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Italian Pages 212 Year 1996
L’intimità e la storia Lettura del «Gattopardo»
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Francesco Orlando L’intimità e la storia Lettura del « Gattopardo »
Finaudi
Indice
p. VI
Ringraziamenti
L’intimità e la storia Premessa
I.
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
i. Sicilia: una singolare periferia tra le periferie 129
Im. 1860: una singolare fine d’antico regime
L79;
Indice dei passi citati
187
Indice dei nomi
193
Sommario
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Ringraziamenti
Prima di cominciare a scrivere questo libro, ho avuto quattro occasioni di anticipare in pubblico parti pit o meno ampie del suo contenuto. Tre lezioni pubbliche tenute a Palermo il 9, 10 e 11 dicembre 1996, in apertura del convegno Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 100 anni dalla nascita. 40 dal «Gattopardo»: ringrazio il sindaco Leoluca Orlando, l’assessore Francesco Giambrone. Una conferenza al Teatro Argentina di Roma il 9 maggio 1997, nel quadro del corso di aggiornamento I/ Novecento dentro, fuori, attraverso la letteratura: ringrazio Giulio Ferroni. Una comunicazione a Sant’ Arcangelo di Romagna il 31 maggio 1997, a chiusura del colloquio I/ giudizio di valore e il canone letterario: ringrazio Marina Colonna, presidente dell’ Associazione Sigismondo Malatesta. Un corso monografico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, durante l’anno accademico 1996-97: ringrazio gli studenti, e fra i partecipanti alle esercitazioni Marco Arnaudo, Nicola Feo, Alberto Patanè, Fabio Rocchi, Nicoletta Scalari, Arrigo Stara. Ringrazio Cristiano Cei e Roberta Cella, senza i quali non avrei po-
tuto approntare l’Indice dei passi citati. Ringrazio Alberto Mario Banti, Paolo Pezzino e Francesco Renda, che ho consultati in materia di storia, e di storiografia, politica.
Ringrazio Paolo Squillacioti, che mi ha messo a disposizione la sua competenza su Lampedusa. Ringrazio gli amici che sono stati i primi lettori: Francesco Fiorentino, Gianni Iotti, Gianni Paoletti, Grazia Tomasi Stussi, Sergio Zatti.
L’intimità e la storia
The time is out of joint; O cursed spite,
That ever I was born to set it right! SHAKESPEARE, Harzlet, I, v
Premessa
Questo libro viene scritto poco dopo i sessant'anni dalla stessa persona che, intorno ai venti, frequentò per quattro anni Giuseppe Tomasi di Lampedusa; fece da destinatario stabile alle sue antiaccademiche lezioni di letteratura inglese e francese; fu tra i primissimi a leggere via via I/ Gattopardo in corso di stesura; ne batté a macchina sei capitoli su otto sotto dettatura dell’autore. Ebbene, sia dichiarato su-
bito: se anche, di questi ricordi personali, ho creduto importante render conto nei due scritti Ricordo di Lampedusa e Da distanze diverse*, stavolta, ai fini d’una interpretazione o analisi del romanzo, sono lontano dal considerarli come un
vantaggio particolare. Che l’opera d’uno scrittore richieda una sorta di spiegazione nella vita di lui, è un pregiudizio istintivo e inestirpabile; è raro, se i lettori non specialisti sono abbastanza numerosi, che non sia nutrito dalla maggioranza di essi. Le opinioni sono più divise fra gli scrittori stessi, i critici, gli studiosi di letteratura. Esiste una disputa esemplare: quella del Contro Sainte-Beuve di Proust (un saggio la cui stesura, cominciata e abbandonata per via, trapassò direttamente nientemeno che in A//a ricerca del tempo perduto). Più grande storico che critico, eppure reputato a lungo il critico per eccellenza, nell'Ottocento Sainte-Beuve aveva cercato me-
todicamente la chiave dell’opera letteraria nella vita degli au! F. ORLANDO, Ricordo di Lampedusa (1962), seguito da: Da distanze diverse (1996), Bollati Boringhieri, Torino 1996.
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L’intimità e la storia
tori. Per rivendicargli contro l'autonomia dell’opera, Proust obietta «che un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi»; e quest'altro io, «se vogliamo cercare di com-
prenderlo, possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi, sforzandoci di ricrearlo in noi». Per esempio, Sainte-Beuve credeva di avvicinarsi alla più esatta valutazione di Stendhal attenendosi a quanto potevano dirgliene gli amici che l’avevano conosciuto bene da vivo. Al grande contestatore d’un tale metodo, per screditarlo con un sospetto di ridicolo, basta citare una frase - la frase in cui Sainte-Beuve
confessa che continuava a trovare i romanzi di Stendhal «detestabili». Subito prima, Proust fa cadere la domanda che si attaglia perfettamente alla mia situazione di fronte a Lampedusa e al Gattopardo: «E perché ?Perché mai il fatto di esser stato amico di Stendhal permette di giudicarlo meglio ?» E se al contrario, soggiunge addirittura, costituisse un osta-
colo, offuscando l’io creativo dietro un io quotidiano magari inferiore a quello di tanti altri?? Lampedusa era un ammiratore troppo convinto del me/ todo di Sainte-Beuve per non persistere nel dar ragione a lui, ! anche di fronte all’ineccepibile attacco di Proust. La mia identità professionale matura mi ha situato invece risolutamente dalla parte di quest’ultimo. Munito della sua rigorosa distinzione, avevo dato a suo tempo il mio contributo biografico senza perciò arrogarmi nessun compito d’interprete o giudice dell’opera. Sempre grazie a quella distinzione, posso adesso accingermi a un simile compito senza illudermi che la passata conoscenza dell’uomo mi conferisca un privilegio — e neppure temere che mi si muti in un ostacolo. C'è del paradosso in tutto questo. Ieri da ex discepolo che rendeva testimonianza sul maestro, oggi da studioso che presume autonoma l’opera da analizzare, il rispetto dei confini fra per° m. PROUST, Contro Sainte-Beuve, Einaudi, Torino 1991, pp. 16-17 [Contre: Sainte-Beuve, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1971, pp. 221-22]. ? Cfr. orLanDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp. 49, 83-88.
Premessa
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sona e testo fa tutt'uno per me col rispetto del testo, e dopo tutto anche della persona. Resta in dubbio se lui, per pura coerenza intellettuale, o per vedersi trattato proprio come nelle lezioni inglesi e francesi si era compiaciuto di trattare gli scrittori più grandi, non avrebbe accettato volentieri di esser pagato della sua stessa moneta. Di lasciarsi applicare quel metodo che incoraggerebbe, fra il suo vissuto personale e la realtà immaginaria del romanzo che è I/ Gattopardo, sagaci confusioni, induzioni improprie e riduttivi disvelamenti. Del resto è tempo di aggiungere che, nella sua perdurante esemplarità, la disputa di Proust contro Sainte-Beuve può a buon diritto apparire datata. L’uno, nel contrapporre un io profondo e creativo all’io quotidiano o privato o aneddotico a cui esclusivamente aveva guardato l’altro, era pur sempre ignaro anche lui della rivoluzione apportata dal suo contemporaneo Freud. La scoperta dell’inconscio, base dei condizionamenti più quotidiani, ma anche sede d’un pensiero logico alternativo in cui affonda le radici la logica poetica, altera i termini anteriori del problema. Rende legittimi dei collegamenti d’una più sotterranea pertinenza fra la genesi dell’opera e la vita dell’autore - l’infanzia, soprattutto. Inoltre, dai tempi di Sainte-Beuve e di Taine, si sono fatti spesso più persuasivi e penetranti altri collegamenti, non verti-
cali e interiori bensî orizzontali e sociali: fra la genesi dell’opera e le appartenenze, o le non appartenenze, di classe, di gruppo, di nazionalità, di cultura, ecc. dell’autore come del suo pubblico primo. E per entrambe queste vie, rapporti nascosti di contraddizione e opposizione possono finire col risultare più significativi che gli ovvi rapporti di specularità o dipendenza. Come ha scritto Starobinski: «non è più il principio dell'emanazione o del riflesso che farà testo, ma il principio dell’invenzione instauratrice, del desiderio creatore, della metamorfosi riuscita. Occorre conosce-
re l’uomo e la sua esistenza empirica, per sapere a che cosa si oppone l’opera, qual è il suo coefficiente di negatività»*. 4]. STAROBINSKI, La relation critique, Gallimard, Paris 1975, p. 63.
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L’intimità e la storia
Ma anch'io nel mio piccolo, il piccolo dell’udienza d’un libro su/la letteratura anziché di letteratura, mi auguro di raggiungere qualche lettore non specialista: non scrittore, critico 0 studioso, semplicemente persona colta a cui piaccia e in-
teressi I/ Gattopardo. Se qualcuno cosî mi avesse seguito fino a questo punto, sarebbe sicuramente intento a chiedersi quale tipo di lavoro su un’opera corrisponda alla posizione di Proust in quella disputa. La cosa è meno chiara, suppongo, d’una corrispondenza della posizione di Sainte-Beuve col genere del ritratto fra letterario e biografico. Credo che non semplificherei poi troppo appellandomi al genere del commento - se non dovessi temere le associazioni scolastiche, e
l’obiezione che il testo del Gattopardo non è irto di difficoltà d’intendimento come quello di Dante. Che sia possibile e utile interpretare anche ciò che non è oscuro, ecco una proposizione nient’affatto pacifica nemmeno fra gli specialisti. Quanto al lettore non specialista, mi conviene pregarlo di arrivare con pazienza (o persino di partire) oltre la premessa, se vuole mettere quella proposizione alla prova. Cosî pure lo prego di prendere atto che solo per risparmiare a lui una complicazione, per non metterlo su una falsa pista, ho annunciato nel sottotitolo una lettura e basta: anziché una lettura freudiana, come nei titoli di miei libri precedenti. In realtà anche questa sarà formalmente una lettura freudiana, se è vero, come credo, che da Freud abbiamo ere-
ditato qualcosa come il modello stesso dell’interpretazione. Se è vero, comunque, che sua scoperta principale non è tan-
to quella di certi contenuti primari, erotici e simbolicamente fissi al fondo della nostra psiche, quanto delle forme logiche di pensiero alternativo alle quali ho già accennato’. For? Cfr. 1. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981, p. 105 e passi.
Premessa
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me logiche esclusive nel discorso dell’inconscio, mai estranee al discorso della coscienza, caratteristiche per ipotesi di quel discorso pur comunicativo e sociale che chiamiamo poetico o letterario. Nessuna preoccupazione: non è certo ri-
chiesto un consenso preliminare a cosî impegnativi postulati, per seguire l’analisi che condurrò sul Gattopardo. Piuttosto, è su una pluralità di consensi come quello eventualmente accordato a una particolare analisi, che si regge la plausibilità generale di quei postulati. In altre parole: sebbene, per me che scrivo, la questione di teoria freudiana della letteratura sia come sempre, sullo sfondo, la più importante*, a chi
mi legge basterà alla lettera far finta di niente. Come capita non di rado, quando in qualunque modo sia in gioco Freud - lo scopritore di tutto ciò che è vero, anche vistosamente vero, senza che ce ne rendiamo conto.
Il lettore non specialista stenterà a immaginare fino a che punto, freudiana o no, la lettura approfondita di un’opera singola sia diventata una pratica rara. Alle pratiche di moda che l’hanno messa fuori moda, o meglio al loro oggetto, si dà per lo più il nome di intertestualità. Ed è tutt'altro che vano investigare la dimensione che si apre fra testo e testo, fra testi e testi. Ogni letteratura deriva nello stesso tempo da precedente realtà e da precedente letteratura; non solo quest’ultima derivazione, ma entrambe, postulano accostamen-
ti e confronti. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, io ho impiegato anni a scrivere un grosso libro che dell’intertestualità è a suo modo un trionfo. Il sospetto comincia dove il passaggio continuo ad altri testi, pur illuminando la tra-
dizione che li determina e ne è determinata, non lascia spiraglio ad accrescimenti di comprensione di ciascun testo nella sua individualità. Pit oltre in questa direzione, quand’anche la serie dei passaggi non sia resa inservibile da voluto arbitrio “decostruzionista”, rischia di diventare fine a se stessa 6 Cfr. F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992.
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L’intimità e la storia
come una fuga. Una fuga da che? proprio dall’individualità dei testi, non incomparabile per complicata e delicata coerenza all’individualità delle persone umane. Tendenza a cui in Italia predisponeva un alibi ulteriore il culto un po’ troppo incombente della tradizione letteraria nazionale; ma tendenza internazionale, da ricondurre (possibilmente senza
compiacenza) a un “decentramento” del soggetto — soggetto-testo appunto come soggetto-uomo. Limitandomi all’individualità dei testi, vorrei richiamare con forza il dato em-
pirico che essa sola esiste “in natura”, se qui natura è la lettura. Chiunque ne fa una, ne fa ura: legge ur testo, non due alla volta e tanto meno tre o quattro. Il più illuminante degli accostamenti o confronti, se va al di là della reminiscenza spontanea in corso di lettura, non parte che come operazio-
ne riflessa da laboratorio. Perciò non è fisiologico che ne venga spodestata della sua ideale supremazia l’analisi unitaria. Nessun'altra giustifica altrettanto l’esistenza degli studi stessi, come mediazione più o meno diretta fra un patrimonio di classici e un pubblico. E nell’interesse del pubblico che intonerei con Figaro, e oggi agli studiosi di letteratura non si potrebbe canterellarlo abbastanza: uno alla volta, per carità!
3.
Tanto meno c’è da sorprendersi che un’analisi testuale propriamente “a tappeto”, come la intendo e l’ho preannunciata, non sia finora stata tentata sul Gattopardo. La sola eccezione parziale si trova nel libro imponente di Giuseppe Paolo Samonà’ (da pochissimo scomparso). Libro che afferma sin dal titolo una non esclusione fra l’attenzione all’opera e all'uomo; unisce infatti, alla polemica contro le reazioni della sinistra ufficiale italiana, apporti biografici non ® G. P. SAMONÀ, I/ Gattopardo, i Racconti, Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze 1974.
Premessa
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meno valevoli della lettura svolta da parte a parte del romanzo. Avrò da tenerne periodicamente conto, malgrado divergenze di metodo riassumibili in due punti: il rilievo dato al momento ideologico è maggiore, o più indipendente dalla riuscita estetica, di quanto non conceda io; le osservazioni sono distribuite in prevalenza nell’ordine delle parti, anziché per associazioni trasversali in ordine sparso. La bibliografia su Lampedusa conta ben due, se non tre, serie bio-
grafie"; è ormai d’una quantità, e talvolta qualità, cosî ragguardevole da produrre lo sgomento ordinario. L’interprete sulle soglie del testo si farebbe volentieri scudo d’un audace precedente di Spitzer («Io ho voluto accostarmi a Saint-Simon del tutto “impreparato”, come una tabula rasa, come un lettore dilettante [...]. Ecco un buon consiglio per i principianti: “Fate come se niente fosse stato scritto sul vostro argomento; e via libera allo scrivere!” »)?. Ma nell’insieme, con ogni felice eccezione, tra fortuna critica italiana e successo di pubblico mondiale resta una sproporzione che grida vendetta. La fortuna critica italiana ha fino a ieri escluso, o incluso in negativo, quasi tutti i nomi più rappresentativi — e “continentali”; la sovrabbondanza di siciliani (io stesso...) è
uno scherno per uno scrittore di formazione internazionale e atteggiamento antiprovinciale. Spesso Lampedusa è anco-
ra un “caso” dopo quarant’anni, sistematicamente viene posposto a scrittori “regolari” già datati. Di contro, il successo di pubblico sta per varcare i quarant'anni immutato, rendendo le prime accoglienze storia remota. Trascende l’Italia; è il solo a rappresentarla, innumerevoli volte, presso i letto8 4. viteLLo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 1987; D. GILMOUR, L'ultimo Gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano 1989 [The Last Leopard: A Life of Giuseppe di Lampedusa, Quartet Books, London - New York 1988]; ma inoltre, di G. Lanza Tomasi l’Introduzione e la Premessa a ciascuno degli scritti, nel volume che raccoglie (a nostra conoscenza di oggi) le opere complete: G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Opere, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1995, pp. XI-LI, 5-18, 321-36, 453-58, 527-77, 1333-54. Da ora in poi citerò,
da questo «Meridiano» Mondadori, con l'abbreviazione: MM. ? L. sPITZER, Saggi di critica stilistica. Maria di Francia/ Racine /Saint-Simon, Sansoni, Firenze 1985, pp. 280-81.
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L’intimità e la storia
ri stranieri. Fa del romanzo, insieme con Cent'anni di solitudine, e senza il fattore erotico di Lolita o politico del Dottor Zivago, uno dei tre o quattro libri del secondo Novecento che hanno travolto su scala mondiale lo sbarramento fra capolavori e masse. La storia letteraria, coi suoi variabili canoni, è appassio-
nante perché vi succede di tutto. Sull’asse del tempo: scrittori che dopo un secolo o più di celebrità cessano di esser letti (Ossian); scrittori promossi di rango molto più tardi della fama che godettero da vivi (Laclos); scrittori inattuali nella loro epoca e destinati a durevole attualità postuma (Stendhal);
scrittori clandestini la cui grandezza si direbbe fuori dal loro e da ogni tempo (Saint-Simon). Sull’asse dello spazio: scrittori presi nel divario fra la lingua che scrivono e una nazionalità diversa (Conrad); scrittori cosî intraducibili da esser lettera morta fuori patria o fuori lingua (Racine); scrit-
tori di maggior prestigio tradotti all’estero che presso i lettori dell’originale (Poe). Ora, se Lampedusa è un grande narratore lo è per definizione nella propria lingua; eppure, si | potrebbe dire che non appartiene alla tradizione letteraria italiana. Beninteso, lo si potrebbe dire per quel tanto che è distinguibile dal maneggiamento della lingua la gestione del racconto, dei personaggi, delle immagini, del tempo, dei temi ricorrenti, soprattutto dell’umotismo e della psicologia. Potrebbe essersi trattato, supponiamo, di un nobile almeno 29
a metà inglese (come il suo Don Fabrizio è a metà tedesco),
educato in Italia quanto era sufficiente per impadronirsi superbamente dell’italiano. E viceversa, sia detto di passaggio: se il romanzo ci fosse arrivato come traduzione dall’inglese o dal francese, già accreditato altrove, esentato a priori dai
dettami italiani sia ideologico-politici che estetico-critici, è probabile che l’omaggio dei recensori sarebbe stato unanime. Chissà che la sopravalutazione della sua sicilianità non sia in qualche modo anche una risposta, provincialmente deviata ed equivoca, allo stato di cose in questione. Anagrafe a parte, l'aver ambientato I/ Gattopardo tutto in Sicilia non
Premessa
II
fa di Lampedusa uno scrittore siciliano, cioè sempre italiano, più di quanto non faccia uno scrittore italiano di Stendhal l’aver ambientato tutta in Italia La Certosa di Parma. Non mi fa piacere la certezza che queste affermazioni saranno accolte come paradossi, e mi domando a quali condizioni cesserebbero di passare per tali. Primo: non è colpa dei siciliani, ma bisognerebbe che la loro percentuale, fra gli studiosi di Lampedusa, cessasse di superare tanto la percentuale di triestini fra gli studiosi di Svevo o di lombardi fra quelli di Gadda - potrei prendere nomi anche meno eminenti. Il verificarsi d’una seconda condizione è più immancabile. Si consideri che le lezioni inglesi sono pubblicate dal 1990-91, quelle francesi integralmente solo dal 1995. La loro mole di pagine occupa pit di tre quarti del voluminoso «Meridiano» Mondadori; ci vorrà tempo prima che ne vengano tratte tutte le conseguenze, e che si ripercuotano adeguatamente sull’immagine di Lampedusa. E rarissimo che uno scrittore si sia pronunciato su cose di letteratura cosî per disteso e con
tanta libertà, non pensando lontanamente alla stampa, come avviene in queste conversazioni spiritose, capricciose, aned-
dotiche, non esenti da plagi a scopo pedagogico, mai però noiose, sempre lampeggianti d’intelligenza e testuale e storica. Ora, in esse la cultura italiana, piaccia o no, svolge di
frequente la funzione contrastiva d’una cultura straniera un po’ secondaria. Il fatto davvero estraniante non è tanto che essa venga tacciata, con le debite eccezioni, di accademismo, verbalismo, impopolarità e cessione di cattiva popolarità al melodramma. Nemmeno è che ne vengano tratti cosî spesso termini di paragone soccombenti, soprattutto di fronte a esempi inglesi. E che la massa mostruosa di letture in altra lingua, soprattutto in inglese (incomparabilmente eccedente, per intenderci, il bagaglio medio dei professori universitari), non può non dare l'impressione d’una mente posseduta, impregnata, fecondata, accaparrata per tutta la vita da quel mondo di modelli. Ecco perché l’aerolito postumo, nel 1958, colse di sor-
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L’intimità e la storia
presa e disturbò duramente l’istituzione letteraria italiana. Ci si difese pretendendo che derivasse da un’altra epoca; in realtà derivava da un altro pianeta, non troppo ben localizzabile. L’anziano principe squattrinato che viveva come esilio una reclusione in Palermo non pit alleviata da viaggi, che si sfogava lamentando causticamente la difficoltà di procurarsi in tempi ragionevoli i libri, era il meno partecipe dei contemporanei rispetto alle vicende del dopoguerra neorealista nazionale. L’ispirazione lentamente maturata del Gattopardo ha tanto poco rapporto con esse quanto ne aveva, con la scrivania del re Borbone ingombra di pratiche e di decisioni da prendere, quel torrente delle sorti che invece irrompeva per conto suo, in un’altra vallata. Tra l’afosa vallata della solitudine a Palermo, e le ingombre scrivanie editoriali di Milano, già stabilire il contatto era arduo. Il favore del caso, che meno di tre anni prima era favolosamente arriso al cugino Lucio Piccolo con Montale, non si sarebbe ripetuto per Lampedusa — della cui vita la sfortuna fu una costante. Da parte sua e del cugino i tentativi di varo del romanzo, non ancora completo, furono presuntuosamente maldestri al punto da scusare in minima parte la cecità dei rifiuti. Gioacchino Lanza Tomasi, il figlio adottivo, ha scritto con ragione che i diciotto mesi tra la spedizione dell’ultimo dattiloscritto e la pubblicazione «non sarebbero poi stati troppi se la morte non fosse stata più lesta», che «la tragedia è affatto umana, non letteraria»!°. Pure, indulgiamo un attimo a far la storia coi se: se Lampedusa fosse vissuto poco più a lungo, se l'uscita del Gattopardo anziché accelerare la crisi del neorealismo l’avesse aspettata, forse che negli anni del gruppo "63 il romanzo sarebbe stato accolto come meno anacronisticamente fuori luogo? 1° In MM, p. 10.
Premessa
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4. Mi sono già imbattuto di passaggio, era inevitabile, in quasi tutti i pregiudizi che fino a ieri hanno afflitto la fortuna critica italiana del Gattopardo. Conviene farne l’enumerazione integrale - sebbene non tanto ora in pochi paragrafi si possa sperare di confutarli, quanto indirettamente attraverso l’intera analisi del romanzo. Ne distinguerò in astratto quattro o cinque, moltiplicati in concreto da una numerosa combinatoria di partiti presi e forze d’inerzia. Per abbreviare la pars destruens, che a me nei libri altrui riesce di solito noiosa, risparmierò al massimo nomi e riferimenti bibliografici relativi a ciascuna delle varie polemiche. Cominciamo dai pregiudizi non incompatibili col successo di pubblico, germinati anzi da faciloneria di lettori nel silenzio di voci qualificate che facessero il punto. Il pregiudizio che chiamo biografistico, e di cui ho subito detto quanto sia istintivo, parrebbe trovare pieno avallo in tre lettere di Lampedusa: «dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me stesso»; «il protagonista sono, in fondo, io stesso»; «il protagonista, Don Fabrizio, esprime completamente le mie idee »!!. E come avrebbe potuto l’autore, a prodotto neanche finito, non applicarsi con esultanza il suo prediletto Sainte-Beuve, scrivendo in Brasile a un vecchio amico ingegnere al quale si trattava di dare un’idea in due righe? Per sovvertire Sainte-Beuve in Proust o in Freud, basta chie-
dersi cosa veramente significhi i0 stesso. Come l’evidenza dice che Don Fabrizio è l’io del romanzo, cosi dice che ric-
chissimo, politicamente influente, padre di famiglia, donnaiolo, astronomo premiato, 07 è Lampedusa impoverito, emarginato, solitario, frustrato nel sesso, dilettante scono-
sciuto. Ma appunto di tutto ciò che il personaggio non è, è il risvolto — ed è compenso l’averlo creato. Le stesse sempli1! In vireLLo, Giuseppe Tomasi cit., pp. 229:30.
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L’intimità e la storia
ficazioni epistolari che il testo del romanzo falsifica, sono rivelatrici della genesi privata di esso, della fantastica riuscita d’un appagamento di desiderio!?. Quanto alle idee, rispettivamente di personaggio e d’autore, sarà meglio rimandarne all’analisi del testo l’ancor più complessa questione. L’altro pregiudizio che si direbbe cresciuto insieme al successo, è quello che chiamo imzobilistico. E arrivato a introdurre parole nuove nella lingua politica, giornalistica, corrente, e di riflesso nei dizionari italiani: gattopardismo e gattopardesco, nel senso che tutti sappiamo'’. Un pregiudizio diventato lingua è definitivamente incorreggibile - da quanti secoli sarebbe vano voler purgare del loro senso deteriore machiavellismo e machiavellico? Questo illustre caso è però meno arbitrario: nel nostro caso, non all’autore ma al pubblico stavolta, va imputata di nuovo una confusione fra opposti. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. La decadenza dell’aristocrazia siciliana cominciò con quelle astuzie compromissorie che, all’abolizione della feudalità nel 1812, si lusingarono di rendere innocua la novità, non tardando a tradursi in danni o rovina. Dopo il 1860, la decadenza non fu arrestata dai compromessi che la stessa classe faceva col nuovo governo sabaudo”. La frase di Tancredi a Don Fabrizio, progetto e miraggio, previsione più falsa che vera, dice dunque storicamente il vero. De Roberto non è passato in proverbio per aver fatto parlare il Consalvo dei Vicerè di mutamento «pit apparente che reale»: e non all’inizio del suo romanzo ma a conclusione, con cinismo
!? Cfr. Louis Aragon nel suo primo articolo su Lampedusa (Un grand fauve se lève sur la littérature: Le Guépard [Un gran felino sorge sulla letteratura: Il Gattopardo], in «Les Lettres frangaises», 17-23 dicembre 1959), in M. BERTONE, Tomzasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo 1995, p. 212; e SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 120-21. ! Cfr. N. LA FAUCI, Analisi e interpretazioni linguistiche del «Gattopardo», in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1993, pp. 1152-55, 1157-58. ! Cfr. F. RENDA, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, I. I caratteri originari e gli anni della unificazione italiana, Sellerio, Palermo 1987, pp. 74-75; e vedi vireLLO, Giuseppe Tomasi cit., pp. 15-16, GILMOUR, L'ultimo Gattopardo cit., pp. 19, 25. 1? Cfr. RENDA, Storia della Sicilia, I cit., p. 190 e passim.
Premessa
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quindi meno fallace!. Nel Gattopardo, d’altra parte, lo zio lega alla frase del nipote le sue personali speranze d’una permanenza di tradizioni e valori. In questo senso, vedremo analizzando il testo quante peripezie la frase attraversi, e come sia destinata, verso la fine, a una disperata smentita. Per ora
basta constatare che la vulgata ha trasformato in morale della favola una proposta tre volte infida: non inventata dal libero arbitrio del narratore, non convalidata dagli sviluppi ultimi del racconto, conforme alla materia storica soprattutto come illusione. L'autore ha pagato per la classe dei propri antenati che di fatto denunciava, e l’assurdo dell’equivoco stavolta non è innocente. Non sarebbe dilagato fin dall’inizio se non fossero scivolati, dalla critica al gran pubblico semplificatore, gli echi insistenti di un pregiudizio che a mala pena si distingue da questo. E il pregiudizio che a sua volta chiamo ideologico. La critica italiana di sinistra perse col Gattopardo un’occasione d’oro, e non per tacere. Aveva a sua disposizione la pagina famosa di Engels: dove il contrasto fra le idee conservatrici di Balzac, e quello smascheramento che è la sua rappresentazione narrativa della società francese, viene risolto in netto favore di quest’ultima. Passa cosî quasi per necessaria la
coincidenza fra grande arte e arte di sinistra; termine mediatore, il dire la verità. Engels lo chiama «trionfo del realismo», io inclinerei a un’espressione di derivazione freudiana come «ritorno del represso», ma in fondo non è il nome che conta. Conta un modello, di gran lunga il più interessante fra le pochissime indicazioni di teoria dell’arte presso i fondatori del marxismo. Esso libera virtualmente lo specifico d’un linguaggio letterario dalla greve ipoteca extraletteraria dell’ideologia, situando nell’uno e non nell’altra il momento di verità proprio dell’opera d’arte. Senza 16 E. DE ROBERTO, Romanzi, novelle e saggi, Mondadori, Milano 1984, pp. 10991100. 1 K. MARX € F. ENGELS, Scritti sull'arte, Laterza, Bari 1970, pp. 161-62.
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L’intimità e la storia
nemmeno uscire dalla cerchia dei testi canonici, dunque, il
modello che pare fatto apposta per un romanzo come I/ Gattopardo c’era. Perché mai in Italia Fortini, come se il suo acume in questo caso si fosse esaurito nell’intuirne la pertinenza, si affrettò a decretarlo inapplicabile!*? In Francia Aragon, non certo immacolato quanto a precedenti di settarismo, e quindi forse non disinteressato!’ (ma che importa ?), prese con foga il solo partito da prendere “Molti scrittori ortodossi di sinistra} distinse, «non mi permettono di capire il meccanismo del mondo sociale in cui vivo, mentre al contrario tutta l’arte di un duca di Palma [Lampedusa] o di un Balsan
mascheratosi sotto il nome di Honoré de Balzac, consiste
proprio nel capire l'evoluzione della società. Qualunque siano le loro idee personali, fossero anche reazionarie, la loro
opera è trascinata nel movimento reale della storia...»?°. Il modello era implicitamente lo stesso prima, quando Aragon aveva riferito un suo scambio di battute con Moravia: questi gli parlava del Gattopardo come di un «successo di destra», la sua replica fu «che bisognava prendersela colla gente di sinistra che non era riuscita a farne un successo di sinistra»?!.
Il solo pregiudizio che in Italia potesse rivaleggiare col precedente nel far danno, è stato meno loquace e ancor più tenace. Lo chiamo sperimzentalista, imparentando deliberatamente le riserve, verso ciò che non è sperimentale, d’una letteratura militante e d’una critica designabile all’ingrosso co-
me formalismo italiano. La transizione dal neorealismo alla neoavanguardia non doveva in effetti cambiare niente in meglio, per il Gattopardo da poco uscito. Malgrado ogni con-
!* F. FORTINI, Contro «Il Gattopardo», in m., Saggi italiani, De Donato, Bari
1974, PP. 244-45.
!° Cfr. 1. MARGONI, I/ «Gattopardo» in Francia, in «Belfagor», 1960, pp. 536-43. Ibid pisda: 2! Ibid., p. 541: è il secondo articolo di Aragon su Lampedusa (Le Guépard et la Chartreuse [Il Gattopardo e la Certosa], in «Les Lettres frangaises», 18 febbraio 1960, trad. it. su
«Rinascita», 30 marzo).
Premessa
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trapposizione fra i due momenti, pari restava l’avversione a creazioni antropomorfiche pluridimensionali - in parole povere, a un approfondimento psicologico moderno di personaggi. Cosa di cui invece avevano fornito alta emulazione d’esempi i più cari a Lampedusa d’una ben altra trascorsa “avanguardia”: la svolta narrativa, europea o americana, d’inizio secolo.
Nominerei James, Proust, la Woolf - lo stes-
so Joyce, per quel tanto che in arte certi effetti o fini non s’identificano senza residuo con certi mezzi. Lo sperimentalismo dei quali era tutt’altro che impervio per Lampedusa lettore; direi che a segnare il suo limite generazionale fosse, semmai, il surrealismo. Allo scrittore, la sperimentazione era preclusa da una precisa componente della sua poetica, un’esigenza di comunicazione trasparente alle cui probabili ragioni intime verrò fra poco. Per Montale, il cui immediato riconoscimento restò un vertice isolato, il romanzo «rivela un artista maturo e aggiornatissimo»: un superlativo in lieve con-
trasto con l'affermazione che «è difficile trovare antecedenti al Gattopardo», seguita da due indicazioni siciliane”. All’inverso, Contini ha il merito di minimizzare queste ultime, di rinviare a una «grande generazione passata» col nome di Proust; ma, non riconoscendone se non la versione di-
vulgativa in un’opera crocianamente definita «d’intrattenimento»”, obliquo modo per penalizzare l'assenza di sperimentazione, risulterà micidiale. Renderà tabi per la legione dei suoi allievi diretti e indiretti, depositari della tradizione critica nazionale, l'interessamento e l’approccio formale al romanzo. Nel campionario di abnormità della storia letteraria abbozzato prima, questa rischiava di configurarsi, sull’asse del tempo, come un intreccio di effimeri finalismi che si disdicono a turno: è quel che può, di un’opera non sperimentale, fare un’opera “attardata”. 22 E. MONTALE, I/ secondo mestiere. Prose 1920-1979, II, Mondadori, Milano 1996, pp. 2170-71 (il corsivo è mio). 2 G. CONTINI, La letteratura dell’Italia unita, Sansoni, Firenze 1968, p. 887.
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L’intimità e la storia
Ci voleva Contini, sensibile alla derivazione della lette-
ratura da precedente letteratura, e non da precedente realtà, per azzerare ogni ascendenza narrativa isolana del Gattopardo in «casuale coincidenza geografica». È la smentita dell’ultimo pregiudizio da affrontare (senza confonderlo con la meridionalità dei critici): quello che chiamo regionalista. Smentita che non giudico troppo recisa, se non in quanto non sono insensibile alla derivazione della letteratura da precedente realtà. Una comunanza di referenti reali è valida base di confronto fra testi; lo è tanto pit se mette in risalto la disparità di poetica, di codice, di esito letterario. Salva questa disparità, quella comunanza rende più o meno comparabile I/ Gat|topardo a tre romanzi siciliani d’altra epoca: Mastro-don Ge|sualdo di Verga, I Vicerè di De Roberto, I vecchi e i giovani |di Pirandello. Col secondo, l’abbiamo visto, c’è in qualche punto convergenza come può esserci col racconto degli storici. Tutti e tre gli autori guardano, all’aristocrazia esautorata, dall'esterno: in più d’un senso. In senso affettivo e ideologico, per loro estrazione sociale e orientamenti politici. In senso formale o narratologico, non perché lo sguardo non entri e soggiorni nei vecchi edifici in Verga e Pirandello, non vi sia ininterrottamente di stanza in De Roberto. Ma proprio in quest’ultimo, a visione ambientale ravvicinata, un determinismo comportamentale da grande discepolo di Zola osta a ogni introspezione; un distanziamento caricaturale da altra classe fa, della classe in scena, un’accolta di maniaci.
Lampedusa si espresse sul confronto in una delle lettere citate: «il punto di vista è del tutto differente: il Gattopardo è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni libellistiche di De Roberto». Da/ di dentro: meglio che all’autore, lascerei l’ultima parola all’esperienza dei lettori. L’euforica familiarità di ambienti godibile in Lampedusa, si stacca dalla loro estraneità polverosa, oppressiva, stravagante in Verga, De Roberto e Pirandello. Chi, # In vrreLLo, Giuseppe Tomasi cit., p. 230.
Premessa
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libri in mano, ha mai abitato, desiderato abitare le dimore dei Trao, degli Uzeda, dei Laurentano? Chi zor ha abitato, de-
siderato di farlo (per grigia e angusta che fosse la propria dimora), la villa luminosa di S. Lorenzo o lo sterminato palazzo di Donnafugata” ? 5.
Quanti diversi pregiudizi verso un romanzo solo, si dirà,
e per di più arcivenduto e famoso! Se non ho torto io a enumerarne tanti, sa di inverosimile che abbiano torto tutti:
qualcuno di essi, semplicemente, non sarà un pregiudizio. Rispondo invitando a una riflessione interrogativa. Domandiamoci se fra le caratteristiche del testo, della sua genesi, della sua diffusione, ce ne sia qualcuna a partire dalla quale siamo in grado di spiegarci, almeno in parte, #7 i pregiudizi passati in rassegna - e di spiegarci insieme, a dispetto di essi tutti, tanto successo. Domanda naturalmente retorica:
la caratteristica cosf miracolosamente chiarificatrice a mio avviso esiste, non ha niente di miracoloso, ed è una sola. I/
Gattopardo è, su scala europea, da quando può dirsi un fatto compiuto il ricambio di classe dominante che si svolse attraverso l’Ottocento e ne occupò in abbondanza la narrativa, il solo romanzo scritto da un aristocratico, sul passato re-
cente della propria classe, con punto di vista totalmente interno a essa. Ecco tutto. Questo giustifica il pregiudizio biografistico, in quanto per l’autore l'operazione creativa fu una compensazione immaginaria alle perdite economico-sociali che facevano la storia della sua vita. Il pregiudizio immobilistico, in quanto esso non fa che capovolgere il fatto che l’aristocrazia fosse stata, come classe, la sola in due secoli a conoscere un cambiamento irreversibile di statuto. Il pre25 Cfr. già la recensione di L. BLASUCCI, in «Belfagor», 1959, p. 119; € L. RUSso, Analisi del «Gattopardo», in «Belfagor», 1960, p. 523. Di contro: R. CAPUTO, Un tema di politica culturale degli anni sessanta: Il Gattopardo, in Il piccolo Padreterno. Saggi di lettura dell’opera di Pirandello, La Goliardica, Roma 1996, pp. 221-23.
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giudizio ideologico, in quanto la sinistra, disturbata dal potente richiamo di massa del privilegio perduto, non seppe che razionalizzare quale alternativa l’antipatia piccolo-borghese. Il pregiudizio regionalista, in quanto era normalizzante un’assimilazione ai siciliani che, in epoca narrativa lontana, avevano mostrato lo stesso processo stando dalla solita parte, dall’altra. Il pregiudizio sperimentalista, in quanto esso prende per attardata l’esigenza di comunicazione di cui ho parlato, e che svela tutto il suo senso anticonvenzionale solo in relazione alle premesse di classe del romanzo; quindi, per le stesse ragioni che impongono di contare questo tipo di premesse anche fra le maggiori motivazioni del successo. Dovrò, in proposito, spiegarmi meglio via via.
Lanza Tomasi ha attestato un timore nutrito dalla principessa vedova: «che l’ostentato senso di classe che circola i nel romanzo avrebbe suscitato reazioni ostili». Timore infondato; anzi, «il fatto su cui occorre riflettere è che la rivinci-
ta del romanzo provenne dal basso, cioè da una massa di lettori in continuo, addirittura esplosivo aumento». Occorre si riflettere. Un connubio letterario talmente decentrato, fra
estremi di aristocrazia e di democrazia, non si lascia liquidare col concetto di snobismo collettivo. L’antipatia piccolo-borghese è certo convertita in snobismo, per esempio, nei modesti lettori a beneficio dei quali ogni rotocalco riserva tanto spazio alle famiglie reali. Ma costoro non compiono la minima autentica esperienza di alterità: l’invidia che sublimano è rosea quanto aproblematica; sulle altitudini del pettegolezzo spettacolare, proiettano sé con chi è omogeneo a loro. Non cost il lettore del Gattopardo. Qualunque ne sia la cultura, viene di necessità iniziato a un’esperienza che il testo gli presenta come tipicamente 4/tra — nell’esatta misura in cui sul versante dell’autore viene rivissuta come gelosamente propria. Forse è ciò che intuf l’entusiasmo di E. M. °° G. LANZA TOMASI, «I/ Gattopardo»: un romanzo quale soluzione della discrepanza fra realtà e desiderio, in «Forum Italicum», primavera 1987 (Specia/ Issue on «The Leopard»), p. 13.
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Forster per il romanzo: «Leggendolo e rileggendolo ho capito quanti modi ci sono di essere vivi, quante porte, chiuse per uno, che il tocco di un’altrui mano può aprire»”. Non direi neppure che sia come quando viene aperto al pubblico un edificio monumentale finora inaccessibile: questo si congelerà in un qualche vuoto d’inappartenenza, mentre, a una prosa narrativa che lo meriti, freschezza estraniante e pienezza nutriente sono promesse in eterno. È chiaro allora a che cosa l’esigenza comunicativa sia rigorosamente funzionale, senza sperimentalismi, né intorbidamenti di sorta d’una
razionale, ospitale, signorile trasparenza: all'ammissione dei profani in un dominio riservato. In Proust, l'orgoglio del barone di Charlus si umilia con poco successo a vantare da sé antichità di casato, ogni volta che l'omosessualità lo fa pervenire lontano dal suo mondo. Nel Gattopardo l’autoapologia dei perdenti, storicamente quasi didattica (vi dico io com’era...), ha retto la sfida di pervenire a tutto un mondo lontano. Lanza Tomasi non esagera la popolarità dell’approdo: «Lampedusa che detestava il melodramma aveva col suo libro raggiunto invece un risultato affine, un consenso nazionale...» A sua volta la limpida sincerità dei bellissimi Ricordi d’infanzia, la cui stesura interruppe e rilanciò quella del romanzo, è per le stesse ragioni un wricurz in altro genere letterario, la memorialistica. Lo è per l’Europa occidentale, non contando cioè Tolstoj; nondimeno, c’è all’inizio delle Me-
morie d’oltretomba di Chateaubriand la straordinaria rievocazione della vita quotidiana in un castello (Lampedusa non
mancò di farmene ammirare nella lettura ad alta voce le pagine più belle). Ma Chateaubriand scriveva dopo la rivoluzione francese, rievocando a distanza non solo cronologica 27 In saMONÀ, I/ Gattopardo cit., p. 415. 28 LANZA TOMASI, «Il Gattopardo»: un romanzo quale soluzione cit., p. 13. 2) E. R. DE CHATEAUBRIAND, Merzorie d’oltretomba, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, t. I, pp. 86-90 e passizz [Mémoires d’ Qutre-Tombe, Flammarion, Paris 1964, t.I, pp. 106-11 e passirz].
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l’antico regime. È simbolico che aleggi sulla quotidianità della sua adolescenza, retrospettivamente e in anticipo al tempo stesso, la decadenza di classe. Simbolico significa che obbedisce alla regola secondo cui la decadenza di classe è tema borghese per eccellenza nell'Ottocento: riferito alla classe antecedente, è il presupposto dei progressi di quella ascendente; riferito alla borghesia stessa, riverbera un’ossessione
di precarietà dal passato sull’avvenire?. Se una grande espropriazione di monasteri dette secondo Marx formidabile impulso all’«accumulazione originaria» del capitale”, espropriazioni feudali non meno copiose inaugurarono, testimoni i narratori ottocenteschi, l’instabile frequenza di appropriazioni e riespropriazioni del capitalismo. Frattanto, la borghesia propendeva a far suoi per imitazione i modelli nobiliari, di millenario prestigio, ben più che a darsene di propri: testimoni ancora i narratori —- in particolare Stendhal, e poi Proust, lettissimi da Lampedusa. La riuscita del Gattopardo presuppone senza dubbio la cornice da tempo codificata di questa tematica. A modernizzarla, apportandovi una variazione essenziale, è la struttura cronologicamente ellittica del romanzo (da considerare come terminato sino in fondo, mal-
grado la malattia mortale fosse arrivata). Il salto dal 186062 delle prime sei parti al 1883 della penultima, al 19I0 dell’ultima, elude lo svolgimento graduale della decadenza prevista o avviata. Indugiando nel restaurare circostanze e ambienti «in un’integrità anteriore alla crisi»”, il romanzo resta quale, secondo Marguerite Yourcenar, un romanzo storico può soltanto essere nel Novecento: «immerso in un tempo ritrovato, presa di possesso d’un mondo interiore»”. ? Cfr. F. oRLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1994, pp. 304-37 € passim. i 7 K. MARX, I/ Capitale. Critica dell'economia politica. Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 784-86. ? ORLANDO, Gti oggetti desueti cit., p. 461. ? M. YOURCENAR, Camets de notes de «Mémoires d’Hadrien», in m., Euvres romanesques, Gallimard 1982, p. 527.
Premessa
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Vale la pena di chiedersi come mai un libro a cui attribuisco questa principale caratteristica sia stato scritto a Pa-
lermo, e come mai a metà degli anni cinquanta. È noto che a Palermo, in Sicilia occidentale, vuoldire in una delle peri-
ferie europee dove l’enormità del possesso feudale terriero si era protratta più tardi; dove, con parole del liberale toscano che nel 1876 vi condusse un’inchiesta chiaroveggente, la società «immediatamente dopo l’abolizione della feudalità, aveva tutti i caratteri di quelle dei rimanenti paesi d’Europa nel Medio Evo». Lampedusa nato nel 1896, disceso da una famiglia eminente almeno dal Seicento, era personalmente sî un attardato quanto a profondo condizionamento geografico-sociale. Bisogna rifarsi a questo, e non basta addurre impotenza e nevrosi, per comprendere che un uomo della sua levatura non sembri essere stato sul serio tentato in tutta la vita di trovarsi un lavoro che gli si addicesse. A parte la militanza nella prima guerra mondiale, sola eccezione fu nel secondo dopoguerra la carica di presidente regionale della Croce Rossa, tenuta con perfetta responsabilità ma per poco più di due anni”, Il trauma per lui più terribile lo colpî, come molti altri di cui sappiamo, sempre nella sfera dei possessi, tradizioni e ricordi di famiglia: il bombardamento, nel 1943, della sua casa in città. Nelle vicende esteriori dell’infelicissima vita c'è ben poco, compresi i molti viaggi e la molta solitudine, che oltrepassi l’appartenenza di classe e di regione. Di contro, la cultura individuale alla cui conquista aveva senza posa lavorato era internazionale, aggiornata, scaltrita, eclettica, smisurata. Dovrebbe diventare meno paradossale la mia affermazione che il suo capolavoro non appartenga alla tradizione italiana - nel cui risveglio borghese postrisorgimentale rientravano invece i veristi catanesi e Pirandello. Rispetto a lui l’Italia, almeno quella centroX L. FRANCHETTI, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Donzelli, Roma 1993, p. 76.
* Cfr. saMoNÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 445-47; viteLLO, Giuseppe Tomasi cit., pp. 151-52; GILMOUR, L'ultimo Gattopardo cit., pp. 98-100.
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L’intimità e la storia
settentrionale dove fiorî la più precoce borghesia d'Europa, era avanzata di secoli da prima che lui nascesse. Di contro,
l’Italia umbertina in cui era nato poteva a buon diritto apparire arretrata all’intellettuale adulto. Sul provincialismo dell'Ottocento letterario italiano, le lezioni inglesi pullulano di tirate e frecciate ancor più divertenti che amare. Infine, osservo che alle date dei romanzi di Verga, De Roberto e Pirandello, entro cinquant’anni dal 1860, un punto di vista interno all’aristocrazia sarebbe mal pensabile disgiunto dal legittimismo borbonico. E non si ebbe niente di simile. L'osservazione vale in un ambito maggiore: la Fran-
cia postrivoluzionaria ha avuto, da Chateaubriand a Céline, cosa inconcepibile da noi, una ininterrotta grande letteratura di destra. Ora, l’unicità che ho attribuita al Gattopardo è internazionale,
e neanche nel romanzo francese trova vere
eccezioni. Il sottinteso o l’istanza politica, in generale, non sembrano propizi al rittovamento d’un tempo o mondo interiore lontano. Nel 1954, la distanza anche dal più tardivo antico regime andava al di là non solo di ogni legittimismo,
ma di ogni destra sia perbene che efferata. Si erano succedute due guerre mondiali, dopo la prima i tremendi anni trenta dei fascismi e di Stalin, dopo la seconda un dopoguerra in cui l’anticomunismo da noi aveva preso il nuovo, ibrido, generico volto democristiano. L'epoca delle guerre e rivolgimenti in Europa appariva chiusa; la stabilità mediocre e prospera doveva dare, a un uomo della generazione e mentalità di Lampedusa, un senso di depressione rassicurata, di pacificato involgarimento. Gli stimoli esterni a scrivere, come il successo del cugino, caddero in un terreno reso fecondo dalla definitiva lontananza del passato - lo stimolo interno della malattia imminente restando come sempre misterioso. Era tempo che la letteratura, ritorno del represso, sostituzione del reale e trasgressione delle sue leggi, desse il cambio all’imperativo di classe d’un innato riserbo: il compito non sarebbe stato da nobile letterato, ma da letterato nobile. Il colpo di genio fu, lo vedremo, l’invenzione d’un protagonista nel-
Premessa
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la cui coscienza fosse curiosità perpetua essere immessi, con
le cui contraddizioni fosse obbligo simpatetico fraternizzare. Forte di tale invenzione, Lampedusa deve aver ceduto alla spinta creativa come chi si lascia andare a divulgare un segreto. L’ostentato apologeta della sua classe ne era un po’ il traditore indiscreto; le reazioni ostili che suscitò andarono
sprecate contro il fascino d’una prolungata confidenza. E la trasparenza che poté sembrare di tipo «vecchiotto»” in un presente oggi invecchiato, che sarebbe meno avvincente se davvero emanasse all’antica da una sicurezza, deve invece la
sua modernità duratura al fatto di emettere tutto il tempo un appello. 3 La parola è nella nota lettera di Vittorini all’autore: cfr. vireLLo, Giuseppe Tomasi cit., p. 249.
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Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
Qualsiasi lettore riconoscerebbe che I/ Gattopardo è, con eccezioni che non infirmano la verità d’insieme, un roman-
zo centrato sul suo protagonista. Ma cosa vuoldire protagonista, dal momento che il romanzo, come molti altri del Novecento, non sviluppa in senso tradizionale una trama? A
formarne una, non concorre quel tanto che emerge nel racconto delle vicende politiche collettive, e meno ancora delle vicende familiari in senso economico. A stento potrebbe far parlare di trama il triangolo amoroso fra Concetta, Tancredi e Angelica, rapidamente risolto com'è, e destinato a prolungamenti radi e muti. Nient'altro c’è che susciti e alimenti un’attesa di ordine strettamente narrativo. E dunque necessario ammettere che i lettori del romanzo, a milioni, si
siano interessati soprattutto a qualcosa di più fluido e insieme di più discontinuo che una trama. E non saprei a che cosa, se non a questo: al riflesso intimo d’un tempo quotidiano, storicamente significativo, entro una coscienza — quella
appunto di Don Fabrizio'. Coscienza di cui, quando è in campo, una convenzione narrativa in atto fin dalle prime pagine ci fa presumere che ne apprendiamo press’a poco tutte, e press’a poco sempre, le reazioni. ! L’analisi più acuta del romanzo nella fase immediatamente successiva alla «pubblicazione, quella di BLASUCCI, recensione cit., è tale proprio perché coglie l’originalità del «contrappunto di biografia privata e di quadro storico, di psicologia di un personaggio e di costume di un’epoca» (p. 119); e perché tale contrappunto re-
sta al centro dell’attenzione, e non è mai del tutto negato, anche dopo che lo si mette in discussione opinando che la «felice fusione» dei due elementi permarrebbe inalterata solo nelle prime tre parti, e che nel resto sarebbe lecito distinguere «romanzo storico» e «romanzo psicologico» (pp. 119-21).
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L’intimità e la storia
Per fronteggiare immediatamente il compito di caratterizzare questa coscienza, anticipando sulle citazioni che cominceranno a moltiplicarsi presto, parto da un’osservazione generale. Don Fabrizio si definisce come personaggio travagliato da un’imbarazzante contraddizione interna. Da una parte, in un antico regime ancora vigente alla partenza del racconto, regime per eccellenza autoritario, è un rappresen-
tante supremo dell’autorità: principe, grande feudatario, familiare del re, pari del regno, capo d’una famiglia fra le più antiche ed eminenti, con tutte le responsabilità di marito, di
padre, di zio-tutore. D'altra parte, ha un carattere propenso alla riflessione, all’astrazione e alla contemplazione, ri-
luttante alle scelte nette, all’abbandono impulsivo e all’azione pratica. Un carattere, insomma, da intellettuale; cosa san-
cita ufficialmente dalle sue attitudini, professionali o quasi, di astronomo”. Una cosî fondamentale contraddizione si deve pensare come preesistente al momento in cui parte il racconto, sebbene appaia aggravata al massimo dalle circostanze di esso. Non si tratta, infatti, d’un normale momento di continuità e di pace; al contrario, esso è politicamente tale che richiederebbe esercizio pronto, risoluto, ininterrotto di
decisione e di attività. ? La critica sembra aver visto pit questo aspetto del personaggio, che la contraddizione con quell’altro. Sciascia in un’intervista del 1970: «si immette nella letteratura italiana un protagonista che è un “eroe intellettuale”, un personaggio intelligente»
(cit. in P. SQUILLACIOTI, Leonardo Sciascia e «Il Gattopardo», in «Gal-
leria», gennaio-aprile 1993, p. 74); SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 155-56, sul protagonista astronomo (e non per esempio poeta); G. MACCHIA, Le stelle fredde del «Gattopardo», in Saggi italiani, Mondadori, Milano 1983, pp. 351-53, collega alla qualità di astronomo l’immobilità, non reazionaria, del personaggio; N. zAGo, I Gattopardi e le Iene. Il messaggio inattuale di Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo
1983, p. 40: «diventa legittimo leggere il romanzo anche come una prolungata me\etafora della progressiva marginalità sociale dell’intellettuale, se fra l’altro si considera che ne è protagonista, e non certo a caso, un astronomo,
insomma una vera
figura di scienziato»; v. SPINAZZOLA, La stanchezza dell’ultimo Gattopardo, in Il ro-
manzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 196-97: «una figura di intellettuale umanista, col suo bagaglio classico di sapienza etico-estetica» e p. 230: «la fisionomia del vero, del grande intellettuale». Nella recensione di Montale, la contraddizione era sfiorata dalla congiunzione avversativa che metto in corsivo: «Or-
goglioso del suo titolo e del suo censo, e dunque tradizionalista, egli porta, #?t4via, in sé i semi dell’illuminismo; buon dilettante di astronomia...» (MONTALE, I/ secondo mestiere cit., p. 2172).
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
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L'osservazione costituirebbe, per l’analisi del testo, un
punto di partenza più che sufficiente. Ma prendiamo Lampedusa per quel che è: per uno scrittore essenzialmente colto, anche se in modo dissimulato, mai artificiale, e nemme-
no “sperimentale”; uno scrittore nella cui formazione, per quanto ne sappiamo, la cultura precedette quasi d’una intera vita la scrittura. Non sarà certo allora spazio sprecato quel-
lo che vorrei dedicare a qualche velocissima riflessione su precedenti figure, in letteratura europea, di protagonista intellettuale. E prima ancora: che portata di senso dare qui alla parola intellettuale? Affermatasi nell’uso sostantivato in francese verso il 1897-98, durante l’affare Dreyfus', la parola sembra poter implicare una o più d’una di queste tre cose: un sapere; una disposizione critica; una condizione sociale. Nell’applicarla sia a Don Fabrizio, sia ai personaggi anteriori che sto per passare in rassegna, intenderò soprattutto una disposizione critica, e già meno direttamente o necessa-
riamente un sapere. Quanto alla condizione sociale, del tutto fuori questione nel caso di Don Fabrizio, resterà un tratto facoltativo anche in tutta la rassegna (benché sia invece il tratto esclusivamente considerato, in tutt'altra prospettiva, nelle notissime pagine di Gramsci)!.
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È bello rifarsi indietro addirittura a Omero; ma solo per notare che se il primo verso dell’Odissea presenta Ulisse come «uomo dai molteplici accorgimenti», questi sono tutti rivolti a risultati pratici, e non ci riguardano. Il primo grande protagonista intellettuale della letteratura occidentale è sicuramente Edipo in Sofocle: sia come solutore dell’enigma ? Cfr. v. BROMBERT, The Intellectual Hero. Studies in the French Novel 18801955, Lippincott, Philadelphia - New York 1961, pp. 21-22. 4 A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, III, pp. 1513-51 (Quaderno 12, 1932).
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L’intimità e la storia
della sfinge, sia perché di lui si è potuta di recente rivendicare la razionalità di atteggiamento, la «lucida e creativa intelligenza»’. Ora, di lui Freud è venuto a fare per noi, in prima istanza e nel più drammatico e dinamico dei modi‘, un personaggio di figlio - idealmente il personaggio stesso del figlio. Nel Medioevo, com'è naturale, non c’è niente che ci riguardi fra gli eroi guerrieri e amanti di Francia o di Bretagna. Dante invece, dico Dante non autore ma personaggio,
è senza tregua colui che vuol sapere, che una sapienza divi| na istruisce, a parole oltre che con le visioni del viaggio: una posizione, di nuovo, da figlio. L’epica rinascimentale italiana non può prevedere protagonisti intellettuali più che non facesse quella medievale (o l’Iliade: l'arcivescovo Turpino o
i maghi di Tasso non sono protagonisti più del saggio Nestore). Esempi sommi sono invece da considerare in epoca barocca. Don Chisciotte, scombussolato da libri, agisce troppo e controlla la realtà troppo poco (proprio all’inverso di Don Fabrizio); i suoi quasi cinquant'anni non sarebbero un’età da figlio, se non lo infantilizzasse la pazzia esponendolo ad altrui indulgenze e protezioni. Ne La vita è sogno di Calderén, il vecchio e dotto re Basilio castigato e istruito dalla vicenda non toglie il posto di protagonista al figlio Segismundo, grezza natura incolta. Ma il Satana del Paradiso perduto di Milton, eloquente intelligenza pianificatrice di male, senza età in quanto soprannaturale, sta in quanto angelo caduto nella posizione d’un figlio ribelle di contro a Dio. L’altro personaggio di figlio in prima istanza, non meno
di Edipo come mostrò di capire bene Freud, è Amleto. Con lui, eccoci giunti al nostro confronto pit pertinente e più importante. Beninteso, nei precisi limiti di quella che è la sua contraddizione fondamentale, e che può sembrare davvero la stessa di Don Fabrizio se enunciata cosî: contraddizione ? G. PADUANO, Lunga storia di Edipo Re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Einaudi, Torino 1994, p. 101. ° Cfr. F. ORLANDO, I/luminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino
1997, PP. 244-47.
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
3I
fra un compito, imposto dalla propria posizione e dalle circostanze, e un difetto della capacità di decidere e di agire. Secondo la celebre interpretazione che di Amleto dà il Wilhelm Meister di Goethe, si avrebbe «una grande azione imposta a un’anima che non è all’altezza dell’azione»; «l’impossibile viene preteso da lui, non l’impossibile in sé, ma quel che per lui è tale». Perciò ho voluto dare come epigrafe a questo libro i due versi, situati a chiusura del primo atto, nei
quali secondo la stessa interpretazione «sta la chiave di tutto il comportamento di Amleto». Basta leggerli sdrammatizzandoli appena, affinché si adattino a Don Fabrizio perfettamente: I tempi sono sconnessi; o maledetto dispetto, che mai io sia nato per rimetterli a posto®!
Nient'altro di comune hanno, evidentemente, il giovane
principe da tragedia e quello maturo da romanzo; ma questo non è poco. Non so come interpretare (e comunque non so-
pravvaluto) il fatto che, nelle prodighe e godute lezioni su Shakespeare, Arz/eto sia l’unica delle grandi opere su cui Lampedusa si astiene da ogni discorso e giudizio personale. Notizie su fonti ed edizioni sono incorniciate da notizie, meno secche, sulla frequenza e varietà delle rappresentazioni: a cominciare dalla recita rustica che era stata la prima per lui, bambino, nel fondo della provincia siciliana. Preliminarmente, ha dichiarato che, al capolavoro di Shakespeare secondo «l’opinione generale», si addice da parte sua il silenzio?. È virtualmente un intellettuale il Misantropo critico della commedia di Molière, anche lui scisso, e votato allo scacco, nell’esatta misura virtuale in cui lo è. Alla narrativa illu7]. w. coETHE, Wilhelm Meisters Lebriabre, Deutscher Taschenbuch Verlag, Miinchen 1962, I, p. 218 (libro IV, cap. xm). 8 W. SHAKESPEARE, Arz/eto, trad. it. di Raffaello Piccoli, Sansoni, Firenze 1949, pp. 58-59 (atto I, scena v, vv. 189-90). ? MM, pp. 640-42; e cfr. i Ricordi d’infanzia, in G. TOMASI DI LAMPEDUSA, I Racconti, Feltrinelli, Milano 1988, p. 66 (MM, p: 374).
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L’intimità e la storia
ministica del Settecento, dov'è cost intellettuale la voce d’autore che racconta e giudica, giova un protagonista in appa-
renza extraintellettuale, ospite maomettano, buon selvaggio, ingenuo: sono i persiani di Montesquieu, l’Urone e il Candide di Voltaire, lucidità dell’estraniamento o della tabula
rasa. Sul versante inglese, né Robinson Crusoe né Tom Jones possono dirsi intellettuali. Diderot ne crea uno, insieme geniale e fallimentare, del quale chiamandolo il nipote di Rameau fa una variante di figlio. Passata la metà del secolo, il Saint-Preux della Nuova Eloisa di Rousseau precede il Werther e il Torquato Tasso di Goethe; ci sono buone ragioni per considerarli discendenti del seicentesco Misantropo, e a loro volta progenitori di quei protagonisti romantici che sono ormai un po’ pronipoti anche di Amleto: il René di Chateaubriand, 1’Adolphe di Constant, il Manfred e altri di Byron. Solo quest’ultimo, intellettuale «nero», lo è in senso stretto. Ma non a caso tutta la genealogia cosi disegnata precorre, accompagna o segue l’illuminismo: la tormentata inadeguatezza dei personaggi al mondo è anche tormentosa inadeguatezza del mondo ai personaggi; la loro sensibilità, invariabilmente filiale, si nutre di critica quando non di rivolta!” Goethe è il creatore anche di Faust, intellettuale
più di tutti, ringiovanito, a cui non è però vietato il successo pratico che la razionalità nuova, rivoluzionaria o napoleonica, aveva cominciato a ottenere nel mondo. Caduto Napoleone, è in quanto giovane intellettuale povero che il Julien Sorel del Rosso e i/ Nero di Stendhal deve tarpare la propria ambizione nell’ipocrisia. Al Lucien de Rubempré delle I/lusioni perdute, l’esser poeta è di poco aiuto nel misurarsi con Parigi: Balzac non ha veri o grandissimi protagonisti intellettuali, come non ne ha Dickens. Flaubert ne inventa di mancati come Madame Bovary, di velleitari come Frédéric Moreau, di caricaturali come i me!° Cfr. F. orLaNDO, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Tori-
no 1990, pp. 269-77, 299-308.
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no giovani Bouvard e Pécuchet. Tolstoj non avendone di veri e propri, la principale versione russa ricorre in Dostoev-
skij: il giovane intellettuale occidentalizzato e reso necessariamente, dalla sovversione dei valori religiosi, criminale come in romanzi diversi Raskòl’nikov, Stavrògin, Ivàn Karamàzov (mentre antiintellettuale è la moralità dell’«idiota»
e del santo, Myskin, Alé$a). Non posso permettermi di rallentare questa corsa sulle sole vette, pur essendomi ormai avvicinato all’epoca che fu la gioventii di Lampedusa, la sua contemporaneità. Fra l’io della Ricerca di Proust e Dante personaggio, per i rapporti coi rispettivi autori e narratori, il pa-
ragone fu elaborato da Contini'; il personaggio moderno, come il medievale, sta lî a ignorare e ad apprendere, o meglio ad aspettare di apprendere (figlio rispetto a chi, se non a se stesso narratore ?) Ma il titolo dell’ Ulisse di Joyce designa come maggior protagonista non l’intellettuale ventiduenne Dedalus senza un padre, bensi l’accorto praticante Bloom senza un figlio. Dubito che Lampedusa abbia conosciuto L’uomo senza qualità di Musil; in ogni caso Ulrich, uomo dei possibili, captato in un’azione maestosamente inutile, è un
protagonista intellettuale dei più puri. In Mann, più che Thomas Buddenbrook, che Hans Castorp, lo è il maturo von
Aschenbach - ma La morte a Venezia narra precisamente il cedimento del suo repressivo controllo; lo è Leverkiihn - ma ricordo lo scarso entusiasmo di Lampedusa per Doktor Faustus appena uscito («non fanno più per noi le cattedrali gotiche», all’incirca). Non lo sono i K. di Kafka, lo Zeno di Sve-
vo; le signore della Woolf, solo quanto lo consente la fase della condizione femminile che rappresentano. Con gli intellettuali avventurosi di Malraux, col Roquentin della Nausea di Sartre, dovremmo aver toccato i limiti dell’informa-
zione di Lampedusa su scrittori nati dopo di lui. Sarà chiaro perché ho insistito sulle età di tutti questi per1! 6. CONTINI, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970, pp. 335-36.
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sonaggi. L’età di Don Fabrizio nel Gattopardo è rimasta contraddittoria; cambia poco se ha quarantacinque anni nel 1860 (nato nel 1815), o ne ha settantatré nel 1883 (nato nel
1810). Sta in ogni caso, per autorità e responsabilità, dalla parte dei padri, e la rassegna mirava a illustrare indirettamente l’originalità del personaggio in questo. Se prendiamo il complesso di Edipo a modello, abbiamo visto per cosî dire concordare fatto e diritto: di fatto, la gioventii sembra una regola quasi assoluta, fra i protagonisti intellettuali della letteratura; di diritto, se l’intellettuale è colui che critica il mon-
do, quindi in potenza colui che vuole cambiarlo, è naturale che cambiare il mondo tenti i figli e conservarlo spetti ai padri. Malgrado i pochi precedenti di personaggi anziani, Don Fabrizio intellettuale e padre era una variante sostanzialmente innovativa, rispetto a una tradizione letteraria che non poteva non avere il peso inconscio di un codice. Mi sono riservato per ultimi, fuori cronologia, i soli precedenti che a mia conoscenza importino quali eccezioni; di due che sono, ne conta poi solo uno, perché il meglio corrispondente nell’ordine narrativo e tematico va accantonato per ragioni forma-
li. Come non definire un intellettuale il dio padre Wotan, protagonista dell’ Are//o del Nibelungo di Wagner, che ha fondato la scrittura, pianifica l’ordine del mondo, riflette
nella sua coscienza l’immensa vicenda? C’è di più: lo imparentano a Don Fabrizio la coatta immobilità, la speranza di delegare l’azione a un figlio; l’intera tetralogia racconta la storia d’una famiglia sovrana, in un trapasso di poteri storicamente simile sotto il velo del mito. Il teatro musicale wagneriano era agli antipodi di quel melodramma su cui si accanisce nelle lezioni l’antiitalianismo di Lampedusa”. Tutta!° 6. TOMASI DI LAMPEDUSA, I/ Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1998, p. 59: «Agosto 1860», e p. 73: «Un uomo di quarantacinque anni» (ma p. 97: «gentiluomo cinquantenne»); p. 215: «Luglio 1883», e p. 224: «Ho settantatré anni» (MM,
PP. 57; 73: 97, 223, 234). Cfr. sAMONÀ, I/ Gattopardo cit., p. 241. ! Di due atti della Va/ehiria ho raccontato un ascolto: orLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., p. 40.
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
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via non esiterei a escludere l’influsso, la reminiscenza: la musica bastava a farne, per lui, un universo formale separato.
Resta, in piena pertinenza di universo formale narrativo, una tutt’altra tetralogia: i quattro romanzi intitolati da Anatole France Storia contemporanea. Del loro indimenticabile protagonista, Monsieur Bergeret, ho vivo ricordo di aver sentito Lampedusa parlare con divertita ammirazione e simpatia intenerita. Bergeret è un oscuro professore di latino nella provincia francese; un marito tradito che trasforma in vendetta la sua
muta
pazienza;
un libero pensatore
che,
nell’affare Dreyfus, prende partito a sinistra. Quel che ha in comune col principe siciliano, è l’eccesso solitario e autocritico di vita interiore: «Il suo acume intellettuale non sempre rivolgeva le punte all’esterno, e molto sovente anch'egli si pungeva agli aculei della propria critica»!*. E la permanente superiorità mentale, che fa schermo alla comunicazione col mondo circostante (più ostile nel suo caso): «Per il solo fat-
to di pensare, egli era un essere strano, conturbante, a tutti sospetto». E, soprattutto, la resa formale di tutto ciò attraverso un argomentativo e associativo flusso di coscienza — non ancora sperimentale, ma poco ci manca!°. Bergeret è
la sola, parziale sorta di «fonte» che saprei additare per Don Fabrizio. La resa formale basterebbe invece a sminuire ogni derivazione dai nobili intellettuali dei romanzi siciliani, an-
ziani ma non protagonistici; senza contare la loro connotazione stranita, incartapecorita. Forse non c'entrano gli scar-
tafacci e volumi ingialliti che documentano a don Diego 14 A. FRANCE, L’Oly0 del Mail (Storia contemporanea 1), Einaudi, Torino 1976, p. 96: cap. xm [Ewvres, II, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1987, p. 816]. La traduttrice ha reso con acume intellettuale un'espressione intraducibile
(ripresa a Pascal), qual è esprit de finesse. 5 m., L’Anello di ametista (Storia contemporanea 3), Einaudi, Torino 1976, p. 64: cap. vi[Ewvres, III, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1991, p. 65]. 16 Culmine della modernità a cui proprio questo personaggio spinge il suo autore, in direzione del flusso di coscienza, gli straordinari novanta minuti di suoi
pensieri consecutivi alla scoperta dell’adulterio: cfr. m., I/ manichino di vimini (Storia contemporanea 2), Einaudi, Torino 1976, pp. 45-55: cap. VI [Ewvres, II cit., pp. 912-24].
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Trao, in Verga, un plurisecolare credito col re di Spagna"; né, in De Roberto, la prosa enfatica e antiquata del libro di storia araldica che alimenta la vanità nobiliare di donna Ferdinanda'*. Credo però che c’entrino poco anche intellettuali quale don Eugenio, da archeologo o storico dilettante, a compilatore araldico compiacente, ad accattone pomposo". Quale, in Pirandello, don Cosmo Laurentano, incompreso e
scettico ma anche segregato e stralunato?°; o suo fratello don Ippolito, che investe nell’archeologia una passione sf meditativa e lirica”, ma pur segnata da pedanteria localistica coi suoi «periodoni gravi di laonde e di conciossiaché»”. C'è di mezzo (l’ho detto nella premessa) un’alterità di classe, da cui è esente lo sguardo d’autore di Lampedusa verso Don Fabrizio come di France verso il borghese Bergeret.
Riprendo il filo a ritroso. Il personaggio di Don Fabrizio innova sulla tradizione in quanto intellettuale e padre; lo stesso dualismo caratterizza come una contraddizione la coscienza di lui; in quanto coscienza, e non in rapporto alla carente trama, è protagonista centralizzante. Questa affermazione ha la sua convalida formale nella constatazione che, delle sei «parti» su otto in cui il personaggio è presente, qua-
si tutto è guardato dal suo punto di vista nella prima, seconda, terza, sesta, settima, con più intermittenza nella quar-
ta. Mentre invece nessun altro personaggio è titolare di pun! G. VERGA, Mastro-don Gesualdo (1888 e 1889). Il marito di Elena. Dal tuo al mio, Sansoni, Firenze 1990, p.
424424.
!* DE ROBERTO, Romanzi novelle e saggi cit., pp. 512-14, 575-81. !° Ibid., pp. 517, 561-62, 668-69, 702, 769-70, 892-94, 950-51, 967, 1001-9. ?° L. PIRANDELLO, Tutti iromanzi, Mondadori, Milano 1973, II, pp. 13, 15, 42, 51-52, 160.
2! Ibid., pp. 119-20, 438.
°° Ibid., pp. 94-95, e cfr. pp. 99-101, 453-56.
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to di vista se non occasionalmente e brevemente, o per una «parte» al massimo; quel che più conta, mai in modo da introdurre aperture consistenti, con la sola eccezione di Concetta nella parte ottava, sulla propria interiorità. Da tali dati come da altri potrebbe finalmente prendere le mosse, e mi auguro che presto avvenga, uno studio narratologico in piena regola sul Gattopardo, utilissimo, rigoroso, sperabilmente non noioso. Dico cosî perché non è senza un prezzo l’isolare tecniche e ritagliamenti della narrazione, in quanto tale, dalle tante altre componenti d’un testo narrativo, dalla
coerenza d’insieme fra tutte le componenti. Il numero eccessivo di adepti della narratologia è stato dovuto alla rassicurante precisione relativa dei suoi risultati - mentre questo libro ambisce piuttosto al coraggio delle approssimazioni interpretative. Ma verrei meno alla scelta stessa di puntare sulla coerenza d’insieme, se almeno per grandi linee non sottoponessi il romanzo al vaglio di certe categorie: preziose non tanto perché applicabili con risultati precisi in sé, bensî perché agibili, da quelle nuove figure retoriche che sono, come strumenti a fini ulteriori. La questione del punto di vista è stata, del resto, fra le più controverse dell’aspirante scienza esatta a cui ricorro. Comporta ben due distinzioni problematiche, una al suo interno e una ai suoi confini. Cominciamo dalla distinzione di confine. Di fronte alla maggior parte delle frasi d’un testo narrativo, si può porre la domanda: chi vede? Ossia: ciò che
è narrato o descritto è visto dallo sguardo d’autore, d’un personaggio, di quale o di quali personaggi? Ma spesso non risulta affatto semplice distinguere questa domanda da un’altra: chi parla? Ossia: la voce che narra, descrive o interloquisce è la voce d’autore, d’un personaggio con o senza virgolette, o è quel compromesso fra i due casi, senza virgolette, che si chiama «discorso indiretto libero»?? All’inter% Esempio breve e chiaro di discorso indiretto libero, in TOMASI DI LAMPEDUsa, I/ Gattopardo cit., p. 41: «Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora \ un bell’uomo» (MM, p. 40). Si guardò allo specchio, è la voce d’autore che narra; \
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no del concetto stesso di punto di vista, l’altra distinzione. Se ci si domanda chi vede, a chi appartiene cioè la prospettiva, potrà trattarsi d’una prospettiva intesa più nell’uno o più nell’altro di due sensi diversi: o in senso fisico, materiale, spaziale, o in senso morale, ideologico, assiologico (relativo a un sistema di valori). Mi rifarò ora a uno studio tutto
dedicato alla questione del punto di vista, dove di entrambe queste distinzioni si tiene il debito conto”, e nel cui capitolo introduttivo viene proposta una nitida classificazione sommaria”. Per situarvi il nostro romanzo, che non figura purtroppo nell’esemplificazione, va scartato un primo gruppo di casi non pertinenti: quelli in cui il narratore, o più narratori, siano presenti nel testo come personaggi (eroe che racconta la propria storia, testimone che racconta una storia al-
trui, monologo interiore diretto e ininterrotto, romanzo epistolare, ecc.). Quando il narratore è fuori dal suo testo, come
nel Gattopardo, quattro casi sono contemplati. I/ narratore analista e onnisciente racconta la storia. Soluzione presunta ottocentesca, che avrebbe potuto venire ascritta al Gattopardo solo finché il pregiudizio del romanzo attardato era più cieco. Di fatto non mancano nel testo giu\,dizi, sentenze, piccole digressioni di cui prende la responsa|bilità la voce d’autore; né momenti in cui essa, come fonte | d’informazione, ne sa più di Don Fabrizio. Mai però molto oltre i ristretti limiti entro i quali questo primo caso, secondo i narratologi, difficilmente è sostituibile senza residui dal successivo”. — I/ narratore racconta la storia servendosi di un dopo i due punti, si ha come un adattamento alla voce d’autore di quella che avrebbe potuto essere, tra virgolette, voce del personaggio: «non c’è da dire, sono ancora un bell’uomo». I miei corsivi segnalano in che consiste, grammaticalmente, l’adattamento: il tempo presente e la prima persona, che sarebbero propri della voce di personaggio, sono diventati rispettivamente imperfetto e terza persona, quelli che usa la voce d’autore. Il procedimento, qui circoscritto a una frase, può estendersi
a volontà, anche per pagine. .... * P. PUGLIATTI, Lo sguardo nel racconto. Teorie e prassi del punto di vista, Zanichelli, Bologna 1985, pp. 4-9, 117-21 e passirz. ? Ibid., pp. 9-13: da cui cito in corsivo e tra virgolette, dove i numeri di nota non rinviano ad altri titoli, sino alla fine del prossimo paragrafo. °° G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976, p. 240.
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personaggio come «riflettore». È questo, «ipotizzato e prati-
cato da James come metodo di limitazione della visione», il caso prevalente nel Gattopardo: questo per cui il narratore
«calibra il suo vedere, il suo sapere e il suo valutare su quelli del personaggio che funge da coscienza ordinatrice del racconto». Non senza che il caso successivo, però, sia strettamente complementare. — Morologo interiore indiretto 0 monologo in terza persona: 0, come sopra, «discorso indiretto libero». Sconfinando in quest'altro procedimento, il precedente s’interiorizza e radicalizza. Come sia fluido il trapasso, sembrano descriverlo le lezioni su Stendhal - scritte a ro-
manzo cominciato: in lui ci sono già «monologhi interiori», ma, a differenza che in Proust, Joyce e la Woolf, «sono bre-
vissimi: qualche rigo»; rende insensibile la transizione il «dolce pendio» di «alcune frasi indirette»?”. Che l’innesto di discorso indiretto libero su personaggio riflettore sia caratteristico di tutto l'impianto discorsivo del Gattopardo, è un effetto della centralità di Don Fabrizio, coscienza ordinatri-
ce, e va al di là della sua presenza stessa. Di nuovo, Lampedusa su Stendhal: nella Certosa domina un tono di placidità indolore perché «i fatti non intendono esser narrati come sono ma come appaiono», alla mente «smagata, simpatica, accomodante, signorile e non troppo intelligente» di Fabrizio Del Dongo. La coincidenza del nome può essere casuale, la mente anch’essa smagata, simpatica e signorile di Don Fabrizio è, invece, tanto intelligente quanto poco accomodante. Ma gli strumenti della narratologia abdicano, davanti a Sulla convenzionalità del narratore onnisciente, nelle lezioni inglesi Lampedusa si mostra non solo avvertito, ma caustico al suo solito: MM, pp. 1030-31.
? MM, pp. 1800-1. Cfr. le note della curatrice Nicoletta Polo a pp. 1773, 1782; ma non toglie niente del loro interesse, alle indicazioni citate, la provenienza in parte letterale dal libro di y. PRÉvOST, La création chez Stendhal. Essai sur le métier
d’écrire et la psychologie de l’écrivain, Mercure de France, Paris 1951: «Les monologues directs n’ont que quelques lignes; la transition est faite entre les monologues et le reste du récit par de brefs discours indirects» (p. 252, e cfr. p. 261). Se, nelle lezioni, il divertimento compilatorio e il pedagogico cinismo di Lampedusa non rifuggono dalla libera appropriazione né dal plagio (proprio come li praticò talvolta Stendhal), di qualsiasi cosa da lui rimaneggiata o trascritta è significativa la scelta.
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una coerenza d’insieme cosi sottile e diffusa come quella qui suggerita: «Questo modo di narrare è di una difficoltà prodigiosa: l’autore deve restare sempre nella pelle del suo protagonista»?®. — I/ narratore racconta la storia dall’esterno, ulti-
mo caso: se nel primo dei quattro (per dirla con un’altra piana tipologia) il narratore sa pid dei personaggi, e nel secondo e terzo sa altrettanto e insieme a loro, stavolta sa meno di loro??. Caso che non si verificamai per Don Fabrizio, e anche
nel trattamento dei personaggi visti da fuori non si concreta se non a momenti per Concetta, come vedremo. Anche il lettore non specialista, a questo punto, intuisce cosa voglia dire che l’analisi, pur traendo profitto da certi strumenti, non sarà sviluppata in senso narratologico. Forse non gli è immediatamente comprensibile cosa vuoldire che
sarà sviluppata in senso zerzatico. In tal caso, il consiglio di tirare dritto per vedere è pit opportuno che qualsiasi tentativo di definire in sintesi la mia scelta di metodo: non immune, come e più d’ogni altra, da problemi teorici aperti”. Mi limito a preannunciare ciò che, nel modo di procedere, riuscirà empiricamente più vistoso. Le citazioni dal Gattopardo saranno cosi numerose da voler idealmente sostituire e rappresentare l’intero testo; ma dei posti successivi che i passi occupano nel testo, non rispetteranno affatto l’ordine. Alla sola condizione che una qualche costante fra due o pit passi lo giustifichi, citerò saltando liberamente e continuamente da un punto all’altro, a corta o lunga distanza. Il provvisorio disordine di questa frantumazione analitica è a suo modo un ordine, che chiamerò (in termini di origine lingui* MM, pp. 1815-16. Già secondo Aragon, Lampedusa «capisce qui tanto bene Stendhal proprio perché in questo momento sta spiegando I/ Gattopardo» (in MARGONI, I/ « Gattopardo» in Francia cit., p. 542). Cfr. 0. RAGUSA, Stendbal, Tomasi di Lampedusa and the Novel, in «Comparative Literature Studies», settembre 1973, pp. 200-8.
?° Cfr. t. ropoROV, Le categorie del racconto letterario, in AA.vv., L'analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969, pp. 254-56. °° Cfr. in particolare F. ORLANDO, Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale, in m., Per una teoria freudiana cit., pp. 219-41.
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stica) paradigmatico, come chiamerò sintagreatico l'ordine naturale e integrale di successione delle parole e frasi”. Per cancellare l’uno, e restituire al testo l’altro che gli è proprio, non c’è che da rileggere il testo; la speranza è che si possa farlo, alla fine, con comprensione e godimento accresciuti. Frattanto, sarà stato come se lo riscrivessimo, ma impiegando
esclusivamente gli stessi materiali in cui è già scritto. O come se avessimo scomposto un mosaico nelle sue tesserine a una a una, e accostassimo volta per volta quelle con simili colori, quelle con simili disegni, quelle con simili posizioni, ecc.
Il postulato minimo d’un tale esercizio è che l’opera sia coerente e omogenea; il postulato massimo, che sia perfetta. Un maestro che spesso lavorava cosî, Spitzer, ha scritto: «Per-
ché non dovremmo, a priori, intraprendere una critique des beautés, credendo, come ipotesi operante e finché non si dimostri il contrario, che un gran capolavoro è effettivamente perfetto in tutte le sue parti?»”.
4.
Si ha la prima menzione di Don Fabrizio alla terza riga del testo: a recitare ilrosario quotidiano è stato lui, cioè «la voce pacata)del Principe» (23, 19)”. Una seconda volta, in Sa
#1 La diffusione dei due termini parte da F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1970, pp. 149-58, anche se vi manca il termine «paradigmatico», affermatosi in seguito nell’uso: cfr., a p. 445, la nota 248 del curatore T. De Mauro. Il mio uso di entrambi i termini, e soprattutto di questo, ne presuppo-
ne un’applicazione specificamente letteraria (cfr. oRLANDO, Dodici regole cit., pp. 224-25, 227-89). Il lettore non specialista pensi al senso corrente della parola paradigma, e, per «sintagma», alla sintassi come regolatrice della successione lineare
del discorso. ? L. SPITZER, Critica stilistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 25051, e cfr. la nota ro alle pp. 283-84. % Da ora in poi, sia nel mio testo che in nota, rinvierò alle pagine del romanzo dopo ognuna delle citazioni, con due cifre tra parentesi. La prima si riferisce alla corrente edizione dell’«Universale Economica» Feltrinelli; la seconda, all’edizione di tutte le Opere nei «Meridiani» Mondadori (= MM; vedi sopra, rispettivamente, nota 12 a questo capitolo e nota 8 alla premessa). Non darò che una cifra quando capita che i numeri delle pagine coincidano. — Farò lo stesso, in nota, per
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fondo all’ultimo dei paragrafi nei quali abbiamo visto tutto rimettersi in moto finita la pausa del rosario, è designato nella breve prospettiva d’un altro personaggio: «il marito[tiranno» (24, 20). C'è da osservare che un aggettivo come pacata, e un sostantivo come #ranno, divergono già (sebbene nessuno lo noti a inizio di lettura) nel senso da me preannunciato. Poi ne abbiamo visione diretta per un paragrafo: «Lui, il Principe...»; e, per i tre paragrafi seguenti, sospen-
de l’incipiente racconto una descrizione e presentazione di lui, che va dal fisico al morale (24-26, 21-22). La presentazione morale non può che cominciare a met-
tere in atto appunto la fondamentale contraddizione del personaggio, da cui sono partito: fra autorità per posizione, e inattività per carattere. Ma non coincidono con questi i due poli d’un altro contrasto, che momentaneamente ha maggior evidenza, e al quale la contraddizione stessa viene fatta risalire. Si tratta del contrasto, propriamente genetico, fra le “ ascendenze paterna e materna di Don Fabrizio; esso non tocca il polo della posizione e dell’autorità, ha luogo tutto entro il polo del carattere, ed è opponendo due eredità naturali mal compatibili che ha come conseguenza l’inattività. Fi«il colorito roseo, il pelame color di miele» ‘tan sicamente, denunziano «l’origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie». Moralmente, so-
no «essenze germaniche» assai incomode, per il figlio, «un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una pro-
pensione alle idee astratte» —- anche se ciascuna di esse viene data per adeguatamente trasformata, e non in meglio, \ «nell’habitat molliccio della società palermitana». Va da sé che sia messa in evidenza la parte della madre più che del padre, della straniera nordica pit che dell’indigeno meridionale; dalla parte di quest’ultimo sta in compenso, è sottinteso, ,
“agrario
le citazioni dai Ricordi d'infanzia: riferendo una prima cifra all'edizione Feltrinelli dei Racconti (vedi sopra, nota 9 a questo capitolo), una seconda all’edizione Mondadori di tutte le Opere.
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l’intero ambiente circostante, qualificato da aggettivi come sciattona e molliccio. Una coppia di sostantivi conforme qua-
lificailpadre nel paragrafo che conclude la presentazione del protagonista: Sollecitato da una parte dall’orgoglio e dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.
La nessuna attività potrebbe separatamente dipendere sia da un eccesso di sensualità e faciloneria, cioè dal padre, sia anche di orgoglio e intellettualismo, cioè invece dalla madre; ma appare piuttosto come conseguenza dell’incrocio, come risultato immobile della neutralizzazione di contrastanti forze”. Precede d’una pagina questa presentazione il primo accenno politico, ai « “moti” del Quattro Aprile»
(24, 20): l’in-
surrezione esplosa, da Palermo, poco più d’un mese prima dello sbarco garibaldino”. Qualcosa di più che un accenno segue dopo una pagina: il soldato borbonico trovato morto era stato ferito «nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli» (27, 24) - un nome di luogo presumibilmente scelto per localizzare villa Salina. Ma il precipitare degli eventi, come ho detto, se aggrava la discrepanza fra la disposizione interiore di Don Fabrizio e le circostanze, non la fonda. Era
da un tempo indeterminato che il principe stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio: secondo verosimiglianza storica, già dalla sua nascita nel 1810 * Le due immagini parentali confermeranno la loro opposizione, comparendo tra le miniature di famiglia: il padre «fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno», la madre «i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri» (158, 166).
3 Alla repressione di essa con la fucilazione di tredici congiurati, dieci giorni dopo, alludono pit in là i «colpi secchi delle scariche, [...] rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo» (31, 28). Gli insorti erano «artigiani, operai, piccolo-borghesi»: A. RECUPERO, La Sicilia all'opposizione (1848-74), in Storia d’Italia. Le regioni dall'Unità a oggi, Einaudi, Torino 1987, p. 62.
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o 1815 (ossia dalle abolizioni successive, fra il 1812 e il 1819, della feudalità, del maggiorascato, dell’innocuità feudale di ‘ certi debiti ipotecari). Abbiamo visto che l’essere di lui, il
suo carattere, è presentato come doppiamente ereditario in senso genetico; è da supporre ereditario in senso giuridico,
finanziario, politico quel dover essere che incombe alla sua posizione, e che lo trova inadempiente. Le sue carenze avrebbero tuttavia prodotto, letterariamente, non so quale diversissimo personaggio, senza i connotati fisici che si affermano fin dalla prima apparizione e dalla parte iniziale della presentazione. E che a formare il personaggio qual è, ho tardato a dirlo, non sono meno fondamentali della contraddizione di
partenza. Vedremo come questa stessa ne venga in apparenza vistosamente dissimulata, in sostanza nascostamente ac-
centuata. Come dire che a una contraddizione tutta morale se ne aggiunge una tra il morale e il fisico; grazie a tanta ricchezza di opposizioni intrinseche, certo, il personaggio riesce a tale punto vivo. Se l'invenzione di esso è (lo dicevo nel-
la premessa) il nucleare colpo di genio narrativo da cui nasce I/ Gattopardo, sono indivisibilmente partecipi d’una conflittuale unità sintetica le componenti che l’analisi individua una dopo l’altra. Quale più gran fortuna può capitare a chi per posizione, anzi per nascita debba esercitare autorità, che un aspetto imponente? Per rappresentare il suo ruolo ancor prima che per svolgere il suo compito, gli basterà mostrarsi, apparire. Qui x la convergenza di essere e dover essere potrebbe avere qualcosa di naturale, a maggior ragione in una società a classe dominante feudale: classe che si presumeva dovesse i suoi privilegi a remoti fatti, e a un secolare dispiegamento, di prex
** Detti «soggiogazioni»: cfr. RENDA, Storia della Sicilia, I cit., pp. 75-77. Scrive lo stesso storico: «L'abolizione della feudalità liberò i grandi patrimoni nobiliari dai vincoli ed obblighi del vecchio regime ma tolse loro la protezione pubblica»; e prosegue mostrando che la liberazione stessa fu rovinosa (p. 75). Nel Gattopardo si legge: «l'abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi» (42, 41).
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stanza militare. Che ciò si riducesse più che altro a ricordo storico ai tempi di Don Fabrizio, lo indica il fatto che l’olimpica convergenza naturale dell’autorità con l’aspetto può coprire, come sappiamo, una scomoda divergenza culturale della posizione col carattere; ed esserne resa d’una improprietà fra arcaica e casuale, quando lo scadimento del primato aristocratico è alle porte. Ma quanto pit la convergenza è abusiva e illusoria, tanto più stabilmente vantaggiosa torna, ecco il punto, al povero Principe Fabrizio. Proprio a copertura dell’imbelle carattere da intellettuale celato in lui, il suo fisico gli assicura un risparmio, dignitoso quanto sporitaneo,
di energia, fatica e scelte. E forse anche il segreto del lieve effetto umoristico con cui periodicamente quei connotati fisici riemergono: almeno se ha ragione Freud, a far derivare l’umorismo da un «dispendio affettivo risparmiato»?”. Quasi che il lettore divertito condivida il sollievo da tutti gli sforzi che al personaggio toccherebbe compiere, per imporre la propria autorità senza una cosî abituale e gratuita facilitazione. O, qua e là, l’opposto sollievo di altri personaggi, che della minaccia autoritaria sono ordinariamente destinatari e. raramente vittime.
Ora, non soltanto ma soprattutto in questo caso, Lampedusa ha fatto tesoro d’un punto di poetica affacciatosi nelle lezioni su Dickens. Il predilettissimo Circolo Pickwick porta alla perfezione la «curiosa e difficile arte del “realismo disrealizzato”»: di trasformare la realtà in modo da farne risaltare «mediante l’esagerazione (che è poi parola sinonima a quella di arte)» l’essenza e il segreto”. Il realismo del Gattopardo non ha niente, certo, di disrealizzato, di onirico
come la Londra di Dickens nei romanzi successivi a Pickwick. Ma il punto è l’esagerazione: che sia addirittura sinonimo di arte! si direbbe precisamente che lo scrittore 27 S. FREUD, Ilmotto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, Boringhieri, Torino 1975, P. 251 (pp. 250-58).
2 MM, pp. 1023-27.
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esageri, se la sua creazione pit vitale non fosse lî a darci una smentita, sensibile agli occhi della mente. La corporatura di Don Fabrizio costituisce un’iperbole sistematicamente coltivata, goduta e protratta, con effetto paradossale di credibilità realistica, per tutto il romanzo. Nel campo delle immagini fisiche, infatti, il procedimento per lo più vigente consiste nel non presentarle in un solo passo, una sola volta; nel periodico riprenderle e rammentarle, mai ripetendo naturalmente, sempre variando. Perciò, mentre non ho ignorato l’or-
dine sintagmatico commentando le prime menzioni del personaggio e la presentazione morale iniziale, venendo a quella fisica preferisco inaugurare una stretta analisi paradigmatica. Ne distribuirò i passi insieme ad altre tesserine di mosaico provenienti da tutto il testo, secondo i diversi aspetti della figura del colosso. L’abbondanza, varietà e precisione dei riferimenti non solo lo giustifica, ma lo consiglia: sia al fine d’isolare sotto lente d’ingrandimento l’effetto-iperbole, sciolto e mitigato in ogni contesto singolo; sia perché l’effetto stesso, pur senza svilupparsi in crescendo da un passo all’altro, si alimenta delle riprese e delle variazioni. Statura: «la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari» (25, 21); «la
sua statura riempî intera l’altezza della porta» (107, 109); «lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria» (121, 125); «le sorpassava di tutta la testa [le signore] benché fosse uno scalino indietro» (193-94, 202)”. Peso: «l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito» (24, 20); «fece gemere il divano sotto il proprio peso» (54, 55); «Sotto la mole spropositata l’acqua fu sul punto di traboccare» (71); «il peso spropositato di un piede che si poggiò sul montatoio fece vacillare la calèche sulle alte molle» (191, 199). Passo: «il passo poderoso comprimeva l’acciottolato sudicio» (37, 36); «Il d Inoltre: «uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo» (34, 31); «torreggiando dall’alto, guardava rimpicciolirsi...» (125, 131).
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passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava» (42, 40); «Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza» (126, 131)'°. Petto: « la vasta bianchezza del panciotto» (25, 21); «con quanto fiato capiva nel torace smisurato» (101, 102). Fronte:
«sotto il cipiglio zeusiano» (26, 22); «sul ciglio olimpico» (112, 115). Massa d’insieme, che provoca comparazioni iperboliche: una a letto, «l’ombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo» (101, 102). Più d’una nel bagno: «si ergeva interamen-
te nudo, come l’Ercole Farnese, [...] mentre giù dal collo, dalle braccia, dallo stomaco, dalle coscie l’acqua gli scorreva a rivoli, come il Rodano, il Reno e il Danubio traversano e
bagnano i gioghi alpini»; «quella innocente nudità titanica»; «Quando la vetta e le falde del monte furono asciutte...»;
«col braccio alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un’ascella» (72-73). A lui «piaceva avere intorno a sé ogni cosa in scala, eccetto la moglie», e quindi a tavola i piat-
ti di più grande formato (32, 29); ma già nella prima apparizione «lo smisurato Messale rosso» (24, 21). Parlerò natu-
ralmente a suo luogo dell’alano Bendicò (per non dire del palazzo di Donnafugata). L’ordine paradigmatico di queste citazioni dà per contesto a ciascuna tutte le altre, sulla base della loro affinità per costanti tematiche. Non giurerei che qualche volta, cosî isolate e insieme ricontestualizzate in una serie di riprese e variazioni, non esibiscano momentaneamente meglio la loro particolare bellezza. Ma so bene che ciascuna è sottratta al proprio reale contesto, al preciso punto del racconto in cui si presenta lungo la linearità del filo sintagmatico, ai rapporti di senso concordanti o contrastivi che istituisce con parole 4 Inoltre:
«Preceduti dai lunghi passi di Don Fabrizio tutti si precipitarono...»
(137, 142). 4 Inoltre: «Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo» (25, 21);
«premuto dalla massa del Principe» (35, 33); «la massiccia imponenza del Principe» (109, 112).
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precedenti e seguenti. È in virtà anche del contesto che una stessa citazione, contenendo costanti diverse, può rientrare
di diritto in diversi paradigmi; ne ritroveremo più d’una, magari non identicamente tagliata, in più d’una serie. Per proseguire adesso, facciamo alcune riflessioni. Il nostro corpo come insieme essendo inaccessibile al proprio sguardo, la conseguenza narratologica è che quando vediazzo Don Fabrizio non abbiamo mai il punto di vista di lui. Agli occhi degli altri, di altri personaggi nel caso d’un racconto, o di uno sguardo d’autore come per lo più nel Gattopardo, il nostro corpo è ininterrottamente espressivo; ma, a renderlo tale, non sem-
pre contribuiscono la coscienza o la volontà. In questo speciale senso le visioni del corpo gigantesco di Don Fabrizio, totali o parziali, potevano finora dirsi statiche. Sebbene la maggior parte delle citazioni lo mostrasse fisicamente in movimento, non perciò rendeva percettibile qualcosa della sua situazione morale e interiore o delle alterazioni di essa. L’elemento psicologicamente dinamico entra in gioco solo in un’ultima serie, animata dagli arti di più comunicativo uso nei rapporti interumani: braccia, mani, dita. L’uso che ne fa Don Fabrizio si ferendia fin dalla presentazione fisica, secondo il sesso altrui. Con de “donne?
«Quelle dita, d’ ai sapevano anche essere ditocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie» (25, 21); «Cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola cranica di lei» (100, 101). Il giro di valzer con Angelica tira pure in ballo (è
proprio il caso di dire) gli arti inferiori: «Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicatezza sorprendente e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di esser sfiorate; la zampaccia di lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza» (204, 215). Ma un maneggiamento delicato può significare anche l’ambiguo compatimento del cacciatore per un animaletto, il coniglio moribondo: «i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero» (102, 103).
Possono beneficiarne perfino le pesche maturate da un in-
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nesto: «le palpò con la delicatezza famosa dei polpastrelli» (77, 78); e, del «monumentale cravattone di raso nero», le «grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi» (41, 40); e viti e bottoni di telescopi e cannocchiali « 3mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero» (25, ). Quando il contatto è comuominî, invece, è come se la
SS del colosso non riuscisse a trattenere un eccesso di forza involontariamente aggressivo. Citando dal meno al più: «con la grossa mano batté sul tricorno del vecchio amico», di padre Pirrone (36, 34); «Una potente manacciata sulle spalle servi da segno di riconciliazione e da richiamo di potenza», con Tumeo (126, 131); «gli spiaccicò una spalla con
una manata», a Chevalley (156, 164); «indolenziva le spalle degli uomini che voleva festeggiare», per i saloni del ballo (197, 206). A Bendicò va come agli uomini, o peggio per distrazione: «Stropicciava un orecchio del cane)fra le dita con tanta forza che la povera bestia guaiolava» (46, 45). Va ancora peggio però alle cose inanimate, se non fanno parte del vestiario o dell’osservatorio. L’iperbole del colosso si trasmette, ancor più che nell’ultima serie virile, dalla sua immagine agli effetti del suo gestire; fin dalla presentazione: «le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato» (25, 21). Verso la materia insensi-
bile l’aggressività non è controllata da tanti scrupoli; come d’altra parte non lo è, in un personaggio la cui tendenza all’introversione sembra che arrivi a farsi fisica, verso il cor-
po proprio. Perciò i due casi si lasciano avvicinare, in una doppia serie dove lo sfogo della collera o della tensione, represso o meglio spostato a viva forza sulle cose o su di sé, vi lascia più o meno durevoli tracce. Sulle cose: «forchette e, cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio» (25, 21). All’inizio del colloquio con Chevalley: «Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo» (159, 167); verso il culmine del dialogo: «la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta mi-
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nuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata» (162, 171); solo verso la fine: «lasciò in pace San Pietro» (164, 174). Su di sé, in un passo capitale: «Strinse i magli
dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. [...]. I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei
palmi» (117, 121). Nella scenata coniugale a letto, una furia che sappiamo ostentata gli si ritorce addosso lo stesso: «Cre-
dendo avere un tavolo dinanzi a sé menò un gran pugno sul proprio ginocchio, si fece male e si calmò anche lui» (101, 102).
Breve ma importante, infine, una serie in qualche modo inversa e complementare a questa. Come verificheremo che Don Fabrizio non manifesta abbastanza aggressività, in occasioni in cui potrebbe o dovrebbe farlo se il suo carattere corrispondesse alla sua posizione e al suo aspetto, cosi gli capita di manifestarne senza bisogno, e senza volerlo o nemmeno saperlo, perché il suo aspetto corrisponde troppo bene alla posizione che ha e al carattere che non ha. Durante il silenzio della cena familiare i suoi occhi, «un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li \ammutolivano di timore»; ma il narratore va a capo, per sorprenderci rivelando la dissociazione in una parola, col punto esclamativo: «Invece! “Bella famiglia” pensava» (32, 30). Analogamente, fra i signori palermitani del suo ceto ed età, «l’azzurro freddo dei suoi occhi, intravisto fra le palpebre pesanti, faceva perdere le staffe agli interlocutori ed egli si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore» (199, 208). Perfino in un momento di ammirata simpatia generale nei suoi confronti, alla fine del giro di valzer che lo ha ringiovanito, è l’imponenza esterna a inibire una calorosa sanzione del successo: «un applauso non scoppiò soltanto perché Don Fabrizio aveva l’aspetto troppo leonino perché si arrischiassero simili sconvenienze» (205, 215).
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SI
5.
È dunque lecito parlare d’un effetto automatico del fisico di cui è munito il capo di famiglia e il principe. Resta però ozioso, davanti ad altri passi, voler distinguere quanto dell’ effetto dipenda dal fisico e quanto dal prestigio che al capo di famiglia e al principe compete comunque. E guarda caso le prime quattro parti, cioè i due terzi del romanzo, e il solo blocco narrativo compatto a stacchi cronologici ravvicinati, ce lo mostrano in famiglia e dentro la sua villa o dentro il suo feudo. Il timore reverenziale che incute in quest'ambito non ha bisogno del rinforzo di allusioni corporali, per apparire sia automatico che iperbolico. Durante la più simbolica funzione del pater famzilias, scodellare lui stesso la minestra a cena, si ode una percussione di zuppiera in segno del suo malumore: «uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come diceva ancora quarant’anni dopo un figlio sopravvissuto» (32, 29). Ci vuole l’arte eufemistica del gesuita di famiglia, per girare in un elogio il timore che dissuade sua figlia dal parlargli: «Vostra Eccellenza cela troppo bene il cuore paterno sotto l’autorità del padrone» (73). All’inizio del pranzo in provincia, per reprimere tutt’intorno il sonoro sollievo all'apparizione dei timballi di maccheroni, a lui non occorrerebbero mai parole: «Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose» (81, 83). Dopo la sua scenata quasi finta, la moglie gli si distende al fianco «tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero» (101, 102); si dirà, delle riserve di lei, che «l’ira maritale... le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla» (132-33, 136). Già ammalato a morte, è lui che la spunta contro un parere del medico, «co-
si imponente era ancora l’ombra del suo prestigio» (217, 225); e ancora dopo la sua morte, Tancredi si compiace di
chiamarlo il «mio terribile zione» (241, 250). Ma al di là di
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questo automatismo di effetti, come mai, dovremo chiederci, non una sola volta in tutto il romanzo lo vediamo in collera effettivamente e senza freno? L’automatismo risulta del resto meno assicurato appena
ci si allontana dall’ambito familiare. Il prestigio nobiliare sulla sua tradizionale base, la potenza economica, è in crisi pri-
— ma che arrivi Garibaldi; più che far da mezzo a fini particolari pone un fine esso stesso, ciò che sarebbe da difendere, da salvare. Don Fabrizio si è finora permesso «sprezzante indifferenza» e «indolenza» di fronte ai suoi affari, grazie alla «sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche ventina fra le migliaia dei propri ettari». Ma accoglie i consigli di Sedàra «senza che... il franare del patrimonio venisse in alcun modo arginato» (130, 132-3 3). Restano esempio di consuetudine gli atteggiamenti ossequiosi di persone devote: l’amministratore dall’onestà quasi maniacale e dal formalismo scrupoloso, don Onofrio Rotolo; con più familiarità, e una breve sofferta infrazione, lo snob avanti lettera don Ciccio Tumeo -
«l’ultimo fedele di casa Salina» (126, 131). Ma al suo arrivo nel seggio elettorale, dove l’annessione al regno piemontese sta per essere sancita, Don Fabrizio «fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzarono» (107, 109): là, il perdurare del rispetto di prima è già imprevisto. E come il romanzo indugia nella restituzione immaginaria del prima, cosî (lo dicevo nella premessa, $ 5) elude per quel tanto che è possibile la traumatica rappresentazione di un dopo. Esistono dall’inizio, virtuali, impercettibili, le premesse di
quell’ellissi narrativa che renderà saltuarie a gran distanza di date le ultime tre o quattro parti. All'altezza della parte ter“za datata ottobre 1860, il mese del plebiscito, il narratore si accontenta di trasporre in elaborate e ironiche metafore militari, prima di enumerarli, i «fastidi» patiti dal protagonista negli ultimi due mesi (94-95). A esacerbarli, è precisamente il ricordo dell’automatismo favorevole, il rovesciamento in dispendio di un’inveterata abitudine al risparmio di sforzi:
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le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zam-
pa (95). [i] cento raggiri di linguaggio e di contegno che da qualche tempo era costretto a escogitare; ripensava con rimpianto alla situazione di un anno prima quando diceva tutto quanto gli passasse per il capo, sicuro che ogni sciocchezza sarebbe stata accettata come parola di Vangelo, e qualsiasi improntitudine come noncuranza principesca (96).
Per sua fortuna Don Fabrizio non dispone solo di risorse esterne, che siano corporali o araldico-censitarie, che il loro automatismo sia permanente o declinante. Nella sua interiorità disadatta alle incombenze istituzionali, in cui co-
minciamo ad addentrarci, c’è spazio per sentimenti e tendenze che presi da soli gli sarebbero di potente aiuto. Nor sono infatti, o non specificamente, tratti da intellettuale; il
guaio è che i tratti da intellettuale sono lf a controbilanciarli. Il miglior esempio è la sincerità, troppo profonda per non essere in sé acritica, dell’attaccamento alla tradizione di clas-
se. In un tacito ideale dialogo col cognato conservatore, dialogo avviato da un dubbio e arrestato su una contestazione, viene affidato all’altro il monito che il re «rappresenta l’ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l’onore», e difen-
de la Chiesa, ed è garante della proprietà; ma prima che riprendanole obiezioni, leggiamo: «Parole bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle radici del cuore» (28, 25). Nel consuntivo della propria vita fatto in agonia, non manca «l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina» alla nascita di Paolo — anche se era un orgoglio «abusivo, lo sapeva adesso»; non manca, con la debita gerarchia fra il primogenito maschio e una femmina, la contentezza «che nella bellezza e nel carattere
di Concetta si perpetuava una vera Salina» (223-24, 232-33). dano
l’arredamento», eppure «lui stesso non mutava nulla né a S.
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Lorenzo né a Donnafugata» (197, 206). Fra i motivi dell’incanto rassicurante di quest’ultimo palazzo, spira serenità una frase che fuori contesto potrebbe suonare all’opposto: «Ogni cosa era nello stato in cui si trovava da cinquant’anni» (69).
Xx
La parola orgoglio è frequente nel testo. E certo, non ci
sono quasi occorrenze in cui non sia, come abbiamo appena
visto e torneremo a vedere, bilanciata dalla propria diminuzione o da parole contrapposte. Cosî, nella prima apparizione, al tremito dell’impiantito sotto il suo peso: «l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati» (24, 20-21); e nella sua presentazione come astronomo: «in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l’illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli» ecc. (25-26, 22). Un tale effimero e
illusorio egocentrismo di classe sta in bilico, difensivamente, fra apologia e ironia. Una macchiolina di caffè «aveva ardito» inquinare il bianco panciotto (25, 21); l'orecchio stropicciato a Bendicò fa guaiolare la bestia, «onorata, senza dubbio, ma sofferente» (46, 45); nella rasatura, perfino, c'è «uno
sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca» (118, 122). Il verbo ardire è meno eccentrico riferito, in discorso
indiretto libero,alfrasario di Tumeo ignaro del prossimo parentado: «come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della futura Principessa di Falconeri?»; eppure la voce d’autore, attraverso una massima di psicologia nobiliare, ha già scusato o accusato come un ec-
cesso che il futuro zio se ne offenda: «tanto geloso è l’orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna...» (116, 120). Ma ironie, eccessi e smentite a parte, e a parte il pas-
so dove si parla «dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati a esserlo» (159, 168), dopo tutto l’orgoglio è al suo posto in Don Fabrizio. A subire un trattamento narrativo clamorosamente evanescente, di raffinata abilità sotto l'apparente incoerenza o trascuratezza, è piuttosto la prepotenza di lui. Esiste o non esiste? La prima parte non tarda a volerci
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dar prova letterale che sf: dato il solo e peccaminoso scopo possibile della gita serale a Palermo, «il prendere poi come compagno l’ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza» (33, 31). Se, almeno questa volta, è sul serio perpetrata, ne compensano di molto 1’inilita le oscillazioni che l’accompagnano: «si penti di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà»; «si trovò di nuo-
vo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre apriva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo...»; scontato che la crisi isterica muliebre sia contro-
producente: « “Avanti!” disse al cocchiere» (33-34, 30-31). Lo stesso, nessun lettore s’immaginerebbe a quest’altezza che l’esempio sia destinato a restare unico; ciò che non è mai più mostrato continua peraltro ad esser predicato come cosa frequente. Viene affermato che Concetta «si piegava ad ogni esosa manifestazione della volontà paterna», salvo a tradirsi con gli occhi «quando le bizzarrie alle quali ubbidiva erano davvero troppo vessatorie» (74, 74-75). Ora, Don Fa-
brizio è lungi dal comportarsi come un ottimo padre verso Concetta. Ma in attesa di riparlarne, prendiamo atto che le sue colpe sono tutte in omissione, complice la pigrizia se non la vigliaccheria; e per ciò stesso non comportano esosità, bizzarrie né vessazioni. Difficile anche considerare tali certe piccole soperchierie effettuate al coperto dell’educazione. Ai danni di Sedàra: «il piacere di proporre di andare lui stesso subito» a visitarne la moglie, data per indisposta mentre lui sa che è impresentabile (132, 136). A quattr’occhi con Chevalley: il far l’atto di alzarsi per aprire la porta al cane «con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui» (161, 169). Quanto ai «momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi» (224, 233), contano in second’ordine nel consuntivo finale, ma a niente di simile abbiamo mai assistito. Quello che vale per la prepotenza, vale a maggior ragione per l’ira. Non una sola volta, l’ho già detto, vediamo in
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atto una di quelle collere effettive e sfrenate di cui pure la fama circonda Don Fabrizio. Padre Pirrone ne «aveva sperimentato la collera rumorosa» (49); al nipote Fabrizietto sa-
rebbe rimasto «il ricordo di un vecchio e collerico nonno» (221, 230); don Pietrino l’erbuario, probabilmente senza
averlo mai visto, lo sa «grande, rabbioso e orgoglioso» (175, 184), ecc. Direi che dai personaggi la fama si estende automaticamente ai lettori, per farci cascare i quali il trabocchetto è preparato: ognuno giurerebbe, a libro chiuso (ne ho fatto verifica sperimentale in un corso universitario), che nel romanzo Don Fabrizio si arrabbia spesso e molto. Come stanno le cose, a libro aperto? Qui l'eccezione in positivo dovrebbe essere la scenata a letto, con tanto di voce urlante a
pieno fiato, di erroneo pugno su un ginocchio, e di: « Decido io; ho già deciso da quando tu non te lo sognavi neppure». Solo che il tutto procede, nell'immediato, dalla speran-
za di non dover uscire dal letto; in previsione, da uno strumentalizzare la furia a inverso scopo di calma: «Per esser sicuro della calma futura si rivesti di falsa furia» (100-1, 101-
102). L’indignazione contro il figlio bigotto e borbonico rappresenta il momento più vicino a una arrabbiatura vera. E tuttavia pur sempre ben ragionato, anche se in modo troppo implicito perché l’aggredito possa capire; almeno fino alle parole: «Vai via, non ti permetto più di parlarmene! qui co‘mando io solo». Si badi che questa pura riaffermazione di autorità va a contrariare l’opzione politica più autoritaria; e anche qui l’ira dura ben poco: «Poi si rabboni e sostituf l’ironia all’ira» (54, 54-55). Ha valore soprattutto interiore, nessuna delle occorrenze essendo seguita da parole violente o incontrollate, tutta la seguente serie - di cui perciò mi risparmio i contesti: «Il Principe [...] si irritò» (104, 105); «Il Principe si seccò» (116,
120); «Il Principe [...], cominciò ad irritarsi» (119, 123); «il Principe si spazientf» (120, 124); «Il Principe si seccò» (163, 172). Meno laconica la serie in cui si fa esplicita la dialettica fra un represso orgoglioso, prepotente o iracondo, e una
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repressione mista di educazione, di dignità, di misura o di morale. Il più delle volte la repressione previene ogni manifestazione del represso, e tutto rimane muto, come se il fre-
no agisse simultaneamente all’impulso. Il rumore della zuppiera percossa è «segno di collera grande ancor contenuta», e che contenuta resta (32, 29). Pensata una cattiva risposta
da dare al gesuita, «subito si pentf della villania non consumata» (36, 34). Penetrate le intenzioni politiche del soprastante: «Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne...» (46, 45). All’annunzio dell’ineluttabile nobilitazione posticcia di Sedàra, «il proprio riso represso gli addolci la bocca, fino alla nausea» (125, 130). Portato a co-
scienza un odio simbolico verso lo stesso personaggio: «Ebbe voglia di rispondergli malamente, d’invitarlo ad andarsene fuori dai piedi. Ma non si poteva», e le ragioni non tardano a sfiorare la compassione (200-1, 210). Con quest’ultima serie siamo fatalmente trapassati dalle risorse interiori di Don Fabrizio a quelle sue caratteristiche interiori che invece, nell’occupare autorevolmente la sua posizione, lo ostacolano. Andiamo cosî al passo più significativo e sintetico: il solo che stia alla pari con la presentazione iniziale del protagonista, nel metterne in luce la conflittuale unità, l’immobilità per neutralizzazione di forze; ma stavolta, in azione. A caccia Tumeo, preso alla sprovvista dalla notizia del matrimonio, ha osato prorompere in una tirata inconsulta. Si tratta, a loro volta, delle reazioni di lui: Il Principe era diventato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli occhi sembravano sangue. Strinse i magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di scienza, abituato dopo tutto a vedere il pro e il contro delle cose; inoltre sotto l’aspetto leonino era uno scettico. Aveva di già subito tanto oggi: il risultato del Plebiscito, il soprannome del nonno di Angelica, le «lupare»! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini. I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei palmi. «Andiamo a casa, don Ciccio... (117, 121).
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L’intimità e la storia
Il momentaneo furore sanguigno, come il contemporaneo
sforzo per bloccarne l'esplosione, s’immaginano proporzionati alle dimensioni e al vigore del colosso; quando i pugni si riaprono, resta il segno. Il monologo interiore, di qualche rigo, esemplifica magistralmente le relative transizioni di stendhaliana memoria. Lo prepara la voce d’autore, sola a poter enunciare le stabili motivazioni caratteriali, per desistere dall’aggressione (Ma era un uomo di scienza...); lo svol-
ge il discorso indiretto libero, nel quale si susseguono le motivazioni circostanziali (Aveva di già subito tanto...) - e con
esse l’autocompatimento, e la doppia oscillazione, e la fretta di rassicurarsi. Non si sa bene se Tumeo avrebbe dovuto essere punito per aver detto il falso, o un vero da tacere. Ma le reazioni non andrebbero a tanto, se le parole sfuggite al subalterno non estendessero a tutto il racconto la portata d’un ardito e catastrofico momento di verità. Il fondo di mitezza del prepotente e dell’iracondo presunto è, più d’una volta, messo a nudo da un lessico che di
per sé non lo fa apparire in difetto. Di lui, padre Pirrone aveva sperimentato anche «l’indifferente bontà» (49): alla parola centrale del lessico in questione, bontà, l'aggettivo fa da
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aristocratica sordina. Cosî, durante il pranzo che lo trova rasserenato, «la fondamentale bonomia di Don Fabrizio riappariva alla superficie» (51, 52); leggendo ad alta voce alla famiglia riunita, «sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori» (136, 140); i diavoletti del palazzo erano stati posti in fuga dal suo «carattere soltanto bonariamente carnale» (143, 148); l'appellativo confidenziale sussurratogli da Angelica «mandò in visibilio il cuore semplice del Principe», addirittura (132, 135). Ma se sostituiamo al metro morale
Madiclkh quello pratico, “diventa ahimè un difetto che i duri consigli
‘di Sedàra in materia d’affari vengano «applicati dal bonario Don Fabrizio con timorata mollezza» (1 30, 133). Prima an-
cora che si scontri con esigenze pratiche, la sensibilità da cui | è ingentilito il personaggio gli si ripiega dentro in suscetti;{| bilità e vulnerabilità. È pronto a irritarsi come a pentirsi, a
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
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disgustarsi come a vergognarsi, a incupirsi come a sofisticare; più raramente, è incline a compatirsi come a compatire.
Qui è preferibile che i successivi campionari di citazioni siano selettivi, piuttosto che ripetitivi rispetto a molte altre già fatte o da fare. Abbiamo ben visto, alla lettera o in parole sinonime, irritazioni e pentimenti. La vergogna di sé è latente nella disposizione autocritica: per esempio, « Veramente son un bel tutore, col pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa» (35, 33). Coi contadini affittuari, «si vergognò un poco perché si era accorto che il colloquio era stato una ripetizione delle udienze di Re Ferdinando» (53; in che cosa lo sia stato, non sembra troppo chiaro). Al cospetto di Angelica, si è accorto che sta invidiando l’impunità di licenze feudali dei secoli passati; il brutale impulso lussurioso ha la forza di: fare arrossire il civilizzatissimo gentiluomo cinquantenne, e l’animo di lui che, pur attraverso numerosi filtri, aveva finito con tingersi di rousseauiani scrupoli, si vergognò profondamente; dal che venne dedotto un ancor più acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale nella quale era incappato (97).
Il disgusto estroverso, pur documentabile*, si sviluppa meno di quello che coinvolge, insieme alle congiunture o ad altre persone, se stesso. Dopo la visita a Mariannina, «immerso
com'era in una serenità sazia maculata di ripugnanza», la soddisfazione virile non gli risparmia pensieri come questi: «Ma che tristezza, anche»; «e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro»; qui emerge un’associazione d’idee con versi (di Baudelaire) dove il dég0#t è riflessivo; finché «si ad-
dormentò, in una sorta di disperata euforia» (38-39, 36-37). Pit severi ancora verso di sé i pensieri, più elusivo il sonno, alla svolta politico-matrimoniale prevedibile dopo l’incontro di Tancredi con Angelica: fra le cause di turbamento, «la 4: A] riso represso «fino alla nausea» (125, 130), aggiungo: «Lo spettacolo di sangue e di terrore, però, lo disgustò» (53, 54); «Una sensazione di disgusto stava per assalirlo» (124, 130); «Leggermente nauseato. :.» (199, 208).
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propria pusillanimità», né più né meno; il nipote era «un tantino ignobile. E lui stesso era come Tancredi. “Basta, dormiamoci su” » (85, 87-88).
Si denuncia per voce d’autore una specie d’illegittima difesa del personaggio, là dove leggiamo, nel monologo interiore sulla via di Mariannina, che «lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento»
(37, 35). Ma sofisticate sono persino
le offese a cui l’intellettuale Don Fabrizio è esposto da quanto la mente umana ha di più passivo: «una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua», basta a rovinargli la placida toletta fatta per affrontare Sedàra; di nuovo, come nel caso dei versi, si trat-
ta di un’associazione culturale: coi quadri storici dove i generali austriaci sconfitti sono più eleganti di Napoleone vincitore (118, 122). Quanto all’autocompatimento, ha le sue
righe deputate nei paraggi dello spirito di arzigogolio, ed emana dallo stesso bisogno di discolpa: Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. «Sono un pover’uomo debole,» pensava mentre il passo poderoso comprimeva l’acciottolato sudicio «sono debole e non sostenuto da nessuno (37, 35-36).
Alla delizia di queste righe è certo essenziale il contrasto umoristico con l’andatura del colosso; nei termini freudiani
accennati prima, induce al totale risparmio della compassione da lui postulata, risparmio tanto maggiore quanta più simpatia qui c’ispira. Anche con padre Pirrone, nei limiti del decoro, il temuto capo di famiglia si lagna: «Capisco, Padre, capisco. A casa mia non mi comprende nessuno. E la mia disgrazia» (73). Ho segnalato il momento autocompassionevo-
le nel monologo interiore faccia a faccia con Tumeo: «Ave4 Anche altre volte, per Don Fabrizio, soluzione immediata di tensioni è l’abbandono al sonno. Subito dopo l’ira breve contro il figlio Paolo, si stende sul divano: «e si addormentò tranquillo» (54, 55). Ritrovata non facilmente la calma, dopo la missione di padre Pirrone per conto di Concetta: «Sedette su una poltrona e si appisolò» (76). Forse perciò, morente, «trovò che cedere adesso al sopore era altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un desiderato banchetto» (220, 229).
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va di già subîto tanto oggi» ecc. (117, 121). Infine, e non a caso, tendenza all’umor nero e capacità di compassione verso gli altri hanno i loro momenti, consecutivi, nella parte se-
sta. La svolta politico-matrimoniale, solo processo attivo di cui il protagonista sia partecipe, è compiuta; un’ellissi su vent'anni, il cui prevedibile lento declino non si desidera raccontare, fa del ballo nel 1862 l’anticamera narrativa della
morte nel 1883. Perciò non occorre motivazione, oltre le tenui occasioni di disgusto estroverso, alle frasi: «sentiva che il cattivo umore lo invadeva lentamente» (197, 206); «la malinconia si era mutata in umor nero autentico» (199, 208).
Non occorre motivazione, salvo il fondo di bontà protetto da indifferenza, alla frase: «senti spetrarsi il cuore: il suo disgusto cedeva il posto alla compassione» (201, 211). E fuori dai contesti: «Il povero Salina si senti stringere il cuore» (40, 39), «dinanzi alle prospettive inquietanti sentiva stringersi il cuore» (209, 221); in una delle frasi più commoventi della morte: «il cuore gli si strinse» (220, 229). Prima di essergli vicini in morte, noi conosciamo il personaggio solo durante circostanze storiche che ne mettono a dura prova il dignitoso e difficoltoso equilibrio di fondo. La contropartita egoistica della sua bontà è, ancora pit al fondo, tutelata pigrizia: «le forze di difesa della calma interiore, tanto vigilanti nel Principe» (47, 46); la «naturale tendenza che egli possedeva a rimuovere ogni minaccia alla propria calma» (74, 75)*". Eppure c’è dove si parla, e sono io che sottolineo, «di quelle precauzioni di accorgimenti che ripugnavano alla sua natura presunta leonina» (99, 100). Presunta da chi? non da qualcun altro, in questo caso, se è giusto intendere che la ripugnanza sia interiore: l’immagine leonina di sé, garantita come sappiamo dall’aspetto, e quindi riflessa attraverso occhi altrui, è però interiorizzata in profondità nel personaggio. Fra il suo dover essere simboleggiato da ta4 Fin troppe potrebbero essere le documentazioni, in pensiero e comportamento. Un solo richiamo lessicale: come invidia dei passati privilegi, la «lussuria atavica» era anche «atteggiamento sensuale della pigrizia» (97).
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le immagine, e un essere al fondo bonario e pigro, si gioca propriamente la sua componente amletica (o almeno, amletica secondo Goethe). Non è certo a causa di un’inferiorità
intellettuale, se «molti problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto da don Calogero» (129, 132). Quando una decisione è resa ufficialmente inderogabile dall’occasione politica, il plebiscito, la rabbia di cui sotto i piedi del colosso fanno ancora le spese cose inanimate è proporzionale all’indecisione: Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall’urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; è superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello ma agli occhi di chi lo conoscesse un «sf» e un «no» alternati s’inseguivano sulla lucentezza del feltro (106-7, 109).
Il discorso specifico su Don Fabrizio non è terminato, ma abbiamo già tutti gli elementi per formulare alcune constatazioni storico-letterarie non superflue. Un simile protagonista sarebbe formalmente impensabile in un romanzo dell'Ottocento: dico protagonista, incaricato di fare appello a un’identificazione da parte del lettore, quale non la sollecita una figura laterale o negativa. Come avrebbero potuto venir presentate una tale inerzia politica, una tale labilità psicologica da parte del titolare d’autorità, per non risultare respingenti o addirittura inverosimili? Non si fa, coi se, nemmeno la storia letteraria; ma direi che, in una ipotesi, avreb-
bero dovuto essere date apertamente per patologiche e pietose. In un’altra ipotesi, si sarebbe avuto un personaggio ben piu sbilanciato di quello di Lampedusa in senso comico, e castigato dei suoi difetti dal riso. Qualcosa, allora, come l’Oblòmov di Gonéarov gravato però di responsabilità familiari e politiche; Auerbach ci ha insegnato che tradizio. nalmente, prima dell'Ottocento e ancora durante, era rap-
presentabile in forma comica ciò che in forma seria non sarebbe stato accettato. Certo, I/ Gattopardo è un libro che ‘ Cfr. e. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1964, II, p. 253 e cap. vm passirz.
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fa moltissimo ridere o sorridere, e anche grazie a Don Fabrizio. Ma non è a protagonisti ottocenteschi che lo imparenta la sua carica umoristica: se il personaggio tragico a cui
più somiglia è Amleto, può caso mai ricordare sommi personaggi comici della stessa epoca per il fatto che quell’umorismo sia largamente connesso all’aspetto fisico. Dalla statura è connotato, sebbene per contrasto, come don Chisciotte dal-
la sua secchezza o Falstaff dalla sua pancia. Con questi due cavalieri, uno immaginario e l’altro millantatore, Don Fabrizio condivide anche un qualche problema di declassamento. Come, d’altra parte, lo condivide con
un personaggio di occasionale forza comica proporzionale alla tragicità delle sue contraddizioni, inaccessibile dentro e oggettivato da fuori: il più grande e più scisso del primo Novecento, Monsieur de Charlus. E infatti enunciare l’impensabilità di un Don Fabrizio nell'Ottocento, confermarla con
ipotesi alternative o fughe all’indietro nella storia letteraria, equivale a constatare la modernità pur poco chiassosa del Gattopardo. È proprio la presentazione del protagonista, problematica ma non patologica, umoristica anziché comica, simpatetica senza moralismo, a permettere nel racconto da saggi intentati prima di Proust, Joyce, Virginia Woolf: fra quanto sarebbe a priori importante come storico o tipico o patetico, e quanto dovrebbe essere relativamente irrilevante, nella sua sfera di contingente sincerità egocentrica individuale. Per esempio: fra ciò che il romanzo ha di meno lon-
tano da una trama, la svolta che ho chiamato politico-matrimoniale, e in altrettante tappe di essa che sono i colloqui di Don Fahtizio con padre Pirrone, con la moglie, con Sedàra, le effimere preoccupazioni legate rispettivamente alla nudità e vestizione dopo il bagno (72-75, 72-76), al rischio di dover uscire dal letto a piedi nudi (99-101, 100-2), ai cimenti d’amor proprio che si sforza di tenere a umoristica distanza la metafora lessicalizzata ingoiare il rospo (112, 116; 118-25, L22331), 1
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6. Come i protagonisti intellettuali preromantici e romanti-
ci che abbiamo incontrato nella rassegna dei suoi precedenti, Don Fabrizio non sarebbe cosî inadeguato al mondo se il mondo non fosse inadeguato a lui. Mi sono addentrato nel labirinto della sua psicologia non senza circospezione, perché un personaggio è un fantasma che vive di parole, e c’è sempre il pericolo di reificare al di là delle parole la psicologia d’un fantasma. Ma dagli ostacoli interiori corrispondenti a debolezze del personaggio, passiamo ora a quelli costituiti piuttosto da esigenze razionali di lui: alle quali è soltanto il mondo a dar torto — più equo dire il mondo che lo circonda, anziché il suo mondo..Nel capitolo successivo, vedremo che almeno alcune di queste che chiamo esigenze razionali si contrappongono, puntualmente, ad altrettanti aspetti della Sicilia qual è rappresentata nel romanzo. Cost che il bivio speculare fra soggetto e mondo si ripropone, provando a pensare dal punto di vista di esso alla genesi dell’opera: non pare facile decidere se le esigenze in questione siano attribuite al protagonista per contraddire quella preconcetta Sicilia, o se questa abbia preso la forma che ha preso per contraddirle. Cominciamo dalla cura di lui per lapulizia, non solo personale. Nell'ambito di una stessa parte, la prima, torna abbastanza volte da sfiorare la fissazione. Ho già citato a pezzi questa frase, che chiude la prima visione del personaggio: «un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto» (24-25, 21). Certo, è subito un segno di quella ipersensibilità aristocratica allo stile, che in altra parte farà dire a padre Pirrone: «ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato» (177, 185-86). Ma c’è qualcosa di più specifico, e lo confermano, non più in posi-
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zione incipiente, le riprese lessicali. Prima, la correzione al cameriere, non altrimenti motivabile: «Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?» (41, 40). Poi, pausa e alibi durante il dialogo col gesuita in osservatorio - nonché esempio limite di coerenza tematica e valenze segrete nelle pit passeggere informazioni narrative: con uno spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella meticolosa sua attività; dopo un po’ si alzò, si pulî a lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione, i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina di grasso rifugiatasi alla radice delle unghia (49).
Infine gli agnellini dal ventre squartato, tributo dei contadini affittuari, sollevano associazioni più tragiche che non la sporcizia. Ma ecco il tenore delle disposizioni date da Don Fabrizio: «un’altra volta gli agnelli portali direttamente in cucina; qui sporcano. [...] vai a dire a Salvatore che venga a far pulizia [...]. E apri la finestra per fare uscire l’odore» (53, 54). Nella parte seconda assistiamo al suo bagno, e padre Pirrone che malvolentieri presenzia alla fine affrettata di esso, si sente impartire l'’« ammonimento igienico» di prendere un bagno anche lui (71-72). Una seconda esigenza, quella di ordine, dall’orlo dell’insignificante sale fino agli astrali livelli degli interessi quasi professionali di lui*. Non vorrebbe dire nulla che rammenti al contabile: «bisogna mettere dell’ordine nella esazione 4 La credibilità del personaggio si avvantaggia del fatto che, alle sue doti scientifiche, non facciano riscontro conoscenze e gusto letterari (cfr. sopra, nota 2, la citazione da Samonà). Nella situazione di cultura regionale su cui si sofferma la vo-
ce d’autore (136-37, 140-41), sarebbe improbabile che gli sembrasse altro che «una poesia strampalata» quella rimasta per lui anonima di Baudelaire - benché se ne applichi due versi (39, 37); che non lo disgustasse l’ingegno «vigoroso ma stravagante e “fissato” » di Balzac — e qui gli viene accreditata «una certa acutezza» (136, 141). Il romanzo di cui dà lettura in famiglia è Angiola Maria (1839, sottotitolo Storia domestica); del milanese Giulio Carcano (1812-1884). Chi vuol sapere cosa Lampedusa pensasse della narrativa minore al centro dell'Ottocento italiano, si diverta a leggerlo nelle lezioni inglesi: MM, p. 1045 (fra Grossi, D'Azeglio, Rosini, Cantù e Guerrazzi, il nome di Carcano manca). Cfr. A. DI BENEDETTO, Tomzasi di Lampedusa e la letteratura (vedute parziali), in «Giornale storico della letteratura italiana»,
1993, pp. 38-65.
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dei canoni di Querceta» (44, 43). Vuoldire assai di più che,
alla distensione del ritrovato palazzo di Donnafugata, la prima frase sia: «Tutto era in perfetto ordine» (69). Solo un intellettuale può riuscire, rassicurando con fittizie spiegazioni
tecniche figlia e familiari, «a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è» (52). Ordine vuoldire so-
prattutto ragionata prevedibilità: solo a un intellettuale l’inatteso, imminente, rivoluzionario ingresso di Sedàra in
frack può fare più effetto che la notizia di «un avvenimento previsto», oltre che «lontano e invisibile», quale lo stesso sbarco a Marsala (78, 80). Ma a suprema conferma che il personaggio (che ogni grande personaggio, forse) vive d’una intrinseca ricchezza di opposizioni, il campo astratto e terso dei suoi studi appare investito della serenità d’un grandioso risarcimento, di contro a quel caos concreto e sudicio che sono, anche senza guerra, la realtà, la storia — la Sicilia in par-
ticolare. Nel cielo puntuale non della religione ma della scienza, governa una prevedibilità assoluta; e la ragione quindi, da passiva di fronte agli avvenimenti, si fa immaterialmente attiva, trionfalmente partecipe: Sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili in quelle ore ma
presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli (50, 50-51).
Una volta, l'opposizione catartica emerge nei suoi stessi pensieri: le stelle «erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi» (210, 222). Il contrario; è perché disarmato, irresoluto di fronte al ribollente disordine delle difficoltà pratiche, e insieme privo però di facilità morale, che Don Fabrizio fantastica di «trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di
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un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre» (85, 87). E perché insieme rigoroso e indeciso, che aspetta di essere convocato dalla mattutina, fedele Venere «nella propria regione di perenne certezZan Wz11222)1
Dalla prevedibilità il passo è breve a una terza esigenza, che potrei chiamare di necessità, o di finalità, o semplicemente di senso. Si fa sentire, all’irruzione stessa dei fatti politici, nel modo più materiale e crudele: il «corpo sbudellato», la «faccia deturpata» del soldato morto presso il giardino, torna a chiedere «che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale». Morire per qualcuno o qualcosa, «è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno,
esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti [...]; e appunto qui cominciava la nebbia»: l'attaccamento di Don Fabrizio alla tradizione, nel conflitto con la sua dispo4? Il personaggio razionalizza la propria esperienza evasiva: «Il problema vero, l’unico, è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte»; la voce d’autore conferma che essa gli tiene, ci tiene dunque, luogo di religione: «E per quei momenti di astrazione egli venne, forse, pit intimamente assolto, cioè ricollegato con l'universo, di quanto avrebbe potuto fare la formula di Padre Pirrone» (51). Resta una questione vecchia quanto la nostra cultura: sono i guai dell'animale sociale a determinarne i problemi morali e “spirituali”, o sono questi a venire in luce al di sopra di quelli ?Per meglio dire: com'è risolta tale questione ne/ testo ?La mia interpretazione non lascia dubbi sulla risposta (e sarà chiarita, nel secondo e nel terzo capitolo, da una presa di posizione sul rapporto fra universalità e individualità in letteratura). Le tesi di E. SACcone, Nobility and Literature. Questions on Tomasi di Lampedusa, in « Modern Language Notes», gennaio 1991, sono che si tratti di un romanzo «wherein the desire for eternity can be expressed only in the finiteness of the moment», p. 178 ;che
il tema di esso «is not the decadence of a class and its supplanting, its usurpation
by another», p. 173; che «the Garibaldis, the Sedaras, [...] are not the cause of the
crisis from which the prince is suffering», p. 167; che «nobility would seem to lose almost completely its specifical historical, class connotations, and to dissolve itselforrather resolve itself into nobility of spirit», p. 172. Eppure, gioco delle congiunture culturali!, non credo sia solo grazié all'intelligenza dell’autore, al suo maggior rigore rispetto ad altri contributi in linea con le riprese americane di Heidegger, che ho letto quest'articolo con diletto. Deve entrarci qualcos'altro: suggella la dignità di classico cosî a lungo contesa al Gattopardo, e a maggior ragione dopo tante piatte prese alla lettera regionali e ideologiche, che una volta o due lo si legga come se non parlasse di ciò di cui parla, bensi in generale di eternità e finitezza, toi talità e frammentarietà, ecc.
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sizione critica, si rivela subito insufficiente (28, 24-25). Più tardi, nei fastidi che da tutte le parti lo hanno assalito, cer-
cava di trovare «un qualsiasi senso di finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva» (95); normalmente è rassicurante una cessazione o diminuzione dei fastidi, non una loro finalità e tanto meno una qualsiasi. Cosî, dopo la notte del plebiscito, gli «ristagnava ancora in fondo all'anima» un di-
sagio dalle «forme tanto più penose in quanto più incerte», che «non era di natura politica e doveva avere radici più profonde», una «persistente inquietudine». La prova sicura dei brogli elettorali, erompendo dal singolo voto violentato di Tumeo, non dovrebbe se non confermare e aggravare un tale disagio (morale, poiché non politico: restrizione del politico all’utilitario). E invece abbiamo: «A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva...» (108-10, 111-12); come se la calma non dipendesse per lui dalla qualità dei fatti, ma unicamente da una soluzione, da un sapere. Non so se posso chiamare razionale un’ultima esigenza, che è quella di solitudine. Si delinea davvero, per contrasto, non prima della parte sesta: dove finalmente vediamo Don Fabrizio fuori casa; dove apprendiamo di più, ne parlerò nel prossimo capitolo, sul rapporto fra il nobiluomo pensantee \la mediocrità intellettuale del suo ceto. Il ballo è per lui, an-
ziché una festa come per le ragazze, «un tedioso dovere mondano»
(192, 201). L’insofferenza verso la mondanità, che fa-
vorisce la sua discesa dal cattivo umore all’umor nero, pare funzione di preferenze abitudinarie da uomo di studio. Se non ci fosse venuto, «sarebbe beato nello studiolo [...], ad
ascoltare il chioccolfo della fontana ed a cercar di acchiappare le comete per la coda» (199, 208-9). L’irritata allucinazione che trasforma in scimmiette lo stuolo delle ragazzine sgraziate, gliela procura «la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti» (198, 207). Fra la parte sesta e la settima c’è poi come sappiamo, malgrado il salto cronologico, contiguità testuale e tematica. La lieve sen-
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sazione precorritrice di morte non era sgradevole «per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare va-
stissimi abissi interiori» (215, 223); qui, solitaria l’una e l’altra, l’introspezione si espande in profondità quanto l’ispezione astronomica in altezza**. E un fatto che, con tante complicazioni (e a rischio di semplificazioni nella lettura), Don Fabrizio non cessa di sembrarci un uomo fondamentalmente sano. Fa parte integrante della sua simpatia; fa parte della formazione di compromesso che accorda, nel romanzo, restaurazione d’un passato
e storia di decadenza, fantasticheria di desiderio e tragedia. Sappiamo ormai da quali delicati equilibri, fra indole e apparenze, fra incombenze e prerogative, fra esigenze e attitudini, fra ostacoli e risorse, passa una tale impressione di sanità del personaggio. Ma troppe frustrazioni lo insidiano, da fuori e da dentro, perché a tutelarne l’equilibrio degli equilibri, nel dentro del dentro, non debba soccorrere una
qualche valvola di sicurezza: e non ne ha altra che periodici, benefici momenti, di compiuto sollievo o di preservato appagamento. Momenti per lo più in cui si attenua, o si sov-
verte in dolcezza, la contrapposizione che ho accennata fra lui e la Sicilia — in questo caso fra una psicologia e un paesaggio. Se «il diletto dei giorni di caccia era altrove» che nel bottino, e cominciava da un silenzioso, solitario rituale di evasione mattiniera, e consisteva «nel fuggire, insomma», 4 A prima vista, l'esigenza di solitudine in Don Fabrizio darebbe ragione al pregiudizio biografistico, ossia della corrispondenza di personaggio e autore. Si legge nei Ricordi d’infanzia: «Non so se sono fin qui riuscito a dare l’idea che ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di pit stare con le cose che con le persone» (53, 361). Ma nelle lezioni inglesi si legge: «Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine» (MM, p. 967); non dubiterei che stavolta, dietro il ritegno nel parlare di sé dello storico letterario improvvisato, il sottinteso sia più tragico che euforico. Cosî, fra romanzo e vita, il modello della compensazione immaginaria si conferma più plausibile del modello della corrispondenza. L’esigenza attribuita al personaggio anziano non corrisponde se non a quello che era un piacere per l’autore ragazzo, cosa in cui c’è già un capovolgimento; mentre si è cambiata in volontaria predilezione, capovolgimento principale, la situazione che l’autore anziano involontariamente ed oltre misura subiva.
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L’intimità e la storia
l’approdo più prossimo non presenta ancora i disperati caratteri della zona ulteriore di cui parleremo. Anzi: «si svoltava su per un pendio e ci si trovava nell’immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subito lontani da tutto, nello spazio e ancor pit nel tempo». Le temporali controversie rimaste a nuocere in territori pur vicini, «ri-
spetto all’immutabilità di queste contrade fuori di mano», possono svanire nell’innocuo fino ad assimilarsi a un futuro
(93-94). C’è invece un gruppo di momenti in cui il godimento della pace non presuppone una fuga dalla casa, esistendo un elemento del paesaggio che non può non entrare in casa, e nel farlo non può non trasformarsi: la luce. Fuori, per tutti, il sole siciliano è dato per quel che è dato, uno schiacciante ipnotizzante impedimento all’esercizio di volontà e civiltà. Ma dove lo si sottintende schermato dalle finestre, mitigato in fulgore e in calore, quel che penetra di sole si rende compatibile con un’atmosfera signorile; e ristora Don Fabrizio,
quasi simbolo del privilegio di cui cinge, dora e risparmia la cerchia. (Questa è, beninteso, la presentazione delle cose nel Gattopardo: che l'eccesso esterno di caldo e luce possa volgersi in fresca intimità al riparo d’una ‘penombra privata, lo sa un’esperienza interclassista di abitazioni meridionali d’ogni rango). Non a caso i passi in questione si esauriscono fra la parte prima e la metà della seconda, fanno da contrappunto proprio alle inquietudini iniziali per un privilegio appena attaccato. A S. Lorenzo: «La casa era serena, luminosa ed ornata; soprattutto era sua»; «Le stanze [...] silenziosamente illuminate dal sole attraverso le persiane chiuse»
tt
(42, 40); «Giù, intorno alla villa il silenzio luminoso era
profondo, signorile all’estremo; sottolineato pit che disturbato» dalla lontananza di rumori domestici (49). A_Donna-
fugata: «le dorature delle rilegature antiche emettevano il loro fuoco discreto, l’alto sole faceva brillare i marmi grigi attorno ad ogni porta» (69); «le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la pendola di Boulle batteva sommes-
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sa. “Che pace, mio Dio, che pace!”» (71)*. Questo gruppo di momenti ha riscontri meno brevi e non meno belli in ambito intertestuale d’autore: nei Ricordi d'infanzia. Ma quand’anche cosî non fosse, non esiterei a individuarlo come luogo primario d’irradiazione della nostalgia da cui parte il romanzo: la collocazione dei passi fa loro esprimere contemporaneamente, come e più che nel testo autobiografico, quiete di possesso e presagio di perdita”. Sono le immagini che meglio condensano i due termini del titolo di questo libro - l’intimità in conflitto con la storia. Attingono anzi sen-
so da tre lati: da un protagonista, da una situazione storica, ma in più per qualità climatica da una geografia - le tre componenti a cui ho intitolato i capitoli del libro. Scrive G. P. Samonà che Palermo è periferia e facciata del privilegio dei Salina, mentre centro e sostanza ne è il feudo”. 4° Inoltre, simmetricamente verso l’inizio e la fine della parte prima: «I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe» (25, 21); «Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le bertucce maligne [del parato]» (55, 56).
7° I Ricordi d'infanzia cominciano da uno dei più antichi, e l’effetto di sole è già lf; ma il ricordo è databile perché consiste nell’arrivo d’una notizia politicamente traumatica, l’assassinio di Umberto I: «Era la mattina, verso le 11, credo, e vedo la grande luce di estate che entrava dalla finestra con i battenti aperti, ma le persiane chiuse» (31, 339). Muove dalla distruzione che ne fecero le bombe la magnifica evocazione amorosa della casa di Palermo; cito soltanto: «In nessun punto della terra, ne sono sicuro, il cielo si è mai steso pit violentemente azzurro di come facesse al di sopra della nostra terrazza rinchiusa, mai il sole ha gettato luci più miti di quelle che penetravano attraverso le imposte socchiuse nel “salone verde” » (36-37, 345-46). Non posso citare intera nemmeno la pagina che è tutta sulla «ma-
gia delle luci» al di dentro: «talora, specialmente in estate, i saloni erano oscuri ma dalle persiane chiuse filtrava la sensazione della potenza luminosa che era fuori»; «Un vero sortilegio di illuminazioni e di colori che mi ha incatenato l’anima per sempre. Talvolta in qualche vecchio palazzo o in qualche chiesa ritrovo questa qualità luminosa che mi struggerebbe l’anima se non fossi pronto a sfornare qualche “wicked joke” »: la perdita è sottaciuta nell’ultima frase (44-45, 353-54). Cfr. oRLANDO, Gti oggetti desueti cit., p. 461. Per Samonà, in continua polemica trotzkista con la sinistra ufficiale, non è facile «ammansire il contenutismo progressista - pur maestro di giustificazionismo storicistico — verso gli oggetti della sua repugnanza»;
ma, a partire dall’inconfutabile constatazione che ilprivilegio feudale è «fra le cose state», la rappresentazione di esso nel romanzo trae beneficio conoscitivo da un punto di vista interno. Pit oltre, si parla di «poeticità» di esso, poi stabilmente d’una «poetica del privilegio»: predeterminata, nel legame fra protagonista e autore, dalle «tremende frustrazioni umane e sociali di chi la decadenza vive nella sua fase travolgente» (sAMONÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 43-44, 47-48). 71 Ibid, p. 63.
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)
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L’intimità e la storia
Non è paradossale quindi che, da una parte, vada misurato soprattutto a Donnafugata il cambiamento politico; dall’altra, sia lî la sede d’una certezza di durata la cui profondità nel passato va pit lontano della sua illusorietà rispetto al futuro, proteggendo per una volta l'attaccamento alla tradizione dal pessimistico raziocinio di Don Fabrizio. All’arrivo, la requie sperata dai luoghi precede i dubbi sulla devozione della gente: «Donnafugata era vicina ormai con il suo palazzo, con le sue acque zampillanti, con i ricordi dei suoi pantenati santi, con l'impressione che essa dava di perennità {dell infanzia» (65, 64). Frase la cui ripresa sarà quasi letterale nell’ora della morte. Dopo che un recupero panteistico della personalità sgretolata è stato prefigurato con lessico edilizio, «riedificarsi altrove»,
«cementare una mole più dura-
tura» (215-16, 223-24), dopo che la sua casa irraggiungibile benché quasi visibile gli è sembrata «lontanissima», e Donnafugata stessa «una casa apparsa in sogno; non più sua» (220, 229), nel consuntivo finale dei
«momenti felici» dura
intatta la certezza di durata che essa gl’infondeva: «Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in2acqua, il =] tempo congelato» (223-24, 233). La mobilità di un’ acqua inesauribile ha dunque potere di scongiurare l’insidia del tempo come l’immobile-pietrà) E tempo è il dolore, mentre la promessa momentanèamente non data per bugiarda è di piacere perenne: «dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore». Questa visita alla fontana di Anfitrite dopo l’arrivo nei luoghi, il più voluto e prolungato fra i momenti, implica con conciso pudore le tenerezze di memoria d’un pellegrinaggio sentimentale: «Vi si diresse, svelto, avido di rivedere»; «Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo» (76, 77). Infine, al di sopra d’una conciliata Sicilia, e dalla pace centripeta della casa tornando a una calma supremamente n
arti
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
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centrifuga, bisogna riparlare delle stelle. Non pit perché soddisfano un’esigenza razionale di ordine, ma perché appagano un ideale affettivo di purezza e disinteresse sovrumani: dall’alto, è come una trascendenza epurata da fantasie religiose e concessa a un’immaginazione laica; dal basso, è co-
me se Don Fabrizio proiettasse nel sublime la propria negazione dell’aggressività, e assoluzione della pigrizia, e attrazione regressivamente erotica per la morte.
Fra i disagi
quotidiani, i quali coprono di carte la scrivania dell’Amministrazione, non basta aver avuto cura «che buona parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall’astronomia», paragonabile alla morfina da poco scoperta: deve «esiliarsi presto da quei sereni regni stellari», all'ingresso del contabile; e, rimasto solo, ritardare «il proprio tuffo nelle
nebulose» (43-44, 42-43). Più in là, è proporzionale all’aggravarsi della situazione, allo stesso afoso intorbidamento delle stelle, il momento di linguaggio più apertamente lirico (poi appena temperato da scherzosa mitizzazione mondana): «L’anima di Don Fabrizio si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano. [...]. “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene” » (85, 87). Fra le parti del ballo e della morte, sia transizione che
simmetria finale non potevano essere affidate ad altro tema. Sul finire della parte sesta, «voleva attingere un po’ di conforto guardando le stelle. Ve n’era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò»; a chiusura, si domanda quando Venere, che come prima della caccia è lf ad attenderlo all’alba, «si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero» (210-11, 222). E a chiusura della parte settima, la personificazione femminile che viene a prendere il moribondo, nell’istante ultimo, «gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari» (225, 235). Durante il consuntivo, aveva lasciato in forse se le ore «assorte nell’astrazione dei calcoli e nell’inseguimento dell’irraggiungibile» non fossero state, piuttosto
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L’intimità e la storia
che vita, «un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie» (223, 232)?
Ta
Tutti i registri stilistici del testo (aspettano uno specifico studio, che non è questo mio tematico) sono alternativa-
mente mobilitati dal discorso sulla morte. A maggior ragione lo sarebbero se s’intendesse il tema in senso largo, cioè in tutte le sue ramificazioni metaforiche, che dall’accezione fi-
sica di base porterebbero alle sfere politica, sociale, climatica, psicologica. Mi basta citare, per la prima sfera, ed entro \ il punto di vista di Don Fabrizio entrambe, una metafora e una comparazione sulla fine del regime borbonico: «questa ‘monarchia che aveva i segni della morte sul volto» (31, 28); «Sembravano [i falò notturni degl’insorti] quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le estreme nottate» (35, 33). Anche restando però all’accezione non metaforica, si spazia fraidue registri più opposti: fra un’idealizzazione lirica della morte, quale passa come abbiamo appena visto dall’amore per le stelle, e una sincerità espressionistica che non perdona niente di troppo atroce. È vero che quest’ultima, almeno per quanto riguarda la morte degli umani, e con essa la violenza della storia, si sfrena brevemente una volta sola; ma con rilievo massimo, conferito dalla posizione. Il pensiero, le associazioni d’idee, il monologo interiore di Don Fabrizio, dopo la prima apparizione e la presentazione, si schiudono durevolmente a partire dal ripugnante e particolareggiato ricordo di un cadavere, quello martoriato del giovane soldato. «Lo avevano trovato bocco?? Avendo concluso col tema astronomico, do per eventuale comodità di lettori o studiosi tutta la serie delle pagine dove, molto o poco, compare: 25-26, 22; 30,
27; 38-39, 37; 43-44, 42-43; 47-48, 47; 49; 50, 50-51; 61, 60; 64, 63; 85, 87; 118, 122; 158, 166; 159, 167; 209, 221; 210-I11, 222; 215, 223; 220, 229; 223, 232;
224, 233; 225, 235.
Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile
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ni nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e
di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera». Prima di ciò, le «zaffate dolciastre» dell’odore; dopo, una ricomposizione della salma che fra l’altro obbliga a «ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre»; un trasporto per effetto del quale «la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo» (27, 23-24), falso crudele eufemismo - come altrove in uno scorcio degli omicidi mafiosi: «quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle “trazzere” » (168, 177). Ogni altra volta che la morte è strazio fisico, si tratta di
strazio animale. E compare sempre nel punto di vista di Don Fabrizio: quasi figura di “spostamento” nel senso freudiano (la scelta rappresentativa, o l’accento emotivo, cade su ciò che è meno pertinente o importante, 4/ posto di ciò che lo è di più). Qui chiamerei pietà ciò che si sposta dall’uomo agli animali; ma per riandare subito all'uomo, nel caso degli agnellifiî «con le teste pateticamente abbandonate al disopra della larga piaga [...]; anche i loro ventri erano stati squartati e gli intestini iridati pendevano fuori»: anche introduce l’associazione con «lo sbudellato di un mese fa» (53, 53-54). In un altro caso, è stato il cacciatore stesso a colpire: Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da due grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga; l’animale moriva torturato da un’ansiosa speranza di salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini; mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito, e morf...
Non c’è, fin dove ho citato, una parola che non sia in prospettiva di personaggio; è il guardante a vedersi fissato — senza rimprovero perché senza comunicazione. La saldezza
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L’intimità e la storia
dell’ideologia antropocentrica gli consente un’insolita dissociazione: fra un rimorso che non lo riguarda, e una pietà sviluppata tuttavia sino in fondo come identificazione. La morte dell'animale viene letta dall’uomo, che ne prendele parti: riflettendo, quasi con rimpianto, che l’umiltà del colore
avrebbe potuto salvarlo; interpretando quale residuo di fuga, equiparabile a illusioni umane, l’automatica contrazione delle zampe; rivolgendo contro un’astrazione come l’ordinamento delle cose, per comprenderlo in quanto attonito, il dolore di cui sono carichi gli occhi. Dopo queste righe stupende, la contraddizione pare semplificata quando la voce d’autore esplicita che Don Fabrizio «aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante di compatire» (102, 103). °°» Il compatimento verso animali che è consuetudine torturare resta del tutto implicito quando, al buffet di palazzo Ponteleone, «coralline le aragoste lessate vive» aprono un elenco che s’interrompe su «dieci altre crudeli, colorate delizie» (206, 217)”. Ma poche pagine prima, dal fondo della vocazione di Don Fabrizio a comprendere e a immedesimarsi, è affiorata all'improvviso una compassione astratta e commossa non spostata agli animali. E sempre ispirata dalla morte, non come orrenda vista stavolta - anzi, dallo «spettacolo più patetico di ogni altro» della gioventù confidente ed ignara; e, in nome della morte, si allarga per un momento al-
la condizione di tutto ilgenere umano: «Come era possibile X{infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire ?»; «Non era lecito odiare altro che l’eternità»?. Questa fraternità contro
? Inoltre, nel momento di monologo interiore diretto in osservatorio: «Lasciamo [...] che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole»; la sua è chiamata «sanguinarietà» (50-51, 51). % La «Ginestra» lampedusiana, cosi Samonà intitola il suo capitolo sulla parte sesta: «Ma sono proprio la disperata sua condizione ed il suo modo altrettanto disperato di concepire la condizione umana in genere, a sospingere don Fabrizio ver-
so la soluzione, o per meglio dire l'approdo solidaristico: non certo politico, ma universale ed anche umanitario, proprio da Ginestra, con un comune nemico sullo sfondo, l'eternità dell’essere» (SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 149, 157-58).
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un solo nemico metafisico ha preso l’avvio indulgendo a un non metafisico nemico di classe, Sedàra: «Era forse un infe-
lice come gli altri». Da una parte quindi trascende la solidarietà di classe, in cui subito dopo pur tende a risolversi, con la gente «della medesima risma» che riempie i saloni. D’altra parte è virtualmente ancora pit universale, se è dagli uomini agli animali che, per comparazione parificatrice, la pietà fa ritorno: belle coppie danzanti, o immaginarie scimmiette, o «vecchi babbei suoi amici», i presenti sono «miserevoli,
insalvabili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello» (201-2, 210-11). Com-
parazione che avrà umanizzato in anticipo il proprio vicino e crudo tradursi in visione effettiva, per Don Fabrizio, all’al-
ba: «Un lungo barroccio scoperto portava accatastati i buoi uccisi poco prima al macello, già fatti a quarti e che esibivano i loro meccanismi pit intimi con l’impudicizia della morte. A intervalli una qualche goccia rossa e densa cadeva sul selciato» (211, 222).
Venire adesso dalla morte altrui, animale o umana, alla propria, significa accorgersi che la morte ha due modalità nel Gattopardo. E strazio, o invece è usura. Brusca, rapida e tre-
menda per il soldato come per il coniglietto, per il protagonista si esacerba in sofferenza soltanto al compiersi di un graduale lentissimo processo. Perciò la prima enunciazione che lo riguardi è anteriore di ben cinque parti all’esito ultimo: certe fantasie dell’uomo di mezza età, nel primo mattino, «lasciavano in fondo all’anima un sedimento di lutto che, accumulandosi ogni giorno avrebbe finito con l’essere la vera causa della morte»
(65, 64). Lui lo sa: quest'idea che la mor-
te si vada compiendo in realtà lungo la vita sdrammatizza l’una, in assenza di credenze nell’al di là, per aggravare piuttosto l’altra; e presuppone il libero pensatore solitario, entro una società della cui bigotteria resta rispettosamente osservante. C’è poco oltre, ai rintocchi d’un mortorio, la «effi-
mera identificazione con un defunto ignoto», sufficiente a calmare una depressione (75-76, 76); e poi si va alla malin-
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L’intimità e la storia
conia nella festa. «Don Fabrizio che se ne stava nero e rigido nel vano di una porta...» (200, 208): non nel suo ma nel
nostro punto di vista potrebbe sembrare un rettangolo verticale di bara, prima che lui cominci a chiedersi davanti al quadro di Greuze «se la propria morte sarebbe stata simile a quella», e torni a sentire che «la considerazione della pro| pria morte lo rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quel: la della morte degli altri». La lugubre ironia con cui s'immagina il suo cadavere imbalsamato in posizione davvero verticale, come usava un tempo al cimitero dei Cappuccini di Palermo, è ben pit partecipe ma non troppo pil triste dell’atteggiamento dei giovani verso la morte. Per Tancredi e Angelica è cosa «puramente intellettuale», «un dato di coltura e basta», «roba ad uso degli altri» (202-3, 212-13); per il nipote ragazzo poi, alla sua agonia, «chi moriva non era un uomo, era un nonno» (222, 232). Pure la sagacia di Tancredi
ha forse, «per un attimo», compreso: «Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?» (203, 213; 216, 224); e viceversa, mentre Don Fabrizio ballando con gica si ritrova ventenne: «Per un attimo, [...], la morte fu di nuovo ai
suoi occhi, “roba per gli altri” » (205, 215). UTO e sommesso, l’inizio della parte settima racconta una sensazione e la coscienza di essa, senza fatti. È il rarissimo esempio d’una storia psicofisica individuale, basata nel corpo talmente in profondità da poter farsi oggetto di discorso soltanto retrospettivo: «Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre»; e soltanto intermittente: «come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace» (215-16, 223-24). Troppo famoso un passo di Proust, per dubitare che in quest’ultima frase ce ne sia reminiscenza; volutamente sobria, rispetto alla musicalità metaforica, all’emozione di memoria e tempo dell’originale”. Del resto, qui le metafore so5
? Nella traduzione di Giovanni Raboni: «edè soltanto perché la vita si è fatta adesso pit silenziosa intorno a me che li sento di nuovo [i propri singhiozzi in-
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no già condizione di praticabilità del linguaggio, e non tardano a sopraggiungere emozione, memoria e tempo. Se l’usu-
ra della vita ha potuto farsi oggetto di discorso narrativo, è perché siamo al punto in cui come coscienza d’una sensazione, da intermittente e retrospettiva, sta per imporsi come
continua e presente coscienza di morte. La malattia a cui Don Fabrizio cede resta indeterminata”, non conosciamo fino
all’ultimo che il travaglio del suo corpo e i suoi pensieri. Nel superamento d’una difficoltà suprema come l’espressione dell’agonia, un modo letterale e l’evoluzione delle metafore iniziali si alternano. Mi sembrano riconoscibili, nei loro usi
rispettivi, corrispondenze coi due principali aspetti caratterizzanti del personaggio: il fisico colossale, la chiusa e sovrabbondante interiorità. Il primo aspetto, adesso, si adatta a visioni di sé in cui la statura accentua consunzione e alienazione: «vi si trovò disteso [in carrozza] con le gambe rattrappite» (218, 226); «Se-
duto su una poltrona, le gambe lunghissime avvolte in una coperta...» (216, 224); «si guardò nello specchiò dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate...» (219, 227); «l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo» (221, 230). (Se volessimo ammettere coerenze accessibili di fatto solo all'attenzione dello studioso, nel giardino «cimiteriale» della parte prima una comparazione sarebbe letteralmente profetica: i monticciuoli per l’irrigazione «sembravano tumuli di smilzi giganti», 26, 22). L’estenuazione delle forze è espressa da confronti 0ggettivi che presuppongono le iperboli dell’antecedente robustezza, mentre ora «di un neonato, [...], aveva appunto il vigore» (218, 227): «sollevare il rasoio sarebbe stato come, fantili], come quelle campane di conventi che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si ri-
mettono a suonare nel silenzio della sera» (M. PRouST, Alla ricerca del tempo perduto, I, Mondadori, Milano 1983, p. 46 [A /a recherche du temps perdu, I, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1987, p. 37). 5 Cfr. sSAMONÀ, I/ Gattopardo cit., p. 180.
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L’intimità e la storia
un tempo, sollevare il proprio scrittoio» (219, 228); «dopo quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava un tempo riposandosi dopo sei ore di caccia in mon-
tagna» (220, 228). La posizione delle sue membra va dedotta dai gesti altrui: «Il mento, a quanto sembrava, gli poggiava sul petto perché il prete dovette inginocchiarsi lui...» (222, 231-32). La resa muscolare delle intenzioni comunicative viene meno: «gli stringeva la mano con grande sforzo ma con trascurabile risultato» (223, 232); «credette di sorridere [...] per dargli il benvenuto ma nessuno poté accorgersene» (225, 234). La percezione non riconosce ciò che
proviene dal soggetto: «nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva» (224, 234). Le metafore della perdita vitale prestano un linguaggio alla differenza fra la morte per usura, culminante com'è, e la morte di strazio — ancora il soldato, il figlio Paolo sbattuto giù dal cavallo: «E se in lui, vecchio, il fragore della vita in
fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani?» (219, 228). È all’an“nuncio del definitivo collasso che le metafore cominciano ad evolversi in senso, insieme, sonoro ed acquatico: «fu allora che si fece udire il fragore della cascata» (218, 226). Le loro
successive variazioni formano un crescendo, lungo il monologo interiore e le perdite di coscienza che lo interrompono, sino a quella che esprime la fine: «Il fragore del mare si placò del tutto» (225, 235). (Si placò, «voce pacata», 23, 19: le ultime e le prime parole che riguardano Don Fabrizio da vivo si toccano nel senso e nel suono). Quasi tutte le variazioni
coinvolgono l'opposizione fra un’interiorità pit fisica che mentale e un’esteriorità circostante, sede l’una del suono micidiale, l’altra d’un silenzio di assoluta solitudine: «sentiva
\che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un |fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Re\no» (216, 224); «Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima lu-
ce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore
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della vita che erompeva via da lui» (216, 225); «E se ne sta-
va lîf immerso nel grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno» (220, 229); «delineavano [le chiacchie-
re affettuose di Tancredi] un futile fregio sul sempre più fragoroso erompere delle acque della vita» (223, 232); «Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingiganti» (223, 2733)
Lungo il monologo interiore, il metaforico fragore non è solo rumore di fondo. E ormai, indistinguibilmente dai pensieri, l’interiorità stessa del protagonista; ne simboleggia in versione iperbolica e tragica, nel dare ad esso il cambio, anche tutto il corso anteriore. L'intelligenza, non confusa dalla sofferenza e immune da paura, non si arresta dopo un deragliare di ricordi recenti, dopo un tentativo impotente di calcolo matematico; neppure dopo la seconda sincope, quando gli astanti non si curano più di nascondere il pianto. La trasfigurazione del desiderio in delirio, il trapasso al lirismo conclusivo, giungono inavvertiti in termini realistici, a partife dal ricordo della giovane signora intravista dal treno (224-25, 234-35). «Era solo», viene detto in piena metafora di naufragio (220, 229), ma il lettore non ignora che Don
Fabrizio lo era in certo modo da sempre. Perciò la suaè la morte d’un intellettuale; e non solo perché all’osservanza delle regole del gioco, in fatto di barbiere peraltro come di prete (219, 228; 222, 231)”, segue la disincantata introspezio-
ne, la schiettezza edonistica del bilancio di tre anni su settanta «veramente vissuti» (224, 234). Se pensiamo al sommo precedente ottocentesco, Morte di Ivan Iliè, siamo lontani dal-
lo spiritualismo di una redenzione morale che illumina l’ultimo istante”. Ma è innanzi tutto per concentrazione di tem-
pi narrativi che la parte settima del Gattopardo dista dal rac57 Il mio partito preso di prendere il testo com'è m’impedisce di porre in alternativa verosimiglianza storica e autobiografismo, come fa Samonà a proposito di «tanto olimpico distacco in un moribondo settantenne del secolo scorso» (ibid.,
pp. 185-87).
8 Cfr. L. toLSTO], Racconti, II, Einaudi, Torino 1962, pp. 426-28 (367-428).
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conto di Tolstoj - o da uno come Morire di Schnitzler. Affi-
dando formalmente la specificità di questa morte a un commovente monologo interiore, più rigoroso che dovunque altrove nel suo romanzo, Lampedusa ha dotato d’una novità senza modelli la letteratura occidentale del Novecento.
DE
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Nel capitolo precedente, intitolato a Don Fabrizio, ave-
vo preannunciato ($ 6) una contrapposizione fra certe sue esigenze e certi aspetti della Sicilia rappresentata nel Ga topardo. Frattanto avevo invece mostrato,in fondo a più momenti d’appagamento intimo di lui, un’affettuosa, riposante conciliazione col paesaggio naturale e culturale dell’isola. Ma le soste descrittive sembrano troppo numerose nel romanzo, perché sia sensato chiedersi ogni volta se
le immagini di oggetti fisici acquistano un significato discorde o concorde con la personalità del protagonista; e d’altra parte, il romanzo è ambientato nell’isola per intero. C’è allora un campo intermedio d’immagini, per cosi dire, neutre? di descrizioni che si attengono a presunta oggettività tradizionale?
A memoria sommaria del testo, scartando il
paesaggio naturale e campagnolo quasi mai innocuo, la domanda si ferma sul copioso insieme degli sfondi artificiali di vita aristocratica: edifici, statue e fontane, arredamento, abbigliamento, commestibili. Tutte cose partecipi d’una raffinatezza di classe internazionale, senza esclusione di gustosi usi e specialità locali. Dovrebbero genericamente accordarsi a Don Fabrizio solo in quanto eleganti corpi estranei, o se no squisitezze scelte, nella terra dove le vediamo rappresentate. Ma se ho dato un’intitolazione geografica a questo capitolo, e una storica al successivo, spazio e tempo non sono mai separabili che in astratto. I/ Gattopardo è o no un romanzo storico ? «Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo ‘
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storico! », scriveva Lampedusa al suo amico!; contro l’autore stesso, non si può contestare autorità in materia a Lukécs,
che invece lo riconobbe per tale. Come sempre, la legittimità d’un termine dipende dai tratti prelevati per la definizione del concetto. All’estremità vicina a noi, la Yourcenar (citata nella premessa, $ 5) rivendicava al romanzo storico ancora possibile interiorità e memoria. All’ altra estremità, cioè alla nascita del genere letterario, Walter Scott dava al suo primo titolo, Waverley, un sottotitolo: o sessant'anni fa; tanti ne erano trascorsi, all’inizio della redazione, dal 1745 del tentativo di restaurazione scozzese narrato. Nel 1954, per I/ Gattopardo, ne intercorrevano novantaquattro dal 1860 della prima parte, quarantaquattro dal 1910 dell’ ultima. Quest’aritmetica va commisurata alla durata della vita e al-
la portata della memoria umana, per provare a distinguere un sottogenere letterario, una categoria particolare di romanzi storici. Manzoni non poteva ricordarsi niente del Sei} cento dei Promessi Sposi, Hugo del Quattrocento di Notre\ Dame de Paris, lo stesso Scott del dodicesimo secolo di ‘Ivanhoe — né la Yourcenar del secondo secolo di Merzorie di Adriano. Nell'ultimo capitolo di Waver/ey, al contrario, Scott può richiamarsi alla propria infanzia e gioventi: se ha animato scene immaginarie e personaggi fittizi, è «allo scopo di preservare una qualche idea degli antichi costumi, della cui quasi totale estinzione è stato testimone», o delle usanze che ha «raccolto in parte dalla tradizione»*. Almeno secondo questo tratto facoltativo di definizione, risalendo da una poetica di memoria novecentesca alla pratica di memoria del lontano fondatore, I/ Gattopardo è si un romanzo storico. Anche Lampedusa, se lo avesse intrapreso da giovane come In vrreLLo, Giuseppe Tomasi cit., p. 230. ? «I nuovi romanzi storici importanti, come The Bell of Iceland di Halldor Laxness e I/ Gattopardo di Lampedusa (in particolar modo la prima parte), confermano i principi a cui ero arrivato»: G. LUKAS, Intorno al romanzo storico, in «L’Europa letteraria», IV 19, p. 163 (traduzione italiana, pp. 162-64, d’una prefazione del 1-07 all'edizione inglese de I/ romanzo storico). ? w. scott, Waverley, Dent & Dutton, London -New York 1969, pp. 476-77.
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Scott anziché alla fine della sua vita, avrebbe idealmente potuto sottointitolare sessant'anni fa; anche lui attingeva ai luoghi del ricordo,e certo in larga misura a una tradizione orale*. Non tanto dunque a una a una, quanto nell’insieme,le
descrizioni e immagini del tipo in questione sono tutt'altro che neutre. Hanno a che fare con quella autoapologia d’una classe perdente, che avevo chiamata (nella premessa, $ 5) storicamente quasi didattica: vi dico io com'era... Tra la funzione di documentare un ordinamento politico, la feudalità e le sue sopravvivenze, tipicamente meridionale o non solo, e la funzione di dar voce a ricordi e rimpianti attribuiti al protagonista, o più spesso dissimulati nella voce d’autore, non ci sono confini netti. Difficile qui seguire un ordine paradigmatico categorico e scorrevole; m’ispirerò più alla gamma di gradazioni fra le dimensioni collettiva e individuale, che ai gruppi di oggetti —- abbigliamento, arredamento, ecc. Prendiamo l’indugio sulle divise di Tancredi e Cavriaghi «en-, 4 {at trati nell’esercito “vero” », col loro sfoggio di colori e ornamenti (140, 145): l’esercitoè il sabaudo, ma la pittoresca segnalazione dei ranghi attraverso l’abito è come un residuo della stabilità di essi sotto l’antico regime; e si perpetua so-
lo per militari e clero. Altrove ne vengono tratti effetti ironici: il «tintinnio di pendagli, catenelle, speroni e decorazioni», fra cui procede ilcolonnello Pallavicino (195; 203); ——_——
l’ecclesiastica, gerarchica e pur essa colorata «adunata di cappelli» sulle sedie, nell’anticamera delle vecchie zitelle (22930; 236-37); quella loro speranza di ammirare in casa propria «una specie di sontuoso volatile rosso», dalle «diverse porpore» e marezzate «pesantissime sete», che il cardinale delude con una tenuta in cui «soltanto minuscoli bottoncini 4 Non vado lontano dalla bella formula di A. BERARDINELLI, L’inquieto fantasma del principe di Salina, in «Diario della settimana» [«L”Unità»], 23-29 ottobre 1996, p. 68: «In questo senso molto particolare I/ Gattopardo è un romanzo storico: per esistere non potrebbe che fissare il solo evento essenziale della vita dell’autore, un evento vissuto da un altro, dal padre di suo padre, un secolo prima: vissuto quindi prima della sua nascita». i
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purpurei stavano ad indicare il suo altissimo rango» (244-45, 254).
C’è tutto un paragrafo per i dodici candelabri ricevuti in
dono dal nonno di Ponteleone dopo un’ambasciata a Madrid, non esclusi i loro astucci (206, 216); essi illustrano una set-
tecentesca munificenza regale, alla cui altezza era stato il rango dei pari di Don Fabrizio. La statua di Flora nel giardino, che «chiazzata di lichene giallonero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari» (26, 22-23), sa d’un Settecento ri-
masto per eccellenza e per sempre, non solo per la Francia, l’antico regime. Logica principale di quel regime era la durata: a Don Fabrizio piacciono, come l’abito candido e rude delle suore di Santo Spirito, i loro mandorlati confezionati «su ricette centenarie» (86, 88-80); ed è un «secolare aro-
ma» anche quello paesano che esala dalla cucina della vedova Pirrone (173, 181). Che nella cena avilla Salina si usi una
-krattoppata tovaglia finissima», che i piatti superstiti di strachi degli sguatteri provengano IR servizi disparati», non dofvrebbe denotare una decadenza bensi «il fasto hrceolatà che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie» (31-32, 29): indirettamente, è quasi la stessa cosa. Del palazzo di Donnafugata, la cui «smisuratezza» è pure composta da «fabbricati di stili differenti, armoniosamente uniti però...» (68), abbiamo già contemplata il volto duraturo; sull’altro, oppo-
sto volto sarà meglio soffermarci pit in là, dato che iepiso. dio degli appartamenti abbandonati ha proporzioni e caratteridel tutto eccezionali. Nella nuda descrizione materiale dello stanzino da bagno (che fu abbreviata)”, la quotidianità ? Anche le cornici delle reliquie, sulla cui caotica varietà di materia, formato, dimensioni e prezzo s’insiste, dovrebbero certo segnalare ilrango attraverso l’abi: to, se tutto non fosse inquinato da credulità devota; ve n’è di «comperate ai magazzini Bocconi» (234, 241-42). Di scuola moderna, ma pregevole, il quadro preso per una Madonna miracolosa (233, 240-41).
‘ Anche gli «anonimi busti di dee senza naso» (76, 77) possono ispirarsi sia a esperienza diretta di sculture da parchi, sia a un codice letterario affermatissimo a partire dal secondo Ottocento: cfr. ORLANDO, Gli oggetti desueti cit., pp. 311-13. ” In scala, rispetto a Don Fabrizio, erano «un grosso pezzo di sapone rosa, uno spazzolone», «una enorme spugna» O 1). Qui per la prima volta (e chissà perché
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d’altri tempi appare soprattutto efficiente semplicità di costumi (71); nelle immagini metaforizzate delle ardenti candele del lampadario e fiamme del caminetto, il lusso rende onore alla sanità d’un pio e carnale culto della famiglia (133, Tan: Ma nel salone in penombra, «gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo» (78, 79). La parabola di decadenza è riflessa assai meno dalla serie delle immagini in quanto riferimenti a oggetti, che dalla rete simbolica dei loro collegamenti e sottintesi. All’inizio, «gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei», nell’affresco del soffitto, «sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo». Dopo il rosario, fra altre «nudità mitologiche» del pavimento, e bertucce beffarde del parato, le divinità «si risvegliarono» non nel capitolo intitolato al protagonista), c'imbattiamo nella questione genetica delle stesure del romanzo. Facendo il punto una volta per tutte, se ne possono distinguere tre (cfr. Prezzessa, pp. 10-11 0 6-8 nelle due edizioni che cito; sempre di G. LANZA TOMASI, I/ Gattopardo: fonti e varianti, in MM, pp. 261-62; e ORLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp. 68-70). Della prima stesura manoscritta, in quaderni, ne resta oggi uno solo (il settimo): è riportato per intero, in appendice al romanzo, in MM, pp. 265-86. Della seconda stesura, da me dattiloscritta, Lanza Tomasi conserva una copia (cfr. Prezzessa, pp. 100 6-7 c. s.); e ne ha pure riportato in appendice, per un confronto almeno settoriale fra tutte e tre le stesure, circa due terzi della parte quarta (MM, pp. 287-318). Ma, di questa seconda stesura, pos-
siamo avere qualche conoscenza anche attraverso la prima edizione del 1958 curata da Giorgio Bassani: il quale contaminò il dattiloscritto, liberamente, con quel mafoscritto d'autore che rappresenta la terza e finale stesura (cfr. vrreLLo, Giuseppe Tomasi cit., pp. 327-28). La descrizione del bagno subi, fra seconda e terza stesura, la soppressione più consistente (cfr. Premzessa, pp. 15 0 14 c. s.): perciò que-
sto solo brano è riportato in nota nelle edizioni curate da Lanza Tomasi che cito, e cfr. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, I/ Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958, p. 84. Su
altre varianti, condivido l’opinione di Lanza Tomasi che abbiano talvolta diminuito l’efficacia del testo antecedente; e non solo nei due casi da lui benissimo analizza-
ti (Premzessa, pp. 13-14 0 12 c. s.). Segnalerò via via qualche altro caso. Utile il meticoloso confronto fra seconda e terza stesura di A. DIPACE, Questione delle varianti del «Gattopardo», Argileto, Roma 1971: anche se fondato sul postulato, pit che discutibile, che ne vada invertita la successione cronologica.
8 A differenza dalla «famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare» (133, 136), e se si vuole dallo stiparsi di crinoline e varie calzature nella carrozza diretta al ballo (191, 199), situerei dalla parte opposta all’antico regime l’anello che Tancredi, o lo zio, donano ad Angelica: «altamente consono al gusto cimiteriale del tempo» (141, 146-47), cioè a quel romanticismo che aveva corrispondenze culturali profonde con l’avvento borghese.
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e «avrebbero ripreso la signoria della villa» (23-24, 19-20); poi, durante una mezz'ora di raccoglimento di Don Fabrizio, Dei e bertucce «furono di nuovo posti al silenzio», ma inavvertibilmente (51); all’ora del successivo rosario, un rag-
gio «illuminò le bertucce maligne» (55, 56): come interpretare tutto ciò’? L'orgoglio e frivolezza profani delle figure dipinte si contrappongono, pare, sia alla preghiera che all’astrazione intellettuale; non è però anche un po’ come se le pareti figurate, ossia le cose, tendessero a prevalere in una muta contrapposizione alle persone - quasi che la villa fosse da supporsi, al suo stato ideale, vuota! ? In ogni caso, a questi Dei, il testo risponde molto più tardi con altri - non senza “spostamento”, poiché sono quelli di palazzo Ponteleone, non appartenente a Don Fabrizio. «Nel soffitto gli Dei, re-
clini su scanni dorati, guardavano in gi sorridenti [...]. TI
Si
credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario» (200, 210). Con l'apparente impersonalità d’un ammaestramento morale, è la versione dolorosamente personalizzata (e lo sente anche il lettore privo d’ogni notizia sulla vita di Lampedusa) d’un altro tratto proprio del romanzo storico classico. Il quale non di rado, attraverso prolessi (anticipazioni) «che cadono al di
là dei limiti cronologici della storia raccontata e però al di qua della data di scrittura del romanzo, valorizza anche il tempo intermedio tra questi due momenti». ? Di poco aiuto J. GILBERT, The Metamzorphosis of the Gods in «Il Gattopardo», in «Modern Language Notes», 1966, pp. 22-32, per reificazione allegorico-meta-
fisica del tema prescelto: cosa vuoldire propriamente che « Lampedusa is describing a world in which men and gods once lived side by side, in which, in fact, the dividing line between the human and the divine was almost imperceptible» (p. 24)? !° Confesso che in questa mia suggestione entra l’influsso, fuori Gattopardo, del passo dai Ricordi d'infanzia già citato (nota 48 al primo capitolo): «ero un ragazzo [...] cui piaceva di più stare con le cose che con le persone». E una frase dopo: «Nella vastità ornata della casa (72 persone în 300 stanze) mi aggiravo come in un bosco incantato» (53, 361-62). Superfluo ammonire ancora che l’immaginaria realtà romanzesca suole capovolgere il vissuto autobiografico: nelle case dalle centinaia di stanze del romanzo, dobbiamo comunque immaginare ben più che una dozzina di persone. 1! e. FIORENTINO, Luoghi del romanzo storico francese (1820-1835), in AA.vV.,
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Il Gattopardo araldico riapparirà più volte, esattamente nove: cinque volte su dieci, la sua stilizzata movenza viene suggerita da uno stesso verbo. Il coperchio dell’«enorme zuppiera» da cui scodella Don Fabrizio, è «sormontato dal Gattopardo danzante» (32, 29). I contadini erano «avvezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare» su palazzo, chiese, fontane, piastrelle di case (66, 65). Presagio non buono
all'ingresso del maggior feudo (e alla prima visita dopo Garibaldi), su una porta sfondata «un Gattopardo di pietra dan‘ava benché una sassata gli avesse stroncato proprio le gam‘be» (60, 58). Cinquant'anni pit tardi, sull’orlo del «grande asciugamano» di cui si serve il sacerdote liquidatore delle false reliquie, «un Gattopardo in filo rosso danzava» (246,
256). E una ripresa che prepara, per la pagina seguente ed ultima, l’assimilazione del cane imbalsamato al felino ram-
pante durante il suo simbolico precipizio: «si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi» (247, 257). Patrà quasitautologico che, senza il verbo darzare, altre precedenti riapparizioni siano meno marcate!?. Salvo beninteso la terza, negli «enormi quadri rappresentanti i Storie su storie. Indagine sui romanzi storici (1814-1840), Neri Pozza, Vicenza 1985, pp. 165-66, con esempi da Stendhal, Mérimée, Vigny, Hugo, e in conclusione: «Il romanzo storico è storico non tanto per la fetta di storia che si annette: ancora di più per tutta quella che presuppone esplicitamente o meno». Davvero fuori strada nel 1959 il pregiudizio ideologico, secondo cui tali anacronismi sarebbero propri di chi «ha rinunciato a prendere a misura dei propri personaggi, la misura del reale, la misura della storia» (M. ALICATA, I/ principe di Lampedusa e il Risorgimento siciliano, in m., Scritti letterari, It Saggiatore, Milano 1968, pp. 350-51). Altrove lo stesso procedimento introduce nel Gattopardo, per voce d’autore, gli aerei (99, 99100), le analisi del sangue e delle orine (104, 106), Freud e i lapsusr08, 110), il
futuro del Mezzogiorno (111, 114), la parola «snob» (112, 115), Eisenstein e la sua più famosa sequenza (132, 135), Montecitorio e la Consulta (135, 139), gli psichiatri infettati dalle frenesie dei pazienti (144, 149), la vecchiaia di Crispi (163172), uno spedizioniere di «oggi» (236, 244), la grande guerra fra italiani e austriaci (238, 246); per voce di personaggio, le caste dominanti statunitensi e sovietiche (179, 189), le camicie nere e le rosse (209, 220-21); cfr. SAMONÀ, I Gattopardo Cit, pi 122, 12«Gattopardo d’oro» sul berretto di otto “campieri” armati (69, 68); «centrata dal Gattopardo» la volta del parlatorio di Santo Spirito (86, 88); la frustaè frequente a Donnafugata, «dopo il Gattopardo» (148, 154). L'uso metonimico o antonomastico del sostantivo e derivati (66, 65; 95; 95, 96; 118, 122; 152, I 59), come dell’ aggettivo gattopardesco (116, 120; 156, 164; 207, 218), presuppone sicura superiorità sociale, tranne pochi casi (192, 200; 194, 202; 219, 227).
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feudi di casa Salina»: cinque evocati, più «molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi». Nell’iconografia di questi «ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso», il cui festoso ottimismo celebrativo sopravvive già alla perdita di alcuni dei feudi, antico regime e idealizzato meridio, ne siciliano sembrano fare causa comune (42-43, 40-41). «La gelatina al rhum viene servita fra le assicurazioni d’inefficienza dell’esercito regio, e lo svanire, sul bicchiere vuoto, delle cifre rammentanti il dono di un Ferdinando. An-
ziché dalla geografia, è segnata allegoricamente (ma senza che il lettore debba accorgersene) dalla storia: come la mo-
narchia borbonica, ha forma «minacciosa» di «torrione» o «roccaforte», con «bastioni e scarpate», ecc.; è però «tra-
sparente e tremolante», e il cucchiaio, stavo per dire garibaldino, vi si affonda «con stupefacente agio». Presto è ridotta a «spalti cannoneggiati» e «blocchi divelti»; Don Fabrizio assiste divertito, per il momento, «allo smantellamento
della fosca rocca sotto l'assalto degli appetiti», sottolineo (52): fuori allegoria, si capisce, quelli liberali e borghesi. I torreggianti e fragranti timballi di maccheroni, invece, mettono appetito senza la minima profetica malizia, e la descrizione si protende golosamente dall’involucro allo squarciarsi della crosta, dai particolari visivi a una pregustata voluttà di sapori; qui, la magnificenza culinaria raffina e potenzia una ricetta regionale (81, 83). Anche «la monotona opulenza delle tables à thé dei grandi balli», dettagliatissima e metaforizzante, traduce in altrettante lusinghe della vista i piaceri offerti alla gola. Convoca, come si deve, una mezza dozzina
di espressioni francesi — contro un paio di dolci locali dai nomi paganamente religiosi; ma le profiteroles sono «marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano» (206-7, 217)”. ! Nomi di cibi locali, «“muffoletti” » e «“insolia”», nel pasto dei due cacciatori (103, 104); più esotizzate, dal paragone con «testoline di cinesine pudiche», le «“pesche forestiere” » (77, 78).
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L'origine agraria accomuna ricchezze vecchie e nuove: sul cappello di paglia di Angelica, «grappoli di uva artificiale e spighe dorate evocavano discrete» vigneti e granai (132, 135). La sala da ballo chiusa come uno scrigno è tutta oro, consunto anziché sfacciato, pudico nel dissimulare il costo sotto la bellezza"; fa «dolere il cuore di Don Fabrizio», espo-
sto come sappiamo al tormento delle associazioni, e la descrizione passa con una vera dissolvenza all’evocazione di tutt'altro: «in quella sala eminentemente patrizia gli venivano in mente immagini campagnole». Nell’una e nelle altre, in effetti, lo stesso
«timbro cromatico» dissimula sotto
una suggestione estetica il fondo economico della questione. Oro di grano e di sole per l’oro monetario del latifondo, lutto d’una campagna riarsa per il lutto, dato come sempre per scontato, d’una catastrofe di classe; è la pagina che pit poeticamente ricongiunge internazionalità aristocratica e Sici-
lia, soggetto protagonista e immagini oggettive di due ordini di cose fisiche (199-200, 209-10). La fontana di Anfitrite è la sontuosa descrizione barocca d’uno spettacolo barocco per eccellenza, gioco d’acque su pietra!, non senza la nota provinciale di «uno scalpello inesperto ma sensuale»/$; ci trasporta però, lo sappiamo, nell’intimo d’una memoria fattasi ormai più individuale che collettiva (76, 77). E questa memoria non disdegna d’includere nel proprio consuntivo estremo, al penultimo posto prima di smarrirne esausta il filo, «la sensazione delicata di alcune sete di cravatte, l’odore di alcuni cuoi macerati» (224, 234). /
Nello stesso consuntivo, spiccano altri oggetti di possesso dalle connotazioni non regionali, e stavolta non nell’ordine delle cose inanimateri cani) Fra cinque ricordati con port
!* Cfr., sugli effetti del tempo che «logora e nobilita», ORLANDO, G oggetti desueti cit., p. 15, e, per chiarissimi esempi narrativi, pp. 319-20. 5 Cfr.J. ROUSSET, La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 181-99. 16 Si passa, in Donnafugata, «davanti a un divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati» (156, 164). Sulla piazza, rientrano nell’antico regime «alcune facciate disegnate con brio da un architetto paesano», coi loro «rustici mostri» e «balconcini troppo piccoli»; non cosî la casa di Sedàra (88, 91), della quale riparlerò.
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che parole, due dei quali di specie designate in tedesco e inglese, «la balordaggine deliziosa di Bendicò» (223, 233). Di lui, come contestare che detenga a suo modo, da vivo, lo sta-
tuto d’un personaggio? In quanto tale lo interpreto, rispetto a Don Fabrizio con cui suole fare coppia, come un celato,
scherzoso e parziale a/ter ego. Altro, meno nel senso di secondo che di diverso; un doppio, insomma, ma per opposizione. Tratto comune alla coppia sono le dimensioni, un alano avendo fra i cani massima statura e mole; la specie è inoltre di provenienza nordica, o proprio tedesca. L'opposizione sigioca fralasrazionalità che assilla e paralizza il padrone, e 1‘irrazionale per lui incarnato dall’animale: un irrazionale te-
Stardamente istintivo, ma non indomabile anzi obbediente - che glielo rende in fondo invidiabile, oltre che divertente e rassicurante. Lui di preferenze solitarie, il cane socievole fino all’invadenza: «l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò» (23, 19); «la consueta eco
della controversia fra i servi e Bendicò che voleva ad ogni costo prender parte» (55, 56); «lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto amichevole» (45, 44); «se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto [...] di essere ammesso» (161, 169). Lui chiuso, il cane espansivo, lui statico, il cane d’una espressiva esuberanza motoria: «Preceduto da un Bendicò eccitatissimo...» (26, 22); «La-
sciò Bendicò affannato dal proprio dinamismo» (47); «se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò ope‘ rava nelle aiuole» (28, 25); «Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola» (40, 38); «Bendicò nell’ombra gli strisciava iltestone sul ginocchio» (85, 88); «ricambiò [Tancredi] gli impeti passionali di Bendicò» (61, 59); «caninamente, dimostrava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell’amato [T'ancredi] » (138, 142-43). Per Don Fabrizio, l’animale è «un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia» (85, 88). #7 Dunque la comprensione corrisponde all’angoscia -mentre Bendicò, coi suoi «occhi innocenti» (28, 25), «sguardo implorante» (47, 46), «occhi al medesimo li-
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(E scorretto, e troppo spesso lo si dimentica, servirsi di ciò che non ha mai fatto parte del testo, o che ha cessato di farne parte, a sostegno dell’interpretazione di ciò che ne fa parte. Ma a patto che un’interpretazione si sostenga anche senza, ben vengano gustose e precise riprove extratestuali. Il nome di Bendicò, preesistente al romanzo, veniva dal libretto del Rigoletto: «Ah! ah! rido der di core...>'8; nell’origine melodrammatica, nella cordialità di cui si ha un tronco significante, il carattere estroverso del cane trova conferma. In un brano della prima stesura del romanzo, soppresso ma non andato perduto, eta esplicitato dapprima il tratto comune alla coppia: «lo spettacolo dell’uomo gigantesco che
andava a spasso per il giardino insieme al cane-colosso». Subito dopo, l'opposizione; in forma di reciproca, chimerica voglia di scambiarsi le propensioni umane e canine: «Il cane sperava di insegnare all’uomo il gusto dell’attività gratuita, d’inculcargli un po’ del proprio dinamismo; l’uomo avrebbe
che la bestia, attraverso l'affetto potesse apprezdesiderato zare, se non proprio la speculazione astratta, almeno il piacere dell’ozio ornato e signorile»). a
rali
2
Esigenze fazionali di Don Fabrizio contro aspetti della Sicilia: di frontèauna tale specularità negativa fra soggetto e mondo, avevo lasciato non risolta, nel capitolo precedente vello del naso» e «assenza di mento» (85, 88), è il capriccio stesso in apparenza: sia che si ritragga «nauseato» da una strana rosa, per cercare «sensazioni pit salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte» (27, 23), o che sembri voler essere lodato per i
danni fatti in giardino come per un «bel lavoro compiuto» (28-29, 25; 47, 46), o terrorizzi sotto il suo «muso inquirente» galline vincolate (53, 54), o inveisca contro voli e voci delle cornacchie (60, 58). Di rado si direbbe che, nel senso umano, capisca qualcosa: ringhiando, «in contrasto con la consueta sua socievolezza», all’arrivo di An-
gelica (133, 137); 0 «persuaso di aver a che fare con un buon uomo», al fiuto dei cal zoni di Chevalley (161, 169). Il suo correre «con l’acquolina in bocca per il pasto pre gustato» gli vale, da Don Fabrizio, il paragone politico con un piemontese (31, 28). 18 Cfr. orLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., p. 73. 1? Cfr. MM, p. 265: il brano apre il quaderno superstite di questa prima stesura (cfr. sopra, nota 7).
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($ 6), una doppia questione. Si può riconoscere un primato genetico a uno dei due versanti, e se sf a quale dei due, nel
determinare la presenza e la forma del versante contraddittorio ?Bisogna ora prendere atto che l'alternativa non si pone fra elementi interamente omogenei. Dalla parte del personaggio, c'è invenzione letteraria, elaborazione fantastica quasi incontrollabile di dati biografici privati; dalla parte della regione, c’è ache un insieme di referenti storico-geografici pubblici, controllabile all’infinito. Dire che tutto procede dalla Sicilia quale di fatto era nel 1860 o nel 1954, far risalire la responsabilità testuale di un’opera d’arte a premesse di realtà esterna, sarebbe ottusamente ingenuo. Un po’ me-
no, pur sempre, di quanto sarebbe gratuito e idealistico far derivare soggettivamente tutto dall’immaginario dello scrittore, considerare V ambiente rappresentato con le sue contraddizioni non ricreato, ma creato dalla letteratura. La letteratura non è un riflesso, certo, però è una risposta; non ha
mai a questo mondo la prima parola, però quella parola seconda che le appartiene è spesso la sola a rompere l’opacità dei silenzi incombenti sul mondo - dove le parole d’uso che si prodigano hanno spessore e durata troppo minori. Se è vero che I/ Gattopardo nasce con il personaggio di Don Fabrizio, non solo certe esigenze di lui si contrappongono ad altrettanti aspetti della Sicilia, ma alla Sicilia globalmente si contrappone il suo carattere di fondo da intellettuale. La regione ne acquista allora, di ricambio, la caratterizzazione primaria e in profondità ubiquitaria d’un luogo d’incultura. Per il suo romanzo storico, del sottogenere che si nutre di memoria, non necessitava
a Lampedusa autorità di storici: se
ha letto nel Risorgimzento in Sicilia di Rosario posito di un’epoca due o tre secoli anteriore, riforma «accentuò quel torpore intellettuale distacco fra cultura e mondo pratico che già
Romeo, a proche la Controe il correlativo caratterizzava-
no la vita siciliana» avrà avuto un sorriso amaro sulla per-
durante attualità d’un simile giudizio. °° r. ROMEO, I/ Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1989, p. 13 (i corsivi sono miei; il libro apparve nel 1950).
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Di un distacco fra cultura e mondo pratico, Don Fabrizio patisce innanzi tutto in se stesso: né l'astronomia né la disposizione critica lo aiutano a districarsi dai suoi problemi. Inoltre, è quel distacco a intercorrere fra lui e coloro che lo circondano; ne riceviamo separate notizie da entrambii lati. Da parte sua, detto all’inizio per voce d’autore, è «disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano» (25, 21-22). Non cambia gran che se poi, in monologo interiore e nel contesto tardivo del ballo, pensa che la parità di rango resti vincolante in onta allo scarto di cultura: che sebbene «forse più intelligente», «certamente pit colto di loro», pure «con essi soltanto si comprendeva, soltanto con essi era a
suo agio»; addirittura, che «erano il sangue del suo sangue, erano lui stesso» (202, 211). Guardiamoci sempre dal prendere la complessa mimesi del personaggio per semplice ideologia d’autore. Anche questa coscienza di classe che pare viscerale ed è rassegnata, transigente in mancanza di meglio,
quindi platonica, è da intellettuale; e i vecchi amici, sedendo fra i quali alle sue orecchie «i luoghi comuni, i disonni piatti intorbidavano l’aria», non saprebbero ricambiargliela degnamente. Quel che /oro pensano di lui, la voce d’autore lo riferisce con ironia godibilmente pungente; una piccola vendetta sull’ignoranza, intollerante e a sua volta condiscendente, d’un mondo inferiore al soggetto: Fra questi signori Don Fabrizio passava per essere uno “stravagante”;
il suo interessamento alla matematica era considerato quasi come una peccaminosa perversione, e se lui non fosse stato proprio il principe di Salina e se non lo si fosse saputo ottimo cavallerizzo, infaticabile
cacciatore e medianamente donnaiolo, le sue parallassi e i suoi telescopi avrebbero rischiato di farlo mettere al bando (199, 208).
Lui non si fa illusioni: appartatosi dal ballo proprio nella biblioteca del padrone di casa, «piccola, silenziosa, illuminata e vuota», non tarda adirsi Ha «Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo li dentro», «doveva entrare in questa stanza sf e no una volta all’anno» (202, 212). Le cose non
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migliorano, nemmeno in questo caso, passando dal vecchio ceto ai nuovi ricchi. Per Sedàra, «una certa energia tendente verso l’astrazione» fa parte, insieme alle buone maniere, del fascino appena aurorale che esercita su di lui Don Fabrizio (131, 134). Ma sono i pensieri femminili di Angelica, in ciò sicilianissima per contrasto, a far venire fuori per la sola volta in tutto il testo, tra virgolette d’indulgenza spregiativa, la parola idonea al protagonista. Tancredi sa baciarla, e può nobilitarla; se in più è spiritoso e intelligente, a lei importa assai meno che «a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anche tanto “intellettuale” » (135, 139). — Il re in persona, rendendo lode all’ingegno dell’intellettuale, pone alla libertà di esso un limite doveroso: «Gran bella cosa la scienza quando non le passa pa capa di attaccare la religione! » (30, 27)”. Unica cultura in funzione, la religiosità cattolica. Fossero anche state meno divergenti le ammirazioni morali elettive dell’autore, su cui ci sarà da tornare, verosimiglianza voleva che la si mostrasse spiritualmente sclerotica, forte solo della propria inerzia, ai margini meridionali dell'Europa del 1860 o del 1910. In quest’ultimo anno, l’attività d’un cardinale di Palermo venuto dal set-
tentrione si era vanamente «sforzata a far lievitare la pasta inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in particolare», vedendo riassorbiti da pronte complicità i suoi tentativi di rimuovere anche i più flagranti abusi (243-44, 253). Cinquant'anni prima, alle soglie del rivolgimento e vicino all’inizio del romanzo, la presa soffocante di quest’unica cultura sulla capitale isolana, la mortuarietà che vi fa gravare, si traducono a due riprese in linguaggio spaziale d’immagini:
?! Variante della stesura dattiloscritta: «quando non si mette in testa» (cfr. sopra, nota 7, e l'edizione del 1958 ivi citata, p. 27); dipinge meglio il retrivo ideale d’una scienza personificata che non sia, ancor prima che empia, presuntuosa. La sfumatura è andata perduta, e non a beneficio della quota dialettale: si poteva dire in napoletano «quanno nun s’è mise ’n capa» = quando non si mette in testa (come in italiano «le passa per la testa» = /e passa p’a capa).
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Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi e conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini, di Francescani, di Cappuccini, di Carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani... Smunte cupole dalle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme il senso di morte [...]. A quell’ ora, poi,
a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama (35-36, 33-34). Ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla (37, 35).
È uno dei casi, rarissimi, in cui uno scrittore ha infuso nel
palese simbolo storico la potenza latente di quello onirico, facendosi visionario benché non allucinato, suscitando un in-
cubo senza intorbidare i contorni. Nondimeno la tecnica dell’iperbole credibile, che si fa accettare anche qui, dilata
numero e dimensioni dei conventi: il numero moltiplica e prolunga le elencazioni, vi abbraccia gli opposti. A rendere iperboliche le dimensioni, concorre una codificazione letteraria del vero che aveva caratterizzato in base a fastosi, disordinati sprechi di spazio l’edilizia sacra e profana d’antico regime”. E che aveva origini protestanti e illuministiche - lo testimonia un genere disprezzato dall’antiromantico Lampedusa, il romanzo gotico inglese”; ma, di quelle origini, il
sottinteso critico e sinistro del passo è partecipe. Forme delle cupole e paragone coi seni figurano lo svuotamento spirituale, il sonno annientatore sotto colore nero è sonno della ragione oltre che del costume” 2 Cfr. oRLANDO, Gli oggetti desueti cit., pp. 307-9; perciò dicevo, dei conventi del passo di Lampedusa, che «ancora illesi, sembrano predestinati a vetustà e vuoto», p. 462. All’inverso, l’atto di scrittura è risalito da un vuoto e vetustà presenti altempo in cui gli edifici erano illesi.
? Ibid., pp. 173-75; cfr. MM, pp. 991-94.
24 Sembra che «in contrasto con la sua essenza vera», cioè certo con l’attaccamento di Don Fabrizio alla tradizione, piuttosto che la visione stessa dei conventi nella prospettiva di lui,siano i pensieri in cui la visione trapassa: i fuochi notturni
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Fra una cosî regressiva cultura nell’incultura, e un principe intellettuale, il «devoto ecclesiastico di casa» (73) padre Pirrone rappresenta il compromesso perfetto. Se dell’una offre una versione nient’affatto tetra, anzi simpatica, lo si de-
ve al fatto che dell’altro anche lui è una sorta di doppio: e non, come Bendicò, più per opposizione che per affinità, bensi al contrario. Quale secondo intellettuale possibile, accanto al principe erede dei secoli asburgici e tardoborbonici, se non il gesuita? Stranamente, che ne condivida addirittura le competenze astronomiche non è mai detto chiaro e tondo; ma, in osservatorio, «sedeva ingolfato nelle sue formule algebriche»; l’arrivo di Don Fabrizio «sottrasse il Padre ai suoi calcoli»; dopo un primo dialogo, «si rituffò nelle astrazioni» (48, 47-48); dopo il secondo, «discussero di una
relazione che occorreva inviare presto a un osservatorio esteto, quello di Arcetri» (50). Questo secondo dialogo, reso conflittuale dalla tensione politica, prende respiro al di là del contingente grazie al livello di coscienza con cui il personaggio si dimostra all’altezza del suo interlocutore; fra i silenzi ele frasi della sera prima in carrozza, era stato cosi pre-
sentato: «uomo non mediocre qual’era, trasferiva subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia» (35, 33). Presso i suoi compaesani non gli viene contata come un
merito, più di quanto lo sia a Don Fabrizio, la pratica di «astrazioni» non solo algebriche. «A forza di leggere è diventato pazzo», reagisce in cuor suo don Pietrino ascoltan-
dolo (176, 184-85); e dopo che il vecchissimo erbuario si è arreso nel sonno, la prosecuzione del loro colloquio in soliloquio non mi pare soltanto l’artificio strumentale a un’esposui monti ardono proprio contro tutti quei conventi, e proprio perché i ribelli che attizzano gli uni sono équiparabili agli abitatori degli altri, essendo avidi d’un po-
tere equiparabile all’ozio (36, 34). Come sempre, il nuovo regime non è previsto migliore dell’antico. Ma non ricade forse sui conventi, stando alla loro presentazione, la responsabilità del futuro che il loro lungo dominio ha partorito?E in fatto di futuro, l’equiparazione tra cupidigie vecchie e nuove non rasenta un’altra di quelle anticipazioni anacronistiche (vedi sopra, nota 11) che potrebbe scendere fino all’involgarito sorzo degli anni cinquanta democristiani ?
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sizione di idee che si è voluto vedere, ma anche una figura della locale solitudine dell’intellettuale - per quanto in sottana”. In seguito, è una razionalità problematica e scettica ad abdicare davanti alla fede, nel suo pensiero «che il mondo doveva sembrare un gran rompicapo a chi non conoscesse matematiche né teologia. “Signor mio, soltanto la tua Omniscienza poteva escogitare tante complicazioni” » (180, 190).
Non ci si accorgerebbe, senza avere a lungo analizzato il protagonista, che il gesuita lo ripete anche in tratti minimi.
Cura della persona: «Meticoloso soffiò via un peluzzo dalla propria manica» (48). Fedeltà ai luoghi e costumanze: «Appena entrato in casa fu assalito, come sempre, dalla dolcissima furia dei ricordi giovanili: tutto era immutato» (173, 181). Ripiegamenti interiori: «sotto sotto se ne vergognava» (174, 182); «si vergognò un poco» (179, 189); «e poi si pentî» (181, 191)”. In quanto gesuita, però, non si rappor-
ta al principe secondo affinità personali ma secondo complementarità di ruoli. La linea del suo ordine, nato per con-
troffensiva di ffonte a una modernità protestante o miscredente, anteponeva il governo uniforme della società di quaggiù a ogni minima inquietudine soprannaturale o mora-, le. Padre Pirrone «aveva più o meno le funzioni di cens.daY mandria» (32, 29-30); la decenza e lo smussamento dei con tfasti che sta a tutelare, con l’unzione e l’eloquenza d’una impeccabile professionalità gesuitica, non sono che una variante delle buonecreanze aristocratiche. Cosî, per voce d’autore o per sua propria bocca, espone la cultura religiosa
a un’ironia che rispettosamente se ne fa gioco. Chiamato in causa con suo imbarazzo: « Trovò rifugio nella Prudenza fra le virti cardinali la più duttile e quella di più agevole ma? Fraidiscorsi tendenti al monologo che tengono, in parti consecutive, Don Fabrizio a Chevalley e padre Pirrone a don Pietrino, con ragione Samonà segnala « analogie.strutturali»; si vedrà a proposito del primo discorso perché non mi associo alle sue riserve su entrambi (saMonÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 133-39). 26 Cfr. v. BRAMANTI, Ri/eggendo «Il Gattopardo», in « Studi novecenteschi», dicembre 1988, pp. 333-34.
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neggio» (122, 127). Alle impazienze di Don Fabrizio come padre: « “Il desiderio di fondare una famiglia cristiana appare graditissimo agli occhi della Chiesa. La presenza del Signore alla nozze di Cana...” “Non divaghiamo» (73, 74). Ai due ingressi di Angelica: «pensava alla Sacra Scrittura che quella sera gli si presentava soltanto come una successione di Dalile, Giuditte ed Ester» (81, 82); «santamente non era
insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di ravvisare una prova irrefutabile della Bontà Divina» ecc. (133, 136). In viaggio verso Donnafugata, a lui «l’iniziata lettura del Breviario aveva conciliato un sonno che gli aveva fatto sembrare breve il tragitto» (60, 58). Quest’ironia ci riporta ancora, come nel primo capitolo ($ 2), ad Anatole France: agli ambienti clericali prediletti, nella Storia contemporanea, da un illuminismo anticlericale che a fine Ottocento riecheggiava con più indulgenza la prosa di Voltaire”. Più che l’illuminismo, la rivoluzione francese aveva legato per un secolo la causa della classe antica a quella della Chiesa. Certo, rientra in un amore più intimo di Don Fabrizio perla tradizione, per Donnafugata, il compiacimento con cui assapora l’atmosfera extramondana e le ingenuità agiografiche del monastero di famiglia (86, 88-89; 88, 9091); in punto di morte, annovera fra quelli vissuti «alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture» (224, 233). Ma se allora accetta il prete, è nello spirito con cui recitava il rosario quotidiano e si confessava
a padre Pirrone, con cui incontrato in carrozza il Santo Viatico «scese, s’inginocchiò sul marciapiede» (193, 201); cioè,
perché «era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva morire, con tanto di prete accanto»; e confessarsi e comunicarsi: «Le cose si fanno o non si fanno». Riflet?" Cfr. l'affermazione, a proposito di preti, riferita in orLaNnDO, Ricordo di Lan: pedusa cit., p. 73. La stessa ironia può affacciarsi in assenza di preti: con tempe-
stivo opportunismo, ma con vantaggi estetici oltre che politici, «un ritratto di re Ferdinando II in pompa magna» viene sostituito da «una neutrale “Probatica Piscina”» (63, 61).
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IOI
te pensieri non canonici il turbamento che, nei suoi occhi,
il sacerdote scambia per contrizione. «Poi furono mormorate le sillabe immemoriali che spianano la via» (222, 231-
232)?*: la frase più alta di tono del passo, con l’aggettivo immemoriali, venera l’istituzione più antica d’un millennio del feudalesimo. Nella parte ottava, l’ironia risparmia o quasi i molti, troppi preti, e nemmeno è solo a carico della «inettitudine e formalistica devozione» (245, 254) delle so-
relle??. Scaturisce già dal fatto che, per tutta moderna razionalizzazione, non arrivino alla Palermo del 1910 che «alcune moderate innovazioni» pontificie nella liturgia e nel culto, comuni a «tutto l’orbe cattolico»; e queste stesse provochino, fra cattolici «persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa» (232, 239), proteste, svenimenti e furore. Le false reliquie che ne fanno le spese documentano lo scadimento culturale, disponibile a un’impostura come quella (da cui passivamente si esenta Concetta) della «per metà monaca» donna Rosa (234-35, 242). Per la metà non monacale, siamo a un passo dal fondo arcaico di superstizione e magia popolare toccato altrove: coi significati o proprietà afrodisiaci, prima delle pesche per cui «erano state consultate megere espertissime e libri disvelatori di arcani» (115-16, 119)?°, poi delle cantaDINANZI A o
28 Secondo il Rituale romanum edito nel 1614 sotto Paolo V, Titulus V, Caput IV, De Communione infirmorum, 19: «Accipe, frater, Viaticum Corporis Domini nostri Jesu Christi, qui te custodiat ab hoste maligno, et perducat in vitam aeternam. Amen» (Typis Polyglottis Vaticanis, A. D. MDCCCCLII, p. 156). 2° Secondo la maggiore, e più prepotente, la presunta Vergine del quadro invoca «la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa» (233-34, 241). Qui Carolina parla davvero come un personaggio dei racconti o dei parzphlets di Voltaire, in altre parole l’autore ammicca alla razionalità media d’un lettore non bigotto come lei: la protezione divina, che ha elargito miracoli, non avrebbe potuto o dovuto risparmiare il terremoto? * Fra questi «in primo luogo il Rutilio Benincasa, l’Aristotile delle plebi contadine» (116, 119): «vero e proprio eterno “best seller” dell’Italia profonda» è stato definito, più di recente, l’Almanacco perpetuo, utile cosi ad astrologi, medici, agricoltori, nocchieri, come a qualsivoglia altra curiosa persona, di Rutilio Benincasa (nato presso Cosenza, 1555 - circa 1626), in cui «l’astronomia è considerata premessa all’astrologia», e che fra il 1593 e il 1820 in versione manipolata ebbe almeno trenta ristampe (Letteratura italiana. Storia e geografia, diretta da A. Asor Rosa, II. L'età
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ridi negli intrugli dell’erbuario su cui chiude gli occhi la tolleranza del gesuita (175-76, 183-85). Lembo refrattario alle sollecitazioni progressive d’una civiltà evolutasi a settentrione, la Sicilia si assimila di prepotenza, irremovibilmente, qualunque corpo estraneo. Completiamo una frase della presentazione di Don Fabrizio, citata a metà nel primo capitolo ($ 4): «un temperamento
autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scru-
poli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici» (25, 2122). Si erano mutati; due pagine dopo, nessun lettore si accorge di come sia analoga a questa degenerazione di virtuali tratti di carattere nordici, grazie all'identità del verbo che sottolineo, quella inflitta dalla terra a un vegetale straniero: rigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, sî erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distilla-
vano un denso aroma quasi turpe che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare (27, 23)”.
Oppure, esplicitamente: «cantavano alcune strofe della “Bella Gigougin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia» (106, 108). «Si unse i capelli con il /erzo-liscio, il Limze-Juice moderna, t. 2, Einaudi, Torino 1988, notizia alla tavola 72, e p. 1285; Letteratura italiana. Gli Autori, diretta da A. Asor Rosa, I. A-G, Einaudi, Torino 1990, p. 236).
? Onestà metodologica impone di segnalare un esito, proprio nel campo della coltivazione, che all’inverso risulta normale: «Andarono a guardare le “pesche forestiere”. L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente» ecc. (77, 78). Qui siamo nella terra propizia del giardino di Donnafugata, vicino alla fontana e al palazzo; ma non so se il rilevarlo basti a preservare l’interpretazione dall’interferenza del caso: è pur sempre Sicilia. «The difference is % that the French,roseswere planted directly in the Sicilian earth that has always been (passively) hostile to alien elements; while the German peach cuttings were grafted to Sicilian stems»; cosî, fra altri spunti convincenti 0 no di lettura dei simboli, un articolo che comunque dimostra come già alla sua data, in America WTffferenza che in Italia, ci si fosse messi a studiare i/ testo del romanzo (J. MEYERS,
Symbol and Structure in «The Leopard», in «Italian Quarterly», estate-autunno 1965, p. 61).
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di Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni» (118, 122). O invece, in altro
caso, ancora più implicitamente che nel primo esempio; e non in Sicilia, ma a Napoli presso il penultimo re delle Due Sicilie. Don Fabrizio se n’è appena congedato: «La cordialità plebea lo aveva depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza regale. Lui non poteva» (31, 28). Leggiamo che una familiarità e una minaccia quali a lui parrebbero davvero arzicizia e possanza regale, quali dovrebbero e potrebbero esserlo altrove, qui si sono deformati rispettivamente in cordialità plebea e ghigno poliziesco. Pur restando sottinteso, un gui non mi sembra meno necessario a capire il passo di un ancor più sottinteso altrove. Mentre protagonista intellettuale e sfondo regionale d’incultura si oppongono globalmente, il contrappunto è periodico fra le esigenze di pulizia e ordine da parte di lui, e la Sicilia come luogo di sporcizia e di disordine. Sicilia come sporcizia: fuori dalla luce di privilegio ancora relativamente intatto della parte prima, incontriamo solo gli «anditi sudicetti e scalette mal tenute», che sono però nel ricordo della reggia di Napoli (29, 26), e «le barche semiputride», «l’acciottolato sudicio» del quartiere malfamato di Mariannina
(37, 35-36). Il tema sorge aggressivo, nella transizione da una villa a un palazzo, col «viaggio schifoso» della parte seconda: «faune repellenti» in un letto di locanda, «tredici mosche dentro il bicchiere della granita», «greve odore di feci» dalle strade oltre che dalla stanza predestinata, «sudore» oltre che «fetore»; tutto ciò apre il varco alle prime fantasie che sedimentano morte (64-65, 63-64). Il giorno del plebiscito, imperversano «le cartacce e i rifiuti sollevati dai turbini di vento», da «quel ventaccio, carico di tutte le schi-
fezze raccolte per via», «impuro», «lercio»: e Don Fabrizio, facendoli diventare politicamente metaforici, va dicendo che «senza vento l’aria sarebbe stata come uno stagno putrido
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ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé mol-
te porcherie» (105-6, 107-8; 110, 112). Nel rinfresco in municipio, come già per il numero delle mosche, l’esagerazione fa valere i suoi diritti letterari per i «biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto» (107, 109) — la-
tente di nuovo l’associazione fra lordura e morte; ed è a proposito di fognatura che il sindaco incorre nel suo lapsus freudiano, dilatorio di cent'anni (107-8, 110). Appreso da Tumeo come il nonno di Angelica fosse tanto sudicio «che tutti lo chiamavano “Peppe ’Mmerda”. Scusate la parola, Eccellenza», lo sgomento di Don Fabrizio si dà aiuto ironizzando in pensieri e parole: «fertilizzante», «Nor o/et», «nonni fe-
cali» (115, 118-19). Ma Tumeo, appreso il compromesso nuziale, non si scusa per esclamare: «Questa, Eccellenza, è una porcheria! » (117, 121).
Se la polvere degli appartamenti abbandonati di Donnafugata non è riducibile a semplice sporcizia sicula, qualcuno dei cortiletti interni è contrassegnato, meno nobilmente,
«dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via» (146, 153).
L'ospitalità a palazzo offerta a Chevalley, ne sottrae il corpo «alle mille belvette che lo avrebbero straziato nella locanda-spelonca di Zzu Menico» (154, 162). Compare entro la sua prospettiva piemontese «il sudiciume immemoriale del finestrino» della vettura di posta (168, 178); entro una prospettiva inglese «lo squallore, la vetustà, il sudiciume» delle strade alla marina di Palermo (166, 176). Il giorno della visita di padre Pirrone, S. Cono «scialava in una quasi orgogliosa esibizione di feci diverse» (173, 181). Nell’alba cittadina, si muovono carri «con cumuli d’immondizia alti quattro volte l’asinello grigio che li trascinava» (211, 222). Se il quadro di Greuze fa spirare il giusto nel suo letto «fra sbuffi di biancheria pulitissima», Don Fabrizio sa già che «le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine...» (202-3, 212). Anche
qui la parte sesta prelude alla settima; dove delle lenzuola
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non sappiamo niente, ma non si limita allo «scompartimento insudiciato» (224, 234), agli effetti del treno e al loro lavaggio, l’associazione della morte con la lordura, e col caldo: La fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche l’acqua. Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le ombre delle diecine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine vecchie e diverse incupivano la camera.
Strano e non strano, che sia tale l'albergo nel cui «fetore di prigione» (219-20, 228) finisce catturata l’agonia di Don Fa-
brizio. Non essendoci indizio di ristrettezze economiche che ne condizionino la scelta, l’effetto di decadenza prodotto è pit logico simbolicamente di quanto non sia realisticamente motivato”. E una prima eccezione, mortale, al desiderio di
recupero immaginario da cui muove il racconto; e che come ho detto nella premessa ($ 5) e nel primo capitolo ($$ 5, 6) preferisce tacere, in una ellissi sui vent'anni dal 1862 al 1883 come in una successiva, il processo discendente da presumere sempre continuato.
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Sicilia come disordine: in apertura, finito il rito del rosario, «tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto» (23, 19). Parenti e amici sembrano a Don Fabrizio, torno a
citare sottolineando, andare «a//a deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano» (25, 22). Nel giardino, «le piante crescevano in fitto disordine, i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano disposte per impedire più che per dirigereipassi». Sconfinamento e mescolanza prevalgono nel lessico di tutta la descrizione, per sensazioni sia visive: «l’oro di un albero di gaggfa intrometteva la pro? «Anche il Principe, come Gesualdo, muore in un ambiente estraneo: se il mastro arricchito si spenge in un palazzo nobiliare, il nobile agonizza in un albergo borghese»; l’accostamento per contrasto è di grande interesse, al di là della questione d’un influsso di Verga su Lampedusa: R. LUPERINI, I/ «gran signore» e il senso della temporalità. Saggio su Tomasi di Lampedusa, in « Allegoria», XXVI (maggioagosto 1997), p. 140, e cfr. pp. 138-39.
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pria allegria intempestiva», sia olfattive: «i garofanini sovrapponevano il loro odore», «sotto sotto si avvertiva anche il profumo della menta», «l’agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zàgare» (26-27, 22-23). La stessa lussuosa indisciplina vegetale traveste l’indolenza umana - e mostra che il prestigio nobiliare è duro a morire: alla cadente villa Falconeri, «l'enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva [...] un aspetto abusivo di fasto» (34, 32). Sul continente, nello studio di Ferdinando II, «una Madonna
di
Andrea del Sarto sembrava stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di terz’ordine e santuari napoletani». Suona quasi polemica, aggiungerei, l’impeccabilità puntigliosa della lingua che parla e delle forme che osserva Don Fabrizio, contro la parlata più che mezzo dialettale, l’accento che «sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano», la sbracata e in fondo indiscreta ostentazione confidenziale del re (29-31, 25-28). Ma è qualificato come proprio dell’isola, come vero al punto da ridurre ad apparenze ornamentali sia pregi di cultura sia natura più benigna, un paesaggio interno; per figurarlo, il lessico del disordine trascende nell’irrazionalità inafferrabile, nel delirio, nella demenza: di fra i tamerici e i sugheri radi apparve l’aspetto vero della Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili. L'aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde (102, 103-4).
Metafore di caos che per opposizione reclamano /a mente e la sua razionalità; mentre l’aridità ondulante all'infinito ri-
prende, quasi alla lettera, il paesaggio delle fantasie con cui il protagonista aveva paragonato al viaggio la propria vita: «per sfociare poi in interminabili ondulazioni di un solo colore, deserte come la disperazione» (65, 64). Il viaggio stes-
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so passa per un'infinità di groppe lungo la quale, all’inconsolabile disperazione naturale, le costruzioni umane si propongono quali alternative incongrue: per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. [...]. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati; su ponti di bizzarra magnificenza si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare (59, 57)”.
Molti paesani di Donnafugata non sono convinti, dal sincero consiglio che Don Fabrizio dà loro di votare sî al plebiscito, perché è «entrato in gioco il machiavellismo incolto dei Siciliani»: che, «in quei tempi» soggiunge maliziosamente la voce d’autore, li induceva tanto spesso «ad erigere impalcature complesse fondate su fragilissime basi»; segue il paragone con clinici «abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri» ecc. (104, 106). Versione velleitaria, narcisistica, a un tempo artificio-
sa e facilona, d’un ordine mentale costruttivo: anche questa deformazione, addebitata a un qui, sottintende un d/trove. In una redazione anteriore si leggeva «machiavellismo astratto»; la sostituzione con incolto è tra quelle felici del manoscritto finale, giacché è piuttosto dalla parte di Don Fabrizio che ci aspettiamo di trovare l’astrazione, e dalla parte della Sicilia l’incultura”. L’immensità del palazzo, infine, non è meno disordinata che polverosa, e come accennavo a proposito di conventi c’è un disordine edilizio che rinvia per eccellenza all’antico regime - al passato della Sicilia per eccel-
lenza: ne riparleremo. Nei paesaggi calabresi che Don Fabrizio ammalato percorre in treno, e che «di fatto erano tali e quali quelli siciliani», derogano dall’aspetto di natura soltanto i nomi - ricordi d’una Magna Grecia troppo remota: «attraverso paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari» (217, 225). * Cfr. sopra, nota 7, e l'edizione del 1958 ivi citata, p. 129. Di parere diverso DIPACE, Questione delle varianti cit., p. 96..
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Cosi siamo stati già introdotti nel paesaggio naturale siciliano, per via del disordine che desola l’aspetto pit interno e vero di esso. Vale per esso, e non per gli sfondi artificiali aristocratici (tolto al più il Gattopardo araldico), lo stesso procedimento che vale per la corporatura di Don Fabrizio, e che perciò nel primo capitolo ($ 4) avevo dato come prevalente nel campo delle immagini fisiche. Il procedimento della ripresa periodica, costantemente variata, sotto forme che vanno dallo sviluppo inventivo al richiamo incidentale: i due estremi non si escludono, potendo l’inventività lessicale concentrarsi in uno o due vocaboli, e spingersi appena nelle direzioni costanti che vedremo. Per esempio: «uscirono nella piazza abbrutita dal sole» (68, 67); «Dalla finestra senza riparo il sole entrava brutalmente» (71). Non a caso tutti i richiami incidentali veri e propri, questi due come gli altri più neutri, stanno a diffondere lungo la parte seconda l’irrespirabile agosto: «sudava nel calore da stufa» (73, 74); «rimase a passeggiare [...], sotto il cielo infuocato» (87, 90); «Dal grande balcone chiuso contro l’afa...» (88, 91)?. Ma fa da base, alle variazioni di ogni portata, il succedersi di mesi e stagioni nella continuità delle prime quattro parti: maggio, agosto, ottobre, novembre. Segna una tregua, in quest’ultimo mese, pit «il sole color di miele» (156, 164) che non la pioggia, a sua volta esorbitante secondo i subitanei rovesciamenti deplorati da Don Fabrizio nel clima (137-39, 141T44; 103,172). Ecco l’occasione di precisare un punto. Nel discorso del Gattopardo non manca affatto, in campo psicologico-morale, il non-detto: reticenze, sottintesi, allusioni, omissioni; e
un’amplissima figura di ellissi domina, come ho detto più vol? Fra le parti terza e prima, un richiamo retrospettivo: «la conversazione di qualche mese prima [...] nell’osservatorio sommerso dal sole» (114, 117).
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te, la costruzione narrativa. È in campo fisico-sensoriale che si dispiega un’abbondanza intensiva ed estensiva di elaborazioni verbali, mai ridondante, sotto il segno della metafo-
ra o dell’iperbole, tra il moderno e un ideale modernizzato di grande barocco. Ed è a causa di quest’abbondanza che avevo potuto a suo tempo considerare il romanzo come «grasso» anziché «magro», se non proprio come «esplicito» anzi-
ché «implicito»: secondo categorie del gergo di poetica e critica, orale e scritto, di Lampedusa stesso”. La divaricazione da me testimoniata fra la poetica che professava come pit sua, e l’imprevista prassi del narratore (non è forse cosî per quasi ogni prodotto vitale ?), oggi è meglio documentabile grazie alle lezioni pubblicate. A voce, aveva un bell’idealizzare la secchezza dei romanzi brevi francesi dove la realtà fisica si subordina a quella morale: fino all’assenza d’immagini nella Principessa di Clèves di Madame de La Fayette, a un unico momento d’immagini in tutto Ado/phe di Constant”. I/ Gattopardo è, in ciò, all'opposto; e nemmeno somiglia a quei capolavori di cui parlano le lezioni inglesi, che «rendono il paesaggio» ma non si saprebbe dire come né dove, a meno di supporre che «vi siano, spezzettatissimi, ridotti allo stato di polvere impalpabile gli accenni paesistici», centu3 ORLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp. 41-47, 97-98; e cfr. MM, pp. 136163. Con questo distinguo che mi pare imprescindibile rendo ragione, ma solo in parte, alle riserve avanzate da Nunzio La Fauci sulla mia testimonianza e sulle sue possibili applicazioni: N. LA FAUCI, Analisi e interpretazioni cit., p. 1180; m., Alla
ricerca del «Gattopardo» implicito, in AA.vv., Il telo di Pangloss, L’epos, Palermo 1994, pp. 68-70. Del resto, se per Lampedusa l’esplicito aveva un senso cosî negativo da giustificare che se ne coinvolga il concetto in una sacrosanta polemica contro i pregiudizi dell’accoglienza italiana, fra scrittori grassi e magri ho attestato che era in sostanza ecletticamente imparziale; e che nella prima categoria, basterebbe questo, metteva Shakespeare con Dante e con Proust. La Fauci suggerisce anche un incrocio delle categorie, e parla quindi d’una combinazione tra il grasso e l’implicito: m., Modi del «Gattopardo». Morfosintassi e interpretazione, in AA.vv., La sintassi dell’italiano letterario, Bulzoni, Roma 1995, pp. 402-4. ” Cfr. B. COnsTANT, Adolphe, Garzanti, Milano 1979, pp. 112-13 [CEwvres, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1957, p. 109]: cap. x. Dalla lezione su Madame de La Fayette: «Il romanzo francese aveva imboccato la sua strada, quella dell’analisi psicologica concreta, crudelmente spinta a fondo»; «Tutto è svolto su di un piano psicologico»; «La passione violenta, fatale si esprime in uno stile astratto e contenuto» (MM, pp. 1665-66).
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plicati in efficacia complessiva dalla maestria delle loro collocazioni”. La sua resa del tempo e delle stagioni è certo lungi dall’avvenire per «impercettibili colpi» e «minimi particolari», come secondo le lezioni francesi in sottili esempi da Anna Karenina, o comunque «di sfuggita e quasi di nascosto»? I luoghi non sono, come in Stendhal, «suggeriti mediante una semplice presentazione preventiva», affinché alle «scene-chiave» preesistano di molto i relativi scenari” — anche perché non si può pit parlare, nel Gattopardo, di scene-chiave. Quanto a Balzac, il quale davvero descrive, e
all’«effetto di film» che Lampedusa scrisse alla moglie d’aver goduto, leggendolo col metodo di disporre mentalmente tutto sugli sfondi delle piante di casa e del mobilio*': stiamo per verificare fino a che punto è legittimo parlare, nel Gattopardo, di descrizioni.
Si può subito affermare che le immagini di paesaggio compaiono quasi tutte entro la prospettiva di Don Fabrizio. Con più cautela, si può affermare che il paesaggio oggetto ricorrente di percezioni fisiche, se non puntualmente come suoi singoli aspetti, globalmente come l’atmosfera intellettuale e morale di cui non è meno pervasivo, si contrappone al soggetto — e il soggetto ad esso. Avevamo visto nel primo capitolo ($ 6) che fra l’uno e l’altro intercorrono felici ma circo-
scritti compromessi, sotto specie di momenti propiziati da luoghi: l’«arcaicità odorosa della campagna» (101, 102), i pa-
* Ibid., pp. 660-61: con gli esempi di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, di Verga nei Malavoglia, di Shakespeare in Misura per misura, nel Mercante di Venezia, in Antonio e Cleopatra, in Macbeth da cui il discorso parte; ma a proposito di Misura per misura, e assai significativamente, cfr. già p. 649.
” Ibid., pp. 1796-97. Nella mia prova narrativa giovanile su cui Lampedusa stese un giudizio, non dubito che fosse l’esilità delle indicazioni sparse a fargli scrivere: «in tutta l’opera del resto, la sensazione “temporale” è eccellentemente resa» (cito dall’inedito in mio possesso, cfr. ORLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp.
97-98). ‘ MM, pp. 1803-4; anche in questo caso (cfr. nota 27 al primo capitolo) Lampedusa riprende PRÉvosT, La création chez Stendhal cit., p. 257. ‘! Cfr. c. CARDONA, Lettere a Licy. Un matrimonio epistolare, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra Tomasi Wolff, Sellerio, Palermo 1987, pp. 86-87.
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III
raggi protettivi del palazzo feudale, soprattutto l’effetto di sole e silenzio all’interno di entrambe le abitazioni proprie. Si colloca rispettivamente poche pagine dopo, e una pagina prima, dei due passi e del terzo citati per un tale effetto dentro la villa di S. Lorenzo, il primo e pit lungo passo che in prima istanza chiameremmo una descrizione di paesaggio: Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata intorno ai Conventi come un gregge ai piedi dei pastori. Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma stupefatta. Il sole, che tuttavia era ben lontano in quel mattino del 13 maggio dalla massima sua foga, si rivelava come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni (48).
Certo, anche nella sua forma classica ottocentesca la descrizione non escludeva né metafore particolari, né sottintesi metaforici generali, spesso antropomorfizzanti. Ma il fatto è che la metaforica umanizzazione del paesaggio soppianta sistematicamente, nel Gattopardo, ogni intento di oggettività aderente a linee, masse e colori. Parifica gl’indugi maggiori sulle immagini alle evocazioni in due parole; protrae le metafore, o le riprende, fino alla continuità o all’intermittenza dell’allegoria*, secondo costanti variate su tutte le di4 Uso il termine di allegoria sempre nel senso dei trattati di retorica antichi e moderni, come figura distinguibile dalla metafora di cui è la forma continuata; e senza riferimento alla distinzione di essa dal simbolo, ieri perdente, secondo famose riflessioni di Goethe, oggi vincente, secondo la fortuna del pensiero di Walter Benjamin. Il rischio d’inattualità va sempre corso quando l’attualità ricatta arche come moda; ma non è questo, si capisce, il punto. Il punto è che quella contrapposizione fra simbolo e allegoria, con le sue implicazioni ideologiche e preferenze valutative, resta estranea all’idea d’una razionalità alternativa radicata nel cosiddetto inconscio, e vincolata per natura a una pluralità di significati e a un loro sconfinamento attraverso classi logiche. Cioè resta estranea alla lezione di Freud, e del suo continuatore Matte Blanco, che fin dalla premessa ($ 2) ho dichiarato formalmente soggiacente a questo libro.
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stanze testuali. Il passo appena citato, contenendo tali costanti già quasi tutte, può permetterci di passarne in rasse-
gna volta per volta anche le successive varianti. Se qui si parla di foga del sole, di sole violento e sfacciato, in precedenza si ha «la frenetica luce siciliana» (36, 33); più tardi, il contrario del sole filtrato, quello che entra «brutalmente» da una «finestra senza riparo» (71); un sole calante che ha «smessa la prepotenza», per una «luce cortese» (76, 77); l’«irruenza della luce» (166, 176). E nel contesto del dialo-
go con Chevalley, di apparenza ideologica anziché descrittiva, si ha in sintesi «violenza del paesaggio», «crudeltà del clima»; poco prima, «questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come do-
vrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali», e dove distano di poche miglia inferni e bellezze «ambedue fuor di misura, quindi pericolosi» (163, 172). Non occorre ripetere che violenza, prepotenza, irruenza, ecc. sono precisamente i difetti che ron ha Don Fabrizio - nemmeno nella dose in cui potrebbero passargli per qualità. Incapace di sfrenatezza, eccessivo oltre che nella corporatura soltanto nei freni inibitori, l’essere razionale per la cui dimora la Sicilia non è fatta è innanzi tutto lui. Lo prostra nel corpo l’aggressività dell’astro diurno, quanto la distanza notturna delle stelle esalta il suo affetto e placa la sua ragione. Nella veduta dall’alta torretta dell’osservatorio, la forza del sole non si sente pesare su ciò che investe, anzi agisce come un lievito che tutto alleggerisce: ogni cosa sembrava priva di peso, una macchia di puro colore, ammassi di vapore sul punto di dissolversi. Un simile svuotamento di consistenza, o altrimenti appannamento di chiarezza della realtà sensoriale, non proviene soltanto dalla vista. In precedenza, equivalgono a effetti visivi quelli dell’odorato: a notte, «l’aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio» (36, 34). Pit tardi, si traspone in osses-
sione auditiva quella della temperatura: in viaggio, il «con-
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tinuo fluire delle sonagliere... ormai non si percepiva pit se non come manifestazione sonora dell’ambiente arroventato» (59, 57-58). Ma il mare meridiano ed estivo di Palermo si stende «compatto, oleoso, inerte» (216, 224-25); ed è in un
altro notturno che il lascito del sole assente si fa pit sensibile come pesantezza terrestre e opacità celeste: «nell’aria inerte gli alberi sembravano di piombo fuso; [...]. Le stelle
apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di afa» (84-85, 87). Svaporante o plumbeo, l’oggettopaesaggio tende a sdoppiarsi in un allegorico rapporto come
fra due soggetti: fra lo strapotere del sole, e il subire o patire di tutto ciò che vi è sottomesso, soggetti rispettivamente attivo e passivo. In maggio, sopra la calma stupefatta, il sole narcotizzante; in agosto, la «piazza abbrutita dal sole» (68, 67). Se la metafora politica ha un sottinteso nell’assolutismo borbonico, lo trascende su una lunga durata più stabile d’ogni monarchia: il sole si rivela autentico sovrano, annulla le volontà singole, mantiene ogni cosa in una immobilità servile; servilismo da cui non affrancano i sogni violenti, immobilità che non scuotono le violenze partecipi dell’arbitrarietà dei sogni. La città, «oppressa» in un’anteriore metafora politica da conventi «despoti del panorama» (35-36, 33-34), qui, benché torva, si stende acquetata intorno ad essi nella remissiva comparazione con un gregge ai piedi dei pastori. Il disegno originario dello scrittore, ristrettosi dal romanzo alla sua parte prima («saranno 24 ore della vita di mio bisnonno il giorno dello sbarco di Garibaldi»), postula la 4 Cfr. la Premessa di G. Lanza Tomasi (pp. 11 o 7 nelle due edizioni che cito). Decidendo di restringere il progetto, Lampedusa disse, sempre al figlio adottivo: «non so fare l'Ulysses» (ibid.): purtroppo, nelle lezioni su Joyce, la durata di ventiquattr’ore dell’U/ysses è commentata ancora meno che, nelle lezioni su Virginia Woolf, la durata di dodici ore di Mrs Dalloway (MM, pp. 1245 e 1253). Ma ecco cosa si scopre, a un’attenta ricostruzione dei tempi e luoghi del Gattopardo (LUPERINI, I/ «gran signore» cit., p. 138): oltre a una sostanziale unità di luogo, sette parti su otto rispettano l’unità di tempo (nel senso di Aristotele) - cioè durano non pit
delle ventiquattr'ore diJoyce. Esattamente tanto, come la parte prima, anche la seconda, terza, quinta e ottava; meno ancora, la sesta e settima; l’eccezione è la quar-
ta, che si dilunga entro lo spazio d’un mese.
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data che affiora precisamente qui: în quel mattino del 13 maggio. Qui dove tutto il contesto, se una data ha da valere a far presente la storia, congiura ad ammortizzarla. Le montagne, covi dei rivoltosi, hanno cessato di apparire zerzibili, piene di agguati; la presenza di navi straniere, inviate in previsione di torbidi, non riesce a introdurre timore; e Don Fa-
brizio sintetizza in una frase tutto ciò che dirà a Chevalley sei mesi dopo: «Ce ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata! »
(49, 48). La variazione di metafora politica che apre il racconto d’ottobre, infatti, menoma e svisa a sua volta l’avve-
nuto trapasso alla monarchia liberale sabauda: «il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali». La luce è, pur sempre, «autoritaria» (93); più in là, si ha l'abbreviazione: «Sotto il sole costituzionale...» (103, 104). Sono «feudi a metà Agosto» quelli che l’oro della sala da ballo ricorda a Don Fabrizio, pateticamente assoggettati a un sovrano di nuovo non rdffrenato: gli «sterminati seminerî attorno a Donnafugata, estatici, imploranti clemenza sotto la tirannia del
sole» (200, 209). In un mezzogiorno di fine luglio, sul balcone dell’agonia, la penultima di queste variazioni metaforiche è la più crudele: quasi a sovvertire la tenerezza fra Don Fabrizio e Bendicò, prende a soggetto passivo un mare «inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava lf sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà» (216, 225). Ultime variazioni:
«accecato dal sole» in treno (217, 225), «le distese
flagellate dal sole» (220, 229). “ Cfr. ragusa, Stendhal, Tomasi cit., pp. 214-15. 4 Variante della stesura dattiloscritta: «...questa pozione magica che ci viene versata» (cfr. sopra, nota 7; e l'edizione del 1958 ivi citata, p. 53). Il senso di perennità era già cosî lapidariamente implicito nella forma passiva e impersonale del verbo, che anche stavolta mi sembra sia stato sciupato con l’esplicitazione dell’avverbio sempre.
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Nel maggio del passo le cui costanti metaforiche ci hanno guidati per tutto il testo finora, ne mancano due riservate all’agosto, e meno a lungo variate. L’una ha qualcosa dell’ossimoro, associando al nero del lutto la troppa chiarità canicolare: «i suggerimenti funerei delle cornacchie che roteavano basse nella luce», «la campagna funerea», «il lamento delle cicale [...]; era come il rantolo della Sicilia arsa
che alla fine d’agosto aspetta invano la pioggia» (60-6r, 5859). E il mese in cui se qualcuno è morto, e immediatamente Don Fabrizio s’identifica in lui, vuoldire che non ha resi-
stito «al grande lutto dell’estate siciliana» (75-76, 76); il mese, anche, di «quell’incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate» (200, 209). L’altra costante, elevando il soggetto attivo da sole sovrano addirittura a Dio, addebita a quello passivo una sorta di ereditaria colpevolezza da espiare: «Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della Sicilia aveva avuto termine?» (77-78, 79); ma no, i transitori nuvoloni se ne
vanno «chissà dove, verso paesi meno colpevoli nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore» (84-85, 87). Nel citare a Chevalley la fonte, il libro sacro, Don Fabrizio perfeziona l’ossimoro sostituendo nevicare a piovere: «da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia» (163, 172). Di tali soggetti metaforici in cui si sdoppia l’oggetto-paesaggio, è certo la dura autorità assoluta di quello attivo, regale o divino, a fare da negazione diretta del reale soggetto protagonista. Tuttavia neanche in quello passivo, con la sua inerzia sofferente ma asservita e malamente sognante, potremmo riconoscere Don Fabrizio senza una grave degradazione. Per lui soggetto pensante il paesaggio si pone globalmente, e pit dell’incultura degli uomini dato che una causa
#4 Genesi, 19, 24: «Allora l'Eterno fece piovere dai cieli su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco, da parte dell’Eterno». In Calabria e Basilicata come in Sicilia,
«paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide» (217, 225).
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conta più d’un effetto, come oggetto di giudizio. Se assumiamo il personaggio a “riflettore” di tutto ciò che il narratore può dire, anche oltrepassandone la prospettiva fisica ma non morale, è Don Fabrizio il titolare dell’idea che l’immo-
bilità d’un tale paesaggio resista e si sottragga alla storia in movimento. Nel momento in cui gli tornano in mente, e se
le ripete a suo modo, «le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo», il collegamento logico resta taciuto fra quelle parole e il suo sguardo: «Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria» (44). Eterni: la frase del nipote ha dato voce a una speranza storica, tanto storica che in vita sua Don Fabrizio
farà a tempo a vederla disillusa; la visione del monte presso Palermo materializza una disperazione che si pensa metastorica, perché nessun tempo di vita umana basterebbe a provarla illusoria. Il problema è se una classe dominante sia o no redimibile; ma si decide in una regione della quale, visto da un finestrino di vettura nell’alba squallida, «il paesaggio sobbalzava, irredimibile» (168, 177-78). Speranza falsificata entro un paio di decenni e disperazione non falsificabile su scala millenaria, complementari, hanno l’una e l’altra radice soggettiva; cosî che il pregiudizio immobilistico poté,
alla stessa superficie di lettura, invertire in ricetta qualunquista l’una e prendere alla lettera come teoria disfattista l’altra. Nella lettura che fu la prima a confutare quel pregiudizio, G. P. Samonà scrive della parte terza che un «rapporto [...] di necessità» assegna, all’«idillio feudale [...] della caccia», lo stesso sfondo che ai racconti del fidanzamento e del
plebiscito‘. Natura immutabile che relativizza i mutamenti sociali e politici, mentre questi non tangono quella; quasi fosse una prerogativa dell’isola che la boscaglia non trasformata dal lavoro si trovi nell’identico stato in cui «la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità» ecc. (ro1, 102-3). D'altra parte ‘’ samonÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 80, 84-85.
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dopo i risultati elettorali, dopo applausi discorsi mortaretti e razzi, «alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre» (108, 111); non sareb-
be che natura e provincia, diventa una vanità generale alla Flaubert. Buio precoce o soverchia luce, anche i venti luttuosi d’agosto passano «sulle superfici assetate, ieri, oggi, domani, sempre, sempre, sempre» (200, 209). Il «vento lieve» della mattina di caccia fa da soggetto attivo, indifferente anziché duro, sopra un soggetto passivo nella cui universalità si confondono paesaggio e parti avverse di storia: «passava su tutto, universalizzava odori di sterco di carogne e di salvie, cancellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante; [...] molto pit in là andava ad agitare la capelliera di Garibaldi e dopo ancora cacciava il pulviscolo negli occhi dei soldati napoletani che rafforzavano in fretta i bastioni di Gaeta» (102-3, 104). Irresponsabile quanto il vento il sincretismo popolare, «nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare» (172, 180). Ma a Don Fabrizio l’af-
faccendarsi delle formiche, eccezione alla statica natura, mediante «alcune associazioni d’idee che non sarebbe opportuno precisare» ricorda il plebiscito. La «gloria secolare» e «prosperità futura» del formicaio, la «marcia verso il sicuro avvenire», le file su cui «trasvolavano le note di un inno», da inconfondibile retorica di destra si slargano ad allegoria d’ogni attivismo totalitario‘. Sono degni di Swift, della tradizione inglese di pessimismo utopico che fa capo a lui, le minuscole dimensioni come lo schifoso obiettivo del formicolio: «alcuni chicchi di uva stantia che don Ciccio aveva ri4 Testimonia Lanza Tomasi: «Il passo [...] è anche l’allegoria espressionista di una adunata fascista al Foro Italico, quelle a cui per affittare una parte di casa Lampedusa all'Azienda municipale del Gas Giuseppe era stato una volta costretto a partecipare» (Prerzessa alla Letteratura inglese, in MM, p. 563; cfr. SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., p. 88). Anche stavolta la variante della stesura dattiloscritta, «i dorsi lucidi di quegl’imperialisti», mi sembra preferibile a: «di quegli insetti», versione adottata certo per rendere meno esplicita l’allegoria (cfr. sopra, nota 7; e l’edizione del 1958 ivi citata, p. 128).
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sputato via», «quel po’ di marciume intriso di saliva di organista» (103, 105).
Nel colloquio con Chevalley il rapporto fra Sicilia e storia, finora breve tema d’immagini in prospettiva di Don Fabrizio, passa a lungo argomento di discorso per voce di lui. La distinzione crociana fra poesia e oratoria era inerente al gusto italiano, in data 1958 e oltre, e ha complicato di diffidenze estetiche i giudizi ideologici. Cerco di sgombrare il campo dalle une e dagli altri, richiamando all’evidenza narrativa: in questa scena, per la seconda volta dopo il plebiscito, un uomo restio alle decisioni si vede costretto a prenderne una. E non a pronunciarsi con un sf o con un no, stavolta; ma a scegliere per sempre, decisione delle decisioni, fra la collaborazione e la rassegnazione, fra l’agire e il non agire. Quanto pit è prevedibile il suo ritrarsi (che finisce di determinare, in mancanza appunto di un’azione, la struttura del romanzo), tanto meno è facile, con tutto l’argomentare di
Don Fabrizio, isolarne ur4 vera motivazione. Alla proposta di Chevalley, che dà al dialogo un avvio credibile quanto il personaggio, risponde un silenzio immoto; dal rimuginare sulla dignità senatoriale, in termini subito impropri di più o meno grande onore, d’ignoranza dubitativa, esce nondimeno una domanda (« Volle sincerarsi»); l'enfasi liberale del piemontese di buona fede viene, per ironico caso, interrotta dall’intrusione di Bendicò; resta cosî eclissato il momento
della decisione, che nelle parole immediatamente seguenti risulta già presa: avrebbe accettato se si fosse trattato d’un titolo onorifico‘, di «adesione» e non di «partecipazione». A questo punto, fanno il loro ingresso le generalizzazioni sulla Sicilia. Esse precedono, di qualche riga, un «troppe cose sono state fatte senza consultarci» (159-61, 167-69); di varie pagine, un «non posso accettare» per impedimenti persona‘’ Come tale soltanto, già previsto nelle congetture sul futuro della parte prima: in compenso per le «chiavi dorate di gentiluomo di camera», per il «cordone ciliegia di S. Gennaro» dismessi, «il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli questi, ciondoli quelli» (46-47, 46).
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li e morali (164, 173). Verso la fine, Chevalley ha compreso e compatito, e cresce di statura; è quasi come se Don Fabri-
zio riconoscesse di non aver ragione, moralmente, rispondendo con un moto di simpatia all’ultima esortazione di lui: «Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori» (165-66, 175). Da personaggio a personaggio, prima che da autore a lettore, quelle generalizzazioni hanno dunque la funzione di giustificare una rinuncia. Proprio perché la giustificano male, e al più la razionalizzano”, non compete loro il convenzionale giudizio limitativo su divagazioni e dissertazioni. Alibi d’un latitante rimorso di classe in un individuo superiore alla sua classe, si moltiplicano con l’eloquenza concitata e amara d’una discolpa. Fa capolino quasi per ultima l’ipotesi che la colpa di tutto possa essere «del feudalismo; mia cioè, per cosî dire»: è Don Fabrizio, o è Lampedusa, a pensare che i feudatari piemontesi, inglesi o francesi 07 avessero governato meglio dei suoi antenati? cioè più in generale di quello che, non Marx anonimamente addotto (167, 177), ma Croce, definisce «un brutale e fazioso baronaggio»”. No, nessun grande personaggio è mai “il portavoce” dell’autore, è l’opposto che spesso pare l’esito involontario degli incogniti processi creativi. L'autore non ha inventato un adeguato
protagonista per fargli esprimere le proprie idee - checché ne dicesse lui stesso”; forse ha inventato le proprie idee, con tutto il resto, per darle adeguatamente da esprimere a quel protagonista. Più ancora di quante non gliene abbia attribuite, in ogni caso, ha messo a tacere idee e nozioni che in-
dubitabilmente possedeva. Sull’arco millenario confacente alla sensibilità d’un nobile colto, autore o personaggio, la Sicilia annovera sî tutte le possibili soggezioni straniere anti50 «Il mito di una Sicilia sempre eguale e immobile nel tempo è dunque anzitutto una difesa, psicologica e ideologica insieme» (LUPERINI, I/ «gran signore» cit.,
p. 139).
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51 B. CROCE, Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1931, p. 15. °° Cfr. la premessa ($ 4), e la nota r1 a essa.
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che, medievali e moderne; ma solo la decadenza della fascia
meridionale e orientale euroafroasiatica, rispetto a una civiltà ormai centralizzata a nord-ovest, rese marginale l’isola al centro del Mediterraneo. Sarcastico sul «passato imperiale» (167, 176), Don Fabrizio non eccettua dalla pluralità di «magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi», ecc. (161, 170)”, nemmeno l’originale gloria della monarchia normanno-sveva. È probabile che in ciò Lampedusa abbia tenuto conto d’una tesi di Croce”; stavolta comunque può essere il personaggio, per dirla coi narratologi, che sa m2ez:0 dell’autore. i Se c'è azzeramento degli alti e bassi storici, quale ne è l’effetto, di che va a beneficio o a scapito ?Le cose stanno, per la serie delle dominazioni, più o meno come per gli altri tratti: pigrizia sonnolenta e sognante, voluttuosa e violenta, da cui ritardo culturale (162, 171); presunzione di normalità qui e di stramberia altrove, superiorità che chiama fierezza la propria cecità (164, 173; 167, 177); estate che per sei mesi dà la febbre alta, e costerebbe a chi lavorasse sul serio tri-
pla energia (163, 172). Rispetto a una specifica totalità detta Sicilia (contenitore geografico, vicende passate, circostanze presenti), ciascuno di questi tratti è dato per caratterizzante. ? O dei «governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi» ecc. (163-64, 172-73). È
Cfr. CROCE, Storia del regno di Napoli cit., pp. 5-28. È detto subito, della monarchia normanno-sveva, che la Sicilia «ne fu il vero centro generatore», p. 6 (prima di rimanere, dall’insurrezione dei Vespri in poi, «quasi staccata dalla generale cultura italiana», p. 15). Benché non riguardino solo la Sicilia, i possibili punti aval-
lati e sottintesi nel discorso di Don Fabrizio mi sembrano i seguenti: «E impossibile, nel risalire dalla storia di questo regno di Napoli alla monarchia normannosveva, non provare un senso d’inaccomodamento e d’estraneità, come di un prologo troppo largo e di tono troppo diverso da quello, talora mediocre, del dramma che segue»; «alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il carattere indigeno e nazionale», p. 11; «non sembra lecito identificare la storia della monarchia
normanno-sveva con la storia dell’Italia meridionale»; «fu rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle sue viscere», p. 25 (il corsivo è mio). Don Fabrizio, fra le vane buone volontà straniere «di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale», livella «cavalieri di re Ruggero» e «scribi degli Svevi» con dignitari di altri cinque governi (167, 176).
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Tanto assolutamente, da precludere ogni sospetto che ciascuno, o più d’uno, o tutti, potrebbero caratterizzare non
meno bene altre totalità del genere: altre regioni mediterranee, o meridionali, o provinciali e arretrate, dovunque si-
tuate nel mondo”. Il successo effettivamente mondiale del Gattopardo da una parte, dall’altra l’importanza dell’ambientazione nel romanzo, incoraggiano a riproporre su postulati insoliti il problema non nuovo dell’universalità dell’arte. Che mai potrebbe importare della specificità siciliana a lettori finlandesi, brasiliani, giapponesi, se l’opera letteraria non fosse in grado di trasporla in qualcosa di più ampio? E in che altro, allora, se non in una qualche categoria generale: di cui la realtà particolare rappresentata faccia parte e sia tipica, ma che per definizione includa tutte le altre realtà particolari analoghe ? Espansione di significato non necessariamente portata a coscienza dal lettore — il quale non avrà in mente che la Sicilia, o un’isola cosî denominata se ne conosce solo il nome. Ma da vicino o da lontano, e con la sola ec-
cezione di letture viziate da un particolarismo di principio, credo che nessuno legga il romanzo senza effettuare quell’inconsapevole estensione. Dall’individualità della condizione periferica siciliana” all’universalità di tutte le condizioni periferiche; da una periferia (se la parola può sintetizzarne altre: provincia, meridione, terra arretrata...) a ciò che, pur restando
vivamente individuato, tende a diventare / periferia”. 5 A proposito del clima, Montesquieu scriveva senza localizzazioni geografiche che, dove il calore è estremo, «l’abbattimento passerà allo spirito stesso; nessuna curiosità, nessuna nobile impresa, nessun sentimento generoso; le inclinazioni vi saranno tutte passive; la felicità sarà nella pigrizia», ecc. (MoNTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano 1996, I, p. 388 [CEwvres complètes, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», II, Paris 1958, p. 477]: libro XIV, cap. m).
# Non solo nella vita pubblica, naturalmente; pure cfr. RENDA, Storia della Sicilia, I cit., p. 38: «Un'isola grande e popolosa, ma sempre periferica ai grandi sistemi di dominio politico e militare del Mediterraneo; dunque provincia, ma provincia specialissima: tale è stata sempre la Sicilia nel corso dei secoli e dei millenni» (fra gli esempi, in un accenno al Sacro Romano Impero, nemmeno qui svevi o normanni fanno eccezione). 57 Inconsapevole, si dirà, un'operazione mentale di astrazione ?E anche se quelle singole caratteristiche possono essere presenti altrove, non è irripetibile almeno
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Quali che siano i postulati di psicanalisi e di teoria della letteratura d’una tale concezione, essa pare fatta apposta per togliere, a chi vive una condizione periferica, l’ultima illusione: che la sua condizione, per quanto derelitta, vanti un carattere unico al mondo. Illusione tenace, naturale, ma
tutt'altro che benefica. Ne era esente l’autore, lo provano le lezioni straniere, mentre non ne ha esentato il personaggio:
il cui «inferno ideologico» (164, 173) rischia di reificare l’unicità di ciò che accusa, estremizzando una contraddizio-
ne che fa parte dello spessore di tutto il romanzo. L’estensibilità dei tratti siciliani, momento demistificatore, vi è insi-
ta come abbiamo visto inavvertitamente; la loro particolarità, momento da demistificare, vi si esibisce inalienabile quale immediato oggetto di rappresentazione. Eppure, se il
monologo dialogato di Don Fabrizio è poeticamente più riuscito che quello di padre Pirrone, da che dipende? a differenza dalla Sicilia nel primo, l’aristocrazia nel secondo resta se stessa e basta - malgrado una profetica transizione ad altre possibili aristocrazie (179, 189)?°. Su una periferia indila loro combinazione? Confinando in nota una breve resa di conti teorica, non
smentisco l’assicurazione, data nella premessa ($ 2), che rispetto ai sottintesi di teoria freudiana della letteratura l’intero libro si sarebbe lasciato leggere come se niente fosse. Avevo accennato a forme logiche di pensiero alternativo, tipiche di ciò che Freud scopri e chiamò l’inconscio: tipiche al punto da definire meglio che non faccia questa parola (secondo un grande continuatore di Freud, Ignacio Matte Blanco) l'oggetto stesso della scoperta. Forme logiche mai estranee, nondimeno, al pensiero conscio: cosî da potere (per mia ipotesi) qualificare con la loro infiltrazione il discorso poetico o letterario, la cui natura comunicativa e sociale è indiscutibile. Ora, secondo la' riformulazione di Matte Blanco, una delle sorprese più rivoluzionarie della scoperta freudiana è che una tale logica meno rigorosa, di origine infantile, non privilegia affatto come ci aspetteremmo l’individuale e il concreto. Stenta o tarda invece a distinguerlo e delimitarlo, inclina a sommergerlo nel più universale e nel piv astratto. Basta una qualità comune a due cose perché le confonda in una cosa sola: virtualmente, nell’insieme di tutte le cose che posseggono quella qualità. Pure, ed è importantissimo, lungo una simile dilatazione dall’unità verso insiemi via via più ampi, tendente letteralmente all’infinito, una qualche caratteri stica della cosa individuale viene sempre conservata (cfr. nota 5 alla premessa, e MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti cit., pp. 43-44). Un tale misto di generalità composite e di pertinaci particolarità è facile da ricordare in certi nostri sogni; non lo sarebbe meno, a ben riflettere, nella nostra esperienza della poesia, del teatro, della narrativa. Cosf una Sicilia assurta a categoria, la Sicilia del Gattopardo, preserva individualità per caratteristiche singole e non solo per loro combinazione.
° Cfr. sopra, nota 25.
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viduale o universale, peraltro, il pessimismo non cambia. Alla partenza di Chevalley, l’apparizione «disperata» di Donnafugata nel «chiarore livido» dell’alba, cioè in luce nuda senza abbagliamenti di sole, è If per dare a Don Fabrizio ragione di fatto (168, 177-78). Ma solo entro una visione del mondo dove la storia moderna esiste, anzi conta più di tutto, si può opporle con tanta forza un suo contrario: non metastoria né trascendenza, bensî residuo, resistenza, di natu-
ra contro cultura, di lunga durata contro innovazione, di staticità altrove superata contro progresso. Il non tacerne è
pessimismo progressivo, antidoto all’ottimismo progressista semplificatore e bugiardo, coraggio di disperazione che guarda l’altra faccia della speranza.
4.
Anche tacendo nondimeno, o negando, si può dire il vero; ed è cosî che procede I/ Gattopardo rispetto a un’alternativa europea che non si dà, a una storia moderna che non ce la fa ad arrivare in Sicilia. Se ho affermato che tale storia esisteva e contava per Lampedusa, ne dànno prova positiva, come per l’immunità di lui dal miraggio d’una periferia incomparabile, le lezioni straniere - fuori dal romanzo. Ma dopo tanto distinguere da parte mia fra l’autore e l’opera, tanto insistere sull’autonomia testuale del capolavoro, sarà la riprova di qualcosa, piuttosto che la prova, a poter essere cercata al di fuori: persino nel caso di ciò su cui il romanzo tace. Non chiamo ora in causa le lezioni se non per restare al Gattopardo, segnalando fra le une e l’altro uno sconcertante rapporto come di rovesciamento. Nelle lezioni è dichiarata, lo vedremo meglio nell’ultimo capitolo, la simpatia ammirativa per le grandi battaglie attraverso cui progredî dal Cinque all'Ottocento la nuova civiltà borghese. Schematicamente, si direbbe dunque che c’è l'Europa, e non c’è la Sicilia; al contrario che nel Gattopardo, dov'è oggetto di
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discorso la Sicilia e di silenzio l'Europa. Ma l’opposizione è doppia, in una simmetria capovolta. In realtà la Sicilia è pure presente, nelle lezioni, per cosî dire in negativo: bersaglio periodico d’ironia appassionata; mira permanente d’inconfessata pedagogia - mediante la mordace finzione d’un uditorio al plurale (voi...), tanto ignorante e provinciale quanto però giovanile’. D'altra parte l'Europa, nel Gattopardo, 3? Per le effettive modalità di svolgimento di queste lezioni, cfr. orLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp. 21-23, e la Premessa di Lanza Tomasi alla Letteratura inglese, in MM, pp. 547-48. In un'intervista telefonica, si riporta che Lanza Tomasi abbia affermato: «la stagione letteraria di Tomasi si accompagna ad una forte esigenza etico-pedagogica», «la passione didattico-moralistica diventa parte integrante degli ultimi quattro anni della vita di Lampedusa»: segue un accostamento fra il sarcasmo verso i giovani amici nelle lezioni e il sarcasmo antiisolano nel romanzo («La Sicilia», supplemento del 14 novembre 1996, p. 5, intervista firmata da Maria Lombardo). Gli spunti “pedagogici” in questione sono, circolarmente, collegati: ne fornisco un indice analitico in miniatura. Al loro (per lo più presunto) destinatario collettivo, si imputa un esclusivo interesse per i valori estetici, e per quelli supremi (MM; pp. 812, 1313-14). Quindi un’indifferenza alla storia, per timore di constatarsi appartenenti a una generazione «condizionata, prefabbricata, a tema obbligato, rinchiusa come tutti nel determinismo sociale, economico e clas-
sista» (p. 877, e cfr. pp. 745, 812-13, 1126; sottotitolo fra parentesi e scritta finale, pp. 844 e 846). D’altra parte, l’importanza degli scrittori minori e minimi è nel fatto che, per comprendere la storia, sono più utili dei grandissimi (pp. 775-76, 1313-14; e cfr. pp. 991, 1160). Gli attacchi al sentimentalismo (pp. 1271, 1321) vanno vicini, a loro volta, all’impazienza contro Palermo, la ristrettezza di esperienze che vi si trascina (pp. 1179, 1229, 1233), il ritardo culturale, la lentezza inefficiente delle librerie (pp. 1050, 1135, 1173-74, 1263, 1520). Saranno sordi al z0nsense, colmo dell’umorismo inglese, dei «giovani palermitani sui quali pesa ancora la nube di fumo dei roghi della Controriforma» (p. 1169). La contrapposizione con l’estero si allarga spesso alla letteratura italiana: «lingua inamidata ed aulica» (p. 1205), «mancanza di concretezza» (pp. 1049, 1787), greve serietà (p. 1167), pubblico svogliato (p. 1229), fiacchezza degli scrittori cattolici (1197-1198), accademismo petrarchista e secentista (pp. 705-6, 1588), carenza di minori leggibili specie nell'Ottocento (p. 1044, e pp. 715-16, 1045, 1109). Moltissimo di pedagogico c’è anche nella polemica che riassume un po’ tutte le altre, quella contro il melodramma: piuttosto che valori musicali, investe una poetica e un costume; anima pagine, sia divertenti che penetranti, d’irresistibile verve (pp. 654-55, 657-60, 971,
977-78, 983-84, 1739-40; piti brevemente, pp. 656, 746, 748, 757, 847, 905, 954955, 961, 993, 1003, 1035, 1044, 1107, 1126-27, 1148, 1229, 1249, 1266, 1744,
1766, 1811-12). Lampedusa sentiva complementari, nel funestare la nostra cultura, popolarismo melodrammatico e mandarinismo impopolare; ma mordendo questo, non mordendo quello, vendicava senza saperlo disgrazie postume del suo capolavoro. Contini l'avrebbe giudicato non di pit che «una gradevolissima “opera d’intrattenimento” [...] in cui si rendono popolari [...] taluni valori», proprio perché gradevolissima e perché rende popolare qualcosa (cfr. nota 23 alla premessa). Gli avrebbe preferito l’assolutamente illeggibile Pizzuto, proprio perché assolutamente illeggibile.
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è presente pure, e pure in negativo: qua e là curiosamente
soccombente a presentazioni riduttive, oppure elusa da una patetica reticenza; dappertutto termine di confronto estraniante, sottinteso nel fatto stesso che l’opera r07 è scritta riservandola o destinandola a lettori siciliani. Come del resto già quelle di Verga, De Roberto e Pirandello, ma con più risentimento, con uno strappo pit polemico e più partecipe insieme. D'un partito preso di diminuzione, a sua volta rovesciamento vero e proprio delle opinioni d’autore, è i osservata nell’opera la spia linguistica costante: l’usò, appunto, dei diminutivi*. Che cade, regolarmente, a contrassegno di persone e cose non siciliane. Cominciando dall'Italia continentale: il milanese Cavriaghi è per sette volte «il contino»
(63, 62; 64, 63; 138, 143; 152, 159; 152, 159; 152, 160; 153, 161) e una volta «il sottotenentino» (64, 63); gli ufficiali garibaldini indossano «berrettucci rossi» e «giacchettino rosso»
(63, 61).
Tancredi
apprezza
le gambe
di Aurora
Schwarzwald (forse ebrea dal cognome), «ballerinetta del San Carlo» (96); Angelica collegiale presso Firenze era stata baciata dal «ragazzotto giardiniere» (135, 139). Chevalley, precipitato a Girgenti dalla sua «terricciuola del Monferrato», scende dalla corriera con un «sorrisetto guardingo», e una «valigetta di tela bigia» (154-55, 162); poi, ricorda intenerito «la propria vignicciuola» (165, 175). Con effetto umoristico, don Pacchiotti prete paleografo, che «inoltre era Piemontese», adopera nell’ispezione delle reliquie «un martelletto» e «una seghetta», fa udire «martellatine» e «stridorini di viti» (245-46, 255). Passiamo ora le Alpi: Don Fabrizio sapeva mandare in deliquio anche «Sarah, la sgualdrinella parigina» (38, 37); Napoleone vincitore, come l’ha visto nei quadri storici, è «l’omiciattolo in cappottino grigio» (118, 122); Marx è rimasto per lui «un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome» (167, 177); dell’albergo 6° Per primo, in un giovanile lavoro divulgativo: s. ATTI, Torzasi di Lampedusa, Cetim Bresso, Milano 1972, pp. 36-37, 40.
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che lo riceve moribondo, il direttore è uno «svizzerotto sec-
catissimo» (222, 231); gli ufficiali di marina inglesi, in variante accrescitiva anziché diminutiva, gli sono parsi «giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri» (166, 176). Tornando in Sicilia, il fenomeno stilistico si attacca an-
che a ogni sorta di rappresentanti del nuovo mondo in antitesi al vecchio. Dai «liberalucoli di campagna» in ascesa (46, 45), alle patriottiche «bagascette di Donnafugata» (108, 110), a don Calogero che, «piccolissimo», sarebbe «sembra-
to uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti...» (118, 122; cfr. 168, 178); da Tancredi stesso quale «capitanuccio garibaldino» (96), al vezzeggiativo del «nipote Fabrizietto» (217, 225) - nel cui imborghesito futuro suo nonno prevede fra l’altro «scherzucci malvagetti agli insegnantx. (2217230). Non sempre, si è visto, il fenomeno è in prospettiva o in
monologo interiore indiretto o per voce di Don Fabrizio. Ma prospettiva e voce d’autore si direbbero, anche stavolta, complessivamente proporzionate a lui. E alle sue dipendenze la francese mademoiselle Dombreuil, personaggio trattato per lo più con lieve caricatura, non senza simpatia umoristica
(60, 58; 61, 59; 126, 131; 133, 137; 138, 142; 144, 149-50;
145, 151; 151, 158). E l’ombra d’un ulteriore suo doppio il cardinale della postuma parte ottava: un settentrionale a Palermo che, a differenza da lui, si era sforzato e illuso d’esse-
re attivo, attirandosi la reputazione di «un fesso», prima di rassegnarsi a esercitare misericordia in opere «passive» (243-
244, 253). Ed è lui stesso a dire che un paesaggio per esseri razionali dovrebbe essere «meschino, terra terra, distensivo,
umano» (163, 172); esattamente come, poco dopo, Chevalley ricorda per voce d’autore «il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente» (165, 175). % Nella prima stesura della parte quarta, la sola di cui sopravvivono nel settimo quaderno lunghe porzioni (cfr. sopra, nota 7), Tancredi e Cavriaghi sono «gli ufficialetti innamorati»: MM, p. 272.
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Entrambe le volte quattro qualificativi, due in male e due in bene, prospettano una non-Sicilia spoglia di grandiosità disumana, prima che provvista di cordiale vitalità (la voce d’autore s'intona su Don Fabrizio, è poco plausibile che sia Chevalley a trovare brutta e mediocre la propria terra). La grandiosa disumanità che in buona logica resta attribuita alla Sicilia, è l'equivalente paesaggistico della maestosa iniquità d’un latifondo di proporzioni principesche: ciò che non sa difendere l’erede tradizionalista ma illuminato. Ugualmente
logici, e suoi, gli inversi ossimori riferibili all'Europa postfeudale, che congiungerebbero angustia a equità, piattezza a civiltà. L’implicito e l’esplicito, se applicati anziché alla scrittura ai personaggi, si ripartiscono in Sicilia tra signori e no:
l’uno può essere sia finezza che falsità, l’altro sia grossolanità che imponenza”. Nel lombardo Cavriaghi, nel piemontese Chevalley, nobili entrambi, la lealtà è ingenua, la cortesia dimessa. Ma il più intelligente dei due prova pietà dello «spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza» che è la Sicilia: il «principe senza speranze» e i più disgraziati di lui gli sembrano «tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo» (165, 174-75). Non serve chiedersi a chi o a che cosa tocca l’ultima parola, pretendere l’inequivocabilità dell’ideologia, là dove la contraddittorietà della letteratura e dei suoi protagonisti renTestualmente, esplicito compare con pieno valore qualificativo (e non il suo opposto, esempio: «Nel termine “campagna” è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro», 101, 102). Riflette padre Pirrone: «I gran signori erano riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari» (187, 198). Nel tragitto ferroviario, i tratti scoperti al sole sono «espliciti come tristi realtà» (217, 225). Don Fabrizio paga un prezzo «divenendo esplicito una volta tanto in vita sua» (119, 123): passo commentato in ORLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., pp. 41-42. La sola volta che l’aggettivo non propende al peggiorativo, lo corregge un altro di senso opposto: l’appellativo che Angelica sospira all’orecchio dello zio di Tancredi, è «esplicito e segreto» (132, 135). Ma sarebbe facile documentare un implicito col segno meno, non signorile e falso, in odore di abitudine all’omertà: per esempio, nel dialogo col soprastante Russo (44-47, 44-46). Un esplicito col segno più, signorile e imponente, si darebbe pit spesso fuori dallo sfarzo delle dimore, se Don Fabrizio sostenesse altrimenti l'autorità; e in ambito popolano, allo stesso segno si può ascrivere la temeraria schiettezza di Tumeo. Cfr. anche saMoNÀ, I/ Gattopardo cit., p. 71 nota.
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de tortuosa l’analisi. C'è un personaggio non abitante in Sicilia che si sottrae ai diminutivi, perché si è sottratto alla Sicilia stessa pur essendoci nato; e non è tanto sottoposto alla
prospettiva di Don Fabrizio, quanto insediato dentro di lui al modo d’un rimorso, non si sa se più verso l’altro o verso sé stesso. È il figlio Giovanni, a cui gli va il pensiero tre volte, due delle quali prima di morire. Alla coscienza paterna deve sembrare strano, certo, che scomparso da casa avesse scritto da Londra «di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni» all’incatenamento «fra gli agi palermitani»; l’ansietà lo immagina «errante nella nebbia fumosa di quella città eretica». Era però, tra i figli, «il più amato» — anche se «il più scontroso» (32-33, 30). E alla fine: «Il solo che gli rassomigliasse»; «Quello sf» — anche se l’«abbandono di tutto» da parte di lui viene assimilato al proprio corteggiamento della morte (220-21, 229-30). Prima che scomparisse, il padre «aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo» — anche se le conversazioni erano state «alcuni monologhi, per esser veritieri» (223, 232). Predilezione e similarità d’animo hanno un risultato sconvolgente nella rinuncia volontaria al privilegio, nel ripudio di tutto il mondo a cui Don Fabrizio è preposto. L’unico ponte diretto che il romanzo getti fra il protagonista e il mondo moderno, fin nella sua protestante e capitalistica capitale, gli parte dall’intimo del cuore. Quel po’ di nebbia e fumo londinese resta, malgrado i viaggi a Parigi, e al di là di Monterzuolo o delle «grasse cascine in Brianza» di Cavriaghi (152, 159), tutto quanto s’intravede di paesaggio alternativo a quello meridionale. Il personaggio di Giovanni è la piccola cicatrice del testo, il punto in cui l’oggetto di reticenza è meno regalo ma di chi se n'è andato, per ertrare in un altro luogo e in un altro tempo, non si comunica molto di più del fatto doloroso che sia uscito.
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Don Fabrizio dunque è o ror è, per somiglianza o per opposizione, è e 70m è, con più costanti o con più varianti, tan-
te e svariate altre persone e cose. Tutte quelle a cui la sua onnipresenza, che fa la profonda unità del testo, si estende direttamente in positivo o in negativo: Bendicò e il coniglietto, padre Pirrone e il cardinale, il sole e il paesaggio siciliani, la Sicilia intera e Giovanni andato via... La paternità è fra le sue responsabilità maggiori, e meno imprevedibile apparirà che un padre sia ripetuto e alterato, continuato e contraddetto nei figli. Oltre Giovanni, dei sette figli che Stella gli ha dato (38, 36-37), Francesco Paolo nel 1860 sedicenne s’individua appena, e quasi niente Chiara!; Carolina e Caterina poco pit di quanto occorra a includere, in una tragicomica triade di signorine nel 1910 settantenni, Concetta. Verremo pit tardi a quest’ultima come a Paolo, che nella sua unicità prende poco spazio. E Tancredi che ha buon gioco a disputarglielo nell'animo del padre: «Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo» (34, 32); poi, con fulminea sincerità interiore: «Questo era il figlio suo vero» (41, 39). Anche ri-
spetto a Concetta, del resto: «Il Principe amava molto questa sua figlia; ma amava ancor più Tancredi» (74, 75). L’anteposizione d’una paternità elettiva alla naturale, che del nipote fa «il ragazzo più amato che non i propri figli» (138, 1 Per Francesco Paolo cfr. 32, 29; 52; 78, 79; 81, 83; 133, 136-37; 154-55, 162-63; 218, 226; 219, 228; 225, 234; per Chiara 235, 243.
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142), può spiccare nel pit tradizionalista dei patriarcati come una libertà deviante da intellettuale; e cosi l’accusa la ri-
strettezza d’idee della principessa: «Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro sangue! » (99, 100). E vero tuttavia che sin dall’apparire del ragazzo lo zio sente un’identificazione fisica, matrilineare e viscerale, in lui: «gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti» (40, 38)?. Sua
madre sembra da riferire qui a Don Fabrizio, ma della sacrificata sorella madre di Tancredi lo commuove il ricordo (122,
126-27); nel suo studio ha una miniatura di lei col figlio a tre anni, illegalmente salvata dal sequestro giudiziario (158, 166).
Un’enorme dilapidazione di patrimoni sarebbe infatti condizione preventiva, per «ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui» (123, 128-29).
Tancredi ha subîfto a priori, ancora bambino, la catastrofe economica che Don Fabrizio paventa da lontano. E come se con la ricchezza avesse utilmente perduto il torpore mentale della conservazione, mentre è rimasta la distinzione inna-
ta — il sangue, a dirla col razzismo di classe. Quei suoi occhi vengono evocati, dalla magia del suo stile epistolare, con tutta la persona; o stanno per essa, irraggiando calcolati successi: «la nasalità beffarda della voce, gli occhi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi» (98, 99); «gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato» (121, 125); «Gli occhi di Tancredi sprizzarono malizia» (142, 147). Chiave della familiarità fra zio e nipote sono due parole, tali e quali la prima e l’ultima volta che se ne parla: «Conquistato da sempre dall’affettuosità beffarda del ragazzo» (74, 75); «l’affettuosità beffarda come si conviene che sia» (223, 233). Formula
nella cui parvenza contraddittoria il trionfo dell’implicito si? La faccia di Tancredi è emersa allo specchio, dietro quella di Don Fabrizio: parla di «immagine riflessa» in senso narcisistico, nel suo ottimo volumetto divulgativo, E. CARINI, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, Loescher, Torino
1991, pp. 67-73.
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gnorile, di fatto e di diritto, sposa la legge stessa d’allegria e tenerezza di ogni rapporto d’elezione. Solo quando il figlio elettivo sa il padre spacciato, «la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza» (218, 226); strin-
gendolo per mano, «parlava, parlava molto, parlava allegro: esponeva progetti cui lo associava» (222, 232-33). Solo quando crede che non capisca pit, piangendo «diceva: “Zio, zione caro!” » (225, 234)?. Prima, quel che sembra contare è che «per le persone del carattere e della classe di Don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto» (74, 75); e Tancredi può narrare «la guerra facendo apparire tutto lieve e senza importanza» (83, 85), e secondo una matura duchessa napoletana «nessuno sapeva raccontare les petits riens» come lui quindicenne, e Angelica non sa ancora «quanto è divertente Tancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto» (134-35, 138-39). Ma la sua frivolezza è precocemente contraddetta da «improvvise crisi di serietà»; la sua spregiudicatezza, convincente nel re-
citare a tutti la retorica e demagogia di moda, non si tradisce attraverso sfumature che «agli iniziati» (34, 32; 41, 39;
74, 75).
Tancredi è il principale alter ego, umano a differenza da
Bendicò, di Don Fabrizio. E veramente, di fronte a lui, l'Al-
tro: un Altro che si dà per tale, essendo lui inadeguato ai compiti posti dai tempi sconnessi, in quanto si fa presumere adeguato; tanto meglio se, celando l’alterità nell’identità, ha gli occhi propri e materni - forse anzi a condizione che ce li abbia. Trattandosi d’un rapporto paterno-filiale, si può dire che nell’affettuosità beffarda la rivalità edipica trovi un’elegante e gaia, felice e reciproca sublimazione. Cosî l’alterità si fa complementarità imprescindibile, consolida un’alleanza: al più giovane, è assicurata la protezione del pit vecchio; ? L’ironia è già meno forte della tenerezza, da parte del figlio che sembra penetrare la malinconia del padre più di quanto non sia detto, durante il ballo: nei modi dell’invito a danzare con Angelica, dell’invito a cenare con la coppia - che a sua volta per delicatezza altruistica Don Fabrizio declina (203-7, 213-18).
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da questo a quello, è consentita una riposante delega dell’azione, compiaciuta fino al «godimento estetico» nel vederlo destreggiarsi tra le difficoltà (223, 233). Entrano sollievo e gratitudine in una stima nutrita di speranze politiche: possibile «alfiere di un contrattacco» della nobiltà, Tancredi «aveva dinanzi a sé un grande avvenire» (74, 75); «trascinato dall’affetto parlava di lui come di un Mirabeau» (135, 139; e cfr. 123, 128-29). Solo a momenti, come colui a cui lasciar fare cose che gli ripugnerebbe fare, Don Fabrizio lo guarda ostilmente nella sua alterità. «Per la prima volta gli sembrò che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragazzo» (76, 77)"; «non si poteva negare che fosse un tantino ignobile» — tanto pit che «lui stesso era come Tancredi». Subito prima, ha proiettato addirittura nelle costellazioni, come fa quando ha l’anima sconvolta, «un unico diagramma: due stelle sopra, gli occhi; una sotto, la punta del mento; lo
schema beffardo di un volto triangolare» (85, 87-88): il «volto triangolare» è di Tancredi (40, 39), suo è l'aggettivo def fardo?. E lui che, vertiginosamente, «precipitava i tempi dell’evoluzione prevista» (95, e cfr. 97; 99, 99-100). E come non pensare a lui quando Don Fabrizio, nel tirarsi indietro anche per un disagio generazionale, raccomanda a Chevalley «giovani svelti, [...] abili a mascherare, a con-
temperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche» (164, 174). Voce di Don Fabrizio qui, di sua moglie una sola volta prima; nelle citazioni precedenti, per voce d’autore, è sua
senza eccezione la prospettiva fisica o morale. Di Tancredi, udiamo spesso la voce. La udiamo, per esempio, sublimare l’edipismo in confidenziale insolenza: «Belle cose, alla tua * Resosi conto che rancore non è: «l'occhio del nipote lo guardava con l’affetto ironico che la gioventii concede alle persone anziane. “Possono permettersi di
fare un po’ i gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali saranno liberi” » (77, 78). ? Cfr. LA FAUCI, Analisi e interpretazioni cit., pp. 1149-50.
° Altri passi, per una presenza “negativa” di Tancredi, in saMoNÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 177-79.
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ne
età! [...]I ruderi libertini! » (40, 38)”. La udiamo dissociar-
si, lusingando, da un complotto affettuoso: «Quando si ha
uno zio bello ed elegante come lui è giusto esser gelosi» (204, 214). Rarissimamente invece, e mai in aperta profondità, abbiamo di Tancredi il punto di vista. Cosî si caratterizza una seconda volta, in senso formale, come l’Altro: come colui che
possiamo ascoltare e vedere, ma cor gli occhi del quale non vediamo mai, o quasi. Proprio dagli occhi si aprono, il tempo d’un aggettivo, problematici squarci sulla sua interiorità: una volta sono detti, anziché maliziosi o sfavillanti, «inquieti come sempre» (194, 202); altrove, «i suoi occhi timorosi»
(218, 226). L’impenetrabilità ha lasciato al suo comportamento verso Concetta quel tanto d’ambiguo di che avvalorare, cinquant’anni dopo, una postuma reinterpretazione (87-
88, 89-91; 241-43, 249-52). Come Tancredi del resto, e vorrei dire a maggior ragione, sono visti quasi sempre dall’esterno i Sedàra: rappresentanti di un’alterità sociale con cui apre le trattative la sua svolta politica, le conclude il suo matrimonio. Sia del padre che della figlia, i punti di vista emergono soltanto quando si tratta di sottolineare la loro indifferente distanza, o faticosa permeabilità, rispetto ai valori del protagonista. Allo snobismo che fa parte dell’arrivismo di don Calogero preme comprarsi un titolo (125, 130), non istruirsi sul passato e sulle differenze: «Si sentiva, si credeva uguale a chiunque» (124, 129). Se dal modello di Don Fabrizio resta «fortemente colpito», è lentissima l’evoluzione che ne viene avviata (130-31, 133-34). Le ambizioni di Angelica sono più complicate, e la porteranno lontano; ma, dei pensieri di lei, apprendiamo che per il momento confida nei soldi e basta; che in Tancredi le piacciono meno cose, perché cose pit elementari, di quante ne vede e ne vanta lo zio (134-36, 138-40). La prospettiva passa per poco a Tancredi unicamente nel” Inoltre: «indecenze che non sono fatte per uomini della tua età», «contemplavi nudità scandalose» (76-77, 77-78).
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la parte quarta. La sola, su otto, di durata più lunga e costruzione meno unitaria*; la sola, su sei in cui è presente Don
Fabrizio, dove al centro e per circa un terzo del racconto lui sia assente. La compattezza delle quattro parti datate 1860 si sfalda, e prima che il soggetto torni a riempire la sesta e settima fino all’esaurimento, tocca all’ Altro prenderne il posto (senza peraltro un seguito narrativo). In qualche breve monologo interiore, i pensieri del giovane scorrono piuttosto in superficie: freni e sensualità, intenzioni riparatorie fallite verso Concetta, superiorità nobiliare su Angelica (151, 157-58; 151-52, 158-59; 153-54, 161). Solo l’ultima occasione mette allo scoperto una sincerità di livello soggiacente: «con l’abitudine atavica ai larghi possessi gli sembrava davvero che Gibildolce, Settesoli e i sacchetti di tela fosse-
ro stati suoi dai tempi di Carlo d'Angiò, da sempre». E prima, con conscio abbandono, nell’abbracciare la fidanzata restitutrice: a lui parve davvero che in quei baci riprendesse possesso della Sicilia, della terra bella e infida sulla quale i Falconeri avevano per secoli spadroneggiato e che adesso, dopo una vana rivolta si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da sempre, fatta di delizie carnali e di raccolti dorati (142, 148).
Frase che precede d’una riga bianca l’episodio degli appartamenti abbandonati; mentre la penultima citata ne precede di qualche riga, o ne segue di qualche pagina, la fine. L’episodio è cosî incorniciato dalle due uniche aperture non superficiali sull’interiorità di Tancredi che non contenga esso stesso. Andrà, certo, letto alla loro luce; e tanto meglio per
noi, perché non è di semplice lettura. Intanto osservo che il lirismo feudale di lui suona tanto sensualmente imperativo nella possessività dei suoi da serzpre, quanto ha tono desolato (in un passo citato più volte) quello di Don Fabrizio, col suo reiterato serzpre che va al di là del possesso e della perdita (200, 209). Tancredi poi non è il solo a recuperare per * Cfr. nota 43 al secondo capitolo.
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via di donna la terra perduta: «l’aspetto rustico, miserabile» della vicenda ha uno specchio deformante nel «brutale amorazzo» e «premeditato corteggiamento» del bel Santino Pirrone (187, 198), con un’Angelina «bruttina assai» e «meschina come il plebeo diminutivo del proprio nome» - laddove Angelica è «sontuosa come il suo nome ariostesco» (181, 190-9I). Il palazzo di Donnafugata, lo sappiamo, materializza «perennità» per Don Fabrizio (65, 64; 223-24, 233). Che immenso com’è comprenda vaste parti ricadute in un’opposta precarietà, disusate e deteriorate, non solo non gl’interessa
verificare ma nel non farlo si compiace: «in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato» (145, 150-51). Ho commentato in un altro libro: «Di tante stanze non è dunque esemplare il polveroso abbandono, quanto la stessa sovrabbondante esistenza: lungi dal connotare di decadenza la sede d’un grande casato, ne confermano la dovizia»?. Purché, però, tali parti restino parti; e non stiano per un tutto quale la «villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi» (34, 32), dove «l’ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre» (123, 128). Spetta al proprietario di questo rudere, al nipote espropriato e metamorfico, andare a esplorare i luoghi simbolici che lo zio ancora padrone tralascia: Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso (144, 150).
? oRLANDO, Gti oggetti desueti cit., p. 463.
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La forma retorica dell’elenco si prolunga secondo l’iperbole del «quasi illimitato edificio»!*; al servizio della quale, altre più brevi enumerazioni e accumulazioni coordinanti moltiplicano spazi e movimenti: «di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo»; «infilare un corridoio [...], svol-
tare per un ballatoio, salire una scaletta complice» (145, 150-51); «a furia di giravolte, di ritorni, d’inseguimenti, di
lunghe soste». Iperbole massima la perdita d’orientamento, il non saper più dove ci si trovi se una «finestra senza vetri» guarda «su di un cortiletto interno, anonimo anch'esso e mai intravisto» (146, 152-53). Il passo all’angoscia sarebbe breve: non mancano corridoi «lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia» (145, I51I).
Ma perché Tancredi voleva che Angelica conoscesse il tutto, e perché poi soprattutto gli appartamenti abbandonati? Già la frase seguente non si lascia ridurre al dato di fatto che il labirinto deserto asseconda i giovani innamorati. Per questa discesa agli inferi, che è una regressione e letterale e metaforica all’antico regime, l’autore non ha evocato invano numi letterari che venerava o no — dal castello di Combourg" al romanzo gotico'. Un primo motivo riguarda il solo Tancredi: è lui a rivedere l’antico regime, oltre che nella sua fatiscenza, in quella sua superata irrazionalità che manifestano disordine, spreco e stratificazione di spazi. Un secondo motivo è rivolto ad Angelica: a lei ignara si tratta di far mi!° Preannuncio tematico lontano e nascostissimo, dove in piccolo la proliferazione degli spazi si confonde con lo smarrito dominio delle funzioni da parte del proprietario: nello studio di S. Lorenzo, «torreggiava una scrivania con decine di cassetti, nicchie, incavi, ripostigli e piani inclinati. La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico, piena di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che nessuno sapeva pit far funzionare al di fuori dei ladri» (43, 42). !! Cfr. nota 29 alla premessa, e CHATEAUBRIAND, Memorie d’oltretomba, I cit., pp. 51-52 (m., Memoîres d’Outre-Tombe, I cit., pp. 63-64). !° Cfr. nota 23 al secondo capitolo. ! Cfr. nota 22 al secondo capitolo.
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surare, quasi di esibire, la grandezza dell’antica classe che a sua volta niente manifesta meglio degli spazi smisurati. Il terzo motivo è sf erotico, ma non ovvio né innocente.
Fa
dell’episodio una segreta, fantomatica rivincita sul matrimonio declassante di cui Tancredi beneficia; ciò che vuole è correre il rischio, sapendo perfettamente che finirà evitato, di far sua la donna prima di farla principessa: come un suo pari avrebbe posseduto una bellissima contadina" - nei secoli delle costruzioni la cui entità parrebbe autorizzarlo ancora, mentre lo proclama impossibile il loro stato. È uno dei sensi, appunto, dell’ambigua frase seguente: «non si rendeva conto (o si rendeva conto benissimo) che vi trascinava
la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale» (144145, 150). Da qui l’originale, paradossale erotizzazione dei luoghi comuni di sfacelo sviluppatisi fra Sette e Ottocento. Il «galoppo dei topi al di sopra dei soffitti» o lo «strisciare di una lettera centenaria dimenticata», nel silenzio, diven-
tano pretesti «per un aderire rassicurante delle membra». Dietro un enorme quadro, «per un po’ “Arturo Corbera all’assedio di Antiochia” protesse l’ansia speranzosa della ragazza», che poi «col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta». Resuscitato un !* Non faccio che trasferire, al più moderno ma anche più cinico nipote, un pensiero di cui si vergogna lo zio: «si accorse che stava invidiando le possibilità di quei tali Fabrizi Corbèra e Tancredi Falconeri di tre secoli prima che si sarebbero cavati la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passare davanti al parroco» (96-97, 97). Angelica, che pare pronta ad accettare il com-
pimento eventuale del fatto, non per questo certo sarebbe grata dell’intenzione. Forse si spiega cosî (ed è un bell’esempio d’implicito nell’ordine psicologico) che, coltivata e settantenne, contrapponga «forse inconsciamente» i castelli della Loira al palazzo di Donnafugata, «contro il quale nutriva un’avversione inspiegabile per chi non avesse conosciuto la di lei infanzia sottomessa e trascurata» (239, 247-48). 4 In una simile periferia della periferia, non si addentrano i non siciliani Cavriaghi e Dombreuil (145, 151). Cavriaghi prende cortesi distanze, in due parole, dalla civiltà che aggiudicava a un edificio privato dimensioni adeguate al maggiore di quelli pubblici: «questa casa che è grande quanto il nostro Duomo! »; subito prima, gli è scappato di definire il paese «questo porcile (scusa sai, caro)» (153, 16061). Reduci dalle loro scorribande, Tancredi e Angelica devono lavarsi, farsi spazzolare, mutare d’abito: nel biasimarli, Don Fabrizio «sorrideva», la Dombreuil «s’indignava» (150-51, 157-58).
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gracile carillon settecentesco, prolungano i baci sul «ricordo di quel fantasma di musica». Una «serratura centenaria» cede a dita «che godevano nell’intrecciarsi e soffregarsi per forzarla» (145-47, 151-53)!°. AI di là, in cima a una scala, Tancredi comprende «di aver raggiunto il nucleo segreto» (148, 154) preannunciato già in
apertura d’episodio. Il palazzo è stato «un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante»; ottant'anni dopo, «i diavoletti incipriati» posti in fuga «esistevano ancora, certamente, ma allo stato lar-
vale ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissà quale soffitta» (143, 148). Il paragrafo d’arrivo implica, certamente, un significato universale: al fondo dell’eros l’aggressività!” — e perciò «Tancredi ebbe paura, anche di se stesso». Convergono, però, implicazioni storiche cosi determinate e inattese che per coglierle tutte il lettore dovrebbe poter risalire testualmente, dalla perversione che gli deve il nome,
ai romanzi del marchese di Sade. L’«appartamentino vezzoso e strambo» era preparato per torturare a scopo erotico, come in quei romanzi. Con più d’un agente e più d’una vittima, a soddisfare, insieme al sadismo e masochismo, l’esi-
bizionismo e voyeurismo: «sei piccole camere» attorno a un salotto, divani «troppo ampi», grandi specchi «appesi troppo in giù». Pavimenti in pendio «verso una canaletta laterale» (per il sangue); «spesse imbottiture» alla porta, cortiletto «cieco e sordo» alle finestre (contro le grida). Nell’armadio rotolini di corda, scatolucce con etichette oscure, fruste ! Inoltre: «Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via [...] o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente»; «su di un di-
vano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla». In mancanza di fisionomia e nome degli ambienti, assegnano nomi amorosi alla stanza «nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo», a una scaletta dai gradini «lisi e sbrecciati» (145-46, 151-52). Su La col pa dell'abate Mouret di Zola, come precedente di contaminazione fra desuetudine
settecentesca e iniziazione erotica, cfr. ORLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., p. 73,
e n., Gli oggetti desueti cit., p. 313. 1" Cfr. sPINAZZOLA, La stanchezza cit., p. 234: «ecco la scoperta paurosa del segreto dell’eros, la pulsione distruttiva e autodistruttiva del sadismo».
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e scudisci, «attrezzini metallici inspiegabili»: a riparo degli spazi defunzionalizzati, ammuffisce un apparato che la sofisticata crudeltà delle sue funzioni non vieta di chiamare tecnico. La periferia ha dunque a suo tempo recepito, per tutte dottrine illuministiche, quelle “nere” praticabili a costo d’una strumentalizzazione assoluta del corpo altrui. Aggiornamento eccentrico ed effimero, in fatto d’irreligione come di efficienza; e che si presume mettesse a profitto l’arbitrio più criminale dell’antico regime. Nella terra senza memoria culturale, tale luogo soggiace a più d’una rimozione. Era occulto di suo, è consunto dal tempo; inoltre vi è stato fracassato uno specchio, strappata la seta dei divani (lorda di sangue, come quella degli scudisci ?), «mutilati da martellate rabbiose» i nudi intagliati nel
marmo, «nascosta da un armadio» la porta stessa (147-48, 153-54): causa «la reggenza severa della principessa Carolina, la neoreligiosità della Restaurazione» (143, 148). Museo devoto è invece un altro appartamento - benché sia «il più remoto del palazzo». Un Salina, nel Seicento, vi si è ritirato a far penitenza «come in un convento privato», in stanze «simili a quelle dei contadini più derelitti»: dall’ultima, si domina «la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti im-
18 In romanzi come Le centoventi giornate di Sodoma (1785), La Nuova Justine
o le sventure della virti, seguita dalla Storia di Juliette, sua sorella, o le prosperità del vizio (1797; la prima parte, sotto altri titoli, già 1787 e 1791), i lascivi carnefici sono sia duchi, conti, vescovi, frati, il papa, il re di Napoli, sia finanzieri, magistrati e ministri non nobili: è la ricchezza che consente il vizio, o lo premia. Quale cono-
scenza di Sade poté avere Lampedusa, morto prima che le opere di lui uscissero integralmente dal loro inferno clandestino ?Nelle lezioni francesi non c’è trattazione; l’assenza di miei ricordi personali contrasta con la dichiarata ammirazione per Laclos (su cui nel 1955-56 progettavo una tesi di laurea, e ne parlammo molto). A parte il senso storico di Lampedusa, e la sua conoscenza di Freud che riconobbe al
sadismo fra altre perversioni radici universali, già quel paragrafo del Gattopardo testimonia la sua valutazione di Sade come fenomeno. Escludo invece che condividesse la mitizzazione dello scrittore e dell’ideologo, partita dalla svolta di gusto del surrealismo - con la quale facevo coincidere, nella premessa ($ 4), il suo limite generazionale. In uno dei saggi degli anni venti, tre anni dopo il Manifesto di Breton di cui Lampedusa era coetaneo, scherza sull’interposizione dei carabinieri che minaccerebbe presto «un volenteroso seguace del marchese di Sade»: MM, p. 486 (per le poche altre volte che lo nomina, cfr. l'indice dei nomi del volume).
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mersi in una triste luce»!?. Allora sf che l’antico regime posava senza licenze sul suo fondamento cristiano. L’aggressività si ritorceva in mortificazione della carne: le strisce di cuoio della disciplina con cui si fustigava il Duca-Santo, «solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo», terminano in «sei palle di piombo grosse come nocciole» (148-49, 155). Altro che gli «istinti goderecci» dell’ultimo discendente Fabrizietto (221, 230); ma da chi è pensato ciò che
«nella sua pia esaltazione doveva sembrargli» ? L'idea d’una immedesimazione nelle terre mediante un «battesimo espiatorio» di sangue è retrospettiva, insorge nel pronipote dalla coscienza che nel frattempo «le zolle erano sfuggite». Che quelle in possesso di Sedàra tornino a lui attraverso Angelica, dà a Tancredi
«come una vertigine»; ma il parallelismo
fra i riscatti «attraverso il sangue» e «attraverso la bellezza» è per lui, non per il lettore, un’«evidenza» (149, 155). La bellezza di Angelica è, in piccolo, il naso di Cleopatra secondo Pascal? — il dato accidentale surdeterminante che invoglia, per dirla con Don Fabrizio, a un’«avventura audace e predatoria» (221, 230)”. Troppo interessata, dai due lati, !° Variante della prima stesura (cfr. note 7 e 61 al secondo capitolo): «il severo paesaggio /eonino di feudi accavallantisi sui feudi» (MM, p. 277; il corsivo è mio). Decisamente, l’aggettivo fa parte di un’eredità, che Don Fabrizio raccoglie solo nell’aspetto. 2° «Il naso di Cleopatra: se fosse stato pit corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata»; nell’edizione Brunschvicg dei Pensieri, al n. 162 (B. PASCAL, Pensieri e altri scritti, Mondadori, Milano 1994, p. 178 [Persées, Garnier, Paris 1964, p. 118).
?! Mentre il pregiudizio ideologico, anche nei casi peggiori, reagî a una coscienza che il romanzo riguardava la cultura italiana di sinistra, il pregiudizio sperimentalista cercò d’ignorarne l’esistenza. Perciò mi fermo su un’eccezione (U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1995, pp. 115-29: prima edizione 1964), che isola la presentazione della bellezza di Angelica (79-80, 81). Si tratta di provare che il romanzo won sia precisamente quello che è: «rivelazione originale di aspetti della realtà che - prima di quell’opera - erano rimasti coperti e inesplora-
ti». Pur mediando «una serie di problemi storico-sociali», su di essi «l’opera non esercita di fatto alcuna operazione di scoperta»; «prodotto medio», «di consumo»,
dà «l'esempio di uno scrivere equilibrato e dignitoso, che potrà anche essere portato ad esempio ai giovanetti». (C'è speranza che, per ogni decina di loro, due o tre producano a loro volta qualcosa come I/ Gattopardo ?) Occupa il terzo posto d’una casistica a quattro: «cultura d'avanguardia, cultura di massa, cultura media e Kitsch», esemplificate ciascuna da un brano descrittivo. Ma il pregiudizio speri-
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per non fallire «anche eroticamente» dopo il matrimonio; e i giorni di tentazione, a cui mette una tempestiva fine «il boato del campanone della chiesa»”, restano il ricordo migliore perché il desiderio si è «un attimo, sublimato in rinuncia, cioè in vero amore» (149-50, 156-57). Sotto il se-
gno più del duca santo, dopo tutto, che del marchese libertino.
La villa in rovina del 1860 è ridiventata, nel 1910, «la
ricca villa Falconeri, con la “bougainvillea” fiorita che si spandeva oltre il muro del giardino splendidamente curato» (235, 243). Tancredi, morto nel frattempo, ha avuto dunque ragione; lui che parlava, per lettera, d’un «apporto di sangue nuovo» da famiglie come i Sedàra «ai vecchi casati», dell’«azione di livellamento dei ceti che era uno degli scopi mentalista sbanda già nel riempire il primo posto. Chi, conoscendo seriamente la Ricerca, scriverebbe che «Proust rinuncia a puntare tutto [sic] sulla descrizione di Albertine» - quando Albertine, nel più straordinario gruppo di personaggi individuati della narrativa moderna, è proprio l’unico non-personaggio, la non-individuabile, l’inconoscibile, a maggior ragione l’indescrivibile? (un solo confronto, la prima apparizione di Saint-Loup: Proust, A/la ricerca, I cit., pp. 883-84 [À la recherche cit., II, pp. 88-89]). Il brano dal Gattopardo è, chissà perché, il solo a subire un pastiche postmoderno, coi nomi sostituiti da quelli delle Tigri di Monpracera; arbitrio decontestualizzante meno grave dell’imputazione d’un «effetto di appetibilità» sensuale, che nel contesto narrativo quasi non conta. Conta una sorpresa che mobilita di colpo la concorrenza di classe, metamorfosando «la tredicenne poco curata e bruttina», di bruttissimo padre fuori portata sociale, in una concorrente più che pericolosa per l’endogamia nobiliare. Eco taglia l’ultima frase del paragrafo, che ne sancisce il senso, «Molti mesi dopo soltanto...»; si appunta sulla convenzionalità di pochi accenni metaforici, come se non sapesse che in letteratura esistono f6poi da non misurare sul metro dell’inventività, e che su questo ci sono studi illustri in cui i Guido Da Verona coabitano coi massimi scrittori. Sceglie ottimamente, invece, i due esempi “bassi”. Si comporta insomma come un intelligentissimo sociologo che, per parlare della cultura di massa, sia costretto a tirare in ballo l’alta letteratura con Lampedusa e addirittura con Proust, benché in fondo non gl’interessi, non se ne intenda. 2 La variante della prima stesura, meno significativa, disperde il gran senso d’isolamento. Anziché «già la donna [...], già il maschio [...], quando il boato...», prosegue: «quando nel corridoio contiguo passò Cavriaghi che zufolava senza pensare a nulla», e chiude in conseguenza (MM, p. 278).
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dell’attuale movimento politico in Italia» (98, 99)??. Lui che, prima ancora dello sbarco di Garibaldi, diceva allo zio: «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?» (41, 39). Dopo la (purtroppo famo-
sa) frase centrale, l’apparentemente colloquiale e pleonastico mi sono spiegato? andrebbe preso alla lettera quale interrogazione di lunga e simbolica portata. Benché l’astuzia compromissoria facesse parte, come ho ricordato nella premessa ($ 4), delle locali tradizioni di classe, Don Fabrizio non
comprende subito. Una pagina oltre, e nell’attraversare la sua casa: «Scendendo le scale, capî. [...] Tancredi era un grand’uomo: lo aveva sempre pensato» (42, 40). Due o tre pagine, e quando leggiamo: «Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo», se le è appena riformulate da sé: «dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato» (44, 43)?*. Il soprastante Russo dal canto suo, salvo l'avanzamento degli «uomini onesti e abili», gli assicura: «Il resto sarà come prima»;
e ormai «le parole enigmatiche di Tancredi», con quelle d’altri, «avevano ceduto il loro rassicurante segreto» (46, 45). Il padre adirato contro il poco lungimirante primogenito può rinfacciargli, enigmaticamente a sua volta, la promessa di quelle parole (54): a tal punto le ha già fatte proprie. Tre mesi dopo se le traduce in programma, «un contrattacco che la ? Angelica, ancora compiaciuta, trova come celebrare platealmente il successo del disegno, inserendo nel cinquantenario dei Mille un Fabrizio che dev'essere Fabrizietto cresciuto: «lo vedremo sfilare in palamidone per via Libertà davanti a un bel cartello con tanto di “Salina” a lettere di scatola. Non ti sembra un bel colpo? Un Salina renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e della nuova Sicilia» (238, 247). Cfr. RECUPERO, La Sicilia all'opposizione cit., p. 42: «È stato rilevato che il dato nuovo nella storia politica siciliana del 1860 - il suo paradosso - consiste nella conversione conservatrice dei gruppi moderati alle idee unitarie» (l’anno prima, «avvisaglie dell’orientamento unitario, in quanto filopiemontese, che va diffondendosi nei circoli moderati», p. 58). # Sulla non identità e nemmeno equivalenza delle due formulazioni, pratica quella del nipote, speculativa quella dello zio, ha insistito con minuziosa analisi linguistica LA FAUCI, Analisi e interpretazioni cit., pp. 1159-65, 1180-82 e passim. Farei qualche riserva su un eccesso di contrapposizione fra i due personaggi, negativo l’uno e positivo l’altro, in un ordine di valori ancor più morale che intellettuale.
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nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuo-
vo ordine politico» (74, 75); con meno ambizioni, le rimugina ancora cinque mesi dopo, e dopo il plebiscito: «non era forse una buona tattica quella d’inserirsi nel movimento nuovo e farlo volgere, almeno in parte, a favore di alcuni individui della sua classe?» (114, 117). Se la veridicità della frase, come programma almeno in parte attuato, troverebbe conferma in una trattazione storica, non è una trattazione storica I/ Gattopardo. La dice un personaggio in cui entriamo poco, a un altro di cui abitiamo l’interiorità; ben lungi dal chiudere l’avvenire incerto del racconto immaginario, la frase lo apre sia per Don Fabrizio che per il lettore quale maggiore susperse narrativa. Difficilmente il lettore si porrà subito il problema se i due personaggi la intendano all’identico modo - se davvero Tancredi si sia spiegato. Vivrà però insieme al protagonista, di pagina in pagi-
na, un altro interrogativo che provvisoriamente prescinde dal primo, e al quale la mutevole risposta appare più urgente e cogente: se come previsione la frase sia giusta o sbagliata. Prima che sia stata pronunciata, Don Fabrizio apprende distrattamente che la situazione politica «era molto pit tesa di quanto non apparisse nella calma distaccata di villa Salina» (38, 36); è stata già pronunciata quando Russo gli garantisce che «villa Salina sarà sicura come una rocca», «tranquilla come una badia» (45; 47, 46). Si deve ad essa se accoglie con tanta indifferenza il bollettino borbonico, facendo scomparire il biglietto del cognato in tasca e il giornale in un cassetto, divertendosi che nell’affresco rassomigli a Garibaldi il dio dal notorio infortunio coniugale, Vulcano: «Sorrise. “Un cornuto” » (54-55, 55-56). In agosto, sapremo che è stato confermato «nella esattezza delle proprie previsioni», finché era a Palermo. Vicino alla villa «non si era udita neppure una schioppettata»; i Piemontesi si sono presentati, in mancanza di cappello, «con la mano alla visiera» dei berretti; l'espulsione del gesuita di famiglia è stata evitata, e lo spostamento per l’abituale villeggiatura consentito (62-64, 61-63).
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Ma proprio dal feudo comincia l’ansia della verifica, l’avvicendarsi di rassicurazioni e premonizioni. Filo di monologo interiore indiretto o diretto, dubbio e ottimismo dapprima: «chissà se dopo i recenti fatti la gente sarebbe stata devota come prima. “Si vedrà”»; « “Grazie a Dio, mi sembra
che tutto sia come al solito” »; « “Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima, anzi” » (65-66, 64-65). Ben presto, al contrario: «non era vero che nulla era mutato; don
Calogero ricco quanto lui! » (70-71, 70). Quel che è peggio, senza aspettare questa notizia, il soggetto non sa nascondere di non essere immune dal fenomeno che è proteso a indagare in altri. «Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato molto mutato lui», per l’inusitata cordialità; «e da quel momento, invisibile, cominciò il de-
clino del suo prestigio» (68). I suoi disagi nell’affrontare l’antagonista Sedàra non possono dirsi tuttavia drammatizzati, e ciò grazie a un largo uso del filtro umoristico: da quel frack che è «la Rivoluzione stessa» ed è una catastrofe sartoriale (78-79, 79-80), fino al concludersi della trattativa. Il protagonista ne fa le spese attraverso una serie di momenti che
‘avrei potuto contrapporre, nel primo capitolo ($ 5), a quelli in cui il suo esercizio d’autorità appariva ostacolato dall’interno. Gli ostacoli esterni in cui urta però, se anche su scala istantanea ed infima, sono di origine cosi esclusivamente storica che ricadono qui. Parlando d’orgoglio in lui, non avevo citato: «il colpo inferto al suo orgoglio dal frack del padre si ripeteva adesso nell’aspetto della figlia» (80, 81-82). Giunto Garibaldi a Palermo, gli è smentito «l’orgoglio di esser stato il solo ad aver compreso la situazione» (62, 60)”; al-
trove manca «la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori», prova l’«umiliazione sociale» di ritrovarsi accusato invece che lieto messaggero, il dispetto «di chi si sia ?° Non si sbaglia, invece, quando si tratta della sensazione che diventerà morte: «si era inorgoglito di esser quasi solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso» (216, 224).
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illuso» di controllare vicende che ignora (119-20, 123-24): umiliazione e dispetto accompagnano l’obbligo stesso della conversazione col sindaco (99, 100; 112, 115). Più angoscia trapela in metafora: i crucci come «truppe ammutinate», «lo sgomento di un colonnello» che ha intimato loro di sciogliersi e «vede il reggimento più serrato e minaccioso che mai» (95). La speranza del compromesso, nello spirito di Tancredi, mostra periodicamente di resistere in Don Fabrizio. Dagli eventi d’ottobre, «gl’interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati» escono «ammaccati ma ancora vitali» (109, 111); all’erbuario curioso della sua opinione il gesuita la riassume cosf, «che non c’è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima» (180, 189); e anche in fondo al cuore di Ponteleone, merito di Pallavicino è aver «salvato il
compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose» (194-95, 203). Ma in onta alle valutazioni ra-
gionate, parla linguaggi più istintivi o più impersonali il presagio, non più o non tanto che il compromesso fallisca, quanto che non abbia il valore sperato. Tumeo ha un bel desiderare che la terra gli si apra sotto i piedi, quello che ha appena detto ha detto: «è una resa senza condizioni. E la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!» (117, 121). Nel ballo, «le duecento persone» dell’alto ceto si sono incontrate, instancabilmente, «per congratularsi di esistere ancora» (191-92, 199-200); al suo finire, lo squallore di tardo disfacimento raggiunge un’intensità simbolica: facce livide o gialle e rugose, abiti sgualciti e cravatte in disordine, aliti pesanti e salive amare, pitali sciabordanti, luce «di mal augurio» dei mozziconi di candele e luce «plebea» dell’alba intorno alle impo-
ste (210, 221)”. La presa d’atto della verità è definitiva, e 2% Nella parte sesta, è l’antonomasia dell’animale araldico a patire metaforici fastidi sociali: «una delle spinucce» inserite «nelle delicate zampe del Gattopardo» (192, 200); «Una nuova pagliuzza infastidi le unghiette sensibili del Gattopardo» (194, 202).
2? «Il ballo appassisce», dice l'indice analitico “scritto”, in senso forte, dall’autore (250, UE Feltrinelli; inspiegabilmente, nel «Meridiano» Mondadori questo
importante annesso del testo manca).
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catartica in quanto fa giustizia di equivoci e illusioni, venendo nell’ora della morte: «Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui [...]. Aveva avuto torto.
L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano ave-
va dopo tutto vinto». Il morente è lucido nel sapere il perché: «il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali» — in un senso del nome e della ricchez-
za che non sia «vuota pompa», che non sia assillato da concorrenza né finalizzato a consumo
(221, 230). Era cosî
delicato ed austero il sottinteso conservatore di Tancredi? Visto da Sedàra, questi è «arido quanto lui, capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avve-
nenze e sostanze altrui» (130, 133). Mentre Don Fabrizio vagheggia, nelle stelle, «quelle che non barattano» (85, 87)?*: da nobile ancor più che da intellettuale. Questa peripezia conoscitiva principalmente narra I/ Gattopardo; è l’attesa della soluzione di essa a spingerci avanti leggendolo, in penuria di trama. Ma se Garibaldi ha vinto, allora il 1860 non era
«una rumorosa, romantica commedia
«con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca» (46, 45). Era, per la Sicilia, la tappa principale del ricambio di classe dominante che fra Sette e Ottocento, in tutta Euro-
pa, vide l’aristocrazia sostituita dalla borghesia”. Vuoldire forse che l’anno come la regione, il 1860 come la Sicilia, è investito nel romanzo da un processo d’inconsapevole estensione come avevo sostenuto nel secondo capitolo ($ 3)? Lo si ricorderà; la trasposizione d’una realtà particolare e tipica in categoria generale, virtualmente inclusiva di tutte le realtà particolari analoghe. In questo caso, quindi, di anni ?* L’accostamento fra i due passi è in LUPERINI, I/ «gran signore» cit., p. 141. ?° Nell’ottica di Don Fabrizio, che non ha visto il 1793 né ancora, in quell’anno, il 1871 neppure da lontano, si direbbe che il conflitto fra le due classi possa essere reso terribile solo dall’insorgenza di una terza, il proletariato: «anche in Francia, d’altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio ?». Di conseguenza, a freno della «furia francese» anche se in deroga alla legittimità, può venire idealizzato una pagina dopo il Secondo Impero (4647, 45-47; il corsivo è mio).
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come il 1789 o il 1848, o altri meno clamorosi per altrettanti singoli paesi - i vari momenti cruciali della svolta europea in questione. Una tale estensione, è l’occasione per dirlo, va-
le sicuramente per la specificità di ciò che viene abolito o trasferito, il privilegio: se è vero (come accennavo nella premessa, $ 5) che la decadenza di classe è tema letterario per eccellenza dell’età borghese. Nella minacciata perdita del privilegio dei privilegi, quello feudale, vissuta com'è dall’interno, non so a quali lettori anche piccolissimo-borghesi o proletari la lettura del romanzo non consenta un’identificazione’. Ma il 1860, in Sicilia, non potrebbe crescere di portata nel senso indicato senza fare i conti con la portata della Sicilia in quanto periferia. La rappresentazione dell’anno è vincolata, da referenti storici perentori, a una particolarità che può farsi universale solo a patto di non entrare in contraddizione con l’universalità assunta dalla regione rappresentata. In parole più concrete: dove il trapasso sociale è fallimentare, sia perché timido, furbo, parziale, sia per l’inade-
guatezza della classe ascendente e di quella esautorata, non può venir promosso ad altra categoria che quella dei trapassi sociali fallimentari. Ci troviamo, purtroppo, in periferia. In questo senso anche il 1860 del Gattopardo, se si vuole,
conta per /a rivoluzione mancata, restando come di regola una rivoluzione mancata individuatissima. «Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano a capo di quella giovane armata che aveva varcato il ponte di Lodi...»?: è il folgorante inizio di uno dei due roman3° È stato sottolineato (cfr. note 26 e 28 alla premessa) il rapporto apparentemente paradossale fra apologia di classe nel romanzo e successo popolare: «Ila sprezzante definizione di Contini, “un Proust popolarizzato”, è al tempo stesso la garanzia del suo successo» (LANZA TOMASI, «I/ Gattopardo»: un romanzo quale soluzione cit., p. 14). È come se mettesse intelligentemente a fuoco i pregiudizi di Contini e della neoavanguardia anche sPINAZZOLA, La stanchezza cit., p. 197: «Il modello di comportamento indicato dal romanzo è di indole aristocraticistica: ma la prosa forbita del narratore lo atteggia in modi cosf brillantemente divulgativi da predisporlo a una ricezione di massa». 31 STENDHAL, La Certosa di Parma, Einaudi, Torino 1976, p. 5 [Romans et nouvelles, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1952, t. II, p. 25)).
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zi prediletti da Lampedusa, La Certosa di Parma. L'altro era Il circolo Pickwick, di entrambi ho parlato nel primo capitolo ($$ 3, 4) a motivo di procedimenti narrativi, e abbiamo
sfiorato le ragioni per cui la Certosa gli parve «il vertice di tutta la narrativa mondiale». Quando scriveva queste parole, era stesa la fine della parte prima del Gattopardo, col bollettino borbonico che dice: « Appena quei filibustieri ebbero preso terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe reali» (55). Il bollettino è autentico”; casuale quindi, non certo la scelta di citarlo da parte di Lampedusa, ma il punto di contatto letterale con quell’inizio di Stendhal: nei francesi in arrivo i milanesi vedevano, secondo quanto ripeteva
loro un giornaletto austriacante, «un’accozzaglia di briganti avvezzi a fuggire sempre davanti alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale». Ciò che di ben diverso avviene, sembra avvenga in un solo giorno: «Il 15 maggio 1796 tutto un
popolo ebbe ad accorgersi che quello che aveva sin allora rispettato era estremamente ridicolo e qualche volta odioso». Mentre l’Enciclopedia e Voltaire accendevano la Francia, a Milano i frati avevano predicato «che imparare a leggere o altro al mondo era un’inutilissima fatica», bastando piccole obbedienze per esser press’a poco certi del paradiso; basta, invece, rovesciare le statue dei despoti, «per trovarsi di colpo inondati di luce». Nel sogno d’un immediato tradursi della liberazione politica in affrancamento d’idee, gaiezza, gioventù, passione ed eroismo, è l’incanto immortale delle prime pagine della Certosa. Lampedusa le adorava tanto più quanto meno verosimile era ormai quel sogno, per un uomo
nato più d’un secolo dopo Stendhal; del resto, provvede a disilluderci il seguito del romanzo - facendo intravedere la ? MM, p. 1824, e cfr. pp. 1811-18. ” Era riportato in un classico della storiografia come R. DE CESARE, La fine di un regno, Longanesi, Milano 1969, p. 756 (terza edizione 1909): dal quale Lampedusa, con modifiche di grafia e abbreviazione finale, potrebbe averlo ripreso. 6; STENDHAL, La Certosa cit., pp. 5-6: modifico appena la traduzione nella penultima frase citata [Rorzars cit., pp. 25-26].
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giornata finale del venticinquennio rivoluzionario, Waterloo, e poi non mettendo più in scena che Restaurazione. Pure, Milano e Parma non sono la Sicilia. Il 15 maggio della Certosa è un po’ il contrario del 13 maggio del Gattopardo: l’uno, politicamente precario, getta semi progressivi duraturi; l’altro, con risultati politici stabili, agita speranze di progresso frodolente”. A Napoleone, all’imperatore parvenz idolo dei giovani protagonisti di Stendhal, chi può venire due volte avvicinato in periferia? La piazza di Donnafugata ha facciate barocche da antico regime, ma la casa di Sedàra è fra quelle che «si ammantavano dietro pudiche facciatine Impero» (88,
91). Con congruenza meno velata e più caricaturale, l’associazione d’idee di Don Fabrizio fa corrispondere se stesso ai generali austriaci che nei quadri si arrendono, Sedàra al vincitore: l’ineleganza del cui «cappottino grigio» quadra, subito dopo, con l’inopportuno costume nero del sindaco (118, 122). Tutti i diminutivi enumerati nel secondo capito-
lo ($ 4) non capovolgono le opinioni di Lampedusa quanto lo fa, da solo, questo rimpicciolimento siciliano di colui che
mise in fermento l’Europa e che in Sicilia non arrivò mai. Sf, don Calogero è di «rara intelligenza» (129, 132); se non fa a tempo a imparare personalmente le buone maniere, c’è tempo per i suoi discendenti. La voce d’autore usa come d’una doppia verità, tra il feudalista lirico che contempla «molti secoli di esistenza» della ricchezza (42-43, 41), e il moralista realistico a cui è noto «quel costante raffinarsi d’una classe che nel corso di tre generazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi» (131, 134-35)”. Il guaio è altrove: Il voler vedere solo somiglianze, prescindendo da queste differenze di fondo, limita l'interesse del confronto intertestuale di J. MEYERS, The Influence of «La
Chartreuse de Parme» on «Il Gattopardo», in «Italica», settembre 1967, pp. 314-25. # Cfr. nota 16 al secondo capitolo. # Sedàra passa da un frack impossibile, con «stivaletti abbottonati», ad uno che «è come può essere»; da una rasatura che rende urgente il regalo di «un paio di rasoi inglesi», ad una perfetta che unita alla «decenza degli scarpini» è «già qualche cosa» (79, 80; 118, 122; 121, 126; 193, 201), ecc. Angelica, da ciò che le è sta-
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ancor prima in un’assoluta carenza di moventi ideali, che nella stessa mancanza di scrupoli del presumibile committente d’assassinio mafioso (115, 118)?*. Oggi che illuminismo, progresso e rivoluzioni hanno cattiva stampa, si potrebbe dubitare se l’ombra grandiosa di Napoleone denunci l’ignobilità di Sedàra, o sia questa a demistificare, su fino a Napoleone,
gli immancabili nessi fra crimine e potere. Chi vuole provi ad attualizzare a buon mercato la negatività ideologica del Gattopardo; il fatto è comunque che esso finisce male, per cosî dire, due volte in una. Una prima volta, perché la classe del protagonista perde.
Ma una volta in più perché essa non trova, come avvenne ad altre latitudini, ricambio valevole: «dopo sarà diverso, ma
peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene» (168, 178). Più spietatamente imparziali di Don Fabrizio, le lettere dell’autore; il romanzo mostra «il progressivo disfacimento dell’aristocrazia», ma d’altra parte: «Tutti ne escono male: il Principe e il suo intraprendente nipote, i borbonici e i liberali, e soprattutto la Sicilia del 1860»?. Davvero nemmeno un angolino della vasta rappresentazione era da riservare a un terzo stato più onesto, più istruito, meno rustico e cupido? Se
poniamo la domanda, prima che agli storici, al testo, abbiamo da prendere in considerazione giusto due medici, nell’urgenza mortale della parte settima. Si profila appena il medico consueto di Don Fabrizio, «incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro» (218, 227; 225,
234). Il medico chiamato in fretta, «il testimonio impotento insegnato in collegio a Firenze e che può ancora facilmente dimenticare (70; 80, 82; 82-83, 83-85), dalle istruzioni di contegno ricevute da Tancredi e applicate con zelo (196-97, 205-6; 204, 214), giunge con l’età a uno smaliziato punto d’evoluzione (239, 247-48). Un’altra ricchezza borghese, quella «grande e crescente» del senatore Tassoni, «conquistata attraverso competizioni e lotte», proprio per questo «anziché infiacchirlo lo aveva mantenuto in continuo stato energetico» (240, 248). ? Cfr. orLANDO, Ricordo di Lampedusa cit., p. 72. Don Fabrizio, che sa, si rende gravemente reo d’un cinismo non solo autodistruttivo: propone Sedàra, con giusto scandalo di Chevalley, per il Senato (165, 174). ? In vrreLo, Giuseppe Tomasi cit., p. 229.
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te di mille agonie miserabili», ci serba una sorpresa: condivide la qualifica che in un altro solo punto del testo ho avuto da sottolineare, ha «un volto disilluso d’intellettuale fame-
lico». Nel paragrafo della sua breve e inutile apparizione, s’insiste su un’indigenza non ignorante né insensibile; è come se una prospettiva di pietà, da parte del malato, lo ripagasse del’ suo sorriso «che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà». « Anche lui era una povera otre sdrucita [...] che spandeva senza saperlo le ultime gocce d’olio» (218-19, 227; cfr. 135, 139): un ennesimo, degradato doppio di Don Fabrizio - e per ciò stesso un’eccezione. A parte il clero, non s'incontra nessun altro professionista nelle otto parti situate quattro in città e quattro in campagna; niente alta borghesia, niente borghesia colta, niente borghesia cittadina. Se ci volgiamo agli storici, apprendiamo che, su tempi lunghi anteriori, la classe baronale in Sicilia non fu «controbilanciata da una classe media» con la funzione moderna svolta altrove; che le città coi loro avvocati e legisti feudali mancarono d’una vita specifica, derivandone «un aspetto oppressivo d’ammassamenti di popolazione torpida e oziosa, intellettualmente ed economicamente»; che gl’intellettuali si reclutarono in gran parte fra aristocrazia e clero o ne furono protetti e sostentati‘. Un altro storico ci dice che il terzo stato isolano, «debole di consistenza e timido nelle aspirazioni», fu subalterno al baronaggio e alieno dal concorso popolare nelle rivendicazioni nazionali‘. Lampedusa sapeva bene, tacendo d’una alternativa europea, di dire la verità*. 4° Cfr. RoMEO, I/ Risorgimento in Sicilia cit., pp. 12, 32, 36-37. 4! Cfr. RENDA, Storia della Sicilia, I cit., p. 32. 4 La sua selezione degli eventi pubblici meriterebbe studio da parte di qualcuno storicamente competente. Chi indovinerebbe dal romanzo che la conquista garibaldina di Palermo durò tre sanguinosi giorni? Come si era comportato Don Fabrizio (0 suo padre), tra la costituzione d’un governo provvisorio siciliano nel 1848 e la riconquista borbonica di Palermo nel 1849 ? Suppongo che il dare spazio ai precedenti separatisti, all'opposizione Palermo-Napoli, ne avrebbe tolto alla mediazione moderata fra un legittimismo e una rivoluzione fronte a fronte. Le complicazioni della situazione regionale pit specifica sono state semplificate in una situazione più generalizzabile: qui, forse, si coglie concretamente al lavoro il processo di estensione da realtà particolari a categorie, da me teorizzato sul prodotto finito.
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Oggi che disponiamo per intero delle lezioni, risvolto del Gattopardo, chiunque può andare a vedere se la storia moderna esisteva e contava più di tutto per lui: come avevo detto, nel secondo capitolo ($ 3), dopo aver attribuito piuttosto al suo personaggio l’idea d’una Sicilia resistente alla storia. Le sue simpatie ammirative sono tributate a ciascuno dei grandi momenti di rivolta da cui passò l'avvento borghese quindi, mediatamente, il tramonto nobiliare. La geniale, gau-
dente irresponsabilità degli elisabettiani, a dispetto d’una preferenza assoluta per Shakespeare, gl’ispira pagine meno rigorose di quelle sui puritani e su Milton: la cui responsabilità etica, tremenda e perfino gretta, «è ancora la spina dorsale dell’Inghilterra; e forse dell’Europa»*. (Ma nel Gattopardo si venerano ancora reliquie, superstizione su cui già infieriva la razionale austerità di Calvino). Nel giansenismo,
lo entusiasma l’umile e temerario compromesso fra sottomissione conventuale e libertà di coscienza ribelle, l’«atto altamente rivoluzionario» osato da «ubbidientissime, reve-
rentissime figliole della Chiesa»*. (Ma nel Gattopardo c’è il gesuita, e di quelli messi alla gogna da Pascal gli sentii dire, se mi è permesso un ricordo inedito: «Erano ignobili»). Quanto alla rivoluzione francese, non fosse la perdita dei versi che Chénier avrebbe scritto senza la ghigliottina, «è degna di ogni ammirazione; possiamo perdonarle tutto: gli assassinii, i massacri, le idiozie per il merito del bene fatto e della sovrumana energia spiegata». Spariva cosî, con la sua più vistosa motivazione, il mito anteriore al 1848 di «una indomita capacità rivoluzionaria» della Sicilia, «la terra dove pi facilmente poteva attecchire la rivolta», «ribelle e pericolosa» (RECUPERO, La Sicilia all’opposizione cit., pp. 41, 57, 83). L'episodio di Aspromonte, conferma di quel mito come occasione massima di rischio sovversivo e di durezza repressiva (ibid., p. 74), è messo in rilievo però ironicamente sdrammatizzato. Rientrava, infine, nei decenni non
raccontati la rivolta palermitana del 1866, in cui si confusero spinte di esasperazione popolare, di restaurazione borbonica e di opposizione mazziniana (RENDA, Storia della Sicilia, I cit., pp. 208-12; e cfr. RECUPERO, La Sicilia all'opposizione cit., pp. 80-81).
MM, p. 750; cfr. pp. 745-50 e, per Milton, 755-56 (751-63).
“ MM, p. 1533 (pp. 1529-36).
4 MM, p. 1757 (e cfr. pp. 1758-61: La Rivoluzione e la letteratura). Oltre al modello inglese “riformista” e a quello francese “rivoluzionario”, i ricordi di Lan-
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Si vorrà capire come convivono, nel Gattopardo, i due
rimpianti: quello, da ammettere ormai, per la borghesia, e quello per l’aristocrazia. L’uno attestato fuori del romanzo dalle lezioni inglesi e francesi, l’altro dai Ricordi d’infanzia; l’uno volto a un ricambio e a un progresso mancato, l’altro ripiegato sulla perdita e la regressione nostalgica; l’uno improntato a coscienza civile internazionale, l’altro a tradizioni regionali appartate. Facile limitarsi a dire che il primo rimpianto è razionale e superficiale, il secondo irrazionale e profondo; che il primo ha più dell’ideologia, il secondo (in termini da me usati altre volte) più del ritorno di un represso*. E meglio aderente alle cose testuali il rilevare che entrambi non si manifestano senza cospicue reticenze, rendendo l’opera fedele all’«implicito» in questo senso‘, ma che za Tomasi ci mostrano Lampedusa sensibile a quello tradizionalista della terza grande monarchia occidentale, la Spagna (come al rimpianto per una Germania rurale di villaggi e castelli): cioè, portato «ad una ammirazione sconfinata per una commedia minore di Lope [de Vega] quale E/ vi/lano en su rincòn [Il contadino nel suo ritiro)» (ibid., p. 1341). Juan Labrador protagonista della commedia, che risiede a due leghe dalla corte, professa obbedienza e amore al suo re senza averlo visto mai, e non vuole vederlo nemmeno quando passa presso il suo podere. Informato, il re visita in incognito il contadino, finisce col chiamarlo a corte e nobilitarlo. Non sarà parso a Lampedusa il mito d’una fierezza che, addicendosi anche ai ranghi meno alti d’una gerarchia, avrebbe sola potuto giustificarla e mantenerla? una negazione potenziale dello snobismo stesso, al di qua dell’arrivismo competitivo ?Se Napoleone è il sublimato modello di Sedàra, Juan Labrador è veramente un suo contrario, e perfino un contrario di Tumeo. 4 Nota destinata a un’infima percentuale di possibili lettori: quelli al corren-
te della tipologia teorizzata in ORLANDO, Per una teoria freudiana cit., pp. 78-87. Una tipologia del «ritorno del represso», morale-comportamentale, nei contenuti della letteratura; concepita come serie di possibilità che vada da un minimo di «represso» sotto un massimo di «repressione», a un minimo di «repressione» sopra un massimo di «represso». Quest’ultimo, nella diversità dei testi, si proporrà gradualmente
come: «non conscio»;
«conscio ma non accettato»; «accettato ma non propugna-
to»; «propugnato ma non autorizzato»; «autorizzato (ma non da tutti i codici)».
L’ipotesi adatta al Gattopardo pare la terza e centrale della graduatoria, la più neutrale o meno conflittuale nei suoi due elementi contraddittori. Il rimpianto del privilegio e dei valori connessi, per il lettore, non può che essere infatti qualcosa di accettato («sotto pena di non comprendere il romanzo o non trarne piacere»); 724 altresi qualcosa di nor propugnato, nel senso che risulta impossibile elevarlo a ideale politico. Tale impossibilità, di ordine virtualmente ideologico, è il momento di repressione che controbilancia il rimpianto di ordine affettivo, e ne fa un momento di ritorno del represso. In questo senso parlavo, qualche pagina più sopra, di «negatività ideologica» del Gattopardo. 4 Cfr. nota 36 al secondo capitolo.
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i rapporti fra il non-detto e il detto sono inversamente orientati nei due casi. Nel caso del rimpianto di progresso, tocca al suo oggetto positivo soccombere al silenzio, restare confinato all’estero e diminuito dalla distanza; mentre l’alterna-
tiva in negativo ingombra ed inquina tutto il terreno. Al contrario, in un romanzo che è il solo mai scritto con punto di vista aristocratico interno, che è romanzo storico moderno
del sottogenere di memoria personale, la restituzione del tempo perduto appaga positivamente il rimpianto evocatore. Mentre per eludere il negativo del declino di classe preannunciato, o per ridurlo al minimo non eludibile, una strut-
tura per metà compatta e per metà saltuaria impone al racconto come ho detto più volte le sue ellissi**. Il progetto di racconto in ventiquattr'ore doveva essere indissolubile dall’idea di presentare da vicino una crisi, lontanamente pubblica, privata di riflesso: come non era in Joyce. Benché tale corta durata critica si sia ristretta dal tutto alla parte (e si sia trasmessa da una parte sola a quasi tutte le 4 Ho dovuto ripetere, lungo l’ordine paradigmatico dell’analisi, un’osservazione che verte sull’ordine sintagmatico del testo. La sfasatura fra i due ordini è il prezzo d’una scelta di metodo, e non ho potuto metterci rimedio se non munendo il libro di un Indice dei passi citati. Qui, non posso che rinviare a numeri di pagine: dalla premessa, p. 22, l'osservazione torna nel primo capitolo, pp. 51, 52,.61, 68,
nel secondo, pp. 105, 108-9, e nel terzo, pp. 133-34. La struttura in questione non è stata finora intesa in quello che mi pare il suo senso vero, né quindi abbastanza riconosciuta come aspetto della modernità del romanzo. E ciò fin dal suo apparire: non ha visto chiaro come altrove MONTALE, I/ secondo mestiere cit., p. 2174, parlando della «singolarità di un’architettura che gli americani direbbero ginger bread, bislacca»; di «questo Gattopardo a cui si potrebbero togliere o aggiungere alcune scene» (e cfr. già pp. 2170-71). Nella inintelligente stroncatura di E. FALQUI, Novecento letterario, Vallecchi, Firenze 1961 [recensioni del 1959], pp. 566-67, si parla di «sbalzi e fratture a tutto danno della continuità storica», di personaggi «che ritroviamo morti o decrepiti da un capitolo all’altro»: «le lasciamo ragazze e le ritroviamo settantenni», «dai quarant'anni [...] capitombola fino alla settantina». Sembrano le rimostranze classiciste di Boileau contro l’antiaristotelico teatro spagnolo, dove un eroe bambino nel primo atto, è vegliardo nell'ultimo (Arte poetica, canto III); e Proust, allora ?e Gli anni della Woolf? Non risolvono il problema delle due metà del romanzo, ma si leggono con interesse, le osservazioni di s. SALVESTRONI, La struttura e lo stile del «Gattopardo», in «Filologia e letteratura», XVII (1971), pp. 209-19; cosî pure si concentra sulla parte prima (e la quinta), con puntualità dimostrativa tranne qualche forzatura, r. H. LANSING, The Structure of Meaning in Lampedusa's «Il Gattopardo», in «Publications of the Modern Language Association», maggio 1978, pp. 409-22.
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altre), la scelta di essa è una vera e propria formazione di
compromesso in senso freudiano”°. Tra il desiderio di dar espressione all’integrità anteriore del privilegio, e la necessità di dar espressione al trauma che la interrompe. Non devo scusarmi per la lunghezza d’una straordinaria citazione, se adesso lascio la parola a Lampedusa. A un Lampedusa che stendeva le sue lezioni qui presumibilmente prima, però subito prima, d’intraprendere I/ Gattopardo:
Sarebbe superfluo ricordare che a me, personalmente, interesserebbe di più lo studio della storia politica di quello della storia letteraria. E se avessi la minima competenza e quindi la possibilità di occuparmi di storia politica, quel che più mi attrarrebbe sarebbe lo studio delle crisi, anzi, ho detto male, lo studio dell’irizio delle crisi, la considerazione di quell’impercettibile abbassamento del barometro, di quella minuscola nuvoletta all’orizzonte, di quella bava di vento fiacca e (apparentemente) trascurabile che è poi la prima pattuglia di punta del ciclone che si scatenerà. Momenti appassionanti da rivivere, questi, nei quali tutto il mondo ignora ciò che lo aspetta mentre un occhio acuto conosce di già ciò che infallibilmente succederà, momenti di crudele rapimento nei quali l’uomo che sa può davvero credersi uguale a un dio e sa di conoscere il futuro non mediante un volo della fantasia ma mediante una esatta cognizione delle cause e delle correlazioni di conseguenze che ne deriveranno. Nell’androne del teatro d’opera di Messina è ancora appeso un cartellone teatrale il quale pomposamente annuncia, con la sicumera racchiusa nei caratteri di scatola, che «Domani 28 dicembre 1908 sarà rappresentata l’Aida, opera in quattro atti di Tizio Ghislanzoni - musica di Giuseppe Verdi» ecc., ecc. E chi legga quell’avviso, se sarà dotato di sufficiente malignità e della facoltà di incarnarsi per un attimo in un passante di cinquant’anni fa, non potrà non sentire in se stesso, per mezzo secondo, l’empito dell’onniveggenza, perché lui sa, ed è il solo a saperlo, che la sera
4 Cfr. nota 43 al secondo capitolo. 5° Avevo già usato l’espressione (a p. 69). Si può affermare che, per «formazione di compromesso», Freud intenda una manifestazione di linguaggio «che fa posto da sola, simultaneamente, a due forze psichiche in contrasto diventate significati in contrasto» (ORLANDO, Per una teoria freudiana cit., p. 211). Il concetto, aperto a ogni sorta di significati in contrasto, è secondo me lo strumento più pre-
zioso che lo studioso di letteratura possa attingere da Freud: indispensabile a ogni analisi che si avvolga su più di due dimensioni. Ma per accreditarlo negli studi letterari italiani, finora, mi sono adoperato senza successo.
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del 28 dicembre 1908 non solo non si rappresenterà l’Aida (guaio minimo) ma non esisterà più il teatro e neppure la totalità della città di Messina.
Un vecchio diplomatico mi ha narrato la sensazione angosciosa da lui provata una sera alla fine del luglio 1914 mentre, uscendo dal Ministero degli Esteri e recatosi in un caffè, vedeva la gente ridere e far progetti per le vacanze e invece lui sapeva (ed era il solo in quella folla a saperlo) che l’ultimatum austriaco alla Serbia era già stato consegnato e quell’anno non vi sarebbero state vacanze e le risate presto sarebbero infallibilmente ammutolite nell’angoscia”.
Storia politica dunque — prima che diventi letteratura”; ma storia di catastrofi: ciclone, terremoto, guerra mondiale.
Catastrofi e fallimento sono imparentati; e una storicità catastrofica e fallimentare è il pretesto dell’accusa di antistoricismo, a me da sempre incomprensibile, rivolta al Gattopardo. Incomprensibile perché non riconosco altra storicità di rappresentazioni letterarie, se non quella approfondita da Auerbach nel miglior libro che mai ne abbia parlato: «I caratteri, i comportamenti, le condizioni dei personaggi sono dunque strettamente legati alla situazione storica»; in nessun’opera precedente (a Stendhal), «le condizioni politiche e sociali del tempo sono conteste con l’azione in modo cosi preciso e reale»?. Dove sta scritto che progresso, giustizia, speranza e operosità debbano far parte della rappresentazione? Siamo lontani dagli equivoci sommari sulla frase di Tancredi” nel recente articolo di Romano Luperini, che in 7 MM, pp. 1126-27. Come sempre, niente segnala una tale pagina sotto il neutro titolo: I tardi vittoriani: il romanzo tardo-vittoriano. ? A proposito di Balzac, in una lettera alla moglie del 1950: «Quel talent, nom d’un chien! Et non seulement talent de romancier mais aussi de grand historien. Quels jugements pénétrants et détachés sur les classes sociales et leurs métamzorphoses [...]! [Che talento, porco cane! E non solo talento di romanziere ma anche di grande storico. Che giudizi penetranti e distaccati sulle classi sociali e le loro metamorfosi [...]!]»: CARDONA, Lettere a Licy cit., p. 86; il corsivo è mio. ? AUERBACH, Mimzesis cit., II, p. 224: modifico appena la traduzione nella prima delle due frasi citate. Nemmeno Auerbach poteva sfuggire al rimprovero di aver «compiuto una indagine sul realismo europeo senza credere, in fondo, nella realtà» (recensione di C. Cases, citata in F. FORTINI, Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 185); in quale so/a realtà avrebbe dovuto credere sto per dirlo. % Non tenterò una storia del pregiudizio immobilistico. Nello scritto di For-
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nota ho molto messo a profitto: degno di riabilitare I/ Gattopardo di fronte alla sinistra italiana, e questa sul banco di prova del Gattopardo. Eppure ancora vi si parla di «dissociazione da qualsiasi idea produttiva o progressiva del tempo» ecc.”. Ora, pit il principe ha l’ossessione «che la storia proceda e produca qualche cambiamento», e a lui «il tempo della storia fa terrore», e ha «vocazione antistoricista»”, più
si conferma la vocazione opposta del narratore: sta creando un personaggio la cui concreta aspettativa è che la storia gli proceda contro, che il cambiamento si produca a suo danno. Se Luperini non pervenisse a conclusioni acute e quasi tutte condivisibili” (talmente è vero che il piano ideologico non è tini che fu all’origine una conferenza del 1959, già lo si trova allo stato perfetto: l’autore è «indifferente alle vicende storico-politiche»; il giudizio negativo sul Risorgimento, pur fondato, «ha una sua funzione ideologica ben precisa: l’apologia del “sempre eguale” a partire dal sempre diverso» (FORTINI, Contro «Il Gattopardo» cit., pp. 243, 245). Spiace ritrovare l’equivoco, «fu cambiato tutto per non cambiare nulla» come giudizio d’autore, in un’opera fondamentale a cui sono spesso ricorso, e dove una pagina dopo Lampedusa è contato fra i grandi narratori «maestri di conoscenza storica» (RENDA, Storia della Sicilia, I cit., pp. 14-15); e da li vederlo ripreso, «gattopardismo», «restare immutabile» (RECUPERO, La Sicilia all’opposizione cit., p. 70). Per la vulgata giornalistica, cfr. nota 13 alla premessa. Pit presto ancora di Fortini, nella recensione del dicembre 1958, non si sbagliò invece Montale: «il senso della storia, il trapasso delle generazioni, l’avvento delle nuove classi e dei nuovi miti, il declinare della nobiltà feudale e l’alquanto ipocrita trionfo delle “magnifiche sorti” sono la materia stessa e l’ispirazione del romanzo» (MONTALE, I/ secondo mestiere cit., p. 2171). Dal canto suo, un anno dopo, Aragon: «Non è il trionfo dell’astuzia degli aristocratici che ci mostra I/ Gattopardo, ma quello di Garibaldi; non è il sonno della Sicilia, ma la Sicilia trascinata nella corrente della storia in contraddizione con i discorsi di Don Fabrizio...» (come nella
nota 12 alla premessa, data la non facile reperibilità del settimanale francese, cito dall’utile e informata sintesi della BERTONE, Torzasi di Lampedusa cit., p. 211). Primo ad andare a fondo fu però Samonà, e proprio per questo devo rinunciare a ci-
tarlo esaurientemente (sAMoNÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 52, 55, 69-70, 80-81, 121, 184-85; richiamandosi a lui, motiva bene la rettifica zaGo, I Gattopardi e le Iene cit., pp. 18-19). Per le precisazioni di La Fauci, cfr. sopra, nota 24. 5 LUPERINI, I/ «gran signore» cit., p. 137. 5 Ibid., p. 139. 5” La postulazione d’un narratore onnisciente, l'affermazione che «il transito del tempo non è mai articolato narrativamente» (ibid., p. 137), mi sembrano felicemente rettificate dopo l’importantissima ricostruzione dei tempi (cfr. nota 43 al secondo capitolo). In «una struttura narrativa ben poco ottocentesca», un tempo lento determinato da memoria e monologo interiore «non è mai portato sulla scena in modo oggettivo, ma è sempre soggettivizzato attraverso la prospettiva del protagonista» (p. 138). Si distingue «l'ottica del personaggio» da «quella dell’autore»; si riconosce che «compare nel romanzo il tempo della storia», che in punto
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decisivo in letteratura), avrei voglia di obiettargli l’ironia di Marx. Non esistendo per gli economisti borghesi che istituzioni o artificiali o naturali, quelle «del feudalismo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali»?: dovrebbe forse anche per Don Fabrizio esser naturale il tempo produttivo borghese, artificiale quello diversissimo della sua classe ?Classe che aveva un millennio alle spalle; e che dalle epoche di Don Fabrizio e di Lampedusa fino a oggi, è stata la sola a vedersi definitivamente sostituita’ (senza che ne dileguasse un prestigio)°°. I/ Gattopardo, libro peraltro divertente, solleva in sordina una questione più universale del privilegio aristocratico - specie da quando la catastrofe del progressismo ottimista ha aperto il varco a veri antistoricismi cretinizzanti. Rivendicare conodi morte «la verità si fa strada» (p. 140). Quanto alle «contraddizioni e brecce», c’è meno distanza di quanto non sembri fra il mio assunto che siano costitutive del personaggio, e l’idea che «la borghesia, e la sua concezione del tempo, hanno già vinto, anche dentro di lui»; naturalmente io non direi che l’autore «stigmatizza» la pusillanimità del personaggio (pp. 140-42), se fosse vero svanirebbe il non meno costitutivo umorismo. Luperini situa nella parte ottava, scomparso il protagonista, quella smentita d’una ideologia che io chiamerei ritorno del represso; pure, con «gli inetti sveviani, montaliani e moraviani» il protagonista «viene a rivelare insospettate affinità» (p. 141). ?8 K. MARX € F. ENGELS, Opere, VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 182 (Mise-
ria della filosofia, cap. II, 1, Settima ed ultima osservazione; frasi riprese in nota in MARX, I/ Capitale cit., p. 113). ? La lunga durata, pit che le sconfitte recenti, sembra il presupposto d’un altro significativo inciso di Marx. Ancora di contro alla confusione fra natura e storia degli economisti borghesi del Settecento, ce n’è uno (J. Steuart) che «în quan to aristocratico, si colloca maggiormente sul terreno storico»: K. MARX e F. ENGELS, Opere, XXIX, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 18; il corsivo è mio (Introduzione
[del 1857] ai «Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica», 1. Produzione). © Il divario fra perdita di funzione e prestigio persistente sfida l’ottusità «del progressismo medio» nel caso di Proust, che mette in scena la classe antica un secolo dopo la rivoluzione: cfr. Piccoli commenti a Proust, in TH. w. ADORNO, Note per la letteratura. 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, pp. 197-99 (dove però l’antitesi fra lo snob e il magnaccia mi sembra pit ad effetto che persuasiva). Sciascia, in una lettera a G. P. Samonà «con autorizzazione a pubblicarla», conta tra i fattori esterni frastornanti l’incidenza dello snobismo sul successo di Lampedusa: «Tutti i comunisti che sedevano col Gattopardo in mano, a concedersi brividi di piacere perché l’aveva scritto un duca, mi infastidivano» (in samonà, I/ Gattopardo cit., p. 413). Nel romanzo, il passo più pertinente non si ha dove la parola srob compare (112, 115), ma dove si parla di conti polacchi in esilio e in miseria (179, 188-89).
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scibilità di storia anche al tempo dei topi in trappola, a qualunque tempo che scorra esclusivamente incontro al peggio”.
Za
Lampedusa non sapeva probabilmente, come ho detto, di esser cosî vicino a occuparsi di storia politica, quando scriveva che avrebbe preferito farlo. L’avrebbe fatto in un romanzo; quindi, altrimenti che da storico di mestiere, ma non
meno a buon diritto. Avevo espresso, in un altro libro, la convinzione che «quale testimonianza del passato, la letteratura possiede qualcosa di insostituibile, di non controllabile dall’autorità degli storici professionali non letterari, di non comparabile —- essendo insieme meno e più - ai documenti d’ogni altra specie con cui lavorano questi ultimi». Convinzione che non vale soltanto per una letteratura che assuma la storia a proprio tema; in ogni caso, se c’è qualcosa di vero in essa, dovrà misurarsi col problema incontrato in questo capitolo ($ 2) e nel precedente ($ 3): individualità 1 Già nella recensione di BLASUCCI cit., p. 119, si parlava di «visuale storica
spostata (la rivoluzione vista da una sua vittima intelligente)», di prospettiva storica «in certo modo capovolta». Per quanto sia da rinnovare la risposta, la domanda è sempre la stessa a cui s'intitola una sezione d’un libro di ventiquattro anni fa: Quale antistoricismo ?quale storia? (SAMoNÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 18-31). E c'è risposta nuova in uno dei contributi più stimolanti di tutta la bibliografia (ne consi-
glierei la traduzione dal tedesco): E. REICHEL, Geschichtsdenken und Gegenwartsdeutung in «Il Gattopardo» [Concezione della storia e interpretazione del presente nel «Gattopardo»), in «Italienische Studien», Heft 4, 1981, pp. 31-54. Nel processo storico quale il romanzo lo rappresenta, l’autore distingue e documenta, secondo diverse velocità temporali, non meno di tre strati: uno, profondo, vincolato a sta-
ticità e ripetizione — come nel caso del clima e del paesaggio; uno di mutamenti lenti, decennali o secolari, che oltrepassano l’individuo — come nel caso del declino feudale; uno di mutamenti misurabili entro una vita, o via via pit corti - gli eventi storici tradizionalmente intesi (pp. 36-43). Tale articolazione corrisponde a quella che da poco era stata elaborata nella storiografia francese della scuola delle Annales, col libro di Braudel sul Mediterraneo: «storia quasi immobile», «storia lentamente ritmata», «storia evenemenziale» (pp. 43-48). Forse Reichel esclude troppo recisamente conoscenze dirette da parte di Lampedusa, ma le considerazioni che fa su una convergenza spontanea sono suggestive (pp. 48-49). Il rapporto del romanzo col suo presente di stesura può allora essere ripensato su altre basi (pp. 49-54).
£ ORLANDO, Gti oggetti desueti cit., p. 7.
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e universalità nell’arte, estensioni dal particolare al generale. Se, per un romanziere, è una riuscita annettere involontariamente risonanze universali all’individuazione del reale,
l'attendibilità degli storici al contrario dipende da una ricognizione esatta delle cose particolari, da una costruzione sorvegliata delle categorie generali in cui le ordinano. Ma una delle principali categorie con cui lavorano, quella di classe, rischia di diventare insufficiente in certi terreni periferici, se non tiene tutto il conto possibile d’una realtà per definizione trasversale alle classi; e il cui incorreggibile interclassismo va compreso ancor prima che giudicato. Potrà essere
giudicato con indulgenza o con ripugnanza, oggi, non più tanto secondo variabili ideologiche in chi giudica, quanto magari secondo variabili cronologico-generazionali nei casi da giudicare. Romeo: «Posto infatti in un rapporto gerarchico di natura personale il fondamento di gran parte delle relazioni sociali; frazionata l’autorità sociale in migliaia di diritti appartenenti ai feudatari; inesistente o quasi la garanzia della legge contro l’arbitrio dei potenti: il contadino siciliano finiva col vedere nel feudatario la sola autorità davvero efficiente e indiscutibile». Qui lo storico rimanda in nota alla coraggiosa inchiesta, di cui ho parlato nella premessa ($ 5), condotta in Sicilia nel 1876 da Leopoldo Franchetti. In fatto di fondamento personale dei rapporti, e inesistente interiorizzazione collettiva della garanzia d’uno stato, questa indagine ardente d’intelligenza (e purtroppo, oggi ancora, d’attualità) descrive una verità tutt'altro che estranea al Gattopardo: Essi [i siciliani] non si considerano come un unico corpo sociale sottoposto uniformemente a legge comune, uguale per tutti e inflessibile, ma come tanti gruppi di persone formati e mantenuti da legami personali. Il legame personale è il solo che intendano. È accaduto a più di un rappresentante dell’autorità che rifiutava un favore richiestogli, allegandone la illegalità, di sentirsi rispondere: «lo faccia per amor mio» e ciò apertamente, senza esitazione, colla massima buona © RoMEO, I/ Risorgimento in Sicilia cit., pp. 16-17.
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fede. Insomma, nella Società siciliana, tutte le relazioni si fondano sul
concetto degl’interessi individuali e dei doveri fra individuo e individuo, ad esclusione di qualunque interesse sociale e pubblico. Una siffatta forma di società non è nuova nella storia, e se ne manifestano in Sicilia tutti i sintomi belli e brutti. Da un lato, una fedeltà, una energia nelle amicizie fra uguali e nella devozione da inferiore a superiore, che non conosce limiti, scrupoli o rimorsi. Ma dall’altro, il sistema della clientela spinto alle sue ultime conseguenze”.
Dal momento che niente esclude nient’altro, nella storia,
questa logica e quella della lotta di classe non si escludono. Un'attenzione schematica alla seconda, che porti a sottovalutare l’interferenza della prima, potrebbe essere una radice dei malintesi fra sinistra italiana e Gattopardo. Grande punto di forza storiografico del romanzo è infatti il tratteggiare la coesistenza di arcaico interclassismo e moderna lotta di classe, la trasformazione vischiosamente parziale ed incerta dell’uno nell’altra. Non è tanto falsità quanto mentalità e abitudine, se il soprastante Russo dice: «Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre» mentre «aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva»; o se parla di «poveretti come me» - mentre è proprio lui «che attraverso interposta persona desiderava comprare Argivocale», un feudo: Don Fabrizio sorride ma tace (45, 44). Di passaggio, sempre: quest’ultimo, agli affittuari venuti a pagargli una parte di canone in natura, regala in moneta «pit forse del valore di ciò che avevano portato» (53); i suoi contadini «non avevano nulla contro il loro tollerante signore che cosî spesso dimenticava di esigere i canoni e i piccoli fitti» (66, 65); nei recessi del suo palazzo c’è ospitalità per «una cameriera pensionata» (146, 153). Più istituzionale ancora, nel vecchio sistema, la beneficenza della Chiesa. Dovessero i liberali arraffare e spartire «quei beni che sono 54 FRANCHETTI, Condizioni politiche cit., pp. 39-40. Mi sembra che in RECUPEro, La Sicilia all'opposizione cit., pp. 83-84, la denuncia di Franchetti sia un po” appiattita in una «immagine di isola delinquente», che si allinea con altre immagini interessate e reazionarie dell’isola.
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il patrimonio dei poveri», chiede padre Pirrone in affanno, «chi, dopo, sfamerà le moltitudini d’infelici»? (49). Quan-
do avrà finito di avverarsi ciò che lui non era il solo a prevedere (45, 44-45; 114, 117), ad opera dello stato italiano «ateo e rapace», «addio allora il mite dominio dell'Abbazia qui intorno; addio le zuppe distribuite durante gli inverni duri». C’è di che temere profetica la sua sprezzante incredulità, davanti all’obiezione «che forse cosî alcuni contadini poveri avrebbero avuto un loro fondicello» (174-75, 182-84)° Risvolto del paternalismo feudale ed ecclesiastico, in assenza d’una superiore autorità di stato, la mafia. Prima che Tumeo ne insinui l'accusa a carico di Sedàra, con grande sgomento del quasi imparentato Don Fabrizio (115, 118), oscuri accenni ricorrenti riescono più efficaci che non, poi, i terrori sprecati del piemontese e i truci aneddoti a lui inflitti da Tancredi (154-58, 162-66); o che un personaggio come Vicenzino, « “uomo di onore”; uno di quegli imbecilli violenti
capaci di ogni strage» (181-82, 191; 186-87, 196-907). Russo maneggia un cadavere «con preoccupante perizia» (27, 24);
un pozzo sa fare anche da carcere di «cristiani sequestrati», da cimitero dove si riducano «a levigati scheletri anonimi» (60, 58); per pervenire dalla città al feudo si è «ottenuto un
secondo e più valido lasciapassare», che «non era una novità» (64, 63); gli otto campieri principeschi stessi, hanno «nelle mani otto schioppi di non costante innocuità» (69, 68). Resta, al di là della fraternità fra «altero nobiluomo»
? RECUPERO, La Sicilia all'opposizione cit., p. 79: «solo circa il 7 per cento delle terre [dell'asse ecclesiastico] toccò a piccoliproprietari; l’operazione rafforzò il nuovo ceto borghese in ascesa». In agitazione, per le leggi di esproprio, «anche la popolazione urbana di Palermo che per secolare tradizione dai conventi ricavava di che vivere grazie alle elemosine, ai sussidi, alle concessioni di favore, e alle pit svariate forme di impiego». 0° Dopo la prima visita a palazzo di Angelica da fidanzata, è ricordato che padre e figlia rientrano in quella casa, il cui ingresso «era stato vietato a Peppe *Mmerda dalle “lupare” che gli strafotteronoireni» (136, 140). Ci sono inoltre, fra le madri in i lutto, parecchie « mogli di quei fantocci sui qualis’incespica agli svolti delle “trazzere” » (168, 177); e c'è altro umorismo nero, sui rischi del mestiere di soprastante di due feudi badiali (171, 179-80).
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e «rozzi villani» nell’attesa di pioggia (77-78, 79), al di là delle stanze del Duca-Santo che imitano le stanze «dei contadini più derelitti» (148, 155), al di là della pietà di Chevalley che dall’esterno eguaglia il principe a «bimbi scalzi», «donne malariche» e «non innocenti vittime» (165, 175),
una mera pietà della miseria che l’interclassismo del sistema non può assorbire. Avevamo incrociato nel secondo capitolo ($ 3) la visione di Donnafugata all’alba (168, 177-78); ma, per la miseria come per la mafia, gli sguardi pit in profondità sono fugaci e indiretti. E in apparenza impietosa una frase sui contadini, che stanno ad ascoltare la propaganda muti: «abbrutiti com'erano, in parti eguali, da un immode-
rato impiego dello “zappone” e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato» (106, 108). Le stelle di febbraio «brillava-
no con furia, producevano migliaia di gradi di calore ma non riuscivano a riscaldare un povero vecchio»; al gesuita che s'intende di stelle, e che gli offre un altro mantello, l’erbuario risponde di essere abituato (180, 189). Una dolorante me-
tafora di precarietà perenne, di supplizio, centra il paese di Peppe ’Mmerda: «un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso» (114-15, 118). La scambievole riconoscenza interclassista è l’anima di due personaggi, Rotolo e Tumeo. La fedeltà del primo tocca il sublime nel risparmio, che non disperde nemmeno «una parte infinitesimale del patrimonio del Principe»: un unico, irrisorio comportamento inteso a trattenere il decorso della rovina. Perciò non lui è in debito di riconoscenza, bensî Don
Fabrizio - che nel 1860 per la prima volta, guardandolo «quasi teneramente», gliela manifesta (69-70, 68-69). Nel Come l’effetto di sole signorile (cfr. la nota 50 al primo capitolo), questo personaggio ha riscontro meno breve e non meno bello nei Ricordi d'infanzia, col nome anagrafico identico (69-70, 377-78): «essa [mia Nonna] aveva trovato in Onofrio Rotolo l’unico amministratore che a mia conoscenza non fosse un ladro». Il
che diventa nel Gattopardo: «Don Onofrio era una delle rare persone stimate dal
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1860, l’interclassismo è come si vede lo sfondo, tracciato
sempre con brevità incidentale; la lotta di classe è, dopo tutto, il racconto. Ma ha forse un senso ordinario collocare “a destra” il legittimista Tumeo, “a sinistra” il liberale Sedàra?
Certo, questi si prodiga per l’unità e i Savoia, quegli se potesse restaurerebbe i Borboni. Dopo il plebiscito però, democratica votazione non sperimentabile sotto i Borboni, chi dimostra d’averne prontamente fatto suo il gusto è, in nove parole, Tumeo: «Per una volta che potevo dire quello che pensavo». Chi manomette senza necessità i risultati è Sedàra, complice d’uno «stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata»; e stavolta il misfatto non rimbalza soltanto, inavvertitamente, da una periferia verso tutte, ma anche dichiarata-
mente da Donnafugata «a Palermo, a Torino». La vitalità del personaggio di Tumeo, la simpatia che si attira rivendicando con veemente buona fede l’umile diritto calpestato, confondono lo schema politico. Le sue argomentazioni semplicemente ne ignorano la dimensione, premettendo una lealtà e gratitudine, verso re e regine benevoli e generosi, di assoluto ordine personale. L’ossimoro che introduce la sua tirata è ancora una formazione di compromesso: «In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione» (109-11, 112-14). Se, al di là della prospettiva di Don Fabrizio, fosse un rimpianto di terzo stato a relegarlo nel ridicolo, non sarebbe disgraziatamente meno anacronistico, in senso opposto, del rimpianto feudale che gli dà ragione. Infine, cessato il dialogo, «sarebbe stato difPrincipe e forse la sola che non lo avesse mai derubato»
(69, 68). Quattro esempi
di mirabile scrupolosità si convertono in uno, certo iperbolicamente inventato, nel
romanzo. La riconoscenza trova toccante espressione nei Ricordi: «Siano queste ri-
ghe che nessuno leggerà un omaggio alla sua illibata memoria». Rotolo ha votato sî per ordine del principe, ma col disgusto con cui un bambino beve l’olio di ricino (107, 109). Contro i 667 «no», i 432 053 «si» all’annessione incondizionata della Sicilia al nuovo regno ammontavano al 99,84 per cento (e sola vera opposizione fu un 25 per cento di non votanti); ma il risultato non era esente da «più o meno consistenti e disinvolte manipolazioni delle schede deposte nelle urne elettorali» (RENDA, Storia della Sicilia, I cit., p. 166).
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ficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale Sancio» (117, 121); il ruolo popolano si addice anche a Don Fabrizio grazie a un maggiore realismo, ma grazie a una maggiore in-
tegrità il ruolo nobile si addice anche a Tumeo®?, Aver ridicolmente ragione, riscuotere simpatia per fissazione ai tempi andati, è proprio di don Chisciotte. Affinché gli siano riconosciute ragione e simpatia, ci vuole il suo disinteresse e la sua irrilevanza pratica; in mancanza di pazzia, nel Gattopardo, tutto ciò sembra concesso a un subalterno come Tumeo. O anche, in certa misura, a una principessa consorte che, per quanto possa elevare la voce verso l’acuto, non si sogna di comandare. «Un traditore è, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! »: contro Tancredi, se non contro tutta la sua specie, si pretenderà che oggettivamente Maria Stella abbia torto ?Solo che nella scenata reciproca fra i coniugi a letto, la felicità umoristica è tale da risparmiare ogni partecipazione alle ragioni di lei”; e da contagiare addirittura luci, colori e metafore: «le parole rigavano l’atmosfera lunare della camera chiusa, rosse come torce iraconde»; «nella semioscurità glau-
ca della camera [bottiglia di valeriana e cucchiaio] brillavano come un faro rassicurante eretto contro le tempeste isteriche» (99-101, 100-2). La principessa e l’organista, forti soltanto del loro appassionato buon senso, fulminano impunemente a tu per tu con un parafulmine massiccio qual è Don Fabrizio; i rispettivi stati sottomessi li scagionano, se pre-
stano impetuose parole alla dirittura d’una coerenza condannata. «Stelluccia, non dire troppe sciocchezze; non sai quel che dici» (100, 101); «Andiamo a casa, don Ciccio; voi
certe cose non le potete capire» (117, 121). Non si salvano invece, nemmeno comicamente, altri due personaggi più re-
sponsabili, entrambi di sesso maschile e d’alto rango: coloro che non si limitano ad attestare o a sfogarsi, ma nutrono velleità politiche in difesa dell’indifendibile passato. 5 Cfr. samonÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 121-22. °° Cfr. ibid., pp. 85-86.
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Finché il cognato Màlvica, «scelto sempre come portavoce della folla degli amici», resta tale in un dialogo tutto interiore, la dignità del linguaggio d’una tradizione cara a Don Fabrizio gli è assicurata (28, 25). Poi, nessun compatimento
per il suo «stato di prostrazione estrema», nel biglietto unito alle «terribili notizie» dello sbarco: «Quel Màlvica! Era
stato sempre un coniglio. Non aveva compreso niente, e adesso tremava» (54, 55). In seguito, naturalmente, «si era fatto beccare dalla polizia del Dittatore», «era rimasto dieci giorni in gattabuia»; e nel «pugno di minchioni» come lui c’è, purtroppo per la continuità patrilineare dei Salina, «impigliato in chissà quali puerili complotti», Paolo (62, 60). Il solo tra i figli emergenti, a differenza da Giovanni, Tancredi (e Concetta), in cui stentiamo a riconoscere un doppio o
un alter ego del padre. Questi, avevamo visto nel primo capitolo ($ 4), proietta sui pianeti il proprio egocentrismo di classe (25-26, 22); lui, con «una malinconia metafisica» in
volto per colpa d’una Fanny, e d’un Guiscardo sauro irlandese, si mette al centro d’un quesito bacchettone fino al blasfema: «A che fare, allora, si era incarnato il Redentore ?»
(24, 20)”. Dovrebbe esser lui a sua volta (la lettera del testo tace del collegamento ma lo consente) il padre del primogenito successivo, Fabrizietto. «Tanto odioso» nei pensieri del nonno, in un’ora di verità, perché incarna la fine della fa7! La passione per i cavalli pare al padre l’insulsa alternativa dell’alacrità politica di Tancredi: «E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo”! » (41, 39); «Vai a parlare di politica con “Guiscardo”, v’intenderete bene» (54, 55). In una delle miniature di famiglia, Paolo è «in atto di salire su un cavallo focoso» (158, 166-67); un cavallo era stato fatto se-
natore da Caligola, «onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo» (160, 168); morto nella parte settima, Paolo è stato (un Ippolito
più banale che in Euripide e in Racine) «sbattuto git» da un cavallo (219, 228). Fra primogenito e figlio elettivo non manca sospetto reciproco: «non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo», raccomanda Tancredi allo zio (40, 39), e mentre della sua partenza si parla a tavola, Paolo «mangiava in silenzio» (51, 51-52). È suo diritto dire: «Ma, papà, certo tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio»; l’interpretazione malevola che ne dà la voce d’autore pare quella dell’indignato Don Fabrizio: «La gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato, del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica» (54).
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miglia come tradizione; se la «doppia dose di sangue Màlvica» concorre al risultato insieme agli «istinti goderecci», alle «tendenze verso un’eleganza borghese» (221, 230), a quanto pare una ligia eredità reazionaria non rallenta un futuro di classe segnato. Perciò Paolo corrisponde male finanche a quella parte di Don Fabrizio che sotto sotto vorrebbe essere don Chisciotte, e a malincuore lascia prendere il sopravvento alla parte più ragionante e meno rinunciataria che si rifiuta di esserlo. Secondo Luk4cs pertiene ai protagonisti di romanzo storico, nella
«forma classica» di Scott, una posizione interme-
dia e da due lati partecipe, fra due campi sociali in lotta”. Nel Gattopardo, tale è anche la posizione di Tancredi; ma in Don Fabrizio collima con la costituzionale indecisione. L’intellettuale fa difendere dalla voce di Màlvica un’idea monarchica astratta, «svincolata dalle persone», e si riserva di obiettare che i re concreti «non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello». Sa quel che, mentalmente, dice: «Lo conosceva bene il Re» (28, 25).
Senonché proprio a partire dalla consuetudine personale, per quanto carica di rattenuta nausea, suonerebbe storicamente falso se il familiare del trono andasse del tutto immune da quel personalismo che è la vera, non scritta legge del suo universo. L’identificazione perfino nel cognato, fra le tante, non può durare a lungo e non può mancare: «per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri re» (47, 46-47). L’idealizzazione è funzione del tradimento. In atto di premeditarlo, «si mise a disegnare puntuti gigli borbonici» (50); vuotato un ? 6. LuKÀCS, I/ romanzo storico, Einaudi, Torino 1965, pp. 34 sgg. Cfr. queste parole di Larisa Fédorovna, protagonista femminile d’un romanzo che Lampedusa non fece in tempo a conoscere: «Con tutti i governi, vedete, ho avuto rapporti e protettori e con ogni sistema ho sofferto e perduto qualcosa. Solo nei libri mediocri gli uomini sono divisi in due campi e non vengono in contatto. Ma, nella realtà, tutto è cosi intrecciato!» (B. L. PASTERNAK, I/ dottor Zivago, Feltrinelli, Milano 1958, p. 390).
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bicchiere alla salute di Tancredi, le cifre F. D. (Ferdinandus
dedit) «non si videro più» (52, 53; cfr. 32, 29); un ritratto di Ferdinando II viene allontanato per tempo, a rivolgimento compiuto (63, 61). È caso o scelta che, recandosi a votare, indossi «la stessa redizgote nera» con cui era andato a osse-
quiare quel re? Per Don Fabrizio, e non per Màlvica o Paolo, né per Maria Stella o Tumeo, diventa la buona causa una causa perduta: «ad un tratto si avvide quanto inconscio ap-
pello alla misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico»; si fa tanto solenne e nero «che sembrava seguisse un carro funebre invisibile»; da un sorriso, ironico, è vena-
to il suo «rimorso» (106-7, 108-10). Il divario apertosi fra alterigia e signorilità, a confronto con la più intransigente purezza personalistica, non è sostenibile che a una profondità quasi inascoltata: «nel fondo, proprio nel fondo della sua altera coscienza una voce chiedeva se per caso don Ciccio non si fosse comportato più signorilmente del Principe di Salina» (111, 114)”.
All’illusione che la sua classe sia meno caduca della dinastia, Don Fabrizio sacrifica una persona più oscura, e a lui più prossima, di Francesco II. Per Concetta, sua figlia, quel matrimonio che consentirebbe al cugino di redimersi econo-
micamente senza uscire dalla famiglia, sarebbe un matrimonio d’amore. Prima d’imbattersi nell’imprevista Angelica, lui le dà segni inequivocabili di esserci incline; tanto da farla ricorrere a padre Pirrone, messaggero presso il padre (6768, 66-67; 72-74, 73-74). Un imprevisto ben più piccolo comincia già a nuocerle: che il gesuita sia costretto a riferire ? Non appena comunicato a Chevalley il gran rifiuto, Don Fabrizio adduce di essere «inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto» (164, 173). D’uno dei suoi momenti di cedimento regressivo, abbiamo incontrato il punto d’arrivo immagi-
nario (nel primo capitolo, e nella nota 14 al terzo): «Postosi sulla via del rimpianto del passato, nei momenti di peggior malumore si spingeva assai lontano gii per questa china pericolosa» (96, 97). E rattristante che la panzana testuale secondo cui Lampedusa sarebbe «dalla parte dei Borboni», sia firmata dall’autore degli Indifferenti e di Agostino (A. MORAVIA, L’erede rosso del Gattopardo, in «L'Espresso», 7 aprile 1963, poi in SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., p. 414).
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dentro lo stanzino da bagno - la posta del dialogo essendone umoristicamente, anche qui, sminuita. L’immediata rea-
zione d’egoismo paterno, senza dubbio la più audace restrizione posta dall’autore al dono di simpatia del protagonista, alterna e combina due motivazioni. La pigrizia scansafatiche si allarma oltre misura, «prevedeva lunghi colloqui, lacrime,
seccature senza limiti», «che quantità di penose conversazioni in vista» (73; 75-76); e sembra persistere molto oltre: «paura che [Tancredi] gli parlasse di Concetta» (77), «[il lo-
ro bisticcio] allontanava seccature, conversazioni, decisioni
da prendere» (88, 90)”. Ma la pigrizia qui non è il fondo ultimo, se non in quanto è soggiacente anche al fondamentale rapporto di delega pratica da zio a nipote. La divinazione del padre, accortosi da tempo che la figlia ha «un sentimentuccio per quel briccone», andava a dire il vero un po’ al di là del plausibile: «temo che Tancredi debba mirare più in alto, intendo dire più in basso» (51, 52). Non ha soldi, «niente»; gliene occorrono, «tanti»; che nella moglie l'inconveniente sia la dote troppo esigua, o il carattere ritroso («La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietrobur-
go ?»), la preoccupazione per l’avvenire di Tancredi è la sola risposta all’interiore domanda di cui si sorprende lui stesso: «Pericolo. Ma pericolo per chi?» (74-75, 74-76). Quando la bellezza di Angelica avrà definitivamente messo in ombra «la grazia contegnosa della sua Concetta» (95), non sarà che istintivo, e quindi labile, il prezzo che deve pur pagare: «Una fitta gli traversò il cuore: pensava agli occhi alteri e sconfitti di Concetta. Ma fu un dolore breve» (205, 255),
In lei, Don Fabrizio rinnega l'estremo suo doppio che ci " Persino per lettera, e quando ormai Tancredi sta per far chiedere la mano di Angelica, una sua mezza frase premurosa verso Concetta «venne censurata dalla prudenza paterna» (95, 96). 7 Va ancora peggio, per Concetta, nella sola brevissima apertura sui pensieri della madre. Costei l’ha difesa; ma, ora, è coricata gamba a gamba accanto al marito: «Che importava Tancredi... ed anche Concetta...» (101, 102).
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resta da considerare: estremo, sia al punto da ereditarne la prospettiva protagonistica dopo la morte, sia nello stretto senso che la parte ottava in cui ciò avviene è l’ultima. La mia analisi tutta paradigmatica, che aveva reso omaggio all’ordine sintagmatico aprendosi sulla presentazione di lui, torna a farlo chiudendosi su Concetta, come il romanzo. Un doppio, stavolta, altrettanto per affinità che per opposizione. Ha gli occhi azzurri (52, 53) come il padre - e come Tancredi; è ricordata in morte quale fonte di contentezza, perché per bellezza e carattere «una vera Salina» (224, 233). Ma al troppo intelligente uomo di comando, il nerbo d’aggressività fa difetto; nella subordinata donna, sola personalità non priva d’intelligenza in tutta la parentela conservatrice, c’è contenuta aggressività in eccesso. Dall'inizio del romanzo (se non vado errato), la prima informazione al di fuori del punto di vista di lui è che ne sopravvaluta la «sottomissione e placidità», trascura talvolta «di osservare il bagliore ferrigno che traversava gli occhi della ragazza» (74, 75). La violenza a
doppio taglio della gelosia, tale che «desiderava uccidere quanto desiderava morire» (82, 84), non tarda a trovare un
alibi religioso sincero: il sacrilegio, in opere brutali e in parole leggere, di cui Tancredi si fa uno strumento nel corteggiamento impudente della rivale. Esso merita di essere stigmatizzato a due riprese, prima con scandalo ferito, poi con dolcezza vendicativa (83-84, 85-87; 87, 89-90). Cosî la ex figlioccia del re (30, 27), la vittima storica più consapevole che ignara del compromesso a cui è posposta, si assume con dignità ideologica la sua sorte e ne precipita deliberatamente il corso. L’altrui disattenzione al suo dramma prende figura narratologica: per lei sola si verifica quasi rigorosamente, e quasi fino all’ultimo, il caso del personaggio visto dall’esterno e come incompreso dalla voce d’autore. Per esempio, al passaggio di Don Fabrizio reduce dagli accordi con Sedàra e preannunciato dai suoi passi a dieci metri: «Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udf
passare il padre, non si volse neppure» (126, 131). O per in-
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ciso laconico, intorno al letto di morte: «tutti, tranne Concetta, piangevano» (225, 234)”. Tale statuto non sembra cambiato all’inizio della parte ottava. Le altre due sorelle raccolgono i «soprannaturali te-
sori» delle reliquie, si raccontano a vicenda sogni di ritrovamenti, hanno da chi farseli avverare; dal canto suo, «l’im-
passibile Concetta pagava»; «Quel che sognasse Concetta non lo sapeva nessuno»
(234, 242). Tutte e tre sono «carat-
teri forti a proprio modo» (229, 236), e non sopravvive solo nella più intemperante qualcosa del timore reverenziale che incuteva Don Fabrizio: «non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina», si giustifica il cappellano con Monsignor Vicario; «Monsignore rabbrividî al ricordo» (235, 243)”. Pure nelle «segrete lotte per l’egemonia casalinga» ha prevalso Concetta, comparabile al padre per «un aspetto autoritario e quasi imperiale» (229, 236; 231,
238)". Svanito il prestigio del nome, «diviso e ridiviso» il patrimonio, la sola cosa a cui lei tenga è la sola in cui «i Salina avevano mantenuto la loro preminenza»: i rapporti con la Chiesa, ora minacciati da una brutta figura (237, 245-46). Non a lei anziana, né alle altre figlie dell’ultimo dei Salina, * Inoltre: non fa festa al timballo di maccheroni «per mancanza d’appetito» (81, 83); l'indomani, appare «un po’ distratta ma serena» (87, 89). Con Angelica, «fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era cosî intensa da farle salire le lagrime agli occhi» (133, 136); si mette a ridere e poi si rabbuia ricordando il furto, da parte di Tancredi, delle pesche ruffiane (134, 137-38); chiamata ad ammirare l’anello di fidanzamento, «rimandò quel piacere a pit tardi» (142, 147). Sarebbe incoerente con questa scelta narrativa che uno spiraglio si aprisse, sull’interiorità di lei, proprio durante il concerto erotico dell’estate di S. Martino a Donnafugata.
Perciò nella prima stesura (cfr. note 7 e 61 al secondo capitolo) non potevano che essere un po’ inumane, meno umane certo della reticenza, le righe poi scomparse: «Concetta contribuiva al concerto con le note oscure dello sconforto rinchiuso ma amoroso anch’esso e che facevano meglio risaltare i trilli ossessionati e le impennate degli altri» (MM, p. 273). " Per Carolina, la verifica alla cappella «non avrebbe dovuto nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza»; poi, «Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe meglio» (231-32, 239); infine, «con le mascelle serrate e gli occhi saettanti»: «Per me questo Papa è un turco» (245, 255).
?8 Difficilmente leggendo, nel contesto, di «una contrazione astiosetta al di sopra del naso», ci si ricorderà ancora che, in un’infausta serata, «il cipiglietto di lei fra la fronte e il naso s’inaspriva» (82, 84). :
172
L’intimità e la storia
è stata addebitata nel romanzo una femminile presunzione d’immunità dalla storia; bensi, da giovane, alla figlia dell’ar-
ricchito. Angelica era «una delle molte ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato e non immaginava neppure che un discorso di Cavour potesse con l’andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla» (135, 139). Certo, l’ottundimento della memoria politica è maggiore di quello della memoria affettiva: nei festeggiamenti per i cinquant’anni dei Mille viene riservato a Concetta, da Angelica, un «invito per la tribuna di onore, proprio alla destra di quella reale» (238-39, 247). Ma con la sua «delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario» (242, 251), la povera Concetta c’insegna come non ci sia che ur tempo e una storia, pubblicio privati, vittoriosi o perdenti, sclerotizzati o sensibili, in-
decifrabili o interpretati. Ce lo insegna suo malgrado, e senza intrusioni di voce d’autore, nel perdere definitivamente di vista quest’unità. Entrando in camera della vecchia zitella, verso la metà della parte ottava, siamo entrati nell’intimità del personaggio, che comincia a cambiare statuto. La solitudine affetta da autocoscienza che il padre viveva in piena famiglia, socialità, mondanità e perfino in morte, lei è condannata a viverla con un rincaro da cui veniamo rinviati al confronto tra le loro esperienze di memoria. Uomo, non frustrato, possidente, Don Fabrizio conosce una memoria euforica e atavi-
ca (76, 77); ne scopre in morte un’altra rivolta alle sue cose materiali, «che adesso gli sembravano umili anche se preziose», «che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio». Memoria ormai tutta individuale, sebbene sposti la pietà da lui stesso agli oggetti: «il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all'imminente fine di queste povere cose care» (220, 229). L'esperienza di Concetta va ancora oltre. Sul pavimento le casse d’un corredo, e
1860: una singolare fine d’antico regime
1978
un cane imbalsamato, in disfacimento; alle pareti ritratti, fo-
tografie, acquarelli e immagini sacre, in disaffezione: il volto privato della sua camera rivela, detto con la densità d’un verso, «un inferno di memorie mummificate» (235-37, 243245)”. Quando le sopravviene la visita di Tassoni su quella abituale di Angelica, il solo nome ha l’effetto di ridestarla,
prima che all’amarezza, alla memoria viva. «Rivedeva la scena, lontanissima ma chiara, come ciò che si scorge attraverso un cannocchiale rovesciato: la grande tavola bianca circondata da tutti quei morti...»*°. Il complimentoso senatore, l’antico amico di Tancredi, reca «a lei, ombra, un
messaggio del morto trasmesso attraverso quegli acquitrini del tempo che gli scomparsi possono tanto di rado guadare». E il 1860 si sovrappone al 1910; il tempo vacilla, talmente è miracoloso tentare di sormontarlo formulando sul morto una domanda passibile di risposta, «con una timidezza che faceva rivivere la diciottenne in quell’ammasso di seta nera e di capelli bianchi» (239-41, 248-50)®!. Ignaro dei danni struggenti che produce, il visitatore casuale rimette in questione tutta l’aleatorietà del suo destino di donna e zitella. Dà corpo all’ipotesi che non il caso, né ?? Cfr. SAMONÀ, I/ Gattopardo cit., pp. 201-2. Alcuni spunti sono convincenti (a dire il vero non tutti) nell’accostamento intertestuale che fa, tra la camera di
Concetta e quella della protagonista di Un cuore semplice, A. SERVELLO, Ascendenze flaubertiane nel «Gattopardo», in «Otto/Novecento», maggio-agosto 1980, pp. 210-15; e cfr. già MEYERS, Symbol and Structure cit., pp. 68-69. 8° La conoscenza di Freud più che probabile da parte di Lampedusa, potrebbe implicare qui la reminiscenza d’un passo (della lezione 20 dell’Introduzione alla psicanalisi, serie II) sulla trasposizione dei rapporti temporali in rapporti spaziali: «Per esempio, nel sogno si vede una scena tra persone che appaiono molto piccole e molto lontane, come se le si osservasse attraverso l'estremità capovolta di un binocolo. La piccolezza, come la lontananza nello spazio, significano qui la stessa cosa: ciò che si intende è la lontananza nel tempo, si deve comprendere che si tratta di una scena che appartiene a un passato molto remoto» (s. FREUD, Opere 1930-1938, Boringhieri, Torino 1979, pp. 140-41). 8! È occasionata da una vacillazione del tempo, all’improvviso arrivo di Tancredi, la sola eccezione allo statuto di personaggio visto dall’esterno prima della parte ottava: «La sorpresa rapf Concetta in un tempo che non corrispondeva pit a
quello reale», «il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente», «bruschi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad un’altra palese ma gelida» (137, 141-42).
174
L’intimità e la storia
quindi il calcolo, non l’inatteso insorgere della rivale insomma, avesse segnato quel destino: soltanto lei stessa, «l’impeto rabbioso dei Salina»*. Il passato va, tardissimo, rilet-
to; «l’accento caloroso, l’accento supplichevole di Tancredi», che le torna in mente, fa delle sue parole non comprese
«parole di amore verso di lei». Lo sbalzo, da un rancore di vittima a una responsabilità di rimorso, la sconvolge fino al livello dove la nostra psiche ignora il tempo: «Dal fondo atemporale dell’essere un dolore nero salî a macchiarla tutta dinanzi a quella rivelazione della verità»*. La rivelazione è narrativamente cogente per il lettore? Sappiamo che Tancredi non è personaggio trasparente; lo avevamo seguito però troppo da vicino, per intendere la «vita breve» della verità in Sicilia altrimenti che come indiretto annebbiamento del pensiero di lei, ad opera della voce d’autore. «La verità non c’era più; la sua precarietà era stata sostituita dall’irrefutabilità della pena» (241-43, 250-52). Dopo l’accenno che durante la visita del cardinale Concetta «aveva sul volto i segni di una notte insonne», dopo il disastroso smistamento delle reliquie, il tempo torna per lei stranamente a posto. Una notte è bastata perché, dapprima, non sia questione di do® Le viene meno «la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati» (242, 251-52). Con l’indubbio comun denominatore d’una subordinazione femminile, è esatta-
mente la versione desolata di quanto la voce d’autore diceva, in versione divertente, a commento dell’infuriare di Maria Stella: «ma la voluttà di gridare “la colpa è tua!” essendo la pit forte che creatura umana possa godere...» (100, 101). L’infinitesima coerenza testuale non mi dissuade dal pensare (come Lanza Tomasi) che, in questo caso forse pit che mai, sia stata guastata nel manoscritto finale la variante della versione dattiloscritta: «la voluttà di gridare “lo avevo detto”...» (cfr. nota 7 al secondo capitolo; e l'edizione del 1958 ivi citata, pp. 122-23). Perché questa variante fa ridere tanto di più? Certi motti di spirito, secondo Freud, assommano due risate: una di superiorità a spese d’un personaggio comico, ma, in-
sieme, una di complicità coi suoi errori (FREUD, I/ motto di spirito cit., pp. 225-28, e cfr. oRLANDO, Due letture freudiane cit., pp. 149-60). Tra vittimismo accusatore, la colpa è tua, e vittimismo compiaciuto di sé, l'avevo detto, non è del secondo che godiamo di pit a esser complici? © Di nuovo implicata la conoscenza di Freud: fra i caratteri specifici dell’inconscio, l'assenza di rapporti col tempo (cfr. s. FREUD, L’inconscio, in Opere 19151917, Boringhieri, Torino 1976, pp. 70-71).
1860: una singolare fine d’antico regime
175
lore o pena. Si è attestata in un al di là della memoria che, nella soppressione del passato, non fallisce lo scopo di rendere neutro e fantomatico il presente: non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno.
La parte ottava si unifica nel duplice senso della parola reliquie: quello letterale religioso, quello traslato memoriale e affettivo. Non avendo retto a una verifica, la maggior parte dei feticci devoti è stata abbandonata all’immondizia. Poiché «dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere», resta da fare lo stesso col «tarlato e polveroso» relitto profano, che ha smesso di essere innocuo: «Questa era la pena di oggi». Prima infatti che, trascinato via, esca dalla prospettiva di Concetta, «gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare». Poi, è da sottolineare, non c’è più prospettiva di nessuno. Il quadrupede baffuto che «si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria», il cui «anteriore destro alzato sembrava imprecare», si è trasformato da Bendicò in Gattopardo, da storia privata in storia pubblica, per allegoria d’un istante: prima di trovare pace «in un mucchietto di
polvere livida» (245-47, 254-57)*. Livido era anche (sulla fine d’una formale, più che quantitativa, prima metà del romanzo) il chiarore dell'alba sulla disperazione del paesaggio siciliano (168, 177); la storia degli irredenti e dei diseredati, con o senza progresso, non è finita. La «Fire di tutto» a cui
84 LUPERINI, I/ «gran signore» cit., p. 143: «le pagine conclusive vanno annoverate fra le pi intense e crudeli del libro, e sono forse le più riuscite, certo le pit moderne». Naturalmente non sottoscrivo che, con la parte ottava, l’autore realizzi una «presa di distanza dall’ideologia del proprio eroe» che invano «aveva cercato di realizzare pienamente» nelle parti precedenti. Cfr. saMoNÀ, I/ Gattopardo cit., p. 206. 85 Cost nell’indice analitico d’autore (cfr. sopra, nota 27; 251, UE Feltrinelli).
176
L’intimità e la storia
impreca il solo romanzo mai scritto dall’interno della classe degli eredi, è lo spegnersi d’una lunga tradizione e perciò simbolicamente della stessa memoria, in un’intimità che
senza più possederne coscienza subisca la storia giorno per giorno.
Indice dei passi citati
La prima colonna di cifre si riferisce alle pagine del romanzo nella « Universale Economica» Feltrinelli, la seconda nel volume dei «Meridiani» Mondadori; la
terza colonna, alle pagine del presente libro in cui cade la citazione (se in nota, la cifra è in corsivo).
22-23 22 "23
23-24 24-25 25
180
UEE
Indice dei passi citati MM
Indice dei passi citati UEE
MM
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Indice dei passi citati MM
MM 100 100-2 IOI IOI IOI IOI-2 102 102 102 102 102 102 102 102-3 103 103 103-4 104 104 104 105 105 106 106
107-8 108 108 108-10
109 109 109 109 109 IIO IIO IIO III III-I12 III TO 1I2-14 tiz 114 II4 115 115 IIS IIS 116 ir) 7 117
Indice dei passi citati UEE
MM
UER
MM
II14-15 115 TIS 115 115-16 116
118 118-19 118 118
130 130-3I 130 13I 13I 132 132 132 132 132
132-33 133-34 133 134 134-35 135 135 135 135
132-33 133 133 133 133
136-37
116 116 116
117 117 117 ria) 10819] 117 xy 118 118 118 118 118 118 118 118 118
118-25 119 119 119-20 120 T2E 12I 12I 122 122 123 123 123 124 124 125 125 125 125 126 126 126 126 126 129 129 130
119 119 120 120 120 121 12I 121 121 xo 12I 12I 122 122 122 T22 122 122 122 122 122 122-3I 123 123 123-24 124 125 125 126 126-27 127
133
133 133 134 134-35
134-36
135
135 135
135 135 135
136 136 136
136-37
137-39 137 137
128 128-29 128-29
138 138 138 138
129 130 130 130 130 13I 13I 13I 13I 13I 13I 132 132 133
140 I4I 142 142 142 143 143 143 144 144 144 144-45 145 145
136 136 136
136 136
137 137 137
137-38 138-39 138-40
139 139 139 139
139 139
140 140 I4I 140-4I
141-44
141-42 142 142 142 142-43 143 145
146-47 147 147
148 148 148 148
149-50 149 150 150 I50-5I I50-51
184
Indice dei passi citati
WE
MM
UEF
MM
145 145
ISI
163 163 163 163 163 163-64 164 164
172 172
145-46
145 145-47 146 146 146
147-48 148 148
148-49 148
149
149-50
150-5I ISI ISI I51-52 152 152 152 152 152
153 153 153-54 .154-55 154
154-55
154-58 156 156 156 156 158 158 158 158 159-61 159 159 159 160 161 161 161 I6I
162 162 163
163
I5I I51-52 I5I
151-53 152-53 153 153 153-54 154 154
155 155 155
156-57 157-58 157-58 158
158-59
159 159 159 159
160 160-61 I6I 161 162-63 162 162 162-66 164 164 164 164 166 166 166 166-67 167-69 167 167 168 168 169 169
169 170 171 171 172 172
164 164 164 164
165 165-66 165 165 165 165 166 166 166 167 167 167 167 167 168 168 168 168 168 168 168 168 168 171 îy2 173
173
173 174 174-75
175-76 175 176
177 179 179 179 179
180
180
E72 172 172
172-73 173 173 173 173
174 174 174 175 174-75 175 175 175
176 176
176 176 176
177
177 177
177-78
177
177-78
177
177
178
178 178
177-78 179-80
180 181
181 181 182 182-84 183-85 184 184-85
185-86 188-89 189 189 189
189 189
Indice dei passi citati UEF
MM
180 181 18I 181-82 186-87 187 187 I9I I9I
190 I90-9I I9I 191 196-97 198 198 199 199
UEF
MM
99 135 99 162 162 135 T27 46 87
205 206 206-7 206 207 209 209 209 210
215 216 27 217 218 220-2I 221 221 221
50 86 90 76 89 89 74 61 145
I19I-92
199-200
145
ZIO-I1
222
73
192 192
200 200
89 145
2IO-II 210
222 222
192 193 193
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68 149
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100
211 2II DI
74 66 104
222
67
193-94
202
46
215
215-16 215
223
223-24 223
34
133 145
215 215-16
223 223-24
74 72
85 150
216 216 216 216 216 216 216 217 217 217
224 224 224 224 224-25. 225 225 225 225 225
144 78 79 80 113 114 81 126 5I 114
217 217 217 218 218
225 225 225 226 226
127 TS: 107 133 80
218 218
226 226
79 129
218 218 218 218-19 219
226 227 227 227 227
13I 79 150 ISI 79
219
227
89
219 219 219 219 219
228 228 228 228 228
166 80 80 81 129
219-20
228
105
220 220 220
228 229 229
80 60 81
194 194
202 202
89 145
194 194-95
202 203
195 196-97
203 205-6 206 206 206 207 208 208 208 208
197 197 197 198 199 199 199 199 199 208-9 199-200 209-I0 200 208 200 209 200 209 200 209 200 209 200 210 200-I 210 201I-2 2I0-II 20I 2II 202 2II 202 212 202-3 212 202-3 212-13 203 213 203-7 213-18 204 214 214 204 TROEO; 204
205 205
215 215
zi
49 61 54 68 59 95 50 61 68 9I 78 114 115 LET 134 88 57 77 61 95 95 104 78 78 13I 133 150 48
169 78
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78 69
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Indice dei passi citati
UEF
MM
UE
220 220 220 220 220 220 220-21 221 221 221 221 221 221 221 222 222 222. 222 222 222 223 223 223-24 223-24 223 223 223
229 229 229 229
225 225
223 223 223 223 223-24 224 224 224 224 224 224-25 224 224 224 224 225 225
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229 229-30 230 230
225 225 225 225
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230 230
231-32 232
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233 233-34 234 234 234-35 235 235 235 235-37
230 231 231-32 231 231-32 232 232-33 232 232 233 232-33 232 232 232 233 233 233 233 233 233 233 233 233 234 234-35 234 234 234 234 234 234
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241-43 241-43 241 242 242 243-44 243-44 244-45 245 245-47 245
245-46 246
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Indice dei nomi
e
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Adorno, Alicata, Andrea Aragon,
Th. W., 158. M., 89. del Sarto, 106. L., 14, 16, 40, 157.
Aristotele, 113, 154. Auerbach, E., 62, 156. Balzac, H. de, 15, 16, 32, 65, 110,156. Bassani, G., 87.
Baudelaire, Ch., 59, 65.
Conrad, J., 10. Constant, B., 32, 109. Contini, G., 17, 18, 33, 124, 147. Crispi, F., 80. Grocey Bi, 17, 118, 1ro, 20. Dante, 6, 30, 33, 109. Da Verona, G., r4r. D'Azeglio, M., 65. De Cesare, R., 148.
Benincasa, R., ror. Benjamin, W., rIr.
Defoe, D., 32.
Berardinelli, A., 85. Bertone, M., 14, 157. Blasucci, L., 19, 27, 159. Boileau-Despréaux, N., 154. Bramanti, V., 99. Braudel, F., 159. Breton, A., 139. Brombert, V., 29.
De Roberto, F., 14, 15, 18-19, 23, 24,
Brunschvicg, L., 140. Byron, G., 32.
Calderén de la Barca, P., 30.
Caligola, 166. Calvino, G., 152. Canti, C., 65. Caputo, R., 19. Catcano, G., 65.
Cardona, C., 110, 156. Carini; E., 130.
Carlo d'Angiò, 134. Cases; C., 756. Cavour, C. Benso di, 172. Céline, L.-F. Destouchès detto, 24.
De Mauro, T., 4r.
36, 125.
Di Benedetto, A., 65. Dickens, Ch., 32, 45, 148. Diderot, D., 32. Dipace, A., 87, 107. Dostoevskij, F., 33, 10. Dreyfus, A., 29, 35. Eco, U., 140-4I.
Eizenstein, S. M., 89. Engels, F., 15, 158. Euripide, r66.
Falqui, E., 154. Ferdinando II, 12, 59, 96, 100, 103, 106, 167-68.
Fielding, H., 32. Fiorentino, F., 88-89. Flaubert, G., 32, 117. Forster, E. M., 20-21. Fortini, F., 16, 156-57.
Cervantes, M. de, 30, 63, 165, 167.
France, A., 35, 36, 100.
Chateaubriand, F.-R. de; 21, 24, 32, 136. i
Francesco II, 168.
Chénier, A., 152. Cleopatra, 140.
Franchetti, L., 23, 160-61.
Freud, S., 5, 6, 7, 13, 15, 30, 45, 60, 75, 89,104, III,I22,139,155,173,174.
190
Indice dei nomi
Gadda, C. E., 11. Garcfa Marquez, G., 10. Garibaldi, G., 52, 67, 90, 113, 117, 142, 144, 146, 151, 157, 166.
Genette, G., 38. Ghislanzoni, A., 155. Gilbert, J., 88.
Gilmour, D., 9, 14, 23. Goethe,J.W. von, 31, 32, 62, III. Gonéarov, I., 62. Gramsci, A., 29.
Greuze, J.-B., 78, 104. Grossi, T., 65.
Guerrazzi, F. D., 65.
Heidegger, M., 67. Hugo, V., 84, 89.
James, H., 17, 39.
Joyce,J., 17, 33, 39, 63, 113, 154. Kafka, F., 33. Laclos, P.-A.-F. Choderlos de, 10. La Fauci, N., 14, 109, 132, 142, 157. La Fayette, Mme de, 109. Lansing, R. H., 154. Lanza Tomasi, G., 9, 12, 20, 21, 87,
113,117, 124, 147,174.
Laxness, H., 84.
Leopardi, G., 76. Lombardo, M., 124. Lukéacs, G., 84, 167. Luperini, R., 105, 113, 156-58, 175. Macchia, G., 28.
Malraux, A., 33. Mann, Th., 33. Manzoni, A., 84. Margoni, I., 16, 40. Marx, K., 15, 22, 119, 125, 158.
Matte Blanco, I., 6, rr1, 122.
Nabokov, VI., 10. Napoleone, 32, 60, 125, 147, 149-50. Omero, 29, 30.
Orlando, F., 3, 4, 7, 22, 30, 34, 40, 41, 7I, 80, 91,93, 97, 109, LIO, F24,
127, 135, 138, 150, 153, 155, 159,
174. Ossian, 10.
Paduano, G., 30. Pallavicino Trivulzio, G. G., 85, 145. Paolo V, papa, ror. Pascal, B., 140, 152. Pasternak, B., 10, 167. Piccoli, R., 31. Piccolo, L., 12. Pirandello, L., 18-19, 23, 24, 36, 125. Pizzuto, A., 124. Poe, E. A., ro. Polo, N., 39. Prévost, J., 39, r1o. Proust, M., 3-5, 6,13, 17, 21, 22, 33, 39,
63, 78-79, 109, I4I, 147, 154, 158.
Pugliatti, P., 38-40. Raboni, G., 78-79.
Racine, J., 10, 166. Ragusa, O., 40, 114.
Rameau, J.-Ph., 32. Recupero, A., 43, 142, 152, 161, 162.
Reichel, E., 159. Renda, F., 14, 44, 121, 151, 157, 164. Romeo, R., 94, 151, 160. Rosini, G., 65. Rossini, G., 8.
Rotolo, O., 163-64.
Rousseau, J.-J., 32. Rousset, J., or.
Ruggero II, r20. Russo, L., r9.
Saccone, E., 67.
Mazzini, G., 152. Mérimée, P., 80.
Sade, D.-A.-F. de, 138, 139.
Meyers, J., 102, 149, 173. Milton, J., 30, 152. Mirabeau, A.-B.-L. Riquetti de, 132. Molière, J.-B. Poquelin detto, 31, 32.
Saint-Simon, L. de Rouvroy de, 9, 10. Salgari, E., r4r. Salvestroni, S., 154. Samonà, G. P., 8, 14, 21, 23, 28, 34,
Montale, E., 12, 17, 28, 154, 157. Montesquieu, Ch.-L. de Secondat de, Q2.6r2m) Moravia, A., 16, 168. Musil, R., 33.
Sainte-Beuve, Ch.-A. de, 3-5, 6, 13.
65,71, 79,81, 89, 99, 116, 117, 127, 132, 157, 158, 159, 165, 168, 173,
175. Sartre, J.-P., 33.
Saussure, F. de, 4r.
Indice dei nomi Schnitzler, A., 82. Sciascia, L., 28, 158. Scott, W., 84-85, 167.
Servello, A., 173. Shakespeare, W., 30-31, 32, 62, 63, 109, IIO, 152. Sofocle, 29. Spinazzola, V., 28, 138, 147. Spitzer ile o gAnc Squillacioti, P., 28. Stalin, I. V., 24. Starobinski, J., 5. Stendhal, H. Beyle detto, 4, 10, 11, 22,
32, 39, 40, 89, I10, 147-49, 156.
Steuart, J., 158.
19I
Trotzky, L., 71. Umberto I, 71.
Vega Carpio, Lope F. de, 153. Verdi, G., 93, 155-56. Verga, G., 18-19, 23, 24, 35-36, 105,
TIONIZZI Vigny, A. de, 89. Vitello, A., 9, 13, 14, 18, 23, 25, 87, 150. Vittorini, E., 25.
Vittorio Emanuele II, 114. Voltaire, F.-M. Arouet detto, 32, 100, IOI,148.
Svevo, I., 11, 33.
Swift Jona:
Wagner, R., 34.
Woolf, V., 17, 33, 39, 63, 113, 154. Taine; H., 5. Tasso, T., 30. Todorov, T., 40. Tolstoj, L., 21, 33, 81-82, 110. Tomasi di Lampedusa Wolff, A., 20, II1O, 156.
Yourcenar, M., 22, 84.
Zago, N., 28, 157. Zatto iS 25: Zola, E., 18, 138.
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Premessa. $ 1, pp. 3-5: perché non mi avvantaggia aver conosciuto l’autore. $ 2, pp. 6- 8: sull’ interpretazione dei testi, uno alla volta. $ 3, pp. 8tz: Lampedusa fuori posto nella tradizione letteraria italiana. $ 4, pp. 1319: i pregiudizi biografistico, immobilistico, ideologico, sperimentalista, regionalista. $ 5, pp. 19-25: il solo romanzo europeo scritto dall’interno dell’aristocrazia.
I. Don Fabrizio: un colosso non invulnerabile. $ 1, pp. 27-29: Don Fabrizio, rappresentante dell’autorità e intellettuale. $ 2, pp. 29-36: una rassegna di protagonisti intellettuali, figli per lo più e non padri. $ 3, pp. 3641: forme del «punto di vista» narrativo, analisi per frantumazione tematica. $ 4, pp. 41-50: la corporatura di Don Fabrizio, risparmio umoristico e iperbole permanente. $ 5» PP. 51-63: automatismo di effetti prodotti, divario tra fama e fatti, risorse e ostacoli interiori di un personaggio impensabile nell’Ottocento. $ 6, pp. 64-74: sue esigenze razionali, suoi
momenti di appagamento. $ 7, pp. 74-82: la morte come strazio o come usura, animale o umana, altrui o propria. i. Sicilia: una singolare periferia tra le periferie. $ 1, pp. 83-93: in un sottogenere di romanzo storico, gli sfondi di vita aristocratica, e un cane. $ 2, pp. 93-107: Sicilia come incultura, religione sclerotica, trasformazioni siciliane, Sicilia come sporcizia, come disordine. $ 3, pp. 108-23: paesaggio con variazioni, paesaggio antropomorfico attivo e passivo, Sicilia e storia, una periferia che sta per tutte le altre. $ 4, pp. 123-28: l'Europa assente, l’uso dei diminutivi, un figlio andato via.
mm. 1860:una singolare fine d'antico regime. $ 1, pp. 129-41: Tancredi figlio elettivo, delegato all’azione, impenetrabile, visitatore di luoghi decaduti. $ 2, pp. 141-59: la sua frase come suspense narrativa e come equivoco, il 1860 come rivoluzione mancata, i due rimpianti e le loro reticenze, lo storicismo delle catastrofi. $ 3, pp. 159-76: lotta di classe e legami personali, ragione e torto del legittimismo, Concetta sacrificata, fine della tradizione e della memoria.
Stampato da Elemond s.p.a., Editori Associati presso lo Stabilimento di Martellago, Venezia C.L. 14828 Ristampa To
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. Maria Pia Alberzoni, Attilio Bartoli Langeli, Giovanna Casagrande, Klaus Kriger, Enrico Menestò, Grado Giovanni Merlo, Giovanni Miccoli, Luigi Pellegrini, Gian Luca Potestà, Emanuela Prinzivalli, Antonio Rigon, Roberto Rusconi, Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana. . Jan Assmann, La memoria culturale. . Gherardo Ortalli, Lupi genti culture. . Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di S. S. Nigro. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo. Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. David Deutsch, La trarza della realtà. . Jacques Derrida, Margini, a cura di Manlio Tofrida. . Antonio Gramsci, Pensare la democrazia, a cura di Marcello Montanari. 0O Nn +‘ Aa DU 004 . Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, edizione italiana a cura di Nicolao Merker. TL, Carmine Ampolo, Storie greche. T2. Umberto Eco, Serziotica e filosofia del linguaggio. m97 Pierre Toubert, Da/la terra ai castelli, a cura di Giuseppe Sergi. 14. Alberto Asor Rosa, Genus italicum. I5. Walter Benjamin, Su/ concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti. 16. Gérard Genette, Palinsesti. 17; Giovanni Macchia, Tutti gli scritti su Proust. 18. Jean-Jacques Nattiez, Wagrer androgino. 19. Marc Bloch, Storici e storia, a cura di Etienne Bloch. 20. Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura brasiliana. DI Robert Alexy, Concetto e validità del diritto. 29% Pieter de Meijer, Achille Tartaro, Alberto Asor Rosa, La narrativa italiana dalle Origini ai giorni nostri, a cura di Alberto Asor Rosa. DEY Jacques Bouveresse, Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. 24. Paul de Man, A/legorie della lettura. 25. Jules-Henri Poincaré, Scienza e metodo. 26. Geografia politica delle regioni italiane, a cura di Pasquale Coppola. (e
Luni
27 . Amotz e Avishag Zahavi, I/ principio dell’ handicap. 28 . John Bossy, Dalla comunità all'individuo . 29 . Leo Strauss, Gerusalemme e Atene. 30 . Jacob Burckhardt, Su//o studio della Storia, a cura di Maurizio Ghe-
lardi. 3I. Carlo Ginzburg, Storia notturna. 325 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, a cura di Amedeo G. Conte. 33: Marc Bloch, Apologia della storia, a cara di Étienne Bloch. 34. Corrado Bologna, La macchina del «Furioso». . Georges Canguilhem, I/ rorzale e il patologico.
. Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici, a cura di Michele . . . . .
Cometa. Franco Venturi, Settecento riformatore, I. Da Muratori a Beccaria. Pierre Hadot, Che cos'è la filosofia antica? Michel Foucault, Nascita della clinica. Baldesar Castiglione, I/ libro del Cortegiano, a cura di Walter Barberis. Francesco Orlando, L’intimità e la storia.
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Questo libro è una lettura attenta del Gattopardo. E anche un libro su parecchie altre cose. Sul rapporto non omogeneo fra un’opera e il suo autore. Sulle contraddizioni di cui si nutre un grande personaggio, e le duplicazioni in cui si rispecchia. Su universalità e individualità, esagerazione e reticenza in letteratura. Su sperimentazione e durata. Su critica di sinistra e verità. Sulla storia che non è solo storia di progresso. Sulla Sicilia come tipo di tutte le periferie. Sull’invisibile onnipresente coerenza interna d’un capolavoro. Su quarant’anni d’ipocrisie della critica italiana. Sommario:
Premessa. — I. Don Fabrizio : un colosso non invulnerabile. — n. Sicilia : una singolare periferia tra le periferie. - mi. 1860: una singolare fine d’antico regime. - Indice dei passi citati. - Indice dei nomi. - Sommario. Francesco Orlando, nato a Palermo nel 1934, è professore di Lingua e letteratura francese all’Università di Pisa, dove insegna anche Teoria della letteratura. Fra i suoi libri: Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici (1966), Le costanti e le varianti. Studi di letteratura francese e di teatro musicale (1983), Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse (1996), L'altro che è in noi. Arte e nazionalità (1996). Pubblicate da Einaudi le sue due opere maggiori: Gt oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (1994°); e il ciclo in tre volumi: Due letture freudiane. Fedra e il Misantropo (1990°); Per una teoria freudiana della letteratura (1992’); Illuminismo, barocco e retorica freudiana (1997).
ISBN 88-06-14828-1
Lire 24000
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