai».
Di solito Federico andava dallo scrittore Pietro Citati che abita vicino e poteva conversare anche per ore con lui. Nell’attesa, Rota preparava per tutti cinque o sei camomille, convinto che il fiore avesse benefici impensabili e che se ne dovesse trarre conforto sia prima che dopo i pasti. Ci aggiungeva alcune gocce di Rescue Night Remedy. In effetti precipitavi in un salutare torpore. Anna allora ne approfittava per chiedergli a che film stesse pensando Federico, quali fossero i suoi progetti, le ansie, le angosce che lo tormentavano, le musiche nuove che aveva in testa, perché magari anche con lei il Maestro, in quel particolare periodo, era sfuggente. Io la rimproveravo di non tenere nulla di pronto nel frigorifero. «Sai più o meno ciò che mangia, è di gusti così semplici, un sughetto al pomodoro con il basilico, ad esempio, non puoi farlo per ogni evenienza? Non cucinate mai un piatto di pasta?» Ma avevo compreso che ad Anna piaceva essere portata al ristorante e non mangiare in casa, era più forte di lei, ambiva a essere ammirata, e meno male che non esistevano i telefoni cellulari, altrimenti saremmo stati inondati di scoop fotografici sui tradimenti del regista dei cinque Oscar! «Mi ha detto solo poco prima che venivate. Non sono adatta alle improvvisate, poi in settimana mi opero di colecisti e devo organizzarmi.» «Un’altra operazione? Ma Annina sei sicura che tutte queste operazioni non siano una tacita richiesta d’affetto a Federico?» sosteneva acutamente Nino. «Anche Federico la pensa così… figurati che mi vuol mandare dalla psicoanalista.» «Sei stata una bambina amata?» «Per nulla! Da mia madre ho preso certi schiaffoni! E mio padre non l’ho quasi conosciuto.» «Ma Federico è affettuoso con te.» «Mi riempie di fiori e dolci.»
«Ebbene, questo è importante e bello.» «Qualche volta rimpiango la mia farmacia, allora vedevo tanta gente, non ero una geisha chiusa in una gabbia dorata.» Sì perché nel frattempo Anna aveva venduto la farmacia, dicendo che l’affaticava. «Ma se ti lamentavi sempre che stare in piedi dietro al bancone peggiorava i tuoi dolori alle ginocchia e i reumatismi! Anna, sii almeno coerente», ribatteva Rota. «Ero brava come farmacista?» «Bravissima! Mi hai dato dei calmanti omeopatici eccellenti.» «Il Rescue Remedy?» chiedevo io. «Proprio quello!» «Nei momenti di pausa, Nino veniva a trovarmi e si sedeva accanto, mi teneva compagnia. Anche lì in quel negozio, ero sempre sola!» «Che amico prezioso!» ribattevo io. «E tu Marina ci sei mai stata?» mi chiedeva. «Ci sono arrivata per caso, non sapevo che lì ci fosse Anna, la vera Carla, la vera Iris e la vera Susy dei film di Federico.» «No! Io in Iris e Susy non mi identifico proprio, non sono una donna sconcia», precisava Anna. «Davvero? Ma di che segno sei, Marina?» «Cancro, nata il 6 luglio, luna in Bilancia in decima casa.» «Ahiii! Che madre pesante! Eppure Caterina sembra così leggera», commentò Nino. «Appunto… sembra! Fra le due, la mongolfiera sono io…» e Nino rideva a più non posso. Federico rientrava come promesso e si metteva in testa un improbabile berretto da chef. Afferrava due padelle e chiedeva: «Posso cominciare?»
«Questa no!» esclamava Anna, togliendogliene una bruscamente di mano. «Dammi una noce di burro e un po’ d’olio e mortadella.» Vederlo sbattere le uova faceva veramente un certo effetto. «No, Federico, non ti fa bene la mortadella!» lo redarguiva Anna. «E formaggio Asiago, funghetti trifolati, prezzemolo, li hai?» «Il formaggio sì, ma i funghetti e il prezzemolo, no.» Quella sera Federico, quasi in preda a una furia, sbatteva a più non posso e ci infilò anche il lievito di birra, malgrado le nostre proteste. Anna rientrò in salotto, dove avevo preparato la tavola, asciugandosi il sudore in volto con un fazzoletto, quasi traballante, aveva problemi alle ginocchia fin quando non fu operata da un bravo chirurgo, amico di Federico. «Quando si mette a fare queste cose mi sento male, mi sento svenire…» «Stai tranquilla, gli passa subito», le dissi. La baveuse era immangiabile, faceva rimpiangere la cucina casareccia di Giulietta. A tavola Anna, commentò: «Perché mi prendi sempre alla sprovvista, s’invita a pranzo all’una e si arriva alle undici? E vuole due uova al tegamino a mezzogiorno! Così la mia cucina si trasforma come questa sera in un campo di battaglia. Per non parlare di quando si mise in testa di sapere fare le meringhe e tentò di sbattere a neve sedici chiare d’uovo». «Dimmi, Federico, perché ti piacciono così tanto le uova?» domandai, ridendo per l’incredibile situazione. Chi l’avrebbe mai detto che il più famoso regista del mondo trascorresse molte delle sue serate a sbattere uova? «Non so, credo che le amasse mia nonna a Gambettola, andavo a raccoglierle nel pollaio appena deposte. Lei
sembrava la moglie di Toro seduto! Si chiamava Franzscheina, portava un fazzolettone nero in testa e lo zinalòn, il grembiulone. Due occhi color carbone, un corpo scattante come un giunco. Sono stato felicissimo a Gambettola, dove le mie zie al mattino rifacevano i letti cantando.» «Già… 8½! Bei ricordi davvero! Ma i tuoi hanno vissuto una storia d’amore alla Giulietta e Romeo?» «Sì, con la complicità di un frate si rifugiarono a Gambettola dai miei nonni paterni, Francesca e Luigi Fellini.» Sentivo che ci stava regalando un momento e un ricordo sincero. E gliene ero grata. Aveva nello sguardo un brillio tormentato, occhi penetranti, inquieti, che contraddicevano la serenità romagnola della sua persona, dalla cintola in su massiccio, dalla cintola in giù, snello e longilineo, ma che lo rendevano attraente e simpatico. Anche perché agiva a volte come un adolescente del tutto privo di preoccupazioni. Un ritratto acuto e calzante lo dà Cesare Garboli. «C’è una strana disarmonia fra i tratti insieme corpulenti e delicati. È questa strana complessione somatica, questo miele insolente a provocare allegria. Volto da condottiero, faccia larga e maestosa da uomo d’arme… ebbene come si fa, a mettere insieme questa tensione, il corruccio di questo volto di capo, con la piccola, aggraziata, incredibile bocca da cherubino?» Da qui la sua propensione allo scherzo o al calembour e ai giochi dell’infanzia, ricordo che una volta dovetti sospendere un’intervista sul «magico». Quando gli chiesi per quale ragione sentisse tanto il fascino dei tarocchi, mi rispose: «Perché nessuno sa come sono buoni affettati e con un po’ di olio e zucchero a fine pasto!» Compresi ben presto che quell’intervista non la voleva fare, d’altra parte parlava poco anche di sé. Mi aveva portato una volta da Lorenzo Ostuni un funzionario Rai molto singolare, in realtà simbologo e oniromante che decifrava il tuo destino attraverso le pietre e, in seguito, gli specchi.
Scendemmo in quell’antro buio in via degli Scipioni, in una grande stanza dove riceveva gli ospiti. Avanzammo su quei gradini ripidi in cui si procedeva alla seduta di Litomanzia nella caverna di Platone. Federico mi spiegò che il luogo era sacro, per aver ospitato un tempo una tipografia dove si stampava la rivista «Il Rugantino» e dove lui si recava per corredare di disegni satirici i testi di Ennio Flaiano. Quella volta fu fatto scegliere fra varie dee dell’Olimpo allineate e il Maestro scelse Proserpina che corrispondeva al suo segno, il Capricorno. Fellini accarezzò la pietra avuta in dono come se fosse un semplice dato di fatto, senza curiosità eccessiva, ma con un sorriso sornione. Stava cercando una via d’accesso ai segreti dell’aldilà? Ostuni mi raccontò, anni dopo, di aver siglato un patto con il Maestro molto simile a quello fra Marsilio Ficino e Michele Mercati. Il primo che fosse morto avrebbe battuto tre colpi all’altro. E Ostuni mi rivelò di aver rivisto e toccato Fellini, seduto in quella poltrona che aveva occupato in via degli Scipioni. Lo descrisse con una cravatta bianca. È un simbolo di una ritrovata purezza, ma una cosa so di certo: Federico non avrebbe mai e poi mai indossato una cravatta di quel colore. Comunque, la pietra che mi consegnò Ostuni, legata al mio segno e al mio destino, a un certo punto della mia vita, quando caddi gravemente malata, cadde anch’essa e se ne lesionò misteriosamente un parte simbologica. Mi sembrò di leggervi un auspicio positivo, sarei sopravvissuta. «Ma perché ci hai messo il lievito di birra, Federico? Questa frittata è immangiabile.» «Lascia perdere Anna, non è che tutte le sere si può mangiare come al Grand Hotel.» «Non sapete che all’inizio del nostro amore, quando veniva in casa, mettevo a tavola bellissime tovaglie di pizzo, posate d’argento e piatti di preziosa ceramica cinese. Lo trattavo da re, ma ben presto mi resi conto che era impossibile star dietro
alle sue manie. Per non dire di quando va a fare la spesa e torna con tonnellate di cibo che devo regalare ad amici o al portiere.» «Ma è vero che Annina si fa operare di nuovo il prossimo venerdì?» chiese Rota, che finora aveva mantenuto il più assoluto silenzio e voleva spostare al più presto il discorso da Federico. «Pare di sì, che l’intervento sia urgente.» «Sempre fedele al professor Gianfranco Turchetti?» domandò Rota. «Fedelissima! Come ad Arcuri.» «Ma no, dillo che questa volta ti opererà il “mago del ginocchio”, Max Magi.» Anche il ginocchio oltre la colecisti? Sì, l’Annina poteva farsi fare anche due o tre operazioni a breve distanza. Così conobbi l’insigne ortopedico, perché quando veniva a Roma Federico mi invitava: «Marinotta, ti va di cenare con me e il professor Magi? Dato che hai conosciuto i pionieri della chirurgia nella clinica di tuo padre, devi incontrare anche lui, è un genio dell’intervento in artroscopia al ginocchio.» Trascorsi serate meravigliose grazie ai racconti del «mago del ginocchio», che aveva viaggiato moltissimo in Libia, Somalia, Madagascar. Magi era primario all’Ospedale Morelli di Sondalo. Eseguiva più di duemila interventi all’anno e poi diventò anche un benefattore dell’isola di Lampedusa. Un grande chirurgo, e un uomo generoso. Non so perché quella sera, a fine cena, Rota cominciò a parlare del fascismo e Federico intervenne. «Che cos’è il fascismo se non la cronica incapacità degli italiani di diventare adulti? Il tentativo di scaricare sempre la responsabilità sugli altri, relegandosi in un mondo di marionette e di ignoranza?» «Be’, non era solo questo, Federico! Dimentichi l’ombra criminale di Hitler?» puntualizzò Rota.
«Ma se quando arrivava quel fesso di Starace a Rimini il borgo impazziva, nelle piazze e nei teatri cominciavano a sfilare storpi, ciechi e zoppi e a me mancava sempre qualche parte della divisa, o il fez o i pantaloni. Starace era divertente, non seminava terrore come i nazisti. E poi sembra sempre, Ninetto, che io non abbia visto la guerra o non sappia cosa volesse dire vivere in quell’epoca infernale. Una volta insieme ad altri disgraziati a Roma caddi in una retata e venni portato via su un camion. “Fritz! Fritz!” Cominciai allora a gridare verso due tedeschi che camminavano ignari per la strada, poi saltai giù dal camion e li abbracciai, farfugliai faticosamente con loro per qualche tempo fin quando non riuscii a infilarmi in un portone, le ginocchia molli e il cuore in tumulto. Ammetto, fu un momento di vero panico. Ne uscii con una faccia tosta che meravigliò anche me.» Rota e Fellini avevano una diversa visione del fascismo, mi allontanai dal tema. «Starace era davvero ottuso, mamma l’ha conosciuto. E com’era Riccardo da piccolo, Federico? L’hai più rivisto?» «Riccardino era bellissimo, destinato a diventare qualcuno, con una voce splendida da tenore. Vanitoso, si stirava sempre la piega dei pantaloni due volte al giorno e si pettinava i capelli con la brillantina. Gli balzavamo addosso all’improvviso con Titta Benzi solo per farlo infuriare. No, non lo voglio più vedere.» Notai che parlava solo del passato, l’aveva escluso dal presente. «Qualcosa di più allegro di cui parlare?» propose Annina. «A proposito, Federico, in che bar andavate a Rimini per vedere il passaggio delle belle ragazze?» «Da Raul, il bar sul Corso, di fronte al quale stazionava l’élite di Rimini. Dove facevano gruppo i perdigiorno, i figli di mamma, insomma, i vitelloni, li osservavo con un po’ di invidia e ammirazione, sapevano giocare bene a biliardo, piacevano alle donne, andavano in spiaggia e si tuffavano con abilità, erano tutti atletici e molto sportivi!»
A questo punto, Federico ci fece gli occhiacci. Era un segnale per dirci che desiderava andarsene, e che bisognava lasciare Anna ai suoi sogni, quindi aggiunse: «Oppure andavamo alla stazione a vedere chi partiva per sempre, come nei Vitelloni appunto.» «Federico, raccontaci quando sei fuggito da quell’affittacamere belloccia di Prati che ogni mattina ti faceva due uova sbattute con il marsala», cercò di trattenerlo Anna che ogni qual volta sentiva che il regista stava tornando da Giulietta sembrava voler carpire almeno un altro momento con lui e trattenerlo a sé. «Sono fuggito da troppe pensioni allora, non avevo una lira in tasca, dormivo anche a Villa Borghese. Una bohème allegra, fatta con Riccardo Geleng. Ogni volta incontravo personaggi singolari, come un ladro matricolato che sosteneva di volermi aiutare, mentre invece avrebbe potuto cacciarmi solo in un sacco di guai, era un bidonista, uno sciagurato, Lupaccio. Da lui ho tratto ispirazione per l’Augusto de Il bidone.» «Che splendido film!» facemmo in coro io e Rota. «Non l’ho mai visto, mi hanno detto che è un po’ violento. No, ma ve ne andate già?» implorò Anna. «Domattina lavoro, è già tardi, Annina, grazie, e domattina vai a comprare un cespo di insalata, per la prossima volta.» E come altre volte, la serata si chiuse velata di lieve mestizia. Federico aveva un tale fascino insinuante, era un giocoliere attraente, un parlatore avvolgente, abile a esplorare lati sconosciuti di sé, per riconciliarsi magari con alcune zone buie, questa pratica gliel’aveva insegnata soprattutto la lettura dei libri di Jung. E anche la psicoanalisi. Sentiva per lo scienziato svizzero una simpatia empatica e credo che avesse letto tutto ciò che lo riguardava. Non solo i Ricordi, ma tutti i libri editi dall’Astrolabio. Era anche uno specialista di mandala e si appoggiava all’idea che l’anima
continuasse a vivere al di là del tempo e dello spazio, sicuro che questa certezza potesse in qualche modo aiutarci. «Così come non tutte le scarpe si adattano allo stesso piede, così Jung ha iniziato a parlarci dei tipi psicologici, prima di tutto dell’Introverso e dell’Estroverso, ma devo proprio spiegarti tutto?» mi disse un giorno con una nota di rimprovero per la mia ignoranza dell’argomento. Nell’appartamento di Anna regnava la luce. Il boudoir me lo mostrò Federico quella sera stessa: «Non trovi sia di un incanto ottocentesco un po’ come lei?» Ecco cosa amava in lei: era una donna antica. Ne riparlammo giorni dopo e gli dissi che quell’appartamento racchiudeva il sogno e la nostalgia di un’esistenza borghese a cui forse Anna aveva aspirato, quando da giovane si era innamorata del bel dottore che però poi se n’era andato lasciandola da sola ad affrontare la dura vita di una ragazza madre negli anni Cinquanta. Ma la figlia l’aveva voluta a tutti i costi e questo commuoveva Federico. La Pavoncina era diventata persino fotografa pur di mantenerla. Da bambina la figlia era legata al regista, che l’aveva iscritta all’Istituto di suore dell’Assunzione. Una delle scuole private migliori dei Parioli insieme al Cabrini. Crescendo, i rapporti erano peggiorati, la Paciocca la spiegava così. «Federico all’inizio voleva molto bene a Patrizia, come fosse la figlia che non aveva avuto. Si preoccupava, aveva voluto essere testimone al matrimonio. Ma con gli anni i rapporti si sono deteriorati. Lei lo ritiene un egocentrico, gli imputa di non avermi dato alcuna sicurezza. Naturale che si sia sentita trascurata. Come potrebbe essere altrimenti? Federico ha vampirizzato gran parte della mia vita affettiva e sociale.» «È impegnativo stargli accanto?» le domandai. «È un impegno sovrumano, occorre armarsi d’infinita pazienza, Federico è faticoso: ha capricci, sbalzi di umore e ricorrenti depressioni, quelli che lui chiama gli scivoloni.
Vivere il quotidiano con lui richiede un’arte, l’arte del silenzio a volte e quella della parola dolce, meditata altre, per non irritarlo o ferirlo. Ha una famiglia, Giulietta è in tutto dipendente da lui e ha mille impegni. Federico non racconta nemmeno alle persone che ama i suoi progetti. Comunque, ho avuto in cambio anni di felicità, di gioia e tenerezza.» Chiesi se la vasta cultura di Fellini avesse reso più difficile il loro rapporto. «M’inebria il suo linguaggio, forse ha mutuato idee e parole dalla letteratura religiosa e dai fumetti. Sono convinta che, se non avesse fatto il regista, sarebbe diventato un grande scrittore. Ma io sono soprattutto la sua Pavoncina, lo sai come mi chiama? Sono la sua Paciocca.» «Ho capito! Ma cosa gli dai che altre non gli danno?» «Un tipo di sessualità materna e meno minacciosa di quella intravista nei suoi terrori infantili o adolescenziali. Sono un genere di donna che non aveva mai incontrato, meno candida di Bianchina, ma anche meno borghese di Giulietta e molto più equilibrata di Lea. Rientro in una dimensione poetica fatta di ardore e golosità. Gli comunico soprattutto molta calma. Sono una donna essenzialmente placida e segreta.» «Sai dirmi quali sono i suoi nemici?» «I suoi sogni e i suoi incubi. All’inizio, quando dormivamo insieme si svegliava all’improvviso, urlando. Mi spaventavo, non capivo cosa avesse, gli prendevo la testa fra le mani ponendola sul mio seno istintivamente. Solo col tempo compresi che soffriva di terrori notturni. Più che sogni, i suoi erano vere e proprie battaglie e spesso doveva subire anche le depressioni di Giulietta, che divampavano improvvise.» Quella del Maestro con la Pavoncina è una grande storia d’amore e l’amore è la trasparenza del mondo. Il loro legame durò ardente e intenso almeno fino a cinque anni prima della scomparsa di Federico. Si può dire che Anna si affacciò al palcoscenico del mondo e della verità solo il 29 marzo del 1993, quando il regista a Los
Angeles ricevette l’Oscar alla carriera. Solo allora, quando Federico tributò un solenne ringraziamento alla moglie Giulietta, si risvegliò in lei una cruda verità e, dopo aver sentito in mondovisione quelle parole – Don’t cry Giulietta! – per la prima volta Anna, moderna Bella addormentata nel bosco, si è sentita una ruota di scorta. Il regista avrebbe forse dovuto aggiungere «E non piangere nemmeno tu, Annina?» Era impensabile, ma fu un risveglio sgradevole e violento, per lei, prendere finalmente consapevolezza di quanto contasse la moglie. La chiamai subito e le dissi di prendere un sonnifero che sarei andata da lei il mattino seguente. Anna singhiozzava e, mentre guidavo fino a via Lima, cercavo dentro di me le parole giuste da dire. Erano parole di fede. Ma nel matrimonio a sentirsi davvero tradito è sempre l’amante. Una volta che fui davanti al suo viso stravolto dalle lacrime non potei più parlare, e la tenni a lungo fra le mie braccia, come una bambina. Era scesa dal letto sbandando pericolosamente, forse aveva preso troppi sonniferi. «Il guaio è che, quando sto in piedi, mi fa male la schiena. Penso che Federico butterebbe tutti a mare solo per far felice quella Strega.» «Non è così, ma è sua moglie, l’interprete dei suoi film, che altro potrebbe dire?» Le consigliai di svuotare il suo animo in confessione, abitava a pochi passi dalla chiesa di San Roberto Bellarmino e Dio l’avrebbe sorretta. La misi in contatto con Massimo De Rita, lo sceneggiatore e anche catecumeno che anni prima aveva cambiato il mio cuore. La bufera passò. Anche Fellini volle conoscere Massimo. Mi telefonò. «Questo tuo amico è sicuro che Gesù Cristo ci farà risorgere tutti!» «Perché, tu non lo sei?» «Non dico questo, anzi questa prospettiva riempie il mio cuore di fiducia, però mi sorprendono sempre le persone piene
di una fede così profonda.» «Be’, l’ha detto san Paolo che o si crede alla Resurrezione o non si crede affatto. Anche Franco Giacobini ne è convinto. A noi non è successo, invece evidentemente queste persone hanno visto Cristo.» Pausa e silenzio di Federico. «Nemmeno tu?» «Purtroppo non ho mai avuto una simile grazia!» «Marinotta, continua a occuparti di Anna, ti prego, io non sto per niente bene. In America mi volevano ricoverare e operare.» «Dovevi farlo, sono dei maghi delle arterie! Finché potrò, seguirò Anna, tu però sii più affettuoso con lei. Il tuo ringraziamento pubblico a Giulietta l’ha stroncata.» Rispose dopo un po’. «Lo capisco, ma tutto pensavo tranne che fosse davanti alla televisione.» Il giorno seguente passai a ritirare da Anna un mazzo di rose rosse. «Vieni a prenderle e portale a Caterina o le butto dal balcone.» Le aveva mandate Federico per addolcire l’amarezza di Anna, senza successo. L’affetto fra i due durò fino alla fine, ma con un po’ di insofferenza da parte del regista, perché non stava bene e la ostinazione di lei lo sfibrava, come quando cercò in ogni modo e inutilmente di mettere in salvo la sua casa per sempre, dicendosi convinto che la figlia prima o poi l’avrebbe uccisa, per prendersi i soldi della vendita… ma Anna, a quel punto, amava moltissimo anche la nipote e non volle ascoltare ragioni. Che sarebbe stata uccisa Federico l’aveva visto in sogno! Anna, dopo la morte di Fellini, mise in vendita l’appartamento di via Lima, e si trasferì vicino a Grosseto, dalla figlia, anche se Federico l’aveva supplicata in ogni modo di pensare solo a se stessa. E poiché io l’avevo promesso a lui mantenni un assiduo contatto telefonico con lei. Sembrava serena, fin quando non vide arrivare una nuova badante che
non le piaceva, ed ecco che subito dopo il cellulare di Anna risultò spento e mi fu detto che la poverina aveva avuto un Alzheimer fulminante. Chiunque abbia un’infarinatura di conoscenze mediche sa che non esiste l’Alzheimer fulminante. Mandai due raccomandate per sapere la verità, e rivederla, ma non ebbi mai risposta, e poiché Fellini era un veggente, cosa pensare se non che in qualche modo non ci fosse più? Annina era morta. Era evidente, a chi li conosceva, che fosse stata l’attrazione sessuale a unirli. Ma anche un sentimento molto infantile. Infatti, ogni volta, prima di andare a trovarla comprava alla pasticceria Hungaria di piazza Ungheria un vassoio di paste alla panna ed era solito cospargerla di panna montata: non era lei la sua gioia, la sua Paciocca e il suo cielone azzurro? Grandi fianchi, caviglie sottili, polpacci decisi e seno generoso che si fece ridurre con dispetto del regista, Anna era la donna ideale, una femminilità un po’ démodé che indossava non solo il bustier, ma un’infinità di corpetti e guêpière di ogni tipo, molto simile a Carla, l’amante di 8½. Anche la vocetta della Milo sembra ispirata da Annina eppure non si conobbero, l’aveva suggerita Fellini. Ma lei soffrì un po’ a vedersi ritratta così, gli tenne il muso, non gli parlò per giorni fin quando con gli occhi lucidi esplose: «Ma io sarei così? Sarei davvero così comica e patetica?» «Allora non hai capito niente, sei unica, meravigliosa, ti adoro per come sei. Sei la mia Paciocca dorata.» Shakespeare cosa scrive a proposito di storie che uniscono per sempre un uomo e una donna? Pascola sulle mie labbra e se quelle colline saranno asciutte, bagna più in basso, dove sono le fontane del piacere. Il regista non avrebbe mai potuto avere un’esistenza limitata a una sola donna, chiuso in un guscio borghese, né avrebbe mai potuto lasciare Giulietta, sebbene ogni tanto deresponsabilizzandosi, dicesse ad Anna: «Dammi una spinta, fammi un segno, dimmi che lo vuoi anche tu…»
Ma lei probabilmente sentiva una sorta di inadeguatezza e sapeva che Fellini non avrebbe mai potuto dire addio a Giulietta, la donna che aveva creduto in lui e l’aveva sostenuto e amato, durante i duri anni della guerra. Al tempo erano stati costretti anche a vendere i gioielli di Giulia e la casa della zia milanese di via Lutezia, per sopravvivere. Federico, che aveva fatto la fame dormendo sulle panchine dei parchi o in misere pensioni, non lo dimenticò mai. Alberto Sordi raccontava di avergli regalato un paio di scarpe, dopo averlo visto in pieno inverno con quelle di tela ai piedi. Forse la storia con la Signora Misteriosa era meglio che rimanesse per sempre segreta, perché lei non possedeva la cultura o il cinismo necessario per affrontare interviste con giornalisti perfidi. Fu scambiata per un’opportunista e non ne capirono la poesia, la mia amica Adele Cambria fu l’unica a darne una lettura femminista, titolando un suo articolo: Anna. La donna troppo a lungo rimasta nell’ombra. Ma il suo incontro con Fellini sembra uscire invece da Il cappotto di Gogol’. Nell’estate del 1956, Anna faceva la fotografa e abitava in Lungotevere Prati in via Calamatta, vicino a una nota pasticceria, Ruschena. Ogni mattina era solita fare colazione a base di pastarelle al bar. In questa storia, c’entra anche il poeta Guido Gozzano per quella famosa poesia Sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste, che Fellini conosceva a memoria e amava molto. Anna ricorda che quel giorno indossava un tailleur bianco a fiori gialli che le donava molto, non voleva certo passare inosservata. Più originale di così non avrebbe potuto essere. Si sentiva bella, in sintonia col mondo. Me lo raccontò lei stessa. «Come mi succedeva ogni giorno, stavo tranquillamente bevendo il mio cappuccino e gustando una pasta alla panna. Poco distante un uomo alto e bruno mi osservava sorridendo, accennò all’improvviso anche una sorta di saluto, ma io finsi di nulla, era un perfetto sconosciuto, decisi di ignorarlo e pagai uscendo subito. L’uomo sparì, attraversò il ponte Cavour raggiungendo il mio calzolaio che aveva il negozio in un
vicoletto, vicino a piazza Nicosia. Portavo con me dei sandaletti rossi con il tacco da risuolare. Mi aveva seguito, perché tutto a un tratto lo rividi, alla guida di una Chevrolet fiammante. Aveva costeggiato il marciapiedi e, abbassato il finestrino, mi chiese: “Posso accompagnarla a casa, bella signora?” Non gli diedi retta, pensai fosse un pappagallo e anche un bel maleducato, perché si permetteva tanta confidenza? Finalmente m’infilai nel negozio del calzolaio, pensandomi salva. Invece l’uomo fermò l’auto all’imbocco del vicolo e scese. Me lo ritrovai davanti. “Che bei sandaletti rossi ha portato a risuolare!” Ero imbarazzatissima. Si presentò. “Mi chiamo Enrico”, così capii invece che Federico. E non immaginavo nemmeno lontanamente di trovarmi di fronte a un personaggio famoso! “Non voglio importunarla, bella signora, sono un giornalista che desidera solo conoscere la sua storia. Posso accompagnarla a casa, per la strada chiacchieriamo?” “La mia storia?” A queste parole scoppiai in una risata e accettai il passaggio. Ero curiosa, con chi avevo a che fare? Si trattava, comunque, di un uomo originale. Quando fummo in macchina, mi chiese il nome e gli dissi che mi chiamavo Anna. “Che nome meraviglioso! Il nome della madre di Maria”, ribatté.» Annina non sapeva ancora che il misterioso signore era tra i più grandi registi del mondo e nemmeno che, come mi rivelò lui stesso, era corso subito a scartabellare il significato del nome e del cognome. Figuriamoci la sua felicità scoprendo che derivava dall’ebraico, Hannàh e significava «grazia, pietà e misericordia». Fellini all’epoca non stava bene, soffriva di una grave depressione, era in pieno scivolone. Come se non bastasse scoprì che Anna Perenna era una dea lunare, venerata a Campo Marzio dagli antichi romani. Che folgorazione! Anche gli dei, dunque, benedicevano l’incontro. Cosa pensò Anna durante il tragitto fino a casa? Pensò di aver incontrato
un uomo affascinante diverso da tutti gli altri. Ma non ne capiva il perché. Notò che aveva una bella voce, calda, avvolgente e con un accento romagnolo. «Possedeva un’intelligenza fuori dal comune, mi bersagliava di domande. Ad alcune risposi, ad altre no. Per me rimaneva un emerito sconosciuto! Non riuscii a scoprirne la vera identità, perché arrivati al portone di casa mi apparve intimidito, confuso. Tanto che, lì per lì, ci rimasi male, l’avevo deluso? Pazienza!» Ma Federico, che lei pensava si chiamasse Enrico, il numero di telefono di Anna lo trovò per conto suo e la sera stessa la chiamò, spiegandole che aveva sempre pensato a lei in quelle poche ore, e voleva rivederla subito. Non poteva scendere a fargli un salutino? «Resistetti non per rendermi preziosa, portava la vera nuziale, la indossava in modo strano, non completamente infilata al dito, ma l’aveva, la portò così per tutta la vita. E avevo già sofferto troppo. Questo fu essenzialmente il motivo della mia resistenza.» «Ma l’uomo misterioso come ti convinse a rivederlo?» le chiesi. «Be’… intanto precisò che si chiamava Federico e non Enrico. Poi aveva scoperto cosa significava il mio nome e mi stava telefonando da un bar sotto casa mia, avrebbe dovuto forse comprare un altro gettone? Richiamarmi? Aveva una voce accorata, per una sorta di sesto senso mi parve sincero e in pericolo. Mentre parlava provai un tuffo al cuore, e non mi era mai successo.» «Perché lo sentisti in pericolo?» insistetti. «Be’ possiedo anch’io delle qualità medianiche. L’uomo che mi stava telefonando attraversava un momento terribile e non aveva certo voglia di scherzare, lo compresi subito… così come, frequentandoci, capii quanto gli durasse una cotta, non più di quattro giorni. Una sera, anni dopo, mi fece
un’intercomunale da un albergo di Firenze, ignorando che il portiere m’aveva anticipato dove si trovasse, e mi disse: “Amore mio, come stai? Sapessi quanto mi manchi. Sono a Rocca di Papa a fare dei sopralluoghi.” “Ma cosa dici? So benissimo che sei a Firenze e con una donna molto bella. Ma ti perdono.” “Come, come?” balbettò confuso. Sì, era con Anita Ekberg ma io ero sicura che non mi avrebbe lasciato mai.» «Nemmeno per Sandra Milo?» «Vuoi scherzare? Era la mia copia, e io l’originale. Psicologicamente, poi, è l’esatto contrario di ciò che Federico amava: una poco discreta.» «Tutto andò avanti lentamente, erano ancora gli anni Cinquanta. Federico ogni mattina, mi aspettava davanti a casa, sulla sua Chevrolet per accompagnarmi da una dottoressa a piazza dei Cinquecento, dove facevo delle iniezioni ricostituenti.» Mentre me lo racconta, immagino quanto a Federico piacesse una donna che si stava anche lei curando, avrà adorato accompagnarla! «Poi cominciammo a fare lunghe passeggiate in macchina, guidava per ore, mi scrutava, mi studiava come fosse un entomologo, e fu quasi naturale confidarmi con lui, sembrava uno psicoanalista. Mi ascoltava con grande rispetto e mi disse: “Sei una donna coraggiosa, m’inchino, devi essere orgogliosa di te stessa”. Riscoprii attraverso la fiducia che mi regalava la mia dignità. Non mi sentii più una donna umiliata. Il suo affetto guarì molte cicatrici. La vita aveva scomposto tutti i miei progetti, ma valeva ancora la pena di essere vissuta, fuori da ogni giudizio punitivo, come lui ripeteva!» «Scusa ma non ti rivelò chi era?» «Non subito, dopo circa un mese mi disse di essere un regista, ma con molta umiltà, elencò dei film che aveva fatto, certamente ero e resto una donna estranea al suo mondo, però avevo visto circa sette volte La strada. Ti confesso che la sua
professione mi era indifferente, il cinema non mi ha mai attratto.» Fellini era un uomo complesso e aveva bisogno di semplicità. Annina mi raccontò la sua storia, ma aveva molto pudore e si stancava facilmente. «Era un uomo infelice, inquieto e tormentato. Completamente incapace di procurarsi un pezzo di cielo, al di fuori della sua arte e del suo lavoro. Sembrava sempre dover pagare per colpe che non aveva commesso. C’erano poi le sue continue e inutili bugie, mentiva il più delle volte solo per essere amato. Avevo quarantatré anni, non ero più giovane, anzi, avevo cinque anni più di lui, ma lui sosteneva che la mia fosse l’età più bella per una donna. Era incantato dalla mia voce, credo avessi un effetto calmante su di lui. » Federico amò la sua allegria, il suo disinteresse, era assediato da donne che desiravano solo apparire nei suoi film, mentre Annina considerava il recitare una professione da circo. «Aveva con te momenti romantici?» «Gli piaceva venirmi a trovare all’alba, quando terminava di girare. Tirava dei sassolini contro la finestra e saliva portando cornetti caldi o un vassoio di cannoli. Quando lo raggiungevo sul set stavo ad aspettarlo intere giornate, seduta in macchina, fin quando non potevamo andare a cena insieme. Mi dava appuntamento sull’autostrada, sulla Cassia, sull’Appia Antica e più tardi a piazza del Popolo o anche a Ostia o a Fregene a tutte le ore e nei momenti più impensati.» «Tu Anna, eri una donna assai paziente!» «No! Mi sono adattata per amore, è stato un grande amore, di quelli che non ti fanno respirare.» «Ma dopo quanto avete cominciato a convivere in una casa vostra?»
«Dopo molti mesi e un lungo rituale. Io diventai prima la sua principessa che nessuno avrebbe potuto rapirgli e infine il suo cielone azzurro. Ci davamo appuntamento sotto un grande albero in via Salaria e lui mi stritolava baciandomi. Arrivava in anticipo e mi sgridava, perché lo facevo aspettare. Fin quando un giorno quasi scuotendomi mi disse: “Paciocca, ma non capisci che tu sei il mio presente e anche il mio avvenire? Ma lo sai, te ne rendi conto o fai finta di nulla e tutto è come prima?” Erano ormai trascorsi quattro mesi dal nostro primo incontro e perdutamente innamorati finalmente facemmo l’amore!» Era successa un’altra cosa molto importante quel giorno: Federico le confessò che era rinato psicologicamente e non potevano entrambi più fare a meno l’uno dell’altro, era autunno. Pioveva e fu quel giorno che lei decise di condividere la vita del regista. Il regista ci invitava sempre nei ristoranti cinesi, spesso anche al Lon Fon di via Firenze. Ordinava come un bambino goloso di tutto, per piluccare poi pochissimo: involtini primavera, pollo glassato, anatra alla pechinese, maiale in agrodolce, ravioli alla piastra, riso fritto con ananas, mangiava con gli occhi più che altro. I duetti fra i due erano imperdibili. La pazienza del regista era infinita: «Non mangi nulla, Annina?» «Ultimamente sono ingrassata, con le tue paste! Porti sempre troppi dolci. E forse non lo sapete ma quando va a far la spessa, arriva con un chilo di prosciutto, un chilo di salame, un chilo di bresaola, tre d’uva e via di questo passo, devo far ingrassare il portiere, i vicini.» «Perdonalo, non è abituato a fare la spesa.» «Caterina, il cappotto azzurro che le hai fatto è bellissimo, mi è piaciuto molto, la ringiovanisce.» «Sai Federico, Anna non ne è rimasta soddisfatta, ma il mio sarto, Sandro, le farà alcuni ritocchi, vero cara?
«Forse avrei dovuto scegliere un blu più scuro, cobalto. «Caterina, falle anche quest’altro cappotto se lo desidera, mi sembra ami molto il blu cobalto, in effetti è un colore erotico. Le farà risaltare gli occhi, non credi?» Anna vedeva Federico tutti i giorni. Quando non lavorava ogni pomeriggio, dalle due alle otto di sera. «Mi telefonava anche sette, otto volte al giorno. Se era occupato a Cinecittà o girava un film fuori Roma, oltre a telefonarmi, mi scriveva. A volte era un bigliettino, altre una sola frase come Bacioni alla Paciocca, oppure un disegno, dei fiori o uno scarabocchio che lasciava in portineria.» Federico era sempre affettuoso e, almeno fino a circa quattro anni prima della sua morte, anche molto possessivo. Anna risentiva di vivere isolata dal mondo, in una sorta di gabbia. Era poi spesso malata, forse aveva scoperto l’affetto straordinario che Fellini nutriva verso chi soffriva di qualche malanno. Anna aveva poche amiche e ritmi di vita lentissimi. Aveva un’unica cosa in comune con Giulietta, il parrucchiere, da cui doveva assolutamente recarsi ogni sabato. Se un pomeriggio, decideva di giocare a carte con delle amiche, lui non opponeva resistenza, solo si faceva dare l’indirizzo e il numero di telefono dove avrebbe potuto rintracciarla. «Dopo circa venti minuti, mezz’ora, mi chiamava poi citofonava ed ero obbligata a scendere abbandonando la partita.» Questo episodio mi aveva molto colpito, facendomi capire l’importanza, anzi, l’esigenza di Federico di avere un legame assoluto, anche se oggi non troverebbe più nessuna donna disposta a simili sacrifici. Una volta Anna aveva invitato a cena un’anziana coppia di amici inglesi, marito e moglie. Appena l’ebbe saputo, Federico si precipitò a chiamarla, erano solo alla prima portata. «Scendi, Annetta, ti devo dare dei documenti importanti.» «Domani, caro, ho due ospiti.»
Una volta arrivato in via Lima che aveva fatto Fellini? L’aveva rapita, portandola a Genzano! «Sono potuta tornare a casa solo alle tre di notte.» La coppia, dopo averla attesa invano, aveva mangiato un po’ di arrosto e se n’era andata lasciando un biglietto alla cameriera, in cui dicevano alla loro ospite che non era cortese invitare a cena e sul più bello sparire. I due naturalmente non si fecero mai più vivi.
29 Il viaggio di G. Mastorna
Ma la vera amante di Fellini era Cinecittà. Per lui stare lontano da Cinecittà era come per Pinocchio stare lontano dal Paese dei Balocchi. Da tempo desiderava affrontare un romanzo di Dino Buzzati che amava particolarmente, scritto durante l’ultima guerra, Lo strano viaggio di Domenico Molo, e aveva affidato allo scrittore una prima sceneggiatura. La storia di un’irripetibile combinazione di panico e desiderio, paura della morte e al tempo stesso attaccamento alla vita. Era quasi l’analisi onirica di un grande uomo, un violoncellista tedesco in lotta con l’idea del tempo, un tempo taoista. Ne parlava vagamente e ogni tanto diceva: «Devo vedere Buzzati, andrò a Milano in primavera, sto scrivendo con lui e Rondi, finalmente, il Mastorna». Il regista e lo scrittore iniziarono a lavorare in conviviale armonia ma, fin dalla prima cena in un famoso ristorante di pesce a Milano, qualcosa andò storto. Quasi tutti stettero malissimo. A partire da Almerina Antoniazzi Buzzati, la moglie bella e giovanissima dello scrittore, che fu ricoverata e a cui fu fatta una lavanda gastrica. Fellini, tornato in albergo, vomitò l’anima e dovette chiamare un dottore nella notte per i continui conati e giramenti di testa. Si trattava di pesce avariato e si parlò di intossicazione alimentare. Solo Buzzati si salvò, perché non aveva mangiato pesce. Federico era superstizioso e si chiese subito se non fosse partito con il piede sbagliato, era incantato però dal legame che univa lo scrittore ad Almerina, ispiratrice di quello che Eugenio Montale considerava il più bel romanzo italiano del
Novecento, Un amore. Sulla falsariga di Lolita di Nabokov, raccontava la vicenda di un amore ossessivo e forsennato di un uomo di cinquant’anni per una ragazza di diciassette. La storia vera dello scrittore con la donna che sarebbe diventata sua moglie. «Perché, perché non so parlare d’amore?» mi disse ironico un giorno Federico, accennando al romanzo. «Anna me lo rimprovera sempre. Eppure questo racconto di Buzzati è superbo, si presterebbe a farne un film. Ma mi sento incapace di girarlo.» «Non credo che non ne saresti capace, è che non ti va. Non ti conosco un lato pedofilo.» «Se è per questo sono anche coprofilo!» protestò ilare. Lo disse a tavola davanti ad Annina nel ristorante cinese di viale Parioli quasi all’angolo di piazza Ungheria. «Il fatto che tu non sappia parlare d’amore in un film ti dovrebbe far pensare, caro…» osservò ironica e dolcissima la Chimera. Comunque Federico ci spiegò che a Buzzati lo legava l’attrazione per il mondo magico e il soprannaturale. La loro simbiosi per quanto ricordo, si protrasse per un anno e più, a luglio andarono insieme a Torino da Adolfo Gustavo Rol. Buzzati, spinto da Fellini, fece tappa anche da Pasqualina Pezzolla, una contadina che viveva in una villetta presso Ancona e che aveva una trance lucida, rapidissima e volontaria. Federico interrogò la diagnosta sulla salute dello scrittore. Lei vide un male terribile invaderlo, quello che sette anni dopo l’avrebbe portato nella tomba. Fellini diceva che la Pezzolla aveva una faccia che sembrava Macario. Ma piena di doni soprannaturali… quando andava in trance si alzava dalla sedia con uno strattone e poi veniva avanti.
«Il volto le si trasforma, dietro la pelle ne appariva un altro, aguzzo, ascetico, il mento appuntito di un monaco. Tutto il viso assume una sorta di pallore luminoso, quando riapre gli occhi sono più chiari, tiene il palmo aperto davanti alla fronte per ripararsi dalla luce, l’altra mano la porta davanti al corpo del visitatore, quasi volesse spostare i suoi organi per fare una diagnosi migliore. Nel descrivere ciò che vede usa uno strano gergo di parole dialettali, ma anche di termini scientifici un po’ rozzi ma precisi.» Quando Fellini seppe che Buzzati sarebbe morto di tumore, fu sconvolto. Ma nemmeno questo episodio bastò a togliere al maestro l’entusiasmo per il film da scrivere insieme. Riprese a sognare il film a periodi alterni. Come Buzzati, amava affrontare temi quali l’angoscia, la paura della morte, il mistero e la ricerca del trascendente. A quanto pare, secondo Anna, il Maestro stava ancora lavorando al suo sogno e portava avanti il film. Continuava un po’ sopraffatto, anche il suo viaggio nel paranormale. In Toscana aveva addirittura conosciuto il diavolo, nelle sembianze di un contadino, un mago, che la gente pagava perché non passasse davanti ai loro poderi. Federico raccontava che abitava in una bicocca, che era un orco e che lo poté affrontare solo avendo accanto un prete, ma non un prete qualsiasi: un vero esorcista. «Mi lanciava certi sguardi che prima di allora avevo visto solo al manicomio di Maggiano da Tobino, nelle celle dove vegetavano nudi i malati incurabili. C’era anche lo stesso puzzo, zaffate infernali. Quando questo mago si è messo a nitrire come un cavallo, sempre più forte, io e il prete siamo scappati a gambe levate…» Perché Fellini rischiava tanto immergendosi in un mondo psichico così pericoloso? Possibile che non ne avesse mai avuto un po’ di terrore? Io e Lucia Alberti ne seguivamo le avventure allibite, perché in quel periodo era sempre in mezzo a pratiche esorcistiche e magiche, ma lui, cocciuto e testardo, faceva solo ciò che gli suggeriva la sua curiosità.
E sognava il Mastorna. Sul film raccontava Anna: «Era il suo progetto più ambito. Quello più a lungo sognato, scrisse e riscrisse la sceneggiatura fino a ottenerne una di diamante. Mi dava sempre da leggere i suoi copioni. Gli serviva il parere di una lettrice ingenua come me, e io non gli ho mai mentito. Lo caldeggiai. Ma in un modo o in un altro era un film jellato. Federico finì per pensare che ogni disgrazia nasceva da quel film.» Lo immaginava come una sorta di mandala dedicato proprio alla memoria di Ernst Bernhard, che gli aveva spalancato la porta dell’inconscio e dello spirito. La vita come individuazione, la vita come disegno, la vita come entelechia… quest’uomo la cui forza era ridarti un pezzetto di terra su cui posare i piedi… quando si spegneva la luce e ritornare dopo il buio, proprio alla luce… era un personaggio interessantissimo. Vergine con ascendente Sagittario! Bernhard era un apolide dal 1935, aveva alle spalle esperienze sia freudiane che junghiane, tra le quali anche una complessa analisi-convalescenza – come chiamarla altrimenti? –, perché era andata avanti fra silenzi e riprese, proprio con Jung, il grande maestro svizzero. Malgrado infinite difficoltà incontrate nel corso della sua vita (la persecuzione dei genitori e le leggi razziali fasciste, lui stesso venne internato in un campo di concentramento) Bernhard rimase fedele al significato del suo nome hassidico che significa, conforto della vita. Questo aveva affascinato Federico. Avere il potere di metterti subito a suo agio. Puntava molto sull’affrancamento dal collettivo, sullo sviluppo di un destino individuale. Per i suoi pazienti e gli amici, poi, fece stampare la traduzione de L’abbandono alla Provvidenza divina di Jean Pierre de Caussade, un libro di grande potere consolatorio. E quanti ne rimise in piedi? Mi sembra inutile fare un elenco di nomi, diciamo solo da Adriano Olivetti a Bobi Bazlen, da Cristina Campo a Giorgio Manganelli.
Pensatore e analista originale e forse bizzarro, poliedrico e scomodo maestro, sabotatore di luoghi comuni, guida spirituale, e anche astrologo e chirologo, come altro chiamare questo singolare psicoanalista che contribuì in maniera evidente alla creatività di Federico Fellini? «Mi piaceva tutto di Bernhard, la strada dove abitava, l’ascensore che sembrava una stanza e saliva lento come una mongolfiera, e lo studio vasto, pieno di libri, con le finestre spalancate su piazza di Spagna e quella bruma rosa-lilla che sfiorava tutti i campanili di Roma. Lui ascoltava le mie sgangherate confessioni, i sogni, le bugie, con un sorrisetto gentile carico di affettuosa ironia.» Fellini ci parla anche di strani fenomeni di bilocazione, simili ad allucinazioni, e di un sogno in cui era il direttore di un circo equestre e, con la frusta in mano e indossando una marsina color arancio, dirigeva in una stanza piena d’acqua le singolari giravolte di un grosso topo… un sogno corroborante, a detta del regista. «Non sono solo l’addestratore, il guaio è che sono anche il topo!» mi disse. Ma con Bernhard trascorsero anche serate in pizzeria e lui contribuì a fare redigere a Fellini tre o quattro libri maestri, in cui annotava tutti i suoi sogni e incubi. Veri e propri dipinti, bozzetti. Fellini, che aveva continuato il suo percorso interiore di autoterapia, forse a un certo punto arrivò addirittura a temerla, quella sacra memoria! Nell’immediato dopoguerra anche Natalia Ginzburg ricorse al grande psicoanalista… al suo studio bellissimo così in penombra e frescura. E lo descrisse in Mai devi domandarmi nel suo modo assolutamente mirabile. Era un uomo, alto, con una coroncina di riccioli argentei, piccoli baffi grigi e spalle alte e un po’ strette… aveva al dito un grosso anello d’ottone con iniziali… mani bianche e delicate, occhi ironici, lenti
d’oro… c’era sempre per me, sul tavolo, un gran bicchiere d’acqua, con un cubo di ghiaccio e una scorza di limone… allora nessuno a Roma aveva il frigorifero. Indossava camicie immacolate. Aveva un sorriso ironico e un forte accento tedesco. Ma non rimase affascinata dal suo carisma, lei ammetteva forse ironicamente di non aver mai capito la sostanziale differenza fra Jung e Freud. Fu a causa di uno sgargiante cravattino a farfalla che la scrittrice pensò di lasciare l’analisi, scandalizzata dall’eleganza bizzarra del terapeuta. Il Mastorna, a quanto compresi, avrebbe dovuto essere essenzialmente un inno alla suprema pace che abitava in un poliedrico personaggio come Bernhard, quasi una metafora dell’anima del protagonista di 8½, trasformato in questa nuova opera in un sublime violinista e musicologo, Fellini stesso. In omaggio allo psicologo, infatti, l’aereo delle prime scene sarebbe dovuto atterrare proprio a Berlino, sua terra natale. O forse nella terra dell’Aldilà? Dino De Laurentiis aveva accettato di produrlo, ma a malincuore. Infatti, da buon napoletano, sempre pronto a «toccarsi», temeva quel viaggio post mortem. Annina ci aveva detto che la sceneggiatura, a forza di limature, era diventata sempre più bella e avvincente. Ma perché doveva diventare un poema? «In fondo la morte è da accogliere come la vita, non prelude forse a un’altra forma di vita?» mi disse un giorno il regista quando lo incontrai da Rosati. Ormai aveva fatto suoi gli insegnamenti di Jung. Anche Bernhard, nella sua ultima intervista prima di morire, quasi un testamento lo disse: L’anima non è forse fuori dallo spazio e del tempo? Per caso mi trovavo quel giorno in compagnia di un amico, Marziano Guglielminetti, che Federico tentò inutilmente di coinvolgere nel discorso. Positivista e marxista, Marziano ne era lontano anni luce. Fellini stava cercando qualcuno disposto ad attraversare con lui le fiamme dell’Inferno? Mi pareva che nemmeno Fellini potesse contemplare la fine della vita con la
cosmica serenità di un grande saggio ebreo come Ernst Bernhard. Ma ascoltiamolo. Mi sembra, leggendo Jung, di sentirmi affrancato e liberato dal senso di colpa e da un naturale senso di inferiorità, non avendo idee generali quasi su nulla… penso che la psicoanalisi dovrebbe essere materia di studio nelle scuole, una scienza da insegnare ancor prima delle altre, sono certo che fra le tante avventure della vita, più di ogni altra vale la pena di affrontare quella di tuffarsi nelle nostre esplorazioni interiori, la parte sconosciuta di noi stessi. Con me non poté essere più convincente. «Jung è un amico, è molto umile, ne ammiro l’onestà, i suoi pensieri non vogliono diventare dottrina, ma solo suggerirti un nuovo punto di vista, guidarti verso un comportamento più consapevole e riconciliarti con le parti rimosse, frustrate e malate di te stesso. Eppure noto con stupore che quasi nessuno lo accoglie nella sua vita come un compagno di viaggio.» Col tempo l’ho fatto e non me ne sono pentita. Luigi De Laurentiis, intanto, scrittura come art director Pier Luigi Pizzi. Fellini andò in Germania a fotografare il Duomo di Colonia, ma non aveva più accanto a sé Gherardi, pronto ad attraversare con lui le fiamme dell’Inferno, se necessario. La scelta di Colonia era dovuto al fatto che Fellini era rimasto affascinato dalla storia leggendaria di Federico Barbarossa. Ed era venuto a conoscenza di molto materiale incandescente. L’imperatore nel 1164 aveva donato all’arcivescovo Rainald Von Dassel, le reliquie dei Tre Magi, sottraendole a Milano. Colonia era stata definita sancta al pari di Roma, Costantinopoli e Gerusalemme, il regista ne cercava la conferma. Invece lo inquietò la storia del pogrom della notte di San Bartolomeo nel 1349 a Magonza, cui seguì nel 1424 l’espulsione di tutti gli ebrei e l’inizio della diaspora verso l’Europa dell’est. Studiò a fondo Colonia e la sua storia,
chiedendosi se fosse veramente una città sancta o se non portasse invece un po’ jella? Tornando a Roma, fu assalito da infiniti dubbi. In giugno continuò a girare in Italia, andò a Napoli e a Milano, per fare sopralluoghi. «Come stai, Federico?» «Bene Marinotta, e tu? Non vieni a trovarmi?» Non volava, sembrava vivere tutto come un dovere, era circondato da libri di storia e alchimia, di cui lo aveva rifornito Nino Rota. E lui sfogliava, sfogliava… si era ritagliato un piccolo ufficio in via Nazionale, dove lo trovavo sempre d’umore nero e quasi come se non fosse più il vero Fellini, bensì un sosia, messo lì a piantonare un sicuro disastro. Scoprii quel giorno che il nome Mastorna era stato scelto aprendo a caso la guida telefonica di Milano proprio da Dino Buzzati. Il colore del film era grigio e tutti i costumi, circa duemila, erano già pronti, tutti ingrigiti. Spirava un’aria cimiteriale. Anche il colorito di Federico era spettrale, pallido. «Come stai?» chiesi ancora. Non mi rispose direttamente, ma disse: «Sai che il cinema è il mio solo rifugio. Mi giustifica, mi tiene lontano dai problemi inutili o metafisici, da rimorsi e rimpianti: è un grande sollievo, è terapeutico, faccio ciò che dovevo fare subito.» «La tua pressione è normale?» «Ottima, non ho nemmeno più la tachicardia! Hai visto Annina?» «Si, sì, sono andata a trovarla, non preoccuparti, sta bene.» «Mi fa sempre una gran paura la figlia.» «Mi sembra invece che stiano ritrovando finalmente un rapporto equilibrato!» «No! Tutto è finto fra loro!» Quella ragazza per Federico cominciò a diventare quasi un’ossessione. Anna tempo dopo parlava e viveva solo per la nipote Benedetta, ma anche in lei Federico trovò qualcosa di
avido che non lo convinceva. A sentir lui, era pronta a spogliare la nonna, che pure le passava una discreta paghetta. Non so cosa preoccupò me, invece, se l’ufficio o il suo viso. Non riuscivo a capire perché fosse così teso. Mi venne un dubbio, conoscendo la sua attrazione per il magico. «Federico, sei stato solamente a Colonia o anche a Praga?» Non rispose. Non so perché pensai che fosse stato anche a Praga, a visitare la casa di Faust, dove pare che si facessero studi alchemici e che era considerata maledetta. Forse si era inoltrato sul ponte Carlo, dove era stato giustiziato san Giovanni Nepomuceno, legato e gettato nel fiume Moldava? O si era inoltrato nel ghetto a curiosare sul Golem che avrebbe dovuto difendere gli ebrei dalle persecuzioni? La Shoah lo inquietava moltissimo, quel silenzio di Dio! «Devi allontanarti assolutamente dal magico!» esclamai d’impeto.
30 Segnali negativi
Dopo pochi giorni avvenne un altro fatto grave. Mentre stava lavorando in un ufficio della Vasca Navale, il regista ebbe un avvertimento, almeno tale gli sembrò. Fellini era solito far ricostruire proprio lì gli interni ed era tranquillamente seduto, ripetendosi che non si sentiva pronto a realizzare Il viaggio di G. Mastorna. Se Bernhard gli fosse stato ancora vicino, forse ne sarebbe stato capace, ma da solo no! Ed ecco che avviene qualcosa che lo lascia frastornato. «La facciata del Duomo di Colonia, che era stata appena ricostruita, mi è crollata addosso, a distanza di pochi metri, ho chiamato subito Annina dicendole che mi ero salvato per miracolo, con un salto all’indietro da acrobata! Mi sono sentito sfiorare dalla morte.» Ebbe la sensazione che gli crollasse addosso tutto il Duomo di Colonia, invece era solo un fondale, ma il regista venne davvero sbalzato di qualche metro o fu lui a fare quel salto? Fellini esagerò la cosa o l’ammantò con le sue superstizioni? Anna era una brava diagnosta. Ci disse di essere preoccupata, aveva brevi episodi di black out e perdeva conoscenza, secondo lei per una cattiva circolazione arteriosa. Avrebbe dovuto fare subito indagini più approfondite. Il fratello di De Laurentiis lo giudicò un bambinone che cadeva preda di forze paranormali, ma Federico non sembrava più lui, né psicologicamente né fisicamente. Era abitato da una singolare inadeguatezza che non era mai stata una sua caratteristica. Mi chiese di andare in ufficio a fargli i tarocchi e
scoprii che nutriva verso Dinocittà, una vera e propria idiosincrasia. Proprio come Rizzoli. «Non dovremmo essere qui a fare i tarocchi, lo sai?» dissi. Il risultato fu che estrasse le peggiori carte del mazzo e mi fu impossibile barare: Il diavolo, la Torre che crolla, L’Appeso, ma anche, per fortuna, un magico Papa. «Mio dio, Marinotta, cosa mi può succedere di tanto terribile?» «Di terribile, nulla! Si aggroviglia solo la situazione lavorativa e tu a un certo punto, senza forze, guarderai il film da una grande lontananza.» «Vuoi dire da morto?» «Ma va là! Arriva un Papa che ti salva, diciamo che vedo tanti papi che ti salveranno… il papa produttore, il papa amico, il papa medico.» «Sicura, bambocciona?» «Ma certo!» parlavo soprattutto guidata dall’affetto. «Ma chi ti ha fatto diventare così brava? «Non sono ancora brava, comunque mi ha aiutato Vittoria Toesca.» «Ah, è un po’ che non la vedo! Come sta? E soprattutto siete andate a trovare Anna?» «Sì, sta facendo dei sogni molto belli su di te.» «Lei li fa solo molto belli, non ha mai incubi, ma mi sento debitore verso di lei, la sento così sola, poi con quella figlia…» «Addirittura, la vedi come una minaccia? Non starà diventando un’ossessione?» «Sì… ma dimmi, prima di andartene, cosa ti manca di Torino?» «Lo sferragliare dei tram, le statue dei Savoia imbacuccate di neve e il profumo della fonduta con il tartufo.»
«Sai che io ho chiamato Guido il protagonista di 8½, prima di tutto perché era un bel nome e poi per il poeta Gozzano?» «In effetti, lo amo molto anch’io, forse perché lo apprezza mio padre.» «Tuo padre è come una ferita dentro di te, dovresti fare terapia, vuoi che ti dia una particina per aiutarti a pagare l’analisi?» «Grazie, ma vorrei diventare giornalista.» «Non hai mai detto a tuo padre che hai rinunciato a fare una parte in 8½ per amore suo?» «No!» «Hai sbagliato.» «Scusa, ma tu non eviti forse a Giulietta qualunque cosa la potrebbe angosciare?» Ammise che era vero. Con una certa sorpresa scoprimmo, grazie a Liliana Betti, che venne a pranzo da noi, che Federico spasimava improvvisamente per avere come protagonista Marcello Mastroianni. Mai aveva pensato a lui per il ruolo di Mastorna, adesso voleva soltanto lui, proprio mentre l’attore stava recitando con enorme successo nel musical teatrale Ciao Rudy al Sistina. Marcello faceva il tutto esaurito, fu costretto a interrompere lo spettacolo e dovette pagare una forte penale. Ma per Fellini era pronto a sacrificare qualsiasi altro progetto. L’ultima volta che incontrai Federico a via del Gambero, osai dirgli di provinare Vittorio Gassman per il ruolo. Bastava strafugnarlo un po’, cioè togliergli protervia e avvenenza, e sarebbe stato un perfetto Mastorna. Ebbe un sussulto: «L’attore puro? Mi fai pensare, potrebbe essere un’idea». Era cambiato, non era più lui, non mi acchiappava più sollevandomi in alto. Sapevo poi da Anna che i suoi sogni si erano fatti angosciosi fino a culminare nell’incubo del treno: nel sogno, il regista si aggrappa al volo al predellino, ma il convoglio va così veloce che non può né scendere a terra né
entrare nello scompartimento, e finisce a gridare disperato: «Aiuto!» Lo stress aumentava e tutto venne trascritto e certificato nel Libro dei sogni. A quel punto con il mondo comunicavano solo Liliana Betti e Pizzi. Fellini era sparito da ogni ufficio. Telefonai a Rol ed ebbi la sensazione che gli spiritelli maligni che il regista aveva liberato con Giulietta degli spiriti avrebbero continuato a tormentalo. Ma come al solito fu molto criptico. «Federico deve soprattutto pregare molto.» Il sensitivo aveva mandato il Maestro a meditare nella chiesa di santa Maria Immacolata di via Veneto, a fissare per mezz’ora il magnifico quadro di Guido Reni, dove l’arcangelo Gabriele scaccia il demonio. Fu la sorprendente bellezza del quadro o furono gli scheletri dei Cappuccini a convincere Federico a sospendere il film? O fu vedere la morte venirgli incontro in sogno? Dalla Signora con la falce era terrorizzato. Cosa succedeva intanto fra Federico e Giulietta? Si erano trasferiti in una villa più grande di quella di Fregene a via Volosca. Era un po’ inquietante che il loro rapporto non mutasse mai del tutto, nonostante le cicatrici e le ombre, ma risale senz’altro a questo periodo la decisione di restare uniti e solidali per sempre. Il patto fu siglato quando scoppiò la malattia di Federico, perché, come ci spiegò padre Arpa, entrambi superarono una prova durissima. La grave infezione virale e il fatto di sentirsi indispensabile al marito, in quella fase di grave crisi psicologica e creativa, addolcirono il carattere spigoloso di Giulietta. I guai finanziari non avevano ancora fatto capolino, erano dietro l’angolo. Sotto l’onda dell’emozione provocata dal sogno del treno, Fellini scrisse a De Laurentiis una lettera un po’ troppo sincera, gli diceva che non se la sentiva più di girare Mastorna e si descrisse disamorato ed esaurito. Tutto
vero, eppure lui, per primo, sosteneva che ai produttori non bisognasse mai dire la verità. Perché avrebbe dovuto scioglimento del contratto?
serenamente
accettare
lo
Nei seicento milioni spesi dal produttore per erigere ricostruzioni gigantesche a Dinocittà e alla Vasca Navale era già incluso il 45% versato al regista. Comunque De Laurentiis, che amava così tanto Fefé, adì con subitanea velocità alle vie legali: dichiarò un danno di un miliardo e cento milioni tra spese e mancato guadagno. A Fellini venne imputato di aver messo sul lastrico circa settanta persone. Non pago, il produttore sequestrò mobili e quadri nella villa di Fregene e anche i crediti per i diritti d’autore del regista presso Rizzoli. Giulietta si sentì male, svenne e fu ricoverata con la pressione fuori controllo. Da Anna, dagli Alberti, da Liliana Betti e altri amici ci arrivavano solo notizie sconfortanti. Eravamo molto preoccupate. Passò del tempo prima di poter parlare con loro. Venimmo però a sapere che c’era stata una sorta di riconciliazione con il produttore e che erano ricominciate le trattative per iniziare Assurdo universo, al massimo entro il 3 ottobre. La telefonata di Fellini mi arrivò perciò del tutto inaspettata. «Marinotta, come sono le mie carte?» «Ah, bellissime, davvero belle!» mentii. «Ma lo fai il film con De Laurentiis?» «Tu che dici?» «Stacca, ricordati che sei fatto della stoffa dei sogni.» «Cioè?» «Che sei unico e ora devi pensare solo alla salute.» Lo conoscevo troppo bene. Non aveva alcun desiderio di continuare a sfidare Mastorna e ne aveva anche imbruttito il
titolo. Fellini perseguiva un ideale classico, immune dalle mode. Insomma il suo film era divenuto un fantasmone minaccioso e ingombrante, quasi una forza radioattiva. Federico andava avanti meccanicamente e non comprese fino in fondo di essere fatto della stoffa dei sogni, proprio mentre l’incomprensione tra lui e De Laurentiis scavava un solco profondo nel loro rapporto, mostrando un dissidio già iniziato con la questione dell’attore da scegliere per il ruolo principale. Fra i due aumentarono i contrasti. Enrico Maria Salerno, proposto da Federco, non piaceva al produttore. Il tempo stringeva e risultava sempre più difficile puntare su Paul Newman o una qualche star americana, a cui De Laurentiis avrebbe ambito. Messo alle strette, Federico scelse Ugo Tognazzi e gli fece firmare un contratto. L’attore era così contento che si precipitò a farne partecipe il padre. Forse in cuor suo il regista sperava che rifiutasse, perché non riusciva a scoprire sul suo volto il lato spiritato e nevrotico che il Mastorna avrebbe dovuto avere. Una volta ne intravidi furtivamente il disegno, le fattezze erano quelle dell’elegante attore inglese Ronald Colman, interprete di veri capolavori del cinema americano. E io stessa non compresi il motivo della scelta: Tognazzi, sì, e Gassman, che possedeva naturalmente quel lato inquietante e un po’ demoniaco del personaggio, no! Lo «chef» dilettante Ugo Tognazzi, secondo i racconti di Annina, si era messo a insegnare a Giulietta la nouvelle cuisine, innervosendola non poco. Cercava di farle gustare il risotto allo champagne o le linguine al salmone affumicato o la bavarese alle fragole e al peperoncino e anche la gallina come la cucinava sua nonna a Cremona, ma secondo lei metteva la panna dappertutto, troppa panna, chili di panna… Giulietta non sopportava alcuna critica o incursione in cucina, soprattutto riguardo ad alcuni suoi sperimentatissimi piatti. Nessuno poteva criticarle le polpette, ad esempio, mentre
Tognazzi le cucinava con l’origano, che invece l’attrice detestava. Qualcosa di irreparabile successe, temo, a proposito della pasta e fagioli. Guai mettere in discussione la mitica ricetta di Giulietta: fu a quel punto che la situazione cominciò disastrosamente a precipitare, fin quando un recalcitrante Marcello Mastroianni non accettò di dirimere l’ardua tenzone fra i due eccelsi cuochi. Chi dei due preparava la migliore pasta e fagioli? All’improvviso i Fellini lasciarono Fregene e si stabilirono al Garden Hotel, in un residence all’Eur vicino a Dinocittà. Vi si rincantucciarono quasi fosse una sorta di rifugio, un bunker lontano da invasori di ogni tipo.
31 In bilico tra la vita e la morte
Man mano che si avvicinava la data di inizio delle riprese, i sogni di Federico avevano ricominciato a parlare in modo chiaro e lampante e fu così che il Maestro, a poco a poco, somatizzò la sua crisi creativa. Passeggiando sul lungomare di Fregene, alla ricerca di quel mare azzurro che gli pareva di aver ammirato negli anni Cinquanta, Fellini prese una furibonda bronchite. Il 10 aprile del 1967 avrebbero trasmesso, La strada su Rai2. Mia madre cercò Giulietta verso le otto di sera, per dirle che l’avrebbe vista in televisione, e per avere notizie di Federico. Stranamente a rispondere fu proprio lui con una voce e una tosse che lo rendevano irriconoscibile. Le spiegò che Giulietta era andata a rivedere il film da sua sorella Mariolina. Non aveva fatto lo scherzo della vocetta chioccia e spiazzante di quando non voleva essere seccato. No, era catarroso, con la febbre alta e stava aspettando un medico che, per accorrere al suo capezzale, aveva dovuto lasciare una prima dell’Opera di Roma. Mamma si assicurò che il medico andasse, altrimenti consigliava un ricovero in qualunque ospedale e, poiché il regista dava frequenti colpi di tosse, pensò che avesse una broncopolmonite. Ma lui la rassicurò. «Devo riprendermi in fretta, per partire con Alfredo De Laurentiis a fare i sopralluoghi»
«Non mi pare che tu sia in grado di andare da nessuna parte, Federico, te ne rendi conto?» replicò mamma. Tanto era spaventata dalla sua tosse che avvertì subito Anna. Scoprì così che era stata lei a raggiungere già il dottor Turchetti all’Opera. Quella stessa notte, ebbi un incubo: sognai di avere la bocca piena di sangue e mi risvegliai all’improvviso con la sensazione che o mio padre o Federico se ne sarebbero andati via per sempre. La mattina seguente mamma mi raccontò che era successo di tutto al capezzale del Maestro. Verso le dieci, Federico aveva avuto un dolore lancinante alla schiena e al petto. Aveva una pessima circolazione ed era nuovamente svenuto, forse nel tentativo di chiamare il portiere o i soccorsi, cadendo a terra. Era rimasto a lungo sulla moquette, senza riprendere conoscenza. Fellini si riprese solo sentendo le vigorose spallate che il dottor Turchetti, in smoking, dava alla porta della camera per entrare. Infatti era stato di nuovo chiamato sia da Anna che da Giulietta, entrambe allarmate perché Federico non rispondeva più al telefono. Il dottore entrò e, aiutato dal portiere, riuscì a metterlo disteso nella sua automobile. Poi a clacson spiegato attraversò a gran velocità il traffico romano verso la clinica. Federico era in stato catatonico. Venne ricoverato quasi moribondo nella stanza 105 al primo piano della clinica Salvator Mundi. La diagnosi era infausta. Malgrado avesse ripreso quasi subito una respirazione normale, si sospettava qualcosa di grave ai polmoni. Che aveva un tumore, ce lo venne a dire singhiozzando Liliana Betti. Disperate, ci precipitammo in chiesa a chiedere a Dio di salvarlo, una singolare coincidenza ci legava: mio padre mi aveva ricoverato nella stanza 104, quando in preda a forti coliti nervose, mi affidò alle cure di un medico tedesco che mi dava patate a colazione, a pranzo e a cena. Solo patate, per quindici giorni. Ogni settimana papà, per allietarmi, faceva volare
davanti alla stanza palloncini colorati. Per fortuna ero magrissima, non ingrassai troppo e guarii dalla colite. Non sapevamo come raggiungere Federico, chiamai il medico tedesco che non fece che accrescere il mio stato d’allarme. Ci arrivavano solo notizie indirette, da Liliana e da Anna, che le riceveva a sua volta da Nino Rota. Pensammo che la cosa migliore fosse lasciarlo nelle mani dei medici e di Giulietta, che ormai malediceva Il viaggio di G. Mastorna. Mia madre andò a chiedere la grazia alla Madonna del Pozzo insieme a Piero Gherardi. Io non facevo che piangere e pensavo che avesse giocato troppo incautamente con la magia. Lucia Alberti era d’accordo con me, sosteneva che Federico avesse rimestato troppo in profondità con lo spiritismo. Preoccupata, bruciava incensi. Il 1967 fu l’annus horribilis di Fellini. E io, seguendo ciò che gli capitava, non stentai a credere che stesse lottando contro una forza superiore, mentre i giorni passavano, alternando notizie ora terribili, ora confortanti. Parlavamo quotidianamente con Liliana. Avremmo perso il nostro affettuoso e caro amico?, ci chiedevamo. Annina non sembrava del tutto consapevole della gravità della situazione. Nel delirio, Federico sentiva solo l’urlo del mare. Mi aveva detto spesso che gli sembrava che la sua vita fosse vissuta da qualcun altro: mai aveva pensato, venendo a Roma nel 1938, di fare il regista o dirigere dei film come Alessandro Blasetti. Eppure da bambino non si era appassionato ad altri giochi che a quello del teatro dei burattini. «I ricordi? Ammetto, a volte me li invento, tanto che non riesco più a distinguere le cose che mi sono veramente accadute da quelle sognate», mi aveva confessato tempo prima. Il suo sguardo sulla realtà nasceva dall’essere un bravo caricaturista. Entrambi eravamo cresciuti con il «Corriere dei Piccoli», per entrambi Arcibaldo e Petronilla significavano qualcosa di
importante. Federico era affascinato dal modo tipico del fumetto di inquadrare le immagini in una cornice, la sua scansione narrativa, il salto da un quadro all’altro. L’affidare al lettore il compito di colmare i vuoti, di rendere dinamica la fissità del disegno. Facce, nasi, baffi, cravatte e volti, quanti volti! «Il mio cinema non nasce dal cinema, se devo riconoscere delle matrici, le identificherei proprio nelle strisce americane. Finito il liceo, già a Rimini collaboravo con disegnetti a “la Domenica del Corriere” e con altri giornaletti locali. Ma ero affascinato totalmente dal “Marc’Aurelio”, giornale contestatissimo dal prete anche dal pulpito domenicale. Don Balosa lo strappò con le sue grandi manone e ne fece una gran palla che colpì con un pugno e fece rotolare fra i banchi. Io vi cominciai a collaborare nel 1938 quando venni a Roma… ogni settimana il direttore veniva convocato dal Minculpop e ci chiamava tutti a rapporto, leggendoci i commenti raccolti, una cosa era spiaciuta a Starace, un’altra a Pavolini, un’altra ancora aveva fatto incazzare il duce in persona. Non sapevamo mai se saremmo stati licenziati o meno… che grande scuola era stato quel periodico satirico!» Federico talvolta afferrava anche il modo di accavallare le gambe delle donne che andavano a trovarlo in ufficio, ogni ghiribizzo era imbevuto di genio! La sua grandezza stava nel riversare tutto ciò nei personaggi dei film: a volte sguaiati, altre delicatissimi, straccioneschi o ieratici. Ecco, disegnare era il suo modo di pensare il film, di affrontarlo come si affronta un toro nell’arena. L’altro combattimento avveniva nella sua anima. Era un poeta e in qualche modo uno scrittore. Ne discussi, tempo dopo, con Natalia Ginzburg, che aveva corretto le bozze del suo unico libro, Fare un film. Natalia era un’amica sincera e mi disse che Federico le aveva consegnato un libro di appunti e ricordi che era un racconto perfetto, un diamante luminoso e tagliente.
La consegna era avvenuta mentre lui accompagnava Anna alla stazione. Era in partenza per Milano e poi avrebbe proseguito fino a Sondalo per le vacanze estive. Pare che la Chimera si fosse affacciata dal finestrino salutando tutti, come in un film felliniano. Non so perché mi sembrò di assistere alla scena, forse ne avevo vissuta una analoga. Nelle pagine iniziali di Fare un film, Fellini usa i ricordi per immergere il lettore direttamente nel dolore e nel brivido creativo che la permanenza in una grande clinica privata può comunicare. Spiegò che naturalmente gli erano arrivati tantissimi telegrammi degli amici più cari e degli amici di un tempo, come Gherardi e Rizzoli, che gli perdonavano ogni cosa. Ma soprattutto riceveva fiori, tanti fiori. Mi sentivo Wanda Osiris. I corridoi erano pieni di fiori, fiori, fiori che mettono fuori dalle stanze dei malati come in un camposanto. Le luci basse, nell’ombra, quando aprivo gli occhi vedevo una testa galleggiare nell’aria illuminata da sotto, come nei vecchi film gialli. Le facce che galleggiano scivolavano via nei corridoi, silenziose. A volte le monache facevano le iniezioni senza svegliarti, come sicari di Cesare Borgia, poi le vedevo di schiena filare via via nel buio. Nel libro descrive precisamente lo spavento vissuto negli stabilimenti della Vasca Navale, in quel periodo se ne stava sdraiato sopra un vecchio divano dalle molle sfondate, mentre fuori sentiva frinire le cicale, quando ecco che gli piovvero addosso a pochi centimetri dal naso, le pietre del Duomo di Colonia. Si spaventò talmente da pensare che stava morendo d’infarto e da convincersi che l’impresa di girare Il viaggio di G. Mastorna fosse sproporzionata alle sue forze. Ironia della sorte, con questo film avrebbe voluto liberare l’uomo dalla paura della morte ed ecco che invece scopriva che sarebbe stata la sua stessa opera a ucciderlo. Fellini sempre in Fare un film, passa poi a un’altra gustosa descrizione delle suore che lo curano, sono pagine buffe e affettuose. Racconta che una, entrando nella stanza, gli diceva: «Sempre a scrivere, scrivere, quanta filosofia!» Un’altra tutte
le sere gli porgeva un bicchiere di acqua di Lourdes, ordinandogli di bere! E aggiungeva: «Adesso che vuotato sua pleura, deve vuotare suo cuore». Suor Raffaella, invece, era colombiana: «Come ci cente oggi, megio?» Poi si metteva in mezzo alla stanza e annunziava una bellissima favola al regista: «C’è ciole e la luna annunzia al ciole. Non ti vergogni così grande e grocio che non ti fanno ancora uscire di noche?» Fellini seppe raccontare con grande ironia quel suo stare in bilico tra la vita e la morte, compresa l’occhiata alla cartella clinica del suo compagno di scuola, un certo Barangone, detto Sega, medico egli stesso, che si era materializzato al suo capezzale nel momento più critico, per diagnosticargli la sindrome di Sanarelli Shwartzman. Era un virus dunque, non un tumore. Il dottor Barangone pareva sicuro del fatto suo. E il Maestro infatti si riprese. Lo salvò lui? Non si capì subito se fu grazie a una terapia cortisonica più adeguata, suggerita proprio dall’amico, ma pare che in questa strenua lotta tra cielo e terra, anche Rol avesse mediato come un invisibile arcangelo, seduto accanto a Fellini. Il regista non riuscì a scorgerlo, ma lui mi disse di essergli stato sempre vicino. Gli proibì immediatamente le sigarette. Il sensitivo lottava strenuamente contro questo vizio, sosteneva che il fumo offuscasse anche l’aura del volto, impedendo ogni positività. Federico arrivò a odiare anche solo l’odore delle sigarette. Immagino cosa fosse per lui stare accanto a una fumatrice accanita come Giulietta. Noi intanto, alla fine del 1967, eravamo in uno sperduto villaggio campano a trascorrere un’assurda vacanza. Nostra madre era stata costretta ad accettare un film musicarello con Franco e Ciccio e Lola Falana, Stasera mi butto. Annina si era accodata per non vivere in solitudine la malattia di Federico.
Ad agosto eravamo stati catapultati in un dramma più grande: papà era arrivato a Roma in uno stato pietoso e, malgrado le mie suppliche, Mario Sposito non aveva più voluto ricoverarlo. Mi aveva detto: «Tre e non più di tre!» Io, fuori di me per la disperazione, con lui accanto in automobile, avevo fatto il giro di cliniche e ospedali, cercando invano una struttura che lo disintossicasse. «Hai fatto un brutto sogno? Perché vagoli e mi trascini da un posto all’altro?» «Perché stai male, papà.» «Tua zia non mi parla più.» «Capisco ti dispiaccia, ma lei ti ha raggirato, devi andare in causa.» «Si ucciderebbe.» «È lei che sta uccidendo te.» Nessuno ebbe pietà di lui. Il caldo divampava come non mai. Non ero più in me per la rabbia e lo sconforto, per la prima volta mi sentii sola e disperata, nessuno poteva darmi un aiuto. Tutti erano al mare o altrove. Non avrei mai dovuto lasciarlo con mia nonna, che forse per troppa impulsività, gli disse di andarsene di casa. La odiai e odiai me stessa che non ero restata con lui, anzi gli avevo negato un ultimo bacio, solo perché era ricaduto nelle sue vecchie abitudini. Cercai di raggiungerlo, ma scoprii attraverso il suo amministratore che non era mai arrivato nella pensione di via san Secondo a Torino. Feci mille ipotesi, tutte drammatiche. Mio padre era andato a vedere San Gimignano e le sue torri per l’ultima volta, e appena fu a Torino entrò in coma. Fuggii dall’orribile Villaggio Coppola con ogni mezzo di trasporto, un barroccio, un’automobile e infine il treno, ma era tardi. Quel maledetto posto vicino a Salerno era davvero in culo al mondo! Sarebbe rimasto per sempre il mio orgoglio, perché solo grazie a lui avevo frequentato gli studi classici e in suo
ricordo, anche se tardi, mi laureai in Lettere, e la mia ferita. Lui che aveva aiutato tante persone in tempo di guerra non venne aiutato da nessuno. Povero papà! Non assomigliava nemmeno più a se stesso, a causa di quel demone che lo abitava. Cacciai il dolore della sua perdita in fondo al corpo, nella vana speranza che diventasse polvere nell’incertezza dei ricordi. Disarmata continuavo a baciare la sua foto. La sua idea del Nucleo ospedale mobile era stata geniale, ma non gli aveva procurato alcun premio, nessuna medaglia. Vedo in giro tanti ospedali da campo ma chi ricorda il primo, inventato da lui? Chi ricorda che l’idea venne a un ingegnere torinese, un utopista, desideroso di andare a soccorrere le persone del terzo mondo? Lasciò una situazione economica a dir poco tragica. Il suo amministratore non gli aveva mai fatto pagare le tasse sui terreni venduti, altri debiti piovvero dagli usurai eporediesi. Li affrontai telefonicamente a uno a uno e li tacitai. Nessuno ebbe pietà. Il mio cuore fu trafitto dal dolore e dall’umiliazione per tutto ciò. Mi sobbarcai i suoi debiti, ma nessuno della famiglia si mostrò riconoscente. Fu atroce attraversare la giungla dei tanti avvocati e delle persone che cercavano solo di approfittare di una triste situazione familiare. Nel 1975 potei finalmente permettermi la prima analisi, prima freudiana e poi junghiana e poi mista tutta la vita, seguendo il consiglio di Federico Fellini, che diceva: «Non aspettare uno scivolone!» La convalescenza di Federico si svolse a Manziana, fu una benefica sosta che gli permise di affastellare ricordi su Rimini, abbozzare Amarcord e far tornare a galla un antico progetto risalente all’epoca dei Vitelloni: rilesse il Satyricon di Petronio e se ne innamorò. Da casa di Anna il regista ci fece una telefonata rassicurante e ci rivolse le sue condoglianze. Anche lei aveva dovuto sospendere le sue vacanze e rientrò a Roma con mamma per
starle vicino. Federico disse che, quando l’aveva conosciuto, mio padre gli era sembrato un uomo che aveva già dato il suo addio alla vita. «Se vuoi scrivere, scrivi la sua vita, potrebbe chiamarsi La singolare vita di Gionata Talbot, l’inventore». Mi consigliò di farne un romanzo surreale. Buttai giù qualcosa, ma il pianto era così incandescente che non riuscii a proseguire: fui sempre incapace di affrontare la sua infanzia solitaria al collegio Carlo Alberto. Malgrado crescesse con il suo grande amico Lele Carello, non aveva avuto un padre affettuoso che andasse a trovarlo né una madre che lo amasse. Anzi, visse un’infanzia come quella di Davide Copperfield, sempre frustato da mio nonno che non perdonava la benché minima marachella. Mia nonna Emi visse da un certo momento in poi fuori dal mondo e si inventò una vita di fantasia. Scoprii da Rina, la sua fedele ancella, che non aveva mai voluto figli e che invece il nonno la metteva continuamente incinta per una sorta di gelosia. Aveva una voce d’angelo, lineamenti bellissimi e un po’ orientali e suonava divinamente il piano, anzi era una precoce compositrice fin dall’età di tredici anni. Il progetto di un libro su papà fu però presto abbandonato, proprio come il Mastorna e a Federico, che si stava riprendendo, tornammo a volere più bene di prima. Che andasse al diavolo quel film! Rol non remò mai contro, anzi secondo il sensitivo non sarebbe stato imprudente tornare ad affrontare il film e per questo tentò di tenere sempre vivo il progetto, ma ormai era sepolto nell’anima di Federico che intanto, come per magia, aveva recuperato anche la sua meravigliosa voce di seta, ma sembrava ancora iimmerso in un sacco di problemi economici.
32 Il papa salvatore
Fu così che Fellini incontrò Paul Newman, che si era detto felice di interpretare il film, anche se Ugo Tognazzi minacciava azioni legali. Il Duomo di Colonia, ricostruito, troneggiava come monito di un’opera che nemmeno De Laurentiis sperava di veder terminare. Verso la fine dell’agosto ’67 il regista era, a sentire Liliana Betti, completamente ristabilito e uscito dall’incubo, grazie a tre film sostitutivi con De Laurentiis, da girare nel giro di cinque anni. Perché, perché?, pensavo. Già solo l’idea lo terrorizzava. Federico mi telefonò molto inquieto, anticipandomi la sua visita e, quando gli dissi «Keep quite!», mi chiese dove avrebbe potuto trovare i milioni che doveva al produttore. «Hai qualche buona idea?» «Riavrai tutto!» dissi. Il Maestro non aveva più la forza di un tempo, lo notammo quando venne a trovarci una sera per una vera rimpatriata fra lacrime e abbracci. «Mia bella Marina, dove stanno questo papa-produttore, e soprattutto quando si farà vivo? Sul resto hai indovinato, due papi m’hanno salvato alla Salvator Mundi, ma su questo ultimo ho dei dubbi, De Laurentiis è tutto tranne che un papa…» «Stai tranquillo Federico, viene, viene… ma non farà rumore, è un uomo quieto e poco esibizionista», parlavo con ottimismo di fronte alla sua nuova evidente fragilità da artista ferito. Aveva appena fatto un sogno profetico e singolare:
aveva visto una testa che gli rotolava davanti mentre guidava a velocità sfrenata e che avrebbe salvato le sue tre creature… Feci un altro giro di carte e la situazione che ne uscì era già assai migliore. C’era sempre quel terzo papa salvifico! «Ah, eccolo è lì, il gaglioffo, hai ragione, ma non si mostra!» Per fortuna lo vide anche lui. Voleva guarire perché nel suo cuore pensava già a un film misterioso e spettrale, un incubo tratto da Edgar Allan Poe, Toby Dammit. Compresi finalmente come lavorava, sempre uno o due film avanti. Aveva sofferto per Mastorna, ma di solito progettava in anticipo i suoi film, i suoi veri figli. Era l’unico a poter inventare in una sorta di perpetuo disordine – annotava il suo grande amico George Simenon – eppure con una precisa sicurezza di mano che non può non sbalordire chi, come me, sa lavorare solo nella calma più assoluta, direi in quasi totale reclusione. Comunque pareva anche a noi che senza quel cupo ricordo di un film abortito, Il viaggio di G. Mastorna, la vita di Fellini sarebbe andata meglio. E Rol? Non smise mai di dirmi di pregare. In quell’estate afosa, in effetti, sarebbero successe a Federico molte cose assolutamente magiche, in senso positivo. Come il presentarsi al residence dell’Eur di un certo signor Grimaldi, che chiese di parlare con Federico Fellini. Il regista temeva il solito scocciatore e non volle riceverlo. Grimaldi, napoletano anche lui come De Laurentiis, ma di un’altra pasta, aveva un’idea in testa e per fortuna lo braccò nell’atrio e si presentò. Aveva appena prodotto due film di Sergio Leone di enorme successo, due western, e sognava solo di potere lavorare con lui. «Sogno troppo maestro?» domandò. Fellini si diede dei pizzicotti convinto, anche lui, di sognare. Non fu De Laurentiis, ma lui stesso a vedere in Grimaldi un miracolo di San Gennaro.
Mi chiamò: «Tesorino è venuto a trovarmi un produttore che pare un principe… non voglio esaltarmi troppo, non sai le rogne che ancora mi attanagliano…» «Riprendi a vivere con fiducia, ci sono sulla carta altri due progetti, ma Rol stesso mi ha suggerito di non consultare i tarocchi troppo spesso», dissi mentre lacrime di gioia scorrevano. «Sei una maga stupenda, sento di doverti dire una cosa importante, non è un caso il nostro incontro.» «Niente nella vita è un caso!» «Tesorino, so bene che non esistono casualità ma coincidenze. Perché non diventi la mia maga personale?» Al regista piacevano molto gli oracoli, lo zodiaco, gli spiriti e i tarocchi. Era scontato che, ogni volta che facevo le carte a lui, doveva fare un giro anche per Giulietta: si preoccupava per la sua salute e sperava soprattutto che smettesse di fumare. Il suo volto esprimeva ansietà e insieme smarrimento, quando me ne parlava. Non credo recitasse. Dopo un po’ aggiungeva: «Avrà ancora qualche importante proposta di lavoro? Non è molto richiesta come attrice, eppure è molto brava.» Intanto lui dormiva sempre meno, gli ripetevo che doveva darsi tregua e prestare più attenzione agli echi che venivano da lontano. «Io con gli americani non voglio lavorare», continuava a dirmi. Gli stavano facendo ponti d’oro. Non avevo più fame, volevo solo stare ad ascoltarlo, era un vero sortilegio ascoltare le sue mille affascinanti favole, sembrava di sentire il Capellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie. Tirava sempre fuori dal suo cappello storie diverse, come quando mi disse che da parte di madre era imparentato con gli inventori dei gelati Algida. O sospirava: «Il rapporto con mia madre non si è mai evoluto, non è mai diventato una relazione individuale. D’altra parte in Italia, quando si tratta di padre o
di madre, la loro personalità viene cancellata, appartengono entrambi all’inconscio collettivo, al mondo degli archetipi». Era perfettamente consapevole del fatto che, sul piano letterario, Freud fosse più dotato di Jung, ma c’era qualcosa nel suo rigore che lo metteva a disagio, lo obbligava a pensare, mentre l’altro lo faceva sognare. A questo proposito, mi raccontò anche di un sogno che aveva fatto. Non so se se lo fosse inventato o no. Mi disse di aver sognato che dalla finestra del Grand Hotel di Rimini aveva visto i genitori allontanarsi e che, durante quello che lui chiamava il suo lavoro notturno, non riapparvero più. Spesso affermava convinto: «Non riconosco più la Rimini in cui sono stato ragazzo, le persone non rispondono più al telefono, a volte dubito siano ancora vive. Ostia invece in qualche modo mi diventa ogni giorno più familiare». E dicendolo il suo sorriso diventava sincero, lo sguardo più dolce ed emergeva sempre il ricordo di una strada alberata, o del profumo di una donna. Perché non ho preso appunti sui suoi sogni e i suoi incredibili viaggi? Perché non ho rinchiuso in uno scrigno la lacrima che gli scendeva parlando del padre? Mi rendo conto che a volte le parole risultano inadeguate, non bastano a ricordarlo. Non molto tempo fa con Pierino Tosi ci accusammo a vicenda di aver ritenuto scontata una sua telefonata invece che un grande privilegio, un dono. Fellini scardinava sempre le convinzioni banali, per quanto fossero profonde, delle persone per lanciarle verso il mare aperto. Voleva far capire che, anche in mezzo alle onde o a un naufragio, uno non avrebbe perso se stesso. Bisognava rischiare. Di cosa si aveva paura? Lui c’era e per renderlo evidente poteva mettersi a recitare Cade la neve di Ada Negri o Felicità di Trilussa. «Ma ti piace di più È morto er gatto, vero Marinotta?» Il giorno seguente finivi a darti i pizzicotti per capire se era davvero successo e con quella semplicità
disarmante. Quale balsamo migliore di una poesia si può regalare a una ragazza? A mia madre Fellini parlava invece di quelle orde di uomini che la corteggiavano, sapendo molto bene che una donna così bella è invece sempre molto sola e malinconica. Lei ritrovava coraggio e riprendeva a sognare. Federico era capace di sconfiggere i fantasmi di chiunque, tranne che i suoi. Sapeva dare un gran conforto, trasmetteva una fiducia rassicurante. Lui comunque, come bene ha intuito Nora Trevi, era Daniele nella fossa dei leoni. Si salvava sempre e comunque. Era difficile capire quale re intercedesse per lui. Intanto, cominciava a ristabilirsi lentamente e a uscire dalla depressione. Grimaldi, che ormai chiamavamo il Papa, gli fece sottoscrivere un contratto grazie al produttore francese Raymond Eger, che voleva riunire tre noti registi che si ispirassero alle novelle di Edgard Allan Poe. I magnifici tre furono Federico Fellini, Louis Malle e Roger Vadim. Ma solo il primo firmò una gemma della settima arte, evadendo dai confini del semplice cortometraggio per realizzare un grande cinema politico, una denuncia del capitalismo all’interno di un microcosmo pop delirante. Addio Paola, addio Claudia, addio a ogni soffusa speranza.
33 Tre passi nel delirio
Non seguii da vicino Tre passi nel delirio, cercavo solo di riprendermi per la scomparsa di mio padre, ma un ossessivo ricordo spegneva in me ogni luce. Era stato fino ai miei otto anni il padre e il custode perfetto della mia infanzia imperfetta. Colui nelle cui braccia mi ritrovavo dopo le mie assenze e i miei svenimenti. «Niente, non è niente, Fagottino, ci sono qui io!» Mi chiamava così perché dopo i litigi notturni dei miei genitori, spesso facevo fagotto e mi rifugiavo trotterellando su per la Grande di Dio, dai parenti di mia nonna, fossero i Fisanotti o le sue care cugine ebree. Tutti eclettici artisti. Mi arrendevo solo dopo una strenua lotta. «Sta cita l’è nen cuntenta», commentava lei. «Nonna, perché devo tornare da quei due farabuttoni?» chiedevo mentre tornavo a casa scalpitante e furente. Tanto trovavo mia madre tutta sola a suonare i valzer di Strauss e papà al golf, come sempre. Guardami! scrivevo sui suoi spartiti di Chopin oppure: Mammina cara, ma mi vuoi bene? Io te ne voglio tanto tanto tanto, non te ne accorgi? Andai a pranzo con Liliana Betti. Mi raccontò della lavorazione di Tre passi nel delirio. Era sfinita, perché il Maestro l’aveva messa a leggere tutto Poe, una vera tortura. Aveva passato un mese senza poter dormire, ma mi spiegò molte cose del film. Fra i racconti, Fellini scelse Non scommettete la testa con il diavolo, dove si narra la storia di Toby Dammit, che ha la mania di farlo. Su questa trama Fellini sviluppò un tema molto amato, quello del cinema nel cinema: infatti, Terence Stamp interpreta
un attore maledetto, uno che si fuma le prime sigarette a nove anni, a undici inizia a bere, approda alla marijuana a dodici e alla cocaina a tredici. Ora, questo giovane attore inglese – potrebbe essere uno dei Barrymore – arriva a Roma per girare un «western cattolico». Circondato da fotografi, giornalisti, produttori ed ecclesiastici, appare sempre più inquieto e fuori fase. Padre Spagna, interpretato da un Salvo Randone così sapiente da assomigliare a padre Ravasi, gli spiega il film che dovrà interpretare, citando Piero della Francesca, ma anche Roland Barthes, Dreyer e Pasolini aggiungendoci anche un pizzico di Ford. C’è poco da ammirare Vanvitelli, Borromini, Peruzzi, ciò che nei fumi dell’alcool intravede Toby è una Roma schizzata del raccordo anulare e poi zingari, puttane e incidenti, un traffico bestiale. Tutto sembra pronto per celebrare l’avvenimento, ma il giovane è indifferente a tanto successo, fra feste, sfilate di moda, premiazioni e una conferenza stampa in cui dice di non credere in Dio, ma nel diavolo. In preda a un’allucinazione intravede, come attraverso un incubo, una bambina inquietante dalle unghie laccate di smalto rosso che gli lancia una palla, e durante l’ennesimo ricevimento insulso fugge ubriaco su di una Ferrari che i produttori gli hanno regalato. Dammit si lancia in una corsa pazza e a perdifiato per le strade di Marino, una vera e propria fuga per i Castelli, fin quando, per sbalzare da un troncone all’altro di un ponte crollato, un cavo teso di traverso sulla carreggiata non gli taglia la testa. L’immagine di Toby preso al laccio e della sua rotolante testa, il corpo a terra, la Ferrari poco distante, emblema di un capitalismo malvagio, è semplicemente indimenticabile. La bambina biancovestita e spettrale del film, che gioca ossessivamente a palla con la testa dell’attore, assomiglia in qualche modo alla Melissa Graps di Operazione paura di Bava. Un omaggio a un regista che andrebbe ristudiato. Federico Fellini durante una delle sue esplorazioni notturne con Bernardino Zapponi, lo sceneggiatore, aveva scoperto che il ponte di Ariccia era crollato, e gli era venuta l’idea di girare
proprio lì Tre passi nel delirio – e il ponte fu disegnato magicamente da Vespignani – affascinato da Poe non solo in quanto padre della letteratura noir, ma anche per l’amore che nutriva per il sovrannaturale e il romanzo gotico. Anche un altro racconto, Rivelazione mesmerica, attraeva Fellini. Ma sarebbe stato un ulteriore modo di corteggiare la morte. Con questo breve e fulminante film, che egli definì «perfetto come una palletta di velluto», Federico iniziò anche la sua collaborazione con Giuseppe Rotunno, già operatore di Luchino Visconti: virtuoso sperimentatore del colore dall’inventiva fiammeggiante, era di carattere forte ed equilibrato e capace di rischiare. «Peppino ti sprono a individuare nuove prospettive del buio», gli ripeteva Fellini, non so quanto ironicamente. La direzione artistica fu assunta dal grande Pierino Tosi. La lavorazione del film durò meno di un mese, un record assoluto per Fellini. Qualche tempo dopo la mia amica Cristina Ghergo, erede del grande Arturo, mi fece conoscere Terence Stamp, o, come lo chiamava Federico, Terenzino Francobollo, uno splendido attore. Al Maestro interessava soprattutto il suo volto febbrile e gli occhi che sembravano spalancati sull’immagine di un incubo ed erano molto à la Poe. Stamp non riusciva a comprendere perché il personaggio che interpretava dovesse essere sempre sotto l’effetto di droghe o alcool e perché si facesse tentare dalla possibilità di girare uno spaghetti-western. «Solo per soldi? Solo per soldi? Io non accetterei mai.» Per fortuna tutte le scene western Fellini le ha tagliate. Gli feci un giro di tarocchi, ormai la voce della mia dote si era diffusa e me li chiedevano tutti. Terence era simpatico, intelligente e gentile. Tornato in Inghilterra, mantenemmo uno scambio epistolare parlando sia di astri che di cartomanzia.
Una sera, dopo le riprese andammo a ballare in un night. A un certo punto, la polizia fece irruzione per controllare lo spaccio di droga. Con me c’erano Cristina e un giornalista del «Messaggero», amico di entrambe, Massimo Di Forti: a tutti fecero svuotare tasche e borsette, io ero tranquilla dato che non ne ho mai fatto uso, ma ero preoccupata per Terence Stamp: il personaggio del film era drogato marcio, e lui? Insomma, non ci scommettevo la testa con il diavolo, invece era un acerrimo salutista e passammo indenni ogni perquisizione. Facendo le carte agli amici mi rendevo conto che, se la mia popolarità aumentava, la mia vera identità si perdeva. A Fellini avevo predetto sia la salvezza a opera dell’amico-papa che aveva individuato il virus, che l’arrivo trionfale del produttore Grimaldi, il papa-salvatore. Con Federico non ci sentivamo regolarmente, ma sapevamo da Annina che stava bene e che aveva ripreso, a poco a poco, le sue peggiori abitudini, tranne il fumo che troncò drasticamente. Sovente capitava che, mentre mangiavamo con Anna al solito ristorante cinese, Federico spuntasse magicamente dietro il paravento. «Che sorpresa trovare riunite tre bellissime donne. Cosa ho fatto per meritavi?» Parlava come se facessimo parte del suo harem. Era sempre affettuoso e ironico. Doveva aver già pronta una storia, mi parve felice e sollevato, quasi senza peso. Federico era un commensale molto divertente, ci raccontava di essere stato intervistato da Costanzo Costantini su come passava il tempo libero e di non aver saputo come evitare l’intervista, perché lui di sicuro mai aveva goduto di «tempo libero». «E allora che gli hai detto?» chiedeva Anna. «Che passeggio, passeggio molto dalle parti di piazza San Silvestro e a volte mi spingo fino a Ostia, insomma, sono contento di essere prigioniero del mio mondo, e di rifugiarmi a Cinecittà, non coltivo altri hobby.»
Chiesi a Fellini di invitare Mike Nichols, di passaggio da Roma, a vedere una proiezione privata di Toby Dammit. Mike ricambiò mostrandogli Il laureato, film epocale che mi lasciò piena di ammirazione; lo rividi poi nel 1972 a New York, attratta dalla sua intelligenza e dall’humor sofisticato, ma la nostra relazione, di per sé breve, si chiuse per un doloroso equivoco. «Con poco hai fatto un piccolo capolavoro, è un film perfetto!» esclamò ammirato Nichols. «Che film veloce e pieno di ottimismo salutare!» si complimentò da parte sua Federico: era una frase di cortesia che voleva dire che l’aveva relativamente interessato, il suo universo poetico era di altra natura per apprezzare un banale Edipo curato con l’ostinazione del pur bravo Dustin Hoffman. Tre passi nel delirio è, invece, un film tagliato e montato come un piccolo diamante: luminoso ed eterno. Mamma fece un film con Sordi e, dato che quando lo incontravamo ci ripeteva che sognava di mangiare i suoi agnolotti, l’invitò a cena per il giorno seguente, ci sarebbero stati quelli che chiamavo i tre moschettieri, Mike Nichols, Fellini, Giulietta e Alberto Sordi. Quest’ultimo fu il primo a disdire, ma i coniugi Fellini fecero di peggio: senza farci neppure una telefonata, ci lasciarono a tavola da sole con il regista americano che conoscevamo appena. L’inizio fu imbarazzante, ma man mano che passava il tempo, trascorremmo una folgorante serata, perché ripresosi dalla delusione, Nichols ci fece ridere da finire sotto il tavolo, improvvisando per noi fulminanti gag e imitazioni di attori americani. Aveva infatti iniziato la carriera come attore comico a teatro e con facilità riuscì a cambiare verso alla serata. Era stato colpito dal fatto che Fellini avesse scelto di rappresentare il demonio nelle vesti belle e innocenti di una bambina e non, secondo tradizione, in quelle di un uomo turpe e malvagio. Gli chiesi se l’avesse guardata bene, quell’adolescente inquietante era il diavolo in persona e forse
Federico l’aveva visto proprio così nel corso delle sue esperienze misteriche! Mamma sul momento se la prese molto con Federico per la scortesia dimostrata. Ma, come spesso faceva, giorni dopo il Maestro chiamò come niente fosse. «Tesorino, c’è nei paraggi la mamma? Mi sono ricordato solo ora che abbiamo mancato un suo gentilissimo invito. Perdonatemi. Mi stai dimenticando anche tu, bella mascalzona? Come farò a sopravvivere senza te?» «Mi sembra che ce la fai benissimo.» Recitò senza nemmeno attendere una risposta il ruolo dell’innamorato e così gli passai subito mia madre. Si disse desolato di non aver potuto gustare i suoi favolosi agnolotti, supplicò una riconciliazione immediata, anzi, la invitò a cena quella sera stessa e, come sempre, mamma lo perdonò. Sordi invece sparì per sempre dalle nostre vite. Forse aveva messo gli occhi su di me, lo si poteva vagamente intuire dai suoi doni: scatole di Baci Perugina sempre più piccole, man mano che io mi sottraevo al suo corteggiamento…
34 Block-notes di un regista
Tra un film e l’altro per Grimaldi, Fellini accettò di girare Block-notes di un regista, un documentario-pretesto per studiare da distanza ravvicinata gli antichi romani. Mi convocò a sorpresa nel suo ufficio di Cinecittà. Mi propose di interpretare la sua segretaria. Tentennai per l’eterna insicurezza di affrontare la macchina da presa, ma insistette, ci teneva, era il suo ringraziamento per avergli letto i tarocchi e aver predetto l’arrivo dei papi salvifici. «Farai anche una giovane matrona nel successivo Satyricon, non venirmi a dire che non hai il sacro fuoco! Ti farò un provino, non preoccuparti, dovrai solo ballare, non recitare.» Era un modo per dire addio definitivamente al Mastorna e presentarsi come estroverso telecronista più che come regista. Un piccolo gioiello, prodotto da un simpatico ed esuberante personaggio, Peter Goldfarb per la Nbc – trasformato da Fellini in Pietro Colordoro. Era un ragazzo americano dai capelli rossi, che dopo la laurea aveva trascorso le sue estati a Firenze, Roma e Venezia. Dei primi anni Sessanta e dell’Italia, gli piaceva tutto: il Rinascimento, l’epoca romantica e l’opera lirica. Parlava anche di tutto: arte, cultura, svago. Potei così ricordare a Federico di quando spergiurava che mai e poi mai avrebbe lavorato né per gli americani, né per la loro televisione. Colordoro ne uscì vincente dopo un complesso tira e molla, svoltosi tra l’Hotel Plaza, il Parco dei Principi e Fregene, dove il regista gli diede il fatidico annuncio: «Va bene, ho deciso, lo faccio».
Federico all’inizio era riluttante, temeva di non poter dare il meglio di sé. Adesso invece era felicissimo di intrattenere Peter e scortarlo nei ristoranti più trendy della città con complicità e tenerezza, quasi come un figlio. Benediceva la televisione americana e i 100.000 dollari offertigli a scatola chiusa per Block-notes. La televisione la considerava un «occhio grigiastro, spalancato nella casa, l’occhio di un animale extraterrestre, e mi ha sempre affascinato». Peter era amico di Gore Vidal, di Scola e Zeffirelli. Fellini aveva rotto un incantesimo, la vita gli sorrideva di nuovo. Era ridiventata leggera, lieta. Per la prima volta avrebbe raccontato di sé. Di come si fosse innamorato di un progetto e ora ne calpestasse le ceneri, il Mastorna. Liliana Betti, onnipresente e agguerrita più che mai, si moltiplicava in un’infinità di ruoli, assistente alla regia e addetta stampa, segretaria e più spesso autista, insieme a Maurizio Mein, che adorava il regista e cercava di evitargli le scene più faticose. Norma Giacchero camuffava la sua irritazione di vedermi interpretare un ruolo che considerava in qualche modo suo e ne sottovalutai il pungiglione. Non c’è nulla, infatti, che sia più pericoloso di una donna gelosa. Si lamentava sempre della mia maleducazione con Fellini. Il regista arrivò a dirmi che, entrando in ufficio, non la salutavo. «Come puoi crederlo? Sono stata allevata da una bisnonna che a tavola mi legava le braccia al busto per farmi stare composta, sfido una principessa a essere più educata di me!» Per sceneggiare, invece degli usuali Rondi e Pinelli, Federico scelse Bernardino Zapponi, che gli era stato presentato da Goffredo Parise. Era lo stesso di Tre passi nel delirio. Ben presto ne diventerà un amico assiduo e comprensivo. Il suo Fellini, massiccio e sparuto, furente e dolcissimo, ma talvolta infantile e vecchio, è proprio quella personalità sfaccettata e complessa che oggi è così difficile recuperare e far rivivere. E Bernardino riesce così bene a
raccontarlo, quando dice che iniziava il suo pranzo con una noce, perché è un piccolo cervello umano, nonché un simbolo augurale. Ancora, centra l’obiettivo quando sostiene che Federico prediligeva i sapori tenui, crepuscolari, come le poesie di Marino Moretti, un po’ ospedalieri, tutt’altro che felliniani. Passatelli in brodo, ovoline, prosciutto, spaghettini al pomodoro. I due potevano stare ore a parlare del direttore del «Marc’Aurelio», il mitico, Vito De Bellis. E per la parte inglese assunse Eugene Walter, estroso scrittore, poeta, traduttore e attore, che aveva recitato un piccolo ruolo anche in 8½ e in Giulietta degli spiriti. Veniva spesso a cena da noi, era molto simpatico. Morì in Alabama in totale indigenza, tanto che i suoi amici dovettero fare una colletta per offrirgli una degna sepoltura. A Roma invece riusciva a vivere recitando anche con Pupi Avati. Per nostalgia dell’America volle tornarvi nel 1980, non rendendosi conto di quanto fosse diventata crudele. Pierino Tosi era un genio raffinato, soprattutto quando lo potevi frequentare lontano dal lavoro. Da professionista si gettava anima e corpo sui suoi disegni. Si isolava a creare. Ma appena poteva sgusciava via dalla vorace esclusività del Maestro, che se ti amava ti divorava. Non sempre Fellini era spigoloso, sapeva essere anche malleabile e affettuoso e possedeva la grande abilità di decifrare e interrogare il cuore dei suoi collaboratori. Piero sembrava un inglese, schivo, meticoloso, ironico e gentile, capace di veri colpi di genio creativo. Danilo Donati, costumista e scenografo, era di Luzzara. Allievo del pittore Ottone Rosai, aveva vinto due Oscar nella carriera, tra cui uno per Il Casanova, ma portava nel cuore una ferita mai rimarginata: la perdita della mamma nel 1953. «Non sono il costumista, capito? Tu non mi hai mai visto! Distrailo, ti prego, fallo per amor mio… seducilo, digli che lo
ami, ottundi i suoi sensi con il tuo sensuale profumo, in modo che mi cancelli!» Fosse stato facile! Quando tentavo di farlo, facendo perno su una voce più dolce e attraente del solito, ebbene… allora era proprio il momento in cui Federico cominciava a gridare a voce altissima: «Guardate, un topo che scappa lungo i muri. Guardatelo bene! Danilaccio, dove pensi di nasconderti?» E rivolto a me: «Sei sua complice, vile traditrice, ammettilo!» In realtà Danilo entrava e usciva dagli uffici furtivamente dopo aver preparato il lavoro e, a volte, sgattaiolava perché Federico era capace letteralmente di soffocarlo con richieste per disegni e bozzetti che avrebbe voluto vedere subito. Era chiaro che lo adorava, avrebbero lavorato insieme anche nel Satyricon. Temeva però di cadere vittima del regista che, con abbracci, vezzeggiativi e palpeggiamenti, era capace di imprigionarti come un cobra! Nessuno mi divertiva come Danilo. Era stato il costumista de I grandi camaleonti, e lì mi vestì con i drappi rilucenti di una sedicenne madame Récamier. Ora non mi dava nessun consiglio, se non quello di essere me stessa e indossare ogni tanto un foularino verde, annodato dietro la testa. «Come Anouk Aimée, in 8½, ci somigli pure…» Era preoccupato che diventassi preda dell’abbraccio da pitone di Federico. Eppure il suo invito contraddittorio era: «Incantalo con la tua innocenza!» Cosa non facile. Federico, anche se si intratteneva a parlare con un visitatore o un attore, controllava tutto il set. Lo sorvolava con uno sguardo come un’aquila in cerca di preda. «Dov’è Pippia, avete visto Lamberto Pippia?» Fellini aveva un rapporto quasi carnale con i suoi collaboratori, li gustava a piccoli morsi e, se per un attimo sparivano dal suo sguardo, voleva sapere dove fossero. «Penso sia al bar o in bagno.» «In bagno, Pippia?»
«Non so Federico, ma perché lo cerchi. E soprattutto perché lo chiedi a me?» «Solo perché vedo che tu lo cerchi… forse ti piace Pippia?» «Ma… no, perché dovrebbe piacermi? Proprio no!» «Sei sicura che non sei innamorata di qualcuno?» A Director’s Notebook nacque in un clima di improvvisazione sui prati di Dinocittà, una vasta campagna bruciata dal sole estivo. Il silenzio era rotto solo dal frinire delle cicale. Sullo sfondo s’intravedevano confusamente alcune costruzioni. Un palazzo? Una chiesa gotica? Sulla piazza dalla pavimentazione dissestata era distesa l’enorme fusoliera di un aereo. Questo paesaggio desolato mi attraeva, osservavo un cavallo allo stato brado che attraversava pigramente una città in rovina. Erano le reliquie della scenografia de Il viaggio di G. Mastorna. Me lo rivelò proprio lui. «Cosa sono queste macerie, Federico?» «Le costruzioni che sarebbero dovute apparire all’inizio del film. Dall’aereo avrebbe dovuto sbarcare un violoncellista morto… invece…» «Invece cosa?» Mi bloccai, pensando che per girare quel film aveva rischiato di morire. «Quando sono stato meglio, sono tornato a rivedere questi luoghi e pieni di erbacce e decadenti mi sembravano quasi più belli. Avevano assunto un fascino speciale, con qualcosa di nostalgico, come se in realtà l’avessi veramente girato il Mastorna. Vi trovai anche un gruppo di hippie, qualcuno era venuto ad abitare fra queste sterpaglie, facendo rivivere queste folli rovine… solo per dirti che quel capellone che strimpella laggiù c’era veramente e gli ho chiesto di tornare oggi per le riprese.» «Ma quella ragazza dal volto lunare spalmato di biacca è un’attrice?»
«Sì, è una comparsa, e sono rimasto scioccato dal rivedere il Duomo di Colonia, dal ritrovare il set del mio film smontato ma illeso nel ricordo.» «E questi figli dei fiori cosa fanno nel mio film?» chiese poi, rivolgendosi a me. «Siamo qui perché oggi abbiamo celebrato un matrimonio, con un’orchestra di grilli», risposero un ragazzo e una ragazza teneramente allacciati, e ripeterono la formula di rito: «Questa non è la tua donna, ma la donna che sta con te. Questo non è il tuo uomo, ma l’uomo che sta con te…» «Per quanto tempo pensate di fermarvi?» «Anche se volessimo partire, non potremmo. Questa macchina è senza ruote, le abbiamo vendute. Ho scritto una poesia sulle rovine del tuo film.» «Come si chiama?» «Mastorna Blues.» In verità l’aveva scritta Bernardino Zapponi. Ecco il ’68 secondo Federico Fellini!, pensai. All’improvviso, si sente il fragore di un aereo che passa, gli hippie guardano per aria e il cigolio si trasforma nel rumore assordante di un aereo che atterra. Voce di un’hostess: «Attenzione, a causa di difficoltà tecniche siamo costretti a effettuare un atterraggio di emergenza.» Il cielo si rannuvola e un vento improvviso prende a soffiare fra gli sterpi. In una tempesta di vento e di neve, emerge una figura: dandoci le spalle, si avvia verso l’aereo di cui si sentiva il rombo dei motori, e d’un tratto come per magia appare il defunto Mastorna. Molto simile al regista, con cappotto e cappello nero, una valigia in mano e nell’altra la custodia di un violoncello. Un fantasma? Sì, un fantasma a cui il Maestro poteva dire scaramanticamente «Tié!»
Gli hippie e le comparse osservavano l’aereo muti e immobili. Io soffrivo un po’, pensando che quello era un addio definitivo a un film mai girato. Federico disseminò nei suoi film successiva parti di quella preziosa sceneggiatura, ma ora sembrava davvero che il Mastorna occhieggiasse da ogni angolo di quella piazza. Ogni film di Fellini era una diversa visione della vita, che costringe a gravitare intorno a un nuovo centro e, a saperla interrogare, si scopre una nuova metafisica, un altro mondo. Facemmo pausa pranzo in un bar e mi riempì il piatto di tramezzini. «Basta Federico! A proposito come sta tua madre?» «Mi manda sempre a dire di darle ascolto e prendere una laurea.» «Ma come, non ha ancora capito che hai avuto un successo mondiale come regista?» «Non è facile farsi capire, è una donna piena di pudori, discreta, e umbratile, senza dubbio migliore di me.» «Che progetti avevano i tuoi genitori per te?» «Mia madre mi vedeva bene nella carriera ecclesiastica, anzi, sognava che diventassi vescovo di Rimini. Papà invece era anticlericale e mi voleva medico o avvocato, poi quando ci fu la conquista dell’Abissinia si mise in testa che laggiù occorrevano bravi ingegneri.» «Ma a diciassette anni non pensavi di diventare regista?» «No! Aspiravo a essere troppe cose: un giornalista, uno scultore, un disegnatore, un pittore, ma anche un sarto, un burattinaio, un tappezziere, un attore. Se ci penso sono stato tutte queste cose, sono stato fortunato a far coincidere il destino con questo mestiere d’artista. Hai visto Annina di recente?» «Sì, ieri l’ho accompagnata dal dentista, Cerquetti.»
«Che ti dice di me?» «Si lamenta che non racconti mai storie d’amore.» «Che pretese, prima di tutto la vita non si può raccontare, è un tale caos, e poi io non ho mai avuto a disposizione Gary Cooper o Cary Grant e nemmeno un ottimismo radicato, perfino un po’ sciocco, come quello del cinema americano. Sul piano commerciale non c’è storia, il cinema made in Usa vince per professionalità, fantasia, ricambio generazionale e promozione del prodotto. Qui in Italia, quando si lancia un film, siamo ancora alle anteprime con le star, alle ospitate nei programmi televisivi del sabato sera, un rituale vecchio e ripetitivo.» «Ti ricordo che stai proprio girando un film per la televisione.» «Che noiosa che sei quando puntualizzi le parole come una maestrina.» «Perché hai accettato?» «Solo per ritrovare la mia componente monellesca, riprendere a vivere ed esprimermi. E poi ti confesso che vorrei cominciare a raccontare senza dover rispettare un racconto, una trama, una sceneggiatura. Sento che ho una vocazione profonda, quella di fare il buffone a pagamento. Tienilo per te, ma i produttori di Jesus Christ Superstar mi hanno chiesto di allestire un musical tratto da La dolce vita.» «Lo farai?» «Non lo so, non mi piace tornare sui miei passi.» Vabbe’, non l’avrebbe girato mai! Ma era stato autentico, a tratti totalmente sincero. Block-notes di un regista è un film-laboratorio, un documento, in qualche modo è anche lo studio preparatorio per il Satyricon. Era importante che Fellini fosse tornato in uno stato di fiducia, che studiasse, cercasse personaggi,
sperimentasse. Passeggiando per un viale di Cinecittà mi disse la cosa più vera che mai avesse detto su Mastorna. «Ecco, a volte avevo l’impressione di aver veramente conosciuto Mastorna, quasi fosse una parte di me stesso o uno che avevo frequentato in un’altra vita, in una vita più piena e pura, ma poi tornava a sfuggirmi.» «Pensavo che tu lo conoscessi molto bene, che fosse Ernst Bernhard. L’hai chiamato il mio vero padre, ricordi?» «Davvero? Ti dico solo fuocherello, perché Mastorna ero soprattutto io. Ci sono sempre in tutti i miei film. Questo avrebbe dovuto offrire anche una certa immagine della psiche, cioè della condizione della mia coscienza e della mia anima. Ma è stato come trovarmi davanti a una pesante porta sbarrata e aprirla, poi scendere ripide scale di pietra e trovarmi in cantina, scendere ancora ed entrare in una stanza con un’alta volta, molto antica. Il pavimento era fatto di lastre di pietra, alternati a strati di mattoni, ne alzai una con un anello, si sollevava rilevando un’altra scala di strettissimi gradini, scesi ancora e mi ritrovai in una sorta di caverna scavata nella roccia, e piena di ossa, cocci e un teschio! Era forse il mio? Coltivavo forse segreti desideri di morte? Quanto più scendevo, tanto più il mio inconscio mi diventava oscuro ed estraneo. Perché dunque dovevo immergermi in stadi così remoti della mia coscienza?» «La discesa nel regno dei morti, mi spiega il mio prof di greco, è nell’Odissea, nell’Eneide e nella Divina Commedia. Perché pensi che potevi rischiare l’osso del collo? Non hai forse accettato di fare il Satyricon? Quel sogno è anticipatore del film.» Quando facevo l’intellettuale Federico mi strapazzava o fingeva di strozzarmi. Nel racconto televisivo Fellini infrange ogni regola e proprio per questo il film diventa singolare: accentua la componente evocativa e onirica e trova un nuovo linguaggio, più fluido e divertito, quasi borgesiano. «Ho inglobato l’occhio di un animale extraterrestre…» ripeteva enigmatico.
Lo chiamava il filmetto. A sentire il produttore americano avrebbero dovuto collaborare anche Picasso per le scene e Stravinskij per la musica, ma la loro partecipazione rimase sulla carta. Col tempo Fellini rimarrà deluso dall’esperienza televisiva: raggiungere una platea indifferenziata ridusse le sue possibilità espressive. Non per altro definiva la televisione un mezzo dai connotati indistinti. Ma in quel momento fu un’impresa curativa e vitalizzante. Intanto, perché aveva ritrovato il solito impeto nell’affrontare il nuovo lavoro: la sua macchina da presa sfiorava personaggi straordinari. «Ciao Gasparino, posso presentarti la mia segreteria di edizione, Marina?» E Gasparino: «Buongiorno, dotto’!» Con Gasparino lo accompagnavamo nel deposito dov’era ammassato il materiale di Mastorna. Il regista faceva finta di nulla, ma io immaginavo quanto soffrisse ancora per quel film mai nato. Camminavo stupita tra file di costumi appesi, modellini di aerei, ombrelli, valigie, bauli, manichini, sfioravo quei sacri cimeli. Guardavo ogni cosa affascinata, i suoi magnifici disegni e ghirigori, schizzi femminili, ipersessuali figurette, svolazzi di tette e sederi, le buste si ammonticchiavano piene di singolari e rutilanti scritte. Dietro ogni foto il regista aveva inciso rapidi e a volte, esilaranti commenti. Bellone, Fumeria, Ladri, Facce antiche, Mignotte del Raccordo, Ruffiani e pappa, Mostri, nani e clowns, Donne di colore, Clero. Ma spuntavano anche frammenti di volti, di scene, battute, improvvisi brandelli del film irrealizzato: lo sguardo indecifrabile di un personaggio e scarabocchi pallidi e smozzicati potevano emergere dal nulla come messaggi scoloriti, muti rimproveri di fantasmi evocati, ma ormai inghiottiti dagli spazi bui dell’immaginazione. «Forse sto ritornando ginnasiale.» «In che senso?» «Avere deciso di fare Block-notes…»
Fellini stesso mi aveva raccontato di sé al ginnasio, del suo girare lungo la spiaggia di Rimini, da un ombrellone all’altro, vestito e con la cravatta, portandosi cartoni e pastelli sotto il braccio e offrendo a poco prezzo ritratti e caricature. «Ci torni volentieri a Rimini?» «Dipende… a volte mi sembra un rimasticamento della memoria. Spettri innocenti, già archiviati. Vi ho speculato sopra talmente tanto che è nato in me una sorta di imbarazzo. Cos’è Rimini? Un pastrocchio con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare. Sul mare d’inverno, le creste bianche, un gran vento, come l’ho visto la prima volta e lì la nostalgia si fa più alta e limpida, e poi la nebbia, d’inverno Rimini non la vedevi, non esisteva più. La amavo per questo, perché spariva.» Aveva sempre avuto la tendenza alla visionarietà. A Giovanni Grazzini confidò che: «I ricordi più forti della mia adolescenza sono in gran parte legati a fatti naturali, sempre di tipo violentemente scenografico… la scomparsa del Duomo inghiottito dalla nebbia mi dava una forte emozione. D’estate la grande ombra del teatro Vittorio Emanuele, che tagliava in diagonale piazza Cavour era un altro spettacolo che mi affascinava.» E che dire dell’incanto di quella voce di bimba che lo sorprese un pomeriggio d’estate in un vicolo pieno d’ombra? «Che ora è?» aveva chiesto. «Saran belle le quattro…» rispose qualcuno. E una bambina cantilenando, come a dire che era sicuramente più tardi: «Ah senza belle… son le quattro». Bastò questo a farmi capire che non aveva affatto archiviato Rimini. Sarebbe spuntata all’improvviso, la sua memoria era ancora ben allenata ed esplosiva: da qui sarebbe nato lo stupendo Amarcord, con i suoi tipi bizzarri e il suo mare teatrale, ma comunque indimenticabile. Un mare di plastica rilucente solcato dal profilo del Rex, in un trionfo di luci. Un grande falso, un capolavoro.
Quando ultimava un film Federico non andava mai a rivederlo, per lui era un lavoro finito. E si chiedeva come i critici facessero a conservare intatto il loro desiderio di ritornare al cinema il giorno seguente. Credo però che nessun regista, più di lui, abbia difeso i propri film da insidie mascherate da affettuosi consigli e imposizioni, sopportando frizioni, problemi e pene produttive. «Ti ho spiegato che questa era la piazza dove atterrava l’aereo… per me nessuna cosa è più estranea e lontana di una piazza tedesca… sarà così quando morirò, atterrerò comunque in una terra straniera.» Questa battuta venne poi cancellata nel montaggio, ma trasalii nel leggerla. Mi confidò che, quando scese in albergo a Colonia durante il viaggio di ricognizione per preparare Mastorna, fu stordito dal suono inusuale delle dodici campane del duomo. Gli parve che quello fosse il suono del tempo eterno, e cadde svenuto. Si sentì stranito per tutto il soggiorno, il Duomo lo intimoriva e all’improvviso compresi perché ancora oggi, quando raccontava che gli era crollato addosso a pochi centimetri tanto che per poco non lo travolgeva, faceva vari scongiuri. Per lui la storia delle reliquie dei Magi, che ricorda il solo vangelo di Matteo, era un’altra stranezza. Adesso le sante reliquie erano state sparpagliate fra il Duomo di Colonia, la chiesa di sant’Eustorgio a Milano e quella di san Bartolomeo a Brugherio. Si chiedeva: «Quei tre santi monarchi me lo sai dire dove sono sepolti?» Forse per evadere la domanda, gli chiesi della testa mozza che vidi nel magazzino. «E quella testa? Cos’è?» «Un suicida, in realtà un gruppo di suicidi che si sono ammazzati buttandosi da una finestra, questo qui si è buttato a testa in giù!» Allora azionò un meccanismo e provocò un’esplosione, da un cranio fuoriuscì il colore biancastro della materia cerebrale. Mi riempì di paura. Presi in mano la testa e la sfiorai con un gridolino di ripugnanza.
«Federico, ripensandoci, non era così triste Mastorna», dissi quando in automobile lontani dal set tornavamo verso piazza del Popolo. «No, non lo era, ma avevo l’impressione che il suo senso vero e profondo mi sgusciasse tra le mani ogni volta che mi avvicinavo.» «Come se Michelangelo si fosse apprestato a dipingere la Cappella Sistina e si fosse sentito male…» Si mise a ridere. «Scendi… non sono all’altezza di Michelangelo!» «Chi ti senti di essere?» «Più Guido Reni.» «Conosci il suo Cristo di san Lorenzo in Lucina?» «Conosco meglio il quadro che sta nella Cappella dei Cappuccini.» Aveva detto la verità, ma non potevo a quel punto tradire Rol. E poi ormai Fellini sembrava aver finalmente vinto la sua lotta sul male e su Satana, e non volevo chiedergli più nulla in proposito. «Ma pensi sempre a tuo padre?» mi chiese. «Devi fartene una ragione, uscire dal lutto, eppure sei una tosta, sai badare a te stessa. Non ti sta aiutando un po’ girare questo filmetto?» «Sì, molto. Ti ringrazio, era un uomo molto buono.» Il mattino seguente eravamo entrambi in anticipo, per questo riprendemmo la conversazione da dove l’avevamo interrotta. «Quando sei venuto a Roma, l’hai trovata come la immaginavi?» «La immaginavo papale, imperiale e fascista. Ma quando arrivai nel 1938, con un treno a vapore, mi accorsi che Roma era arretrata, sembrava più una città africana che una metropoli europea. Mi colpì il clima di sbracamento e il caldo, i ragazzini scorrazzanti per le strade, con gli occhi neri sfuggenti, le voci roche e dall’accento un po’ sguaiato. Mi
colpirono le trattorie all’aperto, cene grandiose e feroci in cui venivano divorate teste di agnello, trippe, budella, lumache, vi partecipavano anche bimbetti piccolissimi che succhiavano, seri seri, occhi e cervelli di capretto.» Così, senza troppo pensarci, Fellini, sullo sfondo di un cielo temporalesco nella luce ormai incerta del tramonto, s’immerse nei tristi ambulacri del Colosseo, per cominciare da lì il cammino di Petronio Arbitro e del suo Satyricon. Scoprii che era arrivato lì attraverso le descrizioni di come gli era apparsa Roma al suo arrivo da Rimini. Mi chiese cosa pensassi della rivoluzione sessuale in atto, considerando come la morale degli antichi romani fosse libertina e spregiudicata. «Non mi convince l’equazione più libertà sessuale più vittorie nel campo dei diritti civili, quelli delle donne mi sembrano sacrosanti, ma le due sfere sono solo in parte legate tra loro.» «Non vedo un’autentica liberazione, assistiamo a una corsa frenetica, nevrotica e nevrotizzante al sesso, ma in cosa consiste la liberazione? Siamo vittime dell’educazione cattolica e occorreranno secoli per liberarcene.» «Parli al plurale?» «Certo, perché ne sono malato cronico anch’ io, cresciuto con la morale cattolica.» «Pare che le ragazze inglesi si siano liberate con il primo LP dei Beatles fin dal 1963.» «E degli uomini inglesi che mi dici?» «E chi li conosce?» «Questo film racconta un viaggio, un viaggio nel tempo.» Cominciò a dire cosa avevano in comune la Roma di oggi con quella di Nerone. E il Satyricon con La dolce vita. Andai a salutare Giulietta, la trovai disponibile e gentile. E, dato che, giorni prima, avevo estratto dalla borsetta un
bocchino di onice che le era piaciuto molto, avevo pensato di regalargliene uno. «Grazie, che bel pensiero.» Fellini era intento a filmare un uomo dalla faccia losca e prepotente, forse un pappone, e i travestiti, ladri e l’umanità disperata che circolava dopo il tramonto al Colosseo. La curiosità di Fellini e della sua troupe non era gradita a quelle ombre che guizzavano e si nascondevano come falene impazzite sotto i riflettori. Un brunetto esile protestava davanti alla macchina da presa con una vocina querula. «Io chiamerei la polizia!» E Fellini: «Non ce n’è bisogno». Una ragazza in abito da sera e un po’ eccitata chiamò un’amica dall’aria ambigua e dai capelli cortissimi che, appena ci vide, voltò le spalle e fuggì via. Strane figure, una dai capelli lunghissimi e in calzamaglia bianca, un’altra dalla camicetta rossa… lenoni, travestiti. Fellini inquadra con la cinepresa l’umanità triste intorno al Colosseo. «Signor Fellini, Albertone le vuole parlare.» «Be’, ci so’ tante che fanno le attrici, e io manco mi ci cambierei…» Ci spostammo in un’altra zona del Colosseo, ancora più silenziosa e buia. Il regista avanzava senza paura, camminava seguendo l’operatore e addentrandosi con sicurezza in quel sorprendente gruppo di fantasmi dolenti e immobili. Alcuni dormivano nei cunicoli, nelle cellette intrise di umidità, distesi per terra. Sembravano fagotti di stracci e coperte. Non avrei mai immaginato che da quelle pietre corrose potesse sprigionarsi così tanta infelicità. Spettacolo raro vedere una simile solitudine di esseri umani e sentire tanti odori nauseabondi. C’era un uomo misterioso che andava tutte le sere a trovare quella singolare tribù. Un angelo silenzioso. Era il famoso Uomo del sacco, Giorgiano. Lo rievocò Giulietta in una scena molto bella che interpretò
con leggerezza e bravura. Era capace di cambiare umore da un attimo all’altro, ma quella era una serata sì. «Lo chiamano così perché porta sempre un sacco sulle spalle, come Babbo Natale», disse. «Porta con sé indumenti, viveri, coperte a quella povera gente.» Mi spiegò anche che «la scena dell’Uomo del sacco apparteneva a Le notti di Cabiria, ma era stata tagliata e Federico ha pensato di riproporla uguale qui». Ero stanca quella sera, presa dallo sconforto e infreddolita, avevo voglia di tornarmene a casa e, facendo finta di nulla, dopo essermi accomiatata da Federico e aver salutato Giulietta, sgattaiolai via. Forse avvertivo una sorta di allergia a stare dodici ore su un set. Non ero nata per recitare, non ne avevo né il desiderio né la tempra fisica. Il cinema è soprattutto attesa e grande pazienza. Federico stesso doveva aspettare che si allestissero luci e set, e talvolta si spazientiva e inveiva contro l’intera troupe. Ma era raro che dicesse una parola di più, doveva proprio uscire fuori dai fogli. Pensai anche a quanti sacrifici faceva mia madre e gli attori in genere, per non parlare della fatica quotidiana del regista. Ma Fellini sembrava talmente investito dalla propria vocazione che a volte la sua forza sembrava oltrepassare i limiti umani. Il giorno dopo, Federico mi disse che avrebbe mostrato anche dei filmati muti del Foro Romano, e si chiedeva: «Com’erano gli antichi romani visti da una platea cinematografica di provincia del 1930? Come li vedevo a dieci anni?» Ricostruì una pellicola a passo ridotto in bianco e nero. Le immagini accelerate del muto scorrevano in una platea densa di fumo e di ragazzini scatenati. Liliana Betti interpretò una buffa spettatrice, mentre gli attori si trasformarono indossando maschere pesantissime e torve e tuniche bianche simili a lenzuola. Intanto un improbabile imperatore romano si ingozzava d’uva. Il Maestro, in realtà, s’avvicinava a grandi passi al Satyricon. Nella terra, come diceva lui, della sconosciutezza.
Bernardino Zapponi mi raccontò che con Federico erano stati a trovare il principe dei latinisti, Ettore Paratore. Li aveva accolti in una casa immersa in un giardino ombroso, con un’eleganza antica e ormai desueta, offrendo birra fresca. Avevano capito che sia Encolpio che Eumolpo erano i due volti dell’autore stesso, Petronio, simili anche nei nomi greci. Intimiditi al suo cospetto, provarono entrambi un po’ di disagio e non ritornarono per approfondire l’argomento. Ma ne nacque un’amicizia con lo scrittore Luca Canali, assistente di Natalino Sapegno prima, di Paratore poi, con cui si era laureato con una tesi su Lucrezio. Canali li mise subito a loro agio. Era un uomo tormentato, coltissimo e gentile. Poiché mi sedevo spesso accanto a lui e avevamo stabilito una sorta di sodalizio, mi raccontò di essere spesso assalito da fobie e depressioni e che il rapporto di lavoro con Federico aveva contribuito a rivitalizzarlo. Aveva una figlia che non riusciva mai a vedere e questo mi parve il suo dolore più grande. Una presenza costante sul set era quella del sensitivo Genius, con il suo magico pendolo. Né mancava una caratterista come Lina Alberti, pittrice e poeta. Insomma, il dietro le quinte era straordinariamente affascinante. In tutto cià, Federico non si scordava mai di regalarmi qualche piccola attenzione o un buffetto paterno. Ma la verità è che, quando irrompe nella tua vita un personaggio come Fellini, ne sovverte tutti i ritmi e gli orari, scombussola la tua vita, saltano appuntamenti e impegni, amici e amiche, cene e riunioni conviviali, così compresi subito che avrei dovuto, almeno, fino a un certo punto, seguirlo e assecondarlo. Ecco come si sviluppò il film dall’inizio, quando credetti di essere stata scelta per la mia capacità di preveggenza, la stessa che mi aveva portato alla farmacia della Paciocca. Gli epiteti vezzosi nei miei confronti aumentarono, oltre a Marina bella, diventai anche Tesorino, Pastrocchia, Bamboccia e Bambocciona. Penso che di pari passo aumentasse anche l’invidia di Norma Giacchero.
Fellini alle donne riservava inoffensive pacche sul sedere, lo faceva con sarte e comparse, ma un giorno osò darla a una parrucchiera bella e procace, Giusy Bovino, che lo mise subito a posto. «E no Fellini, non con me, capito? Ho un marito e un figlio!» Ci rimase male e mi chiese come si poteva considerarlo un gesto offensivo. Per lui era una manifestazione di allegra familiarità. Oggi sarebbe denunciato dal movimento #MeToo… Quel giorno, quasi per consolarsi, mi raccontò durante una pausa che il primo film ad averlo letteralmente incantato era stato Maciste all’inferno di Guido Brignone, il regista di Vivere. L’aveva visto in braccio a suo padre, nella calca fumosa del cinema Fulgor. La considerava una scena primaria del suo inconscio. Quando gli chiesi cosa si ricordava, non seppe dirne molto, a parte diavoletti saltellanti e fanciulle seminude, era divertente che il film girato in Val di Stura avesse tra le comparse un giovanissimo Sergio Amidei nei panni di un diavolaccio con tanto di coda. Cercai di fissare la scena sul mio diario.
35 Il provino
Nell’estate del ’68, di fronte a Camilla Cederna, nello studio numero 4 di Cinecittà, Fellini mi fece un provino per il Satyricon. Nel suo immaginario ero un’antica patrizia romana che danzava al ritmo di musiche afro. Non sapevo recitare, ma ballare sì. Danilo Donati mi drappeggiò con un peplo di bianca garza. Camilla Cederna mi descrisse sull’«Espresso» simile a una Diana cacciatrice. L’unica cosa di cui soffrii, e non poco, è che Pierino Tosi mi cambiò il volto, lo ricoprì di una biacca verde. Fui circondata da uomini che lavoravano come scaricatori ai Mercati Generali, tutti di stazza gigantesca. L’entusiasmo di Federico nei miei riguardi alla fine del provino fu assoluto: avrei dovuto fare l’attrice e corse a telefonare a mia madre per dirle che possedevo un vero talento. «Simile a Carole Lombard, Caterina!» Un talento per la danza l’avevo davvero, tanto che Attilia Radice, prima ballerina al Teatro dell’Opera di Roma, voleva che studiassi con lei. Ma adesso che fossi simile a Carol Lombard, era davvero troppo! Cercai di smorzare l’impeto di Fellini, sapendo quanto in fretta i suoi rapinosi entusiasmi potessero spegnersi: recitare non era la mia vocazione. Volevo scrivere e raccontare, più che interpretare. Non avrei voluto che mia madre facesse su di me sogni sbagliati, come puntualmente accadde! Mi fece fare provini da altri registi, Riccardo Freda e Vittorio De Sica, ma, prima di rivedermi in Block-notes di un regista, non potevo immaginare quale resa
avessi sullo schermo: mi trovai troppo bionda, troppo truccata e di una vaghezza sconcertante. Sognavo di fare la giornalista e magari sposarmi con un francese che desiderasse una moglie scrittrice, malgrado ciò mi misi d’impegno per contentare Fellini, spronata dalla mia amica costumista Gitt Magrini che mi consigliava di scrivere su di lui. Avrei vissuto il Satyricon diversamente da come immaginavano il regista e mia madre. «Scrivi tutto il tempo?» mi chiese un giorno Federico, sfilandomi il taccuino di mano. «Prendo appunti, dire che scrivo è troppo, ma è così magico vederti lavorare che ho bisogno di mantenerne una traccia tangibile.» Gitt, che leggeva quello che scrivevo e un po’ faceva le veci di mio padre, che aveva conosciuto giocando a golf, mi suggerì di tenere gli occhi ben spalancati sul set e di scrivere su Fellini. Poiché facevo straordinarie imitazioni di chiunque, infatti, si convinse che avevo spirito critico e non mi sfuggiva nulla, e che perciò scrivere poteva essere la mia strada. «A meno che tu non vinca la naturale timidezza e voglia gettarti nella mischia come attrice comica ma… non mi pare ti interessi.» Scossi la testa. «Allora datti da fare, raccogli materiale sul Genio pascoliano.» Così Gitt chiamava Federico. Lei era una snob, intelligente e ironica. L’aveva scoperta Michelangelo Antonioni facendola recitare ne La notte. Giovanissima aveva fatto anche la vendeuse da Alemagna, prima di sposare Franco Magrini. E invece di fare la signora ricca si era impegnata nel cinema francese e italiano… un grande talento e, se non fosse venuta a mancare anzitempo, prima o poi avrebbe vinto senz’altro un Oscar come costumista. Cara e ineguagliabile Gitt!
All’epoca lavorava con i più grandi registi francesi, come Malle, Truffaut e Godard, e fra gli italiani soprattutto con Marco Ferreri e Bernardo Bertolucci. Il nostro linguaggio era allusivo e gergale, lei mi chiamava Bambola e io Capo. Non sopportava di stare al telefono a lungo. «Bambola, presto, concludi, forza!» Mi scuoteva dalla mia leggiadria congenita. Mi sentivo sempre un po’ altrove e, oltre ad avere riflessi un po’ lenti, avvertivo fenomeni di déjà vu, tanto che quando ero entrata in quella farmacia fuori mano e avevo conosciuto la farmacista, cioè Anna Giovannini, la Chimera, mi era sembrato di conoscerla da molti anni.
36 Preparando il Satyricon
«Domani andiamo a evocare i morti sull’Appia Antica con Genius e Zapponi», mi avvertì il Maestro, fingendo di avvolgermi in una stretta passionale e poi mettendosi invece a suonare l’organetto. Fellini ti sorprendeva sempre ed era di simpatia indescrivibile, un vero spasso. Ti spiazzava. «Ti senti carica? Emetti onde?» mi chiese. E poi, rivolto a Genius spiegò: «Marina è una chiaroveggente naturale». Quello mi squadrò dall’alto in basso, dubbioso e un po’ altero. Genius era un vecchio amico di Fellini, un sensitivo «nato da una scorreggia di Totò», come diceva lui. Sfrontato e beffardo, non mi pareva possedesse grandi poteri. Recitava di averli, ma era tutta scena. Arrivammo con la Mercedes del Maestro, poco dopo il tramonto. Quando arrivammo, Federico, indicandomi, chiese a Genius se io ero l’incarnazione di Cecilia Metella Celere. Camminava a gran passi, parlava ai tecnici e agli attori con grande dolcezza. Ero sorpresa del fatto che mi avesse paragonato a una fanciulla che proveniva, sì, da una delle più importanti famiglie della nobiltà romana, ma che era stat ripudiata dal marito ed era detestata da Cicerone per i suoi amori illeciti. Mentre tratteggiava in modo ironico la sua storia, esclamai: «Ma perché dovrei essere lei?» «Perché ha amato il poeta Ticida!» replicò Fellini, sorridendo. «Che vuol dire? Avesse amato Catullo come la madre, capirei.»
Cambiando discorso, Genius lo blandì. «Ma come stai bene, Federico. Ti trovo davvero ristabilito… hai sempre una bella testa da imperatore romano.» «Ma se sono pelato!» si lamentò. «C’era qualcuno nell’antica Roma che mi somigliava un po’?» chiesi. «Sì, Marina è Lavinia, un’antica vestale…» si affrettò a concludere Genius, prima di esprimere il suo sommo disprezzo verso tutti gli antichi romani, esseri volgari. Davanti alla Tomba di Cecilia Metella, Fellini chiese al veggente: «Che te ne pare, è una serata buona?» Genius si piegò e auscultò il prato. «Sento molte vibrazioni.» «Buone vibrazioni?» Cominciò a cadere qualche goccia di pioggia. «Oh piove! Fammi portare un ombrello.» Genius continuò accovacciato a tastare il terreno ed entrò in trance. «A circa a venti metri ci sono delle ossa e dei leoni…» Nell’eccitazione della scoperta il veggente si avvicinò a me per sollecitarmi a seguirlo, attendevo emozionata presso l’automobile. Molte sequenze erano state girate mentre ero seduta nei sedili posteriori accanto a Zapponi e Fellini. Intanto il grande fotografo Franco Pinna scattava foto di scena. «Marina! Vieni, Marina! Ho bisogno del tuo fluido, tu sei la mia vergine vestale», cominciò a gridare Genius che mi prese le mani e premette la fronte contro la mia, come a farsi trasmettere il mio fluido. Il suo povero corpicino emanava un odore indescrivibile. «Oddio come sei scarica!» si lamentò. Il suo segretario mi spronò. «Prego, signorina, gli faccia molte domande.» Intanto Genius continuava. «Fai troppo all’amore, sento…»
«Be’, veramente proprio no!» replicai. «La tua glandola pineale… domandami, su, domandami… ah come soffro!» «Cosa ti devo domandare, cosa senti?» «Sento dei cadaveri. Oddio come soffro!» «Ma fategli una domanda interessante anche voi!» dissi rivolgendomi a Zapponi e Fellini, non capendo più se fosse finzione o realtà. Dopo ci avviammo verso la villa dei Quintili, fratelli ricchissimi trucidati da Commodo. Ciak. Motore. Azione. Mi accovacciai vicino al veggente, che captava così i segnali. «Ma questa è villa Dosolina, invece sotto c’è una famiglia patrizia, la Famiglia Flavia», precisò Genius convinto, stringendo le palpebre. Il suo segretario esclamò: «Otto uomini e tre ragazze senza occhi. Accecati dall’imperatore». «Mi sa che si sbaglia con i Quintili», lo smentì Federico. Ma all’improvviso sembrò un po’ disamorato e senza energia anche lui. «Insomma cosa avvertite? Vi parla Agrippina o è Messalina?» chiese all’improvviso. «Sinceramente non sento più nulla nemmeno io!» Fu allora che, quasi per stemperare la situazione stagnante, anche Bernardino Zapponi si accovacciò, forse per aiutare il Maestro, ma poco percettivo anch’egli scosse la testa in gesto di diniego. «Ma questi morti non parlano?» domandò Federico a Genius, che intanto aveva preso a far oscillare vorticosamente il pendolino da rabdomante. Lui sentiva le presenze dei due fratelli ammazzati, anche se era molto difficile risalire a quell’epoca infame, i romani erano tutti un magna, trinca e godi, li definì dei veri trucidoni.
Tutto molto divertente, ma i miei ritmi quotidiani si erano sballati. Quella sera non ricordo se andammo a cena a Grottaferrata o a Ostia, ma ricordo che, appena arrivati, Fellini fece immediatamente zittire la musica: il suo udito era estremamente sensibile all’udito e non tollerava musiche commerciali di sottofondo. Tornai a casa stanca dalla giornata di lavoro e mi misi a letto con la febbre. Ero invece sempre più contenta di come stava Fellini. Con Zapponi discuteva del copione del Satyricon, ma parlavano anche di Eros e Priapo di Gadda o di Mandrake. Appassionati di letteratura e di fumetti, li legava il fatto di provenire entrambi dal «Marc’Aurelio» e Federico era contento di aver trovato finalmente un amico nel quale rispecchiarsi. Il giorno seguente fui convocata vicino casa, a piazza Euclide. A Federico era venuto in mente di girare delle scene sulla linea ferroviaria Roma-Viterbo, che non era ancora entrata in funzione, e proprio nella stazione sotterranea che da piazza Euclide porta a piazzale Flaminio. Nel film sembrò che si andasse a gran velocità, percorrendo i tunnel, e che la macchina da presa sorprendesse fuori dal finestrino volti di antichi romani e matrone. Che idea geniale! «Vedo, vedo che un giorno la tua vita sarà in questa città! Non sposerai mai un francese. Vedo Manziana, Bracciano», vaticinò e indovinò anche questo. Federico era allegro, giocava, rideva, sembrava aver ritrovato se stesso e il desiderio di dipingere il mondo con i suoi coloratissimi pennelli. A Cinecittà si era costruito una sorta di casa-cuccia, dove non solo poteva lavorare ma mangiare e riposare, attorniato dai suoi collaboratori e dal fido massaggiatore Bevilacqua. Quando gli chiedevo qualche cosa sulla psicoanalisi, rimaneva sul vago, quasi si ritraeva, ne parlava con riluttanza e ripeteva: «Il mio è in realtà un
interesse da dilettante, da pasticcione… può essere un toccasana in certi momenti ma non sempre. La vita, il lavoro sono il toccasana.» Il filmetto gli consentì un allenamento subito dopo il periodo della sua malattia e relativa crisi creativa. «Mi sembra di aver ritrovato, la vita, il piacere, la bellezza.» «Non riprendermi da dietro che mi si vede la pelata!» scherzò con l’operatore Pasquale De Santis, fratello del regista Giuseppe e stretto collaboratore di Gianni Di Venanzo. Era molto cordiale, ma non ebbi la confidenza che avevo con Gianni. Non so come, nella pausa pranzo, Federico prese a raccontarmi del suo sbarco a New York nel 1950. Forse perché avevo cominciato a dirgli che amavo l’America e volevo andarci. In poche parole mi distrusse sia l’una che l’altra cosa. Poi, in America ci sono andata lo stesso, nel 1972 a fare la campagna pro-McGovern, che si risolse in un insuccesso completo, sconfitto da Nixon «l’imbroglione». «Che idea ti sei fatto di New York?» «Di un’immensa astronave senza radici né profondità, sospesa su una lastra di cristallo. Riunisce in sé Ninive, Venezia, Damasco, Babilonia, Benares e Ugarit, tutte le città del mondo fuse in un’abbagliante scenografia avvenieristica e decadente. Più vitale dell’Europa, però noi siamo paralizzati dalle nostre radici troppo profonde. Comunque, sia nel 1950 che nel 1963, mi ha sbalordito la quantità di alcol che gli americani ingurgitano a ritmo impressionante tra le cinque del pomeriggio e la mezzanotte. Ai ricevimenti, io astemio, non facevo che svuotare nei vasi di fiori il bicchiere che mi veniva continuamente riempito. L’alcol stravolge le espressioni: vedi donne diventare improvvisamente minacciose o troppo affettuose. Trincano come gli uomini, anzi con impegno e impeto maggiore. L’indomani mattina dopo un party dormono
in macchine, col braccio che penzola, simili a cadaveri. Ma all’ora di riprendere il lavoro, si presentano rasati e le dentature splendenti, veri Lazzari risuscitati!» Chissà come lo spaventò, l’America del 1993! Subito dopo fu preso dalla sua metafisica impazienza e in automobile ricominciò a sbraitare contro il traffico di Roma. Io ripensavo a quello che aveva detto di New York: con pochi tratti l’aveva descritta come poi l’avrei vista tre anni dopo. Ne parlai con Liliana. Disse che il regista aveva proprio la facoltà di sintetizzare e fotografare l’essenziale di una città, di una persona, di un volto. Ne captava l’anima. Una qualità che appartiene più agli scrittori che ai registi. E anche per questo non fu casuale la sua amicizia con Alberto Moravia. Era sempre per questa sua caratteristica che già allora capiva che l’Italia era un paese bellissimo, ma sull’orlo del disastro, del collasso morale e culturale. L’incubo così ben descritto in 8½ si ripeteva ogni giorno, quando in macchina raggiungeva Cinecittà, imprigionato in una fila di macchine, camion, ciclomotori e non riusciva più a scorgere una sola faccia umana, un viso che gli sorridesse o che gli apparisse felice, solo una serie di facce tetre, depresse e deprimenti. Roma che si compiace del proprio caos e del suo delirio, nel film omonimo, rappresenta anche lo shock della postmodernità. «Ieri, prima di arrivare a Cinecittà, sono stato sommerso da un’onda di gas di scarico, una marea di vapori pestilenziali… mi sono sentito soffocare. Sono sceso e ho cominciato a camminare sul bordo della strada. Ho camminato a lungo, per chilometri, fin quando non ho trovato una stradina che si inoltrava nei campi. Lì ho ricominciato a respirare, ma non voglio lanciare un messaggio apocalittico, odio fare filosofia ecologica.» Ebbi la sensazione che Fellini, grazie alla sua dote di fiutare il futuro, percepisse incombere la catastrofe.
Fuori tambureggiava la pioggia sotto un cielo di pece. Maurizio Mein aveva preparato tutto per la scena. Il Maestro si allontanò per telefonare. Rimasi un attimo da sola sul divano e meditai sulla sua ritrovata vitalità, era tornato avido di vita, quasi come se tutto potesse sfuggirgli, e avesse davanti poco tempo. Fu così che Fellini mi sembrò una delle poche cose vere che ci fossero nella mia vita, per il resto c’erano troppe incertezze e angosce. Fra queste, la solitudine di mia madre. Poi Federico rientrò con impeto in ufficio, quasi fosse una folata di vento e dietro di lui l’aria si riempì di musica e cominciò a occhieggiare alle sue spalle un sacco di gente: derelitti, guitti, piccoli attori di varietà, alcuni si erano uniti a lui al bar, «sbandati» che nessuno avrebbe mai scelto per un film, invece lui ne era affascinato. Nel suo ufficio Fellini scorreva di continuo l’archivio fotografico. In questo c’era il ritratto di Assia, una ragazza che catturava la luce meglio di tutte le altre. A Federico piacque. L’importante era veder sfilare centinaia di volti, amarli, studiarli. Un vecchietto, una mignotta, una contessa, un grassone… chi altro c’era? Proprio agli attori di questo tipo Fellini voleva più bene, ancora meglio se erano degli sprovveduti. La loro umiltà lo seduceva. Insomma saper recitare era l’ultimo dei problemi, dovevano solo essere se stessi. A quanto ne sapevo, stava cambiando i dialoghi. Talvolta mi chiedevo cosa ci facessi io in mezzo a quella folla di diseredati. Eppure ero anch’io una persona in qualche modo senza famiglia, qualcosa di profondo mi accomunava a quel singolare esercito. Mi sentivo vulnerabile, precaria anche per l’aumentata ostilità di Norma. Federico aveva una natura complessa, alternava a grande umanità un desiderio di lontananza e di non farmi partecipe dei suoi pensieri. C’era un lato tumultuoso e imprevedibile da cui non era facile difendersi. Compresi che costruiva il sonoro dopo averlo girato e montato, cambiando le battute, i toni, le atmosfere e trovando altri suoni al montaggio.
37 I «mostri»
«Liliana, Norma, Maurizio, che avanzi la marea umana!» disse a un tratto. Entrarono tutti e fu come un flusso ininterrotto. Quel giorno e il seguente, si presentò chiunque nella speranza di ottenere un ruolo. A dir la verità, non tutti aspiravano a una parte: scoprii che alcuni mendicavano soldi o volevano vendere al Maestro un orologio, il quadro di un pittore – più grande di Raffaello! – o addirittura una villa con piscina. Fellini sembrava sempre sul punto di arruolarli tutti e, seguendo una sorta di seduzione irrazionale, girava metri di pellicola, come se ci fosse un altro al suo posto a decidere tutto. Pensai a qualcosa di infantile, un indizio che la sua fuga al Circo da bambino fosse vera e non un episodio mutuato dalla biografia di Carlo Goldoni, che fuggì da Rimini a Chioggia con una compagnia di teatranti. Comunque doveva aver amato moltissimo il circo per riproporlo sempre in quel modo sgangherato e affettuoso. Tra gli sfollati apparve addirittura un re libanese senza più regno, che pietiva un biglietto areo per tornare in Libano e rioccupare il trono. Fellini sembrò credergli, e una signora lo rimproverò del fatto che non sarebbe uscito un bel film se continuava a usare le solite vecchie facce! Entrò un cieco che si faceva accompagnare. Che cosa aveva per lui il Grande maestro e veggente? Un lampo di preoccupazione attraversò il volto di Fellini. Un tipo mingherlino e un po’ allampanato presentò suo figlio Orlando, che cantava, ballava e faceva addirittura il fischio del merlo. Era Alvaro Vitali. Non
mancava nemmeno un allampanato diplomato dell’Accademia d’Arte Drammatica dai capelli rossicci. Rapita, ascoltavo tutti, fin quando un’improbabile musicista dall’esile mantellina e dal viso magro e tetro, con la sua straziante fisarmonica volle offrire a Fellini una melodia indimenticabile. «Da molto tempo signor Fellini vengo qui per incontrarla… perché per me i suoi film esprimono le stesse cose della mia musica… vorrei proprio che lei ascoltasse le mie canzoni, la prego… sia gentile… la prego…» Un nano attraversò veloce il campo visivo ed esclamò: «Ho perso la fede, Maestro, come riconquistarla? Al regista si attribuiva ogni genere di potere spirituale. «Bamboccia, ti piace? Ne sembri incantata.» Lo ero. Federico scoprì che avevo uno sguardo perennemente meravigliato sul mondo. Ero soprattutto incantata dalla sua facoltà di avere tutti ai suoi piedi, di affascinare, di sedurre. «Se diventi regista, diventi un po’ il capitano di una nave, ti trovi sul set davanti a un mucchio di gente indifferente, che parla di calcio o di faccende sindacali. Ti guardano apatici e tu devi ridar loro vita, animare quella ciurma, anzi, entusiasmarla in modo che essi stessi partecipino al tuo film.» Fellini li ascoltava, assimilava i loro dialetti, i tic, gli atteggiamenti, ne copiava le voci, li imitava, disegnava anche i loro baffi, convinto che tutte le facce fossero, in qualche modo, giuste e che la vita non sbagliasse mai! «Ma con te non ci siamo già incontrati? Questa è Marina, la mia segretaria, la conosci?» disse. Interpretando la sua segretaria, qua e là mi si vedeva far capolino o affacciarmi timidamente alla porta. Mi misi ad ascoltare la melodia straziante della fisarmonicista, piansi trascinata dall’armonia. Fortuna, se ci sei, penso di meritare ormai che un po’ di luce tu possa darmi … e non ignorarmi… Mi commossi e qualcuno mi offrì il fazzoletto. In nessun set
avevo mai assistito a una cosa simile. In quella bocca sdentata scoprii una dolcezza sconosciuta. Una ragazza porse a Fellini una scatola di fotografie, poi fu il turno di una spilungona riccioluta e un adolescente idropico in compagnia del fratello piccolo. Per ultima apparve un’anziana signora che assomigliava a un gallinaccio. Compresi che Fellini cominciava a collezionare mostri per il Satyricon. «Marinotta, a volte te ne stai lì silenziosa come un sasso! Non capisco a cosa pensi, mi stai forse giudicando?» «Non ci penso proprio, anzi, sono affascinata.» «No, sento che ti sembra cinico, crudele questo spettacolo, invece non lo è, ho simpatia per questi bizzarri personaggi che mi rincorrono da sempre, che da sempre mi seguono da un film all’altro. Sono tutti un po’ matti, lo so, dicono che hanno bisogno di me, ma la verità è che io ho bisogno di loro, la loro umanità è ricca, buffa, imprevedibile e commovente.» Quando toccò a lei, una misteriosa signora bionda sciorinò le sue generalità: era una poetessa. Il Maestro mi bisbigliò all’orecchio che vedeva in lei qualcosa di saponificato e di sinistro. Lei intanto spiegava che non era venuta per se stessa, ma per presentare i suoi figli, che erano due colossi. Parlava con magniloquenza da automa, come per un discorso ufficiale. «Ecco, io ho preparato una piccola dedica molto fraterna, per il grande regista Fellini, il più grande regista di tutti i continenti!» «Euhhh! Com’è sta dedica?» «Questa mia opera edita dal grande editore Cappelli, racchiude tutte le dimensioni umane e universali.» Alla fine, nella scena dell’ufficio, un lento carrello all’indietro mostrò tutti i personaggi sfilare davanti a Fellini. Seduti su delle panche nel corridoio, alcuni erano
improvvisamente immobili e silenziosi. Qualcun altro fumava e passeggiava avanti e indietro, il nano si allontanava, una bambina bionda accennava passi di shake. La melodia straziante della fisarmonica sembrava dare alle loro attese uno sconforto irrimediabile. «Dove sei fortuna? Ecco l’ultimo palpito della fisarmonicista che si girò di spalle come a contenere un’incontenibile domanda senza risposta. Alla fine il regista esclamò: «Non riesco più a dormire, lo sai? Dormo tre ore per notte!» «Sei un po’ teso. Hai consultato uno specialista? Appena smetti il filmetto spero tu vada a Montecatini» gli dissi quando tornammo verso casa e lui riprese a inveire contro il traffico e il puzzo mefitico di gas e benzina. «Giusto lì voglio andare, perché è un altro luogo completamente finto, è un set, non è un centro termale. Dove potrei andare altrimenti? A Caracas dove si spara per le strade? In Messico dove verrei rincorso da una pattuglia di ignobili poliziotti? O dovrei perdermi per le insulse vie di New York che non hanno nomi ma numeri? Potrei sempre farmi lapidare in Africa o a Rio De Janeiro da orde di bambini.» «Ma va là, che hai sempre detto che Roma è una madre. Una grande madre mediterranea, sciattona, affettuosa, severa.» «Ci ho vissuto con gran familiarità per quasi trent’anni, ma adesso mi sembra di non conoscerla più. Ha saputo amalgamare contraddizioni profonde, carnalità e religione, Cristo e l’Oriente, adesso la vedo com’è: ottusa, spenta, cinica, non ne senti il puzzo? D’altra parte quando l’ho attraversata per la prima volta ero giovanissimo e pieno di capelli!» Mi lasciò a piazza del Popolo. Anche il cinema era instabile e imprevedibile, comunque dovevo finire quel viaggio. Due giorni dopo mi chiamò di buon mattino Gitt Magrini.
«Bambola, come va il tuo apprendistato?» «Capo, non so se al Genio pascoliano piaccia che io scriva!» «Bambola, è inessenziale!» «Come sarebbe?» «Ciò che siamo o facciamo piace a pochissimi! Dobbiamo piacere prima di tutto a noi stessi! Ricordatelo!» Se non ci fosse stata Gitt, non sarei quella che sono. È scomparsa troppo presto. A volte penso sia vissuta solo perché un giorno potessi pensare a lei come a un’insostituibile maestra di vita. Ricominciai a lavorare con più lena, lei sapeva darmi la carica, l’amore per continuare a scrivere. Fellini, quel mattino, mi chiese quale fosse il vero dramma di Jung. «E no, no! Lasciami pensare! Te lo posso dire fra due o tre giorni? O magari una settimana? Una simile domanda a bruciapelo, ti odio!» Cominciò a sorridere, divertendosi un mondo davanti al mio smarrimento, ma perché voleva sempre giocare a fingere di metterti al muro? Poi mi spiegò come avrei dovuto rispondere al gigante. «Quale gigante?» A questo punto si mise a sghignazzare in modo irrefrenabile, ebbi appena il tempo di vedere avanzare con passo pesante, dal fondo di un corridoio stretto e poco illuminato, una sagoma immensa. Un impiegato mi chiamò. «Signorina Marina, venga un momento qui.» Intanto il gigante, che mi sovrastava di mezzo metro, sembrava seguirmi. Si appoggiò allo stipite della porta, faticava a tenersi in piedi. Era scattata una trappola da parte del regista burlone. Fellini stava girando.
Con un filo di voce recitai: «Posso esserle utile?» «Signorina Marina, mi fa parlare con il signor Fellini?» «Un momento.» Lo accompagnai fino all’ufficio del Maestro. Il gigante entrò. «Buongiorno signor Fellini, c’è una parte per me nel suo nuovo film?» C’era! Dopo circa un’ora, finite le riprese, Federico si mise improvvisamente a cercare una cartellina verde che conteneva bozzetti e disegni, era convinto d’averla lasciata sul tavolo e non la trovava più. L’aveva presa Liliana giorni prima, per salvarla dall’onda di attori e postulanti che sempre affollavano l’ufficio. Io intanto imparavo molto, non dimenticando mai la fatidica frase di Ruggero Maccari: «Caro Fellini, o sei un genio o sei un grande stronzo!» La verità è che era un genio, ma a volte era anche un po’ stronzo. Ma perché si finiva sempre per perdonarlo? Block-notes di un regista non fu solo un rifugio, ma un modo per rinascere dopo la scomparsa di mio padre. Mi riappropriai di un alfabeto poetico. Mi chiesi spesso cosa s’intravedesse attraverso di lui. Amava ciò che aveva, come dice sant’Agostino. Ma era inquieto e curioso. Subiva la trascorsa magia del Grand Hotel di Rimini, gli piacevano le stazioni ferroviarie e da ragazzo andava a veder partire tutti i treni. Adorava il mare d’inverno, perder tempo nei ristoranti deserti e meditare nelle chiese vuote, apprezzava le persone che parlavano poco, amava Ostia, Urbino, Bologna, Venezia… e cos’altro gli piaceva? Il suono delle campane, i letti molto alti, e cito a caso, i fratelli Marx, Buster Keaton, John Ford, Buñuel, James Bond, Matisse, Piero Della Francesca e Rossini, l’Ariosto e i romanzi di Simenon e Dickens, le ciliege, amava molto anche avere un segreto (io gliene rifilai
due o tre!) e la cioccolata amara, gli piaceva molto attendere, anche se invano, una donna che desiderava. Mi confessò quanto lo annoiassero le cene, le feste, i pranzi, le tavole rotonde, le lumache e le ostriche, il gorgonzola e viaggiare. (Il ribrezzo per il gorgonzola, purtroppo, ci divideva irreparabilmente. Ma pazienza!) Cosa altro detestava Federico? La gente che si riempiva la bocca sempre e soltanto di Brecht, Humphrey Bogart, il tè, la camomilla, il caviale, Pirandello, le crêpes suzette, i film politici, i film psicologici, i film storici, ma anche le finestre senza tende e il ketchup. Una volta, da Cesarina, ringhiante e protettiva, con due stupefacenti smeraldi alle orecchie, Fellini mi disse: «Se ordini hamburger con ketchup, ti cancello dal film». «Ma come ti viene in mente che io possa ordinare la carne? A proposito so qual è stato il dramma di Jung…» «Quale?» «Essere un freudiano che rifletteva molto sulla morte.» «Brava! Jung è uno scienziato che non si risparmia di riflettere sul significato ultimo dell’esistere.» «Cosa ti ha insegnato?» «Che un mio film è sempre opera del destino. Anzi significa andare incontro a qualcosa di imprevedibile, non devo mai immaginarmi un progetto prestabilito. Annotare i miei sogni è diventato qualcosa di obbligatorio, se li trascuro, si vendicano.» «In che senso?» «Avverto sintomi fisici spiacevoli che appena mi rimetto al lavoro spariscono. E torno a sognare e a disegnare.» Fellini riassumeva in sé sia il sogno che il divertimento, sia la fantasia che la malinconia e la poesia. Cercai dunque di godermi il privilegio di partecipare a Block-notes di un regista, di vedere Federico sul set e di
ascoltarlo quando rimproverava Liliana di essere pigra, pigra come poche altre donne al mondo! Mentre mangiavamo involtini al sugo mi offrì un’altra chicca. «Non racconterò mai di me fanciullo, non credo anzi di essere mai stato adolescente, forse sono diventato Fellini a ventidue anni, prima non ero nulla, solo una lunga incubazione. E poi io mi ritengo romano, romagnolo per caso, spargi la voce che sono piemontese, puoi?» E continuò: «Hai notato una cosa? Preparo un film nella più totale confusione, allineo materiali eterogenei, penso già al film successivo, il Satyricon. Ogni film è la storia della realizzazione del mio inconscio, posso e so solo raccontare storie, importa poco se siano vere o meno. Il nostro è un processo psichico che possiamo controllare solo parzialmente, per questo non pronuncio mai giudizi definitivi nemmeno su me stesso. Sai che dice Jung? Che la nostra vita è un esperimento di esito incerto. Così fugace che può dirsi un miracolo. Ciò che appare sembra durare una sola estate.Ma forse la vita è come una pianta che vive nel rizoma. La sua vera sede è invisibile. E oltre questo eterno fluire, oltre la nullità deve restare qualcosa di eterno.» «Fammi capire meglio.» «Il fiore muore, ma il rizoma resta. I fatti esteriori della mia vita li sento scomparire di giorno in giorno, anche i successi, gli Oscar, gli amori. Non però il mio mondo interiore, perché tutte le cose che mi sono venute incontro erano scritte nel mio destino, erano e sono una sorta di ricordo perenne.» «Conta solo l’anima individuale dunque?» «Sì, hai capito, conta solo l’anima.» «Ma quando eri bambino quale fu la prima immagine di donna che ti turbò?» «Una zia, le zie quando mi cantavano le ninnenanne mi turbavano grandemente.»
Penso che fu a questo punto che cominciai a sperare che quel film non finisse mai… Tutta la troupe si spostò al mattatoio di Testaccio, dove il regista parve trovarsi a suo agio. Fu un altro momento fulgente e doloroso al tempo stesso. Sembrava che Federico cercasse proprio l’odore del sangue e i volti antichi, grassi e spietati degli antichi romani fra i macellai del posto che diventarono altrettanti Gaio Pomponio o Lucio Papirio. In Block-notes di un regista girò una scena anche mia madre. «Ciao Caterinona bella, come stai?» «Ciao, ciao e tu come stai? Stai bene?» «Sei venuta a trovarci? Benissimo, benissimo.» Caterina diventò velocemente una matrona romana, la tunica gialla, la fronte fasciata da una treccia torva, gli occhi sbarrati e uno sguardo assetato di sangue. Ciak! Motore! Si gira! «Caterina mostra la lingua. Sii più feroce!» Venivano intanto inquadrati in primo piano i gladiatori, seguendone i movimenti violenti e vorticosi. Fu spiacevole trovarsi in uno dei luoghi simbolo dell’archeologia industriale, creata nel 1888 da Ersoch. Non ricordo molto bene tutto, anzi forse rimossi ciò che vidi: sembrava un film horror. Io e mia madre fummo infatti spettatrici involontarie di una scena violenta su bufali e vitellini: storditi, sgozzati e appesi a dei ganci di ferro per il dissanguamento, avvenne tutto velocemente, fra risate e muggiti strazianti. Restammo paralizzate dall’orrore e ci abbracciammo sgomente. Lo giurammo: d’ora in poi avremmo evitato di mangiare carne.
Fellini ebbe un’improvvisa voglia di caffè, un modo per nascondere il ribrezzo? Lo bevve come al solito nel suo modo buffo, da povero, tenendo sotto la tazzina la mano aperta. Federico forse per rincuorarla disse a mia madre che nel Satyricon le avrebbe dato un ruolo importante, quello di una matrona vogliosa e crudele. Lì per lì, fu costretta a interpretare un sensuale fremito d’amore mentre il suo sguardo diventava sempre più severo e terribile. «E con questo che faccio? Lo ammazzo per davvero?» domandò il gladiatore. E Fellini: «Te lo dico io quando farlo… Caterina vai giù col pollice, il volto più implacabile.» Caterina rovesciò in giù il pollice, irrevocabile. E il gladiatore gridò: «Mori, cane!» Mia madre scosse la testa lentamente, il sorriso tirato, gli occhi chiusi, in una sorta di estasi sanguinaria. Che brava attrice! Solo un’ora dopo dovetti aiutarla. Era seduta in una sorta di recinto, in attesa di ordini da parte del regista, si lamentava ancora flebilmente per essersi slogata la caviglia. Il dolore sarebbe rapidamente aumentato. Intanto annotavo sul mio taccuino che il Maestro a volte sembrava insensibile. Il motivo? Caterina zoppicava, si era slogata una caviglia e avrebbe dovuto essere soccorsa. «Caterinona va meglio la caviglia?» chiedeva. No, le faceva un male boia, in realtà. Desiderava interrompere la posa, andare a far vedere la gamba da un ortopedico, ma non poteva. Fu uno degli episodi più sconcertanti di tutto il film: cercai inutilmente di ottenere che le concedesse non dico una mezza giornata, ma almeno qualche ora, solo per portarla alla clinica Valle Giulia. Federico reagì in modo inaspettato. «Deve girare altre scene… non posso permettermi di perdere tempo!»
Così in quei giorni non smise di farle girare una scena dopo l’altra, e insisteva facendo affiorare una punta di lieve sadismo. Intendiamoci, oggi David Fincher e Lars Von Trier lo sono ben più di Fellini. Famoso era il caso di Alfred Hitchcock che, dopo che Tippie Hedren aveva rifiutato le sue avance, per un’intera settimana fece in modo che le fossero lanciati addosso corvi e gabbiani! Certo, non era il caso di mamma, questa non era una vendetta di Federico, ma contribuì a farmelo vedere sotto un’altra luce. Lo dissi ad Anna. «Lui è anche questo. Strano che lo scopriate solo adesso, ha momenti di cecità, l’anima chiusa. Non lo conoscete abbastanza.» Dopo una settimana, Caterina poté finalmente vedere un medico, indossare un gambaletto e sfilarsi dal film. Per fortuna si trattava solo di una bruttissima slogatura. La troupe continuò il suo percorso e facemmo visita alla villa di Marcello Mastroianni a Porta San Sebastiano sull’Appia. Per strada, Federico aveva scherzato in modo un po’ spregiudicato. «Perché andiamo così d’accordo io e Marcello? Perché il nostro legame è sempre stato basato su una sana sfiducia reciproca.» Possibile che non capisse che dal Mastorna in poi, lo scoraggiato fosse Marcello? Cesarino, il segretario di Marcello che era molto simpatico, ci fece gli onori di casa. La telecamera riprese un pullman di attempate turiste che si sbracciavano in saluti verso il latin lover Mastroianni. Un carrello lungo i finestrini inquadrò baci e urla di ammirazione. Fra tombe e fantasmi del passato viveva l’attore più emblematico della filmografia del Maestro, il suo alter ego, sempre umilissimo, che subito fece a Fellini un vero e proprio peana. «Lui ti dà la possibilità di essere così a tuo agio quando lavori con lui che non esiste proprio il problema di non saper recitare, perché altro non fai con lui che essere profondamente
te stesso. Un’intelligenza eccezionale, una personalità creativa unica, per questo, mi ha reso più uomo che non attore. Ho capito molte cose di me stesso lavorando con lui, compresa quella che noi attori siamo tutti inevitabilmente infantili e sciocchi.» Marcello era un uomo al tempo stesso saggio e inquieto, un conflitto che si esprimeva nel suo continuo cambiare casa. Fra un flash e l’altro, rispondeva sbadatamente alle domande di una giornalista americana, e intanto si metteva e si toglieva una pelliccia quasi fosse una sfilata di moda. Mentre Marcello era così addobbato, Fellini mi chiese di fare un tuffo in piscina. Non fu molto riuscito e Mastroianni mi gridò: «Superpanzata!» Il regista ricordò, non senza rimpianto, di quando aveva provinato Mastroianni per il ruolo di Mastorna. Motore! Ciak! Si gira! Ma allora Marcello lo guardava in modo diverso rispetto a quando recitava in 8½, ora il suo sguardo era smagato e lontano. «Abbassa la testa, Marcello! Abbassa… mettetegli un po’ di collirio negli occhi… com’è che hai sempre gli occhi rossi, Marcellì? Sistemategli il baffo, si stacca di continuo… non è che devi suonare in modo qualunque… devi palpitare un po’…» Ma Marcello era stordito da troppi truccatori e parrucchieri e disse: «Ma non sono nervoso, è che non ti capisco Federico, una volta in un modo, una volta nell’altra, come se inseguissi ancora qualcosa che ti sfugge…» «No, il cappello non mi piace, se mai lo metti dopo, il cappello tienilo da parte… senti Marcello, ogni tanto guarda in macchina… la cosa importante è esprimere un senso di smarrimento, quasi di dolore.» «Il guaio è che ce l’ho per davvero!» mormorò.
Il Maestro non si rendeva conto che qualcosa fra loro si era incrinato? Fu un provino pieno di tensione, come se l’attore fosse disorientato dall’incertezza del regista, ancora in cerca di un Mastorna che diventava sempre più inafferrabile. Quando l’attore smise di suonare il violoncello, ebbi modo di avvicinarlo in sala trucco. Erano passati sei anni da 8½. Sembrava disamorato. Era normale: per quel film mai fatto si era giocato il musical Ciao Rudy, pagando una penale salatissima. «Ma Mastorna non lo vuole più fare, Federico, almeno così pare, però lo evoca di continuo, questi tentativi come se li spiega?» mi chiese «Non so, temo che il film gli sia rimasto nel cuore, e poi lui, al di là di questo, è così imprevedibile.» «Io sono un po’ smagato dalla sua incertezza, la tocco con mano, ma se lui mi convincesse che io sono Mastorna lo divento in un attimo. Glielo giuro. Come sono diventato un suo alter ego per 8½. Ho l’impressione però che stia dirigendosi a grandi passi verso il Satyricon, non crede?» «Ha ragione, è così!» obiettai. Strano che il Grande Burattinaio non sospettasse che anche i suoi burattini preferiti qualche volta gli si ribellavano. Anche se Mastroianni aveva un cuore intelligente ed era capace di molta autoironia. Più tardi andammo a cena con tutta la troupe. Federico mi disse che Marcello aveva perso la testa per Faye Dunaway ed era preoccupato, poiché l’attrice era figlia di un generale. La storia durò forse due anni e mezzo e fu molto passionale ma, poiché Mastroianni non pensava di divorziare da Flora, lei troncò di netto, provocandogli una ferita non rimarginabile e una nostalgia perenne per le sue meravigliose mani. Gli capitava di sognarle. Pensai che con Block-notes di un regista Federico Fellini avesse tratteggiato di se stesso uno splendido autoritratto. Pur
essendo parco di notizie autobiografiche o di pettegolezzi, era stato in compenso illuminante sul lavoro. Il film non era stato solo una svelta serie di appunti, chiacchiere, fantasie. Presto avrei dovuto lasciare quel set. Il filmetto stava finendo e, arrivata al capolinea, già ne provavo nostalgia. Intanto, vestito con una tunichetta gialla e un mantello rosso buttato sulle spalle, intravidi l’attore inglese Martin Potter, che si sottoponeva a un provino per il personaggio di Encolpio. «La terra non è riuscita a ingoiarmi nella sua voragine! Non mi ha inghiottito il mare, pronto a prendersela anche con gli innocenti…» urlava. Da copione, dovevo suggerirgli qualcosa di misterioso e fingere di scrivere sul taccuino la sua risposta. Invece lo applaudii: «Bravo!» Era un ragazzo dolce e buono e aveva strenuamente combattuto per ottenere quel ruolo. Mi allontanai mesta. Non sapevo cosa mi avesse avvilito nella mia avventura felliniana, sì, era come se mi avesse colpito uno strano male: insieme al dispiacere di abbandonare quel set c’era anche la malinconia di averne fatto parte. Perché? Il cinema non era altro che la lingua scritta della realtà, come diceva Pier Paolo Pasolini? E io la sfuggivo? «Ma che fai, bamboccia? Te ne stai andando senza salutarmi?» Fellini quasi mi rincorse sul viale. «No! Ti prometto che verrò per il primo giro di manovella del Satyricon! Come ti senti?» «Compiaciuto di me, ma anche depresso. Oscillo tra opposte sensazioni, non c’è nulla, assolutamente niente di cui mi senta sicuro. Come sono venuto al mondo, ad esempio? Chi ha deciso al posto mio? Che ne pensi tu a proposito, bella maga?» Conoscevo l’antica leggenda di un rabbino e gliela narrai. Raccontava di uno studente che chiedeva: «Rabbi, nei tempi passati ci furono uomini che videro Dio in faccia, perché questo non succede più?» E quello gli rispondeva: «Perché oggi nessuno sa chinarsi e umiliarsi tanto». Gli piacque.
La vita non mi era sembrata mai un bene così lieve e prezioso. Anch’io come Fellini ero compiaciuta e un po’ depressa. Ma non mi accucciolavo. Mi chiedevo come avrei ritrovato Federico sul nuovo set, tenero o aggressivo? Stranamente, sembrava che l’inventore della moderna Babilonia de La dolce vita, dopo aver quasi intrapreso anche con 8½ un percorso spirituale, ora – lo compresi con un lampo d’intuizione – volesse, al contrario sfrenarsi.
38 Roma avanti Cristo. Roma dopo Fellini
Fellini iniziò il lavoro sul Satyricon che insieme a Il Casanova, al Decameron e all’Orlando Furioso, faceva parte, fin dai tempi dei Vitelloni, dei film-esca che Fellini prometteva ai produttori come contentino in cambio della produzione di quelli che invece gli interessavano veramente, come La strada. Non aveva mai pensato di realizzare quelle vaghe promesse. Se non che, durante la convalescenza dalla pleurite allergica a Manziana, aveva riletto Petronio ed era rimasto affascinato da un particolare significativo che non aveva mai notato prima e che lo folgorò: amò le lacune del testo, cioè il buio tra un episodio e l’altro. Un buio che avrebbe potuto riempire sceneggiando il film con Zapponi. Contemporaneamente fu annunciato anche il Satyricon di Gian Luigi Polidoro, documentarista di buon livello che ebbe soprattutto il merito di far uscire il suo film quattro mesi prima di Fellini. Poiché Alfredo Bini aveva già depositato il titolo nel 1962, realizzò un controfilm. Nel tentativo di bloccarlo, Grimaldi fece causa e la perse. Vi recitavano grandi attori come Mario Carotenuto, Franco Fabrizi, Ugo Tognazzi e anche il cantautore Don Backy. Fra loro c’era anche la bellissima Tina Aumont (che Fellini recuperò con Il Casanova). Tutti mettevano in atto una piccola vendetta nei riguardi di Fellini, per essere stati snobbati da lui. Soprattutto Tognazzi che ripeteva ossessivamente ai giornalisti: «Con Mastorna ho perso un anno da cretino». Polidoro realizzerà un film sospeso fra lo sberleffo e la malinconia, che tenta di dare un senso a quegli avvenimenti,
mentre Fellini aspirerà soprattutto a fare un’opera visionaria dal ritmo ammaliante. Federico continuava a telefonarmi con la sua vocina suadente. Voleva che lo raggiungessi sul set e che gli facessi, naturalmente, un giro di carte. Perché, diceva, lui non aveva proprio tutta questa voglia di mettersi a girare un film su Roma antica. E faceva anche sogni un po’ angosciosi e disturbanti. Ed ecco la sua solita ripugnanza verso il progetto e il film stesso, segnalato dal suo iniziare a consultare ossessivamente chiromanti, cartomanti e sensitivi. Tentennavo, ne avevo timore, nei sogni spesso mi appariva come il dio Tryglav, una divinità triplice, frutto della fusione di tre dèi e che per la mitologia slava governava il cielo, la terra e l’inferno. Un giorno incontrai il regista a piazza del Popolo e, ridendo e scherzando, fra pacche e abbracci, mi caricò in automobile e mi portò sul set. Era come se mi stesse aspettando, sinceramente felice di rivedermi. Pensai: in un modo o in un altro mi frega sempre. Precipitai in ciò che di meno accademico poteva essere un film sull’antica Roma, un film surreale degno dell’epoca di Nerone. «Affronterò l’orrore della mutazione di una intera società, attraverso l’incubo di una società post-sessantottina delirante ed estrema. Sarà in realtà un film sul ’68», mi anticipò. Canticchiava poro-po-poro come Mastroianni in 8½. Ma arrivati a Cinecittà mi abbandonò quasi subito al mio destino. Mi sembrò che in pochi giorni avesse già trovato la chiave espressionista al film. Ricordai, non so perché, la frase di Jean Renoir che sostiene che un regista rifà sempre lo stesso film, compie le stesse scelte e lo affascinano sempre le stesse situazioni. Invece fu quasi uno shock entrare al Teatro 2, e anche se il puzzo fumigante era infinito. Poco dopo venni invitata a un ricevimento che si teneva sotto il muro usato per girare la scena del monologo di Encolpio, affrescato dal pittore Antonio Scordia. Si iniziava a girare il Satyricon. Era il 9 novembre e le riprese sarebbero
durate fino a maggio inoltrato, con la scena della battaglia navale girata all’isola di Ponza. Incontrai subito Danilo Donati che abbracciandomi mi persuase a scriverne qualcosa e a tornare sul set. Danilo, oltre che un bravo pittore, era dotato di una straordinaria efficienza, acquisita dietro le quinte di Canzonissima. Infatti, Federico di lui diceva: «Come descriverlo? Si tratta di un grande conoscitore d’arte, incarnato in un trovarobe del varietà». A proposito del Satyricon devo citare un grande pittore surrealista che aveva collaborato agli effetti speciali di un meraviglioso film come Scarpette rosse, del 1948, per la regia di Michael Powell e sceneggiatura e produzione di Emeric Pressburger. Film che rividi almeno sette volte. Si tratta di Jòzef Natanson, a cui si devono non pochi sfondi di questo film, ma anche il cielo di Toby Dammit. Natanson collaborò con numerosi registi italiani, ma era molto schivo, lavorò sempre nell’ombra e non cercò mai di farsi pubblicità. Ricordavo sommariamente il romanzo di Petronio, sapevo che era una satira menippea, cioè un misto di prosa e versi, che ci era giunto molto frammentario e che alternava la parodia alla tragedia e alla farsa. «Ma cosa ti ha spinto a scegliere questo romanzo?» chiesi al regista. «Soprattutto l’idea che la polvere dei secoli avesse conservato i battiti di un cuore ormai spento! Mi ha fatto pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale dell’Appia Antica, o in generale a quella dei musei archeologici.» Cercavo disperatamente di non rimanere impigliata nel profluvio delle sue parole come dentro una ragnatela. Fellini invece ambiva a recuperare quel sogno rimosso e dimenticato: non un’epoca filologicamente ricostruibile, ma una galassia onirica affondata nel buio fra frammenti indecifrabili ed enigmatiche schegge fluttuanti. Fu un film più archetipico che
archeologico. Lui e Bernardino Zapponi praticamente riscrissero il Satyricon di Petronio traendo ispirazione da La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero di Jérôme Carcopino. La storia era ambigua e consentiva un’infinità di interpretazioni e offriva molti spunti sulla decadenza morale dei nostri tempi. Raccontava di due ragazzi scapestrati, due vitelloni dell’età imperiale: Encolpio, avventuroso esteta, e Gitone, il suo amato efebo di cui è follemente innamorato. Siccome Encolpio aveva oltraggiato Priapo, deve fare i conti con un amaro destino di impotenza e si trova a competere con l’arrogante Ascilto, infido amico e rivale. Sia Encolpio che Ascilto vivevano di espedienti nella Roma di Nerone. Entrambi innamorati di Gitone, si dividevano le sue grazie, fin quando Ascilto lo ruba all’amico e lo vende a un attore di scurrili pantomime, Vernacchio. Ma pur potendo tornare con il vecchio amante, Gitone preferisce vivere con Ascilto, così Encolpio, solo e disperato, si abbandona a diverse avventure nella malfamata Suburra, nell’Insula Felicles. Scampato a un terremoto, in una pinacoteca incontra il vecchio poeta Eumolpo, con cui si confida e che lo accompagna al banchetto del corrotto liberto Trimalcione, che ospitava nella sua dimora cene pantagrueliche e orge. Qui i convitati parlavano di tutto: della ricchezza del padrone di casa, dell’inopportunità dei bagni, dell’importanza dei riti funebri, del clima e dell’agricoltura, di religione e giochi pubblici e anche di disturbi intestinali. Fellini, trafelato, sembrava volesse raccontarmi tutto il film. «Il poeta Eumolpo sarà bastonato a morte, prima di venir sbattuto in strada, perché ubriaco ha offeso Trimalcione, mentre il padrone di casa si fa vanto di mostrare agli invitati la sua tomba e mette in scena il proprio macabro funerale. Encolpio incontra Eumolpo dolorante in aperta campagna, lo aiuta e si addormentano. Si risvegliano schiavi sulla nave di Lica, un tiranno di Taranto, al servizio dell’imperatore Nerone. Nella stiva ritrovano Ascilto e Gitone. Il sadico Lica, sedotto dalla bellezza di Encolpio, lo sposa, dopo averlo sfidato a
duello ed esserne uscito vincente. Ma viene ucciso da una sollevazione dei soldati. A questo punto Fellini fu reclamato da Donati. «Che vuoi, Danilaccio?» Il resto del film me lo raccontò Liliana Betti, sempre con la sigaretta in bocca e in maglione grigio, attenta a non farsi scoprire dal regista che aveva in odio il fumo. «Encolpio e Ascilto non si perdono d’animo e giungono in una villa di patrizi romani che si erano suicidati dopo aver liberato gli schiavi. Le loro avventure sembrano non finire mai, tra violenze carnali e combattimenti: trafugano un diobambino, un ermafrodito, poi lo abbandonano su una piana polverosa, dove accecato dal sole alla fine avvizzisce e muore. I due eroi giungono alfine in una città dove si celebravano le feste del dio Riso, ed Encolpio è costretto ad affrontare il Minotauro, un erculeo giovane mascherato da toro, dal quale verrà sconfitto. Il premio per Encolpio, nonostante abbia perso, è la prosperosa Arianna. E qui il protagonista scopre di essere impotente, vittima della vendetta di Priapo. Rivede però nuovamente il poeta Eumolpo, il quale è diventato ricco, tradendo la povertà tipica di un grande artista, e introduce Encolpio al Giardino delle Delizie. Ma invano. Per riacquistare la virilità, il giovane deve entrare nell’antro della maga Enotea e sottoporsi ai suoi riti magici.» «Si tratta di una ricognizione dell’antica Roma molto personale di Federico, no?» chiesi, cercando il quadernetto dei miei appunti. «Come sempre! Più che una Roma ricostruita filologicamente, riconoscerai i suoi interrogativi profondi, l’attrazione per il magico e l’onirico, i suoi incubi e terrori, sarà anche un modo per esorcizzare la sua paura della morte.» Dopo un’altra boccata, riprese a raccontare il film. «Al culmine della trama felliniana, Ascilto viene ferito a un fianco da un barelliere e muore; Encolpio ritrova su una spiaggia il cadavere di Eumolpo, che aveva promesso tutte le sue ricchezze a chi si fosse cibato del suo corpo, ma rifiuta di farlo
e di diventarne l’erede e perciò riparte su di una nave verso una nuova stordente avventura.» Toby Dammit aveva presagito il tramonto di un’ epoca, il malessere del ’68, del talento disfatto dalla droga, ebbene che morte sia, ma risalendo e narrando il disfacimento morale della società romana. Si erano allestiti per girarlo a Cinecittà, nei suoi grandi teatri di posa. Liliana mi confidò che Fellini stava scegliendo mostri, mostriciattoli e vere e proprie caricature viventi. «Ma tu chi interpreti?» chiese. «Ah, non mi ha detto più niente e sai quanto poco desideri fare l’attrice.» «Ma dopo quel provino glorioso!» «Mi piacerebbe almeno rivedermi.» Si stavano intanto costruendo ambienti spaziosi e onirici al tempo stesso, sorta di giganteschi hangar. Mi stupirono le installazioni e i proiettori. Si respiravano odori e atmosfere di una cucina di periferia, non mancavano voci e grida di bambini che si rincorrevano, scambiandosi come nei film di un tempo risate e segreti. Fellini stesso, a pranzo, parlò all’improvviso dell’infanzia e la paragonò a un acquario misterioso. «In fondo siamo molto simili agli antichi romani, anche se meno crudeli o forse no.» Scherzava? Io non ero più la ragazzina timida e impacciata di dieci anni prima, avrei voluto laurearmi e mi ero iscritta alla facoltà di sociologia. Scrivevo per «Paese Sera» ma facevo un po’ tutto con la mano sinistra.
39 La scelta di Petronio
Il Satyricon sostituiva il leggendario Mastorna, ostacolato dalla congiura terrestre dei virus e dall’altra, celeste e misteriosa, voluta dagli dei. Sia Poe che Petronio erano una sfida da cui il regista doveva uscire vivo o morto. Ne uscì vivo e recuperò quel fervore gioioso che temeva di aver perso, soprattutto grazie alla sua visionarietà, rintracciando incubi e sogni di una società archetipica. Aveva infilato nella trama anche quella impotenza creativa di cui aveva sofferto. Questo non significava che non fosse un film difficile. Ci si faceva un’altra domanda: sarebbe riuscito a portare alla superficie una storia così profonda e antica? «A volte mi risveglio bruscamente e mi dico: è come fare un film sulle farfalle, o meglio sulle trote! Ma sono quasi contento di tale eccessivo spaesamento», sospirava ironico ma non troppo, dicendo che un film sull’antica Roma aveva la stessa inattendibilità. I ruderi, l’Appia Antica, i Fori, non erano per lui riferimenti indiscutibili? Fellini negava, soprattutto non voleva mai sentir parlare di ricostruzione storica. La creazione per lui s’identificava in un atto d’invenzione completamente individuale e libera, un viaggio in un continente inesplorato. Aveva firmato il contratto con Grimaldi ancor prima di leggere il libro e forse si era risvegliato nel suo cuore non l’adolescente, bensì un’idea del 1940, nata con Marcello Marchesi nella redazione del «Marc’Aurelio», per cucire su misura uno spettacolo su Aldo Fabrizi. Ripescò in tal modo ironico Petronio.
Comunque sul perché avesse scelto questo film Fellini cambiò ben due versioni. Nei primi giorni parlava proprio dell’ironia di Petrolini che imitava Nerone. Mi stavo preparando: addio cadenze, temi e personaggi familiari! In lui a poco a poco, ma inesorabilmente, stava verificandosi un vero e proprio cambiamento. Federico si stava trasformando in un sacerdote imponente dagli occhi magnetici, sempre intento a celebrare un rito che sembrava svolgersi sui resti fumanti di una chiesa sconsacrata e barocca. Non sembrava neppure più muoversi con quel passo felpato da chierichetto che usava sempre all’inizio di ogni film. Era diventato allegro ed esuberante in maniera contagiosa. «Sei felice?» chiesi. «Sai che non sopporto la quotidianità, non ho interessi, non leggo. Non vado al cinema, odio i riti mondani, le cene, le feste e le gite ai santuari. Tu, piuttosto, che ci fai qui?» Aveva dimenticato di avermi invitato. Notai che sul set c’era più confusione che nei precedenti film, ma anche un clima più ruzzante. Il solerte Ettore Bevilacqua era una presenza iperprotettiva che, da quando un giornalista aveva definito Fellini «un faro che illumina la cinematografia italiana», gonfiava i baffi da mongolo e munendosi di cappotto, cappello del regista e thermos lo inseguiva dovunque chiamandolo proprio così: «Il Faro ha freddo? Il Faro ha fame? Il Faro ha sete? Non deve preoccuparsi». Per la prima volta si era conquistato un appartamento personale a Cinecittà e non stava più accampato in un ufficio. Adesso poteva invitarti a pranzo, circondandoti di infinite attenzioni, ti mesceva il vino, serviva gli spaghetti dalla zuppiera, ti macinava il pepe e ti spezzava il pane. Con tutti gli invitati presenti, soprattutto con le donne, creava un’intimità nuova. Si rivolgeva a loro sempre allusivo. «Tu emani un non so che di mistero, una sottile voluttà, ma anche una vera amicizia. E dovrei scegliere fra l’affondare in una turbinosa passione o magari avere accanto una dolcissima amicona?» La sventurata solitamente non sapeva cosa
rispondere e, ridendo e scherzando, confusa ma divertita evitava o cercava di suscitare ulteriori piacevoli agguati. Oppure: «Che sguardo e che sorriso ha questa donna! E che ne dite del vento che sembra avere nei capelli? Potresti essere la mia metà o è solo un sogno? Mi sento un vero e proprio adolescente». Non lo riconoscevo più, il Maestro si avventurava in terre sempre più lontane. Danilo Donati intanto pareva avere calmato non poche angosce. Meticoloso come quando preparava le grandi messinscene teatrali di Visconti, pareva anche molto eccitato, pur coltivando il serio dubbio che Federico l’avesse scelto più per i suoi spettacoli televisivi che per Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, o Romeo e Giulietta di Zeffirelli. Oltre ai costumi, Donati firmava anche le scene. Mi rapì il suo grande atelier dove stava lavorando alacremente, e mi mostrò che aveva cominciato a lavorare sulla garza di lana plissettata, bagnandola in colori vegetali estratti dai fiori e dalle radici secondo l’uso antico. Gli ambienti erano immensi, si sarebbe potuto veder apparire Nerone, Caravaggio o Flash Gordon indifferentemente. Un salice senza tronco stava a sottolineare la atemporalità della natura. Molti mosaici erano composti da caramelle colorate e la maggior parte degli oggetti era fatta di allume e decorata con conchiglie ma anche con veri e propri ceci e lenticchie verniciate. Interpretava sempre vogliosi desideri o sfotteva la segretaria di edizione Norma Giacchero che sembrava guadagnare sempre più potere, seduttiva con tutti ma quasi sempre un po’ indisponente con me. Sicuramente perché era gelosa del fatto che Federico, appena mi vedeva, mi veniva incontro e mi sollevava, ma soprattutto perché io avevo interpretato un ruolo che lei considerava suo, la segretaria di edizione in Blocknotes di un regista. A volte mi ronzava intorno come un’ape dispettosa.
Anche durante il Satyricon ci furono con lei incidenti spiacevoli che mi fecero seriamente pensare di abbandonare il set. Norma sembrava seguirmi ovunque, come una stalker.
40 Incrinature
I Fellini ci invitarono a cena a Fregene e Giulietta mi disse che Federico continuava sempre a pensare al Mastorna e che quel film le aveva rovinato la vita, anche la sua, poiché era per il marito una vera e propria ossessione. Se me l’aveva detto, evidentemente era vero e ne fui stupita. Al dolce, il Maestro improvvisamente m’abbrancò esclamando: «Fai vedere a tutti come balli bene, ripeti il provino». Lucia Alberti scosse la testa, spalancò i suoi meravigliosi occhi azzurri e arricciò la bocca, come a suggerirmi di non farlo. Anzi, per venirmi in aiuto aggiunse: «Non c’è n’è bisogno, sappiamo tutti che danza molto bene, ma adesso ha cominciato con molto impegno a scrivere sui quotidiani, lasciala tranquilla, Federico!» Non volevo ballare e mi rifiutai. Temevo che fosse una mossa cattiva per umiliare Giulietta che godeva di una ritrovata serenità. Mi sottrassi con la scusa della stanchezza. Dopo alcuni articoli culturali, avevo appena esordito con una rubrica che stava riscuotendo un discreto successo su «Paese Sera» e si chiamava A cena con… Già personaggi come Vittorio De Sica, Serge Reggiani, Francesco Rosi, Elio Petri, Gian Maria Volonté, Pamela Tiffin e Anita Ekberg mi avevano raccontato, tra una portata di linguine al salmone e una di melanzane alla parmigiana, sogni, speranze, dubbi e sconfitte. Riuscivo a intervistare due personaggi alla settimana. Oriana Fallaci aveva fatto scuola: anch’io, sebbene alle prime armi, ero ironica e cattiva, cosa allora non troppo usuale. Le prossime vittime sarebbero state Enrico Maria
Salerno e Florinda Bolkan. L’idea era nata con il direttore, uomo di grande intelligenza e umanità, Giorgio Cingoli. Avevo un numero infinito di personaggi da intervistare. Anzi, alcuni avevano cominciato a chiamarmi loro stessi come Helmut Berger. Ma non potei tenere a freno l’impeto di Federico che mi spinse letteralmente in mezzo alla sala imperioso. «Ti ordino di ballare.» Improvvisai una danza alla Martha Graham. Dopo pochi minuti si catapultò nell’agone Giulietta in uno sfrenato foxtrot, ripetendo «Sono più brava io, sono più brava io!» «Ma certo che sei più brava tu!» fecero in coro gli Alberti. Mi sedetti furibonda. Lo odiai. Era riuscito a farmi competere con Giulietta, l’ultima persona al mondo con cui desideravo mettermi in gara, esibendo la mia sfacciata gioventù, perché? Dopo poco infatti Giulietta avvicinandosi con il fiatone mi domandò sospettosa: «Ma vuoi anche fare l’attrice?» «No, Giulietta non ho mai voluto, sto scrivendo per “Paese Sera”. Anzi, mi darai un’intervista?» Ma la frittata ormai era fatta. Giorni dopo, Lucia Alberti mi telefonò dicendo che il regista era davvero più sadico di quanto avesse immaginato. Federico accendeva i fari sopra di me perché probabilmente aveva qualche grave storia da farsi perdonare, o da nascondere, forse quella con Sandra Milo? Quella fu l’ultima volta che fummo invitate in casa Fellini a Fregene. Alcuni anni dopo, a casa di Peppino Patroni Griffi, rividi Giulietta che mi abbracciò teneramente, anzi cercò quasi di instaurare una complicità con me per difendersi dalla presenza della bella e provocante Francesca Dellera. «Ma tu non ti vestivi mai così sconciamente! Eri sempre elegantissima, cara.»
Mi sembrò quasi che con queste parole volesse chiederemi scusa dei sospetti di un tempo. Non so dire quanto ne fui felice. Ero sempre stata diffidente verso una certa crudeltà che albergava in Fellini, non certo nei confronti del suo genio. Da cosa nasceva? O l’aveva fatto per ferire Giulietta e Salvato Cappelli? Insomma a quel punto ero sempre più indecisa se continuare a seguire il Satyricon, che subì una serie di interruzioni, tanto che ci si chiedeva se non sarebbe diventato un altro Mastorna. Per fortuna Grimaldi con grande fermezza, in un incontro al Plaza, tenne il punto sul Satyricon, impedendo una nuova retromarcia del regista verso il Mastorna. Chiamai Gustavo Rol, che era sempre semplice e sintetico. «Federico non ha nessun modello da copiare. Deve solo captare le voci di una civiltà divorata dal fluire del tempo. Non ha nessuna nostalgia, ma è capace di farsele venire, penso che sarà un film imprevedibile, il più imprevedibile e realistico fra i suoi. Gli farò ascoltare la musica di quel tempo.» Ebbene potrà sembrare incredibile, ma il sensitivo aveva la capacità di farti navigare attraverso il tempo, forse per lui era facile fargli attraversare l’antica Roma. «Rol, devo chiederle un consiglio, posso?» «Certo, chieda pure Marina.» «Lei continuerebbe a seguire il Satyricon a costo di un’impalpabile sofferenza psichica? Il regista ha intorno anche persone gelose.» «Lei soffrirà di sicuro, ma proprio per questo oserei, non si cresce senza dolore. Un consiglio: scriva in terza persona, mai in prima, come se fosse una narrazione oggettiva di un’epoca del passato. Diventerà una giornalista in pianta stabile tardi, forse quando ne avrà già perso ogni speranza, ma questa sarà la prima pietra della costruzione della sua professione.» «Grazie di tutto, lo farò.»
Un giorno Fellini mi chiese di fare compagnia alla figlia di Anna, Patrizia, che sarebbe venuta a trovarlo sul set di lì a poco. Ne fui sorpresa, e pensai che il rapporto tra i due fosse migliorato, che fosse diventato più disteso. Arrivò e, trovandosi per la prima volta su un set pieno di sorprese, era emozionata, e più curiosa e disponibile. Il regista voleva migliorare i suoi rapporti con lei, ma parlandole non riuscii a capire se continuava a provare astio nei confronti di un uomo che aveva così generosamente provveduto alla sua infanzia e ai suoi bisogni. Era stata senz’altro una bambina molto sola. Quel giorno Federico fu sul punto di raccontarle la verità della storia con Annina per ottenere da lei finalmente un po’ d’affetto. Norma non faceva che chiedermi chi fosse l’intrusa e io, che avevo avuto un copione da Fellini, lo rispettai tale e quale, naturalmente mentendo un po’. «È la figlia di un’amica di mamma.» «E perché è venuta qui?» «Frequenta il ginnasio e vuole scrivere un articolo per il giornalino dell’Assunzione sul film.» «Non credo ne sia capace!» fu l’acido commento. Norma ci scrutava entrambe con occhio attento, non convinta dalla mia versione. Per fortuna venne a darmi man forte Liliana Betti, che conosceva bene madre e figlia. E sapeva di quella segreta passione di Federico. Quel giorno sarebbe stata abbattuta un’insula romana che crollando avrebbe travolto una cinquantina di famiglie, un fatto reale che Tacito racconta negli Annali e a cui Petronio fa solo un breve cenno nel Satyricon. Naturalmente fu Luca Canali a spiegarmelo. L’allievo di Paratore e consulente per la sceneggiatura si trovava in una fase di grande serenità, che alternava ai tormenti della depressione.
«C’è qualche scena divertente?» mi domandò Patrizia. «Esploderà tutto, ma non c’è pericolo, ti divertirai», le anticipò Liliana. Le insulae erano edifici quadrangolari con cortili interni e porticati dai quali si accedeva alle varie case. All’improvviso ci trovammo in mezzo a urla e grida per il terremoto. Disintegrandosi l’edificio trascinò con sé tutto. Ciak! Motore! Azione! Zoom su di una comparsa imbavagliata dall’argilla, le mani come nei calchi di Pompei simili ad artigli. Patrizia si strinse a me e a Liliana, la rassicurammo. Anche lei si stava divertendo. I set di Fellini erano popolati da personaggi stravaganti, tecnici, ingegneri del suono, macchinisti dal forte accento romanesco e tanti curiosi. Quel giorno arrivò anche una contessa dal nome prestigioso, solo per incontrare e sedurre il Maestro. Il suo cognome, Viendalmare, oggi lo diremmo uscito da un libro di Paolo Villaggio. Due ragazzi in cappa rossa e pantaloni neri invece mi dissero di far parte di un gruppo mistico-religioso dal nome assai singolare, non l’avevo davvero mai sentito prima: La doccia di Gesù. Avrebbero voluto salvare Fellini dal fuoco dell’Inferno, che esisteva e anzi loro potevano anche mostragliene una mappa segreta. Devo dire che Fellini attirava come un magnete tutti gli schizzati del mondo. Ne risi ripensandoci. Lina Alberti, poetessa, attrice e pittrice si mise a girare in tondo, declamando una delle sue poesie. Con il Satyricon esordì finalmente Alvaro Vitali e fece un’apparizione anche un giovanissimo Renato Zero. Per Luca Canali non sarebbe stato un film pagano, ma religioso ed esistenziale insieme. Mi disse anche che buona parte del doppiaggio sarebbe stata in latino recitato da attori tedeschi o della Ciociaria. Lui stesso aveva tradotto molti dialoghi, che il regista avrebbe mixato in sottofondo. A sentire questo, mi chiedevo se Canali non mi prendesse un po’ in giro
con la complicità di Fellini. O se Federico non stesse prendendo in giro lui.
Un giorno mamma comparve sul set solo per discutere il suo ruolo con Fellini. Da parte del Maestro furono sempre abbracci e baci. E mentre stavamo parlando della nostra imminente partenza per Torino, Norma ci chiese un passaggio in automobile fino ad Arezzo. Mia madre era contrariata, si aspettava qualche richiesta inopportuna. Non ne avevo idea. Era impossibile dirle di no senza sembrare scortesi. E così accadde. Guidai fino all’uscita dell’A1 per Arezzo e, prima di lasciarci, Norma disse lasciandoci basìte: «Poiché si dice che ambasciator non porta pena, ti comunico che Federico, dopo averti avuto davanti mattina e sera per Block-notes, non ha più un ruolo adatto a te nel Satyricon.» Pensava sicuramente di farmi molto male, invece ne fui sollevata. «Pazienza! Ma perché non me lo dice direttamente e me lo fa dire da te?» Pensai di chiamarmi fuori da tutto solo per non dover più incontrare quotidianamente una donna tanto spiacevole. Mia madre invece reagì molto male e pronunciò parole terribili contro gli invidiosi. Dopo il weekend andammo insieme a Cinecittà. Doveva interpretare una matrona per la quale Pierino Tosi aveva disegnato una imponente e barocca parrucca d’oro. Andai soprattutto perché volevo sentirmi dire direttamente da Federico ciò che mi aveva così gentilmente anticipato Norma. A lui davano fastidio i chiarimenti, a me no. Andai subito nel suo ufficio. «Posso parlarti?» «Certo tesorino, accomodati.»
«Federico, perché non mi hai detto tu stesso che non c’era più un ruolo per me nel Satyricon e hai preferito me lo esponesse in modo così sgradevole Norma?» «Pensavo che il passaggio l’aveste offerto voi e non mi sono mai sognato di darle simile compito…» «No, si è invitata da sola. Ascoltami. Sono stata bene sul set con voi, davvero una splendida avventura anche Block-notes, ma non mi interessa fare l’attrice. Sei tu che me l’hai proposto, fin dai tempi di 8½. A questo punto, potrei anche lasciare di seguire il film per scriverne un diario.» «Ma che dici, bambocciona? Quali cazzate farfugli? Non ho dato alcun ordine a Norma. Non penserai mica di andartene?» Disse di tutto per trattenermi sul set e aggiunse: «Scriverai sul Satyricon, ti va bene? E Caterina interpreterà una crudele matrona, le do un ruolo importante.» «Sono felice per lei, ma perché parli sempre di noi come fossimo Bibì e Bibò? O due carabinieri che devono per forza girare sempre in coppia?» Lui parlò, parlò di tutto, tranne del perché mi avesse messo alle costole quell’infernale toscanaccia. Per viltà, pensai, non aveva il coraggio di dirmi in faccia che aveva fatto delle scelte diverse in quanto regista. A sentire Liliana, il fatto che la mia parte fosse sparita dal film aveva una spiegazione lontana. Giulietta aveva ricevuto lettere anonime che riguardavano una relazione tra me e Federico. Questa rivelazione mi sconvolse: chi poteva essere stato l’autore di una così inverosimile accusa? Una sola persona voleva annichilirmi: Norma! Liliana si pentì subito di avermelo raccontato. «Ma tutto ciò è folle, non sono nemmeno il suo tipo. Dovrebbe sapere da tempo che il marito non conosce le grandi passioni, forse si immagina una relazione passeggera con una tavola da stiro? Non ho seno, non vedi?» «Immaginerà una tresca, io te l’ho confidato solo per amicizia, Marina, non per farti del male.»
«Forse dovrei parlare con Giulietta e spiegarle che sono solo chiacchiere malevole.» «No, assolutamente, questa assurda storia si sgonfierà da sola.» Quasi volesse far perdere le tracce di un affetto a un nemico invisibile, lui smantellò una parte della sua bonarietà e del suo calore nei miei riguardi. All’improvviso mi mancarono la sua gioia, il suo entusiasmo coinvolgente. Conobbi l’illusorietà di un’amicizia che ritenevo profonda. Mia madre iniziò a girare due giorni dopo, il suo copione prevedeva dialoghi licenziosi e aveva qualche difficoltà a mandarli a memoria. Tutta fatica inutile, alla fine Federico avrebbe tagliato ogni sua scena in montaggio. Era molto arrabbiata per il suo modo approssimativo di fare. Non so se di questo si sia sfogata con Tosi, che era un amico di totale fiducia. Norma faticavo a perdonarla. Era una donna gelosa e per di più innamorata del Maestro, quindi era disposta a tutto pur di denigrare le altre donne che vedeva come temibili rivali. Comunque, quei teatri di posa mi apparvero talmente velati di irrealtà che non vedevo l’ora di trovare un lavoro fisso di giornalista. Mamma invece sorridendo disse a Federico che, se qualche altro pettegolezzo mi avesse infangato, avrebbe spaccato la faccia a Norma. Avevo bisogno di decifrare meglio la mia vita, e magari salire un’immaginaria scala di seta per scoprire un regno più civile, pacato e tranquillo e meno crudele di quello del cinema. Forse aveva ragione Soldati che la nostra città, Torino, era più vera e saggia di Roma. La cinica Roma, ma quanto ariosa. Scrissi proprio così a Federico e me ne andai. Sinceramente non mi mancava il Satyricon, preferivo pescare personaggi da intervistare per il mio giornale, «Paese
Sera». Spiegai a mia madre quanto per lei fosse importante invece girare un quarto film con il Maestro. Appena sparii dalla sua vista, Federico cominciò a bombardarmi di telefonate. «Tesorino, Marinotta che fai? Non torni più? Ti voglio qui sul set, come te lo devo dire? Mi porti fortuna! forse ho sbagliato, ma ho paura di perdermi, sai che non mi sono mai abbandonato alla passione e non ho mai conosciuto l’ebbrezza dell’amore!» «Federico, per favore, un po’ di dignità! Adesso addirittura accenni a un ipotetico amore per me…» «Dai cosa? Sai bene che l’incontro con una donna è per me sempre una rivelazione.» «La verità è che nessuno dei due costituisce per l’altro un approdo sicuro. Intendo di amicizia.» «Che dici, ti ho delusa o qualcosa è cominciato e poi si è perso?» Restò in silenzio un po’, poi aggiunse: «Diciamo che qualcosa è rimasto sospeso tra noi…» No, non era restato proprio niente di sospeso. Non volevo restare impigliata nella sua ragnatela, ma a quel punto mi stavo divertendo. Dove voleva andare a parare? «Ma non eravamo come padre e figlia?» «Lo preferisci? Un uomo ammaccato come sono io?» «Non avendo più un padre, decisamente sì!» Fece una risata e io tornai sul set. Avevo dimenticato che Federico soffriva di complessi di colpa. Iniziò comunque per me un periodo travagliato, non fu facile seguire quella lavorazione. Infatti, se la mia amicizia con Liliana Betti restò sempre al riparo da ogni macchia, la quotidianità con la segretaria di edizione divenne ancor più conflittuale e ostica. Liliana era impagabile, in silenzio lavorava tanto, trascriveva le tormentate sceneggiature del
Maestro. Norma continuava a rendere difficile la mia presenza sul set. Ricominciò la solfa della mia poca educazione. «Ma stamani sei sicura di aver salutato Normicchia?» Salutavo sempre tutti. Un’altra volta mi accusò di un’assurdità. «Perché hai gettato il cappotto di Norma per terra?» «Federico come puoi solo pensarlo? E perché avrei dovuto?» Ma lui, dopo un attimo, nemmeno ascoltava le risposte. Cominciai a chiedermi se lo facesse di proposito: fingeva di non capire la gelosia morbosa di Norma? Eppure era così visibile. E lei? Voleva solo sfiancarmi. «Che vita ingarbugliata ha Federico. Non immaginavo che nell’harem ci fosse anche questo verme che mi fa così tanti salamelecchi», commentò mamma. «Ricordi cosa diceva Piero, che si presenta sempre come un uomo libero ma che non lo è per nulla.» «A proposito ieri mi ha chiamato Giulietta, vuole parlarmi. Ha esordito così: “Scusa se non ti ho più chiamata, ma ho bisogno di te…” Vuole un consiglio, diciamo così estetico, vuole migliorare il suo aspetto, e farò di tutto per aiutarla. Non credo abbia minimamente creduto a quelle lettere anonime, se ci sono state.» Anzi, spedì a mamma un immenso mazzo di rose rosse. E mamma la mandò a Milano dalla più grande chirurga estetica di quegli anni, una berlinese, Annamaria Wangestein. Per qualche mese aveva anche operato nella clinica di papà, perché era la nipote di Rhode, un vero scultore di nasi. Alla Columbus di Milano ci volle andare anche la Paciocca. Nuovamente, moglie e amante avrebbero potuto scontrarsi, ma per fortuna non avvenne. Invece mamma, che finalmente aveva ripreso alla grande la sua carriera di attrice, era diventata un po’ più severa nei confronti di Federico. Sì, il Maestro aveva più di un penchant per la fedele segretaria di edizione, la disegnava spesso nel suo Libro dei sogni. E di certo la Viperetta, come la chiamava,
abitava il suo inconscio. Giulietta non sospettava nulla. Ero sicura che Fellini non stesse recitando per ingannare gli altri, mi chiedevo però se il bugiardo che era in lui non lo stesse autoingannando. O non lo stesse nuovamente portando fuori strada quell’Avversario che già si era messo di mezzo durante il Mastorna.
41 La cena di Trimalcione
L’ambiente in cui si svolge la cena di Trimalcione era stato fatto di un rosso pompeiano avvolgente che pareva divorare gli stessi commensali. Per interpretare il padrone di casa, fu scelto il grande ristoratore Mario Romagnoli, proprietario della famosa trattoria romana Il Moro, situata in vicolo delle Bollette, fra due luoghi significativi per l’universo felliniano, fontana di Trevi e la galleria Colonna. Il Maestro in realtà voleva Boris Karloff: le sue caricature finivano col rappresentare proprio la sua maschera, ma l’attore era troppo malridotto. Incassò poi un no da Bud Spencer, contrario alle scene di nudo, e inutilmente gli venne suggerito Aldo Fabrizi, era perfetto, ma forse troppo grasso. Fabrizi gliela giurò per l’eternità. Infine, Fellini aveva scelto Romagnoli, perché aveva entrambe le caratteristiche necessarie: essere romano e fisicamente rozzo. Ma non fu facile convincerlo. Stare sul set si rivelò una continua sofferenza per lui. «Mi moje soprattutto ha paura che mi corrompo col personaggio che è un tantino zozzo, ma Federico e daje e ridaje che mo’ so qui, invece de raccattà l’uva per il ristorante. E chi lo fa er vino adesso? Chi me lo fa?» La Cena di Trimalcione, fu tra le prime scene girate. Sebbene il regista avesse pensato di rimandarla, direi che quasi la sfuggisse per evitare ogni paragone con Petronio e soprattutto per smaltire le odiosissime immagini di ogni film americano sull’antica Roma. Fellini tolse dalla sceneggiatura il maestro di retorica Agamennone, perché troppi personaggi
ingarbugliavano la vicenda, già di per sé complessa. Voleva che a dominare fosse il solo Eumolpo, un poeta maledetto ante litteram, un morto di fame, ma provvisto di una sua dignità. Quando si ribella a Trimalcione e viene vilipeso, cacciato dalla cena e picchiato. Nella scena il locus primus è occupato dal padrone di casa, alle cui spalle troneggiava sul muro un suo mosaico fatto di caramelle. Seduta accanto a lui c’era la moglie Fortunata, la bravissima Magali Noël. Mai come qui si poteva contemplare così tanta ricchezza figurativa funebre e notturna. Trimalcione, vero anfitrione, amava contornarsi di amici servili, dare feste che terminavano in orge, farsi chiamare addirittura poeta o filosofo e le comparse presenti al banchetto, avevano i lugubri volti chiazzati d’argento. Fellini richiese al trucco, infatti, la fissità dei cadaveri tumefatti e «la trasparenza delle meduse». Un maiale fu portato in tavola e dal suo ventre venne fuori ogni sorta di cibo: trippa, datteri e formaggio bianco, l’aria diventò irrespirabile, l’odore dell’incenso si mescolò a quello delle pietanze. Finalmente un gobbo dalle mani di legno entrò in scena. E il Maestro, con una maschera sul volto, come uno sciamano petroniano, ordinò: «Pronti! Ciak! Azione! Dai Magalotta! Vai Moro! Uno, due, tre, dai conta Moro, che è l’ultima prova! Sei contento che è l’ultimo ciak?» Non andò così. La cena di Trimalcione, molto impegnativa, durò venti interminabili giorni. Romagnoli, accompagnato da moglie e figlia sul set, faticò a entrare nei tempi del cinema, si dimenticava le battute e, se le sostituiva con i numeri, il suo volto diventava ancora più truce e inespressivo. Solo quando chiese di poter recitare al posto dei numeri il suo celebre menù, ritrovò la sua identità e diede un’eccellente interpretazione. «C’avemo due cotolette scottadito e ’n’insalata verde co’ la rughetta. C’avemo ’na coda con la pajata che nemmeno mi nonno la cucinava così…»
In tal modo immaginava di essere ai fornelli del suo ristorante e quasi si rallegrava di respirare il profumo della sua cucina, invece di «respirà quest’aria immonda. Ma quanto posso campà ancora a fa’ sto buffone? Me lo dica lei che è giornalista…» La magia di Fellini. La musica si spezzava qua e là, indefinibile, senz’altro creata con molti apporti elettronici, poi mescolata con brani di folklore giapponese, afgano, tibetano, africano, tzigano. L’effetto generale era paradossalmente cacofonico, uno stridente abbraccio fra l’alto e il basso eppure al doppiaggio gli interpreti trionfarono per verità. Magali Noël, la moglie di Trimalcione, ballava con movenze un po’ afro e le avevano truccato un occhio che guardava verso il basso e un altro verso l’alto. Un viso squilibrato, e per questo seducente. Gli ospiti accompagnavano la sua danza battendo le mani, intorno ai tavoli erano sedute donne esageratamente voluttuose ma repulsive. Magali era originaria di Smirne e possedeva una sorta di dolcezza sensuale, insieme al talento. Aveva recitato con Duvivier, Renoir e Dassen in Rififi. Procace e disinvolta, era stata la prima a cantare, e meravigliosamente, la celeberrima canzone sado-masochista Fais moi mal Johnny di Boris Vian. Magali stessa ha una sorta di anomalia nella sua danza sfrenata e soprattutto ride sempre troppo ma per volontà del regista. Una risata attraversava tutto il film, sbavandolo, sconciandolo, incessante e volgare, quasi fosse un calco della morte. Riemergeva la terribile paura di Fellini, l’ombra che lo inseguiva film dopo film. Lei era un’attrice molto amata dal maestro, non è casuale che abbia partecipato a tre dei suoi film, ne La dolce vita era stata Fanny, la deliziosa ballerina di cui s’incapricciava il padre. Qui la moglie di Trimalcione che a un certo punto la offende e le grida: «Vecchiaccia!» E la imbratta col cibo che veniva offerto su un piatto faraonico. In seguito interpreterà l’indimenticabile Gradisca di Amarcord, figura emblematica
della femminilità romagnola. Era fra le attrici predilette da Fellini, soprattutto perché, a suo dire, «non scoccia». Norma sarà stata gelosa anche di lei? Per evitare ogni rischio di scadere nel banale, Fellini scartò l’idea di abbinare la cena di Trimalcione a torce, ciccioni grondanti sudore che addentavano cosciotti, negri nudi, grappoli d’uva piluccati instancabilmente, ventri rigonfi e danzatrici lascive. Nessun personaggio presente alla Cena era normale, erano tutti inquietanti e stralunati. E improbabili. Sono come osservati attraverso l’oblò di un’astronave, persi in mezzo ai maiali. Sì, predominavano i porci. Il risultato ottenuto da Fellini per la Cena era quello di un’infernale e ripugnante competizione gastronomica, di quelle che a volte si fanno in Romagna, con l’atmosfera greve di fumo, incenso e nauseabonde ombre sepolcrali. Ma tutto il film sarà foriero di atmosfere visionarie. Danilo Donati, il coreografo, vincitore di un Oscar con Giulietta e Romeo di Zeffirelli, ammetteva che «la linea dell’opera era difficilissima, tutta giocata sul filo del rasoio, un piccolo sbaglio e poteva venir fuori una farsa avvinazzata, un kolossal oppure Biancaneve e i sette nani» Nella Pinacoteca, ad esempio, le opere d’arte erano già pura rovina. La mondanità aveva sopraffatto l’arte, la gloria e l’onore di un grande impero. Per le scene del lupanare Donati sperimentò in ogni antro bagliori psichedelici diversi, a seconda della personalità delle donne e delle loro specialità erotiche. C’era la sadica con ferri roventi e fruste, la masochista dentro una nicchia che l’arrostiva, una martire contornata da candele, l’aggressiva che si calava dall’alto sostenuta da un sistema di cinture, un donnone enorme che sulle prime sembrava senza capezzoli, e invece il suo seno era contenuto dal suo ventre gigantesco. Ti lasciava senza parole. Una galleria di mostri, donne abnormi che abitavano forse gli
incubi di Federico, davanti a ciascun antro o camera erano affissi il nome della prostituta e il suo prezzo. Una rete fognaria si stendeva davanti stretta e lunga attraversata da un ponte. Il profumo dell’incenso anche qui si mescolava a maleodoranti afrori. Non so come Peppino Rotunno abbia saputo rendere sublime quel luogo così funebre. Era il direttore della fotografia e Maccari l’operatore. Peppino era uno dei più grandi operatori del cinema italiano, collaborò a molti film di Luchino Visconti. Con lui Fellini si era già trovato molto bene per Tre passi nel delirio. I colori dominanti del Satyricon erano il nero e il blu. Federico scoprì con lui quanto fosse difficile fotografare il buio e individuarne le prospettive. Non mancarono momenti di tensione e di confusione, come quando il Maestro chiese una spada e gli venne portata, incautamente, una vera e propria scimitarra. Stanco, esplose. «Massa di dilettanti vagabondi! Stasera non giro più, fatelo voi!» E scomparve. Appena ebbe lasciato il set, fonici ed elettricisti, si misero a contrattare. «Quanto scommetti che prende un caffè e torna?» Persero tutti la scommessa, chi cinquecento lire, chi mille. Solo Maurizio Mein disse che non sarebbe tornato e se ne andò anche lui, quasi più incazzato del Maestro. Fellini si era chiuso nel suo studio e piegato dalla stanchezza e dallo sconforto, scarabocchiava scene per l’indomani, deciso a scuotere l’ambiente. Non si risparmiò la solita invettiva contro il traffico. «Basta! Basta! Sono stufo… questa città è un inferno. Ogni mattina mi pare di attraversare Sodoma e Gomorra.» Il giorno seguente tutto tornò normale. Anzi, aveva anche voglia di spiegarmi che aveva amato questa storia fin dai tempi del liceo, dopo aver letto un’edizione non scolastica del
romanzo di Petronio, «con illustrazioni tanto più erotiche quanto irrimediabilmente ispirata a una casta bruttezza» Il ricordo si era tramutato a poco a poco in un’oscura tentazione. Così, quando l’aveva riletto, ci si era appassionato. I due aggettivi che il regista ripeteva più spesso erano emblematico e frammentario, ma anche tenerissimo. Faceva spesso delle escursioni in compagnia di Luca Canali e Bernardino Zapponi ai musei capitolini, ma tornava sempre poco contento. A un certo punto gli parve anche di scorgere fra gli antichi busti il musetto patito di una sua cuginetta di campagna, una certa Jole, sempre malata e dai capelli rossi, cui era stato molto legato. Ecco fu proprio come se l’avesse rivista in quell’antico busto di marmo dagli occhi vuoti, l’aveva superstiziosamente accarezzata sulla testa coperta dai capelli intrecciati, quando Luca Canali lo fermò e gli mostrò il cartiglio sotto la statua, era la crudelissima Solonina! «Questa donna era una specialista di stragi e crocifissioni, anzi il suo più grande godimento pare fosse quello di togliere con le sue mani il cuore alle vittime durante i sacrifici. «Ho smesso immediatamente di sfiorarla, ero allibito di quanto poco fossi stato sensitivo!» mi riferì. Come avrebbe potuto percepire meglio e più profondamente lo strato fisico che conteneva queste memorie sommerse da altri miti, da altre forme e storie millenarie? Le riprese cui assistevo sembravano ambientate in un paese lunare, immemore e sconosciuto. Fellini continuava infatti a ripetere: «La scelta delle facce per la prima volta mi rende balbettante, sbalestrato. La testa di Messalina vista nell’Olimpo capitolino ha le fattezze placide e pacioccone di una venditrice di uova. La scoperta del mondo pagano che acquisiamo a scuola è catastale, nomenclativa, abbietta. Direi anche razzista e scostante. Gli affreschi di Pompei e Ercolano mi lasciano del tutto indifferente». Ma aveva anche attimi di ripensamento. «Forse soltanto l’altra notte al Colosseo ho capito qualcosa davanti a questa orrenda e lunare catastrofe di pietra, questo
immenso teschio mangiato dal tempo e arenato in mezzo alla città… ebbene l’ho visto per un attimo come testimonianza della civiltà di un altro pianeta e mi ha comunicato un brivido di terrore e voluttà. Per la prima volta, mi sono sentito immerso nella lucidità convulsa dei sogni, dei presentimenti e della fantasia.» Si faceva aiutare dai suoni: prevaleva un sottofondo composto da ritmi elettronici, tra i quali era riconoscibile Milton Babbitt, un musicista di grande spessore intellettuale e di musicalità dodecafonica. Gli altri prescelti erano, al di là di Rota, Ilhan Eroglu, Tod Dockstader, Andrew Rudin. Degli effetti speciali si occupavano Joseph Natanson e Adriano Pischiutta. L’onnipresente Gideon Bachmann si trovava ora sul set del Satyricon per girare, a sua volta, il documentario Ciao, Federico! Gideon si considerava un amico di Federico. «Ma chi ha dato a questo rompicoglioni il permesso di venire qui e di fare le riprese sfinendomi?» Questo era uno dei suoi difetti, ti amava, ma poteva all’improvviso rifiutarti senza alcun motivo solo perché quel giorno era infastidito, come se gli avessi occupato il campo visivo senza il suo permesso. Intervistai molti attori uno a uno, la prima con cui strinsi in sala trucco e quasi per caso una sorta di conoscenza fu Lucia Bosé, che interpretava la matrona suicida. Mi disse che «nascere intelligente e bella per una donna era una vera iattura». Si era appena lasciata con Dominguin e, a parte l’aver avuto tre figli adorabili, tornando indietro non si sarebbe risposata! Sconsigliava il matrimonio. «Be’, invitare a pranzo Picasso non deve essere stato tanto noioso.» «Ma pensa ad avercelo per 365 giorni all’anno!»
«Povera Lucia, potevi sempre trovare rifugio in Chagall!» «Troppi chilometri ci separavano, io ero in Spagna e lui in Francia.» Insomma, in qualche modo aveva conosciuto un mondo straordinario e i più grandi artisti. Speravo solo che vedesse il matrimonio anche sotto una prospettiva diversa, ma era una donna troppo ferita. Salvo Randone, Martin Potter, Hiram Keller, e Max Born, che interpretava il furbo efebo Gitone, che in greco significa colui che ti sta sempre vicino, costituivano il cast maschile del film. Se si voleva trovare un’analogia con la realtà, sembravano un gruppetto di hippie, disponibili a ogni sorta di avventure. Rividi con gioia Martin Potter, che sembrava uno slavo dagli zigomi marcati, invece era un ragazzo bello e gentile di Notthingam. Sostituiva Terence Stamp, che aveva chiesto un cachet di 250 milioni di lire. Il regista gli preferì questo crociato, con la psiche da baronetto, come lo definì. Invece Hiram Keller, che nel film faceva Ascilto, aveva ventiquattro anni ed era provvisto di una bellezza aggressiva e sensuale. Nato in Georgia, era stato catapultato al successo in Italia dal musical Hair. Ora, anche lui sostituiva un altro che aveva chiesto un compenso esoso: Pierre Clementi. La prima libertà che Fellini si era preso era stata quella di spostare l’azione a Roma. Infatti, il racconto comico-satirico e licenzioso era inizialmente ambientato in una cittadina marittima della Magna Grecia, dove vivevano Ascilto ed Encolpio. Allo scenografo Luigi Scaccianoce l’arduo compito di rappresentare Crotone e Pozzuoli del 60 dopo Cristo. Lavorava in grande sintonia con Danilo Donati, ed era già l’aiuto di entrambi il futuro premio Oscar Dante Ferretti. Merito anche di Fellini che aveva il potere di semplificare i rapporti umani: da lucido osservatore qual era, convinceva chiunque, rassicurava gli insicuri, conteneva i narcisisti. Come al solito
faceva tutte le voci del film, la sua era un’inclinazione da saltimbanco, affascinante e incontenibile. Un giorno arrivò sul set con un caleidoscopio e me lo piazzò davanti agli occhi. «Guarda un po’, questa sembra l’antica Roma che sto cercando, nel senso che si scompone e si ricompone.» «Che vuoi veramente?» «Nulla, se non catturare di sorpresa gli antichi romani, fotografarli come esseri incomprensibili, riprenderli con la stessa libertà con cui si azzuffano, si sbranano, nascono, muoiono. Sai le belve nel folto della giungla, quando non sanno di essere spiate? Ma perché me lo chiedi?» «Be’, se devo scriverne…» «Me lo farai prima leggere, intendo prima di pubblicarlo?» «Non ti fidi proprio?» Per la seconda volta dopo Toby Dammit, Fellini scelse Randone, eccezionale interprete. Fronte rugosa, volto emaciato e segnato da una perenne smorfia di disprezzo, era perfetto per la parte, sembrava trascinare dentro di sé l’inquietante tormento dei tanti e indimenticabili personaggi pirandelliani che interpretava. Ma era di poca memoria. Frustrato per il fatto di non avere un copione, aveva scoperto proprio con Federico Fellini, all’epoca di Tre passi nel delirio, un nuovo e impegnativo destino di attore cinematografico: non quello di essere l’unico erede dell’arte di Zacconi e Ruggeri, bensì il vecchio interprete che non ricorda le battute lette di sfuggita sui fogliettini… un fogliettino dietro l’altro! ricordava un po’ malevolo. Così, durante la famosa Cena l’avevo sentito recitare i monologhi dell’Enrico IV e di Vestire gli ignudi, mentre Trimalcione elencava la bontà delle sue pajate. Quel set mi sembrò all’improvviso tutto puro teatro dell’assurdo alla Antonin Artaud. Randone però lasciò tutti senza fiato per l’immensa bravura. Recitò davvero una scena forte, straniante. Chiuso in camerino diventava un altro, fragilissimo ammetteva di poter sbarcare il
lunario solo con il cinema. Aveva una moglie malata, l’attrice Nelda Naldi. Mi inteneriva, lo servivo se gli capitava di avere sete.
42 La villa dei suicidi
La sala trucco era dominata da Pierino Tosi e Rino Carboni che sgualcivano i volti di tutti, dietro indicazione di un esigente Fellini. Le frasi del regista si alternavano preoccupanti, quasi una richiesta di mostrizzare le attrici. «Fammela verde, con false vene sul volto. Voglio una virgola all’inizio e poi zac, tutto dritto, da mima ubriaca! Questa invece deve essere tutta d’oro come una palla di Natale.» Fellini prendeva appunti e scriveva: Farne una favolona suggestiva e misteriosa. Un film di quadri fissi, immobili, senza carrellate o altri movimenti di macchina. Ogni particolare dilatato, assurdo, mostruoso, come nei sogni o negli incubi. Anche l’atmosfera sarà quella dei sogni. Molto buio, molta notte, molti ambienti poco illuminati. Oppure passaggi simili a limbi, immersi in un sole irreale, sbiadito e sognante. E poi corridoi, ambulacri, stanze, cortili… i vestiti tutti di tinte sporche, opache, che suggeriscano la polvere, la pietra, il fango… in senso figurativo contaminazione del pompeiano con lo psichedelico, dell’arte bizantina con quella pop, di Mondrian e Klee con l’arte barbarica… Mentre a me raccontava: «Potrei dire che la Roma della decadenza è molto simile al nostro mondo di oggi, con questa smania buia di godere la vita, la stessa violenza e la stessa vacanza dai principi, la stessa disperazione e fatuità. Gli eroi
del Satyricon, Encolpio e Ascilto, rassomigliano molto agli hippies, come loro ubbidiscono unicamente al proprio corpo, cercano una nuova dimensione nella droga, rifiutano i problemi.» «Federico, non è stato solo questo il ’68.» «E che altro è stato?» «Be’, aggiungi il rifiuto del padre, qualcosa che noi giovani pagheremo caro.» «Appunto, e secondo te cosa produce questo rifiuto se non il caos? Ma anche altri e più misteriosi sono i motivi di questo mio viaggio nell’antichità…» aggiungeva, cambiando velocemente discorso, non prestandomi attenzione che per pochi minuti, appena cercavi di approfondire mi diceva: «Devo immaginare di essere ingoiato dalle budella della terra e attraverso questo intestino raggiungere la parte originale, il magma, il cuore di questo mondo, dalle pietre simili a ossa, dalle radici simili a braccia: è l’alba caotica della coscienza». Ci voleva una grande energia per reggere quell’atmosfera incandescente e per trasformare il film in qualcosa di meno misterioso, mentre Fellini si limitava a spiegare il Satyricon come un incubo angosciante. «Episodi di vita e di morte, di stregoneria fusi nella nebbia e nel fumo, ma qualche cosa afferro: colori dilatati, odore d’incenso misto a quello di sacrifici animali. E poi il sole diventa fuoco, il fuoco energia e l’energia spirito. Ed ecco apparirmi fantasmi calcificati nel tempo. Una folla straniera, composta da lugubri vecchie, da streghe, da folletti, nani infernali, ninfomani sfiatate, ottusi giganti e maschere sonnamboliche, l’immenso delirio d’una primitiva creazione: i Romani.» Praticamente l’immenso materiale che stava usando il Maestro era stato decodificato e decorticato durante Blocknotes di un regista! Mi sembrò di aver già vissuto una parte di questo ulteriore parto felliniano. Compreso il gigante
Agostino, che m’inseguiva nel corridoio, ma chi erano questi uomini dall’aspetto di crostacei? In tutti i film di Fellini s’aggira un suicida, ne La dolce vita è Steiner, l’intellettuale apparentemente perfetto e spirituale, che non uccideva solo se stesso, ma sterminava l’intera sua famiglia, e rappresentava gli abissi di una società che si fingeva risolta ed era invece priva di ogni morale. Qui a simboleggiarlo era la villa dei suicidi, una delle poche isole tranquille su cui si ergeva la casa. La facciata aveva un portico leggero e un grande atrio luminoso decorato da pitture e caratterizzato dal vasto impluvio. Qui si svolgeva la scena di sesso tra i due ragazzi e la schiava, che avveniva dimenticando la presenza dei cadaveri dei padroni proprio al di fuori dalla porta. Solo dopo i bagliori del rogo funerario, il film tornava a essere cupo. Può parere strano ma questo episodio nacque da una suggestione vaga comunicata da Bernardino Zapponi al regista: «Facciamo una bella villa signorile, con dei bambini che giocano con l’aquilone, in un clima sereno, ottocentesco…» «E alla fine si ammazzano tutti», concluse il regista. In qualche modo Tullio Pinelli aveva lasciato il segno. Era stato cosceneggiatore de La dolce vita e gli aveva quasi inciso nel cuore, raccontandoglielo, il dolore provato per il suicidio di Cesare Pavese, suo ex compagno di scuola, che si era tolto la vita all’Hotel Roma, ingoiando barbiturici. Pinelli aveva la profonda convinzione che Cesare avesse un animo religioso, tormentato dal dubbio.Un mese prima di quel fatidico 26 agosto 1950, infatti, lui e la moglie, Maria Teresa Quilico, avevano ricevuto da lui uno struggente messaggio d’addio: Invidio la vostra cristiana testardaggine, vivete allegri e spero arrivederci, chissà magari in cielo. Io sento che invece Fellini aveva avvertito, dietro a tutto ciò, un misterioso bisogno di speranza e consolazione religiosa. Quello del Satyricon è il suicidio dolce e stoico di una coppia di patrizi caduti in disgrazia presso Nerone che prima di scomparire congedano i familiari e liberano i servi. La
scena, tutta di un bianco immacolato, la volle Scaccianoce, un uomo dal profilo aristocratico. La sposa suicida era interpretata da Lucia Bosè. E non era un caso, Federico aveva voluto un’attrice che fosse malinconica a causa della fine del suo matrimonio. Per Luca Canali quello era un chiaro omaggio al suicidio di Seneca e della moglie Paolina, e non poteva essere quello di Petronio per un evidente anacronismo. Una mattina mi chiamò Piero Gherardi. «Strano, sai che ti pensavo? Mi chiedevo se non fossi per caso discendente di un pittore straordinario, Antonio Gherardi.» «Magari, come potrei, è reatino. Un signore dei cieli barocchi, sospeso fra realismo e idealismo e quella moglie e modella bellissima, dipinta ne La Valnerina, Porzia Albertelli. Le sue sono Madonne singolari, incantano. Mi mancate, tu, mamma e Federico.» «Anche tu ci manchi molto. Vieni presto a cena da noi.» «Lo farò, non dubitare. Mi raccomando non prendere troppo sole, sei molto bella di un bianco cadaverico…» «Lo diventerò tra poco, sto seguendo il Satyricon.» «Oh poveretta, ti fa tribolare l’Orco?» «Da par suo, ma anche t’illumina d’immenso.» «Danilo è carino, vero?» «Molto!» «So che non ne può più.» «Per ora regge.» «Ma sbotterà prima o poi, Federico ti invade anche le budella.» «Si sta girando la scena degli sposi suicidi, devo lasciarti e correre a Cinecittà.»
«Baci, baci anche a Caterina.» Fu l’ultima volta che sentii la sua voce. Mia madre lo frequentò fino a quando, dopo una vacanza in Marocco, tornò con una grave infezione al piede, che degenerò in tetano. Chiese di rivedere Federico, mamma andò subito in corso Italia e lo supplicò di perdonarlo, ma fu tutto inutile. Intanto arrivarono Encolpio e Ascilto che sostarono perplessi di fronte alla citazione posta davanti ai ritratti degli antenati di Trimalcione: Sicut umbra dies nostri. Ascilto si coprì il volto con una maschera e declamò i versi di Archiloco. Maurizio Mein sembrava essere sul set di un western o dirigere un film di guerra, tanto stava impettito e con lo sguardo da sergente di ferro. Credo che nessuno come lui prendesse più sul serio il ruolo di aiuto-regista. Mi sembrò di vederlo travestito da antico romano fra le comparse. Fellini intanto mi fece notare un’altra analogia fra l’era pagana e quella attuale. «Allora come adesso, l’amicizia era un sentimento precario e contraddittorio, il tradimento facile. Le credenze religiose, sociali e politiche si erano inabissate, rimpiazzate da un eclettismo assai morbido.» Così erano l’amicizia e le passioni che univano i nostri tre amici che facilmente si separavano, privi di ogni solidarietà, pronti a riunirsi quando subentrava una nuova avventura. Encolpio, Ascilto e Gitone erano, in effetti, tre magnifici personaggi moderni, borghesi e provinciali e quasi beatniks. Li vedevi separarsi e riconciliarsi, lungo l’arco di tutto il Satyricon. Mi rendevo conto che stava girando una modernissima replica de La dolce vita, vent’anni dopo.
43 Dietro le quinte/3
L’attore Fanfulla si sedette accanto a me, stanco a morte. In due minuti, le maestranze montarono un teatro romano. Di lì a poco andava in scena una rievocazione del gesto di Muzio Scevola, dovevano tagliare un braccio a uno schiavo e mostrarlo al pubblico che applaudiva crudelmente. A Fanfulla, nel ruolo di Vernacchio, spettò l’arduo compito di ridicolizzare il povero schiavo monco. Era uno dei comici prediletti da Fellini dai tempi dell’avanspettacolo. Ma si scandalizzava facilmente. «Non mi va, proprio non mi va di dire così tante parolacce, perché darmi una parte così ingrata?» si sfogava con me. «E non le dica, dica i numeri, per Fellini è lo stesso!» L’atelier di Danilo Donati era un regno misterioso, lontano da tutto, dove a volte il costumista si chiudeva anche a chiave, per inventare, sognare e persino piangere. Quando invece lasciava la porta aperta poteva anche sbuffare o ripetere ironico, con la vocetta d’un bimbo viziato: «Ti prego, avvelenalo!» riferendosi a Fellini. Pareva un regno a metà tra una pasticceria e un’officina meccanica. Era davvero raro veder nascere fiori così avvolgenti, costumi così sensuali o verginali. Sul tavolo giacevano sparsi molti libri dai titoli singolari: Giardini giapponesi tipici, Maestri del disegno, I Persiani. Aveva ordinato a Fellini di guardarsi con tutto se stesso dal
paesaggismo romantico e di fuggire un astratto immaginismo, secondo lui, parlando dell’antica Roma, si era sempre tentati di ricostruire e imitare le antiche rovine. Martin Potter venne a chiamarmi perché vedessi girare la scena della ninfomane al Teatro 3. Non potevo perdermela. La ragazza stesa in quel macabro luogo sembrava un’anonima infermiera. Legata per mani e piedi a una catena cominciò a urlare come un’ossessa. Dei ventilatori nascosti presero a far turbinare neve quando Encolpio e Ascilto apparvero. Il marito della ninfomane permise solo all’ultimo di entrare nella stanza e di mettersi sopra di lei per soddisfarla. Zoom rapido sul volto della donna che da doloroso si pacificò durante l’amplesso. Un episodio del tutto inventato, come i rapporti sessuali di ogni genere, al fine di potenziare l’effetto scenico e simbolico. Tremila persone prendevano parte al film, i volti più significativi erano stati scelti da Fellini ai Mercati Generali e al Mattatoio. C’erano il macellaio Nino, il salumiere Antonio e il venditore di candele Adelao. Avrebbero potuto abitare nella Roma antica? Fellini ne era sicuro. Ed ecco il gigante Agostino avanzare verso noi, simile a un naviglio sballottato nella tempesta, con i suoi due metri e quarantacinque di altezza. Agostino era il soprannome donatogli dal regista, il suo vero nome era invece: Suleimen Ali Nashnush. Era una mia vecchia conoscenza dai tempi di Block-notes di un regista. «Come sta signorina?» mi chiese gentile, mentre aspettavo in mezzo alle comparse in attesa del loro turno e accarezzavo i meravigliosi pepli in garza, bagnati in colori naturali, estratti da fiori e radici. Poco dopo, Federico Fellini mi chiamò al Teatro 5 per ammirare Donyale Luna, la prima modella afroamericana, che
interpretava la maga Enotea, sacerdotessa del tempio di Priapo a Crotone. Ne era incantato. Era alta un metro e novanta, pesava cinquanta chili, non aveva seno, le ossa erano visibili sotto la pelle come in una radiografia. Figlia di una messicana e di un nero, sembrava il fantasma di un magico polpo marino o di un magnifico animale astrale. Le braccia e le gambe, simili a quelle di una statua di Giacometti, le mani grandi come tele di ragno, si muoveva avvolta da una trasparenza lunare. Misteriosa, quasi evasiva, aveva un’eleganza naturale, strana, singolare. Viveva una vita disordinata, dipendente dall’Lsd. Se la Saraghina era stata, in 8½, la rivelazione del sesso per l’eroe Marcello, qui Enotea sarà per Encolpio la rivelazione della sua virilità perduta. La storia di questa maga che viveva in un villaggio africano era appassionante. Un nano amava Enotea e, poiché lei non lo ricambiava, le aveva fatto un singolare maleficio, imprigionando il sole nel suo ventre. Così al villaggio africano la luce e il fuoco vennero a mancare. Il fuoco, nel suo senso più antico, era considerato il sole, lo splendore e l’amore. Enotea, o Oenothea, sarà condannata a diventare l’eterna donatrice del fuoco e l’iniziatrice primitiva di questo grande culto. Per ritrovare la propria virilità, Encolpio dovrà recarsi proprio da lei. In quella scena il cielo si tinse di grigio e viola, grazie a Jòzef Natanson. Chissà com’era quello vero, fuori dal teatro. Da giorni non lo vedevo, chiusa in una realtà magica. Il sibilo del vento sembrava incessante come la desolazione del paesaggio, tra spazi immensi e vuoti. L’aria puzzava di gasolio, di grasso, di vernice. Mi pareva di roteare all’interno di uno sputnik lanciato sulla luna, mi girava la testa, ma ero totalmente affascinata dall’esperienza, chiesi a Donati quanti ambienti fossero. «Ottantanove!» mi rispose. Capisco perché non ne poteva più e si asciugava il sudore della fronte. Per capire la tensione a cui era sottoposto si deve considerare che il talento di Fellini era il frutto di un ossessivo perfezionismo e di tanta pignoleria.
Nel frattempo, Donyale Luna si era abbandonata al personaggio, diventando a seconda del volere di Fellini, ora dolce, ora diabolica. Luca Canali mi fece notare che si poteva trovare quel personaggio sia in Ovidio che in Apuleio, nelle Metamorfosi e nell’Asino d’oro. Fellini si era lanciato verso lo sperimentalismo assoluto: scelse di non girare nessuna scena all’aria aperta, a parte quelle di mare, tutto come al solito fu ricostruito in studio. Fu un’altra magia del Maestro che, muto e in controluce, se ne stava immobile e pensieroso appoggiato a un riflettore. Sentì che lo stavo guardando e sorrideva, dentro di sé, per il mio imbarazzo nel cercare di metterlo a fuoco. Studiavo i cambiamenti del suo volto, che poteva diventare all’improvviso pensieroso o dolcissimo. Dopo un po’ mi venne vicino e mi abbracciò. «Tesorino, come posso dimenticarmi di te?» In realtà se ne dimenticava spesso. Nella sala di maquillage passavo molto tempo a osservare affascinata il cambiamento dei volti. Era il regno di Rino Carboni e Pierino Tosi, che modellavano i visi a seconda delle indicazioni del regista. Rino Carboni era un grande make-up artist, aveva studiato osteologia e myologia, cioè la struttura della faccia e i suoi muscoli, da Max Factor a Parigi. Lo vidi fare cose inaudite. Sapeva distinguere ogni piega del viso, poteva cambiare l’espressione di un attore, fino a costruirgli un volto nuovo. Generalmente gli strumenti di lavoro di un truccatore sono colori, spugnette, basi o sottofondi, pinzette… ebbene non per lui! Il laboratorio di Rino per il Satyricon era fornito di spatole, intonaco, cazzuole, colla, lime, martello, coltelli seghettati e seghette, attrezzi più adatti a un falegname che a un truccatore. Era l’addetto al trucco in innumerevoli film, aveva lavorato con i più grandi registi, tra cui gli spaghetti western di Sergio Leone.
Delle parrucche si occupava invece Silvano Rocchetti, la sua famiglia aveva servito la Casa Reale e il Teatro dell’Opera fin dalla fine dell’Ottocento. Per descrivere Piero Tosi basti ricordare che era il costumista di Luchino Visconti. Aveva creato abiti indimenticabili, aveva vestito tutto il cinema italiano. Era un artista esigente e meticoloso e Fellini sosteneva che nessuno sapesse disegnare i volti come lui. Anche lui era stato, come Danilo Donati, allievo di Ottone Rosai. Era capace di esplorare un volto, di studiarlo in pochi minuti, e di rivelarne l’identità, scoprendo come poteva aumentarne o diminuirne bellezza, fascino e mistero. Poche pennellate e faceva di te un quadro romantico o espressionista o naturalistico. Gli bastava un colpo d’occhio. Piero catalogava il taglio degli occhi, le curve delle sopracciglia, la discesa delle palpebre, le curve del naso, la sinuosità della bocca e delle guance risucchiate o cascanti, per non parlare degli zigomi sporgenti o piatti che fossero. Non era facile lavorare con Fellini, che pur di perseguire il suo progetto creativo con testardaggine, poteva diventare, molto pressante ed esigente: anche Piero, come Danilo, cercava di sottrarsi a lui ma in modo diverso, più sottile e sofisticato. Nelle pose del Satyricon mia madre, truccata da Tosi, era più bella, dorata e magica che mai. Avevo visto cambiarle il volto proprio attraverso questo metodo. Federico in montaggio tagliò la sua parte, la matrona crudele. Forse temette di violare la Signora Misteriosa di 8½ o la bellissima e altera madre di Giulietta degli spiriti. Però mi pare di risentirli, Fellini e Tosi, in sala maquillage: «Pierino, fammela più losca! Pierino, questa la voglio più bambinesca! Pierino, Ma come mai Piero sembra non ascoltarmi più, perché?»
Fellini si guardava allo specchio del trucco, tirava dentro la pancia, arroventava lo sguardo, ed esclamava sbuffando: «Sempre peggio! Pelato, gonfio, ingrossato, da 8½ in poi sono in caduta libera». «Nooo!» rispondevamo in coro tutti e il regista se ne andava su un’aria di Metastasio: Menzogne, solo menzogne. Sogni e favole io fingo; e pure in carte mentre favole, e sogni orno e disegno, in lor, folle che io son, prendo tal parte, che del mal che inventai piango, e mi sdegno. E concludeva: «E io che avrei voluto essere bello come Febo Mari!» Un giorno mi spalancò all’improvviso i palmi delle mani sotto il naso: «Sai leggerle?» «No, purtroppo!» «Gravissima lacuna, vedi di provvedere, potresti guadagnare il doppio sommando a cartomanzia, chirologia.» «Ma le carte le leggo gratis, altrimenti perderei ogni potere.» «Dolce amica, dolce e antica amica», mi sussurrò. Cercava di riguadagnare terreno, era tornato affettuoso. Venne Alberto Moravia sul set. Insofferente aspettava che finisse di girare una scena, ma diceva che Fellini gli sfuggiva. Qualche giorno prima, durante un’intervista, non gli aveva dato le risposte che aveva promesso. Gli spiegai di non meravigliarsi, il Maestro quando stava per uscire un film era sempre vago e si circondava ulteriormente di mistero. Difficile trovare due personalità così differenti l’una dall’altra e che sembravano andare invece molto d’accordo. Moravia era razionale quanto Fellini fantastico, ma entrambi estremamente impazienti. Eppure fra loro regnava una grande armonia. Lo scrittore era afflitto da un perenne dolore alla gamba e dalla sordità. Mi confessò che lavorava tutta la mattina di buonumore e alacremente, ma il pomeriggio non sapeva che fare. Mi andava di accompagnarlo talvolta al cinema? Aggiunse di aver scoperto da poco che i rapporti che si
stabilivano su di un set cinematografico erano simili a quelli che si creavano in una chiesa. Mi parlò della sua infanzia dolorosa. Forse proprio questo divideva i due personaggi: quella di Fellini era stata, malgrado la severità di Ida, più serena, il regista non aveva conosciuto né il dolore né la sofferenza. Moravia, invece, per ragioni di salute, non aveva completato gli studi: a nove anni era stato colpito da una tubercolosi ossea che l’aveva costretto a letto per cinque anni, tre trascorsi a casa e due presso il sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo. Una volta finita la sua intensa mattinata di lavoro, energico e infaticabile, lo scrittore sembrava volere regredire, ritornare un bambino buffo e vulnerabile, quasi rincorrendo una sognante e felice adolescenza ormai perduta. E allora si mostrava sveglio, allegro, avido e affamato di donne. Ma i pensieri cupi lo visitavano anche nei momenti di maggior successo, quando con un suo romanzo riusciva ad abbracciare tutti i sentimenti di quel mondo contemporaneo alienato e in dissoluzione. Volentieri si sarebbe sparato un colpo al cuore, ma rimandava il gesto estremo leggendo magari Neve di primavera o La danzatrice di Izu. Eppure quella sua infanzia invissuta, così poco dikensiana, prima o poi arrivava sempre a ribussare alla memoria, quell’età così ricca e privilegiata, la madre, le modiste, le sarte, il padre ingegnere, la palazzina ai Parioli, il bel fratello morto in combattimento a Tobruk, le sorelle pittrici oppure mogli di ambasciatori: fluiva come un vorticoso fiume il suo romanzo familiare, ma non poteva cancellare quella nube raggrumata, di noia e dolore. Lui immobilizzato dal gesso, pietrificato nella neve. In tal modo erano nati Gli indifferenti, Agostino e Inverno di malato: tre assoluti capolavori. Così Federico Fellini spiegava Moravia. In amore non c’era dubbio che fosse ostacolato, frustrato, ferito e poco fortunato. Forse viveva nel costante timore di essere respinto, sempre secondo quello che pensava il regista, ma possedeva infinite risorse mentali e un’acuta intelligenza.
Mi svegliai di soprassalto quel mattino, erano già le dieci. Raggiunsi il set, immerso nel caldo, nella luce e nel silenzio anche se all’aperto si stavano addensando delle nuvole viola che non facevano presagire nulla di buono. Avevo come un buco nello stomaco. Fellini doveva concentrarsi, mantenersi lucido. Ma la scena – mi aveva detto il giorno prima – ce l’aveva tutta in testa, era solo un po’ ossessionato dalle musiche: simili a quella della sua umanità irraggiungibile, magari uno zufoletto di canna, pensoso, e rotto. Suoni sgangherati. Il vecchio tempio di Cerere. Un grande tempio abbandonato e in rovina si ergeva sulla sommità della montagna. Era interamente ricoperto di edera, circondato d’ortica ed erbacce. In un angolo il pavimento aveva ceduto, la testa di una statua a terra, da un lato, estraneo al resto del mondo, giaceva l’Ermafrodito, metà uomo e metà donna, lo si riteneva un semidio. Per questo era disteso in una mangiatoia e circondato da una folla di storpi attendeva un miracolo. Al suo fianco c’erano un vecchio e un contadino. Il primo sollevò il semidio affinché tutti ne vedessero il duplice sesso. Mi apparve come un esserino gracile, il volto attraversato da rughe, gli occhi vuoti come quelli delle statue. Gemeva. Gore Vidal era convinto che Fellini gli avesse copiato l’idea dell’ermafrodito ispirandosi al suo romanzo Il giudizio di Paride. A interpretare questo ruolo era un bambino che si chiamava Pasquale Baldassarre, veniva da Napoli, era albino. Senza protestare, si era fatto mettere dei falsi seni, poi per raggiungere i teatri di posa camminava quasi a tentoni per proteggersi dalla luce. Nino Rota che, sempre più raramente appariva sul set, disse: «Ogni film di Federico ha un suo odore o profumo particolare, qual è in questo caso secondo te, Marina?» Meraviglioso Rota! Non seppi rispondergli, era forse l’incenso o la carne bruciata?
«Federico lavora su materiali dimenticati… direi… ma posso sbagliarmi, sulle pietre e sui marmi.» «Ma anche le pietre e i marmi hanno suoni che a noi appaiono inaccessibili. Sono quasi sicuro che nessuna pietra è silenzio, ma per questo film ci vorrebbero i suoni del Nú giapponese.» Dopo un po’ arrivò Federico ad abbracciarlo. Il suo affetto per Rota non perdeva mai d’intensità. Tutti gli altri potevano scendere o salire nelle sue preferenze, Rota mai. Quasi lo ritenesse una persona di famiglia. Andai a prendere un caffè al bar e notai che il verde tenero dell’erba brillava nella luce del sole. Che strana città era Roma! Solo poche ore prima avrei detto che sarebbe sceso un nubifragio ed ecco che ogni cosa aveva ritrovato nel giro di poche ore i suoi meravigliosi colori smaltati. Roma assomigliava molto a Fellini e, mentre lo pensavo, il regista a sorpresa mi abbranchiò per le spalle. «Che giornata stupenda, non trovi?» «Stavo proprio pensando a questo, stamani sembrava che sarebbe piovuto, invece…» «Dove stai fuggendo, demonietto?» «Sono stata a prendere un caffè.» «Devi tornare con me sul set, stanno per arrivare due ospiti illustri e mi devi aiutare a tradurre il loro inglese.» «Certo! Ma conosci il mio zoppicante inglese.» «Non fa parte dei tuoi compiti.» «Lo so, ma mi hai fatto guardare moltissime cose della vita in modo diverso.» «Mi spiegherai poi quali. Sarei così buono e generoso?» Abbassò lo sguardo su di me con un dolce sorriso. Ero commossa della normalità che mi stava regalando, circondato com’era sempre da strambi apostoli e parassiti.
«Dimmi, Moravia si è innamorato di te sul colpo?» «Non penso proprio.» Da lì a poco arrivarono Roman Polanski con la bellissima Sharon Tate e l’attenzione di tutti si spostò su di loro. Ecco una coppia cool, nomade e di talento, pensai. Ero lontana anni luce dall’immaginare il dramma che da lì a poco avrebbe divorato entrambi e distrutto la vita di una donna tanto bella e fatata. Fellini mi presentò come il suo folletto beneaugurante, io fissavo ebete la bellezza della Tate che però non sconvolgeva il Maestro e, quando le procurai una bottiglietta d’acqua, la sentii discorrere svagata del suo futuro. Era incinta e sorridente, felice, aggiunse che credeva fermamente nel destino. «Lei ci crede?» domandai a Roman. «Sì, pensando alla mia terribile infanzia, ebbene sono vivo per caso, i miei genitori sono stati internati in un campo di concentramento e mio padre mi mise in salvo presso una famiglia di contadini cattolici. Sono stato cattolico fino ai sedici anni.» «Ehi Roman, perché adesso non lo sei più?» gli chiese Fellini. E rivolto a me, come per essere sicuro: «Ha detto questo, no?» «Sì, dovresti convertirlo.» «Polanski don’t lose God! Perché è una buona culla, una culla calda, ripensaci. Me lo prometti?» Lo guardò come se non avesse capito bene cosa gli aveva detto Fellini. «Catholicism it’s a warm cradle», ripeté. Tradussi alla meglio. Non so perché ritenni i due personaggi troppo libertari per quegli anni folli, in cui tutte le convenzioni venivano contestate. Temo che il geniale regista polacco non abbia avuto il tempo di ripensare alle parole di Fellini: dopo
appena qualche mese, a Benedict Canyon Charles Manson inviò quattro bestie a sventrare la sua bellissima Sharon e gli altri amici che cenavano a Bel Air. Sharon fu sepolta con il suo bambino. Fu forse per questo motivo che, quando tre anni dopo dissi al Maestro che sarei andata nella Città delle stelle a trascorrervi un periodo, anche per migliorare il mio accento, mi guardò come se stessi dando i numeri. Aveva sempre odiato quella città tanto quanto Truffaut l’amava. In realtà a parte i sogni infranti della campagna proMcGovern e la vittoria di Nixon, non mi successe nulla di male. Eppure non solo Los Angeles, ma l’America tutta era allora considerata pericolosa, vi circolavano e vi circolano ancora infatti molti pazzi alla Manson. Il Satyricon, sia quello di Petronio che quello di Fellini, è un’opera in perenne movimento e trasformazione, che segue il vagabondare labirintico dei tre protagonisti, Encolpio, Ascilto ed Eumolpo. Tra l’altro, come Odisseo era perseguitato da Poseidone, anche Encolpio è tormentato da Priapo, forse per la sua tendenza a rubare. Luca Canali stimava che fossero andati perduti almeno venti o venticinque libri del romanzo di Petronio. Da parte sua, Fellini non seguì sempre la trama. Durante la scena della cena di Trimalcione si assisteva anche a un’orgia di alcuni invitati con i loro amanti, gli amasi. Ma poiché Fellini, montando il film, venne preso da una sorta di disgusto guardandola, pregò Ruggero Mastroianni di tagliarne una parte. Ecco un episodio che Fellini cambierà completamente: nel romanzo, è il vecchio Eumolpo a raccontare la storia della matrona di Efeso. Nel film il compito è affidato a Genius, il veggente, nei panni di un liberto arricchito, che narra questa licenziosa vicenda alla cena di Trimalcione.
Il giorno delle riprese arriva Bernardino Zapponi: si divertiva molto a veder recitare il veggente e i visitatori che si presentavano magari con un serto in testa o una corona d’alloro. Per me fu un momento un po’ penoso: avrei dovuto interpretare la Matrona, ma ancor oggi ignoro perché mi fu sottratto quel ruolo. È divertente però che nell’elenco degli interpreti, appaia ancora il mio nome, seppure con il cognome di mia madre. Avrei recitato, nei panni dell’ipocrita e lussuriosa moglie, una storia al tempo stesso licenziosa e commovente di come una matrona romana affrontava la vedovanza secondo Petronio. Dal racconto di Genius fummo trasportati all’interno di una tomba, dove la donna vegliava il marito morto senza riuscire a smettere di piangere e lamentarsi – Fellini aveva scelto Antonia Pietrosi per la parte della vedova, possedeva un viso antico, sensuale e disperato. Anch’io la trovai bellissima. Ammirata da tutti per la sua virtù di vedova, nonostante i vari tentativi di dissuaderla, la matrona resta mattina e sera davanti al sepolcro del marito a piangere. Piange così disperatamente da diventare un modello di amore coniugale. Ma un soldato che è di guardia a un sepolcro là vicino, riesce a farla bere e la convince a interrompere il digiuno. Alla fine la seduce e i due si chiudono insieme nel sepolcro. Vista l’assenza del soldato, i parenti trafugano il cadavere di uno dei ladri a cui lui doveva fare la guardia. Quando se ne accorge, il soldato medita il suicidio, terrorizzato dalla tremenda punizione che lo aspetta, ma la matrona gli consiglia di appendere sulla croce vuota proprio il cadavere del marito. Simbologia perfetta per descrivere un mondo privo di sentimenti. Truccatissimo, una folata di viola il volto, una ghirlanda di fiori in testa, quello fu il trionfo di Genius. Bernardino in una pausa mi raccontò che era stato un informatore della milizia durante il fascismo. Ecco perché ne avevo un sotterraneo rifiuto.
Fellini si stava cucendo addosso il film perfetto per esprimere la sua duplicità: laico e cattolico, artistico e licenzioso, tanto da volersi disfare al più presto di questo materiale incandescente. Non mi faceva più confidenze e nemmeno io a lui. Sognava di fare un film saggio sui clown, su Roma e Rimini. E pensava anche al Papa, mi disse Liliana. Per fortuna ero un po’ sfuggita al suo raggio di interesse, non voleva vedermi troppo di frequente né mi telefonava più dieci volte al giorno come prima, riempiendomi di attenzioni e complimenti e guai poi quando aveva cominciato a presentarmi entusiasta ad amici e amiche. La donna rimarrà fino alla fine un pianeta affascinante e sconosciuto su cui non smetteva di proiettare sogni, incertezze, affascinato da un tipo di femminilità gioiosa, rassicurante, accogliente. Continuava a insistere col dire che Genius possedeva doti di veggenza straordinarie, e che io non le avevo pienamente afferrate, invece lui l’aveva portato sulla Cassia, una notte di plenilunio, e qui il veggente era caduto in trance, scoprendo la coppia di suicidi che Fellini aveva poi inserito nel film. «Mi ha regalato una storia straordinaria.» Non si ricordava nemmeno che fosse successo durante Block-notes di un regista. Faceva freddo e c’era molta umidità a Cinecittà, ma dovevo avere un po’ di pazienza, il Satyricon volgeva alla fine e anche il mio compito di raccontarlo. Focene, a trenta chilometri da Roma. Affrontai un viaggio per ritrovare quella troupe singolare sulla spiaggia, incamminarmi per strade e sentieri fin quando, alla fine, intravidi sul mare la prua della nave di Lica, la prua appare arenata nella sabbia, si era alle ultime scene del film. Alla fine del favolone suggestivo, come lo chiamava Fellini. Mi pareva che nessun altro film potesse rappresentare come il
Satyricon l’irrazionalità della vita, la sua malinconia e il prorompere della sensualità più sfrenata. Lica era l’effeminato e licenzioso proprietario della nave sulla quale si svolgevano le orge più licenziose: amava giocare con i giovani fanciulli e, se li vinceva, li uccideva in modo crudele, se invece perdeva faceva con loro l’amore. La compagna delle sue turpitudini era Trifena, interpretata dall’attrice Capucine, ancora bellissima con un volto lunare, ma molto insicura. Spesso chiedeva a Liliana Betti di aiutarla a capire certi risvolti del personaggio, e per la benché minima espressione si rivolgeva a Fellini. Si lamentava di essere stata truccata per essere una creatura infernale e lei non si sentiva così, accanto alla bocca le avevano costruito una cicatrice. Si diceva che la Betti si fosse innamorata di lei, cosa che infastidì Fellini, che in fondo era un moralista. Ma lui per vendicarsi aspettò qualche anno, attese cioè di avere intorno una girandola di donne e segretarie, quando girò La città delle donne e allora la allontanò da sé. Le donne alimentavano i suoi fantasmi e nutrivano il suo narcisismo. Capucine invece la rincontrai a Losanna nel 1984, era ancora elegantissima ma triste, come se un tornado avesse travolto il suo cuore. Mi disse che viveva con tre gatti e che, dopo William Holden, aveva ancora avuto un grande amore con un industriale svizzero da poco scomparso. Tutto mi parve, tranne una lesbienne. Si notava però quanto fosse upper class, sola e disperata e nel 1990, con un’incredibile dose di sangue freddo, si gettò giù dall’ottavo piano di casa sua. Ma, al tempo del Satyricon, Liliana sempre affogata nei suoi maglioncioni e con la cicca in bocca, seduta sulla prua della nave, era capace di stare a contemplarla affascinata per ore, interrogandosi su chi fosse quella donna splendida. Lica era interpretato invece dallo straordinario Alain Cuny, che accentuava il carattere depravato del personaggio. Per renderlo ancora più inquietante, Fellini gli aveva messo un occhio di vetro, comunque aveva un occhio diverso dall’altro, un viso assurdo, dissociato. Era un uomo interessante e
sosteneva che era stata la sua orfananza a renderlo attore, nutriva questa stramba, ma per nulla stupida idea, che tutti gli attori fossero fondamentalmente degli orfani in cerca di un padre. Mi affascinava ascoltarlo parlare, non a caso era stato allievo di Lacan. Alain dopo aver studiato Belle Arti con successo, si era tuffato nel teatro, regalandoci una lunga serie di interpretazioni magistrali. Come pittore e decoratore, penso che Cuny fosse diventato abbastanza bravo, prima che il palcoscenico lo distraesse dal disegno e in seguito il cinema lo rubasse alla pittura. Un giorno arrivò in visita Brunello Rondi e la sua presenza mi confortò moltissimo. Mi sembrò di essere ritornata all’improvviso e di nuovo, ai tempi magici di 8½. Mi spiegò che non solo aveva trascorso la vita sui set di Fellini, eccezion fatta per gli ultimi suoi tre film, Block-notes di un regista, Tre passi nel delirio, e Il Satyricon, ma che, quando a Federico veniva in mente un progetto giusto per entrambi, doveva accompagnarlo verso il mare e lì restare insieme a lui per due o tre notti, vicino a una spiaggia o a una pineta, e lasciare che lui, spenti i fari, incominciasse a spiegargli il film che aveva in mente. Questo era una sorta di rito propiziatorio fra loro. Poi Fellini gli consegnava un canovaccio. Rondi ci pensava su e dopo un po’ gli ridava i dialoghi che gli tornavano indietro puntualmente cambiati e stravolti… «Farete presto qualcosa insieme?» «Purtroppo no, lui adesso ha questa cotta per Bernardino Zapponi. Quando farà un film sulle donne, ha detto che mi richiamerà.» Lo abbracciai, sentendo dentro di me una strana sensazione, come se quella fosse l’ultima volta che lo vedevo. Non era così, riuscì ancora a lasciare la sua graffiante impronta nel geniale Prova d’orchestra e ne La città delle donne, in cui la costumista sarà la somma Gabriella Pescucci.
44 Love Duet
Il 25 gennaio, in una splendida giornata di sole, mi sembrò di sognare. Era un’apparizione o sul set circolava il leggendario Ingmar Bergman? Il 15 gennaio, lui e Federico si erano incontrati all’hotel Excelsior dove, nel corso di una conferenza stampa, i due, spinti dal produttore Martin Poll (subito ribattezzato da Federico Martino Pollo), sperticandosi in complimenti uno nei confronti dell’altro, avevano dichiarato di voler girare un film insieme. Il più disponibile era apparso proprio Fellini, anche perché Bergman, astemio, aveva brindato con acqua minerale. Il duo rischiò di trasformarsi in un trio, includendo anche il malinconico Akira Kurosawa, ma alla fine rimasero solo loro due. Dicevano che il film si sarebbe chiamato Love duet, cioè Duetto d’amore. Ma non si realizzò mai. Fellini mi domandò di nuovo di tenere compagnia a Bergman e a sua moglie Liv Ullmann. Il Maestro non era del solito buonumore, si lamentava di cose inessenziali, ma soprattutto cercò di annullare l’attenzione quasi reverenziale che il regista svedese aveva nei suoi confronti con la mastodontica presenza di un elefante, al punto di fargli fare per tre volte il giro della pista da circo. Lui, che si era accostato all’opera di Federico e ad alcune visioni del Satyricon con religioso rispetto. Lo trovai un modo di fare sconcertante, non so perché mi disturbò. Osservavo i due uomini affascinata, anche il regista Bergman era molto
inquieto e nervoso, sembrava non sapesse dove mettere le mani. C’era qualcosa di più profondo che mi sfuggiva, ma forse proprio l’averlo conosciuto in modo superficiale – lo trovai più indecifrabile di Michelangelo Antonioni e della sua dolce e intelligente moglie – mi fece capire che, a parte la grandezza della loro arte, non esistevano punti di contatto fra i due Mostri Sacri. Liv Ullmann era semplicemente radiosa per l’accoglienza dimostratale da Giulietta Masina il giorno prima, a pranzo a Fregene. L’attrice le avrà fatto assaggiare le sue fatate polpettine? Federico ripeté che si sentiva un fratello di Ingmar. Nessuno invece mi parve più lontano di loro. Il motivo di tale siderale distanza era la carnalità del primo, Capricorno, e la spiritualità del secondo, Cancro. Due segni opposti. Proprio come eravamo io e Federico. Pensai allora che sarebbe stato splendido vedere due opere di due geni del cinema così diversi. Come avevo immaginato, fu proprio Fellini a non farsi trovare pronto con il copione all’appuntamento stabilito. Così Bergman ampliò l’episodio in un film autonomo, fin quando si ripresentò la sfida, nel 1977 includendo questa volta anche Buñuel. Questa competizione stava stretta a Federico. Penso che detestasse proprio l’idea di una gara tra lui e lo svedese, per di più se includeva anche il geniale spagnolo, così come non amava il gioco del calcio e qualunque sport fin da ragazzo. Perché non avesse lavorato con Bergman lo spiegò sempre così: «Il fatto è che non si possono mettere due bambini nella stanza dei giochi, lui voleva vedere i miei giocattoli, senza farmi vedere i suoi». Cosa avrà voluto dire?
45 Dopo il Satyricon
Non sapevo quale delle molte cose prospettate all’inizio del rito avrebbe fatto parte del film che avevo seguito scena dopo scena. Alla fine il Satyricon, al di là di com’era nato, fu un film dibattuto a diversi livelli. Fellini aveva seguito solo la propria creatività, giorno dopo giorno, nonostante le continue visite di pittori, scrittori, sociologi, monsignori, psicoanalisti, fondatori di religioni, studenti contestatori. Com’è possibile che una società piena di tensioni e di violenza, come era l’Italia di allora, potesse riconoscersi in un film che era estraneo a tutto ciò?, mi domandai sulla «Critica sociologica». Tra le possibili spiegazioni, bisogna considerare che la fenomenologia della lavorazione di un film può seguire i nodi che l’hanno messo insieme: da un lato il grande maestro, dall’altra tutto ciò che è stato usato. Stranamente mi confidò il regista: «Io questo film non l’ho mai amato. Non mi è stato possibile sentirlo mio nella misura e per tutto il tempo in cui l’ho vissuto quasi come la finzione di un impegno». Aveva detto almeno una mezza verità? Gli stimoli più forti alla realizzazione di quella finzione erano state le masse usate. Il film era stato girato nella fase di maggior espansione dell’underground e catalizzava su di sé l’interesse degli operatori culturali legati a quei momenti. Nella prima metà di maggio erano state girate a Ponza, le scene navali a cui non partecipai. Il film venne presentato con successo alla Mostra di Venezia a settembre. Mentre l’anno
dopo, sarà la volta di Ciao, Federico! di Gideon Bachmann, il film-verità girato sul set. Ma tra tutte resterà celebre la proiezione del film all’una di notte, di dicembre del 1969 al Madison Square Garden di New York, dopo un concerto rock. Fuori nevicava, mentre all’interno diecimila giovani fumavano hashish o facevano all’amore, in quella decadenza così necessaria per una rinascita. Fellini disse di avere un solo rimpianto: che gli sarebbe piaciuto essere giovane adesso. Il Maestro era intelligentissimo e superava se stesso, ma era molto narcisista. Sembrava fosse il mio destino scontrarmi con la figura di Narciso fin dall’infanzia (penso a mia madre), mi spiegò Helénè Erba Tissot. E chissà quante altre volte sarebbe capitato ancora. Narciso era il mitico figlio di Cefiso e della ninfa azzurina e violata Liriope. Era insensibile all’amore, non corrispose alla travolgente passione di Eco, per cui fu punito dalla dea Nemesi che lo fece innamorare della propria immagine riflessa e morì, condannato dalla vana passione, nel tentativo di afferrarla. Corpo, dunque sono. Le persone che ne sono affette sono costantemente preda di fantasie di successo, manifestano un bisogno quasi esibizionistico di attenzione e ammirazione. Il narcisista va a caccia di donne empatiche che sappiano comprenderlo e ingigantire il suo ego. Donne che, puntualmente, finivano col soffrire. Per fortuna mi ero negata al Manipolatore, avevo rubato al volo solo un baffo della sua magia e creatività. Invece di essere stata io utile a lui, lui era stato utile a me. Ero stata capace di sovvertire il nostro rapporto soprattutto grazie a Gitt Magrini, che mi aveva spinta a rifiutare di trasformarmi in un incantato oggetto passivo. Per questo Fellini non aveva più voluto approfondire con me il suo film. E coinvolgermi come attrice. Ma aggiungo, sul Satyricon, l’osservazione di Andrea Minuz che fa notare nel suo illuminante Viaggio al termine
dell’Italia. Fellini politico che qui la romanità del duce sprofonda in un oscuro spazio primordiale: Incontrando la razionalità moderna, anche nell’estetica fascista, la rovina rinnovava la sua antica presenza e pienezza di significati. Ma nel Satyricon di Fellini avveniva l’opposto. […] Come sosteneva Fellini si creava «una contaminazione del pompeiano con lo psichedelico, dell’arte bizantina con quella pop, di Mondrian e di Klee con l’arte barbarica». Comunque il Maestro preferiva parlarmi di Edgar Wallace, uno scrittore molto suggestivo che avevo letto in seconda liceo. Voleva sviarmi? Aveva messo su un terzetto per rifare tutti i suoi personaggi, lui interpretava sempre il colonnello Dan Bundary. Che non era affatto un vero colonnello, bensì un lestofante. «Devo confessarti che i suoi libri mi parevano bellissimi, sfrenati, avventurosi. Infarciti di colpi di scena e crimini, ragazze oneste nelle pesti, scassinatori, poliziotti, imbroglioni e il detective Derrick Yale. Ho iniziato con “Il Corriere dei Piccoli”, poi Salgari, Verne, quest’ultimo, ti confesso, un po’ noioso, meglio Boussenard. E poi Fantomas, Buffalo Bill, Petrosino. Le dispense Nerbini con le copertine smaglianti di Tancredi Scarpelli.» «Ma cosa ti piaceva di Wallace?» «Be’ Il cerchio rosso, il suo migliore giallo secondo me, per non parlare de Il cerchio verde, La compagnia dei ranocchi, Bosambo e poi un formidabile romanzo di gangster a Chicago, On the Spot. Il suo universo fatto di candore e violenza.» Quante cose non conoscevo ancora di Federico? Infinite! Era un gran peccato che non fosse anche femminista. Pure ti illuminava altrimenti. Un giorno mi chiamò in ufficio e mi mostrò un quadro di Klimt del 1905. Le tre età della donna. Una donna decrepita e anziana era dipinta sulla sinistra. Una giovane e sognante che tiene in mano una bimba altrettanto sognante era dipinta sulla
destra. Gli occhi chiusi, erano madre e figlia immemori e perse nei loro sogni. Compresi subito che il quadro parlava simbolicamente di me e mia madre. Fellini mi stava mostrando la precarietà della vita e della bellezza. Nascita, fanciullezza, maternità, vecchiaia e morte. «Vuoi dirmi che la vita passa e trascorre e io non mi decido a sposarmi e fare un figlio, ma continuo a vivere immemore fra le braccia di mia madre, vero?» «Esattamente! Da anni ami lo stesso tipo di uomo! Il più disfunzionale che trovi sulla piazza, è il tuo!» «Che dovrei fare?» «Un figlio! Con l’uno o con l’altro, tanto fa lo stesso! Non so perché ma l’idea che non terrai mai in braccio il Bambin Gesù, mi strazia.» Non sapevo se mettermi a ridere o piangere, sapevo solo che aveva inquadrato bene la mia situazione. Solo che non avevo capito che avevo infilzato una sfilza di narcisi, che, al contrario di lui, non volevano nel rapporto mai fare un po’ di autoanalisi. «Federico, non sono materna!» «Nessuna donna lo è prima di avere un bambino qualsiasi in braccio.» Federico mi aveva sequestrato molti taccuini, ma su suggerimento di Gitt ne avevo fatto sempre una copia. Così uscirono molte pagine sul Satyricon. Attraverso «Paese Sera» feci sfilare tutti i suoi personaggi, mentre il diario di lavorazione apparve sui Cahiers du Cinéma, perché piacque molto a François Truffaut. Un grande ammiratore del cinema felliniano che amò la mia scrittura, scarna ed essenziale. Gli parve fosse simile a quella del film. D’altronde, ci avevo rimuginato sopra un mese, cercando il mio Fellini, diverso da quello di tutti gli altri, concentrata su ogni sua frase. Ricordai ogni cena o pranzo con lui, le risposte
spesso contradditorie che mi aveva dato guardandomi negli occhi. Ma lo scrissi – come mi aveva suggerito Rol – in terza persona. Pensai tutto il tempo a ciò che avevo visto e sentito, lo scrissi di getto, raccogliendo su di lui tutto ciò che c’era di vero, ciò che valeva la pena di conoscere, temendo quasi che mi sfuggisse un gesto o un abbraccio che mi avevano commossa. Avevo paura di dimenticare qualcosa di significativo: la sua ironia, il suo carisma, la sua voce di seta.Alla fine mi sembrava di averlo non solo amato, ma capito. Seguirlo per quasi quattro film e per nove anni mi aveva reso migliore, più forte, più autentica, più me stessa. Era sempre stato la persona con cui mi piaceva di più parlare. Da cui più mi sentivo capita. Pensavo ci fossimo infusi, psicologicamente e involontariamente, l’un l’altro il coraggio. Che ci fossimo, in qualche modo, protetti dalla solitudine. O era stato un sogno? Perché Fellini non disse nemmeno una parola su quanto avevo scritto su di lui! Lo rifiutò subito. Fu un fatto imponderabile, uno scoglio aguzzo a pelo d’acqua, uno schiaffo al mio, di narcisismo. Ebbi la sensazione che sarei crollata, per qualche giorno sperai che una nebbia pesante mi avvolgesse cancellandomi dalla faccia della terra. Sarei mai riuscita a rialzarmi, a camminare di nuovo sulle mie gambe? Non mi avrebbe dunque mai più chiamata Marinotta? Né avrebbe più finto al telefono di essere un fidanzato tradito? Non avrebbe più giocato a essere una donna, cambiando la voce di due ottave? Mi sarei mangiata le unghie più pervicacemente di prima? Pensavo a tutto ciò che avevo perso, prima di tutto la sua intelligenza. Ma c’era qualcosa di insperato che avevo invece conseguito: la mia forza, la mia identità. L’avevano detto prima il terapeuta freudiano Pasetti, poi la junghiana Tissot. Il suo rifiuto, inesplicabilmente mi servì, fu come ricevere un pugno in pieno volto. Vivere uno shock anafilattico. Dopo
un breve panico, a poco a poco, rinacqui. Decisi da allora che avrei fatto sempre e solo la giornalista, non avrei più ceduto ad alcuna pressione materna. Fu la spinta che forse mancava al mio processo di individuazione e gliene fui per sempre grata. Avevo messo in atto la tattica insegnatami da Gitt Magrini che non temeva nessuno, anzi lei gli aveva anche telefonato. «Maestro, scusi se l’allontano un attimo dai suoi sogni pascoliani, ma lei apprezza poco gli scritti della Bambola… mi presento, io sono il Capo. E, dopo la morte di suo padre, proteggo Marina. Anche da gesti che ritengo un po’ottocenteschi. Perché disprezza un bellissimo diario di lavorazione e poi invece la illumina sulla Madre Fatale, attraverso Klimt? Io la ritengo una madre narcisista e cannibale… Vive forse con lei, le sue stesse contraddizioni?» «Il capo? La bambola!» Fellini aveva impiegato un po’ di tempo a capire, ma poi si era divertito come un matto, chissà fino a che punto, con la storia che Gitt gli aveva spifferato. «Mi spiace Maestro, ma il diario del Satyricon di Marina è piaciuto a François Truffaut. Bello, cupo come il suo film. Da lui, la Bambola è andata da sola… desidero che cammini sulle sue gambe, d’ora in poi farà così, redazione dopo redazione, io l’ho solo portata a Parigi, le ho regalato il suo primo vestito da debuttante, come avrebbe fatto suo padre, e anche una gonna gitana. Deve uscire dai primi anni del Novecento e avviarsi verso il bolero. La prossima volta, per favore, accompagni il futuro di una ragazza, non la tradisca sul nascere! Che abbia un bambino adesso, senza avere un lavoro, sarebbe un suicidio.» Che donna. Non ne nascerà mai più una uguale. Fellini poi mi aveva chiamata, fingendo di nulla. «Ma chi è questa Gitt Magrini? Come l’hai conosciuta? Pare ti voglia molto bene.» Ero stata laconica come lui.
«È una ex golfista che Antonioni ha fatto diventare una bravissima costumista. Dovresti farla lavorare con te.» «Antonioni?» «Sì, Antonioni.» Si gelò. Fellini aveva uno strano rapporto con Michelangelo, ma non lo approfondii mai, visto che lo apprezzavo per il cammino di fede che faceva in segreto, con grande impegno e sempre raffinata ironia. Di lui mi fidavo, mi rispettava molto. Era rimasto, però, della stessa idea che aveva manifestato a Gitt Magrini quando mi aveva conosciuta la prima volta, che io avrei dovuto farmi suora delle Clarisse. Ne conosceva una meravigliosa che frequentava. Antonioni era stato capace di cogliere le mie inquietudini più profonde e conosceva le mie letture, sapeva che il mio libro di chevet era Storia di un’anima. Talvolta pensavo anch’io d’aver completamente sbagliato strada. Ma forse anche Antonioni vedeva della donna solo due facce, la puttana e la santa. «Carino, lei ti chiama la Bambola e tu la chiami il Capo», aggiunse ancora Fellini. «Ma dici di non voler fare del cinema poi tutte le tue amicizie appartengono soltanto a questo mondo… ci hai mai pensato? Eh, non mi freghi mascherina!» «È casuale Federico, sono pur sempre la figlia di un’attrice!» Io pensavo che ci fosse qualcosa di impudico nel mestiere del regista quando dovevano girare certe scene con le attrici. E che molte donne fossero un po’ masochiste ad accettarle. L’avevo intuito dopo aver sorpreso una comparsa del Satyricon recitare contro la propria volontà una scena di nudo. L’avevo vista tremante al ciak farsi la pipì addosso davanti a tutti. Poi aveva pianto e singhiozzato in camerino, quando l’avevo raggiunta per consolarla. Ero andata a protestare con lui, a dirglielo apertamente. «Federico non puoi trattare una ragazza in questo modo, l’hai quasi costretta e lei non riesce a mettere insieme il pranzo
con la cena.» Ma sono convinta che certi registi abbiano fatto molto peggio di Fellini. Malgrado questo, fino alla fine Fellini conservò la gioia di vezzeggiarmi. Io volai in America e smisi di seguire da vicino il suo lavoro. Al ritorno continuai a fargli fugaci e brevi visite sui set. Il nostro divenne a poco a poco un rapporto tranquillo e sereno, quasi fraterno. Ormai convinto che I clowns appartenessero al passato, chiacchierando con Bernardino Zapponi nella sua casa di Zagarolo, cucì una sorta di sceneggiatura. Poi cominciò ad andare in giro per l’Europa, a rintracciare buffoni di ogni tipo, vecchi e giovani. Con interviste e brandelli di testimonianze soprattutto parigine, girò un altro documentario per la televisione. Inserì Anzio, Ostia, Cinecittà. I suoi budget erano sempre troppo alti. Girò su pellicola a colori in trentacinque millimetri e con la macchina da presa, era felice. Si convinse di essere più leggero. Spiegò che i clowns sono di due specie: il clown bianco e l’augusto. Cioè il padrone e il servo, l’integrato e il ribelle, il ricco e il povero. Arriva anche all’assunto che Freud fosse un clown bianco, Jung un augusto. Per accontentare sia il cinema che la televisione fece uscire l’opera in bianco e nero per la tv e a colori per il cinema. Il risultato fu un doppio disastro. Federico lo guardò con la sua mamma a Rimini e ne ebbe una sensazione di fallimento. E intanto progettava a pieno ritmo, si può dire che la sua mente fosse sempre in fermento. Roma e Amarcord. Per il primo Fellini aveva centrifugato tutti i volti della sua città, in tutti i film. Parlava di Roma come sogno mai raggiunto. Di grande illusione. Senz’altro aveva studiato profondamente la Roma sparita e quella in rifacimento, andando a trovare con Zapponi gli ingegneri che lavoravano ai cantieri della metropolitana. Aveva visitato gli Archivi di Stato, «dove la carta indigesta si accumula, fa massa, provoca il mal di fegato, riscontabile nella faccia gialla degli impiegati, i risultati», dice Zapponi, «di secoli di
delazioni, di rapporti segreti, di lettere anonime, di suppliche, raccomandazioni…» La mente di Fellini era profondamente razionale, con lampi imprevedibili di istinto. Nella sua idea antimoderna prevedeva il carico di eredità arcaiche con cui la città doveva fare i conti. Roma come amalgama di antichità e modernizzazione, di cattolicesimo e laicismo, di nord e sud del Paese. Per Amarcord riceverà un altro meritatissimo Oscar. Il passaggio del Rex al largo, una luminaria, una sirena e via, ne fa giustamente un’immagine indimenticabile del nostro inconscio collettivo. In effetti il bastimento era stato l’orgoglio della marineria italiana. Andai a vederlo con Annina che stava invecchiando fra un ospedale e l’altro. Era la seconda volta che lei lo rivedeva e uscì piangendo. Fu colpita dalle manine che ronzavano ovunque con l’arrivo della primavera, sul cimitero, sul lungomare, una sorta di viaggio nostalgico nell’Italia degli anni Trenta. Io invece notai che riaffiorava, con il nonno, l’idea della morte nel regista. Mi sembra di non stare in nessun posto, mo’ se la morte è così… Il fascismo era per lui un’adolescenza protratta al di là di ogni attualità. Anche solo il tessuto linguistico e sonoro dei suoi film sarebbe da studiare, tanto è al tempo stesso estremamente antico e moderno. Federico mi convocò nel Teatro 5 per partecipare come attrice a Il Casanova. Mi attendevano lui e Norma… venni avvolta da una singolare paura. «E quale bambola dovrei interpretare?» dissi decisa. Oggi non riuscirei più a farlo. Ne seguì uno strano silenzio da parte di Federico, mentre Normicchia molto sorpresa affastellava varie ipotesi confuse. Non solo il Capricorno non ritorna mai sui suoi passi, a volte lo fa anche il Cancro, se rimane ferito. Lucia Alberti, viennese di nascita ma di padre toscano, sempre circondata da tanti
gatti, da studiosa disse che i miei numerosi pianeti nel Leone avevano giocato un ruolo preponderante nel rifiutare quella sorta di gioco misterioso. Insomma non mi vollero dire che ruolo avrei avuto. A Federico forse avrei detto di sì, ma visto che era accompagnato da quella rude scudiera toscana, il mio era un no! La fame di sesso del regista, dopo essersi proiettata ne lo Zio matto di Amarcord, si rinfranse forse più dolorosamente ne Il Casanova, grande opera, in cui Fellini mise in atto però, ancora una volta, l’arte dell’incantamento e della seduzione. Liberamente tratto dalla Histoire de ma vie, la sceneggiatura era ancora di Bernardino Zapponi e Fellini. Inseguì il personaggio attraverso meravigliose città, Berna, Londra, Parigi, Forlì, Dresda… ma venne interamente girato al Teatro 5. «Kubrick ha dilatato il Settecento in inquadrature vastissime, io farò invece l’operazione inversa, lo conterrò in ambienti piccoli.» Quel Casanova in disarmo era dunque sempre lui? Non proprio. Era un figlio della Controriforma che tentava disperatamente, quasi animalescamente, di sottrarsi al cattolicesimo. Un italiano tipico, comunque, sensuale e vacuo, affettuoso e servile, presuntuoso e cosa altro ancora? Per lui era la storia di un italiano imprigionato nel ventre della madre, sepolto lì a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto, in un mondo privo di emozione, abitato solo da forme che si scompongono e si ricompongono, un fascino da acquario, uno smemoramento da profondità marina… Questo è Fellini-Casanova. Il regista ne fece una statua mortuaria e meccanica, irretendo il malcapitato e grande Donald Sutherland che, non a caso, aveva appena interpretato il feroce Attila di Bertolucci in Novecento. Dal fondo della laguna, ecco emergere la Gran Madre mediterranea, la causa di tutti i mali, sembra dirci Fellini. L’archetipo del maschio latino dell’epoca non si
responsabilizza né matura, frenato dalla paralizzante bramosia accumulata per secoli nei confronti della donna. Peccato che, quando sia De Laurentiis che la Cineriz scaricarono la produzione del film per gli alti costi, ci siano stati fra lui e il produttore Alberto Grimaldi, sempre per lo sforamento del budget, non pochi scontri e fratture. Parte del materiale venne poi rubato e ritrovato a Cinecittà, nessun film di Federico nasceva indenne da sventure. Ne faranno un documentario Gianfranco Angelucci e Liliana Betti, E Il Casanova di Fellini? In quell’occasione, Danilo Donati superò se stesso e vinse un Oscar. Ciao caro e addio dolce amico. Non fu da meno con la fotografia Rotunno, inventore di una magnifica tavolozza cromatica. Federico ne ricavò il film più sofferto ma più omogeneo della sua carriera, insieme ad 8½. E forse fu anche il suo film più colto, in cui usò i versi di Andrea Zanzotto e Tonino Guerra, le Rime di Tasso, il Canzoniere di Petrarca, e l’Orlando furioso di Ariosto. Fu inarrestabile nel citare i grandi amori del suo cuore, inserendo nella storia anche un continuo rimando a Dante. E poté far frullare la sua immensa inventiva ne la visione de La grande Mouna, immaginando nella scena centrale, di una visita nel ventre di una balena femmina, una risalita nell’utero materno, reinventando il Paese dei Balocchi, mescolando come sottotesto Pinocchio e la Bibbia, ma anche favoleggiando di donne e vagine mostruose, simboli di perdizione o di riposo. Grazie a Roland Topor vedremo una lanterna magica riprodurre le figure femminili più surreali. Più che con gli altri suoi film, Fellini volle dirci che il cinema era il luogo deputato all’immaginario erotico. Per essere una funebre marionetta, un truffatore e un libertino, Casanova trionfava su tutta la linea, anche se il pensiero del regista divenne sempre più pessimista e tetro riguardo al futuro. C’era da aspettarsi il suo timore di un’apocalissi autoritaria, nel trionfo del disordine degli anni più difficili della politica italiana.
A questo proposito, uno sguardo profetico ce lo offre Prova d’orchestra, film che amai molto, perché il più politico e importante dei suoi filmetti, come direbbe lui. È un’opera che racconta spietatamente la realtà italiana, ostaggio di sindacati e scioperi, del terrorismo degli anni di piombo. Fellini uscì veramente, e per la prima volta, dal proprio ego. All’interno di un antico oratorio, mentre si svolgono le prove di un’orchestra, un giornalista televisivo intervista i musicisti: ognuno parla solo del proprio strumento. Poi arriva il direttore d’orchestra tedesco. La prova inizia con calma e poi diventa caotica e piena di proteste. Il direttore abbandona la sala per tornarsene in camerino e nell’oratorio scoppia l’inferno. Ovunque regnano anarchia e disordine, in poche parole, la rivoluzione. Tutto l’edificio inizia a tremare, scosso da colpi sempre più forti, finché una gigantesca palla d’acciaio non sfonda i muri e nel crollo muore l’arpista. Dopo varie grida di terrore, torna il silenzio e la prova riprende. Nuovamente sul podio, il direttore d’orchestra tedesco si riappropria del proprio ruolo. L’Italia vive uno dei momenti più difficili della storia del dopoguerra. Il 16 marzo il quarto ministero di Giulio Andreotti sta per chiedere la fiducia, nella prospettiva che dopo trent’anni, i comunisti avrebbero votato a favore. Si tratta dell’approdo del disegno di Aldo Moro, considerato il prossimo presidente della Repubblica. Proprio Moro verrà invece rapito alle 8 e 45 in via Fani, da un commando delle Brigate Rosse, che nel corso dell’attacco uccide barbaramente i cinque uomini della scorta. Il 9 maggio avviene il tristemente noto epilogo della vicenda: a seguito di una telefonata anonima, il cadavere di Moro viene ritrovato in via Caetani, nel baule di un’auto. Una congiura di servizi segreti e brigatisti fece di Aldo Moro l’Agnello sacrificale e l’ingresso nell’area governativa di un partito comunista occidentale fu rimandata di vent’anni con il governo D’Alema. A Fellini sembrò di assistere a un giallo internazionale. Il film porta l’impronta geniale di Brunello Rondi che galopperà
nel buttare giù rapinosi appunti. Lui e Fellini partoriranno un meraviglioso apologo sulla società italiana, ritraendo un paese stanco degli scontri di piazza e della violenza, in cerca di una rinascita collettiva. Mimmo Scarano di Rai Uno dà il suo immediato consenso a produrre l’opera, e così il geniale Paolo Valmarana. Si aggrega al progetto il produttore Pescarolo, che riesce incredibilmente a lavorare in un clima rilassato e sereno e non si lamenterà mai del regista. Le riprese iniziano il 22 maggio, nel più assoluto segreto, e chi vedrà sfilare nel suo ristorante ogni genere di strumentista sarà proprio Cesarina, Fellini li porterà lì a pranzo, uno dopo l’altro. Mentre una segretaria prende appunti sfileranno il fagotto e il controfagotto, l’arpa, il violoncello, il bassotuba e il flauto. Questo perché è stufo che gli si dica che è allergico ai suoni e ha capito che un’orchestra è il mondo e cerca, come sempre, volti significativi: che sappiano o meno suonare non gli interessa. Il protagonista è Baldwin Baas, il vero conduttore è invece il maestro Carlo Savina. L’oratorio dove avviene questa illuminante sorta di rito sacro viene progettato da Dante Ferretti. Ma è Dio o il diavolo il direttore d’orchestra?, ci si chiede alla fine del film. La cosa migliore è far parlare Fellini. A volte la mia estraneità a una problematica politica, invece di restituirmi un sentimento di disagio e imbarazzo, mi conforta, me ne sento protetto, penso di essere fortunato, e questo mi succede quasi ogni giorno, quando sui giornali o per radio, o alla televisione assisto alla gran sarabanda informativa sulla politica italiano. Anche il critico Goffredo Fofi, che lo aveva a suo tempo stroncato, pronuncia in anni più recenti una sorta di ritrattazione. «Fellini ci ha capiti e raccontati, noi italiani, come nessun altro regista italiano.» Egli si fa sempre più polemico negli ultimi anni verso la società italiana. Se prima il suo bersaglio era Craxi e i socialisti, adesso la sua critica si
amplia a tutta la società, e giustifica il film parlando «dell’eterna tensione tra ricerca dell’armonia e il piacere della libertà». Dopo, Fellini assumerà toni sempre più polemici con E la nave va e La voce della luna, soprattutto quando vide i suoi film bersagliati dalla pubblicità televisiva di Mediaset. «Non si interrompe un’emozione», flautò pieno di orrore. Cosa gli stava succedendo? Secondo Cesare Garboli stava perdendo un po’ della sua somma simpatia, riconoscendo però che «la sua presenza e la sua compagnia aumentavano il tasso di vitalità emotiva di chi gli stava vicino e che accanto a lui la vita sembrava più ricca, più misteriosa, più capace di produrre illusioni». Sembrava che per la prima volta il critico vedesse anche i difetti di Fellini e rintracciò un disaccordo nei suoi lineamenti, «una strana disarmonia fra i tratti insieme corpulenti e delicati». Ne fece una descrizione fin troppo particolareggiata e, da par suo, raffinata, non riuscendo a mettere insieme «il volto da condottiero», volto di un capo, «con la bocca aggraziata, un’incredibile bocca di cherubino». Ma il suo capolavoro è descriverne la voce, una voce stupefacente «simile a un occhio che all’improvviso si riempia di pianto. Una voce tutta alta, ignara di toni bassi». Magnifica!, aggiungo io. Mi recai solo una volta sul set de La città delle donne, e il film non mi piacque. Andai ad augurare nient’altro che successo a Federico e ringraziai Dio di combattere una diversa battaglia: dopo tanta scrittura, ottenevo un contratto giornalistico stabile. Sul set la somma delle donne presenti era assolutamente eccessiva e promiscua, come se il regista si fosse costruito un nuovo harem, dopo quello di 8½, ma del tutto sproporzionato e abnorme. Cioè poco sostenibile. Liliana mi disse che combattevano tutte una contro l’altra, che si odiavano, fra assurde incursioni pseudofemministe.
Chissà cosa ne avrebbe pensato una donna intelligente e combattiva come Carla Lonzi. Fellini sapeva che stavo raccogliendo, fra infinite peripezie Il “Chi è?” delle donne italiane per la Mondadori, ne raccontai la fatica a Pietro Citati che replicò con la sua immancabile ironia: «Perché non sa cos’è lavorare con gli uomini!» Alla fine di quel lavoro, che aveva una sua grazia e allegria mozartiana, una perfetta sconosciuta, spuntata dagli uffici mondadoriani, tolse e aggiunse a suo arbitrio, fino ad appiattire ogni scheda biografica, tanto da farmi dire con acutezza da Cesare Garboli, che annusava i libri prima di darne un parere: «Che scrittura feltrinelliana, non sei proprio tu!» Il mio profumo infatti era stata cancellato, e la redattrice si era permessa molte libertà su scrittrici che, oltre a conoscere molto bene, stimavo. Pensò di scrivere che Dacia Maraini era moraviana, cioè che la sua scrittura fosse nata da una costola di Moravia. Io non solo non lo pensavo e neppure l’avevo scritto. Dacia aveva infatti trovato una voce tutta sua. Avevo detto invece che era nata dal cuore dello scrittore, perché la potenzialità d’amore e l’energia vitale di Moravia erano infinite, e lui amava veramente le donne. Compagne o mogli che fossero. Ma sul set de La città delle donne Fellini andò incontro al proprio fato. Morirono uno dopo l’altro Nino Rota, Ettore Manni ed Ettore Bevilacqua, s’infranse anche il rapporto di lavoro e l’amicizia con Liliana Betti. Con lei, autrice di libri bellissimi sul Maestro, segretaria di produzione, assistente alla regia, addetta stampa, responsabile del casting e talvolta anche autista, Federico interruppe diciotto anni di collaborazione. Era stato più di un matrimonio. Il motivo della discordia? A dare ascolto ai pettegolezzi fu Sonia Schoonejans, bella e colta studiosa di danza, e autrice di Fellini, a conquistare il cuore di entrambi. E spesso con il Maestro bastava fare un passo falso per venire cancellati.
Prese il posto di Liliana la mitica Fiammetta Profili, efficientissima e radiosa, soprannominata da me Campanellino (quello di Peter Pan). Il regista ne ebbe sicuramente un contraccolpo, perché nello stesso periodo, anche la mamma Ida Barbiani si ammalò gravemente. E lui mi disse in una breve telefonata che gli sembrava ormai di camminare sull’orlo di un precipizio. Sembrava che non riuscisse più a controllare gli eventi. Ma perché non percepiva i singhiozzi di chi abbandonava? Fellini era un grandissimo regista e al tempo stesso un grande psicoanalista junghiano, capace di scrivere l’eterno romanzo della propria vita e qualche volta anche della vita altrui. In Prova d’orchestra il direttore abbandona la sala e scoppia la rivolta, tutto gli viene contestato. Quel direttore d’orchestra è lui. La sua massima capacità consisteva proprio nel tenere insieme un set, senza distrarsi nemmeno un secondo. E questo fece fin quando ne ebbe le forze. Mesi dopo lo trovai seduto sui banchi della cappella Contarini a San Luigi dei Francesi, a pochi passi da La vocazione di san Matteo del Caravaggio. Lì ebbi un’intuizione folgorante. Finsi di non averlo visto e me ne andai senza salutarlo. In qualche modo il Maestro si preparava a restar solo, cercava anch’egli la Grazia che aveva trovato san Matteo. Che ci faceva altrimenti lì davanti a osservare quella chiamata di Dio? Strano che davanti a quel quadro, che andavo ad ammirare spesso, avessi trovato una volta anche Louis Malle, con le lacrime agli occhi. Federico qualche tempo dopo mi confidò che desiderava chiudere al più presto La città delle donne. Quel film forse lo stava soffocando. Liliana, che incontrai dalla produttrice Tilde Corsi, mi raccontò che il Maestro sul set era sempre uguale, tenerissimo
con ogni attore e attrice, interpretava di volta in volta la parte di ognuno, suggeriva la minima inflessione, d’altronde conosceva a memoria le parti di tutti. Disse che era un continuo show, con lui come unico protagonista, come sempre. Ma desiderava vedermi con calma, adesso era troppo ferita e frastornata per parlarmene senza piangere. Aggiunse che il regista le aveva strappato il cuore e se l’era mangiato. E le aveva proprio ripetuto che non voleva vederla «mai più, mai più dovesse campare cent’anni». Dopo qualche giorno anche Sonia Schoonejans, accompagnata da Moravia, venne a trovarmi. E anche Sonia aveva litigato in modo tanto violento con Federico che si era messa a scrivere un libro. Me ne lesse alcune pagine, sarebbe uscito con la prefazione di Moravia. Entrambe mi parlavano di un Fellini che mi sembrava di non conoscere e che potevo solo immaginare. Si stava creando uno strano triangolo narcisista fra lo scrittore, il regista e le donne amate da entrambi. Successe anche con Rosita Steenbeek. Una singolare gara tra narcisi ipertrofici? Ma come si poteva sperare nell’amore del regista? Sonia era dell’idea che avesse sprofondato Ettore Manni nell’umiliazione più feroce. L’aveva trattato con una crudeltà inumana, facendone una brutta copia di Maurizio Arena, le cui abitudini il regista aveva accuratamente studiato, come anche faceva Dino Risi. Pare che una volta avesse cacciato via tutti, anche Manni che per la disperazione di non essere all’altezza dei canoni felliniani si era messo a bere più del solito. Federico non l’avevo mai conosciuto così rabbioso. «Non vuole mai più vederci, né me, né Liliana», invece mi rimase in mente, come un tarlo: come è possibile che avesse cancellato gli anni trascorsi con Liliana con un colpo di spugna? Si era forse innamorato di Sonia? Lo chiesi a Moravia. Lui era dell’idea che il Maestro non s’innamorasse mai di nessuna, ma si sbagliava.
Strano, perché Fred, il suo autista, pensava invece che prendesse certe scuffie, a volte sembrava addirittura anaffettivo, ma era un errore pensarlo. Anche in questo caso, segretamente, sognava Sonia. Menicuccio, il suo vecchio capomacchinista, era un altro convinto che Fellini si fosse innamorato spesso. Chissà quante ne sa Menicuccio che non lavorava più per nessuno, a ottant’anni, ma quando lo chiamava il Maestro accorreva subito. «Perché? Perché sa chiedere scusa.» Anche Ubaldina, la cuoca, lo adorava. Insomma, era, a detta di tutti sempre un gran seduttore. Volendo essere cortese, mi chiese se m’interessava intervistare Susan Sontag. Dico di no, perché era stata l’amica più cara di Gitt Magrini, da poco scomparsa per colpa di un tumore al pancreas fulminante, e non riuscivo a metabolizzarne il dolore. «Ma lei dove ha messo Dio, sotto i piedi?» mi fu detto durante una cena dolce e divertente. Ero talmente lontana da lui, e talmente piena di me stessa, da pensare che fosse uno strambo modo di corteggiarmi. Niente di tutto ciò, quel grande sceneggiatore era un vero catechista. Dopo, non ho avuto cedimenti nemmeno con Federico, anche a lui non ho più fatto le carte. Ho smesso di essere la sua cartomante. Mi sono riconvertita. Massimo De Rita sosteneva che mi fossi riempita di energie negative con questo assurdo giochetto, insomma o credevo, e se credevo c’era Cristo, o non credevo, e allora potevo continuare a fare «la Maga de noiartri». Mi aveva chiamata proprio così. Ma io lo facevo per aiutare gli altri, peccato che i miei buoni propositi intralciassero il mio percorso spirituale. Non importa che avessi visto, come in un sogno realistico, l’agguato e lo scempio sul corpo di Pier Paolo Pasolini, e la morte da lì a poco della madre Susanna.
«Sì, hai visto, hai avvertito chiunque, ma dimmi, a che ti è servito? Pasolini spariva allo sguardo di chiunque, anche di se stesso. Perciò ti dico che leggere i tarocchi è, nella maggior parte dei casi, inutile», concluse Massimo De Rita, quando gli raccontai la cosa. No, meglio smettere se anche Fernanda Pivano che avevo accolto con amore, e aiutato, mi considerava, per pura invidia e poco amore verso le donne in genere, una cartomante da strapazzo. Chiaro però che l’appello a presentarmi davanti a Dio, spoglia e vera, arrivava da più in alto. Mi preparai a fare un cammino, soprattutto a guardarmi dentro. Andai comunque a cena con Federico. Le sue fobie e superstizioni si erano accentuate ma era rimasto estremamente acuto nei suoi giudizi. Il suo sospetto era che stessi mettendo in atto ogni tentativo per convertirlo. Non poteva essere più lontano dal vero, un Narciso non ha bisogno di Dio, è Dio! Credeva invece che mi fossi innamorata di uomini improbabili in una serie di coazioni a ripetere. Non gli spiegai che erano soprattutto dei narcisi come lui. Quando era stata la volta di un intellettuale che mi aveva letteralmente rovesciato addosso il suo tradimento, (durante un viaggio doloroso a Torino, a dover fronteggiare gli ex carnefici di mio padre), lo aveva fatto al mio ritorno in modo quasi inumano e me lo ripeteva quasi in modo punitivo. «Sai che c’è bello mio, c’è che ti lascio per sempre!» «Ma io ti voglio sposare Animella!» «Io no! Hai il cuore di Arpagone!» Federico mi trovò comunque piangente dal giornalaio che c’era al fondo di via Borgognona. «Marinotta, perché così tanto dolore? Ma se ti manca l’intellettuale che sa tutto comprati la Treccani! Certo difficile che lui e Garboli si potessero capire a parte passeggiare e chiacchierare insieme nella Roma notturna non avevano molto in comune. Non era affatto la stessa cosa
un’enciclopedia, ma la singolare ironia del Maestro smorzò di colpo tutta la mia disperazione e feci in due ore le valige. Lo resi un saltimbanco, perso fra tardone che tanto l’ammiravano, ma gli sottrassi per sempre il mio amore. Fui crudele, da giovani capita di esserlo. Scrisse rapinose lettere per riavermi. Poi finalmente capì, abbandonò Roma e a Vado di Camaiore si mise a scrivere seriamente libri bellissimi. Fui, a modo mio, terapeutica. Ci fu un periodo in cui m’innamorai perdutamente di uno svizzero e Federico mi scovò anche lì, a Grandson, dove vivevo quasi segregata in un castello. Nulla di questa nuova vita lo convinceva, vi intravedeva un finale tragico e cercò invano di spingermi a vedere e intervistare George Simenon. «Certo, sei un po’ pazzerella, a vivere nel castello di Carlo il Temerario, Marinotta! Parli con i fantasmi? Racconta tutto a Simenon.» Ora mi chiamava sempre con il nome che mi aveva dato un tempo. Singolare che, proprio colui che non avrebbe voluto che scrivessi, ora voleva che intervistassi tutti i suoi amici. Ma proprio tutti. Non ne compresi il motivo, sembrava quasi desiderare che il grande scrittore mi seducesse. Non so perché resistetti e a parte la mia poca conoscenza dell’opera dello scrittore che pure reputavo fra i massimi del Novecento, inventavo scuse e prendevo tempo. Fellini mi telefonava incessantemente. «L’ho avvertito che la prossima settimana andrai a trovarlo e lo intervisti, al “Messaggero” piacerà, ne sono sicuro.» «Ma non ho nessuna intenzione di farlo, Federico. Non la prossima settimana e nemmeno dopo. Intervisto un Nobel, Rubbia.» «Sbagli, potresti diventare una ragazza dei suoi romanzi…» «No! Ma mi spedisci come fossi un pacco di Natale? So che Simenon è famelico di donne!» «Si è sistemato con una cameriera che ha sposato e lo controlla.»
«Una cameriera, dici sul serio?» «Adora le cameriste.» «Ma è terribile! Almeno Guido Gozzano sognava solo di amare la signorina Felicita.» «Se non ci vai torna a Roma almeno.» «Ma perché? Pensi che mi succederà qualcosa di brutto in Svizzera?» «Non a te, ma a quel bel ragazzo che hai accanto e mi ha offerto, tramite il suo sindaco, cento milioni per una “festa felliniana” sul lago Lemano. Non sanno neppure cosa voglia dire “felliniano”. Ne sai qualcosa a proposito?» «In questo concordo pienamente con te. Non sanno cosa significhi l’aggettivo felliniano, guarda, nemmeno io lo so, fai come credi. I soldi so che non ti interessano.» Federico non muoveva un passo per i soldi. Il bel ragazzo fallì, le banche gli presero tutto e lui si suicidò. Persi tutti i miei bei capelli, rimasi calva due anni. Fellini era un veggente. Ancora non so come è morta la sua cara Annina, ma mi piacerebbe saperlo. Vorrei dire una preghiera per lei, portare un mazzo di rose bianche sulla sua tomba.
46 Addio, Federico!
Lavorare con Federico Fellini mi aveva resa entusiasta e felice, ma mi aveva anche ferita e delusa. Ero stata tutte queste cose insieme, ma non sapevo tirar le somme. Grazie a lui avevo capito che vivevo in un mondo brutale e crudele, ma per certi aspetti misterioso, dove avvenivano spesso cose sorprendenti e inesplicabili. Avevo scoperto che l’imprevedibile e l’inaudito appartenevano alla vita, che era inafferrabile. Da lui avevo imparato molte cose: a detestare l’ipocrisia, la supponenza e le cosiddette ciarle degli intellettuali, di cui ero spesso vittima. Il Maestro evitava in tutti i modi le cene mondane e subiva con malcelata ironia l’adulazione. Malgrado fosse molto condizionato nella sua vita privata, era l’uomo più libero che avessi mai conosciuto, forse perché si conosceva molto bene. Da lui ho imparato a fare quasi tutta la vita psicoanalisi junghiana. Come l’amore per gli anziani, i bambini, i malati. Federico, poeta lieve e crudele. Federico, un capoccione che non tornava mai sui propri passi. Federico, le sue zampate! Federico, abile a scansare quasi ogni nevrosi per la pura creatività. Federico, che ti stringeva fino a stritolarti, poi magari fingeva di suonare l’organetto. Federico che negli ultimi tempi sembrava barcollare come un bisonte ferito. E forse tutto era crudelissimo, più ingiusto di quanto meritasse, per questo poté scrivermi l’essenziale, sul volume di Savinio Casa, La vita di Savinio: Cara Marina, ti voglio bene. Federico.
Era vero, e solo a questo credevo, visto che non possedevo una sola foto che mi immortalasse con lui. A volte essere poco narcisi fa anche male. Ma la telefonata più straziante di tutte fu quella che mi fece da Ferrara, dove era stato ricoverato dopo l’ictus avuto a Rimini. Gli avevo scritto una lettera da innamorata, io che non l’avevo mai fatto. «Marina, ho una mano inerte come un mazzo di asparagi e la vita si allontana da me, tutto si sta spegnendo senza speranza… puoi pensare ad Annina? Non lasciarla sola, a me mancano le forze. Mi sento molto male.» «Certo Federico, ma tu ti riprenderai, tornerai assolutamente come prima, ne sono sicura.» «Penso anche al mio sgangherato rapporto con Dio, tu l’hai trovato no?» «Veramente è Lui che ha trovato me.» «Potessi almeno dire questo.» Federico, entrò in coma irreversibile e morì dopo una straziante agonia di quindici giorni, al Policlinico Umberto I. Io sprofondai nella disperazione. Ne ero stata inflazionata, ma a suo modo era stato un padre ed ero rimasta improvvisamente orfana e come svuotata di gioia, chimere e sogni. Due giorni dopo però sognai che mi aspettava nella stazione metropolitana di piazza Euclide, io correvo ed ero in ritardo, correvo con il fiatone fin quando non lo vidi lì fuori sorridente ad aspettarmi. Appena gli fui davanti mi sollevò in alto come faceva sempre. «Ehi bambocciona, sempre in ritardo, la metropolitana parte e noi restiamo a terra!»
Scendevamo e l’afferravamo al volo. Ma nessun altro la prendeva e anche nei vagoni non vedevo una sola persona. Eravamo noi due soli. Ci guardavamo quasi come fossimo marito e moglie. Come Anouk e Marcello nella scena del treno. E durante il viaggio che sembrava non aver fine, Federico continuava a sorridermi senza parlare. Tutt’intorno sentivo una misteriosa musica vivace, che rendeva impossibile abbandonarsi al dolore. Provavo invece un ritrovato calore e molta allegria. Udivo in lontananza anche il malinconico suono della fisarmonicista di Block-notes di un regista. Come il fischio del merlo di Alvaro Vitali solo per sedurre Fellini. Allungai il braccio. «Grazie di esser venuto, avevo pensato di non rivederti mai più!» Ma davanti a me non c’era più nessuno e mi risvegliai di colpo, il viso bagnato di lacrime. Nell’intimo del mio cuore, però, non potevo più stare in lutto: Federico mi aveva voluto dire tutto in un breve sogno, che era libero e nella luce. E quando in cielo vedo brillare una stella più forte delle altre penso che Lui è vivo, esiste ancora. Cercatelo, è Lassù.
Questo libro non sarebbe nato senza la fiducia generosa di Elisabetta Sgarbi e il colloquio sapiente con Ilaria Pasca. Agli altri: Fabio, Adriana, Cristina, Fiammetta, Nora, Sabrina, Selma, Valeria, grazie.